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Bimestrale - My Way Media Srl
monografie
itinerari tra mito e storia
€ 6,90 N°3-2013
roma
CAMPIDOGLIO • FORO ROMANO • PALATINO VALLE DEL COLOSSEO • FORI IMPERIALI
roma
GUIDA ALL’AREA ARCHEOLOGICA CENTRALE
«C
apitolium, quod erat caput mundi, ubi consules et senatores morabantur ad gubernandum orbem», « Il Campidoglio era il capo del mondo, dove i consoli e i senatori attendevano al governo della terra». Descriveva cosí, nel XII secolo, l’autore dei Mirabilia Urbis Romae (la prima «guida turistica» alla Città Eterna), quel colle che, allora, doveva presentarsi abbandonato, se non per le greggi che vi pascolavano. Ma la sua fama era rimasta viva, similmente a quella degli altri siti che si possono scorgere dalla sua sommità: il Palatino, il Foro Romano, i Fori Imperiali, il Colosseo. Per secoli questi luoghi hanno continuato a rappresentare il centro del mondo, della «civiltà». Modelli architettonici e ideali, ispireranno un’infinità di «copie», ma nessuna potrà contendere a questi archetipi eterni la loro unicità. La visita del centro monumentale di Roma antica, oggi forse piú che nel Medioevo, è complessa, resa ancora piú ardua dagli interventi d’età moderna. Cosí, la bianca mole del Vittoriano – simile a un anacronistico e smisurato altare ellenistico – volta le spalle al gioiello rappresentato dalla sistemazione michelangiolesca di piazza del Campidoglio, ai cui piedi possiamo scorgere, nascosti tra il verde di un piccolo belvedere, gli enormi blocchi in tufo appartenuti a un santuario di età repubblicana. E anche la grande strada moderna che costeggia, tagliandoli, i Fori Imperiali in direzione del Colosseo, offre a sua volta una visione incongrua, «di spalle», della vasta area di ruderi che compongono il Foro Romano. La straordinaria, intricata complessità dell’antico centro di Roma è, però, anche uno dei motivi della sua grande bellezza. Perciò non dobbiamo pretendere di essere in grado, a prima vista, di «leggere», comprendendolo, il vasto racconto racchiuso nelle sue rovine: è l’intera storia del mondo antico che vi si specchia, e la vicenda millenaria di un villaggio che diventa capitale di un impero. L’approccio alla conoscenza di questi luoghi deve avvenire gradualmente: iniziando con una passeggiata, a partire dal Campidoglio o, anche, dalla cima del Palatino. Per realizzare questa monografia abbiamo chiesto la collaborazione di Filippo Coarelli, uno dei piú autorevoli e profondi conoscitori della realtà topografica di Roma antica (è autore di una guida di Roma archeologica periodicamente aggiornata e di numerose pubblicazioni monografiche; l’ultima, in ordine di tempo, è dedicata proprio al Palatino: Palatium, Edizioni Quasar, Roma 2013). Siamo convinti che il suo sguardo, in grado di riunire e interpretare gli infiniti dati emersi dagli scavi archeologici, anche recentissimi, ci permetta l’accesso a percorsi e conoscenze che, altrimenti, potremmo solo intuire…
Andreas M. Steiner
da villaggio a di Filippo Coarelli
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metropoli
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L’
importanza della collocazione geografica di Roma, all’incrocio tra le vie di terra e la via fluviale costituita dal Tevere che collegavano la costa tirrenica con l’entroterra sabino ed etrusco, è evidente, e non era sfuggita agli autori antichi. L’occupazione del sito risale alla piú remota antichità, come hanno provato recenti rinvenimenti sul Palatino, datati al Paleolitico. Tuttavia, i fenomeni che, dopo un lungo processo di maturazione, porteranno alla nascita della città si producono a partire dall’età del Bronzo Finale e dall’inizio dell’età del Ferro. Si discute se tale processo sia da interpretare come una sorta di sinecismo tra i numerosi villaggi che allora occupavano praticamente tutte le sommità dei famosi colli, oppure come il prevalere progressivo di un singolo centro abitato, identificabile, in questo caso, con quello del Palatino. Una prima fase di integrazione sembra comunque collocabile nei decenni centrali dell’VIII secolo, anche se la coincidenza con la data convenzionale del 754-753 a.C., stabilita dallo scrittore Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), è solo apparente, perché in realtà esistevano tradizioni diverse, che oscillavano fra la fine del IX e la fine dell’VIII secolo. È comunque importante sottolineare che tale data coincide con l’inizio della colonizzazione greca d’Occidente, e cioè con la fondazione di Cuma, intorno alla metà dell’VIII secolo a.C.: è questa la data della prima apparizione di ceramica greca nel Foro Boario. L’introduzione dell’alfabeto greco seguirà alcuni decenni piú tardi.
La città prende forma Un secondo momento cruciale coincide con il VI secolo a.C., quando compaiono e si sviluppano, in coincidenza con il periodo dei Tarquini e di Servio Tullio, strutture edilizie che attestano il definitivo consolidamento di una compagine urbana: la cinta muraria, la piazza pubblica (il Foro), l’emporio portuale (il Foro Boario) e inoltre numerosi templi, tra i quali spicca quello di Giove Capitolino, il piú grande edificio tuscanico conosciuto. Le notevoli dimensioni dell’abitato arcaico, che superano i 426 ettari, e il numero degli edifici di culto testimoniano l’importanza della città fin dall’inizio della sua storia, certamente non inferiore a quella dei grandi centri contemporanei dell’Etruria meridionale. Anche nei decenni successivi al 509 a.C, tradizionale data di inizio della repubblica, l’attività edilizia non conoscerà alcuna flessione; vediamo allora apparire alcuni dei piú importanti edifici di culto della città: quelli dei Castori e di Saturno nel Foro, di Cerere e di Mercurio ai piedi dell’Aventino (questi ultimi collegati con l’emporio fluviale). Una crisi si riscontra invece a partire dalla seconda metà del V secolo, in coincidenza con la fase piú acuta delle lotte tra patrizi e plebei e con la perdita dei territori del Lazio meridionale, conseguenza dell’emergere di popolazioni provenienti dall’interno appenninico, i Volsci e gli Equi. Solo verso la fine del periodo si nota una inversione di tendenza, con la fondazione del tempio di Apollo nel Campo Marzio.
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Nelle pagine precedenti veduta del Foro Romano dalla sommità del Palatino.
L’inizio del IV secolo coincide con una ripresa, collegata con la conquista e la distruzione di Veio – la città etrusca piú vicina –, che si traduce nel raddoppiamento del territorio della città: ripresa solo per breve tempo interrotta dalla conquista di Roma da parte di bande di Galli nel 390. I secoli IV e III, quelli della conquista progressiva di tutta l’Italia peninsulare, e poi delle guerre contro Cartagine, appaiono caratterizzati da un’intensa attività edilizia: l’impresa piú imponente è la ricostruzione integrale, con criteri piú attuali, dell’intera cinta di mura a partire dal 378; contemporaneamente si susseguono le fondazioni di templi, perlopiú di carattere votivo, in rapporto con i trionfi che suggellano i ripetuti successi militari: il complesso di largo di Torre Argentina, con i suoi quattro templi, scaglionati tra l’inizio del III e la fine del II secolo a.C. ci restituisce ancora oggi un’idea di questa intensissima attività
In basso la Lupa Capitolina. Roma, Musei Capitolini. La celebre scultura bronzea viene trasferita dal Laterano in Campidoglio nel 1471, grazie alla donazione di Sisto IV. Nel Cinquecento vengono aggiunti i due gemelli, che trasformano l’antico simbolo dell’autorità giudiziaria lateranense in quello della città di Roma. Recenti analisi al radiocarbonio pongono l’opera – a lungo considerata di produzione etrusca o romana (VI-III sec. a.C.) – in ambito altomedievale.
edilizia. Ma si devono anche ricordare le grandi imprese di carattere «laico», come le nuove strade e gli acquedotti: l’attività del grande censore del 312 a.C., Appio Claudio, costituisce a questo proposito un esempio paradigmatico. Gli ultimi due secoli della repubblica sono decisivi per la creazione dell’assetto urbanistico e architettonico che caratterizzerà a lungo il volto della città. L’enorme accrescimento della popolazione, che farà presto di Roma la piú grande città conosciuta del mondo antico, richiede la costruzione di grandi quartieri popolari, con case d’affitto a piú piani. Parallelamente, si sviluppano le grandi infrastrutture portuali, i magazzini, gli acquedotti, indispensabili per l’approvvigionamento della metropoli. L’emergere di una classe dirigente sempre piú ristretta, che richiede ai suoi membri un’accanita concorrenza politica, si traduce in un’attività edilizia di prestigio, destinata a procurarsi l’appoggio della plebe urbana. Il Foro, il Campidoglio e, soprattutto, il Campo Marzio si vanno coprendo di portici, giardini, templi, edifici per lo spettacolo, che si ispirano alle realizzazioni delle grandi capitali ellenistiche e ricorrono largamente all’opera di architetti, scultori e pittori greci. La parte piú rilevante di tale attività ha per teatro il Campo Marzio, che va progressivamente assumendo un aspetto monumentale. Una serie nutrita di luoghi di culto e di portici circonda l’area del Circo Flaminio, dove si contano ben undici templi: tra questi, i primi realizzati interamente in marmo, a partire da quello di Giove Statore, eretto dopo il 146 a.C. da Q. Metello Macedonico, opera dell’architetto greco Ermodoro di Salamina. Nel corso del I secolo a.C. l’area assume il suo aspetto definitivo, grazie all’intervento di personaggi come Pompeo, Cesare e, infine, Augusto. A Pompeo, in particolare, spetta la realizzazione del primo teatro in muratura della città, che resterà fino alla fine il piú In alto gruppo scultoreo fittile rappresentante Eracle e una dea armata, nella quale si riconosce Afrodite o Atena. Le statue, a due terzi del vero, facevano parte della decorazione architettonica del tempio arcaico dell’Area Sacra di Sant’Omobono. 530 a.C. Roma, Musei Capitolini. A sinistra e nella pagina accanto, in basso placchetta in avorio a forma di leone accovacciato, dall’area Sacra di Sant’Omobono. 540-530 a.C. Roma, Musei Capitolini. Sulla parte posteriore (a sinistra) è graffita una formula onomastica in lingua etrusca.
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esquilino
viminale
quirinale
oppio
palatino celio
campidoglio
aventino
le mura serviane In alto plastico ricostruttivo della città di Roma all’epoca del re Servio Tullio, al quale viene attribuita la realizzazione del primo circuito di mura. Roma, Museo della Civiltà Romana. A destra planimetria della Roma serviana, con l’indicazione dei colli e della cinta muraria.
Mura serviane (IV sec. a.C.)
Quirinale
Campo Marzio
Viminale Cispio Esquilino Suburra
Campidoglio
Foro Romano Isola Tiberina Velabro Trastevere
Fagutale Velia Oppio
Palatino Celio
re ve Te
Aventino
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VII
XIV ix
VI
IV xiV
VIII XI
III
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V
II I XIII XII
nuovi quartieri In alto pianta di Roma in età augustea, con la nuova suddivisione amministrativo-territoriale in quattordici regioni. Queste grandi circoscrizioni erano a loro volta organizzate in vici, i cui nomi indicavano allo stesso tempo i quartieri e la relativa strada principale. I. Porta Capena II. Caelimontium III. Isis et Serapis IV. Templum Pacis V. Esquiliae VI. Alta Semita VII. Via Lata VIII. Forum Romanum IX. Circus Flaminius X. Palatium XI. Circus Maximus XII. Piscina Publica XIII. Aventinus XIV. Transtiberim A sinistra pannello dell’Ara Pacis con personificazione di Tellus (la «terra») Italia. 13 a.C. La figura matronale appare seduta in trono e ornata di diadema, con due infanti (allusione ai gemelli) e primizie in grembo.
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grande di Roma, anzi dell’antichità. Non a caso, la descrizione del geografo Strabone (redatta all’inizio del I secolo d.C.) si concentra sul Campo Marzio, rispetto al quale il resto della città sembra quasi far figura di appendice (5, 38): «La straordinaria grandezza della pianura permette senza impaccio le corse dei carri e ogni altro esercizio ippico e insieme gli esercizi con la palla e con il cerchio e la lotta. Le opere d’arte disposte intorno, il suolo erboso per tutto l’anno e la corona di colline che si avanzano fino alla riva del fiume e offrono un colpo d’occhio scenografico fanno sí che a malincuore se ne distolga lo sguardo. Accanto a questa è un’altra pianura (cioè il Circo Flaminio) e portici disposti in cerchio, boschetti, tre teatri, un anfiteatro, templi sontuosi e vicini gli uni agli altri, cosí che il resto della città sembra quasi un’appendice di questa. Cosí, ritenendo questo luogo il piú sacro di tutti, costr uirono qui monumenti funerari degli uomini e delle donne piú illustri: il piú notevole è quello chiamato Mausoleo, un grande tumulo su un basamento di marmo bianco, situato accanto al fiume, coperto fino alla sommità di alberi sempreverdi: in cima vi è l’immagine bronzea di Cesare Augusto e all’interno del tumulo sono le urne di lui, dei suoi parenti e degli amici piú intimi, mentre dietro si estende un grande recinto alberato con splendidi portici». Parallelamente all’edilizia pubblica si sviluppa quella privata: i casamenti a piú piani destinati alla plebe e le grandi domus dei ricchi, ormai non inferiori anche alle piú lussuose abitazioni ellenistiche, dotate di apparati decorativi sfarzosi – pavimenti marmorei, mosaici, pitture parietali, soffitti dorati – oltre a opere d’arte greca.
Il teatro di Marcello, progettato da Cesare e dedicato da Augusto al nipote Marcello nel 13 a.C. A destra sono visibili le tre colonne corinzie del tempio di Apollo Sosiano.
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Cicerone ci informa che Cesare aveva in animo di rinnovare radicalmente l’aspetto di Roma, tramite un grandioso piano regolatore che prevedeva, tra i vari interventi, la deviazione del Tevere, eliminando le anse del Campo Marzio, cosí unificato con il Vaticano. La morte del dittatore non permise la realizzazione del progetto, anche se in alcune zone vi fu un inizio di attuazione, come nel Foro, con la distruzione del Comizio, la creazione della nuova Curia, della basilica Giulia, dei nuovi Rostri. Infine, la costruzione del nuovo foro di Cesare aprirà la via alla realizzazione dei futuri Fori Imperiali, che avrebbero totalmente modificato, monumentalizzandolo, il centro della città.
La riorganizzazione augustea La politica edilizia di Augusto fu meno radicale e piú conservatrice, pur riallacciandosi al progetto cesariano. Sul piano urbanistico, l’intervento di maggior rilievo fu la divisione della città in quattordici regioni, con un’organizzazione dei quartieri (vici) che rimase in vigore fino alla fine dell’impero e con l’istituzione di servizi direttamente gestiti dallo Stato: il corpo dei vigiles, polizia notturna e insieme pompieri, organizzati in sette caserme (excubitoria), dislocate strategicamente una ogni due regiones; la delimitazione e il controllo del Tevere; la creazione di nuovi acquedotti e il restauro dei vecchi; le prime terme pubbliche, dovute ad Agrippa; la prima biblioteca pubblica (quella dell’Atrium Libertatis). Un nuovo foro, di Augusto, si affianca a quello di Cesare; viene avviata la costruzione di molti nuovi templi e il restauro di ben 82 di quelli già esistenti. La politica urbanistica dei Giulio-Claudii prosegue sostanzialmente il programma iniziato da Augusto, con l’eccezione di Nerone, il quale, dopo il disastroso incendio del 64 d.C., pone le basi per una totale ristrutturazione della città
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Porta Maggiore in un’incisione dell’artista inglese Matthew Dubourg, attivo tra la fine del XVIII e i primi decenni del XIX sec. Il monumento è costituito da due arcate degli acquedotti realizzati dall’imperatore Claudio (Aqua Claudia e Anio Novus), monumentalizzati nel punto in cui solcavano via Labicana e via Prenestina. Divenne una vera porta al momento dell’inclusione nel circuito delle mura Aureliane.
secondo criteri piú moderni, progetto che sarà completato dai Flavi. Ne troviamo un resoconto accurato in Tacito: «Fu ben misurato il tracciato dei quartieri, dove vennero aperte vie larghe, fu limitata l’altezza degli edifici e aperti cortili, e si aggiunsero portici per proteggere la parte anteriore degli isolati (…) Tutti questi provvedimenti, graditi per la loro utilità, portarono anche ornamento e decoro alla nuova città. Vi era tuttavia chi pensava che l’antica disposizione delle vie e delle case a Roma si confacesse meglio alla salubrità, perché l’angustia delle strade e l’altezza degli edifici non lasciavano penetrare il calore del sole» (Annali, 15, 42). La concezione dispotica che è alla base di tale operazione, ispirata al modello delle capitali ellenistiche, appare in pieno nella costruzione di una grande reggia, la Domus Aurea, ispirata certamente al palazzo dei Tolomei ad Alessandria.
Nasce «il piú bel monumento di Roma» L’opera dei primi due imperatori della dinastia flavia, Vespasiano e Tito, oltre che nella ricostruzione della città, che portava a conclusione il progetto neroniano della nova urbs, si esplicò anche nella eliminazione della Domus Aurea, la cui enorme superficie venne restituita al godimento pubblico: edificio simbolico dell’operazione è l’Anfiteatro Flavio, che sorse nell’area in precedenza occupata dallo stagno dei giardini neroniani. Gran parte delle opere d’arte greche, trasferite da Nerone nella sua dimora, vennero esposte nella nuova, grande piazza monumentale realizzata da Vespasiano con il bottino di Gerusalemme, il templum Pacis, che, secondo Plinio, era il monumento piú bello allora esistente a Roma. Il terzo imperatore della dinastia, Domiziano, è forse l’imperatore piú prolifico nel campo dell’attività edilizia. Egli dovette, tra l’altro, porre riparo a nuovi incendi, il piú grave dei quali, avvenuto sotto Tito, nell’80, aveva raso al suolo il Campo Marzio, il Campidoglio e altre zone intermedie. Oltre alla ricostruzione delle aree distrutte, si debbono a lui un nuovo foro, il Transitorio (poi dedicato a Nerva) e l’inizio dei lavori per un altro, che sarà poi terminato da Traiano, il tempio dedicato a Vespasiano e il santuario collettivo della gens Flavia, sul Quirinale, l’Odeon e lo Stadio del Campo Marzio; ma soprattutto, il palazzo dinastico del Palatino, concepito in modo cosí grandioso che, con qualche restauro e aggiunta, resterà per sempre la sede ufficiale degli imperatori. Il II secolo d.C., da Traiano ai Severi, coincide con la massima espansione demografica, con una popolazione che sorpassò certamente il milione di abitanti, cifra del tutto eccezionale per una città antica. L’opera di Traiano si segnala soprattutto per la costruzione del piú imponente dei Fori Imperiali, che richiese, per fargli posto, il taglio della sella tra Campidoglio e Quirinale: la sua altezza è indicata nell’iscrizione della grande colonna istoriata, che fu anche la tomba dell’imperatore. All’architetto del complesso si deve anche l’invenzione del modello delle grandi terme imperiali, che prende forma per la prima volta nell’edificio del Colle Oppio, in seguito imitato da Caracalla e da Diocleziano.
Un tratto dell’acquedotto iniziato da Caligola nel 38 e completato da Claudio nel 52 d.C.
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Con Adriano l’attività edilizia urbana tocca forse il punto massimo. Non è un caso se, a partire dal 123 d.C., iniziò l’uso di indicare sui mattoni la data consolare, che risponde alla necessità di un controllo della produzione in vista di un’attività costruttiva particolarmente intensa. Questa risulta da un numero notevole di costruzioni particolarmente imponenti (basti qui ricordare il Pantheon e il tempio di Venere e Roma), ma anche dalla realizzazione di nuovi quartieri residenziali, caratterizzati dalla presenza di grandi casamenti a piú piani: un’idea dell’aspetto di tali quartieri si può avere, oltre che in limitate zone di Roma, nella colonia di Ostia, dove gli scavi ne hanno riportato alla luce esempi ben conservati. L’incendio avvenuto sotto Commodo, nel 191 d.C. distrusse una parte notevole del centro urbano tra il templum Pacis e il Palatino, e altri disastri analoghi si verificarono negli stessi anni in varie parti della città. Ciò richiese una serie di interventi da parte di Settimio Severo, che conosciamo soprattutto dalla documentazione epigrafica: tempio della Pace, horrea Piperataria, tempio di Vespasiano, portico di Ottavia, Pantheon. Opere di notevole importanza sono dovute a Caracalla: le famose terme del Celio e il maestoso tempio di Serapide sul Quirinale, forse il piú grande mai edificato a Roma.
Le mura di Aureliano, segno della crisi militare Il periodo successivo ai Severi appare come un’epoca di ripiegamento e di difficoltà politiche ed economiche, il cui riflesso si manifesta a Roma nella drastica riduzione dell’attività edilizia, dovuta anche alla sistematica assenza degli imperatori dalla città. Ne è una conferma il brusco arresto dell’uso di bollare i mattoni, segno evidente della crisi delle officine, che avrà termine solo con Diocleziano. Fa eccezione il periodo di Aureliano, che vide la costruzione di un grande luogo di culto nel Campo Marzio, il tempio del Sole, destinato a commemorare la vittoria su Palmira. Ancora piú rilevante è la
Veduta delle terme di Caracalla (212-216 d.C.), il piú grandioso e meglio conservato complesso termale di epoca imperiale che sia giunto sino a noi. In primo piano i resti del calidarium.
realizzazione, dopo tanti secoli, di una nuova cinta muraria, lunga quasi 19 km, che però, allo stesso tempo, è un segno evidente della crisi militare dell’impero, che teme addirittura per la sua capitale. La ripresa si avrà con Diocleziano e la tetrarchia: anche in questo caso, fu un incendio (quello avvenuto sotto Carino, nel 283) a rendere necessario un intervento massiccio nell’area del Foro e del foro di Cesare, gravemente danneggiati, che si tradusse in una nuova sistemazione generale delle due piazze. Particolarmente rilevante è la costruzione delle grandi terme, che presero il nome di Diocleziano, anche se l’iniziativa dei lavori, che richiesero quasi otto anni (tra il 298 e il 306), spetta all’imperatore di Occidente, Massimiano. L’edificio, il piú esteso mai costruito, occupava un’area notevole (380 x 370 m), tra Viminale e Quirinale. L’ultimo periodo significativo si ha con Massenzio, il quale, dopo una lunga interruzione, aveva fissato la sua sede nella vecchia capitale, le cui glorie, per motivi politici e propagandistici, era interessato a rinnovare. A lui si devono la ricostruzione integrale del tempio di Venere e Roma, gravemente danneggiato da un incendio nel 307 d.C., e soprattutto la realizzazione contemporanea della vicina basilica di Massenzio, l’edificio destinato all’attività giudiziaria, gestita dalla vicina Prefettura urbana. Gli interventi di Costantino riguardano soprattutto l’edilizia cristiana; per il resto, l’imperatore si arrogò la titolarità di edifici dovuti a Massenzio, come nel caso della basilica, e forse anche delle terme di Costantino, sul Quirinale. Il successivo trasferimento della capitale a Costantinopoli si tradusse in una drastica riduzione delle attività urbane, se si escludono quelle legate alla nuova religione che ormai, con una breve parentesi, corrispondente alla reazione pagana della seconda metà del IV secolo, monopolizzerà la scena della città nei secoli successivi.
capitolo
alba e tramonto... VIII-V secolo a.C.
IV secolo a.C
III secolo a.C
II secolo a.C.
I secolo a.C.
753 a.C. Fondazione di Roma
390 Sacco di Roma
298-290 Terza guerra sannitica
200-196 Seconda guerra macedonica
91-89 Guerra sociale
753-509 Monarchia
343-341 Prima guerra sannitica
291 Fondazione della colonia di Venosa
192-189 Guerra siriaca
340-338 Guerra latina e scioglimento della Lega latina
283 Fondazione della colonia di Senigallia
338 circa Fondazione della colonia di Ostia
268 Fondazione delle colonie di Rimini e Benevento
509 Nascita della repubblica 494 circa Battaglia del lago Regillo tra Romani e Latini 449-448 Guerra contro Equi, Volsci e Sabini 406-396 Conquista di Veio
282-272 Guerra tarantina
264-241 Prima guerra punica 329 Fondazione della colonia di Terracina 326-304 Seconda guerra sannitica 306 Trattato romanocartaginese. L’Italia è attribuita a Roma, la Sicilia a Cartagine
241-227 Istituzione delle prime province di Sicilia e Sardegna-Corsica 225-222 Sottomissione dei Galli Boi e Insubri; battaglie di Talamone e Casteggio 218-201 Seconda guerra punica 218 Fondazione delle colonie di Piacenza e Cremona 215-205 Prima guerra macedonica
189 Fondazione della colonia di Bologna 183 Fondazione delle colonie di Parma e Modena
90-89 Concessione della cittadinanza romana ai Latini e agli alleati rimasti fedeli 83-82 Guerra civile 60 Primo triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso
181 Fondazione della colonia di Aquileia
58-51 Cesare conquista la Gallia
177 Fondazione della colonia di Luni
48 Dittatura di Cesare; Battaglia di Farsalo
172-167 Terza guerra macedonica
44 Morte di Cesare
149-146 Terza guerra punica: distruzione di Cartagine e nascita della provincia romana «Africa»
43 Secondo triumvirato di Ottaviano, Antonio, Lepido; scontro di Modena 42 Battaglia di Filippi
147 Istituzione della provincia di Macedonia
41-40 Guerra di Perugia
133 e 123-121 I Gracchi tentano la riforma agraria
31 Vittoria di Ottaviano su Antonio ad Azio
120 Conquista della Gallia Narbonese che diviene provincia romana
27 Ottaviano riceve il titolo di Augusto 16-15 Norico e Rezia diventano province
102 Mario sconfigge i Teutoni e, l’anno successivo, i Cimbri
A sinistra la replica della Lupa Capitolina collocata in piazza del Campidoglio. A destra una veduta del Foro Romano.
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...di un impero millenario I secolo d.C.
II e III secolo d.C.
IV secolo d.C.
V secolo d.C.
14 d.C. Morte di Augusto
117-138 Adriano è imperatore
306-307 Terza tetrarchia
408-450 Teodosio Il è imperatore d’Oriente
14-37 Tiberio è imperatore 37-41 Caligola è imperatore 41-54 Claudio è imperatore
306-337 Costantino è imperatore 138-192 Dinastia degli Antonini 192-193 Pertinace è imperatore
54-68 Nerone è imperatore
308-311 Quarta tetrarchia 313 Editto di Tolleranza
193 Didio Giuliano è imperatore
337 L’impero è diviso tra Costante (337-350), Costanzo Il (337-361) e Costantino Il (337-340)
193-235 Dinastia dei Severi
360-363 Giuliano l’Apostata è imperatore
235-284 Anarchia militare; sono eletti diversi imperatori
363-364 Gioviano è imperatore
69-79 Vespasiano è imperatore 79 Eruzione del Vesuvio e distruzione di Pompei
284-305 Diocleziano è imperatore
79-81 Tito è imperatore
293-305 Prima tetrarchia (Diocleziano, Galerio Massimiano, Costanzo Cloro)
68 Galba è imperatore 69 Nello stesso anno sono proclamati imperatori Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano
364-392 Dinasta valentiniana
81-96 Domiziano è imperatore 90 Istituzione delle province di Germania Inferior e Germania Superior 96-98 Nerva è imperatore 98-117 Traiano è imperatore
305-306 Seconda tetrarchia
379-395 Teodosio I è imperatore 395 Morte di Teodosio e divisione dell’impero romano
410 I Goti di Alarico saccheggiano Roma 452 Papa Leone Magno arresta la marcia di Attila su Roma 455 I Vandali di Genserico saccheggiano Roma 476 Deposizione di Romolo Augustolo ad opera di Odoacre. Fine dell’impero romano d’Occidente
22
42 Foro romano 42.
22.
campidoglio
itinerari
di Stefania Berlioz
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34. Pendici del Campidoglio 36. Asylum, Capitolium e Arx 38. Dentro il museo: il tempio di Giove Ottimo Massimo 40. Tempio di Veiove e Substructio
di Filippo Coarelli
52. Area nord-ovest del Foro Romano 54. Sepolcreto protostorico 58. Curia e Comizio 62. Basiliche 66. Velia 70.
palatino di Filippo Coarelli
91. I palazzi imperiali
102 116
70 96. La casa di Augusto e il tempio di Apollo 99. L’area del tempio di Cibele
valle del colosseo 102.
di Filippo Coarelli
106. Arco di Costantino 107. Anfiteatro Flavio 110. Prima del Colosseo: la Domus Aurea 113. Terme di Traiano
114. Ludus Magnus 114. Basilica di S. Clemente
fori imperiali 116.
di Stefania Berlioz
136. Foro di Cesare 138. Foro di Augusto 140. Tempio della Pace 142. Foro di Nerva o Transitorio 143. Foro di Traiano
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capitolo fori imperiali
foro romano campidoglio
palatino
passeggiate romane «Roma, 7 novembre 1786. Sono qui già da sette giorni, e a poco a poco si precisa nel mio animo un’idea generale di questa città. (...) Io mi familiarizzo con la topografia dell’antica e della nuova Roma, osservo rovine, edifizi, esploro questa e quest’altra villa. Lentamente m’accosto alle maggiori bellezze e non faccio che aprire gli occhi e guardare, andare e venire, giacché solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma. Ma, confessiamolo, è una dura e contristante fatica quella di scovare pezzetto per pezzetto, nella nuova Roma, l’antica. Eppure bisogna farlo, fidando in una soddisfazione impareggiabile» (J.W. Goethe, Viaggio in Italia). È un po’ con lo spirito di Goethe che intraprendiamo la nostra «passeggiata» nel cuore monumentale di Roma antica. L’itinerario si snoda tra il Campidoglio e il Palatino, attraverso il Foro Romano, per poi toccare la valle del Colosseo e il complesso dei Fori Imperiali. La visita, piú che per tappe isolate, è organizzata lungo percorsi, quanto piú possibile aderenti a quelli antichi. Seguendo questo cammino ci imbatteremo, oltre che in celebri monumenti, in frammenti erratici di strutture perdute: nella maggior parte dei casi passano inosservati, ma, una volta reimmersi nel loro contesto, spaziale e temporale, riprendono vita e iniziano a raccontarci la loro storia…
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Dove e quando Musei Capitolini Ingresso piazza del Campidoglio, 1 Orario ma-do, 9,00-20,00; giorni di chiusura lunedí, 25 dicembre, 1° gennaio, 1° maggio Info tel. 060608; www.museicapitolini.org Foro Romano e Palatino, museo palatino Ingresso largo della Salara Vecchia e via di San Gregorio, 30 Orario tutti i giorni, con i seguenti orari: ultima domenica ott-15 feb, 8,30-16,30; 16 feb-15 mar, 8,30-17,00; 16 mar-ultimo sabato marzo, 8,30-17,30; ultima domenica mar-31 ago, 8,30-19,15; 1-30 set, 8,30-19,00; 1° ottobreultima domenica ott, 8,30-18,30; giorni di chiusura: 1° gennaio, 1° maggio e 25 dicembre Info tel. 06 39967700; http://archeoroma.beniculturali.it
musei capitolini-centrale montemartini Ingresso via Ostiense 106 - 00154 Roma Orario ma-do, 9,00-19,00; giorni di chiusura: lunedí, 25 dicembre, 1° gennaio, 1° maggio Info tel 060608; www.centralemontemartini.org museo della civiltà romana Ingresso piazza G. Agnelli, 10 Orario ma-do, 9,00-14,00; giorni di chiusura: lunedí, 25 Dicembre, 1 Gennaio, 1 Maggio Info tel 060608; www.museociviltaromana.it
Museo Nazionale Romano-Palazzo Massimo Ingresso largo di Villa Peretti Orario tutti i giorni, 9,00-19,45; giorni di chiusura: lunedí, 1° gennaio, 25 dicembre Info tel. 06 39967700; http://archeoroma.beniculturali.it Museo Nazionale Romano-terme di diocleziano Ingresso viale Enrico De Nicola, 79 Orario tutti i giorni, 9,00-19,45; giorni di chiusura: lunedí, 1° gennaio, 25 dicembre Info tel. 06 39967700; http://archeoroma.beniculturali.it
roma in vetrina Il simbolo indica i reperti provenienti dai luoghi descritti e conservati in musei romani.
valle del colosseo
COLOSSEO Ingresso Piazza del Colosseo, 1 Orario tutti i giorni, con i seguenti orari: ultima domenica ott-15 feb, 8,30-16,30; 16 feb-15 mar, 8,30-17,00; 16 mar-ultimo sabato marzo, 8,30-17,30; ultima domenica mar-31 ago, 8,30-19,15; 1-30 set, 8,30-19,00; 1° ottobreultima domenica ott, 8,30-18,30; giorni di chiusura: 1° gennaio, 1° maggio e 25 dicembre Info tel. 06 39967700; http://archeoroma.beniculturali.it FORI IMPERIALI L’area archeologica è liberamente visibile dall’esterno. Mercati di traiano-museo dei fori imperiali Ingresso via IV Novembre, 94 Orario ma-do, 9,00-19,00; giorni di chiusura: lunedí, 25 dicembre, 1° gennaio, 1° maggio Info tel 060608; www.mercatiditraiano.it
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Jacques-Louis David, Le Sabine.1795-1798. Parigi, Museo del Louvre. Il pittore francese ha immaginato il momento in cui le donne, secondo la tradizione, si frapposero tra i loro mariti romani (a destra) e i fratelli sabini (a sinistra), mostrando i propri figli: vedendo nel gruppo anche sua moglie Ersilia, Romolo si trattenne dallo scagliare il suo giavellotto contro il padre di lei, Tito Tazio, re dei Sabini. E, colpiti dal coraggio delle Sabine, i due popoli sospesero le ostilitĂ e giunsero infine alla pace.
IL piĂş sacro dei colli di Stefania Berlioz
il campidoglio
A
guardarlo, spogliandolo per un attimo di tutti i suoi monumenti, il Campidoglio non appare altro che una modesta altura (non supera i 50 m sul livello del mare), una collinetta, a onta dell’appellativo mons, «monte», di cui si fregiava in antico. Furono piuttosto la sua conformazione e la sua collocazione topografica a renderlo particolarmente adatto all’insediamento umano, sin da epoche pre-protostoriche. A caratterizzarne il profilo erano due distinte sommità, denominate in epoca storica del Capitolium (quella meridionale) e dell’Arx (quella settentrionale), collegate da una sella centrale, a cui le fonti antiche si riferivano con il duplice toponimo di inter duos lucos, «tra le due radure circondate da boschi», o di Asylum, in memoria del leggendario spazio consacrato da Romolo al dio Asilo.
Nel coacervo delle tradizioni miticoleggendarie relative ai primordi di Roma, il Campidoglio emerge con un primato assoluto: qui Saturno avrebbe fondato «la prima città» sorta sul suolo di Roma, inaugurando l’età dell’oro. Sulle origini e sulla natura del divino fondatore sappiamo ben poco: l’assimilazione al greco Kronos (figlio di Urano e padre di Zeus, da cui venne esiliato), formalizzata in età augustea, aveva consacrato Saturno a «eroe civilizzatore» venuto da lontano, alla stregua di Eracle, Evandro, Enea, tutte figure che la tradizione collegava con le origini – greche e troiane – di Roma. Ma per alcuni dotti antiquari si trattava di una divinità indigena, per l’esattezza sabina: il nome Saturno veniva fatto derivare dal termine sata, le sementi, e le sue competenze collegate alla sfera dell’agricoltura. Ad attestare l’antichità del
| L’Asilo di Romolo | Racconta Plutarco che dopo aver abbattuto Amulio, usurpatore del trono di Alba Longa ai danni del fratello Numitore, Romolo e Remo decisero di allontanarsi e fondare una nuova città con la banda di fuoriusciti – molti erano schiavi e ribelli – che avevano collaborato con loro all’impresa. Per attirare nuovi coloni e popolare la città decisero di istituire un’area sacra, dedicata al dio Asilo, nella quale fosse garantita accoglienza e protezione: «vi si accoglieva chiunque: il servo non veniva restituito al padrone, il creditore non era consegnato ai creditori, né l’omicida ai magistrati. Proclamarono che l’oracolo di Apollo aveva ingiunto loro di garantire asilo per tutti quanti, in modo che ben presto la città rigurgitò di abitanti, da appena mille che erano i primi focolari» (Plut., Vita di Romolo, 9, 3). Oltre a trasmettere questa tradizione, i Romani preservarono il luogo, pur non avendo certezze su quale fosse esattamente la divinità che presiedeva al sito.
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In basso disegno ricostruttivo della sommità meridionale del Campidoglio (Capitolium) prima e dopo la costruzione del tempio di Giove Capitolino.
| Arx: l’altra cima del Campidoglio | Con il nome Capitolium, le fonti antiche indicavano sia il tempio della Triade Capitolina – e l’altura su cui sorgeva –, sia, per estensione, l’intero colle: l’importanza e il prestigio del culto di Giove avevano finito con l’oscurare, anche a livello toponomastico, l’altra cima del colle, denominata semplicemente Arx, «la rocca». Eppure qui aveva sede uno dei piú importanti luoghi sacri di Roma, risalente a un orizzonte cronologico addirittura anteriore alla fondazione del tempio di Giove: l’Auguraculum, lo spazio destinato all’augurium e all’auspicium, le pratiche rituali destinate a garantire che l’operato umano corrispondesse alla volontà degli dèi. Esse consistevano nell’osservazione, in uno spazio sacralmente delimitato, in cielo e in terra, dall’augure, del volo degli uccelli e di altri segni naturali quali i fulmini. Strettamente collegato a queste funzioni era il culto di Giunone Moneta («ammonitrice»), antichissima divinità protettrice della rocca. Il tempio venne fondato, secondo la tradizione, solo nel 343 a.C., ma il culto era molto piú antico.
A destra bronzetto di augure, dal deposito votivo del lapis Niger. Prima metà del VI sec. a.C. Roma, Antiquarium del Foro.
culto è un altare arcaico (l’Ara Saturni, dedicato secondo la tradizione dai leggendari Pelasgi, profughi dalla Tessaglia), collocato alle pendici orientali del colle. Sulla base di questi elementi risulta difficile, esattamente come doveva esserlo per gli antichi interpretatori, attribuire un preciso significato (per non parlare di una cronologia) alla «memoria» dell’abitato saturnio sul Campidoglio. L’unica cosa che possiamo affermare con certezza è che la tradizione romana era perfettamente consapevole che il sito di Roma era stato abitato molto tempo prima della fondazione romulea, fissata dall’antiquario Marco Terenzio Varrone nel 754-753 a.C.
L’abitato dell’età del Bronzo Sul piano archeologico, l’antichità di occupazione del Campidoglio, già indiziata dai materiali della Media e Tarda età del Bronzo rinvenuti in giacitura secondaria alle pendici del colle, presso l’area sacra di Sant’Omobono, è stata in anni recenti pienamente confermata: durante gli scavi condotti nel «Giardino Romano» di palazzo dei Conservatori sono stati rinvenuti frammenti ceramici che documentano una frequentazione – e molto probabilmente un’occupazione stabile – della sommità meridionale del colle (il Capitolium di epoca storica) già dall’età del Bronzo Medio (XVII-XIV secolo a.C.). L’abitato si sviluppa senza soluzione di continuità nella successiva fase del Bronzo Tardo (XIII-XI a.C.): a questo orizzonte cronologico si riferiscono i primi resti strutturali (un imponente intervento di terrazzamento del
pendio volto in direzione dell’Arce) e la nascita, ai margini dell’abitato, di un’area destinata allo svolgimento di attività artigianali connesse con la lavorazione del bronzo. La presenza di un insediamento stabile su un luogo naturalmente fortificato e posto in posizione dominante rispetto a un territorio e alle sue vie di comunicazione, rispecchia un modello di occupazione ampiamente diffuso nell’Italia centrale tirrenica durante le fasi Media e Recente dell’età del Bronzo, in probabile connessione con l’emergere di forme di conflittualità tra i gruppi umani. Questa ricostruzione, confermata dal quadro delle presenze di altri insediamenti coevi nel territorio circostante, lascia intravedere che l’abitato sul Campidoglio abbia rivestito un ruolo di primo piano nel processo di sviluppo della regione. Una importanza da mettere in relazione con la posizione del sito rispetto al corso del fiume, che permetteva il controllo di un punto nodale delle attività di scambio.
Ai tempi di Romolo Dopo la saga saturnia, il nucleo piú consistente delle tradizioni leggendarie legate al Campidoglio ci porta a un orizzonte romuleo e agli albori di Roma. Nella valle frapposta tra le due sommità del Campidoglio, Romolo avrebbe creato una zona franca, consacrata al dio Asilo, destinata ad accogliere e garantire l’immunità a quanti – banditi o ribelli che fossero – avessero desiderato unirsi alla nuova comunità, ancora troppo piccola per poter aspirare alla sopravvivenza (vedi box alla pagina precedente). Ma al problema della mancanza
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di uomini si aggiungeva, altrettanto preoccupante, quello della mancanza di donne. Rivelatisi inutili tutti i tentativi «diplomatici», Romolo e i suoi decidono di procedere con la forza: attirano con uno stratagemma gli abitanti delle città vicine e rapiscono le loro donne. Un oltraggio non privo di conseguenze: i Sabini della città di Cures, guidati dal re Tito Tazio, raggiungono Roma e, grazie al tradimento della romana Tarpea, conquistano il Campidoglio e vi si insediano. Lo scontro a quel punto è inevitabile, ma per intervento di Giove e poi delle stesse Sabine si arriva a una tregua e poi alla pace. Tito Tazio viene associato da Romolo nel regno e il Campidoglio «sabino» annesso alla città.
Tradizioni leggendarie e realtà storica Il «riscontro» archeologico di queste tradizioni leggendarie – veri e propri miti di fondazione che rendono conto dei luoghi e dei monumenti delle fasi piú antiche della Roma delle origini – ha dato vita a un dibattito infinito tra gli studiosi, mai completamente sopito. A contrapporsi sono state, per molti decenni, due teorie principali: quella del sinecismo, cioè della fusione dei piccoli villaggi sparsi sui colli intorno alla valle del Foro e quella del progressivo prevalere, sugli altri, di un singolo centro abitato, identificato con quello del Palatino. Recenti studi hanno messo in discussione il presupposto su cui si basano entrambe le teorie, quello cioè della coesistenza, a distanza cosí ravvicinata, di villaggi «politicamente» ed economicamente indipendenti; i vari nuclei abitati sarebbero in realtà parte di un unico sistema insediativo, progressivamente ampliatosi, tra l’età del Bronzo Finale e la prima età del Ferro, dal sistema CampidoglioPalatino-Foro Romano agli altri colli di Roma. Al di là delle singole posizioni e delle differenti valutazioni del fenomeno, gli studiosi concordano almeno su un punto: il momento
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A sinistra antefissa in terracotta dipinta, dal Giardino Romano dei Musei Capitolini, l’area scoperta che segnava il limite tra palazzo dei Conservatori e palazzo Caffarelli. 530-510 a.C. Roma, Musei Capitolini.
| Il tempio di Giove al tempo dei Tarquini | Del tempio di Giove Capitolino, letteralmente smontato in secoli e secoli di spoliazioni, si conservano tratti delle poderose fondazioni in blocchi di cappellaccio, riferibili alla fase arcaica originaria (seconda metà del VI secolo a.C.). La ricostruzione dell’alzato si basa sulle descrizioni delle fonti letterarie. Dionigi di Alicarnasso, in particolare, racconta che il tempio di epoca regia, distrutto da un incendio nell’83 a.C., sarebbe stato ricostruito da Quinto Lutazio Catulo (console nel 75 a.C.) mantenendo inalterata la planimetria e le dimensioni originarie. Innalzato su un altissimo podio, lungo circa 200 piedi (= 60 m) e di larghezza poco inferiore, il tempio presentava tre file di tre colonne sulla fronte e una su ciascun lato; la parete di fondo risultava cieca, secondo la consueta tradizione italica. Lo spazio interno si articolava in tre celle parallele: piú ampia quella centrale, dedicata a Giove, leggermente piú strette quelle laterali, dedicate rispettivamente a Giunone (quella di sinistra) e Minerva (quella di destra). Sappiamo inoltre che Tarquinio il Superbo commissionò la decorazione fittile del tempio – in particolare la quadriga di Giove posta sul tetto come acroterio centrale – alle piú rinomate botteghe etrusche del tempo e che il celebre coroplasta Vulca, proveniente da Veio, realizzò la statua di culto del dio.
Momento culminante della storia del Campidoglio è la costruzione del tempio di Giove Ottimo Massimo, Giunone Regina e Minerva (la cosiddetta «triade capitolina»), il monumento piú insigne della «Grande Roma dei Tarquini». L’importanza del tempio e del culto di Giove è tale da «segnare» tutta la storia del colle, anche a livello toponomastico: l’antico Mons Tarpeius diviene, per estensione, il Capitolium, il Campidoglio.
Un’impresa grandiosa
In alto tempio di Giove Capitolino: tratto delle fondazioni arcaiche in blocchi di cappellaccio, riportate alla luce presso il Giardino Caffarelli. Nella pagina accanto, in basso moneta con testa dell’imperatore Tito al dritto e rappresentazione schematica del tempio di Giove Capitolino al rovescio. 81 d.C.
di rottura nelle vicende insediative di Roma si compie con l’abbandono dei nuclei sepolcrali della valle del Foro e la contestuale nascita di una necropoli unitaria sull’Esquilino (seconda metà del IX-prima metà dell’VIII secolo a.C.), segno tangibile dell’affiorare della prima realtà «urbana». Nel VII secolo a.C. l’area capitolina si configura come un quartiere abitativo della città ormai unificata: nell’area del Giardino Romano sono documentate strutture murarie pertinenti a edifici con copertura a tegole: si tratta probabilmente di case, non dissimili da quelle rinvenute nell’area del Foro Romano e in altre zone del centro. Appaiono contestualmente i primi segni del sacro: nell’area dell’attuale Protomoteca venne scavato, tra il 1926 e il 1927 un deposito votivo che attesta l’esistenza di un luogo di culto anteriore alla costruzione del tempio di Giove.
Delle fasi della costruzione del tempio, degli sforzi profusi – sia in termini economici che di forza lavoro – e dei prodigi che ne accompagnarono la nascita ci raccontano con dovizia di particolari gli storici Livio e Dionigi di Alicarnasso. Il voto del tempio, in occasione di una guerra contro i Sabini, e l’inizio dei lavori sono concordemente attribuiti a Tarquinio Prisco, quinto re di Roma e primo della dinastia etrusca. L’impegno fu gravoso: la sommità meridionale del Campidoglio si presentava scoscesa e dal profilo aguzzo; fu quindi necessario costruire un grandioso muro di contenimento e livellare una piattaforma adatta a ospitare le gigantesche fondazioni dell’edificio. L’improvvisa morte del re segnò la sospensione dei lavori, ripresi, dopo il regno di Servio Tullio, da Tarquinio il Superbo. Il re investí nell’operazione il bottino ricavato dalla vittoria su Suessa Pometia (città del Lazio arcaico di incerta localizzazione, forse situata nell’agro pontino, n.d.r.), riuscendo a gettare le fondamenta dell’edificio e a realizzare gran parte dell’elevato, senza però avere l’onore della dedica: i suoi eccessi avevano spinto il popolo di Roma alla rivolta, conclusasi con la sua cacciata e l’instaurazione della repubblica. E cosí il tempio, una delle piú tangibili testimonianze della «grande Roma dei Tarquini» venne consegnato al dio, il 13 settembre del 509 a.C., da Orazio Pulvillo, uno dei primi consoli (vedi box alla pagina precedente). Destinato a glorificare la dinastia dei Tarquini e proclamare la supremazia di Roma sul Lazio, il tempio di Giove diviene in epoca repubblicana il simbolo sacro e politico dello Stato di Roma e, in quanto tale, riprodotto in tutte le città di
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nuova fondazione. Nella piazza antistante al tempio, denominata «area capitolina», vengono celebrate le piú importanti cerimonie pubbliche legate alla vita dello Stato: vi si recano i giovani al momento dell’assunzione della toga virile, rituale che li consacra cittadini a tutti gli effetti; vi sacrificano i consoli al momento del loro ingresso in carica; il senato vi delibera l’inizio delle guerre, cosí come le tregue e la pace; innanzi al tempio si conclude, al termine delle campagne militari vittoriose, la pompa trionfale, la piú impressionante delle cerimonie pubbliche romane.
Il sacco di Roma Dall’alto del Capitolium Giove assiste alle sfilate dei condottieri trionfanti che si susseguono a ritmo serrato nei secoli dell’epoca repubblicana, segnando le tappe della conquista romana; e con sguardo altrettanto impassibile si fa testimone di episodi funesti: fra tutti, destinato a rimanere impresso nella memoria collettiva come la pagina più nera della storia di Roma, il sacco dei Galli del 389 a.C. Entrati a Roma dopo la vittoriosa battaglia presso il fiume Allia, per mesi (sette secondo la tradizione) le orde barbare guidate dal re Brenno si diedero al saccheggio e alla strage, sotto gli occhi attoniti di coloro che erano rimasti a presidiare la rocca, ultimo avamposto dello Stato. L’attacco notturno a sorpresa, miracolosamente sventato dallo starnazzare delle celebri oche del Campidoglio, consacrate a Giunone, si risolse in una battaglia furiosa, dall’esito incerto, ma in cui i Romani si distinsero per atti di eroismo. Ciò che i Romani impedirono ai Galli – violare e saccheggiare lo spazio piú sacro del colle, il tempio di Giove – non poté essere impedito, tre secoli dopo, alla furia del fuoco: nell’83 a.C., anno dello scoppio dell’ultimo, sanguinoso episodio della guerra civile combattuta tra gli eserciti di Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, un disastroso incendio, di cui si ignoravano le cause, divampò in Campidoglio. Il tempio di Giove fu completamente distrutto insieme al piú prezioso dei tesori che in esso era custodito, la
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raccolta dei libri Sibyllini 2 1 (una raccolta di testi oracolari, scritti in greco, attribuiti alla Sibilla 4 di Cuma). Un presagio funesto: lo storico Tacito sottolinea che, dalla dedica del 3 tempio, erano passati esattamente 400 anni. Con il fumo e le fiamme sembrava si concludesse uno dei cicli vitali della repubblica. L’onore e soprattutto il prestigio della ricostruzione spettarono al vincitore del confronto, Silla. Il suo progetto di rinnovamento del Campidoglio si presentava grandioso: per la ricostruzione del tempio di Giove vennero addirittura trasportate da Atene sei delle gigantesche colonne in marmo dell’Olympieion, il tempio di Zeus Olimpio. Ai lavori sovrintende un suo fedelissimo, Quinto Lutazio Catulo, eletto console nell’anno della morte di Silla, il 78 a.C. Sarà lui a portare a termine la ricostruzione del tempio, tra le proteste generali di quanti ambivano al medesimo onore – tra cui un giovanissimo Giulio Cesare – e a inaugurarlo nel 69 a.C. Ancora all’epoca sillana e all’attività di Lutazio Catulo viene assegnata dagli studiosi la realizzazione dell’imponente complesso correntemente denominato Tabularium («archivio di Stato»). Si tratta sostanzialmente
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Pianta delle pendici del Campidoglio: 1. Tempio di Veiove; 2. Sostruzioni del cosiddetto Tabularium; 3. Portico degli Dèi Consenti; 4. Tempio di Vespasiano; 5. Tempio della Concordia; 6. Tempio di Saturno; 7. Arco di Settimio Severo. In basso le sostruzioni del cosiddetto Tabularium, su cui si imposta palazzo Senatorio.
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Felicitas, progettati da Silla dopo il trionfo dell’81 a.C. e portati a termine nel 78, dopo la morte del dittatore, da Quinto Lutazio Catulo.
Dai fasti imperiali al declino
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Restituzione grafica della Substructio (1), la struttura convenzionalmente identificata con il cosiddetto Tabularium, con i sovrastanti templi di epoca sillana: tempio di Venus Victrix (2), tempio del Genius Publicus Populi Romani (3) e tempio di Fausta Felicitas (4), secondo la ricostruzione di Filippo Coarelli.
di una grandiosa sostruzione articolata in vani di fondazione, originariamente inaccessibili, che regolarizza e nasconde, sul lato del Foro, la depressione dell’Asylum (la sella frapposta tra le due sommità del Campidoglio). Il complesso si innalza su un poderoso muro di sostegno realizzato in opera quadrata di peperino e pietra gabina, sormontato da una galleria che si apre verso il Foro Romano tramite arcate inquadrate da semicolonne doriche: certamente una via tecta («coperta») destinata a sostituire l’originario percorso, all’aperto, che collegava il Capitolium all’Arx. Il nucleo interno risulta percorso da un lungo corridoio (sottostante la galleria) e da un sistema di scale che collegavano tra loro i vari piani e questi con il piano del Foro. Piú d’uno studioso ha messo in dubbio l’interpretazione tradizionale del complesso come Tabularium: il riesame della documentazione archeologica ed epigrafica consente oggi di riconoscere nel complesso il monumentale basamento (la Substructio) di uno o piú edifici templari di epoca tardo-repubblicana, alcuni elementi dei quali furono scoperti, in posizione di crollo, nell’area antistante al portico degli Dèi Consenti, nel Foro Romano. Come ha sottolineato Filippo Coarelli, il complesso sacro in questione, per la sua posizione dominante rispetto al Foro, la sua cronologia e il livello della committenza, va probabilmente identificato con i tre templi di Venus Victrix, Genius Publicus Populi Romani e Fausta
Nei secoli dell’impero la storia del Campidoglio quasi si identifica con quella del tempio di Giove. Non c’è imperatore che non abbia lasciato un segno tangibile della propria devozione al dio attraverso la dedica di una statua, un sacello, un altare. L’area capitolina era già cosí satura dei monumenti accumulatisi nell’ultimo secolo della repubblica che Augusto dovette rimuoverne una parte, trasferendoli in Campo Marzio. Ma sono soprattutto le vicende legate alle distruzioni e alle successive ricostruzioni del tempio a essere registrate dalle fonti antiche. Durante i tumulti che caratterizzarono l’ascesa al trono di Vespasiano (69 d.C., l’anno dei «quattro imperatori») un terribile incendio distrugge le sacre mura. A pochi anni dalla fine dei lavori scoppia un nuovo, disastroso incendio (80 d.C.); della ricostruzione si fa carico l’imperatore Domiziano. Innalzato sulle stesse fondazioni dell’edificio di epoca arcaica, il tempio viene ricostruito in marmo pentelico e le celle adornate da nuove statue di culto; quella di Giove, in particolare, viene realizzata con la tecnica crisoelefantina (in oro e avorio). Particolarmente sfarzosa è la decorazione esterna del tempio, con ampio uso di marmi policromi e lamine d’oro, che coprivano le porte e le tegole bronzee del tetto. Il tempio sopravvive in queste forme per secoli. Nelle fonti tardo-antiche viene ancora descritto come il piú autorevole e il piú splendido dei templi pagani della città. Il suo prestigio era tale che durante il sacco di Roma del 410 d.C. Alarico, re dei Goti, volle risparmiare le sacre mura per rispetto di una tradizione che andava al di là dell’appartenenza religiosa. Solo i Vandali di Genserico non si fecero alcuno scrupolo: nel 455 d.C., durante il saccheggio di Roma, il tempio viene depredato e i suoi tesori, compresa una buona parte delle tegole bronzee laminate in oro che coprivano il tetto, prendono la via di Cartagine. Ha cosí inizio la fase delle spoliazioni, che si prolunga per secoli.
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I
l 1° novembre 1876 Johann Wolfgang Goethe raggiunge Roma attraverso la via Flaminia. Ad accompagnarlo è una certezza assoluta: «Solo quando passai sotto porta del Popolo seppi per certo che Roma era mia». La percezione di essere entrati nel cuore della città, la città dei principi, è qui nettissima: lo testimoniano gli imponenti tratti – pure fortemente restaurati – della grande cinta urbana realizzata tra il 272 e il 279 d.C. dall’imperatore Aureliano e dal suo successore Probo, con l’intento di difendere Roma dalle incursioni barbare. La cinquecentesca porta del Popolo (i due fornici laterali sono un’aggiunta ottocentesca) coincide di fatto con uno dei quattordici ingressi delle mura Aureliane, porta Flaminia, il cui nome deriva da quello dell’omonima consolare che l’attraversava. Entrata in area urbana, la Flaminia assumeva il nome di via Lata (l’attuale via del Corso), asse portante della viabilità cittadina in direzione del centro. Con un percorso rettilineo, che si
sviluppava tra Campo Marzio a destra e le estreme pendici del Pincio – l’antico Collis Hortulorum – e del Quirinale a sinistra, la via Lata raggiungeva le pendici nord-orientali del Campidoglio, segnate in antico dal circuito delle mura serviane, la cinta che racchiudeva la città arcaico-repubblicana.
Una visione scomparsa Goethe avrebbe potuto intravedere già da piazza del Popolo, volgendo lo sguardo al termine del lungo rettilineo di via del Corso, la sommità settentrionale del Campidoglio (l’antica Arx), dominata dalla chiesa di S. Maria in Aracoeli. Questa straordinaria prospettiva è negata al visitatore moderno poiché il complesso del Vittoriano ha oscurato la vista del colle, imponendosi a esso come elemento di maggior risalto nel paesaggio urbano. Per raggiungere la fronte del Campidoglio si deve attraversare piazza Venezia
Veduta ottocentesca del Campidoglio, con la cordonata michelangiolesca che sale fino alla piazza, dominata dalla statua equestre di Marco Aurelio e sulla quale si affacciano, da sinistra, palazzo Nuovo, palazzo Senatorio e palazzo dei Conservatori.
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sino a raggiungere la sottostante piazza d’Aracoeli. La visione si apre lentamente allo sguardo: prima la ripida scalinata di S. Maria in Aracoeli, poi la cordonata michelangiolesca, infine il percorso sinuoso di via delle Tre Pile. Insieme al Colosseo è forse questa l’immagine piú conosciuta di Roma. Ma, come vedremo, questa facciata monumentale non corrisponde affatto a quella antica, ne è anzi l’esatto rovescio.
Il Campidoglio di Michelangelo «Che bella cosa il Campidoglio! La loggia dei Senatori e, da una parte e dall’altra, il Palazzo dei Conservatori e quello del Popolo. Questi tre edifici formano una piazza quadrata, dov’è la bella statua di Marco Aurelio» (Montesqieu, Voyage en Italie). È difficile immaginare il Campidoglio in una forma diversa da quella datagli da Michelangelo. L’incarico di monumentalizzare l’area capitolina viene affidato all’artista fiorentino da papa Paolo III nel 1537, in occasione dello spostamento dal Laterano della statua equestre di Marco Aurelio, scampata alla sistematica fusione dei bronzi antichi perché ritenuta di Costantino, primo imperatore cristiano. Di questa statua, pregna di una forte valenza simbolica, Michelangelo fa il perno geometrico e ideale di tutta la composizione. Delimitata a valle da un muraglione a piombo, coronato da una balaustra, l’acropoli viene collegata alla sottostante piazza d’Aracoeli tramite una rampa inclinata munita di bassi gradini, concepita per il passaggio di uomini a cavallo. Attraverso la cordonata si sale, quasi in pellegrinaggio – un pellegrinaggio laico e culturale – sino alla piazza
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trapezoidale racchiusa entro una grandiosa quinta scenografica: sullo sfondo palazzo Senatorio, con la sua imponente facciata scandita da lesene di ordine gigante e dal doppio scalone monumentale; a destra palazzo dei Conservatori il cui andamento, lievemente divergente rispetto all’asse centrale della piazza, spinge Michelangelo a progettare un palazzo gemello sul lato opposto, palazzo Nuovo. A cambiare radicalmente, con l’intervento michelangiolesco, è anche il rapporto urbanistico tra il colle e la città: il «nuovo» Campidoglio è il rovescio di quello «antico», poiché ne viene invertito l’ingresso: in età romana i principali edifici, a iniziare dal tempio di Giove Capitolino, si affacciavano dalla parte opposta, in direzione del Foro Romano. Michelangelo sancisce il ribaltamento della prospettiva, già prefigurato in età medievale, aprendo la facciata del colle verso ovest, dove si andava sviluppando la nuova città. Un capovolgimento che non è tuttavia un annullamento del passato, ma un suo recupero: ai fianchi del palazzo Senatorio (come si ricava da una incisione di Étienne Dupérac, unica testimonianza del progetto michelangiolesco) erano lasciati calibrati spazi che garantivano una visuale sulle maestose rovine del Foro e del Palatino. Il colle assume il ruolo di mediazione tra la città antica e la nuova, in quanto l’una prefigurazione dell’altra. Ormai sembra chiaro: non basta «salire» sul Campidoglio, per avere un’idea del suo aspetto antico occorre girargli intorno.
Nella pagina accanto planimetria del Campidoglio: 1. Tempio di Giove Capitolino; 2. Tempio di Ops Opifera; 3. Tempio di Fides; 4. Altare della famiglia giulia; 5. Sostruzioni del cosiddetto Tabularium; 6. Tempio di Veiove; 7. Tempio di Giunone Moneta e Auguraculum. In basso, sulle due pagine piazza del Campidoglio: replica in bronzo della statua equestre di Marco Aurelio, trasferita dal Laterano in Campidoglio nel 1537. L’originale è conservato nei Musei Capitolini (nell’Esedra di Marco Aurelio).
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pendici del Campidoglio le mura, le porte, le strade
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a piazza d’Aracoeli si distingue nettamente il profilo del colle con le due alture che lo caratterizzavano, il Capitolium (palazzo dei Conservatori/palazzo Caffarelli) e l’Arx (chiesa di S. Maria d’Aracoeli), nonché la sella – sede del leggendario Asylum fondato da Romolo – che le collegava e su cui ora si adagia piazza del Campidoglio. A questa visuale «aperta» doveva corrispondere, in antico, una visuale «chiusa»: in età arcaico-repubblicana, il versante nord-occidentale del colle capitolino, affacciato sul Campo Marzio, era dominato dal circuito delle mura Serviane. Un tratto ben conservato della cinta – cinque filari in blocchi di cappellaccio, sostenuti da un muro moderno – è ancora visibile in via del Teatro di Marcello, a poche decine di metri da piazza d’Aracoeli. In prossimità di questo segmento di mura doveva aprirsi l’antica porta Catularia che consentiva, tramite una lunga scalinata (rappresentata nella Forma Urbis severiana, la pianta marmorea di Roma collocata in origine nel foro della Pace), di accedere alla sommità del Capitolium. Le mura proseguivano poi lambendo le pendici dell’Arx; lungo questo tratto si apriva porta Fontinalis: alcuni blocchi in tufo di Grotta Oscura, probabilmente appartenenti alla porta, sono visibili davanti al Museo del Risorgimento, inseriti nel selciato moderno. Verso porta Fontinalis si dirigeva la via Flaminia, che abbiamo percorso per raggiungere il Campidoglio; del suo ultimo tratto, prima dell’ingresso in città, ci informa il monumento funerario di C. Sulpicius Bibulus (primi decenni del I secolo a.C.): un personaggio che per qualche particolare benemerenza venne onorato di un sepolcro in Campo Marzio, eretto
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A sinistra veduta del Campidoglio dalla loggia di palazzo Caffarelli. In basso il monumento funerario di C. Sulpicius Bibulus davanti al Vittoriano. Primi decenni del I sec. a.C.
a spese pubbliche. Del monumento sono ancora visibili i resti della fronte della cella, a sinistra della scalinata di ingresso al Vittoriano. Da porta Fontinalis si diramava il clivus Argentarius; la strada, ancora oggi ben conservata, lambisce le pendici dell’Arx ed entra nel Foro Romano sino all’altezza del Carcere Tulliano (chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami). In prossimità del Carcere prendevano inizio le famigerate Scalae Gemoniae, la ripida scalinata che si inerpicava sino alla sommità dell’Arx e lungo la quale venivano esposti i cadaveri dei giustiziati, sia quelli strangolati nel Tullianum, il piú oscuro recesso del Carcere, che quelli gettati dalla sovrastante rupe Tarpea (il saxum Tarpeium della tradizione), erroneamente ma tenacemente collocata sul versante opposto del Campidoglio, verso il Campo Marzio. Sempre dal Foro Romano si accedeva alla sommità del Capitolium, sede del tempio di Giove Ottimo Massimo, tramite il clivus Capitolinus (di cui si conserva un ampio tratto presso il portico degli Dèi Consenti), l’unica via carrozzabile che consentiva di raggiungere la piazza antistante al tempio di Giove.
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Asylum, Capitolium e Arx In alto veduta del portico degli Dèi Consenti (al centro della foto) e della terrazza del Campidoglio ( in alto); sulla sinistra si vede un tratto del clivus Capitolinus, la strada carrozzabile che conduceva al tempio di Giove Capitolino.
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a passeggiata «all’aperto» consente di prendere confidenza con la topografia del Campidoglio antico e prepararsi alla visita degli itinerari musealizzati, ai quali si accede dal palazzo dei Conservatori. Da piazza del Campidoglio, adagiata sull’antica valle dell’Asylum, imbocchiamo, a destra del palazzo Senatorio, il vicolo (via del Campidoglio) che conduce al versante sud-orientale del colle. Si deve essere preparati, perché la vista che si apre sul Foro Romano e sul Palatino è a dir poco spettacolare. Lungo la strada, oltre la torre di Bonifacio IX, si può osservare e toccare con mano un tratto della parete sudovest della Substructio, la possente sostruzione realizzata in epoca tardorepubblicana per regolarizzare, sostenere e monumentalizzare le pendici del colle affacciate verso il Foro (struttura
convenzionalmente identificata con il Tabularium, l’archivio dello Stato, n.d.r.). Sul muro di fondo è stato ricavato, in epoca moderna, l’ingresso alla galleria sovrastante la Substructio (ingresso attuale dai Musei Capitolini). Raggiunto il belvedere e sporgendosi dalla balaustra si vede la facciata del complesso, reimpiegato come fondazione di palazzo Senatorio. La visione ottimale si ha ovviamente dal basso: dal Foro è possibile cogliere le proporzioni gigantesche della Substructio, che nascondeva la sella dell’Asylum costituendo una quinta architettonica di sfondo al Foro. Sempre dal belvedere si può osservare (all’altezza del sottostante portico degli Dèi Consenti), un tratto ben conservato del clivus Capitolinus, caratterizzato da un selciato a grandi basoli; la strada in origine proseguiva in
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linea retta per poi svoltare bruscamente verso nord, sino a sboccare nell’area capitolina, la piazza antistante al tempio di Giove. Di questo spazio, affollato di templi, monumenti, statue, trofei, conserviamo solo il ricordo letterario: le continue frane che, sin dall’antichità, hanno interessato questo versante del Campidoglio ne hanno fatto sparire gran parte. A testimonianza degli antichi monumenti resta un grosso nucleo in opera cementizia, tagliato in due dalla moderna via del Tempio di Giove: in esso si riconosce il basamento dell’ara Pietatis, altare in onore della gens Iulia, votato dal Senato nel 22 d.C. e dedicato nel 43 d.C. dall’imperatore Claudio. Abbiamo cosí raggiunto, in via del Tempio di Giove, l’area del piú importante edificio di culto dello Stato romano, il tempio dedicato alla triade Capitolina, vale a dire Giove Ottimo Massimo, Giunone Regina e Minerva. I resti delle sue colossali fondazioni sono oggi visibili all’interno dei Musei Capitolini (esedra di Marco Aurelio), ma, già dall’esterno, è possibile intravederne l’angolo orientale, protetto da una bassa vetrata triangolare. Possiamo farci un’idea delle gigantesche dimensioni dell’edificio «girando» intorno al Capitolium (via del Tempio di Giove – via di Villa Caffarelli) sino ai giardinetti antistanti palazzo Caffarelli, nei quali sono stati rinvenuti alcuni resti della parte posteriore delle fondazioni del tempio. Siamo cosí tornati in piazza del Campidoglio. A sinistra del palazzo Senatorio guadagniamo i giardinetti dell’Aracoeli, per godere di una vista sul Foro Romano altrettanto magnifica e osservare da vicino un nucleo di strutture che, come mostrano le diverse tecniche edilizie e i differenti materiali impiegati, presenta piú fasi, comprese tra il periodo arcaico (muri in opera quadrata di cappellaccio) e l’età imperiale (rifacimenti in opera laterizia e cementizia). In questi resti si riconosce ora il tempio di Giunone Moneta (tradizionalmente collocato sulla sommità dell’Arx, in corrispondenza della chiesa di S. Maria in
asylum
5 A destra pianta dell’Arx (con i monumenti identificati da Pier Luigi Tucci) e delle pendici del Campidoglio verso il Foro Romano: 1. Iseo Capitolino; 2. Lucus; 3. Domus; 4. Tempio di Giunone Moneta e Auguraculum; 5. Tempio di Veiove; 6. Sostruzioni del cosiddetto Tabularium; 7. Portico degli Dèi Consenti; 8. Tempio di Vespasiano; 9.Tempio della Concordia; 10. Tempio di Saturno 11. Ara Saturni; 12. Mundus; 13. Arco di Settimio Severo; 14. Carcere.
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Aracoeli) e l’Auguraculum, l’antica sede augurale dell’Arx. Completamente rivisitata è la topografia della sommità dell’Arx: recenti indagini condotte all’interno della medievale di S. Maria in Aracoeli, edificata nelle forme attuali alla fine del XIII secolo, hanno consentito di ricostruire un intero quartiere della città, con aree di culto (l’Iseo Capitolino, in corrispondenza dell’ingresso laterale alla chiesa) e abitazioni private (una ricca domus, il cui impianto originario risale all’epoca repubblicana, in corrispondenza della navata della chiesa).
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Dentro il Museo: il tempio di Giove Ottimo Massimo
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Disegno ricostruttivo del tempio di Giove Capitolino (A), in rapporto ai palazzi del Campidoglio: 1. Piazza del Campidoglio; 2. Palazzo Senatorio; 3. Palazzo dei Conservatori; 4. Palazzo Caffarelli; 5. Palazzo Nuovo.
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e emergenze monumentali antiche piú significative (tempio di Giove, tempio di Veiove e Substructio/cosiddetto Tabularium), inglobate e reimpiegate come fondazioni degli edifici capitolini, sono ora oggetto di specifici, straordinari percorsi museali. Al tempio di Giove Ottimo Massimo è dedicata la nuova ala dei Musei Capitolini, allestita, su progetto di Carlo Aymonino, nel Giardino Romano, l’area scoperta che segnava il limite tra la proprietà dei Conservatori e quella della famiglia Caffarelli. Fulcro della nuova ala è l’ampia e luminosissima esedra che ospita la statua equestre di Marco Aurelio (in piazza del Campidoglio ne è stata collocata una replica) e alcuni dei preziosi bronzi – la testa, la mano e il globo di una statua colossale di Costantino – che nel 1471 papa Sisto IV volle trasferire dal Laterano in Campidoglio, restituendoli all’autorità cittadina. Attraverso una rampa sinuosa si raggiunge l’area del tempio di Giove,
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A destra ricostruzione dell’alzato e pianta del tempio di Giove Capitolino.
Il cosiddetto Muro Romano, unico tratto delle fondazioni del tempio di Giove Capitolino a conservare l’altezza originaria, oggi all’interno dei Musei Capitolini. Sulla sommità è visibile uno spesso strato in cementizio, che corrisponde al piano di spiccato di epoca imperiale dell’edificio.
con quanto è sopravvissuto a secoli e secoli di spoliazione. Ciò che vediamo è frutto delle indagini archeologiche condotte tra il 1998 e il 2000 nell’area del Giardino Romano; sono stati messi in luce alcuni dei poderosi muri di fondazione del tempio, realizzati in blocchi squadrati di cappellaccio disposti alternativamente in filari di testa e di taglio. Immediata è la percezione delle proporzioni gigantesche del tempio: le fondazioni risultano collocate all’interno di trincee che in alcuni punti raggiungono gli 8 m di profondità. Le strutture conservate si articolano in quattro muri principali (i setti longitudinali), raccordati tra loro da setti trasversali e racchiusi, ai margini, da una fascia perimetrale ampia quasi 7 m. L’elemento architettonico piú significativo, oltre che piú imponente alla vista, è il cosiddetto «muro romano», che corrisponde alla parte anteriore del setto longitudinale orientale delle fondazioni del tempio. Come documentato dallo spesso strato in cementizio che ne ricopre la sommità, esso conserva ancora l’altezza originaria, corrispondente al piano di spiccato dell’edificio templare. A fianco sono visibili la fascia perimetrale meridionale delle fondazioni, relativa alla fronte del tempio, e lo spigolo orientale (lo abbiamo già visto dall’esterno, lungo via del Tempio di Giove). Ai resti monumentali del tempio sono affiancati, nell’allestimento museale, i principali ritrovamenti relativi alle piú antiche fasi di occupazione del Campidoglio, riconducibili a un orizzonte cronologico compreso tra l’età del Bronzo Medio e l’età arcaica (XVII-VI secolo a.C. ). I materiali sono presentati secondo un itinerario a ritroso nel tempo, cosí come sono stati ritrovati nel corso delle indagini stratigrafiche effettuate nell’area del Giardino Romano.
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Tempio di Veiove e Substructio A sinistra ricostruzione dell’alzato del tempio di Veiove (192 a.C.). In basso e nella pagina accanto, a sinistra le aule del Tabularium nei Musei Capitolini.
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n secondo percorso museale – sotterraneo, ma con uno straordinario affaccio esterno finale – si snoda all’interno della Substructio, la possente sostruzione che sosteneva il cosiddetto Tabularium, o, secondo la recente ipotesi avanzata da Filippo Coarelli, i tre templi dedicati a Venus Victrix, Genius Publicus Populi Romani e Fausta Felicitas, complesso progettato da Silla dopo il trionfo dell’81 a.C. e portato a termine, alla morte del dittatore, da Quinto Lutazio Catulo. Si accede al percorso tramite la Galleria Lapidaria; questo tunnel sotterraneo, noto anche come Galleria di Congiunzione, fu scavato negli anni Trenta del secolo scorso al di sotto di piazza del Campidoglio per collegare i tre palazzi capitolini. Durante i lavori vennero alla luce i resti del tempio repubblicano dedicato a Veiove, miracolosamente preservati perché sopra di essi venne costruita, in epoca medievale, la rampa di collegamento tra piazza del Campidoglio e i piani alti di palazzo Senatorio. Si raggiungono i resti dell’edificio templare attraverso un lungo corridoio moderno ricavato all’interno del nucleo centrale della sostruzione del cosiddetto Tabularium. Il tempio, votato nel 196 a.C. dal console Lucio Furio Purpurione in occasione dello scontro con i Galli Senoni presso Cremona, venne dedicato nel 192 a.C. L’edificio, che si presenta nel suo rifacimento tardo-repubblicano, probabilmente coevo alla costruzione della Substructio, si innalza su un alto podio in blocchi di tufo di Grotta Oscura, con rivestimento in lastre di travertino. La cella, piú larga che profonda, è preceduta da un piccolo pronao tetrastilo (con quattro colonne in facciata). In epoca flavia venne realizzata una volta in muratura, sostenuta da piloni in laterizio. A questo rifacimento vengono anche attribuiti i frammenti delle lastre in marmi colorati che
A destra la statua di culto del tempio di Veiove, rinvenuta nel 1939. Il dio è rappresentato nudo, con la spalla e il braccio avvolti in un mantello. Roma, Musei Capitolini.
decoravano il pavimento e le tracce di stucco dipinto delle pareti. Tornati sul corridoio principale si raggiunge la galleria che collegava il Capitolium all’Arx, affacciata sul Foro Romano tramite arcate inquadrate da semicolonne di ordine dorico in pietra gabina, con capitelli e architravi in travertino. La galleria, coperta da volte a padiglione (originaria è quella dell’ultima campata, in direzione di via di S. Pietro in Carcere), è separata da arcate da una serie di ambienti interni (tre a sud-ovest, due a nordest) di incerta funzione, separati da un muro pieno in pietra gabina. Una porta moderna, ritagliata nel muro, consente di accedere a uno dei quattro vani di fondazione del complesso, originariamente chiusi e interrati.
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AL centro del mondo di Filippo Coarelli
Il Foro Romano in un dipinto di Giovanni Paolo Pannini (1691 circa-1765). Si può notare come l’aspetto dell’area è ben diverso dall’attuale: nel tempo, la piazza e i suoi monumenti erano stati interessati da un consistente interro e dunque il piano di campagna era assai piú elevato.
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e piú antiche fasi del Foro Romano, inteso come piazza centrale della città, luogo deputato alle attività economiche (mercato), politiche e giudiziarie (oltre che religiose) sono ricostruibili solo con molta difficoltà e in modo frammentario, per la scarsità dei resti materiali disponibili: il settore relativamente meglio conosciuto è quello settentrionale, corrispondente al Comizio e alle strutture circostanti (in particolare il Carcere), soprattutto grazie agli scavi condotti da Giacomo Boni (1859-1925) tra il 1899 e il 1900.
Un quadro relativamente coerente si può ricavare coniugando i resti archeologici allora rinvenuti con le informazioni fornite da documenti fondamentali, come i Fasti arcaici, detti Numani, che, inseriti nei calendari piú recenti, sono integralmente conservati, e si possono datare all’inizio del periodo dei Tarquini, intorno al 600 a.C. In essi troviamo, ripetuta due volte (in corrispondenza del 24 marzo e del 24 maggio) la sigla QRCF, che si può sciogliere, grazie alle informazioni fornite dagli antiquari romani, con Quando Rex Comitiavit Fas ([il giorno diventa] agibile quando il re avrà fatto i sacrifici), da intendere come caratteristica del giorno in cui si possono celebrare i comizi e i processi in seguito a un sacrificio del re nel Comizio. La scoperta nel Comizio stesso, sotto un lastricato di marmo nero (Lapis niger), di un piccolo santuario che comprende un altare e un cippo con un’iscrizione arcaica (metà del VI secolo a.C.), identificabile con il Volcanal (il santuario di Vulcano), permette di chiarire il
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Lastra di rivestimento in terracotta di epoca arcaica, dalla Regia. La decorazione a rilievo presenta una processione di animali e figure mostruose del repertorio orientalizzante. Sono ben distinguibili due pantere fra le quali è un Minotauro, rappresentato con corpo umano e testa taurina. Roma, Antiquarium del Foro.
significato della formula calendariale: è esattamente questo il luogo in cui il re celebrava il sacrificio (vedi a p. 60). In effetti, nonostante la perdita di parte dell’iscrizione, quanto resta permette di riconoscere una «legge sacra», in cui sono indicati gli atti rituali da compiere sul vicino altare da parte del rex, che vi è menzionato due volte. La menzione del calator (l’araldo, incaricato di convocare l’assemblea delle curie) dimostra che si tratta proprio dell’attività politico-giudiziaria del re, il cui svolgimento nel Comizio già nel periodo arcaico è cosí dimostrato. Tutto ciò va collegato al mito fondatore di questa antichissima realtà: si tratta della notissima leggenda che narra la scomparsa di Romolo, il quale, secondo la versione piú antica, sarebbe stato ucciso dai senatori nel Comizio, piú precisamente nel Volcanal, e cioè proprio nel luogo di culto noto come Lapis niger (che per questo veniva anche erroneamente indicato come tomba del primo re). Scomparendo, Romolo si trasformerà nel
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A destra bronzetti votivi rappresentanti una figura maschile nuda e due figure femminili vestite di lungo chitone, dal deposito votivo del Lapis Niger. 550-530 a.C. Roma, Antiquarium del Foro.
dio Quirino. Il significato della storia diviene trasparente se consideriamo il fatto che il nome del dio deriva da curia, esito dell’originario coviria («insieme di uomini»), da cui Covirinus-Quirinus. Quest’ultimo è in effetti il dio protettore delle curie, cioè delle circoscrizioni gentilizie istituite da Romolo, nelle quali era organizzato il popolo romano per l’arruolamento militare e per le assemblee civiche, con il nome complessivo di Quirites (= Covirites: gli uomini riuniti in assemblea). Quirino quindi è il dio dei Quirites, i cittadini organizzati in curie per le operazioni (politiche e giudiziarie) che si svolgevano nel Comizio. Un altro mito di fondazione del Comizio contribuisce a rivelare la struttura nascosta soggiacente a questa antichissima realtà: si tratta, ancora una volta, di un racconto leggendario, quello della guerra romanosabina, causata dal celebre ratto, che si svolge precisamente nell’area del Foro. Quest’ultima è immaginata come la terra di nessuno che si interpone tra i due nuclei etnici, i quali occupavano, rispettivamente, il QuirinaleCampidoglio (i Sabini) e il Palatino (i Romani).
Lo scontro ha inizio ai piedi del Campidoglio, proprio nell’area corrispondente al futuro Comizio. I Romani, sconfitti, ripiegano lungo la via Sacra, fino all’ingresso del Palatino (la porta Mugonia): qui Romolo, facendo appello a Giove Statore («quello che ferma la fuga»), riesce a rovesciare le sorti della lotta, e questa volta sono i Sabini a ritirarsi, sempre lungo la via Sacra. All’altezza del sacello di Cloacina (cioè al confine tra le due comunità, segnato da un corso d’acqua, poi canalizzato dalla cloaca Maxima), le Sabine si gettano tra le schiere in lotta e arrestano lo scontro: cosí i capi dei due popoli, Romolo e Tito Tazio, stipulano la pace nel luogo che da allora in poi sarà il Comizio (il luogo «dove si va insieme»). Le due etnie ne formano cosí una sola, e ciò darà origine alla nuova città. In tal modo, la terra di nessuno lungo il confine, destinata allo scontro militare, si trasforma nel centro geometrico della nuova entità civica, destinato allo «scontro di parole», cioè alla politica: il Comizio. Questo mito è all’origine di un rito ripetuto periodicamente: quello dei Salii (i sacerdoti «danzatori» di Marte) che, divisi in due schiere, Salii Collini (quelli del Quirinale, cioè i Sabini) e Salii Palatini (quelli del Palatino, cioè i Romani) replicheranno periodicamente, mimandola, l’antica battaglia, salendo e scendendo lungo la via Sacra.
La casa del re L’altro complesso sufficientemente noto di età arcaica si trova al capo opposto, orientale della piazza, dove la tradizione antica poneva le abitazioni dei re. Gli scavi che, in piú riprese e anche recentemente, si sono rivolti a questo settore hanno permesso, almeno in parte, di confermare tale tradizione: in effetti, resti di capanne dell’VIII secolo a.C. hanno dimostrato il carattere residenziale dell’area fin dall’età del Ferro, mentre la presenza di strutture in muratura, coperte da tetti in tegole, che le sostituiscono già nel corso del secolo successivo sembrano riferibili a edifici di notevole prestigio, nei quali non è azzardato riconoscere abitazioni regie: in effetti, la presenza di terrecotte architettoniche figurate, che un tempo si ritenevano compatibili solo
Mosaico policromo raffigurante la cerimonia di purificazione celebrata dai Salii. 200-250 d.C. Roma, Galleria Borghese. In secondo piano si riconosce l’effigie di Marte Ultore, divinità protettrice del collegio sacerdotale.
con edifici templari, è in realtà caratteristica anche di edifici residenziali di altissimo livello, come hanno dimostrato gli scavi dei complessi etruschi di Murlo e di Acquarossa. Le strutture esplorate occupano una vasta area a sud della via Sacra, al cui interno è possibile riconoscere vari nuclei distinti: la Regia, la domus Regis (o domus Publica) e l’atrium Vestae. Nel loro insieme, dobbiamo riconoscervi le abitazioni dei re nel periodo compreso tra il VII secolo e l’inizio della repubblica (509 a.C.). La Regia, piccolo edificio trapezoidale che comprendeva solo tre ambienti e un cortile, e in cui si identificava tradizionalmente la «casa di Numa», dovette presto costituire un settore esclusivamente sacro, destinato al culto di Marte e di Ops Consiva (rispettivamente dio della guerra e dea dell’abbondanza agricola), probabili proiezioni divine del re e della regina. Nel periodo repubblicano, l’edificio diverrà la sede ufficiale del pontefice massimo, che abitava nella vicina domus Publica, nome assunto in età repubblicana dalla domus Regis: in quest’ultima si dovrà riconoscere l’abitazione del re e, dopo la fine del periodo monarchico, del suo sostituto per le mansioni sacre, il rex sacrorum, e infine del pontefice massimo. Tale identificazione è confermata dalla presenza nello stesso luogo del tempio di Vesta, in cui è da riconoscere nient’altro che il focolare della
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«casa del re», divenuto con la repubblica il «focolare pubblico» del popolo romano: elemento essenziale di ogni struttura urbana, che ritroviamo identico nelle città greche. La presenza delle Vestali, che abitavano nell’edificio annesso al tempio, l’atrium Vestae, trova cosí la sua naturale spiegazione: l’unico sacerdozio femminile di Roma ha infatti lo scopo di sostituire le originarie curatrici del focolare regio, che potevano essere solo la moglie e le figlie del re.
A destra statua di Vestale Massima (decana del collegio) rinvenuta nel portico Nord dalla casa delle Vestali.
Il commercio e la politica Già dalle sue origini, la struttura del Foro, che veniva attribuita ai Tarquini, prevedeva due aree funzionalmente diverse, separate dalla cloaca Massima (il canale che aveva liberato la piazza dalle acque, rendendola agibile): il Foro vero e proprio a sud, il Comizio a nord. Il primo era destinato al mercato, il secondo – come abbiamo visto – all’attività politica e giudiziaria. In quest’ultimo trovavano posto la Curia Hostilia (sede del Senato), i tribunali per i processi, la tribuna degli oratori (che in seguito A sinistra il tempio circolare di Vesta. Nel suo aspetto attuale l’edificio corrisponde all’ultimo restauro, realizzato dopo l’incendio del 191 d.C. da Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo.
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prenderà il nome di Rostra). Il Foro, invece, era limitato sui due lati lunghi da due file di botteghe destinate alla vendita degli alimenti, le tabernae veteres a sud, le novae a nord. Un primo cambiamento ebbe luogo nella seconda metà del IV secolo a.C., quando, come ricorda Varrone, «la dignità della piazza si accrebbe», perché le vecchie botteghe si trasformarono in negozi di cambiavalute (tabernae argentariae), e la finanza venne a occupare il luogo della minuta economia commerciale. In tale occasione il mercato degli alimenti si trasferí verso nord, in una posizione piú periferica, dando luogo in seguito a un nuovo tipo edilizio, il macellum (mercato alimentare). Alle spalle delle tabernae settentrionali verrà poi costruita (negli ultimi decenni del III secolo a.C.) la prima basilica, probabilmente destinata soprattutto alle operazioni finanziarie, mentre un’altra basilica (la Porcia), realizzata da Catone il Censore nel 184 a.C., alle spalle dei tribunali del Comizio, avrà funzioni giudiziarie. Queste imprese edilizie ebbero anche l’effetto di eliminare le case e le botteghe private che si affacciavano sul Foro, trasformando quest’ultimo in una struttura esclusivamente pubblica.
L’ampliamento della Curia Una tappa successiva è ricollegabile alle profonde trasformazioni istituzionali che caratterizzano il periodo di passaggio tra la repubblica e l’impero. Nel corso del I secolo a.C., tra Silla e Cesare, le strutture del Comizio, ormai insufficienti per le funzioni sempre piú impegnative di quella che è ormai la capitale di un impero, vengono sistematicamente demolite. L’ampliamento della Curia (che assume il nome di Cornelia), destinata a ospitare ben mille senatori, comporta la sparizione dei tribunali che affiancavano in precedenza l’edificio: i processi, affidati da questo momento a tribunali stabili e specializzati (le quaestiones perpetuae) troveranno sede in vari punti del Foro. Con Cesare, l’intera area riceve un nuovo assetto, che resterà in seguito definitivo: la Curia (Iulia) viene spostata piú a sud-est, in relazione con il nuovo Foro Giulio, mentre i
Rostra vengono ricostruiti nel settore nordoccidentale della piazza. In tal modo quest’ultima si trasforma definitivamente nel nuovo centro politico e giudiziario della città.
Le trasformazioni di epoca augustea L’intervento determinante è quello di Augusto: con il primo imperatore infatti si realizza una totale riconversione della piazza, che – con poche e marginali modifiche – resterà invariata fino all’inizio del IV secolo d.C. Le scelte poste in opera sono destinate a tradurre sul piano architettonico e urbanistico l’assetto istituzionale e ideologico del nuovo regime, il principato, nella forma concepita a partire dalla celebre riunione del Senato del 27 a.C., quando Augusto – che proprio in tale occasione assunse tale nome – depose in senato i poteri eccezionali di triumviro, dichiarando la restaurazione della repubblica tradizionale. La natura reale dell’operazione è stata oggetto di discussioni interminabili: si trattava di un regime dispotico, oppure di una sorta di diarchia (dell’imperatore e del Senato) o di altro? In ogni caso, di un regime personale si trattava, anche se in effetti temperato, almeno formalmente, dal rinnovato potere del Senato. Per questo, il nuovo assetto del Foro non poteva non tradurre in forme architettoniche la tesi ufficiale, quella cioè della diarchia. Di conseguenza, assistiamo a una vera e propria divisione della piazza in due settori contrapposti, quello occidentale e quello orientale. Nel primo, situato ai piedi del Campidoglio, troviamo riuniti tutti i vecchi e venerabili edifici della tradizione repubblicana: Curia, Rostri, Erario, dominati dal principale tempio del culto di Stato – quello di Giove Capitolino – e dalla Moneta (la Zecca). Nel secondo, l’elemento centrale è costituito dal nuovo tempio del Divo Giulio, dotato anch’esso di Rostri e affiancato da monumenti legati alla persona dell’imperatore, gli archi che commemoravano la vittoria di Azio e la restituzione delle insegne partiche: il tutto dominato da un altro colle, il Palatino, sede da allora in poi della dimora imperiale. Visivamente, il Foro diviene cosí una proiezione plastica, a tutti comprensibile, del
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nuovo regime: o meglio, della forma ideologica che se ne voleva legittimare.
Una svolta autoritaria
Un tratto della via Sacra, il piú antico e importante asse stradale del Foro Romano.
Per tutto il periodo giulio-claudio la piazza non subí trasformazioni rilevanti, conservando sostanzialmente il modello augusteo. Solo con la fine della dinastia assistiamo ai primi tentativi di trasformarne l’aspetto, in relazione alle modifiche introdotte nell’assetto istituzionale dello Stato. L’intervento piú importante si deve però a Domiziano, coerentemente con le radicali riforme in senso autoritario che l’ultimo imperatore della dinastia flavia tentò, in parte con successo, di introdurre. Le principali tra queste riguardano il sistematico svuotamento dei poteri del Senato: assistiamo cosí al trasferimento degli archivi dell’Erario al palazzo e all’eliminazione dell’antica Moneta repubblicana, sostituita dalla Moneta imperiale nella nuova sede della terza regione (corrispondente all’area oggi
occupata dalla chiesa di S. Clemente). Su un piano piú simbolico, la statua equestre bronzea dell’imperatore collocata al centro della piazza finiva di smantellare i sottili equilibri su cui si reggeva l’immagine del Foro augusteo: l’enorme simulacro, alto con la base circa 18 m, volgeva ostentatamente le spalle al settore «repubblicano» della piazza, rivolgendosi verso la vera sede del potere, il Palatino. In tal modo, l’intero complesso architettonico circostante perdeva gran parte del suo significato, trasformandosi in una semplice cornice monumentale per l’immagine dominante del «padrone e dio», Domiziano. L’operazione si rivelò certamente troppo audace e prematura: dopo la distruzione a furor di popolo della statua, dopo l’assassinio e la damnatio memoriae dell’imperatore, nessuno osò riprendere il tentativo: anzi, i principi successivi faranno a gara per attestare il loro omaggio al Senato e alle tradizioni della repubblica. Ma i fatti dimostrano che si tratta
| La via Sacra | I due poli estremi del Foro – la Regia e il Comizio – erano collegati fin dall’inizio dalla via Sacra, la piú antica di Roma. Il nome allude all’attività istituzionale del re che, in quanto sacerdote sommo della città, svolgeva la parte principale delle sue attività lungo questo asse, che si prolungava fino alla sommità dell’Arx: qui era la sede di una serie di altre funzioni sacre, in particolare di carattere augurale e calendariale, che richiedevano anch’esse l’intervento del re. Si trattava, in altri termini, dell’asse fondamentale di questa antichissima struttura, che trovava la sua spiegazione e giustificazione mitica nelle narrazioni relative a Romolo.
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perlopiú di manifestazioni solo formali: la realtà era quella di un potere imperiale praticamente esclusivo, che non farà che estendersi in seguito. Le funzioni del Foro saranno piú che altro di rappresentanza, e del resto molte di esse si sono trasferite nelle nuove sedi (i Fori Imperiali) che si sono progressivamente affiancate a esso.
L’ultima stagione L’ultima fase di questo processo è riconoscibile negli interventi realizzati durante la tetrarchia, il nuovo regime di governo introdotto da Diocleziano a partire dal 293 d.C. La ristrutturazione della piazza fu facilitata dal grande incendio che, sotto Carino, aveva distrutto tutta l’area compresa tra il foro di Cesare e la basilica Giulia, e venne intrapresa in occasione della visita dei quattro imperatori a Roma, per celebrare il ventesimo anniversario dei due Augusti (Diocleziano e Massimiano) e il decimo dei due Cesari (Costanzo Cloro e Galerio). La base scolpita
che ancora si conserva davanti all’arco di Settimio Severo celebra precisamente quest’ultimo avvenimento (nell’iscrizione relativa si legge Caesarum decennalia feliciter): destinata a sostenere la statua di uno dei Cesari, essa, insieme ad altre tre, era collocata sui Rostri, come si può vedere in uno dei rilievi dell’arco di Costantino, dove è rappresentato il discorso nel foro di questo imperatore. In tale occasione, la piazza venne notevolmente ristretta, spostando piú in avanti i Rostri del tempio del Divo Giulio: è probabile che la nuova tribuna fosse destinata a commemorare la vittoria navale ottenuta da Costanzo Cloro contro l’usurpatore Carausio, che aveva occupato la Britannia. Lungo il lato meridionale della piazza vennero allora erette sette colonne onorarie; è anche probabile che nell’ultimo monumento del Foro, la colonna di Foca (608 d.C.), si debba riconoscere un monumento tetrarchico, successivamente ridedicato all’imperatore d’Oriente, che aveva donato il Pantheon alla Chiesa.
Base dei Decennali, pertinente a un monumento onorario eretto nel 303 d.C. in occasione dei vicennalia (anniversario dei venti anni di regno) di Diocleziano e Massimiano e dei decennalia (dieci anni) di Costanzo Cloro e Galerio. Nella foto è visibile il lato Ovest della base pertinente alla colonna di Costanzo Cloro, con una scena di sacrificio. Foro Romano.
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a visita di un sito storico dell’importanza e della complessità del Foro Romano (intendendo con questo nome la piazza pubblica di Roma, nel periodo compreso tra le origini e la fine dell’impero) dovrebbe svolgersi, nei limiti del possibile, secondo un ordine cronologico. Una tale scelta obbliga a qualche andirivieni, ma il vantaggio che ne deriva in termini di comprensione topografica e storica è innegabile. D’altra parte, alcune delle costruzioni piú antiche e piú importanti si trovano oggi al di fuori dell’area recintata, in particolare alle pendici del Campidoglio. Per questo, è inevitabile iniziare da esse, anche se ciò determina qualche ulteriore complicazione: si potrà comunque riconsiderarle piú avanti, in rapporto con la descrizione del Comizio.
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In alto ricostruzione ipotetica del settore settentrionale del Foro Romano in un acquerello del 1893. Da sinistra si riconoscono, in primo piano, la basilica Giulia, il tempio di Saturno, il tempio della Concordia e l’arco di Settimio Severo. A sinistra planimetria del Foro Romano: 1. Portico degli Dèi Consenti; 2. Tempio di Vespasiano; 3. Tempio della Concordia; 4. Carcere; 5. Chiesa dei SS. Luca e Martina; 6. Arco di Settimio Severo; 7. Ara di Saturno e Umbilicus Urbis; 8. Rostra di epoca cesariano-augustea; 9. Tempio di Saturno; 10. Lapis Niger; 11. Plutei traianei; 12. Colonna di Foca; 13. Basilica Giulia; 14. Lacus Curtius; 15. Curia Iulia; 16. Equus Domitiani (monumento equestre di Domiziano); 17. Colonna domizianea; 18. Equus Constantini; 19. Rostra del tempio del Divo Giulio; 20. Porticus Iulia; 21. Basilica Emilia; 22. Tempio dei Castori; 23. Fonte Giuturna; 24. Tempio di Vesta; 25. Tempio del Divo Giulio; 26. Regia; 27. Tempio di Antonino e Faustina; 28. Casa delle Vestali; 29. Domus Publica; 30. Edificio repubblicano; 31. Tempio di Romolo; 32. Basilica dei SS. Cosma e Damiano; 33. Basilica di Massenzio; 34. Edifici imperiali; 35. Arco di Tito; 36. S. Francesca Romana; 37. Tempio di Venere e Roma.
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area nord-ovest del foro romano L
e pendici del Campidoglio verso il Foro sono occupate da edifici databili tra le fasi originarie della città e il tardo impero. Il piú antico è il Carcere, ancora esistente sotto la chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami: si tratta, in realtà, del settore denominato Tullianum, le cui strutture piú antiche, come hanno mostrato scavi recenti, risalgono alle origini della città (VIII secolo a.C.). La facciata visibile sotto la chiesa, in blocchi di travertino, conserva ancora l’iscrizione dedicatoria, con i nomi dei consoli C. Vibio Rufino e M. Cocceio Nerva (di data incerta, ma comunque compresa tra il 39 e il 42 d.C.). Dalla porta, probabilmente non antica, si passa in un ambiente di pianta trapezoidale, costruito in opera quadrata di tufo: nella parete destra si riconosce un’apertura, ora tamponata, che dovrebbe corrispondere all’ingresso
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A destra le tre colonne superstiti del tempio di Vespasiano, dedicato dal Senato all’imperatore divinizzato. In basso veduta del Carcere detto Mamertino, sotto l’attuale chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami.
antico. Per una scala moderna si scende a un ambiente sottostante, di forma circolare, costruito in opera quadrata di peperino. È questo, probabilmente, il Tullianum, nel quale venivano gettati e poi strangolati i prigionieri di Stato: sorte che subirono, tra gli altri, Vercingetorige, Giugurta, alcuni dei partecipanti alla congiura di Catilina, Seiano e i suoi figli. Leggendaria è la tradizione medievale che vi riconosce il luogo di detenzione degli apostoli Pietro e Paolo. A ovest del Carcere saliva la scalinata antica diretta all’Arx, nota con il nome di scalae Gemoniae, dove venivano deposti dopo l’esecuzione i cadaveri dei giustiziati, precipitati dalla sovrastante rupe Tarpea. Questa scala doveva trovarsi piú vicina al Carcer rispetto a quella moderna, oltre la quale si trova il podio del tempio della Concordia, attribuibile nella forma attuale al restauro completato da Tiberio nel 10 d.C. In questa fase l’edificio assunse una forma a cella trasversale, piú larga che lunga (43 x 24 m), dovuta alla mancanza di spazio sul lato posteriore. Nella sua fase piú antica, tradizionalmente attribuita a Camillo e databile al 367 a.C., esso doveva presentare la forma tradizionale, che lasciava spazio ad altri due edifici costruiti successivamente: la basilica Porcia (184 a.C.) e la basilica Opimia (121 a.C.). La cella era preceduta da un pronao con colonnato esastilo, parti del quale sono conservate nella galleria del sovrastante Tabularium. Resta in situ la soglia della porta, costituita da due enormi blocchi di marmo Portasanta. Nella ricostruzione tiberiana, il tempio divenne una sorta di museo, e ospitava una serie di sculture, perlopiú di periodo ellenistico. Esso venne spesso utilizzato per le sedute del Senato: per esempio, Cicerone vi pronunciò la quarta Catilinaria. Lo spazio immediatamente a sud-ovest è occupato dal tempio di Vespasiano, che venne ad addossarsi al retrostante Tabularium, sbarrandone cosí la porta principale d’ingresso. Si tratta di un edificio di 33 x 22 m, dotato di un’ampia cella preceduta da sei colonne corinzie piú due laterali. Di queste rimangono in piedi le tre dell’angolo nord-ovest, che sostengono ancora un tratto di architrave
Frammento della trabeazione del tempio della Concordia, riferibile al restauro di epoca tiberiana, 7-10 a.C. Roma, Musei Capitolini.
decorato con strumenti sacrificali (un altro elemento dello stesso si conserva all’interno della galleria del Tabularium). Sul fregio resta la parola finale dell’iscrizione, ricostruibile in base a una trascrizione medioevale, che ricorda il restauro di Settimio Severo e Caracalla. All’interno della cella si conserva ancora la base del simulacro di culto, cui forse appartiene una grande testa di Vespasiano, ora nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’ultimo edificio sulla sinistra è il cosiddetto portico degli Dèi Consenti. Si tratta di un edificio in laterizio, costruito su due piani, nei quali si aprono rispettivamente otto e sette tabernae. Esso è preceduto da un porticato ad angolo con capitelli corinzi decorati con trofei, rialzato nel 1858, sul cui architrave si legge un’iscrizione che ricorda gli Dèi Consenti (consiglieri) e il restauro dell’edificio per opera di Vettio Agorio Protestato, uno degli ultimi senatori pagani. È probabile l’identificazione dell’edificio con quello scoperto nel XVI secolo, denominato Schola Xanthi dal nome del costruttore, menzionato in un’iscrizione ora perduta: l’edificio, di età domizianea, ne sostituisce uno piú antico, in cui si deve riconoscere l’archivio (Tabularium) dell’Erario, ospitato nel vicino tempio di Saturno, al quale probabilmente si collegano le tabernae, che dovevano avere la funzione di uffici amministrativi.
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Sepolcreto protostorico D
In basso Urna a capanna dalla tomba Y della necropoli del tempio di Antonino e Faustina. X sec. a.C. Roma, Antiquarium del Foro. A destra veduta del lato orientale del Foro Romano, con localizzazione della Regia e dell’area di rinvenimento del nucleo di sepolture protostoriche. Sullo sfondo, il tempio di Antonino e Faustina e il tempio di Romolo.
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all’ingresso su via dei Fori Imperiali, dopo essere scesi al livello antico passando tra la basilica Emilia e il tempio di Antonino e Faustina, si raggiunge, risalendo un breve tratto della via Sacra, una piccola area libera, immediatamente alla destra del tempio. Qui venne scoperto da Giacomo Boni, nel 1902, un sepolcreto protostorico, che si trova naturalmente a notevole profondità rispetto al livello attuale (di età imperiale). La pianta delle tombe, oggi risepolte, è indicata in superficie da piccole aree erbose che ne riproducono la forma. I materiali scoperti si trovano nell’Antiquarium del Foro (ex convento di S. Francesca Romana), nel quale sono esposti nella disposizione, ormai storica, realizzata da Giacomo Boni. Le tombe scavate sono 41, databili tra la fine dell’età del Bronzo e l’età del Ferro. Sei di esse (A, C, N, Q, U, Y) appartengono alla fase Laziale I (X secolo a.C.) e 12 (B, P, R, S, T, U, X, GG, HH, KK, PP) alla fase II B (IX secolo a.C.). Le prime sono a incinerazione: si tratta di urne a capanna, che contengono i resti cremati dei defunti e che riproducono con notevole precisione l’aspetto delle abitazioni. Insieme al corredo, costituito perlopiú da oggetti in miniatura, esse sono collocate entro grandi dolii in terracotta. Anche alcune tombe della seconda fase sono a incinerazione, ma prevale ormai il rito dell’inumazione. Con esse, all’inizio dell’VIII secolo, cessa qui la pratica di seppellire gli adulti; le tombe successive, databili fino all’inizio del VI secolo, appartengono a bambini di età non superiore ai sei anni, deposti entro sarcofagi ricavati da tronchi d’albero: essi potevano essere sepolti all’interno dell’abitato, in
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quanto considerati «non inquinanti». Tali tombe venivano denominate suggrundaria («[sepolcri] sotto le gronde»). È importante sottolineare che, a giudicare dalla ricchezza dei corredi, che comprendono anche vasi di importazione, si trattava certamente dei rampolli di famiglie aristocratiche, le cui abitazioni dovevano trovarsi nei pressi: la tradizione antica, infatti, ricorda la presenza in quest’area, ai piedi della Velia, della casa di P. Valerio Publicola, uno dei primi consoli della repubblica. Contemporaneamente alla scomparsa dal Foro delle tombe di adulti vediamo apparire la grande necropoli dell’Esquilino, scavata alla fine dell’Ottocento nei dintorni di piazza Vittorio: in questa si deve riconoscere il cimitero comune della città, la cui utilizzazione si prolungherà fino alla fine del periodo repubblicano. Ciò conferma che è ormai in corso la formazione di un abitato unitario, che viene a sostituire i precedenti villaggi dispersi: possiamo identificare in questo fenomeno l’inizio del processo che porterà alla nascita
della città vera e propria. Il sepolcreto del Foro rappresenta un residuo miracolosamente conservato di una piú ampia necropoli, che va attribuita, per la sua posizione a nord della via Sacra (che allora era solo un corso d’acqua) a un villaggio situato sulla vicina Velia, la cui remota antichità è confermata dalla presenza dei Velienses tra i piú antichi popoli del Lazio, elencati da Plinio. Nelle immediate vicinanze, subito oltre la via Sacra (e dunque alle estreme pendici del Palatino) si trovano i resti della Regia, ricostruita a partire dal 36 a.C. dal console di quell’anno, Cn. Domizio Calvino (i blocchi della decorazione marmorea relativi a questa fase sono collocati a terra, tutt’intorno), riprendendo fedelmente la pianta originaria, che risale, come hanno dimostrato gli scavi, ai primi anni della repubblica. Essa presenta una
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Qui sopra sezione della tomba Y (X sec. a.C.) della necropoli del tempio di Antonino e Faustina. La sepoltura, a dolio entro pozzo, era accompagnata da un corredo di vasi di impasto e da una fibula in bronzo. Le ceneri del defunto erano custodite all’interno di un’urna a capanna. Antiquarium del Foro. A sinistra pianta dell’area del Foro Romano tra il tempio di Vesta e la basilica Emilia: 1. Tempio di Vesta; 2. Arco Aziaco; 3. Tempio del Divo Giulio; 4. Regia; 5. Arco Partico; 6. Porticus Iulia; 7. Basilica Fulvia-Emilia; 8. Tempio di Antonino e Faustina.
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destinata un’abitazione particolare, l’Atrium Vestae. Resti di questa, di tarda età repubblicana, sono in parte visibili nei saggi di scavo realizzati al centro del successivo edificio di età imperiale, assai piú ampio, che incluse anche la primitiva domus publica, sede del pontefice massimo. Anche gli scarsi resti del tempio di Vesta appartengono a una ricostruzione tarda, realizzata all’inizio del III secolo da Giulia Domna, moglie di Settimio Severo. L’intera area, situata tra la via Sacra e la via Nova, era occupata in origine da un gruppo di edifici arcaici, nei quali vanno riconosciute le abitazioni dei re di Roma: la tradizione menziona in particolare la presenza,
In alto cippo marmoreo sul quale è un rilievo che rappresenta i Dioscuri, dalla Fonte di Giuturna. Età traianea. Roma, Antiquarium del Foro.
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forma trapezoidale, che dipende dalla sua collocazione tra due vie divergenti: la via Sacra a nord e il vicus Vestae a sud. Oltre a un cortile triangolare, l’edificio comprendeva tre soli ambienti allineati: da uno centrale d’ingresso si accedeva agli altri due, secondo un modello caratteristico delle case arcaiche. In quello piú grande, a ovest, che presenta un altare rotondo al centro, si identifica il sacrario di Marte, nel quale erano conservati gli scudi (ancilia) dei Salii, i sacerdoti del dio. Secondo la leggenda, uno di essi cadde dal cielo, mentre gli altri sarebbero stati copie, realizzate su questo modello dal mitico fabbro Mamurio Veturio. Nella Regia, come appare dal nome, si riconosceva l’abitazione del secondo re di Roma, Numa Pompilio, il fondatore della religione romana e in particolare del culto di Vesta: questo era celebrato nel vicino tempio di forma circolare, in cui ardeva il fuoco sacro della città, accudito da un particolare sacerdozio di vergini, le Vestali, alle quali era
nell’area compresa tra qui e la fine della via Sacra, delle dimore dei Tarquini. Subito a ovest del tempio di Vesta, e certamente in rapporto con esso, si trova un altro luogo di culto antichissimo, dedicato a Giuturna, dea delle acque che sgorgavano in quel luogo da una sorgente. Il bacino relativo, monumentalizzato in età repubblicana (Lacus Iuturnae), presenta al centro un basamento, su cui erano collocati in origine i simulacri marmorei dei Dioscuri, Castore e Polluce, realizzati probabilmente da L. Emilio Paolo intorno al 166 a.C. Queste sculture, scoperte da Boni all’inizio del secolo scorso, sono ora conservate nell’Antiquarium del Foro.
Il gruppo era destinato a rievocare una celebre leggenda, che narrava l’apparizione dei mitici gemelli in questo luogo, per abbeverare i cavalli e annunciare la vittoria riportata dai Romani sulla lega latina al lago Regillo, nel 499 a.C. In quell’occasione venne realizzato il vicino tempio dei Castori, di cui restano, oltre al podio monumentale, tre grandi colonne marmoree, pertinenti al restauro dedicato dal futuro imperatore Tiberio nel 6 a.C. Gli scavi recenti, dimostrando che la fase originaria dell’edificio risale effettivamente all’inizio del V secolo a.C., hanno confermato l’autenticità della tradizione relativa all’introduzione del culto.
In basso veduta dell’Atrium Vestae, la casa delle Vestali. Sullo sfondo la basilica di Massenzio.
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curia e comizio Veduta dei monumenti del lato occidentale del Foro Romano. In primo piano, da sinistra, i resti del tempio di Saturno, l’arco di Settimio Severo e la Curia Iulia, trasformata, dal VII sec. d.C., nella chiesa di S. Adriano. In secondo piano palazzo Senatorio e il Vittoriano.
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eguendo verso ovest il percorso della via Sacra si raggiunge l’estremità opposta del Foro dove, nella zona antistante all’edificio ancora esistente della Curia, si trovava il Comizio, successivamente eliminato, nel corso del I secolo a.C., dai grandi lavori realizzati nel periodo compreso tra Silla e Cesare. Si tratta dell’area destinata in origine all’attività politica e giudiziaria, separata dal Foro, che costituiva invece il luogo destinato prevalentemente alle attività commerciali. La distinzione tra i due settori era indicata dal diverso orientamento: il Comizio, infatti, era disposto secondo i punti cardinali, poiché le funzioni a cui era destinato richiedevano una particolare delimitazione di carattere religioso: si trattava infatti di un templum, cioè di un’area ritualmente delimitata dagli auguri. Lo scavo dell’area, realizzato da Giacomo Boni tra il 1899 e il 1900, ha rivelato la presenza di
resti antichissimi, risalenti fino al periodo dei re: un pavimento di marmo nero (Lapis Niger) aveva ricoperto in età cesariana, eliminandolo, un insieme di strutture precedenti, nelle quali si riconoscono un altare, una colonna che doveva sostenere la statua di culto e un cippo iscritto, la piú antica iscrizione latina di carattere pubblico che ci sia pervenuta (VI secolo a.C.). In conclusione, si tratta di un piccolo luogo di culto all’aperto, identificabile con il Volcanal, il santuario funzionale del Comizio, che la tradizione indicava come luogo della scomparsa di Romolo, che si sarebbe cosí trasformato nel dio Quirino, il dio delle Curie e dei Quirites, cioè dei cittadini romani riuniti in assemblea. Il testo dell’iscrizione permette di affermare, nonostante l’arcaicità della lingua e la conservazione solo parziale, che qui aveva luogo il sacrificio celebrato dal re, che dava luogo all’attività comiziale (comizi
arco di settimio severo
tempio di saturno
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In alto uno dei rilievi noti come Anaglifi o Plutei di Traiano, appartenenti in origine alla balaustra che racchiudeva il Fico Ruminale e la statua di Marsia e oggi esposti nella Curia. Vi si riconosce una scena di distruzione dei registri con i debiti fiscali dei cittadini verso lo Stato. Sullo sfondo sono rappresentati alcuni edifici del Foro: il Fico Ruminale e la statua di Marsia, la Basilica Giulia, il tempio di Saturno, un arco e il tempio del Divo Vespasiano. 103 d.C. circa.
Qui sopra pianta della Curia Iulia, la sede del Senato, nella sua fase di età tardo-imperiale; all’interno sono disposti i 300 seggi destinati ai senatori.
curia
curiati e processi). Al Comizio erano funzionalmente collegati, poco piú a ovest, il Carcer e il luogo delle esecuzioni (saxum Tarpeium), la rupe da cui venivano precipitati i condannati a morte. Le dimensioni ridotte del Comizio determinarono in seguito lo spostamento delle assemblee popolari (comitia) in altre zone: lo stesso Foro e il Campo Marzio. Ma le attività dei magistrati e del Senato continuarono a esercitarsi nello stesso luogo, dove si concentravano le strutture destinate a tali attività: la Curia Hostilia, a nord, affiancata dai tribunali; i Rostra a sud, in direzione del Foro, cioè la tribuna utilizzata dai magistrati per rivolgersi al popolo. Questa situazione si prolungò fino alla tarda età repubblicana quando (nel periodo compreso tra la metà del II secolo a.C. e Silla) i processi vennero progressivamente spostati nel Foro. Ciò determinò la scomparsa delle strutture a ciò destinate in precedenza, i tribunalia. Nel luogo originario sopravvissero solo la Curia e i Rostra. Con Cesare anche questi edifici furono eliminati, determinando la definitiva scomparsa del Comizio: la Curia fu trasferita piú a est, dove ancora si trova, a contatto del Foro di Cesare, allora costruito; i Rostra vennero spostati sul lato corto, occidentale del Foro. La definitiva obliterazione dell’area originariamente occupata dal Comizio si ebbe con la costruzione dell’arco di Settimio Severo, che richiese il rialzamento della via Sacra e del clivus Capitolinus che ne prolungava il percorso verso il Campidoglio, in funzione dei trionfi. L’imponente monumento a tre fornici (alto 20,88 m, largo 23,27, profondo 11,20), che scavalca la via all’inizio della salita, si può datare al 203 d.C. in base alla grande iscrizione, ripetuta sui due lati, che ricorda il trionfo di Settimio Severo e di Caracalla sui Parti e gli Adiabeni (il terzo nome, quello del secondo figlio dell’imperatore, Geta, venne cancellato dopo la sua uccisione da parte del fratello). Quattro colonne composite, disposte su ognuna delle facciate, inquadrano gli archi e quattro grandi pannelli di marmo, sui quali sono rappresentate a rilievo scene delle due campagne contro i Parti.
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itinerario foro romano
L’edificio della Curia Iulia fu restaurato piú volte in seguito, fino al IV secolo, e poi trasformato nel VII secolo nella chiesa di S. Adriano. L’aspetto attuale è il frutto di un restauro moderno, che ne ha restituito la forma originaria. Si tratta di una semplice costruzione in laterizio, coperta da un tetto a capriate. La facciata era rivestita in basso da lastre marmoree e in alto da un bugnato in stucco. La porta è una replica di quella originale, in bronzo, che dal XVII secolo chiude il portale principale di S. Giovanni in Laterano. Al di sopra, si aprono tre grandi finestre. La grande aula, di pianta rettangolare (lunga 27 m, larga 18, alta 21, secondo le proporzioni suggerite da Vitruvio) era conclusa in alto da un soffitto ligneo a cassettoni (l’attuale è moderno).
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Il pavimento marmoreo, in parte di restauro, è quello pertinente alla ricostruzione dioclezianea, successiva all’incendio del 283 d.C., a cui appartengono anche le nicchie disposte sulle pareti laterali, inquadrate da colonne. Delle tre sezioni longitudinali in cui l’ambiente è diviso, quelle laterali sono occupate da tre bassi gradoni, destinati ai seggi dei senatori. Tra le due porte che si aprono sulla parete di fondo si trova un largo basamento, destinato probabilmente alla statua della Vittoria e all’altare, intorno ai quali, alla fine del IV secolo d.C., si accese una celebre contesa tra uno degli ultimi pagani, Simmaco, e sant’Ambrogio, che ne richiedeva la rimozione (che in effetti venne ottenuta). Nella Curia sono esposti due rilievi marmorei dell’epoca di Traiano, collocati in origine nel Foro, che rappresentano scene dell’abolizione dei debiti fiscali (i relativi registri vengono bruciati nel Foro alla presenza dell’imperatore) e dell’istituzione degli alimenta, cioè di prestiti a basso interesse per gli agricoltori, i cui proventi erano utilizzati per il sostentamento dei fanciulli poveri. Sullo sfondo dei rilievi appaiono gli edifici principali del Foro, mentre sul rovescio sono rappresentati gli animali destinati al sacrificio dei suovetaurilia (sus, maiale, ovis, pecora, e taurus, toro). I Rostra di età imperiale, ancora visibili sul lato corto, occidentale del Foro, vennero inaugurati da Cesare poco prima della morte, nel 44 a.C. La facciata attuale in opera quadrata di tufo dell’Aniene, in gran parte di restauro, in cui si riconoscono i fori destinati a sostenere i pesanti rostri navali di bronzo, appartiene in effetti a un ampliamento di Augusto, che mascherava la facciata precedente, dovuta a Cesare: un tratto ben conservato di questa, ad arco di cerchio in pianta, conserva ancora la ricca decorazione marmorea originaria. Alle sue spalle si addossa la scalinata di accesso in travertino. All’estremità nord del monumento, una costruzione cilindrica in mattoni corrisponde all’Umbilicus urbis, citato da fonti tarde: la struttura attuale, di età severiana, ne sostituisce una piú antica, della fine del II secolo a.C., a cui appartengono elementi di travertino riutilizzati. Si tratta, verosimilmente, di un rifacimento del
Mundus, il luogo che designava il centro geometrico della città, che la tradizione antica attribuiva alla fondazione romulea, e che Plutarco localizza nei pressi del Comizio. Sul lato opposto dei Rostra, ai piedi del tempio di Saturno, i resti di una colonna marmorea, in origine rivestita di bronzo dorato, corrispondono al Miliarium aureum, la pietra miliare realizzata da Augusto, per indicare il punto di partenza ideale delle vie che si dipartivano da Roma. L’estremo settore nord-occidentale del Foro ha esercitato una funzione importante alle origini della città. Per questo aspetto è essenziale il suo collegamento con il Campidoglio, rimasto importante fino alla fine dell’impero, come testimonia la presenza del clivus Capitolinus. Tale ruolo fondamentale si riscontra anche nel mito delle origini, non solo in rapporto alla leggenda sulla presenza sabina nella fase «romulea», che riguarda piuttosto l’Arx, ma in rapporto a una fase immaginata come assai piú antica, che riguarda la prima frequentazione della sommità occidentale della collina, il Capitolium. Questo nome, infatti, viene considerato dagli autori antichi, probabilmente a ragione, il risultato della costruzione del tempio dedicato alla triade capitolina e quindi non anteriore al VI secolo a.C.: il nome piú antico sarebbe stato mons Tarpeius e, in una fase ancora precedente, mons Saturnius. Il motivo ne veniva spiegato tramite l’identificazione (certamente tarda) del greco Kronos con Saturno, il quale, espulso dal potere dal figlio Zeus, si sarebbe rifugiato nel Lazio e avrebbe
fondato una colonia sul Campidoglio. Tale leggenda troverebbe conferma nell’esistenza di un antichissimo altare di Saturno, collocato alle pendici del colle, in direzione del Foro. Un’altra leggenda collegava a Ercole la presenza di una colonia greca sul Campidoglio: in ogni caso, la precoce esistenza di un abitato nel luogo è confermata da scavi recenti, che hanno rivelato i resti di un insediamento dell’età del Bronzo Medio (a partire dal XIV secolo a.C.). È possibile in effetti che la presenza di un culto antichissimo di Saturno (depurata ovviamente della tarda identificazione con Kronos) possa trovare conferma in altri documenti: l’inaugurazione del tempio dedicato al dio, infatti, viene attribuita all’inizio della repubblica, ma la costruzione sarebbe stata iniziata già sotto i Tarquini. In ogni caso, l’edificio sarebbe stato aggiunto in un secondo tempo a un altare assai piú antico, che è forse possibile identificare: esso infatti doveva trovarsi nell’area antistante al tempio, dove in effetti si conservano ancora i resti di una struttura antichissima, in parte tagliata nel tufo naturale, identificati in genere con il Volcanal; tuttavia, la posizione accertata di quest’ultimo all’interno del Comizio e la sua probabile identificazione con il piccolo santuario del lapis Niger rendono preferibile l’attribuzione all’ara Saturni dei resti lungo il clivo Capitolino. Una conferma in tal senso si ricava da una notizia risalente a Varrone, secondo la quale il Mundus era addossato all’altare: in effetti, l’Umbilicus urbis (nel quale
In alto veduta del Foro Romano. Da sinistra: il tempio di Vespasiano, l’arco di Settimio Severo e il tempio di Saturno. Nella pagina accanto, in alto localizzazione del Lapis Niger; in basso l’area di culto arcaica rinvenuta nel 1899 da Giacomo Boni al di sotto del Lapis Niger e identificata con il Volcanal (santuario di Vulcano). Il complesso è costituito da una piattaforma sulla quale sorge un altare a tre ante, un tronco di colonna (forse una base di statua) e un cippo con iscrizione in latino arcaico (secondo quarto del VI sec. a.C.). Si tratterebbe di una lex sacra, un regolamento rituale e sacrificale.
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è possibile identificare il primo) si trova accanto ai resti del secondo. Tutta l’area è ancora dominata dalla mole del tempio di Saturno. Nella forma attuale, si tratta sostanzialmente dell’edificio ricostruito da L. Munazio Planco nel corso del suo consolato del 42 a.C. A questi anni appartiene il grande podio rivestito di lastre di travertino, mentre la facciata, con otto grandi colonne in granito grigio coronate da capitelli ionici in marmo bianco, appartiene a un restauro tardo, come dichiara l’iscrizione ancora visibile nel fregio, che ricorda la ricostruzione dopo un incendio per opera del senato e del popolo romano (senatus populusque Romanus incendio consumptum restituit). In onore del dio si celebrava l’importante festa di fine d’anno dei Saturnalia (17 settembre), con riti caratterizzati dall’inversione dei ruoli tra padroni e servi e festeggiamenti di tipo carnascialesco.
In basso rilievo in marmo greco dal Lacus Curtius, rappresentante la vicenda di Mettius Curtius, il guerriero sabino precipitato con il cavallo in una voragine durante la leggendaria guerra contro i Romani. I sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.
basiliche N
el corso del periodo repubblicano, dalla fine del IV secolo a.C., la piazza subí profondi rifacimenti, volti a modificarne le strutture in funzione delle nuove esigenze di una città in corso di rapido sviluppo. Alle arcaiche botteghe di generi alimentari che correvano lungo i lati lunghi (tabernae veteres a sud, tabernae novae a nord) si sostituirono gli uffici dei cambiavalute (tabernae argentariae) e successivamente, alle spalle di queste, le prime basiliche: già nei decenni finali del III secolo a.C. la prima di esse venne a occupare il luogo a nord della piazza dove in seguito, nel 179 a.C., venne costruita la basilica Emilia. Sul lato opposto, meridionale, venne costruita nel 169 a.C., la basilica Sempronia (poi sostituita da Cesare con la basilica Giulia). Già nel 184 a.C. Catone il Censore aveva realizzato una piccola basilica accanto al Comizio (ora scomparsa), la basilica Porcia che, per la sua posizione, doveva ospitare i processi. Con questi interventi, il Foro assunse per la
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prima volta una forma monumentale e piú regolare. Il tipo edilizio della basilica consisteva sostanzialmente in una grande sala allungata, dotata di colonnati che la dividevano in tre navate (il modello architettonico adottato in seguito per le piú antiche chiese cristiane). Si trattava di edifici polifunzionali, destinati a ospitare nel periodo invernale le operazioni finanziarie, i processi e tutte le altre attività che in genere si svolgevano nel Foro: in altri termini, essenzialmente di «Fori coperti». La basilica Emilia, piú volte restaurata, conservò sempre la pianta originaria, con la sola aggiunta, sul lato nord, di una quarta navata oltre alle tre originarie. Nell’aspetto attuale, si tratta di una costruzione di età augustea: essa era preceduta, verso il Foro, da una galleria ad arcate su pilastri con semicolonne, entro il quale era disposta una serie di botteghe realizzate in opera quadrata di tufo. L’interno (70 x 29 m circa), a cui si accedeva per tre ingressi, era diviso in quattro
Veduta della basilica Giulia, dal Campidoglio. L’edificio occupa tutta l’area compresa tra il tempio di Saturno e il tempio dei Castori. Dell’edificio si conserva il basamento che sorge su alcuni gradini; i pilastri in mattoni sono di restauro ottocentesco. In primo piano la colonna di Foca, ultimo dei monumenti onorari del Foro, dedicato dall’esarca Smaragdo all’imperatore Foca (608 d.C.).
navate da colonne di marmo detto «africano» (in realtà, dell’Asia Minore). Un lungo fregio di marmo bianco, con rappresentazione dei miti di fondazione della città (ora all’Antiquarium del Foro), doveva correre lungo l’architrave centrale. Nel corso del saccheggio dovuto alle truppe di Alarico (410 d.C.) l’edificio fu dato alle fiamme: il pavimento pertinente al restauro successivo ha ricoperto una grande quantità di monete fuse, di cui restano tracce evidenti. La basilica Giulia, che sorge sul lato opposto del Foro, occupa l’intera area compresa tra il tempio dei Castori e quello di Saturno. Si tratta del piú grande edificio del genere costruito nel Foro (101 x 49 m), iniziato da Cesare a partire probabilmente dal 54 a.C. e completato da Augusto. Distrutta da un incendio nel 9 a.C., essa venne subito ricostruita e dedicata ai nipoti e figli adottivi di Augusto, Gaio e Lucio Cesari. Nella forma attuale, si tratta della ricostruzione realizzata dai tetrarchi dopo l’incendio che distrusse il Foro nel 283 d.C., sotto Carino. L’edificio, in stato di conservazione piú che mediocre, a causa dei molti saccheggi subiti, si articola in cinque navate, divise da file di pilastri: quella centrale misura 82 x 18 m. Sappiamo che in età imperiale essa era utilizzata per i processi e ospitava anche uffici, come quello che riscuoteva le imposte della provincia d’Asia (portorium Asiae). L’area centrale della piazza conserva in gran parte il pavimento di lastre di travertino, di età augustea, che l’iscrizione ancora incisa su di esso, con il nome di L. Naevius L. f. Surdinus, pretore peregrino (magistrato a cui spettava l’esercizio della giurisdizione nelle controversie tra cittadini romani e stranieri, o tra stranieri, n.d.r.), permette di attribuire al rifacimento successivo all’incendio del 9 a.C. Per renderla visibile venne demolita, all’inizio del secolo scorso, una parte dei gradini appartenenti alla base della colonna di Foca, il piú tardo monumento del Foro, realizzato (come si legge nell’iscrizione) nel 608 d.C. in onore di un imperatore d’Oriente, che aveva donato alla Chiesa il Pantheon. Poco piú a est si trova un’area trapezoidale leggermente depressa, che conserva la
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Veduta del podio del tempio del Divo Giulio, in primo piano a sinistra. Al centro, in secondo piano, il tempio di Vesta.
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pavimentazione cesariana in lastre di travertino e la precedente in tufo. Al centro di essa, entro un dodecagono in cappellaccio, si trova un basamento circolare con un foro al centro. Due incassi rettangolari potevano alloggiare altari, ora scomparsi. L’insieme è identificabile con il lacus Curtius, come dimostra un tratto di balaustra marmorea (sostituita da un calco: l’originale, scoperto nel 1553, è conservato nella galleria del Tabularium) con un rilievo che rappresenta il mito di Mettius Curtius, il cavaliere sabino che, nello scontro tra Romolo e Tito Tazio, sarebbe sprofondato in una voragine nel centro del Foro. Sull’altro lato è incisa l’iscrizione di L. Naevius Surdinus, identica a quella che si legge sulla pavimentazione augustea, che prova l’intervento dello stesso magistrato nella sistemazione del monumento, probabilmente identificabile con un antichissimo santuario delle divinità infernali. Allo stesso episodio mitico rimanda il piccolo sacello di Cloacina, di cui si vedono ancora i resti tra la via Sacra e la scalinata della basilica Emilia: vi si identificava il luogo dove l’intervento delle Sabine avrebbe posto termine allo scontro tra i loro padri e i loro mariti. In realtà, si trattava del luogo di culto della divinità tutelare della sottostante Cloaca Maxima (Cloacina, poi identificata con Venere). Il sacello, rappresentato in una moneta repubblicana, consisteva in una semplice area circolare recinta da una balaustra, che conteneva due statue di culto. Ne resta ancora il basamento circolare in marmo, con la soglia della porta.
Il lato corto orientale del Foro è occupato dai resti del tempio del Divo Giulio, dedicato da Augusto nel 29 a.C. a Cesare, suo padre adottivo divinizzato. A causa del saccheggio dei blocchi di tufo che costituivano gli elementi portanti del podio, rimangono di questo solo le parti secondarie in opera cementizia. Due scale laterali permettevano di salire al tempio, che presentava una cella preceduta da sei colonne corinzie, piú due laterali. Nella parte anteriore del podio è ricavata una nicchia semicircolare, chiusa in un secondo tempo, all’interno della quale si trovano i resti di un altare semicircolare, che indicava forse il luogo preciso dove il cadavere di Cesare era stato cremato dalla folla tumultuante. Si ritiene in genere che i «Rostri del Divo Giulio» ricordati dalle fonti antiche, una tribuna simmetrica a quella tradizionale, collocata sul lato opposto del Foro (alla quale erano affissi i rostri delle navi catturate alla battaglia di Azio contro Antonio e Cleopatra), non fossero altro che lo stesso podio del tempio. Tuttavia, la presenza della nicchia, che impediva di utilizzare la parte centrale della piattaforma, rende probabile l’identificazione del monumento con l’ampia area rettangolare (pertinente a un edificio distrutto, piú o meno delle stesse dimensioni dei Rostra) che si trova davanti al tempio. Oltre al tempio del Divo Giulio, altri templi del culto imperiale sorgevano nelle adiacenze del Foro: il primo di essi, dedicato ad Augusto, si trovava certamente in un’area non scavata alle spalle della basilica Giulia, all’inizio del vicus Tuscus. Quello di Vespasiano, già descritto in
precedenza, occupava le pendici orientali del Campidoglio, accanto al tempio della Concordia. L’ultimo per data, il tempio di Antonino e Faustina, è ancora conservato lungo la via Sacra, di fronte alla Regia. Si tratta di un grande edificio, che si innalza su un alto podio in opera quadrata di peperino, originariamente rivestita di marmo. Davanti alla cella (ora occupata dalla chiesa di S. Lorenzo in Miranda), alla sommità di una scalinata in gran parte di restauro moderno, al centro della quale si distinguono i resti dell’altare, si trova un profondo pronao: la facciata comprende sei colonne di marmo cipollino con capitelli corinzi di marmo bianco, piú due per lato. Il fregio marmoreo sovrastante reca una decorazione a rilievo con coppie di grifoni affrontati a motivi vegetali. Nell’iscrizione sull’architrave si legge, su due righe, la dedica ad Antonino Pio e alla moglie Faustina Maggiore: il tempio, realizzato alla morte di questa, avvenuta nel 141 d.C., fu in seguito dedicato anche all’imperatore, morto nel 160. La scelta del luogo si spiega forse con la vicinanza della Regia, attribuita a Numa Pompilio: Antonino Pio venne infatti considerato dalla propaganda imperiale come un secondo Numa. Percorrendo la via compresa tra il tempio dei Castori e la basilica Giulia, si raggiunge il punto occupato in antico dalla statua di Vertumnus, il «dio principale dell’Etruria»: il simulacro, dovuto secondo la tradizione a Tarquinio Prisco, sarebbe stato collocato all’inizio del vicus Tuscus, e cioè, come indica il nome, del quartiere abitato in età arcaica dagli Etruschi, giunti a Roma al seguito del re.
In questo luogo si deve collocare l’atrio del palazzo di Caligola, che aveva ampliato la precedente domus Tiberiana, portandone l’ingresso all’altezza del tempio dei Castori: resti dell’edificio sono apparsi nel corso di scavi recenti. Nella gigantesca costruzione in laterizio che occupa l’area, identificata in passato con il tempio di Augusto o con un ingresso al Palatino, si deve invece riconoscere la biblioteca della domus Tiberiana, opera di Domiziano. Un’appendice di questa dovrebbe essere l’edificio antico, in seguito occupato dalla chiesa di S. Maria Antiqua, da cui ha inizio una grande rampa che collegava la biblioteca al palazzo sovrastante.
Il tempio di Antonino e Faustina, eretto nel 141 d.C. da Antonino Pio in onore della moglie Faustina, morta in quell’anno e divinizzata. Il monumento è stato riutilizzato, in età altomedievale, trasformandolo nella chiesa di S. Lorenzo in Miranda.
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velia In alto, sulle due pagine veduta dell’area orientale del Foro Romano.
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T
ornando alla via Sacra, è possibile visitare alcuni edifici importanti del settore tra Foro e Palatino, caratterizzato dalla presenza di una piccola sommità, la Velia. L’antica via, che si inerpicava con andamento irregolare da ovest a est e la cui parte finale, diretta alle Carine (e cioè alla località situata alle spalle della Velia), continuava in origine sotto la successiva struttura del tempio di Venere e Roma (e non, come si ritiene comunemente, in corrispondenza della via ancora esistente tra l’arco di Tito e il Colosseo, che si può identificare invece con il vicus Curiarum, come vedremo). In seguito, dopo l’incendio neroniano del 64 d.C., essa assunse un aspetto totalmente diverso: il nuovo percorso,
assai piú largo e rettilineo, si concludeva infatti all’altezza del tempio di Venere e Roma, come si può facilmente constatare e come afferma esplicitamente Galeno (il grande medico di età antonina, che abitava in questa zona). In precedenza, come è noto, al posto del tempio si trovava il vestibolo della Domus Aurea di Nerone, dove sorgeva la gigantesca statua bronzea del Colosso, successivamente spostata da Adriano accanto al Colosseo. Salendo lungo la via, dopo il tempio di Antonino e Faustina si raggiunge un edificio rotondo in laterizio coperto a cupola, noto come tempio di Romolo. La costruzione, certamente databile all’inizio del IV secolo d.C., sembra da collegare alla vicina e
contemporanea basilica di Massenzio. Nel VI secolo esso venne collegato alla basilica dei SS. Cosma e Damiano, sorta nell’ambito del Templum Pacis. La facciata, in origine piana, fu sostituita in un secondo tempo da una fronte concava, che conservò fino al XVI secolo un’iscrizione dedicatoria in cui appariva come dedicante il nome di Costantino. In essa si aprono quattro nicchie, destinate a ospitare statue. Il portale, fiancheggiato da due colonne di porfido con capitelli di marmo bianco, conserva ancora la porta originaria di bronzo. Ai lati del corpo centrale si affiancano due ambienti absidati stretti e lunghi, preceduti ognuno da due colonne di cipollino su alti plinti. Che l’edificio, nella sua forma originaria, sia opera di Massenzio sembra accertato: oltre all’iscrizione costantiniana pertinente alla seconda fase, che sembra destinata a sostituire quella originaria, va ricordata la
A sinistra il tempio circolare di Romolo, dedicato dall’imperatore Massenzio al figlio, morto prematuramente nei primi anni del IV sec. d.C. La porta bronzea, fiancheggiata da due colonne in porfido, è quella originale.
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moneta coniata dallo stesso Massenzio, in cui appare un edificio del tutto identico, anch’esso affiancato da due ambienti laterali. La scritta aeternae memoriae che vi si legge attesta che si trattava di un edificio destinato al culto di un defunto, nel quale non è possibile non riconoscere il figlio stesso dell’imperatore, morto giovanissimo (ad appena sedici anni) e divinizzato. Poco piú avanti si apriva sulla via Sacra, tramite un protiro costituito da quattro colonne di porfido, che sorgeva alla sommità di una scalinata, uno degli ingressi principali della basilica di Massenzio. L’area, che faceva parte della Velia, era occupata in precedenza da un grande complesso commerciale, realizzato da Domiziano: gli horrea piperataria, letteralmente, i «magazzini del pepe», da intendere però, in senso lato, come spezie e anche medicine. Come si deduce dalle menzioni nelle opere del piú celebre medico dell’epoca, Galeno, che abitava in questo quartiere, si trattava, in realtà, di una sorta di grande farmacia di Stato. Di fronte a essa, sull’altro lato della via Sacra, l’estesa area ai piedi del Palatino era occupata da un altro grande complesso di magazzini, probabilmente granari, identificati con gli horrea Vespasiani, la cui costruzione sembra dovuta al primo imperatore della dinastia flavia.
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In basso testa colossale di Costantino, rinvenuta nel 1487 nella basilica di Massenzio. Roma, Musei Capitolini. In alto la basilica di Massenzio. Inizi del IV sec. d.C.
La monumentale basilica di Massenzio si sostituí agli horrea piperataria dopo un grande incendio che distrusse la zona nel 307, coinvolgendo il tempio di Venere e Roma, anch’esso ricostruito dallo stesso imperatore. Essa venne realizzata negli anni compresi tra il 307 e il 308, probabilmente da Attius Insteius Tertullus (prefetto urbano in quegli anni e ricordato da un’iscrizione trovata alle spalle della basilica) in qualità di soprintendente di una fabrica, che può essere solo la basilica. Dopo la morte di Massenzio alla battaglia di ponte Milvio, nel 312, l’edificio fu ridedicato al vincitore e assunse il nome di basilica Constantini. Esso misura 80 x 25 m, e l’altezza della navata centrale raggiungeva in origine i 35 m. L’ingresso principale si apriva a est, di fronte a un’abside, nella quale era collocata la gigantesca statua marmorea, ora esposta nel cortile del palazzo dei Conservatori, sul Campidoglio: le chiare tracce di rilavorazione, che l’hanno trasformata in un ritratto di Costantino, dimostrano che in origine si trattava di un’immagine di Massenzio. La navata centrale, crollata, era costituita da tre volte a crociera ed era affiancata a nord e a sud da due ali minori, ognuna costituita da tre ambienti coperti con volte a botte: al centro di
quella settentrionale, la sola conservata, venne aperta piú tardi, alla fine del IV secolo, una seconda abside, in cui si dovrebbe identificare il secretarium utilizzato per i processi a porte chiuse. Delle otto colonne che sostenevano le crociere l’unica conservata si trova dal 1613 in piazza di S. Maria Maggiore, dove è stata inglobata in un monumento alla pace, realizzato da Carlo Maderno e coronato da una statua della Vergine con il Bambino. La funzione del grandioso edificio si spiega con la presenza alle sue spalle, sulle Carinae, degli uffici della Prefettura urbana, che divenne a partire dal IV secolo l’istituzione principale della città, cumulando le funzioni amministrative e giudiziarie (mentre quelle politiche si erano ormai trasferite nella nuova capitale, Costantinopoli). Si trattava dunque della basilica giudiziaria utilizzata nel corso del periodo tardo-antico. La via Sacra si conclude davanti alla gradinata del tempio di Venere e Roma. Realizzato da Adriano e dedicato il 21 aprile del 135 d.C., il monumento occupa lo spazio compreso tra la
Il tempio di Venere e Roma visto dal Colosseo.
basilica di Massenzio e il Colosseo, nel quale, in precedenza, si trovava il vestibolo della Domus Aurea neroniana. In tale occasione, il colosso bronzeo che vi si trovava venne spostato accanto al Colosseo, utilizzando un tiro di ventiquattro elefanti. L’alto podio, che poggia in parte su sostruzioni ad arcate, misura 145 x 100 m. Il progetto sarebbe opera dello stesso imperatore, e avrebbe attirato le critiche del grande architetto di Traiano, Apollodoro di Damasco, che per questo avrebbe trovato la morte. La parte centrale del basamento, delimitato da colonnati, era occupata dal tempio, dotato di dieci colonne sulla fronte e venti sui lati lunghi, delle quali nulla si è conservato. Viceversa, restano al centro le due absidi contrapposte, che concludevano le due celle destinate alle divinità: Roma verso il Foro, Venere verso il Colosseo. Meglio conservata è la prima, ora visibile nell’Antiquarium del Foro, con resti delle grandi colonne di porfido che scandiscono le pareti. Si tratta comunque di strutture dell’età di Massenzio, pertinenti al restauro realizzato dopo l’incendio del 307.
il palatino
la prima
roma
I
l Palatino occupa, all’interno del sistema costituito dai sette colli tradizionali, una posizione centrale: affiancato sui lati dal Campidoglio e dall’Aventino, si affaccia come questi verso il Tevere, ma con una posizione piú arretrata, che lascia un ampio spazio tra le sue pendici e il fiume: un’area fondamentale per le sorti della città futura, collegata alle rive nel punto in cui la corrente rallenta, a valle dell’Isola Tiberina, offrendo la possibilità di un traghetto verso la riva etrusca e di un comodo approdo per le navi che risalivano la corrente. E, infatti, qui si trovavano il piú antico ponte di legno, il Sublicio, e il piú antico porto, il portus Tiberinus. La tradizione antica, che riconosce nel Palatino il luogo di formazione della città delle origini, corrisponde probabilmente alla realtà: gli scavi recenti hanno addirittura rivelato su di esso la presenza di resti di industria litica riferibile al Paleolitico. Comunque, è assai piú tardi, verso la fine dell’età del Bronzo e l’inizio dell’età del Ferro, che appaiono le manifestazioni piú consistenti di un abitato, le celebri capanne dell’angolo meridionale della collina. Una serie di narrazioni leggendarie, centrate intorno al nome dei gemelli fondatori e collegate a rituali antichissimi, come quello del Luperci, dimostra se non altro la concentrazione in questo luogo dei principali miti di fondazione della città: ciò che dovrebbe corrispondere alla coscienza, a lungo tramandata, della rilevanza di questo luogo particolare. Su questo strato originario sono andate accumulandosi versioni successive del mito, che ne hanno modificato, e spesso deformato, l’aspetto
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di Filippo Coarelli
In alto, a sinistra didracma in argento con l’immagine della lupa che allatta Romolo e Remo. Coniato a Roma tra il 269 e il 266 a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. Sulle due pagine Roma, Palazzo dei Conservatori, sala degli Orazi e Curiazi. Romolo traccia il solco della città quadrata, affresco del Cavalier d’Arpino (al secolo Giuseppe Cesari; 1568-1640).
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il palatino
N
C D
palatino
scalae caci
velabro
germalus lupercale
foro boario
circo
mass
imo
B
A originario, in relazione a esigenze ideologiche e propagandistiche dei poteri emergenti della città repubblicana e imperiale: di questi interventi di attualizzazione a fini politici il piú rilevante è quello augusteo, che, non a caso, tuttora condiziona la nostra visione della Roma delle origini. Ancora oggi, dopo secoli di critica storiografica anche radicale, non manca chi ritiene di poter utilizzare questo complesso e intricato materiale come testimonianza diretta di realtà originarie, confrontabile senza mediazioni con i dati forniti dall’esplorazione archeologica, con risultati quanto meno mistificatori, anche se di grande successo presso il pubblico dei non addetti ai lavori.
La testimonianza di Tacito È quindi opportuno esaminare almeno un esempio, ma di particolare rilevanza, di tali tradizioni sulle origini, per mostrare quanto sia necessaria l’analisi preliminare, innanzitutto filologica, delle fonti tramandate fino a noi, prima di adottarle come «verità» storiografiche. Si tratta della descrizione tacitiana del pomerio (confine sacro di Roma e delle colonie romane, n.d.r.) romuleo del Palatino, l’unica disponibile, almeno per completezza e precisione, che ci sia pervenuta: «Ritengo che non sia assurdo conoscere l’inizio di questa pratica di fondazione, e l’aspetto del pomerio di Romolo. Cosí, dal Foro Boario, dove vediamo ancora la
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In alto, a sinistra la «Roma Quadrata» e i luoghi romulei del Palatino. In tratteggio, il pomerio della città palatina secondo lo storico Tacito. A. Ara Maxima; B. Ara Consi; C. Curiae Veteres; D. Sacellum Larundae.
statua dorata di un toro, ebbe inizio il solco che delimitava la città, in modo da includere l’Ara Massima di Ercole (A); da qui, disponendo cippi a distanze regolari lungo le falde del monte Palatino, fino all’ara di Conso (B), poi alle Curie antiche (C), infine al sacello di Larunda (D); quanto al Foro Romano e al Campidoglio, si crede che siano stati annessi alla città non da Romolo, ma da Tito Tazio» (Tacito, Annali, 12,24). Questa descrizione genera problemi non lievi. Ma, soprattutto, va contestualizzata: ponendosi in primo luogo la domanda sulla ragione per cui Tacito, che non si occupa di storia delle origini, abbia introdotto l’argomento. Ora, basta risalire di poche pagine per rendersi conto che si tratta di una parentesi, introdotta a proposito della creazione da parte di Claudio di un nuovo pomerio, nel 49 d.C. Inoltre, che il testo è ricavato direttamente da un documento ufficiale dell’imperatore, come dichiara piú avanti lo stesso Tacito. D’altra parte, sono noti gli interessi eruditi di Claudio, e noti sono anche i motivi dell’estensione allora realizzata del pomerio, la prima di età imperiale: motivi ideologici e politici certamente legati all’attualità. Non si tratta, dunque, di una relazione qualsiasi sul pomerio di Romolo, bensí della particolare interpretazione di questo mito da parte dell’imperatore. Ciò permette di spiegare al meglio l’indicazione
iniziale, che riconosce nell’Ara Massima di Ercole il punto di partenza del pomerio romuleo: indicazione del tutto isolata, e che contrasta con le altre versioni antiche. Appare infatti evidente che l’Ara Massima non si trova ai piedi del Palatino, ma dell’Aventino (oggi in corrispondenza della chiesa di S. Maria in Cosmedin), e quindi che tale anomalia è un elemento nuovo, inventato dallo stesso Claudio. I motivi di tale invenzione appariranno evidenti, se consideriamo il fatto che l’ampliamento claudiano, consistente in pratica nell’inserzione dell’Aventino entro il nuovo pomerio, ebbe inizio precisamente dall’Ara Massima, come dimostra la numerazione progressiva dei cippi rinvenuti in situ. Come pure il fatto che la gens Claudia, di origine sabina, annoverava tra le sue divinità ancestrali proprio Ercole, dio sabino per eccellenza.
Tradizioni inventate Il punto iniziale del pomerio romuleo, dunque, non è altro che il punto iniziale del pomerio claudio: con un procedimento per lui caratteristico, l’imperatore proiettava cosí la sua operazione su quella del fondatore, sfruttando cosí un exemplum prestigioso, a costo di mistificare a suo vantaggio, e senza troppi scrupoli, la tradizione corrente. Come è facile capire, sarebbe quanto meno rischioso utilizzare questa «tradizione» manipolata come fonte
Veduta del Palatino dal Circo Massimo: a sinistra il palazzo di Domiziano; a destra le sostruzioni del palazzo severiano.
attendibile sul «reale pomerio di Romolo». D’altra parte, anche il modello a cui si ispirò Claudio, pur modificandolo a suo vantaggio, è suscettibile di una critica analoga. Sappiamo che esso risale ad Augusto, che possiamo considerare il vero «inventore» di molte tradizioni romulee. Non è difficile identificare il punto di partenza da cui, in questa redazione, doveva aver inizio il solco di Romolo: non può trattarsi che del Lupercale, la grotta ai piedi dell’angolo meridionale del Palatino (il Germalo, n.d.r.) nella quale aveva avuto luogo il ritrovamento dei gemelli, l’allattamento da parte della lupa, e dove si era poi svolta la prima parte della loro esistenza. Non è certo un caso se proprio qui, dove si sarebbe trovata la casa Romuli («la capanna di Romolo»), Augusto, il secondo fondatore di Roma, aveva scelto di abitare. Nella redazione augustea, solo da qui Romolo poteva aver iniziato il suo solco, procedendo poi fino al secondo angolo della collina, l’ara di Conso (e cioè fino alle mete meridionali del Circo Massimo); poi fino al terzo (le curiae Veteres, presso la Meta Sudans) e infine al quarto (il sacello di Larunda, all’inizio del Velabro): realizzando in tal modo i limiti della Roma quadrata. Per quanto si tratti di una costruzione piú coerente, il suo carattere fittizio apparirà chiaro, se teniamo conto di una serie di dati. L’accuratezza con cui il modello è costruito (da parte di Augusto, o meglio di un antiquario
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il palatino
Ricostruzione prospettica del Palatino, da sud, con i palazzi imperiali affacciati sul Circo Massimo.
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della sua corte) risulta dalla scelta dei luoghi che debbono configurare i quattro angoli del Palatino, che sono effettivamente connessi con Romolo: cosí naturalmente il Lupercale, cosí l’ara di Conso (cioè il Circo, luogo del mitico ratto delle Sabine), le curiae Veteres, sede delle circoscrizioni gentilizie della città, opera di Romolo, e anche il sacello di Larunda (cioè Acca Larentia, la leggendaria nutrice dei gemelli). Ma al tempo stesso, questi luoghi sono collegati, almeno in due casi, con lo stesso Augusto: ancora il Lupercale (casa Romuli e casa di Augusto) e, soprattutto, le curiae Veteres, luogo di nascita del primo imperatore. Non a caso, quest’ultimo luogo venne scelto come punto centrale (segnato dalla piú antica Meta Sudans augustea) della nuova città delle XIV regioni creata da Augusto. Ancora una volta, costruzione della città romulea e costruzione della città augustea si sovrappongono, e la prima serve come supporto mitico della seconda. E, di nuovo, l’aspetto artificiale di questa invenzione non autorizza il suo impiego come documento utile alla comprensione della Roma delle origini. A monte di queste ricostruzioni erudite, non c’era il vuoto, bensí, probabilmente, il ricordo nebuloso di una realtà originaria collegata al Palatino, che si poteva trasmettere solo in un modo: cioè attraverso la ripetizione periodica di
un rito ancestrale, che per fortuna siamo in grado di riconoscere. Si tratta della festa arcaicissima dei Lupercalia, durante la quale i sacerdoti-lupi, i Luperci, correvano seminudi intorno alla collina, celebrando, come ricorda Varrone, un rito di lustrazione (cioè di purificazione) dell’antiquum oppidum Palatinum, cioè della città di Romolo. Il cerchio che in tal modo essi descrivevano è l’unico elemento originario che permetta di identificare il percorso di un eventuale pomerio palatino, in base al quale furono poi elaborate, per evidenti motivi politico-ideologici, le varie redazioni del mito che abbiamo illustrato.
I vici del Palatino La nuova sistemazione della città, avviata da Augusto nel 7 a.C., prevedeva la divisione in 14 quartieri (regiones) che dovevano sostituire le quattro della Roma del VI secolo a.C., attribuite a Servio Tullio: in questa organizzazione, al Palatino toccò il numero X. Ciascun settore comprendeva, a sua volta, un certo numero di quartieri, detti vici, il cui nome era attribuito anche alla via principale di ognuno di essi. Nel caso del Palatino, i Cataloghi Regionari (un testo del IV secolo d.C., probabilmente ricavato da documenti ufficiali della Prefettura urbana) indicano il numero complessivo di 20 vici. Non può trattarsi di una realtà di età costantiniana, quando il Palatino era ormai quasi completamente occupato dai palazzi imperiali: deve quindi trattarsi del totale dei quartieri esistenti al momento dell’organizzazione augustea, che in seguito dovettero sensibilmente diminuire. Una conferma definitiva di questa tesi si ricava da un documento di età adrianea (piú precisamente del 136 d.C.), la cosiddetta Base Capitolina: si tratta del basamento di una statua dell’imperatore, dedicata (insieme ad altre tre non conservate), dai magistri vicorum di 5 delle 14 regioni urbane, tra cui quello della X Regio, cioè quella del Palatino. I vici presenti sulla collina in quel momento sono solo sei, dei quali ci vengono anche indicati i nomi: vicus Padi, vicus Curiarum, vicus Fortunae Respicientis, vicus Salutaris, vicus Apollinis, vicus huiusque diei. Il numero dei vici, da Augusto ad Adriano,
era dunque diminuito di ben 14 unità: un dato che non sorprende, considerata l’enorme espansione dei palazzi imperiali, che ormai occupavano quasi l’intera collina. Il fatto è poi confermato da un’iscrizione di età tiberiana, che menziona un vicus il cui nome, anche se mutilo, non corrisponde ad alcuno di quelli della Base Capitolina, ed è quindi certamente riconducibile a uno di quelli scomparsi. Appare curioso che nessuno abbia pensato di sovrapporre questa lista «ridotta» alla realtà archeologica del Palatino, come ora si presenta. In effetti, non solo la collina è una delle pochissime aree urbane interamente scavate, ma, soprattutto, la sua situazione attuale è piú o meno quella di età adrianea: essa dovrebbe quindi corrispondere esattamente alla situazione dei vici documentata dalla Base Capitolina. Sembra quindi possibile sovrapporre le due realtà, quella epigrafica e quella archeologica.
Le strade del Palatino Non può essere un caso che le vie antiche del Palatino, riconoscibili nell’area scavata, siano precisamente sei ed è notevole che nessuno
dei nomi a esse modernamente attribuiti corrisponda a quelli documentati dalla Base Capitolina: risulta dunque evidente la possibilità di identificarne i nomi antichi attraverso questo documento. Occorre sottolineare, in primo luogo, che una caratteristica che connota quasi tutte le vie documentate archeologicamente sul Palatino è la loro natura periferica: esse si svolgono cioè ai limiti delle aree costruite, perlopiú pertinenti ai palazzi imperiali. È esattamente quanto siamo in diritto di aspettarci per realtà che appaiono ormai del tutto residuali. 1. Partiamo comunque dall’unica eccezione a questa regola: la via in salita (identificata con un inesistente clivo Palatino) che dall’arco di Tito conduce in linea retta verso la cosiddetta Domus Flavia e, dopo averla aggirata a destra, si conclude al tempio di Apollo: non può trattarsi altro che del vicus Apollinis, per il quale, del resto, non ci sono altri candidati. 2. La strada che collega l’arco di Tito con la Meta Sudans (erroneamente identificata con la via Sacra), per i motivi ricordati in precedenza, non può essere che il vicus Curiarum, dal momento che conduce alle curiae Veteres,
Particolare della grande pianta di Roma disegnata da Étienne Dupérac nel 1577. Al centro è ben riconoscibile il Colosseo, sopra al quale è il Palatino, all’epoca frazionato in orti e ville private.
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In alto proposta di ricomposizione grafica del frontone in terracotta da via di San Gregorio, conservato ai Musei Capitolini. Al centro è Marte, stante e armato; a sinistra, Fortuna Respiciens, la dea titolare del tempio; a destra, Fortuna Redux. Seguono, a sinistra e a destra, due figure maschili rispettivamente vestite di toga e paludamentum (mantello militare); gli angoli del frontone sono occupati da vittimari che conducono animali al sacrificio.
situate sull’angolo nord-orientale del Palatino. Si noterà che si tratta di una via periferica rispetto ai palazzi imperiali. 3. La via che corre lungo il lato orientale della collina, nota con il nome moderno di via di S. Gregorio, certamente antica, perché attraversa l’arco di Costantino e corrisponde a un tratto percorso dai trionfi, può essere identificata grazie a una ricerca recente. Nel 1878, nello scavo di una grande fogna, vennero scoperti al
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centro della via i frammenti di un frontone in terracotta. Si trattava dello scarico dei materiali pertinenti a un tempio della metà del II secolo a.C., distrutto probabilmente dall’incendio neroniano del 64 d.C., che doveva sorgere nelle vicinanze, quindi sul Palatino o sul Celio. Una delle figure divine – certamente identificabile con la titolare del tempio, perché è seduta su un altare – si rivolge all’indietro: in essa va riconosciuta Fortuna Respiciens (la «Fortuna che guarda indietro»), uno dei culti fondati da Servio Tullio, che sorgeva sul Palatino. Precisamente all’altezza del ritrovamento del frontone, davanti all’ingresso laterale dell’area archeologica, la presenza di una grande sostruzione repubblicana ad arcate (successivamente ampliata in età imperiale), del tipo di quelle caratteristiche dei grandi santuari laziali, sembra da interpretare come la sostruzione di un tempio: tirando le somme, dovrebbe trattarsi di quello della Fortuna Respiciens. Di conseguenza, il vicus Fortunae Respicientis corrisponde alla via di San Gregorio, ancora una volta una via marginale rispetto al Palatino. 4. Esamineremo piú avanti i motivi che inducono a situare sotto la platea della Domus Tiberiana un importantissimo quartiere di case repubblicane, in parte esplorate recentemente, tra le quali si trovava quella di Cicerone. Possiamo collocare accanto a quest’ultima la domus di Q. Lutazio Catulo, console del 102 e vincitore quell’anno dei Cimbri, insieme a Mario. A seguito della vittoria, il console dedicò nel Campo Marzio un tempio della Fortuna huiusque diei (la «Fortuna del giorno presente»), identificata con certezza con il tempio rotondo («tempio B») di largo Argentina. Davanti alla casa del Palatino Lutazio Catulo costruí un portico, la porticus Catuli, entro la quale doveva trovarsi un sacello dedicato alla stessa dea: sembra dunque evidente che il vicus huiusque diei della Base Capitolina corrisponda alla via che corre davanti
A sinistra e nella pagina accanto sculture appartenenti al frontone in terracotta policroma di via di San Gregorio: divinità femminile seduta su ara (a sinistra), da identificare con Fortuna Respiciens («la Fortuna che guarda indietro»); divinità femminile con diadema, da identificare forse con Fortuna Redux (divinità posta a tutela del ritorno e del trionfo dei generali vittoriosi).
a questo gruppo di case, sul lato occidentale del Palatino, scendendo verso il Velabro. Ancora una volta, una via marginale, esistita fino alla fine dell’impero. 5. Restano solo due percorsi viari riconoscibili sul terreno: quello noto come via Nova, che corre sul lato nord del Palatino, al di sopra della casa delle Vestali e quello in salita, ai piedi del lato nord della Domus Tiberiana, denominato un tempo clivus Victoriae. Se la nostra dimostrazione funziona, dovrebbe trattarsi dei due vici residui della Base Capitolina: vicus Padi e vicus Salutaris. A quale delle due realtà possibili corrisponde ognuno di questi nomi? Cominciamo dal cosiddetto clivus Victoriae: la ragione del nome era l’errata localizzazione del tempio della Vittoria sul lato nord del Palatino. La recente scoperta dell’edificio sul lato opposto della collina, presso il tempio di Magna Mater, ha dimostrato che anche il vicus relativo va posto in questa zona (si tratta anzi certamente di uno dei vici scomparsi, assorbiti
entro i palazzi imperiali). D’altra parte, il cosiddetto clivus Victoriae è una via recente, non anteriore all’inizio dell’età imperiale, ciò che suggerisce di identificarlo con il vicus Padi: cioè la «via del Po», dedicata curiosamente a un fiume estraneo alla realtà romana, in un periodo certamente recente. Ora, proprio nella zona immediatamente sottostante al clivus Victoriae è stata recentemente scavata una grande fontana di età augustea (15,6 x 9,6 m), nella quale possiamo supporre la presenza di una statua che personificava un fiume, cioè lo stesso Po. Non si vede del resto il motivo del nome, se non in rapporto a una statua di fiume collocata in una fontana: l’identificazione del vicus Padi con il cosiddetto clivus Victoriae sembra cosí assicurata. 6. A questo punto, per esclusione, il vicus Salutaris corrisponde alla cosiddetta via Nova (quella vera si trovava piú in basso, e scomparve certamente nell’incendio neroniano). Di nuovo, questa, come il vicus Padi, è una via periferica, esterna ai palazzi. Per comprendere le ragioni del nome, dobbiamo in primo luogo osservare che salutaris è genitivo, perchè nella forma in dativo della Base Capitolina si legge vico Salutaris: non può trattarsi quindi di un vicus di Salus (questo culto non esisteva sul Palatino, ma solo sul Quirinale), ma del vicus di una dea salutare, il cui nome è sottinteso. Questa omissione può costituire la chiave del problema. Il motivo non è la brevità, come dimostrano le denominazioni di altri vici, in cui il nome di una dea è citato per intero (non troviamo vicus Respicientis per vicus Fortunae Respicientis). L’unica possibilità che viene a mente è che si trattasse di un nome in qualche modo di cattivo augurio. Ora, noi sappiamo che sul Palatino esisteva un antico culto della dea Febris (la Febbre), diffuso in zone malariche, come era certamente la Roma delle origini. La dea era considerata salutare, perché, come
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In alto il Palatino visto dal Campidoglio. Il ciglio del colle, nell’area oggi occupata dai Giardini Farnesiani, corrisponde alla zona in cui sorsero varie domus di età repubblicana, tra cui quella di Marco Tullio Cicerone. A sinistra ritratto di Cicerone. Roma, Musei Capitolini.
molte divinità antiche, non solo inviava la malattia, ma permetteva di guarirne. Proponiamo dunque, in via ipotetica, di identificare la cosiddetta via Nova con un vicus (Febris) Salutaris. In ogni caso, sia questa o un’altra la spiegazione del nome, l’identificazione di essa con l’ultimo vicus residuo della Base Capitolina sembra inevitabile.
Nella casa di Cicerone A partire almeno dal II secolo a.C. il Palatino diviene la dimora privilegiata della nobiltà romana. Alle numerose notizie ricavabili dalle testimonianze letterarie si potevano affiancare finora solo pochi dati archeologici, impossibili da collegare con le fonti letterarie, impedendo qualsiasi tentativo di identificazione dei proprietari. Ora, in base a ricerche recenti e recentissime, la situazione è notevolmente
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migliorata, ed è in una certa misura possibile proporre qualche ipotesi, in alcuni casi con notevole probabilità di successo. L’approccio a questo tipo di problemi deve iniziare dalle fonti letterarie, le uniche che permettano, per il loro numero e qualità, di ricostruire un quadro abbastanza completo della situazione della collina in età repubblicana. Due gruppi compatti di documenti, leggermente successivi nel tempo, sono disponibili nel nostro caso: il corpus degli scritti di Cicerone, in primo luogo, e il complesso piú variegato delle notizie relative alla dimora di Augusto. Si deve aggiungere che tali testimonianze non ci informano solo sui proprietari contemporanei delle case, ma spesso forniscono dati relativi anche ai periodi anteriori e successivi (come è il caso, per esempio, della casa di Cicerone). Inoltre, accade talvolta che le due serie di testi si sovrappongano nel caso di singole domus, rendendo praticamente sicura la loro identificazione. Marco Tullio Cicerone e suo fratello Quinto
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Planimetria del quartiere occidentale del Palatino, con le case repubblicane e i proprietari succedutisi nel tempo (indicati dai numeri romani; ricostruzione di Filippo Coarelli): 1. Casa di Cicerone; 2. Casa di Clodio; 3. Casa di Metello Celere (I), Antonio (II), Messalla (III); 4. Casa di Lutazio Catulo (I), Antonio (II), Agrippa (III); 5. Portico della casa di Lutazio Catulo; 6. Aedes Libertatis; 7. Casa di T. Claudio Nerone (I), Germanico (II); 8. Horrea Agrippiana; 9. Horrea Germaniciana.
abitarono a lungo in una dimora di proprietà del padre, situata sulle Carinae, presso il tempio di Tellus (dove si trovava anche la casa di Pompeo). Nel dicembre del 62 a.C., l’anno successivo al suo consolato, l’oratore si trasferí sul Palatino, in una casa acquistata da un P. Crasso (forse il pretore del 57), che era appartenuta in precedenza al celebre tribuno della plebe del 91 a.C., M. Livio Druso. Il prezzo pagato era notevole, 3 500 000 sesterzi, e Cicerone dovette chiedere un prestito a P. Silla, il nipote del dittatore. Corse subito la voce che solo in tal modo quest’ultimo, implicato nella congiura di Catilina, fosse riuscito a ottenere il patrocinio dell’oratore nel processo relativo, da cui uscí assolto, anche se la sua colpevolezza sembrava certa. Il comportamento contraddittorio dell’Arpinate, che faceva supporre la corruzione, gli sarà in seguito rinfacciato dal suo nemico mortale, Clodio. Questi, divenuto tribuno della plebe nel 58 a.C., riuscí a far approvare una legge, che condannava Cicerone per aver fatto giustiziare
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senza processo i complici di Catilina. L’oratore dovette andare in esilio, i suoi beni furono confiscati e la casa del Palatino distrutta. Una parte di essa venne consacrata, erigendovi un santuario della Libertà. Richiamato a Roma l’anno successivo, Cicerone pronunciò una serie di orazioni davanti al Senato e al popolo, con le quali riuscí a recuperare il terreno della casa e un indennizzo pubblico per ricostruirla. Proprio da questi discorsi siamo informati di molti particolari relativi a essa e alle abitazioni circostanti, che ci permettono di ricostruire la situazione complessiva dei luoghi. Sintetizzando all’estremo, è possibile proporre uno schema teorico, che può essere in seguito calato sulla realtà topografica del Palatino, con risultati illuminanti. La posizione della casa è descritta in termini molto espliciti: essa si trovava in un luogo dominante, «visibile da quasi tutta la città», «nel luogo piú bello della città», «con una vista bellissima». Da essa «si vedevano i luoghi piú frequentati e piú importanti della città»: indicazione questa che sembra alludere al Velabro, al Campidoglio e al Foro, e che limita le possibilità di localizzazione al lato occidentale del Palatino, e cioè al luogo occupato in seguito dalla Domus Tiberiana.
Vicini eccellenti Un’altra serie di indicazioni si riferisce ai rapporti con le domus circostanti: veniamo cosí a sapere che la casa di Clodio si trovava nello stesso isolato, separata da quella di Cicerone solo da un muro, e inoltre alle spalle di essa, probabilmente su un ripiano piú elevato, perché l’oratore minaccia di precluderle il panorama della città rialzando il suo tetto. Siamo quindi in grado di ricostruire un isolato con due case: quella di Cicerone sul bordo della collina, quella confinante di Clodio immediatamente alle spalle di essa. Veniamo informati, inoltre, che l’amico di Cicerone, Celio Rufo, aveva affittato un appartamento nella domus di Clodio per essere vicino alla sua amante, Clodia; cioè una delle tre sorelle del tribuno, forse da identificare con la Lesbia di Catullo. Questa era sposata con Q. Metello Celere, console del 60, che era morto nel 59;
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di conseguenza, la casa di quest’ultimo era vicinissima a quella di Clodio: un altro dettaglio – l’accusa al tribuno di aver costruito a partire dalla sua casa un muro, che rendeva inagibile il vestibolo della sorella – può spiegarsi solo se le due abitazioni si trovassero in isolati adiacenti. Lo stesso Cicerone ci informa che la casa di Metello Celere e di Clodia confinava, ancora una volta tramite una parete, con quella di Q. Lutazio Catulo, il console del 78 a.C., morto poco prima (nel 61 a.C.). Siamo cosí in grado di ricostruire due isolati adiacenti, con i nomi dei loro proprietari. La conferma definitiva che questo schema funziona si ricava da un’altra informazione: davanti alla casa di Lutazio Catulo esisteva un portico di carattere pubblico, la porticus Catuli, ampliata da Clodio per trasformarla in tempio della Libertà, a spese della casa di Cicerone. Quest’ultima, dunque, doveva trovarsi immediatamente a lato della casa di Catulo, ciò che chiude il cerchio della dimostrazione. Sappiamo inoltre che la porticus Catuli doveva includere un sacello della Fortuna huiusque diei, il che (come abbiamo visto in precedenza) permette di identificare il vicus che correva davanti al portico stesso con il vicus huiusque diei della Base Capitolina, che va identificato con la via
In alto le pendici del Palatino verso il Circo Massimo. In basso sono visibili i resti dell’edificio tradizionalmente identificato come Paedagogium (luogo destinato all’istruzione degli schiavi imperiali, ma, piú probabilmente, dimora dei paggi imperiali).
che scende dall’angolo nord-occidentale del Palatino verso il Velabro. Il complesso di case cosí ricostruito va quindi collocato lungo il vicus, e cioè, ancora una volta, entro l’area ora occupata dalla Domus Tiberiana. La principale era quella di Q. Lutazio Catulo, il console del 78, in precedenza appartenuta a suo padre, il console omonimo del 102 a.C. La sua eccezionale rilevanza si deduce da Plinio (N.H. 17, 2): «La casa di Crasso (il console del 95 a.C.) era magnifica, ma quella di Q. Catulo, anch’essa sul Palatino, era ancora piú bella».
Un precettore d’eccezione Possiamo ora rivolgerci all’altro gruppo di testimonianze, relative alla casa di Augusto (sulla quale torneremo piú ampiamente in seguito). Essenziale, a questo proposito, è un passo di Suetonio (Gramm. 17) che, nella sua vita di Verrio Flacco (il grande erudito di età augustea), ricorda che questi fu scelto dall’imperatore come precettore dei suoi nipoti, Gaio e Lucio Cesari, da lui adottati e designati a succedergli. Cosí Verrio si trasferí, con tutta la sua scuola, sul Palatino e «insegnò nell’atrio della Domus Catulina, che allora costituiva una parte del palazzo». È appena il caso di dire che tale Domus Catulina non è
altro che la domus di Q. Lutazio Catulo, adiacente alla casa di Cicerone: evidentemente, nel frattempo, essa era passata dalle mani dei primi proprietari a quelle di Augusto, la cui abitazione, che Suetonio chiama «palazzo», si era dunque estesa fino alla parte centrale del Palatino. Per comprendere come e quando ciò fosse avvenuto, è necessario fare qualche altro passo in avanti. Il momento in cui Augusto affidò i nipoti a Verrio Flacco si può fissare con una certa precisione: certamente solo dopo la morte del loro padre, Agrippa, avvenuta nel 12 a.C. Gaio Cesare, che aveva allora otto anni e Lucio, che ne aveva cinque, abitavano certamente nella casa paterna, con la madre Giulia, la figlia di Augusto. Di conseguenza, la casa di Catulo era passata, a un certo punto, in proprietà di Agrippa. Per fortuna, altre indicazioni in merito ci sono trasmesse da Cassio Dione, storico dell’epoca dei Severi (53.27.5), dal quale sappiamo che «dopo l’incendio (nel 25 a.C.) della casa sul Palatino, appartenuta ad Antonio, che egli aveva donato ad Agrippa e a Messalla, Augusto ne risarcí il valore a Messalla e ospitò Agrippa nella sua casa». Veniamo cosí a conoscere il proprietario precedente della casa di Agrippa, Antonio, che ne dovette venire in possesso da un personaggio ignoto, che l’aveva abitata dopo Q. Lutazio Catulo, ed era stato forse proscritto nel 43 a.C. da Antonio. Da quest’ultimo, essa dovette passare ad Augusto dopo la sua morte, nel 30 a.C.; lo stesso imperatore la donò in seguito ad Agrippa. Non è certamente un caso se, immediatamente al di sotto del Palatino, si trovano gli horrea Agrippiana, evidentemente in stretto rapporto con la casa soprastante. Grazie ai recenti lavori di rilevamento e di scavo nell’ambito della Domus Tiberiana, siamo oggi in grado di sovrapporre questa ricostruzione schematica a una realtà materiale consolidata. L’archeologo svizzero Clemens Krause ha potuto riconoscere, sotto il grande basamento unitario della Domus Tiberiana (che altre ricerche permettono ormai di attribuire a Caligola), l’esistenza di un intero quartiere di abitazioni repubblicane, diviso da un reticolo regolare di strade in sei grandi isolati su due
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ricostruire come una superficie forse chiusa su tre lati da un breve portico, dotata al centro di un basamento che sosteneva un sacello o una grande statua o anche un altare: si tratta chiaramente di un piccolo luogo di culto di carattere pubblico di età tardo-repubblicana, che fu quasi immediatamente eliminato. Sarebbe difficile non riconoscere in esso una parte del piccolo santuario della Libertà, costruito da Clodio nella parte anteriore della casa di Cicerone. Tutto concorda con questa identificazione: caratteristiche architettoniche, cronologia, vita brevissima dell’impianto. In conclusione, si tratta di un dato che, accertando la realtà di una delle caratteristiche salienti della casa di Cicerone, permette di fissare sul terreno un punto fisso, a partire dal quale tutti gli altri elementi di questo grande puzzle vanno a trovare la loro posizione definitiva.
La casa di Augusto Anche nel caso della dimora palatina del primo imperatore siamo oggi in grado, in seguito a importanti ricerche archeologiche realizzate in file parallele. Tale complesso risale certamente a un progetto unitario, realizzato dopo il grande incendio del 111 a.C., che distrusse, oltre al Palatino, con il tempio di Magna Mater, anche una gran parte della città. Uno sguardo alla pianta basta a mostrare la strettissima affinità con quella schematica, stabilita in base alla documentazione letteraria, che si riferisce ai due isolati disposti nel settore nordoccidentale. Ma lo scavo realizzato nel settore ovest del primo di questi isolati ne fornisce la conferma archeologica definitiva. Si tratta di un’area di 23,50 x 29,40 m, ricavata con un profondo taglio nel banco di tufo naturale, occupata, a est, da quattro ambienti affiancati in opera reticolata di tufo. Al centro sono apparsi i resti di un grande basamento con fondazioni in calcestruzzo e alzato in blocchi di travertino (11,80 x 14,70 m), in relazione con il primo pavimento dell’area, in cocciopesto. Tale basamento ebbe vita brevissima, e fu quasi subito demolito e ricoperto da un pavimento in opera spicata. Nella prima fase, il complesso si può
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A sinistra lastra Campana con rappresentazione della contesa tra Apollo ed Eracle per il possesso del tripode delfico, dall’area del tempio di Apollo. 40-30 a.C. Roma, Museo Palatino. In basso restituzione grafica della Base di Sorrento, con scene ambientate nell’area della dimora di Augusto (lato C) e dei santuari a essa collegati: tempio di Apollo Palatino (lato B); tempio di Magna Mater (lato D); tempio di Vesta Palatina (lato A). Sorrento, Museo Correale.
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passato e piú recentemente, messe in relazione con le testimonianze letterarie – abbastanza numerose – di cui disponiamo, di ricostruire posizione, dimensioni e, almeno in parte, aspetto delle strutture relative. Anche in questo caso dovremo partire dalle fonti scritte che, almeno per quanto riguarda la posizione topografica dell’edificio, sono insostituibili. Sappiamo dunque che Augusto, nato nell’area corrispondente all’angolo nord-orientale del Palatino (presso le curiae Veteres) e vissuto durante l’infanzia nella dimora sulle Carinae del patrigno, Marcio Filippo, acquistò, subito dopo la morte di Cesare, la sua prima casa, situata in una località denominata Scalae anulariae, forse localizzabile alle pendici settentrionali del Palatino. Subito dopo (intorno al 42 a.C.) egli si spostò in una nuova abitazione, che costituirà, con successivi ampliamenti, il nucleo della sua dimora definitiva: la casa appartenuta all’oratore Ortensio, anch’essa sul Palatino, ma certamente situata sul lato opposto, meridionale della collina. Il testo fondamentale in proposito è quello della Vita di Augusto di Suetonio: «In seguito abitò sul Palatino, ma nondimeno nella modesta casa di Ortensio, che non si segnalava per dimensioni né per ricchezza: in effetti, vi erano solo brevi portici con colonne di peperino e ambienti privi di marmi o di pavimenti lussuosi» (72,1). La fase successiva è documentata dalle Storie di Velleio Patercolo: «Tornato a Roma dopo la vittoria (di Nauloco: 36 a.C.) Cesare, avendo comprato un certo numero di case tramite suoi emissari, in modo da ampliare la sua, si lato B
impegnò a destinarle a uso pubblico e promise di costruire un tempio di Apollo e intorno a esso portici, che in seguito vennero da lui realizzati con ricchezza eccezionale» (2, 81, 3). Ulteriori dettagli su questo punto si trovano in Suetonio e Dione Cassio, secondo i quali il luogo destinato alla costruzione del tempio sarebbe stato indicato dallo stesso dio, colpendolo con un fulmine.
Casa di Augusto, lo Studiolo, con pitture in secondo stile. 30 a.C. circa.
Un tempio al posto delle case Sembra evidente, nonostante qualche opinione contraria, che le case acquistate alla fine del 36 a.C. (la battaglia di Nauloco ebbe luogo in agosto) dovevano trovarsi in relazione lato D
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topografica con la domus di Ortensio, dal momento che, secondo Velleio, esse erano destinare ad ampliare la prima casa posseduta da Augusto. È quindi determinante, per una ricostruzione d’insieme, identificare la posizione del tempio di Apollo, che sorse nell’area di una di queste case, quella colpita dal fulmine. Da qui dobbiamo partire per un confronto delle fonti citate con la realtà archeologica. L’identificazione del tempio è stata possibile solo negli anni Sessanta del secolo scorso, in seguito agli scavi di Gianfilippo Carettoni. In precedenza, esso era stato collocato in vari punti della collina, e in particolare all’interno della Vigna Barberini, nell’angolo nord-orientale del Palatino. L’identificazione con il grande podio scavato da Pietro Rosa nell’Ottocento immediatamente a sud-est della casa di Livia, attribuito dallo scavatore a Giove Vincitore, è ormai sicura e accettata da tutti: si tratta infatti di un edificio costruito negli anni intorno al 30 a.C. (come si deduce tra l’altro dai frammenti di capitelli corinzi conservati), privo di fasi precedenti, come dimostra la presenza sotto di esso di una casa tardo-repubblicana. Inoltre, elementi marmorei con la rappresentazione del tripode sacro al dio e il frammento colossale di una testa di Apollo confermano ulteriormente l’identificazione.
Dagli scavi la risposta Lo scavo nel settore immediatamente a ovest del tempio, sempre dovuto a Carettoni, di una casa tardo-repubblicana con importanti decorazioni di secondo stile, databili agli anni 40-30 a.C., ha ribadito il dato di partenza, permettendo di identificare quella che, da allora in poi, è stata quasi unanimemente riconosciuta come la casa di Augusto. Restavano tuttavia molti elementi da chiarire, e in primo luogo l’identificazione del primo proprietario di questa casa, all’interno di una realtà certamente assai piú ampia, quale risulta dalle indicazioni delle fonti letterarie. In effetti, a parte le affermazioni dei testi già citati, dalle quali si desume che si trattava di un numero rilevante di case collegate tra loro, almeno un altro autore ci fornisce una descrizione
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Statua di Augusto nelle vesti di pontefice massimo, rinvenuta alle pendici del colle Oppio, verso via Labicana. Anni immediatamente successivi al 12 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
d’insieme, datata in un periodo in cui il progetto era ormai concluso. Ovidio infatti cosí si esprime a proposito della dimora di Augusto: « Apollo ne possiede una parte, un’altra è di Vesta; quello che resta appartiene ad Augusto» (Fast. 4, 952 s.). Siamo cosí informati, come attestano del resto anche altri autori, che la domus di Augusto era divisa in tre settori, uno di carattere strettamente privato (la dimora stessa dell’imperatore), due di carattere pubblico (nei quali si trovavano i culti di Apollo e di Vesta). I versi di Ovidio trovano una traduzione figurativa in una base scolpita, conservata al Museo Correale di Sorrento, e destinata a sostenere tre statue (verosimilmente quelle del Divo Augusto, di Tiberio e di Livia). Vi si riconosce una rappresentazione della casa di Augusto distinta in tre settori, una caratterizzata dalla presenza
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delle statue di Apollo, Latona e Artemide (i simulacri del tempio di Apollo Palatino), una dal tempietto di Vesta, collocato nel vestibolo della casa, e infine una terza dalla rappresentazione della statua di Magna Mater: se ne deduce che la parte della dimora privata di Augusto era collegata a quest’ultimo culto.
L’uso pubblico continua nel tempo In definitiva, partendo dalla posizione accertata del tempio di Apollo, possiamo concludere che il settore privato della casa è da identificare con quello posto piú a ovest, in prossimità del tempio di Magna Mater. Quanto al settore pubblico destinato a Vesta, dove si trovava anche l’ingresso principale, dovremo cercarlo a est del tempio di Apollo. Quest’area è ora occupata dalla cosiddetta Domus Flavia, nella quale da tempo si è identificata la parte pubblica della Domus Augustana, caratterizzata sostanzialmente da tre soli, grandissimi ambienti: un peristilio centrale, un’imponente sala per le udienze (la cosiddetta Aula Regia) e un’altrettanto estesa sala da pranzo (la cenatio Iovis). Dal momento che il nome stesso di Domus Augustana va inteso, almeno in un senso originario, come «casa di Augusto», la conclusione sembra inevitabile: la parte pubblica della casa di Augusto ha
Pianta della parte privata della casa di Augusto e del tempio di Apollo: 1. Atrio; 2. Peristilio; 3. Stanza delle Maschere; 4. Stanza dei Festoni di pino; 5. Triclinio; 6. Biblioteche; 7. Studiolo.
continuato a esistere nello stesso luogo, sia pur in forme continuamente rinnovate, e corrisponde alla Domus Flavia. Tornando ora al settore occidentale, quello «privato», è facile notare che esso ha sostanzialmente conservato – a differenza di quello orientale, «pubblico» – l’aspetto originario di età augustea. Tuttavia, è altrettanto evidente che esso è il risultato del collegamento di piú entità originariamente distinte. Oltre a quella che ormai si è convenuto di chiamare «casa di Augusto», ne fanno parte altre due domus: quella conosciuta come «casa di Livia» e l’altra, interposta tra le due precedenti. La prima è stata identificata con certezza, fin dal momento del suo scavo nel 1869, in base al ritrovamento di una fistula (tubazione) in piombo con la scritta Iulia Augusta (vedi foto a p. 87), che può essere solo il nome di Livia dopo il 14 d.C., cioè dopo la morte di Augusto e la sua adozione per testamento. L’identificazione è obbligata, ma non si è riflettuto sufficientemente sulle sue implicazioni. In primo luogo, il punto di arrivo della fistula corrisponde a quello piú alto del complesso costituito dalle tre case: questo, insieme alla rilevante sezione, significa che l’acqua non era destinata solo a una, ma a tutte e tre. In secondo luogo, l’abitazione di Livia successiva alla scomparsa del marito (come si deduce anche da altri documenti) non può essere che quella privata di Augusto, in cui la vedova, coerede per un terzo, continuò certamente ad abitare fino alla sua morte, avvenuta nel 29 d.C. La conclusione è inevitabile: la casa privata di Augusto è costituita dal complesso delle tre abitazioni di origine repubblicana, disposte su livelli successivi, lungo la pendice che digrada verso la valle del Circo. Troviamo qui un’evidente conferma del passo di Velleio, in cui si afferma che la dimora del principe era il risultato dell’accorpamento di un gruppo di case intorno a un nucleo originario, la casa di Ortensio. L’identificazione di quest’ultima con la «casa di Augusto» sembra dimostrabile, sulla base di altre esplorazioni archeologiche di Carettoni, solo di recente pubblicate. Da queste risulta
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Casa di Livia, ambiente con pitture in secondo stile. Sulla parete è raffigurato un portico con colonne corinzie da cui pendono festoni di foglie, fiori e frutta; in alto corre un fregio a fondo giallo, con scene a soggetto egiziano.
che, in un periodo che si può fissare nel corso degli anni Trenta del I secolo a.C., questa casa venne coinvolta da grandi lavori di risistemazione. Si trattava in origine di un edificio tardo-repubblicano, dotato di un piccolo peristilio con colonne di tufo, decorato in un secondo tempo da un insieme di pitture di secondo stile maturo, che si datano negli anni Quaranta. Gran parte di queste decorazioni venne condannata dai lavori successivi, destinati ad ampliare il complesso verso est: venne cosí iniziata una grande galleria, scandita da una serie di ampie porte che si aprivano su ambienti piú settentrionali.
Cambiamento di progetto Ma poco dopo il loro inizio, questi lavori vennero improvvisamente abbandonati: i muri precedenti, che occludevano le porte, non vennero demoliti, e la decorazione marmorea e fittile (come per esempio gli splendidi rilievi Campana con la lotta per il tripode delfico tra Eracle e Apollo), già pronta per decorare il nuovo edificio, non fu messa in opera o fu utilizzata addirittura per tamponare le porte non ancora finite. Tale brusco arresto dei lavori è facilmente interpretabile: si tratta del
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cambiamento di progetto, che si tradusse nella costruzione del nuovo tempio di Apollo. Tutto ciò permette di ricostruire una precisa cronologia delle varie fasi. La prima casa occupata da Augusto, la domus di Ortensio, è facilmente riconoscibile nella «casa di Augusto», che, in effetti, corrisponde alla descrizione di Suetonio, e la cui decorazione pittorica si può quindi datare con precisione a partire dal 42 a.C. I lavori di ampliamento verso est (in direzione cioè della «casa pubblica» di Augusto) iniziarono subito dopo il ritorno di Augusto successivo alla vittoria di Nauloco, quindi verosimilmente tra la fine del 36 e l’inizio del 35 (data probabile del complesso pittorico della casa di Livia, da identificare con una delle case acquistate nel 36). La caduta del fulmine che interruppe i lavori e determinò il cambiamento del progetto ebbe luogo pochi mesi dopo, forse ancora nel 35, e fu immediatamente seguita dalla costruzione del tempio di Apollo, inaugurato nel 29 a.C. Suetonio (Aug. 72, 1) afferma che Augusto dormí sempre nello stesso cubicolo, estate e inverno, per piú di quarant’anni: ciò significa che questa stanza faceva parte dell’edificio completato nel 29 a.C. Contando da
quest’anno fino alla morte dell’imperatore nel 14 d.C., si tratta infatti di 43 anni. Resta un problema da chiarire. Pietro Rosa segnala che nello scavo della casa di Livia gli ambienti apparvero tagliati da grandi muri laterizi, talvolta dell’enorme spessore di 2 m, che egli attribuiva a interventi «barbarici». In realtà, uno di questi muri, conservato nella cosiddetta «Ala destra» della casa, si può datare ancora in età giulio-claudia. Appare evidente quindi che la casa venne precocemente obliterata per realizzare un nuovo edificio al livello superiore, del quale si riconoscono i muri periferici, che riuniscono in un solo complesso di forma rettangolare le tre case vicine. Nel settore meridionale della casa di Augusto vennero sistemati tre grandi basamenti, sempre in laterizio, che si addossano alle pitture di secondo stile, anche in questo caso obliterate. Si tratta con tutta evidenza dei basamenti di tre statue colossali, collocate sul livello superiore, a cui dovrebbe appartenere un grande piede di marmo, scoperto nella casa di Livia e ora conservato davanti a uno degli ingressi occidentali della Domus Flavia. Non si tratta, quindi, di una ristrutturazione della casa, ma di un nuovo edificio di carattere monumentale, la cui identificazione non sembra difficile. In effetti, che cosa si potrebbe costruire sull’abitazione di Augusto, se non un santuario? È questo il caso, per esempio, della casa natale dell’imperatore, trasformata da Livia nel sacrario di Augusto, o della villa di Nola, dove egli morí, anch’essa trasformata in tempio. Ci fornisce la soluzione Suetonio, il quale, narrando i fenomeni che precedettero la morte di Nerone, ricorda: «Nell’ultimo anno di Nerone (68 d.C.) fu colpita da un fulmine la aedes Caesarum (il tempio dei Cesari) e caddero tutte insieme le teste delle statue, e a quella di Augusto fu strappato anche lo scettro dalle mani» (Vita di Galba 1). Questa aedes Caesarum (che diverrà in seguito la aedes Divorum, situata sul Palatino) corrisponde certamente al nostro edificio, che, di conseguenza, era un santuario del culto imperiale, dotato di varie statue di imperatori, tra le quali quella di Augusto: esso fu costruito
certamente ancora in età giulio-claudia, probabilmente da Caligola. La prova definitiva di ciò si ricava da una fistula scoperta nella casa di Livia, destinata a sostituire quella con il nome di Iulia Augusta, dove si trovavano due parole, la prima delle quali è stata obliterata dalla saldatura tra due sezioni del tubo; la seconda tuttavia è perfettamente leggibile: CAESARVM, e l’integrazione AEDES CAESARVM appare dunque obbligata. Questo era dunque l’edificio: una sorta di grande larario della casa imperiale, destinato al culto degli imperatori, a partire da Augusto, al quale già da Livia erano stati dedicati i giochi noti come ludi Palatini, che si svolgevano in questo luogo. Nel corso di questi, il 24 gennaio del 41 d.C., trovò la morte, per mano di Cassio Cherea, l’imperatore Caligola, probabile costruttore del tempio.
In alto muro in laterizio dell’Ala destra della casa di Livia. Epoca giulio-claudia. In basso fistula (tubazione) in piombo dalla casa di Livia, con l’iscrizione Iulia Augusta.
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accesso principale al Palatino, l’unico carrozzabile, coincide con il percorso superiore della via Sacra, almeno per quanto riguarda il periodo anteriore all’incendio neroniano del 64 d.C. Fino ad allora, la via superava la sella tra Velia e Palatino (poi occupata dal tempio di Venere e Roma) e si dirigeva subito dopo, girando a sinistra, in direzione della Carinae, dove si concludeva in corrispondenza del sacello di Strenia (piú o meno nel punto in cui inizia via del Colosseo). Alla sommità della salita, in un punto difficile da precisare, si sarebbe trovata la porta Mugonia, che si apriva nella cinta del Palatino attribuita a Romolo. Da qui divergeva dalla via Sacra il percorso, denominato oggi clivo Palatino, ma il cui nome antico (almeno a partire da Augusto) doveva essere vicus Apollinis. Poco piú avanti, in un punto ora coperto dalle strutture del tempio di Venere e Roma, dalla via Sacra si staccava verso destra un’altra diramazione, il vicus Curiarum, che si dirigeva verso l’angolo nord-est del Palatino, dove si trovavano le curiae Veteres.
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La situazione mutò radicalmente dopo l’incendio del 64: la via Sacra, allargata e raddrizzata, si conclude ormai all’inizio della salita, in coincidenza con il vestibolo della Domus Aurea, poi sostituito dal tempio di Venere e Roma; una regolarizzazione analoga subisce il vicus Curiarum, riconoscibile nella strada in salita, erroneamente identificata con la via Sacra, che collega la valle del Colosseo con l’arco di Tito. La funzione di quest’ultimo, mai spiegata in precedenza, appare determinante per chiarire la topografia del settore e i rapporti tra questo e il Palatino. In primo luogo, si nota che l’arco appare nettamente soprelevato rispetto al vicino tempio di Venere e Roma, benché questo sia di ben cinquant’anni piú tardo: questo artificiale innalzamento di livello, analogo a quello dell’arco di Settimio Severo, si spiega anch’esso con la necessità di introdurre una pendenza progressiva e regolare nel percorso che saliva dalla valle del Colosseo: la funzione dell’arco può quindi spiegarsi solo in rapporto al Palatino, perché un tale innalzamento di livello non avrebbe senso se la meta della strada fosse stata piú in basso, nel Foro. Il dislivello impedirebbe in ogni caso, per l’eccessiva pendenza, un passaggio carrozzabile in direzione della via Sacra, di cui del resto non c’è traccia. L’unica possibilità potrebbe essere eventualmente una scalinata. Di conseguenza, la funzione dell’arco di Tito è quella di ingresso al Palatino. E le caratteristiche interne del monumento contribuiscono a confermarlo. A sinistra pianta del Palatino con identificazione dei vici secondo Filippo Coarelli: 1. Arco di Tito; 2. Arco di Vespasiano; 3. Palatino Sud-Orientale: palazzo di Domiziano (Domus Flavia, Domus Augustana e Stadio palatino: vedi pianta di dettaglio a p. 91); 4. Palatino Occidentale: tempio di Apollo, casa di Augusto, «casa di Livia», tempio di Magna Mater e capanne protostoriche (vedi pianta di dettaglio a p. 100); 5. Domus Tiberiana (Giardini Farnesiani) 6. Tempio di Eliogabalo. L’arco di Tito in un’incisione di Matthew Dubourg, artista inglese attivo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX sec.
In alto l’arco di Tito (dalla via Sacra), monumento che segna l’ingresso al Palatino. In basso pannello all’interno del fornice dell’arco di Tito che rappresenta un momento del trionfo giudaico del 71 d.C.: il corteo passa sotto porta Trionfale, con le spoglie del tempio di Salomone di Gerusalemme.
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Nell’iscrizione antica si legge: senatus populusque Romanus divo Tito divi Vespasiani f(ilio) Vespasiano Augusto («Il Senato e il Popolo Romano (dedicano) al Divo Tito Vespasiano Augusto, figlio del Divo Vespasiano»). È una dedica semplicissima, senza alcuna menzione del trionfo dell’imperatore e si può quindi escludere che si tratti di un arco «trionfale». Del resto, esso fu eretto dopo la morte di Tito, avvenuta nell’81 d.C., come conferma anche il riquadro scolpito collocato sul cervello della volta, che raffigura l’apoteosi dell’imperatore, rapito al cielo a cavallo di un’aquila. Il monumento è quindi opera di Domiziano. Due momenti del trionfo giudaico del 71 d.C. sono rappresentati sui pannelli laterali: a sinistra il passaggio del corteo sotto la porta Trionfale con la preda di Gerusalemme, la menorah (il candelabro a sette braccia) e le trombe d’argento; a destra, Tito sulla quadriga, incoronato dalla Vittoria, preceduto dalla dea Roma e seguito dai geni del Senato e del Popolo romano. In queste rappresentazioni del trionfo giudaico, manca tuttavia qualcosa di importante: sappiamo infatti che esso fu celebrato unitamente da Vespasiano e da Tito su due quadrighe diverse e che anche il giovane Domiziano seguiva a cavallo.
Un secondo arco, oggi scomparso È evidente che l’arco di Tito è in un certo senso incompleto, e che le sue sculture rimandano a qualcosa di assente: troveremo piú avanti una chiara conferma di tutto ciò. La strada che passava sotto di esso e deviava a sinistra, in direzione del Palatino, è stata demolita dagli sterri della fine dell’Ottocento; quella che rimane è la pavimentazione in basalto del percorso piú antico, anteriore al 64. Tuttavia, il basolato originario è in parte conservato sulla sinistra del clivo Palatino, poco prima di un punto in cui si riconoscono le tracce di un secondo arco (pilone di destra e frammenti di sculture architettoniche fissate al muro moderno), databile anch’esso all’epoca di Domiziano. Non dovrebbero esservi dubbi sull’identificazione di questo monumento con un arco di Vespasiano, pendant di quello di Tito. Possiamo cosí spiegare il significato dei due monumenti: si tratta di un percorso «trionfale», che conduceva alla dimora del dominus et deus, il dio vivente Domiziano, nella nuova grandiosa forma da essa assunta, la Domus Augustana, dovuta all’architetto Rabirio, la cui costruzione si concluse nel 92 d.C. La meta finale della via era quindi la porta del palazzo, da identificare con il Pentapylum («la porta a cinque ingressi» menzionata dalle fonti antiche), di cui si parlerà piú avanti. Di questo percorso due elementi risaltano: il suo punto di partenza innanzitutto, dalla valle del Colosseo, rovesciato rispetto a quello della Domus Aurea, che proveniva dal Foro e utilizzava la via Sacra (segno evidente, ancora una volta, del programma antisenatorio – oltre che antineroniano – dell’imperatore) e, inoltre, l’esaltazione della componente dinastica, su cui poggia una parte importante dell’ideologia domizianea. Accanto all’arco che abbiamo attribuito a Vespasiano, sulla destra, si conservano il nucleo in cementizio e mattoni e un frammento dell’epistilio del probabile tempio di Giove Propugnatore (il Giove che combatte a difesa dell’imperatore) eretto da Domiziano e utilizzato, non a caso, come sede dei flamines Flaviales, i sacerdoti del culto dei Flavi divinizzati. La facciata della Domus Flavia domina in questo punto l’area Capitolina, destinata alle riunioni di popolo, a cui l’imperatore poteva rivolgersi dal balcone al centro dell’«Aula Regia». Qui però non si apre alcun ingresso: per entrare, si doveva girare a sinistra, fino a raggiungere l’ingresso della Domus Augustana.
i palazzi imperiali
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area della facciata della domus Flavia è il settore piú danneggiato del palazzo; accurati rilievi ne hanno tuttavia permesso una ricostruzione attendibile. Si trattava di un’amplissima area rettangolare scoperta, a cui si accedeva liberamente dalla via, dotata di colonnati laterali e conclusa in fondo da una scalinata, che dava accesso alla porta principale del palazzo. I resti delle fondazioni di quattro pilastri preceduti da colonne e fiancheggiati da ante permettono di ricostruire un ingresso a cinque aperture, certamente quello denominato Pentapylum, che dobbiamo immaginare come un arco monumentale, su cui doveva spiccare la dedica a Domiziano e
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Pianta e ricostruzione prospettica dei palazzi domizianei (ultimi due decenni del I sec. a.C.), che occuparono il settore sud-orientale del Palatino, sostituendosi a costruzioni piú antiche. Il complesso viene distinto in tre settori, denominati, da ovest a est, Domus Flavia, Domus Augustana e Stadio. 1. Vestibulum; 2. Peristilio superiore; 3. Peristilio inferiore; 4. Aula regia; 5. Larario; 6. Basilica; 7. Peristilio della Domus Flavia; 8. Triclinio; 9. Ninfei; 10. Stadio; 11. Tribuna; 12. Facciata della Domus Augustana; 13. Paedagogium (solo in pianta); 14. Domus Severiana.
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che costituiva la degna conclusione della «via trionfale» che conduceva al palazzo. Le caratteristiche di quest’area scoperta, antistante all’ingresso e priva di porta, permettono di riconoscervi il vestibulum del palazzo, il luogo cioè destinato alla salutatio mattutina dell’imperatore. È possibile che le strutture scarnificate di un piccolo tempio, collocato nel settore ovest dell’area, possano identificarsi nel tempietto di Vesta, qui trasferito dal vestibolo della casa di Augusto. Alle spalle dell’ingresso si estende il grande edificio denominato Domus Augustana, in cui si deve riconoscere il settore privato, abitativo del palazzo imperiale. L’atrio coincide con un grande peristilio, al centro del quale, entro un bacino in origine ricolmo d’acqua, si trovano le
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strutture in laterizio di un tempietto, a cui si perveniva per un ponte ad arcate. Vi si può forse identificare il piccolo santuario di Minerva, la dea preferita di Domiziano, menzionato dalle fonti. La parte meridionale del complesso è relativamente meglio conservata: il suo pianterreno si sviluppa a un livello piú basso, ai piedi di un taglio verticale praticato nella collina. Esso si articola intorno a un cortile quadrato, in origine chiuso da un porticato a due piani, al centro del quale si trova una grande fontana. Da qui si accede, verso nord, a un grandioso complesso di ambienti, tra i quali spiccano due sale ottagonali coperte da volte a padiglione. A est del corpo centrale si trova il cosiddetto Stadio, in realtà un edificio a forma di circo (160 x 50 m), che si estende lungo tutto il lato
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In alto veduta dello Stadio Palatino. La tribuna semicircolare, al centro del lato lungo orientale, destinata all’imperatore e alla sua famiglia. Nella pagina accanto, in alto veduta dall’alto del peristilio inferiore della Domus Flavia con la fontana centrale. Nella pagina accanto, in basso Domus Augustana. Lo Stadio.
orientale del palazzo, delimitato da un portico a pilastri su due piani, in parte ricostruito. Tutt’intorno la pista (conclusa alle due estremità da esedre semicircolari, a chiusura della spina) era delimitata da un portico pilastrato. Al centro del lato est si trova una grande tribuna a emiciclo, aggiunta piú tardi. È probabile che la struttura, elemento tipico delle grandi ville suburbane, debba identificarsi con l’Hippodromus Palatii, teatro del primo episodio del martirio di san Sebastiano. Il secondo invece avrebbe avuto luogo nell’area a nord del palazzo (nota col nome di Vigna Barberini), sopra i gradus Helagabali («gradini di Eliogabalo»): qui, infatti, si trovava il tempio di questa divinità orientale, costruito dall’imperatore Eliogabalo, di cui si riconoscono i resti al centro dell’area, e qui, in memoria del martire, fu costruita la chiesetta di S. Sebastiano. Recentemente, nell’angolo nord-est dell’area è iniziato lo scavo di un grande edificio circolare, in cui si potrebbe identificare la cenatio rotunda, vale a dire la sala per banchetti girevole della Domus Aurea, ricordata da Plinio. Alle spalle dello Stadio sono visibili i resti delle terme pertinenti al palazzo, costruite da Domiziano, ma interamente rifatte da Massenzio: esse erano alimentate da un ramo
dell’acquedotto di Claudio, che scavalcava su una serie di grandi arcate la valle tra Celio e Palatino, un tratto del quale è ancora visibile lungo la via di S. Gregorio. Il fianco meridionale della collina, affacciato sul Circo Massimo, è occupato da sostruzioni in laterizio, destinate a sostenere una nuova ala del palazzo, realizzata dai Severi, la Domus Severiana. Essa venne dotata di una facciata monumentale, rivolta verso la via Appia, il Septizodium, che aveva l’aspetto di un grande ninfeo colonnato a piú piani, dotato di fontane. Nella Vita di Settimio Severo (compresa nella raccolta di biografie imperiali nota come Historia Augusta, n.d.r.) si afferma che la costruzione era destinata a impressionare i conterranei dell’imperatore (originario di Leptis Magna, in Libia) che giungevano a Roma da sud. La parte occidentale del palazzo, nota col nome moderno di Domus Flavia, corrisponde in realtà al suo settore pubblico, che occupa probabilmente l’ala della casa di Augusto destinata alla stessa funzione. In effetti, al di sotto del livello flavio sono apparsi, in varie occasioni, resti di costruzioni precedenti, databili al periodo repubblicano (casa dei Grifi), augusteo (cosiddetta Aula Isiaca) e giulio-claudio (cosiddetti bagni di Livia).
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Al complesso si accede, oltre che dalla Domus Augustana, da tre ingressi indipendenti, situati sul lato ovest (due a livello del suolo e uno sotterraneo, collegato al cosiddetto Criptoportico neroniano), destinati evidentemente agli ospiti dell’imperatore. Esso consta essenzialmente di due soli, giganteschi ambienti, collegati da un grande peristilio centrale: a nord è la cosiddetta Aula Regia, certamente destinata alle udienze plenarie, una sala larga non meno di 30,60 m e alta altrettanto. La ricchissima decorazione marmorea è quasi interamente scomparsa: essa comprendeva in origine una serie di statue colossali in marmo colorato, che occupavano sei grandi nicchie disposte sui lati e due sul fondo. Due di esse, scoperte negli scavi del XVIII secolo e conservate a Parma, rappresentano Ercole e Bacco. Ciò permette forse di identificare anche le altre, che dovevano rappresentare le dodici divinità olimpiche, disposte a coppie nelle edicole laterali (come nel Pantheon), mentre le due del lato nord potevano ospitare la statua di Ercole, modello dell’apoteosi, e l’imperatore, il dio vivente. Notevole è la presenza, al centro del lato sud, di un’abside, destinata ovviamente a ospitare il sovrano. A ovest dell’Aula Regia un
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ambiente a forma basilicale (detto per questo Basilica) era forse destinato alle sedute del «ministero» imperiale, il consilium principis. All’estremità meridionale del complesso si apre un altro enorme ambiente che, a giudicare dai resti di colonne e trabeazioni marmoree, doveva essere preceduto da una facciata a forma di tempio, che emergeva al centro del porticato in modo analogo a quello di un altro monumento flavio, il templum Pacis. Cosí l’abside, che anche in questo caso concludeva la sala, permetteva di collocare l’imperatore al posto della divinità: in effetti, il nome dell’ambiente, in cui si può riconoscere
In alto Domus Augustana, veduta dall’alto del Peristilio Inferiore con la fontana centrale. In basso, a sinistra il Colosseo visto dal Palatino; sulla destra si riconoscono gli archi dell’acquedotto neroniano.
una grande sala da banchetto, era cenatio Iovis, come sappiamo dalla Vita di Pertinace. Ai lati erano sistemati due ninfei con fontane ovali, visibili dalla sala centrale, che era dotata di un sistema di riscaldamento su suspensurae (pilastrini in laterizio utilizzati per sollevare il pavimento e creare un intercapedine in cui far circolare l’aria calda, n.d.r.) databile in base ai bolli laterizi a età adrianea. In almeno un caso è
possibile conoscere il numero dei convitati che partecipavano ai festini imperiali: il poeta Stazio ricorda un banchetto di Domiziano a cui avevano partecipato piú di mille persone. Poiché un tale numero non può entrare nella cenatio Iovis, che ne poteva contenere circa la metà, si è pensato che in tali occasioni eccezionali si potesse utilizzare anche il portico del peristilio antistante.
A destra Domus Flavia: la Basilica (sullo sfondo) vista dal ninfeo (in primo piano). In basso Domus Flavia. Il pavimento marmoreo del triclinio.
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la casa di augusto e il tempio di apollo
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In alto casa dei Grifi, stanza III. Particolare della lunetta con uno dei due grifi (in stucco a bassorilievo) da cui l’edificio prende nome. Fine del II sec. a.C. In basso le strutture sottostanti la Domus Flavia: 1. «Bagni di Livia»; 2. Cenatio Rotunda della Domus Aurea; 3. Strutture neroniane (latrina); 4. Aula della Domus Aurea; 5. Criptoportico; 6. Casa dei Grifi; 7. Strutture della Domus Aurea; 8. Aula vespasianea; 9. Aula Isiaca; 10. Esedra neroniana
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scendo dalla Domus Flavia dall’ingresso occidentale – dove ancora si vedono a terra i frammenti di un arco marmoreo, certamente l’ingresso monumentale su questo lato – ci si trova in un’area ristretta, su cui prospettano (a sud) il postico del tempio di Apollo e (a ovest) la parte posteriore della casa di Livia. Appoggiati sul podio del primo si dispongono alcuni frammenti in marmo lunense dell’alzato marmoreo, tra i quali parti di due capitelli corinzi, che presentano le forme tipiche, ancora di tradizione ellenistica, del primo periodo augusteo. L’edificio prospettava certamente a sud, sul portico delle Danaidi, realizzato insieme a esso e inaugurato nel 29 a.C.: del ricchissimo monumento, descritto piú volte e in termini entusiastici dai poeti augustei, quasi nulla si conserva. Sappiamo che le statue di culto di Apollo, di Diana e di Latona erano originali di scultori greci del IV secolo a.C., rispettivamente, Scopa, Cefisodoto e Timoteo. Nella base del simulacro di Apollo erano conservati i libri Sibyllini, trasferiti qui dal tempio di Giove Capitolino. Immediatamente a ovest del tempio si può localizzare la casa di Augusto, che comprendeva tre domus repubblicane accorpate tra loro: la casa di Livia a nord (scavata già nel 1869), una seconda immediatamente a sud di essa e infine quella attribuita ad Augusto. Si entra nell’edificio da una breve scala in discesa, che non può essere l’ingresso principale: poiché la parte conservata della casa è in parte sotterranea, è probabile che l’atrio (come in altre domus repubblicane del Palatino, per esempio la casa dei Grifi) si trovasse al piano superiore. Sono quindi errate le denominazioni moderne, che identificano il cortile in fondo alla scala come atrio, e i tre ambienti che su di esso si aprono come tablino (quello centrale) e come ala destra e ala sinistra (quelli ai lati). In questi si conserva ancora una ricca decorazione di secondo stile, databile agli anni
30 a.C.: nel tablino, la parete di destra, ripartita in tre settori da colonne corinzie, presenta al centro un quadro con il mito di Io e di Argo. In quella di fondo, un quadro analogo, quasi scomparso, rappresentava il mito di Polifemo e Galatea. Nell’ala destra, la parete di sinistra presenta una partitura a riquadri: nel settore inferiore sono appese ricche ghirlande vegetali, mentre al di sopra corre un raffinato fregio a fondo giallo con scene di vita egiziana. Anche nell’ala sinistra si conservano pitture dello stesso sistema decorativo, ma senza scene figurate. In un ampio ambiente a sud del cortile (identificabile con il triclinio) ricorrono ancora una volta decorazioni pittoriche di secondo stile: al centro della parete di fronte all’ingresso si nota una scena di paesaggio con un simulacro aniconico («betilo») di Diana. Immediatamente piú a sud, oltre una strada selciata, sono i resti di una casa piú piccola, dotata di un piccolo peristilio: scavi in
In alto casa di Augusto, sala delle Maschere, veduta della parete Ovest. Attraverso la pittura viene simulata una complessa architettura, ispirata alle scenografie teatrali. II stile, 30 a.C. circa. A sinistra casa di Livia, tablino. Particolare della decorazione pittorica della parete destra, con edicola centrale a soggetto mitologico (Io e Argo). Fase avanzata del II stile, 30 a.C. circa.
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profondità (realizzati negli anni Sessanta del Novecento) hanno riportato alla luce i resti di una fase precedente, con mosaici e decorazioni di secondo stile iniziale, analoghe a quelle della casa dei Grifi (databili alla fine del II secolo a.C.). Nel punto piú meridionale, su un terrazzamento piú basso, si trova una domus di età repubblicana (scavata a partire dal 1961), anch’essa ristrutturata all’inizio del periodo augusteo, in cui si deve riconoscere il nucleo principale dell’abitazione privata di Augusto, e quindi, con tutta probabilità, la casa di Ortensio, la prima acquistata dall’imperatore sul Palatino. L’edificio si dispone intorno a un peristilio con colonne di tufo, sul quale si affacciano, a nord e a est, due settori principali. Nel primo, costituto da due serie di ambienti in opera quadrata di tufo, si distingue un primo gruppo di stanze piú piccole e appartate a ovest e un secondo gruppo di stanze piú a est,
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Frammento di intonaco dipinto, con Apollo che imbraccia la lira, dall’area della casa di Augusto. Età augustea. Roma, Museo Palatino. Nella pagina accanto, in alto resti del tempio di Magna Mater.
che si dispongono intorno a una grande sala centrale, in cui probabilmente, per la presenza di banchine su tre lati, si deve identificare un triclinio. Solo qui si riscontra la presenza di pavimenti marmorei, mentre altrove, coerentemente con la descrizione di Suetonio, si trovano solo pavimenti in mosaico geometrico. La parte piú notevole del settore occidentale è costituita da due piccole stanze adiacenti, che conservano i loro ricchi intonaci di secondo stile, databili intorno al 40 a.C. La prima, detta «delle Maschere», presenta una decorazione architettonica complessa, ispirata alla scenografia teatrale, come confermano le maschere appoggiate a mezza altezza sulle cornici. Al centro di ogni parete è inserito un paesaggio agreste, analogo a quello che appare nel «triclinio» della casa di Livia. La seconda stanza («dei Festoni») è caratterizzata da festoni di pino che pendono da sottili pilastri.
l’area del tempio di cibele I
mmediatamente a ovest della casa di Augusto, nell’angolo meridionale della collina, si concentrano alcuni dei monumenti piú antichi e significativi della storia della città: è questo il luogo infatti dove la tradizione antica situava i luoghi piú venerabili delle origini, come il Lupercale (che si trovava in questo
In basso simulacro di culto della Magna Mater seduta su trono, rinvenuto sulle scale del tempio di Magna Mater. Fine del II sec. a.C. Roma, Museo Palatino. Ai lati sono visibili due incassi in cui erano originariamente inseriti leoni accovacciati, sacri alla dea.
punto, ai piedi del Palatino), le scalae Caci, la casa Romuli. Non è quindi un caso che il luogo sia stato scelto da Augusto, il nuovo Romolo, per collocarvi la sua abitazione, come neppure è un caso che qui si concentrassero alcuni dei santuari piú significativi della città. Il piú importante tra questi è il tempio di Cibele, la Magna Mater, che occupa la parte piú occidentale dell’area. L’introduzione del culto avvenne nel corso della seconda guerra punica, quando le continue sconfitte avevano messo in dubbio il favore degli dèi tradizionali per la città. Cosí nel 204 a.C., in seguito alla consultazione dei libri Sibyllini, una delegazione romana partí per l’Asia Minore, ottenendo, tramite la mediazione di Pergamo, la pietra nera di Pessinunte, meteorite in cui si identificava un’immagine della dea. Il tempio, inaugurato nel 191, fu distrutto da due incendi, nel 111 a.C. e nel 3 d.C., e venne ambedue le volte ricostruito nello stesso luogo. Davanti a esso, in un teatro di legno, si celebravano ogni anno, l’11 aprile, i ludi Megalenses in onore della dea. Del tempio si conserva l’alto basamento in opera cementizia con paramento in opera incerta, forse il piú antico esempio di questa tecnica, dal momento che si tratta del podio originale. Alle fasi successive appartengono invece i resti di colonne e di capitelli in peperino, collocati accanto all’edificio. Il simulacro di culto in marmo, opera ellenistica databile
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itinerario palatino
tempio della vittoria
tempio della magna mater
alla fine del II secolo a.C., è stato scoperto sulle scale del tempio al momento dello scavo: si tratta di una grande statua seduta acefala, affiancata da leoni (di uno di questi rimane la parte anteriore), ora conservata nell’Antiquarium del Palatino. L’identificazione è assicurata dalla forma dell’incasso destinato all’inserzione della testa, che non presenta la solita forma troncoconica, ma un andamento cilindrico: sappiamo infatti che nel simulacro la testa era sostituita dalla pietra nera, la cui forma conica presentava asperità vagamente simili a quelle di un volto. Nella parte piú orientale dell’area sono stati recentemente scoperti gli scarsi resti del tempio della Vittoria, costruito sul Palatino nel 294 a.C. da L. Postomio Megello. La scoperta ha risolto un difficile problema topografico, permettendo di situare l’edificio
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nella parte sud del colle e non a nord di esso, come si riteneva un tempo. Di conseguenza, il clivus Victoriae va identificato nella via in salita che, in prosecuzione delle sottostanti scalae Caci, raggiunge la sommità del colle, passando tra la casa di Augusto e il luogo occupato dalle capanne dell’età del Ferro. Il piccolo edificio in laterizio disposto tra i due templi di Cibele e della Vittoria, un tempo denominato Auguraculum, si identifica certamente con un restauro imperiale dell’edicola dedicata nel 193 a.C. alla Vittoria Vergine da parte di Catone il Censore, presso il tempio di Magna Mater. Nell’area sottostante venivano localizzate le memorie collegate alla fondazione della prima città per opera di Romolo: oltre al Lupercale, la casa Romuli, la capanna in cui avrebbe abitato il fondatore, ricostruita in legno e paglia dopo ogni incendio. Lo scavo realizzato nel 1948 nell’area antistante al tempio di Cibele ha restituito una certa verosimiglianza alla leggenda, rivelando la presenza di alcuni
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fondi di capanne di forma circolare o ovoidale, risalenti all’VIII secolo a.C. I pavimenti, ricavati scavando la roccia e isolati da canalette, mostrano i fori destinati a fissare i pali verticali che sostenevano il tetto: la forma complessiva corrisponde esattamente ai modelli in miniatura, utilizzati come urne cinerarie nella necropoli del Foro e in altri sepolcreti laziali. Tutta l’area occidentale del colle, compresa tra il tempio di Magna Mater e l’area sovrastante alla casa delle Vestali, è occupata da una grande struttura unitaria, nella quale si identifica con sicurezza la Domus Tiberiana. Il nome, certamente dovuto alla presenza nel luogo della casa in cui era nato Tiberio, che dovette abitarvi prima di divenire imperatore, corrisponde al settore occupato in precedenza da un quartiere di case della nobiltà repubblicana, tra le quali era certamente anche quella di Cicerone. Successivamente queste case furono in gran parte annesse da Augusto (come la domus di Lutazio Catulo, passata in seguito ad Agrippa) e infine ricoperte da un unico, grande basamento, che trasformò in criptoportici le precedenti vie (una di queste è riconoscibile nel cosiddetto Criptoportico neroniano).
In alto i fondi di tre capanne della prima età del Ferro, scoperti nel 1948 sul Palatino. Sono ben visibili i buchi per l’alloggiamento dei pali di sostegno della copertura. A destra ricostruzione grafica, pianta e sezioni di una delle capanne. Nella pagina accanto pianta e ricostruzione prospettica del settore sud-occidentale del Palatino. 1. Tempio di Magna Mater; 2. Sacello di Victoria Virgo; 3. Tempio della Vittoria; 4. Casa di Livia; 5. Casa repubblicana; 6. Casa di Augusto; 7. Tempio di Apollo; 8. Scalae Caci; 9. Clivus Victoriae.
Quest’opera di integrazione in un unico organismo si può ormai attribuire, dopo gli ultimi scavi, all’attività di Caligola, il quale effettivamente portò l’ingresso della sua abitazione a contatto del Foro, subito alle spalle del tempio dei Dioscuri. Lo scavo del peristilio centrale del palazzo (già esplorato nel XVIII secolo) ha portato alla scoperta di criptoportici sottostanti, che presentano un evidente restauro intervenuto dopo un incendio. Tale restauro si può datare con sicurezza per la presenza di una fistula acquaria con il nome di Claudio: poiché sappiamo che la casa di Caligola bruciò in un incendio poco dopo la morte dell’imperatore, quindi sotto Claudio, ciò permette di identificarla con certezza con la prima fase della Domus Tiberiana.
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la valle del colosseo
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partire da Augusto, la valle compresa tra Esquilino, Palatino e Celio costituí la regione III della città (in precedenza faceva parte della IV regione serviana, la Suburana). Fu chiamata Isis et Serapis, per la presenza di un importante santuario dei culti egiziani, i cui resti sono ancora visibili in piazza Iside. Anche dopo la costruzione del monumento piú importante del quartiere, l’Anfiteatro Flavio, la regione conservò il suo nome primitivo. Poco sappiamo delle vicende di quest’area prima dell’età imperiale. Scavi, limitati, condotti sotto la Domus Aurea e il Ludus Magnus hanno rivelato la presenza di resti importanti di case private repubblicane, risalenti sino alla fine del II secolo a.C. Meglio conosciute sono le fasi successive, relative alla costruzione della Domus Aurea, dopo l’incendio del 64 d.C., e ai grandi lavori di urbanizzazione di epoca flavia, quando il quartiere assunse l’aspetto che in gran parte tuttora conserva. In realtà, l’intervento neroniano ha inizio prima dell’incendio, quando, tra il 54 e il 64 d.C. viene costruita la Domus Transitoria, a proposito della quale è necessario sfatare un equivoco diffuso, che vi riconosce la fase precedente della Domus Aurea. Le testimonianze
antiche sono esplicite sull’argomento: il nome della casa era dovuto alla sua funzione di collegamento tra il palazzo del Palatino e gli Orti di Mecenate; si trattava quindi del solo tratto compreso tra il Palatino e il Colle Oppio, che si può riconoscere nella parte piú antica (quella occidentale) del complesso, ancora esistente sotto le terme di Traiano.
Un esproprio mal digerito Il nome Domus Aurea designava, invece, l’intero complesso, la cui parte principale era quella del Palatino. L’esproprio da parte di Nerone di una parte cosí rilevante del centro urbano a fini privati destò reazioni ostili nella popolazione romana, che ancora soffriva per le conseguenze del terribile incendio. Fiorirono gli epigrammi satirici, come questo, riportato da Suetonio: «Roma ormai è una sola casa. Quiriti, emigrate a Veio: a meno che questa casa non occupi anche Veio!». Il vestibolo della Domus Aurea si trovava a metà strada tra i due settori principali, nell’area in seguito occupata dal tempio di Venere e Roma, per la cui realizzazione Adriano fece spostare il Colosso di Nerone piú
un monumento
simbolo di Filippo Coarelli
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in basso, accanto al Colosseo, dove si trovavano i resti del basamento (distrutti nel 1936). L’anfiteatro sorge nel luogo precedentemente occupato dallo stagno della Domus Aurea, circondato da un parco e chiuso sul lato del Celio da un immenso ninfeo, ornato di fontane, addossato al podio del tempio di Claudio (ancora conservato lungo la via Claudia). Esso era alimentato da un ramo dell’acquedotto Claudio, che si spingeva da qui fino al Palatino.
La restituzione all’uso pubblico Con l’avvento dei Flavi, l’intero settore fu radicalmente ristrutturato, coerentemente con la politica filopopolare della dinastia, che restituí all’uso pubblico gran parte dell’immensa area espropriata da Nerone per il suo palazzo. La testimonianza piú evidente di questa politica è la costruzione dell’anfiteatro, ma a essa possiamo attribuire anche le vicine terme di Tito, nelle quali, se si considerano l’orientamento – identico a quello della Domus Aurea – e la rapidità di realizzazione, si devono forse riconoscere le terme private di Nerone. Principale artefice dei lavori, che modificarono
in modo definitivo l’aspetto della III regione, è però il terzo imperatore della dinastia, Domiziano. A lui si deve, oltre al completamento dell’anfiteatro, l’insieme dei nuovi edifici realizzati nell’area piú a est, estesa tra l’Oppio e il Celio, lungo un’importante via antica, che corrisponde all’odierna via Labicana. Tra questi, vanno menzionate le quattro caserme gladiatorie (Ludus Magnus, Gallicus, Dacicus, Matutinus) e le altre strutture connesse con l’Anfiteatro: Castra Misenatium (l’accampamento dei marinai del porto di Miseno che curavano la manovra del velario); il Summum choragium (il magazzino del materiale scenografico); l’Armamentarium (l’armeria); il Saniarium (l’ospedale), lo Spoliarium (l’obitorio). Inoltre, edifici dell’amministrazione pubblica, tra i quali soprattutto la Moneta Caesaris (la Zecca imperiale), trasferita qui dal Campidoglio, che si identifica certamente con l’edificio antico sotto S. Clemente. L’importanza urbanistica di questo nuovo quartiere è confermata dalla scelta, dovuta sempre a Domiziano, di far iniziare da qui il percorso che dava accesso al nuovo palazzo imperiale, e al quale la presenza dell’arco di Tito e di un secondo arco dedicato a Vespasiano conferivano particolare solennità.
Il Colosseo, olio su tela dell’artista francese Jean-Victor-Louis Faure (1786-1879). È ben visibile, tra l’anfiteatro e l’arco di Costantino, la Meta Sudans, la fontana monumentale di forma tronco-conica demolita nel 1936.
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itinerario di visita | 104 |
A destra pianta della valle del Colosseo: 1. Colosseo (Anfiteatro flavio); 2. Colosso di Nerone; 3. Meta Sudans; 4. Arco di Costantino; 5. Ludus Matutinus; 6. Ludus Magnus; 7. Basilica di S. Clemente; 8. Ludus Dacicus; 9. Domus Aurea; 10. Terme di Tito; 11. Terme di Traiano; 12. Portico di Livia. 13. Sette Sale. In basso veduta del settore della valle del Colosseo nel quale sono compresi i resti della Meta Sudans e l’arco di Costantino.
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ubito a nord dell’arco di Costantino si conservano gli scarsi resti di una grande costruzione circolare: si trattava della fontana nota come Meta Sudans, iniziata nell’anno 80 d.C., sotto Tito, e completata da Domiziano. Dell’edificio, di forma conica allungata, restava ancora il nucleo di mattoni, demolito nel 1936 per consentire la realizzazione della via dei Trionfi (attuale via di San Gregorio). Il monumento – il cui nome allude a una funzione di termine, di traguardo – costituiva verosimilmente il punto iniziale del grande rilievo planimetrico realizzato da Augusto in relazione alla riorganizzazione della città in 14 regioni (di cui ci resta una replica nella pianta marmorea severiana, la Forma Urbis). In effetti, in questo punto convergono quatto regioni: II, III, IV e X. Sebbene l’edificio sia di età flavia, ne esisteva infatti uno piú antico, di epoca augustea, i cui resti sono stati scoperti da scavi recenti. Tale scelta si deve, probabilmente al fatto che in questo luogo, presso le Curiae veteres, era nato lo stesso Augusto.
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tempio di venere e roma
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itinerario valle del colosseo
arco di costantino L’Arco di Costantino, eretto a commemorazione del trionfo di Costantino su Massenzio, sconfitto nella battaglia presso ponte Milvio, il 28 ottobre del 312 d.C.
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L’
arco di Costantino sorge in rapporto con la via antica (probabile vicus Fortunae Respicientis) che corrisponde all’attuale via di S. Gregorio, un tratto dell’itinerario seguito dai trionfi. Si tratta infatti dell’ultimo e piú grande arco trionfale conservato, eretto per la vittoria dell’imperatore su Massenzio, il 28 ottobre del 312 d.C., presso ponte Milvio. La costruzione fu terminata tre anni dopo e dedicata nel decennale del regno di Costantino, il 25 luglio del 315. La grande iscrizione, ripetuta sulle due facciate, ne riassume il significato: «All’Imperatore Cesare
Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il Popolo Romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò con giuste armi lo stato su un tiranno e allo stesso tempo su tutta la sua fazione, dedicarono questo arco insigne per trionfi». L’arco, a tre fornici, è alto quasi 25 m e somiglia a quello di Settimio Severo, ma con una decorazione piú ricca e complessa. Si tratta in gran parte di un assemblaggio di sculture ed elementi architettonici piú antichi. Nei piedistalli delle colonne sono
rappresentate Vittorie con trofei e barbari prigionieri; ai lati dei fornici centrali, Vittorie volanti con trofei e immagini delle stagioni; ai lati dei fornici minori, divinità fluviali: tutte sculture decorative costantiniane, come i sei rilievi stretti e lunghi collocati al di sopra dei fornici minori e sui lati brevi. In questi è narrata la storia della campagna contro Massenzio, con inizio sul lato corto ovest (verso il Palatino). Troviamo cosí: la partenza dell’esercito da Milano; l’assedio di Verona;la battaglia di ponte Milvio; l’ingresso trionfale a Roma; il discorso di Costantino nel Foro; il congiarium (distribuzione di denaro al popolo) nel foro di Cesare. Al di sopra dei rilievi costantiniani si trovano quattro tondi per parte, due sopra ognuno degli archi minori, con scene delle cacce di Adriano, ognuna seguita dal sacrificio a una particolare divinità. Due altri tondi, ma di età costantiniana, sono disposti sul lati minori, con la rappresentazione della Luna (lato ovest) e del Sole (lato est). Nell’attico, infine, ai lati delle iscrizioni, sono collocati otto grandi rilievi, alti piú di 3 m, provenienti da un monumento innalzato da Commodo a Marco Aurelio, con scene relative alle guerre germaniche. Sotto l’arco principale e in alto, sui due lati minori dell’attico, sono fissate le lastre pertinenti a un unico, grandioso rilievo, alto 3 m e lungo quasi 20 (ricomposto in un calco al Museo della Civiltà Romana). Vi è rappresentata una scena di battaglia di Traiano contro i Daci. Dal foro di Traiano provengono anche le otto statue di Daci poste sui plinti al di sopra delle colonne.
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Restituzione grafica (fronte e sezione) dell’arco di Costantino, con la disposizione dei rilievi: A. Iscrizione; 1. Vittorie e barbari prigionieri; 2. Divinità fluviali; 3-4. Rilievi costantiniani; 5. Tondi adrianei; 6. Statue di Daci; 7. Rilievi aureliani; 8. Rilievi storici costantiniani; 9. Sol e Luna; 10. Rilievi traianei.
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ccanto al Colosseo, in direzione di via dei Fori Imperiali, è stato parzialmente ricostruito il basamento del Colosso di Nerone, qui trasferito da Adriano, che misurava 17,60 x 14,75 m, distrutto nel 1936. Secondo Plinio, la gigantesca statua bronzea, realizzata dallo scultore greco Zenodoro, misurava 119 piedi (35 m). Con la base, esso doveva quasi raggiungere l’altezza del Colosseo. L’Anfiteatro Flavio (universalmente noto come Colosseo) fu finanziato da Vespasiano con i proventi della guerra giudaica. Il luogo utilizzato è quello in cui in precedenza si trovava lo stagno, al centro dei giardini della Domus Aurea: si trattò quindi della restituzione al pubblico godimento di un’area sottratta da Nerone alla città. Non ancora terminato, l’edificio fu dedicato una prima volta dallo stesso Vespasiano e poco dopo (nell’80 d.C.), con giochi sfarzosissimi, da Tito. Domiziano completò i lavori «fino agli scudi» che decoravano l’ultimo ordine, realizzando probabilmente anche i sotterranei dell’arena, destinati a ospitare i servizi: solo cosí può spiegarsi il fatto che, in precedenza l’edificio aveva potuto ospitare anche naumachie. L’anfiteatro è alto quasi 50 m; il diametro maggiore misura 188 m, il minore 156: misure eccezionali, che ne fanno il piú grande edificio del genere mai costruito dai Romani. L’anello esterno, interamente in travertino, è conservato per circa due terzi, ed è sostenuto da alti muraglioni realizzati nell’Ottocento. Si articola in quattro piani: i primi tre con arcate incorniciate da semicolonne (tuscaniche quelle del primo, ioniche quelle del secondo, corinzie quelle del terzo). Il quarto è cieco e scandito da lesene, anch’esse corinzie, che ornano finestre quadrate. Una serie di mensole sporgenti (tre per scomparto) inserite sopra le finestre, in corrispondenza di fori nel cornicione, serviva a sostenere i pali per il velario. Sopra 78 delle 80 arcate del pianterreno, che davano accesso
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itinerario valle del colosseo
all’interno, si leggono ancora i numeri progressivi, destinati a incanalare la massa degli spettatori; le quattro arcate disposte in corrispondenza degli assi principali non hanno numeri, ed erano riservate agli spettatori di rango elevato. L’unico conservato, sul lato del colle Oppio, era preceduto da un protiro a colonne, e dava accesso a un corridoio la cui volta è ornata di notevoli stucchi figurati. Si tratta forse dell’ingresso destinato all’imperatore. L’interno dell’edificio, oggi privo delle gradinate e in parte distrutto, dà solo una pallida idea dell’aspetto originario. La mancanza del piano dell’arena, in gran parte realizzato in legno, lascia scoperto il complesso sistema di corridoi e ambienti sotterranei, che ospitavano le strutture e i macchinari indispensabili per lo svolgimento degli spettacoli. La cavea comprendeva cinque settori sovrapposti (maeniana): un primo gruppo di gradini in marmo era riservato ai senatori; seguivano tre maeniana con gradini in muratura e infine uno
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In alto veduta del Colosseo. Il grandioso anfiteatro fu inaugurato dall’imperatore Tito nell’80 d.C. A sinistra pianta dell’elevato e dei sotterranei dell’arena del Colosseo.
in legno, coperto da un portico colonnato, destinato alle donne. La capienza complessiva pone un difficile problema, per la perdita totale della cavea. I Cataloghi Regionari di età costantiniana, di solito attendibili, indicano 87 000 loci, mentre i calcoli moderni oscillano tra 50 000 e 73 000. Poiché i posti non erano numerati, è forse possibile che la cifra antica corrispondesse alla capienza massima. L’edificio fu spesso colpito da incendi e terremoti, e altrettante volte restaurato, almeno fino al V secolo. L’ultimo spettacolo di cui si abbia notizia è ricordato in una lettera di Teodorico al console del 523, Massimo, che aveva chiesto il permesso di organizzare una venatio (una caccia di animali selvatici, perché gli spettacoli di gladiatori erano proibiti da tempo). Il permesso fu accordato, probabilmente per l’ultima volta: dal VI all’XI secolo, quando divenne un castello dei Frangipane, l’edificio rimase in abbandono.
Qui sotto sezione della cavea del Colosseo: 1. Podium; 2. Maenianum primum (prima gradinata); 3. Maenianum secundum imum (seconda gradinata inferiore); 4. Maenianum secundum summum (seconda gradinata superiore); 5. Maenianum summum in ligneis (gradinata superiore lignea).
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In basso veduta dell’interno del Colosseo, con i sotterranei e le strutture di supporto delle gradinate mediana e inferiore.
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itinerario valle del colosseo
prima del colosseo: arco di costantino
la valle del colosseo dopo nerone
la domus aurea
meta sudans
colosseo
vestibolo della domus aurea
lago artificiale
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la domus aurea tempio di venere e roma
Ricostruzioni grafiche che mettono a confronto la valle del Colosseo cosí come doveva presentarsi in seguito agli interventi edilizi portati a termine tra il I e il IV sec. d.C. (qui sotto) e all’epoca in cui era occupata dalle strutture della Domus Aurea (in basso), la grandiosa residenza voluta da Nerone. In entrambe le simulazioni gli edifici antichi sono inseriti nel paesaggio attuale della zona.
basilica di massenzio
statua colossale di nerone
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ulle pendici del colle Oppio, a nord-est del Colosseo, si trovano i resti conservati della Domus Aurea, parte del settore esquilino della dimora, che occupava una superficie pari a 300 x 190 m circa. Queste strutture sono giunte fino a noi perché inserite nelle fondazioni delle terme di Traiano, realizzate dopo l’incendio del 104. Dalla pianta è facile riconoscere che si tratta di due settori nettamente distinti: quello occidentale presenta una forma semplice, di aspetto classico, organizzata intorno a un grande cortile rettangolare, mentre due bracci laterali, chiusi in facciata da un porticato, si aprivano verso la valle antistante, occupata dai giardini e dallo stagno. A questo corpo di fabbrica se ne affianca, a est, un secondo, di forme assai piú complesse e articolate, costituito da ambienti disposti intorno a una grande rientranza poligonale, seguiti da altri ambienti, articolati a raggiera intorno a una sala ottagonale. Nel punto in cui i due complessi si toccano vengono a determinarsi ambienti di risulta di forma del tutto irregolare: ciò dimostra che non si tratta di edifici contemporanei, e che il settore orientale è stato aggiunto in un secondo tempo. Queste osservazioni, unite alla diversità evidente delle decorazioni pittoriche, si spiegano agevolmente se identifichiamo le due unità come pertinenti rispettivamente alla Domus Transitoria e alla Domus Aurea. Nel primo complesso spicca il ninfeo rettangolare, situato a est del cortile: si tratta di un ambiente a volta, preceduto da una sala dotata di porticati laterali e concluso sul fondo da una fontana a cascata. Le pareti del ninfeo e della sala antistante erano in origine rivestite di marmo e, in alto, da un grande mosaico, strappato in antico. La decorazione della volta, parzialmente conservata, consiste di uno strato di pomice, nel quale erano inseriti quattro medaglioni rotondi agli
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itinerario valle del colosseo
In basso Domus Aurea, il ninfeo di Polifemo, che trae nome dal mosaico sul tondo centrale della volta (foto in alto), raffigurante Ulisse che porge al ciclope la coppa di vino che lo renderà ubriaco.
angoli e uno ottagonale al centro, che ha conservato parte della sua decorazione figurata, con Ulisse che offre la coppa di vino a Polifemo. Si passa da qui nel settore orientale, che presenta una decorazione pittorica di quarto
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stile, caratterizzata da architetture fantastiche e da colori vivaci. È questa la zona che si può attribuire agli architetti della Domus Aurea, Severo e Celere, mentre le pitture dovrebbero appartenere al pittore Ludius (o Studius) citato da Plinio. Un lungo porticato di servizio, con pitture di livello modesto, isola il corpo principale dell’edificio: dapprima si incontra un complesso costruito intorno a un cortile poligonale, al centro del quale si apriva la celebre sala della «volta dorata», oggi mal conservata, ma piú volte riprodotta dagli artisti rinascimentali, che qui presero i modelli per le loro «grottesche» (termine tratto dalla denominazione attribuita ai resti della Domus Aurea, che furono esplorati come «grotte»). Il settore orientale era organizzato intorno a una grande sala ottagona, coperta a cupola, alle spalle della quale si trova un ampio ninfeo, affiancato da ambienti radiali, che hanno conservato in parte la loro decorazione pittorica (tra l’altro, un quadretto con Achille tra le figlie di Licomede) e gli stucchi delle volte.
terme di traiano L’
ampia superficie del colle Oppio era occupata dalla grandiosa mole delle terme di Traiano. L’edificio, realizzato tra il 104 e il 109 d.C. dallo stesso architetto del foro di Traiano, Apollodoro di Damasco, è il primo esempio di grandi terme imperiali, secondo un modello adottato in seguito anche dagli analoghi impianti di Caracalla e di Diocleziano, compreso l’orientamento in direzione sud-ovest, destinato a profittare al massimo dell’insolazione per il riscaldamento del calidarium, la sala che ospitava la vasca con acqua calda. Si tratta, in pratica, del raddoppiamento delle strutture destinate alla balneazione, che venivano percorse dagli ingressi posti a nordest fino al calidarium: da qui iniziava un percorso unico, che riportava verso l’ingresso, attraverso pochi, grandi ambienti comuni – calidarium, basilica, natatio (piscina) –. Un grande recinto periferico, occupato da un parco e nel quale erano disposti altri servizi, completava l’edificio. Le dimensioni totali (330 x 315 m circa) sono di poco inferiori a quelle degli altri due grandi edifici termali, di Caracalla e di Diocleziano. Solo pochi resti ne sono ancora conservati: del recinto, un’esedra del lato nord-ovest e le due
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domus aurea
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laterali del lato sud-est (in una di queste, sull’angolo occidentale, è stata identificata una biblioteca). Dell’edificio centrale restano l’esedra della palestra orientale e, nelle vicinanze, l’abside di una sala, dove è esposta una pianta moderna dell’edificio, incisa su marmo. Sono ancora riconoscibili la grande sostruzione dell’esedra meridionale del recinto, che ha coperto parte della Domus Aurea e, piú a est, le grandiose cisterne delle terme, note come Sette Sale.
A sinistra pianta dei resti della Domus Aurea e delle sovrastanti terme di Traiano: 1. Natatio; 2. Basilica; 3. Tepidarium; 4. Calidarium. In alto una delle strutture superstiti delle terme di Traiano, sul colle Oppio.
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itinerario valle del colosseo
ludus magnus L
a zona a est del Colosseo era occupata da un quartiere realizzato da Domiziano, in gran parte destinato a ospitare edifici funzionalmente collegati all’anfiteatro: in particolare le quattro caserme di gladiatori, la piú grande e importante delle quali, il Ludus Magnus, fu parzialmente scavata nel 1937 e poi ancora nel 1959-61. Ne rimane visibile, tra via Labicana e via di S. Giovanni in Laterano, la metà settentrionale, ma il resto si può
ricostruire sulla base di un frammento della pianta marmorea severiana. Si tratta di un edificio interamente in laterizio, che comprendeva probabilmente tre piani, uno solo dei quali è conservato. Al centro si trova un cortile porticato su cui si aprono ambienti rettangolari, destinati ad alloggio dei gladiatori: a nord si trova l’ingresso principale, a cui si scendeva dalla via sovrastante mediante una scalinata. L’elemento piú
basilica di s. clemente L
Uno degli edifici di epoca romana di cui si conservano i resti sotto l’odierna basilica di S. Clemente. Le strutture qui illustrate appartengono al complesso identificabile con la Zecca imperiale.
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ungo la via di S. Giovanni in Laterano si trova la basilica di S. Clemente, edificata su un importante complesso di edifici antichi. La visita permette di cogliere l’avvicendarsi delle fasi architettoniche e storiche del sito lungo un arco di duemila anni. La chiesa è sorta su due grandi complessi antichi, di carattere pubblico, dei quali ha conservato la pianta. Quello piú a est corrisponde al corpo principale e probabilmente anche al nartece antistante, mentre quello piú a ovest, del quale si conosce un tratto piú limitato, fu in parte occupato dall’abside. Il primo è una costruzione rettangolare allungata, larga 100 piedi (29,6 m), di lunghezza ignota (anche se si estendeva in origine, con ogni probabilità, fino alla strada antica su cui si affaccia la chiesa). Il muro esterno è realizzato in opera quadrata con blocchi di tufo dell’Aniene e coronato da un filare di blocchi di travertino. In esso non si apre alcuna porta, e quindi l’ingresso doveva trovarsi al centro del lato orientale. L’interno consiste in una serie di tabernae, con muri divisori in opera mista di reticolato e mattoni, facciate in laterizio e copertura a volta. La presenza di una scala al centro del lato lungo settentrionale dimostra l’esistenza di un secondo piano, solo in parte esplorato. La parte centrale dell’edificio, corrispondente
A sinistra resti del Ludus Magnus, la piú grande delle palestre destinate agli allenamenti dei gladiatori.
interessante si trova al centro del cortile: un’arena ovale, un vero e proprio anfiteatro in miniatura, destinato agli allenamenti dei gladiatori, che comprendeva una piccola cavea con gradinate per gli spettatori, a cui si accedeva con scalette esterne. In corrispondenza dell’asse minore si trovava una tribuna d’onore, accessibile dal piano superiore del portico. Quattro fontanelle occupavano gli angoli del cortile.
alla navata principale della chiesa, è ignota, ma doveva corrispondere a un cortile, probabilmente porticato. Il livello e le caratteristiche tecniche dell’edificio permettono di attribuirlo al periodo domizianeo: le sue caratteristiche strutturali corrispondono a quelle di un complesso «industriale», caratterizzato però, come si deduce dalla robustezza delle murature esterne e dalla limitazione degli ingressi, da particolari misure di sicurezza. Dopo la metà del III secolo d.C. la costruzione venne ristrutturata, colmando il pianterreno, cortile compreso, e trasferendo le sue funzioni al primo piano. Seguí la costruzione della prima chiesa, che dovette avvenire tra la metà del IV e gli inizi del V secolo. Il nome e la funzione dell’edificio sono chiariti da alcune iscrizioni, trovate nel XVI secolo, probabilmente in situ, davanti alla facciata orientale. Si tratta in particolare di tre cippi che sostenevano statue di Apollo, Ercole e Fortuna, dedicati dagli operai della Moneta Caesaris (la Zecca imperiale) nel 115 d.C., sotto Traiano. Recentemente è stata scoperta, riadoperata sopra la porta della chiesa, una grande epigrafe di questo imperatore, certamente la dedica ufficiale dell’edificio, che aveva sostituito quella originaria di Domiziano dopo la sua damnatio memoriae. Va infine menzionato un frammento della pianta marmorea severiana, che riproduce parte di un edificio identico al nostro, con la scritta MON, da integrare evidentemente con Moneta. L’identificazione dell’edificio è cosí certa, e ciò
permette di chiarire le ragioni delle peculiarità strutturali che lo connotano, imposte dalla natura particolarmente preziosa dei materiali che vi venivano lavorati. Il complesso che si trova piú a ovest, e sul quale poggia l’abside della chiesa, è del tutto diverso: esso è piú largo (32,50 m) e interamente realizzato in laterizio. La sua datazione è provata da bolli di mattone riferibili alla fine del regno di Domiziano (90-96 d.C.), ed è un preciso elemento ante quem per la costruzione della Moneta, a cui si addossa. L’insieme è caratterizzato dalla presenza di un corridoio, che gira intorno a un cortile interno: a est di quest’ultimo si trovano quattro grandi stanze, due delle quali conservano la volta decorata con stucchi. Il cortile centrale era coperto da una volta a sesto ribassato, nella quale si aprivano finestrine laterali. Tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. esso fu trasformato in un mitreo: sulla volta vennero dipinte stelle, ai lati furono collocati due banconi per i fedeli e in fondo una nicchia destinata alla statua di Mitra e a un altare. Al centro, sui lati, sono collocate le due statue dei dadofori («portatori di fiaccole»), Cautes e Cautopates. Il mitreo fu distrutto alla fine del IV secolo d.C., per consentire la costruzione della basilica.
moneta(?)
mitreo
Pianta degli edifici romani individuati sotto la basilica di S. Clemente.
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i fori imperiali
di Stefania Berlioz
dal foro romano I
Veduta del foro di Traiano (a sinistra la Colonna Traiana) e dei mercati di Traiano da via dei Fori Imperiali.
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n epoca tardo-repubblicana il Foro Romano doveva apparire inadeguato a rappresentare il rango di una città divenuta capitale di un impero sterminato, e i suoi spazi inadatti a ospitare le attività politiche, giudiziarie e amministrative di un corpo civico notevolmente accresciuto. Le dimensioni non eccessive della piazza e il profondo condizionamento esercitato da preesistenze antichissime, spesso non eliminabili per la loro valenza sacrale (pensiamo, per esempio, al differente orientamento, tra Foro Romano e Comizio) impedivano, a meno di non intervenire in modo traumatico, l’attuazione di progetti di grande respiro. Le trasformazioni urbanistiche realizzate dai censori tra il II e il I secolo a.C. (in particolare l’inserimento di basiliche) avevano notevolmente modificato l’aspetto «antiquato» della
piazza, ma a mancare, in definitiva, era l’organicità dello spazio forense. Questa «mancanza di un centro», quasi uno specchio della complessa e instabile situazione politico-sociale, doveva essere percepita dalla comunità come un segno di disgregazione, di progressivo deterioramento. Una dissacrante ma assai realistica immagine del Foro e dell’umanità che in esso gravitava ci viene offerta da Plauto: una sorta di «visita guidata» che ci dà una misura di quanto l’insicurezza dei tempi investisse non solo la sfera del pubblico ma anche quella del privato: «Voglio insegnarvi dove potete facilmente trovare, se ne avete bisogno e senza stare a faticar troppo, un mascalzone o un onest’uomo, una persona integra o un degenerato. Se vi serve incontrare uno spergiuro, andate nel
ai fori
imperiali Comizio; se invece desiderate un bugiardo o un fanfarone, andate al sacello di Cloacina. I mariti ricchi e spendaccioni cercateli alla basilica, dove ci sono anche vecchie bagasce e mediatori di affari, mentre al mercato del pesce troverete quelli che scroccano inviti a pranzo. Nella parte piú bassa del foro passeggiano le persone per bene e i grandi ricchi; in quella mediana, presso la cloaca, i gran millantatori. Intorno al lago Curzio circolano i dritti, i pettegoli e i male intenzionati, che per un niente insultano sfrontatamente il prossimo, anche se loro stessi hanno a sufficienza di che si possa loro rinfacciare. Alle botteghe vecchie ci stanno gli strozzini e i loro clienti, mentre al tempio dei Castori trovi gente di cui non devi fidarti senza pensarci bene. Sul vicus Tuscus ci sono gli uomini che fan commercio di se stessi e sul
Velabro invece i fornai, i macellai e gli aruspici, ma anche gli invertiti e quelli che li cercano, mentre i mariti ricchi e scialacquatori puoi trovarli nel bordello di Oppia Leucadia» (Plauto, Curculium, vv. 467-485). Sarà Giulio Cesare a spingersi là dove nessuno era mai arrivato: rivoluzionare l’assetto dell’antico e glorioso foro repubblicano e dilatarne gli spazi attraverso la creazione di una grandiosa piazza porticata, dominata da un edificio templare. Un nuovo foro, espressione di un potere assoluto. Viene cosí inaugurata la sequenza dei «Fori Imperiali» – i cinque complessi monumentali di committenza imperiale realizzati in continuità topografica con il foro repubblicano – destinati a imprimere una indelebile impronta nel paesaggio del centro monumentale di Roma.
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i fori imperiali
mercati traianei
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foro di traiano
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foro di augusto
1
foro di cesare
foro di nerva
Assonometria ricostruttiva dei fori di Cesare, Augusto, Traiano, Nerva e della Pace, con i principali luoghi di culto. Questa situazione è riferibile all’età imperiale, quando i complessi erano ancora in uso. 1. Tempio di Venere Genitrice; 2. Tempio di Marte Ultore; 3. Aula di culto della Pace; 4. Tempio di Minerva; 5. Basilica Ulpia; 6. Colonna Traiana; 7. Mercati di Traiano; 8. Curia Iulia; 9. Basilica Emilia
8 foro romano
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il foro di cesare L’idea di realizzare un nuovo foro, in continuità piuttosto che in sostituzione del vecchio, doveva essere sorta nell’animo di Cesare già al tempo delle campagne galliche (58-51 a.C.). Quasi una risposta all’ambizioso programma edilizio intrapreso, in quegli stessi anni, dal collega (e poi avversario) Pompeo. Ma mentre quest’ultimo indirizzava i suoi sforzi verso gli spazi non urbanizzati del Campo Marzio, cioè all’esterno del pomerium, come tutti i trionfatori, Cesare sceglie di intervenire nel cuore stesso della città, nella piú antica e autorevole sede del potere costituito: il Foro Romano. Cesare incarica Marco Tullio Cicerone – proprio il celebre oratore romano – dell’acquisto di terreni privati nell’area tra il Foro Romano e la contigua valle dell’Argileto. Ce ne
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In alto foro di Augusto, tempio di Venere Genitrice. Particolare del rilievo con amorini tauroctoni pertinente alla decorazione esterna della cella.
tempio della pace
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informa lo stesso Cicerone, in una lettera all’amico Attico nella primavera del 54 a.C., alla vigilia della seconda spedizione di Cesare in Britannia. Una testimonianza di prima mano, che val la pena leggere interamente: «Da mio fratello apprendo certi particolari incredibili sull’amicizia che Cesare nutre nei miei confronti. Me ne ha dato conferma un’epistola di notevole lunghezza che Cesare stesso mi ha indirizzato. (…) Paolo ha quasi terminato di riparare la Basilica con le stesse colonne antiche. L’altra, che ha appaltata, viene ora costruita con gran lusso. Cosa vuoi sapere di piú? Non vi è nulla di piú gradito e glorioso di quell’edificio. E cosí, noialtri amici di Cesare (cioè io stesso e Oppio: sei autorizzato a trasecolare) abbiamo buttato via 60 milioni di sesterzi per quel monumento che tu eri solito lodare moltissimo: l’ampliamento del Foro, esteso fino all’Atrium Libertatis; non era possibile accordarsi per meno con i proprietari. Realizzeremo un’opera che ci darà lustro eterno» (Cic., ad Att. IV, 16, 7-8). La creazione di questo «nuovo spazio», da estendere sino ai confini dell’Atrium Libertatis, la sede dell’archivio dei censori, risulta dunque associata a importanti lavori di sistemazione del settore occidentale del Foro Romano (il restauro della basilica Emilia, cui sovrintende Lucio Emilio Paolo, e la costruzione della nuova basilica Giulia, entrambi edifici destinati a ospitare, al coperto, le attività giudiziarie, amministrative e commerciali proprie del Foro). Ma ciò che, almeno in un primo momento, viene concepito, o almeno presentato, come una sistemazione monumentale e un «ampliamento» del foro repubblicano si rivelerà ben presto un intervento radicale volto, in sintonia con l’azione politica di Cesare, allo sradicamento di tutta la vecchia simbologia repubblicana. I lavori si prolungano per circa otto anni, anni fatali, segnati da un tumultuoso succedersi di avvenimenti:
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i fori imperiali
la disfatta e la morte di Crasso a Carre (53 a.C.), lo scoppio della guerra civile (49 a.C.), la sconfitta di Pompeo nella città tessala di Farsalo (48 a.C.). Proprio alla vigilia di questa battaglia, nella quale si decidono le sorti di Roma, Cesare fa voto della costruzione di un tempio a Venere, sua divinità protettrice. Il tempio, insieme alla piazza che lo circonda viene inaugurato nel 46 a.C., ancora incompleto. L’occasione è delle piú solenni: il rientro di Cesare a Roma e la celebrazione dei quattro trionfi – su Gallia, Egitto, Ponto e Africa – decretati dal Senato in suo onore. I festeggiamenti, di un fasto inaudito, si protraggono per ben quattro giorni
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nell’arco di un mese. Finalmente, il 26 settembre del 46 a.C. si schiudono le porte del nuovo foro. Il complesso si presenta come una lunga e stretta piazza porticata, conclusa e unificata dal tempio di Venere addossato al lato breve di fondo, in asse con l’ingresso. Un impianto dalla visione rigorosamente assiale e centralizzata, evidentemente ispirato ai grandi santuari ellenistici dedicati ai sovrani divinizzati. Ogni particolare interno risulta studiato per esaltare le virtú militari di Cesare e la natura divina del suo potere: cosí la statua equestre del dittatore (una statua di Alessandro Magno a cavallo di Bucefalo, si diceva,
rilavorata con un ritratto di Cesare), posta al centro della piazza; cosí il tempio di Venere, quella Genitrix («Genitrice») cui veniva fatta risalire l’origine stessa della gens Iulia. Nel suo foro, Cesare si comporta effettivamente come un dio: una volta, come ci racconta Suetonio, contravvenendo a tutte le tradizioni repubblicane giunge ad accogliere i senatori nel vestibolo antistante al tempio «stando seduto» (Suet., Caes., 78). Un episodio che, piú degli altri, suscitò la riprovazione e l’ostilità dei senatori e dell’intera comunità. Ma solo dopo l’inaugurazione del Forum Iulium si compie l’ultima, decisiva
nuovo potere. Con questo ultimo atto la città repubblicana si è di fatto trasformata nella città imperiale. Amare e premonitrici risuonano le parole di Cicerone: «Per le nostre colpe, e non per un qualche caso fortuito, conserviamo la repubblica a parole, ma già da tempo l’abbiamo perduta nella sua realtà» (Cic., Rep., V 1).
A destra ritratto in scisto verde di Giulio Cesare, di provenienza ignota. Berlino, Staatliche Museum, Antikensammlungen. In basso ricostruzione grafica del foro di Cesare: il tempio di Venere Genitrice (sullo sfondo) visto dal portico meridionale.
Lavori in corso
rottura con il passato e la tradizione repubblicana. Tra il 46 e il 44 a.C., quando ormai risulta evidente l’indirizzarsi di Cesare verso un regime autocratico, si procede con la demolizione e la successiva ricostruzione, nel Foro Romano, dell’antica Curia Hostilia, l’edificio destinato alle riunioni del Senato. La nuova Curia (dedicata da Augusto nel 29 d.C.), mutata nelle forme e nella posizione, viene trasformata in una appendice del foro di Cesare: il suo ingresso posteriore viene ad aprirsi direttamente sul portico del complesso cesariano, in modo da sottolineare la subordinazione del senato rispetto al
54 a.C. Cesare affida a Cicerone l’incarico di acquistare terreni limitrofi al Foro Romano 48 a.C. In occasione della battaglia di Farsalo Cesare fa voto di erigere un tempio a Venere 46 a.C. (26 settembre) Inaugurazione del foro e del tempio di Venere Genitrice 44 a.C. (15 marzo) Uccisione di Cesare 80 d.C. Un incendio distrugge il foro 113 d.C. (12 maggio) Traiano dedica il tempio ricostruito (contestualmente alla Colonna Traiana) 283 d.C. durante il regno di Carino un altro incendio distrugge il foro, che viene in gran parte restaurato da Diocleziano
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i fori imperiali
Il Foro di Augusto Sarà un membro adottivo della famiglia giulia, Ottaviano, futuro imperatore Augusto, a portare a termine le opere edilizie iniziate da Cesare – la basilica Giulia e il Forum Iulium – e a dare avvio a una grandiosa ristrutturazione urbanistica di Roma. Come già Cesare, l’attenzione di Ottaviano non tarda a rivolgersi al Foro Romano e alla realizzazione di un nuovo complesso forense, il
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Ricostruzione grafica del foro di Augusto: la facciata del tempio di Marte Ultore, accanto alla quale è uno degli ingressi dalla Subura, il quartiere popolare che si estendeva alle spalle del complesso augusteo.
terzo di Roma. Non ce n’era, forse, una necessaità reale, ma Ottaviano intendeva lasciare una sua grandiosa impronta, non inferiore a quella lasciata dal padre adottivo, nel cuore di Roma.
E proprio in nome di Cesare il progetto prende forma, come afferma lo stesso Augusto nelle sue memorie, le Res Gestae («le imprese»): la costruzione del tempio di Marte Ultore («il vendicatore») e, verosimilmente, anche della piazza che lo circondava fu decisa da un voto fatto in occasione della battaglia di Filippi (42 a.C.), in cui cadono Bruto e Cassio, ideatori ed esecutori dell’assassinio di Cesare. I lavori, finanziati ex manubiis – con il ricavato della preda bellica – si protrassero a lungo: l’inaugurazione ufficiale, accompagnata da spettacoli e giochi grandiosi, ebbe luogo nel 2 a.C., a quarant’anni dal voto solenne. Un quarantennio segnato dall’irresistibile
ascesa di Ottaviano e dal radicale cambiamento della scena politica romana. Il nuovo foro, perpendicolare a quello di Cesare, va a estendersi sino ai piedi della Subura, il quartiere romano adagiato sulle pendici del Quirinale e del Viminale. Il grosso dei terreni apparteneva ad Augusto, ma anche in questo caso si dovette procedere con l’espropriazione di alcuni lotti privati. Augusto, secondo quanto racconta Suetonio (Aug., 56), si mostrò restio alla demolizione delle case private e rispettoso della volontà dei singoli cittadini, cosí che la piazza risultò piú piccola di quanto inizialmente preventivato. Il risultato fu
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i fori imperiali
comunque sorprendente. Il nuovo foro si presentava come un sistema chiuso, spazialmente autonomo; la percezione del suo isolamento risultava accentuata dalla recinzione che lo racchiudeva, un muro in blocchi squadrati di peperino e pietra gabina di oltre 30 m di altezza, ancora visibile in tutta la sua imponenza. Una protezione contro il pericolo degli incendi, ma dal forte valore simbolico. La planimetria interna non differisce da quella del foro di Cesare: anche in questo caso si tratta di una piazza rettangolare, delimitata da portici sui lati lunghi e conclusa dall’imponente edificio templare, in asse con l’ingresso. È una novità, imitata nei successivi impianti forensi, l’inserimento di ampie esedre semicircolari alle spalle dei portici (quattro, come hanno accertato recenti scavi). Nel foro si amministra la giustizia (le esedre ospitavano i tribunali e gli archivi dei pretori), ma, soprattutto, si svolgono quelle cerimonie pubbliche – fino ad allora privilegio del tempio di Giove Capitolino – legate alla politica estera e alla gloria delle armi: nel tempio di Marte il senato decretava l’inizio delle guerre e sanciva la pace; da qui partivano i comandanti militari e i generali vittoriosi vi deponevano le insegne trionfali, al ritorno dalle loro spedizioni. Al contrario di Cesare, che nel proprio foro aveva voluto affermare l’origine
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divina e la natura assoluta del proprio potere, Augusto adotta un linguaggio nuovo, apparentemente piú moderato, ma dalla portata non meno rivoluzionaria. Un linguaggio fatto di «immagini» che veicolano un solo, semplice messaggio: la storia di Roma trova una sua logica e provvidenziale conclusione nell’impero inaugurato da Augusto. Nel programma figurativo del nuovo foro si materializza una complessa quanto sottile opera di recupero della storia leggendaria di Roma e la sua fusione con quella della famiglia giulia; questa versione «riveduta e corretta» trova la sua massima espressione nell’Eneide di Virgilio: Marte, sedotta Rea Silvia, figlia dell’ultimo re di Alba Longa, Numitore, avrebbe con lei generato Romolo e Remo, divenendo progenitore della stirpe romana. Ma Rea Silvia, discendente dalla stirpe troiana di Enea, rientrava a pieno diritto nell’albero genealogico della famiglia giulia e quindi dello stesso Augusto: il mito privato della gens Iulia diviene mito dello Stato di Roma. Un romano, entrando nel nuovo foro, diveniva spettatore e in un certo senso protagonista di una storia esemplare: lungo i muri di fondo dei portici e delle esedre sfilavano, quasi in una sacra processione, quanti «avevano portato l’impero romano dai suoi modesti inizi all’attuale grandezza» (Suet., Aug.,31). I personaggi rappresentati ci sono noti
dalle descrizioni delle fonti e dalle iscrizioni rinvenute in situ. Ogni statua era corredata da due iscrizioni: un titulus con il nome del personaggio e le cariche sostenute, e un elogium, in cui venivano riassunte le principali opere e benemerenze. Augusto partecipò personalmente alla scelta dei personaggi, dichiarando il senso del programma figurativo in un editto, promulgato in occasione dell’inaugurazione del foro. Ce ne parla Suetonio: «La sua idea era che i Romani avrebbero dovuto giudicarlo finché era in vita – e giudicare poi i principes che gli sarebbero succeduti – secondo il modello di quegli uomini» (Suet., Aug. 31). Al centro dell’esedra di Nord-Ovest era l’immagine di Enea, mitico progenitore di Roma e della famiglia giulia, rappresentato in fuga da Troia con il padre Anchise e il figlio Ascanio; a destra erano disposti i membri della gens Iulia, a sinistra i re di Alba Longa. Sull’esedra opposta, in posizione speculare rispetto a Enea, era la statua di Romolo, nelle vesti di primo trionfatore. Lo attorniavano i summi viri («uomini illustri»), protagonisti della storia di Roma, serie che proseguiva entro le nicchie dei portici. Tale programma trovava una logica e coerente conclusione nell’apparato decorativo del tempio culminante, nella cella, con le statue di Marte Ultore e di
Nella pagina accanto il foro di Augusto da sud: in primo piano il podio del tempio di Marte Ultore, con la gradinata di accesso alla cella. A destra replica dell’Augusto di Prima Porta collocata in via dei Fori Imperiali, all’altezza del foro di Augusto. L’opera originale (inizi I sec. d.C.) è conservata ai Musei Vaticani.
chi si fosse distinto per particolari benemerenze. Una prerogativa di cui l’assemblea fece largo uso, come ci testimonia lo stesso Augusto: «Nell’anno del mio tredicesimo consolato il senato, i cavalieri e l’intero popolo romano mi
conferirono il titolo di Padre della Patria, e decisero di apporre una scritta relativa all’avvenimento nell’atrio della mia casa, nella Curia Iulia e sotto la quadriga del foro di Augusto che il Senato stesso vi aveva fatto porre» (Res Gestae, 35).
Lavori in corso
Venere, i comuni progenitori. Augusto non parla mai di sé in prima persona, rifugge da ogni tentazione autocelebrativa. Amava del resto presentarsi come primus inter pares, «primo fra cittadini di pari dignità»; e come da tradizione, quella tradizione repubblicana di cui l’imperatore si faceva formalmente paladino, spettava al Senato il compito di celebrare
42 a.C. Battaglia di Filippi: Ottaviano fa voto di erigere un tempio a Marte Ultore 27 a.C. Ottaviano riceve il titolo di Augusto 2 a.C. (1° agosto) Inaugurazione del foro 14 d.C. Morte di Augusto 19 d.C. Erezione di due archi in onore di Germanico e di Druso Minore.
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i fori imperiali
tempio della pace Dopo gli eccessi che avevano caratterizzato il principato di Nerone, ultimo rappresentante della dinastia giulio-claudia, la politica edilizia degli imperatori flavi nel centro di Roma viene impostata secondo due principali linee di tendenza: la riconversione a uso pubblico degli spazi privatizzati dal tiranno per far posto alla Domus Aurea; il progressivo trasferimento in aree periferiche delle strutture e degli impianti a uso commerciale a favore di
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complessi «di rappresentanza», piú consoni al rango e alla dignità del centro storico della capitale dell’impero. In linea con questa tendenza si colloca una delle maggiori creazioni di Vespasiano, il Templum Pacis («tempio della Pace»), realizzato nell’area occupata in precedenza dal Macellum, il grande mercato alimentare della Roma repubblicana. Il complesso era già stato trasferito da Nerone sul Celio (Macellum Magnum), perché d’intralcio alla Domus
Transitoria (il complesso palatino che precede la Domus Aurea) e le sue strutture, ormai in disuso, definitivamente distrutte nel corso del disastroso incendio scoppiato nel 64 d.C. Il nuovo complesso monumentale, realizzato da Vespasiano tra il 71 e il 75 d.C., viene concepito per esaltare la restaurata pax Romana, motivo dominante di tutta la propaganda flavia, e, soprattutto, per celebrare il trionfo sui Giudei. Come suggerito dal nome
Qui sopra ricostruzione grafica del tempio della Pace con l’aula di culto sullo sfondo. A destra, in alto busto di Vespasiano. 67-79 d.C. Roma, Musei Capitolini.
Lavori in corso
«templum» (corrispondente al greco temenos, ovvero un recinto sacro) con cui veniva indicato, il nuovo complesso non appartiene, strutturalmente e funzionalmente, alla serie dei Fori Imperiali, benché in questa lista sia annoverato nelle fonti tardo-antiche. Separato dal vicino foro di Augusto dall’Argiletum (la strada di collegamento tra il Foro Romano e i quartieri dell’Esquilino), il tempio della Pace si presenta come una vasta piazza quadrangolare, definita su tre lati da portici; l’edificio di culto, una semplice aula absidata preceduta da un pronao esastilo (con sei colonne sulla fronte), risulta inglobato all’interno del portico che delimita il lato di fondo della piazza: una novità, rispetto al tradizionale tempio su podio degli altri complessi forensi. Altrettanto inusuale è la sistemazione a giardino della piazza centrale, dotata di bassi canali che simulavano corsi d’acqua, delimitati da aiuole e cespugli di fiori. Un vero e proprio paradiso nel centro della città: dal frastuono e dagli odori pungenti del Macellum si passava alla quiete, e al profumo delle rose. Il complesso non aveva specifiche funzioni amministrative o giudiziarie; era stato piuttosto concepito come uno spazio di riunione a sfondo culturale, esaltato dalla presenza di biblioteche e dalla straordinaria collezione d’arte depredata da Nerone nelle città della Grecia e d’Asia Minore (vedi box qui sotto). Come ci racconta in tono un po’ encomiastico lo storico e generale ebreo Giuseppe Flavio (37-95 circa), fu proprio Vespasiano a voler riunire in un unico luogo «tutte le opere per
71 a.C. Vespasiano dà inizio ai lavori di costruzione del Tempio della Pace 75 d.C. Dedica del foro 192 d.C. Incendio devastante sotto l’imperatore Commodo 208-211 d.C. Settimio Severo restaura il foro e vi fa esporre la Forma Urbis Romae V secolo d.C. Nuovo incendio e abbandono del foro 526-530 L’angolo meridionale del foro viene trasformato nella basilica dei SS. Cosma e Damiano
ammirare le quali, fino a quel momento, gli uomini avevano dovuto viaggiare per tutta la terra, desiderosi di vederle pur essendo disperse in questo o quel paese» (Bell. Iud. VII, 5,7).
| Opere d’arte e trofei militari | Il tempio della Pace doveva presentarsi come un vero e proprio museo en plein air. Tra le tante opere ricordate dalle fonti letterarie figurano la celebre vacca di Mirone (prima metà V secolo a.C.), modellata nel bronzo con tale maestria da ingannare gli stessi pastori; il gruppo dei Galati trafugato a Pergamo; opere dei piú grandi maestri della scultura greca di epoca classica tra cui Fidia (490-430 a.C.), Policleto (attivo tra il 460 e 420 a.C.), Leocare (IV secolo a.C.), Lisippo (370-300 a.C. circa); e ancora le tavole dipinte da Protogene, Nicomaco, Elena, tutti pittori attivi presso le corti delle capitali ellenistiche. Accanto alle opere d’arte della grecità classica trafugate da Nerone e «restituite» da Vespasiano al pubblico godimento, nel tempio della Pace – probabilmente nell’aula di culto – erano esposti i preziosi arredi prelevati dal tempio di Gerusalemme, in particolare il candelabro a sette braccia in oro massiccio (la menorah) e le celebri trombe d’argento rappresentati in uno dei rilievi dell’arco di Tito, il monumento del trionfo sui Giudei.
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i fori imperiali
«Nel Foro di Nerva, detto Transitorio» Domiziano, ultimo rappresentante della dinastia flavia, nonostante la fama sinistra che accompagna la fine del suo principato (negli ultimi anni di regno instaurò un vero e proprio regime del terrore e venne infine assassinato in una congiura alla quale partecipò anche la moglie, Domizia Longina, n.d.r.), può essere considerato, insieme ad Augusto, l’imperatore piú prolifico nel campo dell’attività edilizia. Sulle sue spalle ricadevano del resto pesanti fardelli:
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ovviare ai danni provocati dal disastroso incendio divampato tra Campo Marzio e Campidoglio (80 d.C.) e portare a termine le grandiose opere avviate dai suoi predecessori, dal Colosseo alle terme di Tito. Questa frenetica attività edilizia si accompagna, quale tratto distintivo dell’opera domizianea, allo sforzo di integrare e collegare organicamente i quartieri abitativi e i complessi monumentali del centro di Roma. In tale ottica viene concepito un nuovo
complesso forense, ufficialmente – ma impropriamente – intitolato a Nerva. Domiziano aveva iniziato e quasi ultimato i lavori, ma la damnatio memoriae («cancellazione della memoria») decretata dal senato dopo la sua morte violenta, impedí che il suo nome fosse ricordato nell’iscrizione dedicatoria del tempio, privilegio che spettò, insieme alla dedica ufficiale del foro, nel 97 d.C., al successore Nerva. Come suggerito dall’appellativo
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transitorium («di passaggio») con cui viene indicato nelle fonti tardo-antiche, il nuovo foro è concepito come uno spazio di collegamento e allo stesso tempo di cerniera monumentale tra i fori allora esistenti e i quartieri dell’Esquilino; il complesso va infatti a occupare la stretta fascia di terreno posta tra il tempio della Pace e il foro di Augusto e percorsa dal primo tratto dell’Argiletum, la strada che collegava il Foro Romano al quartiere della Subura.
84 d.C. Domiziano dà inizio ai lavori 96 d.C. Assassinio di Domiziano e successiva damnatio memoriae 96 d.C Nerva succede a Domiziano 97 d.C. Dedica del foro da parte di Nerva
A destra ritratto di Nerva, da Tivoli. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. A sinistra ricostruzione grafica del foro di Nerva, con il tempio di Minerva sullo sfondo.
| L’invasione degli ambulanti | Vera piaga del centro di Roma era rappresentata dall’occupazione abusiva degli spazi pubblici da parte degli ambulanti e degli stessi commercianti, che esponevano le loro variopinte mercanzie ben oltre i limiti delle botteghe, invadendo i marciapiedi delle strade e ogni spazio giudicato «libero». In un gustosissimo epigramma, Marziale ci offre un quadretto della vita quotidiana nelle strade del centro di Roma, con un’adulatoria conclusione indirizzata all’imperatore Domiziano che, piú degli altri, cercò di trovare una soluzione al problema. «L’ambulante ci rubava sfrontato tutta Roma, non c’eran piú limiti, tutte le soglie erano sparite. Tu, Germanico, ai nostri vicoli hai ingiunto di sgomberarsi e dov’era un sentiero è spuntata una via. Non piú i fiaschi appesi ai pilastri, il pretore costretto a infangarsi, i rasoi che ti radono alla cieca premuti dalla canaglia, le gargotte annerite stravaccate sul cammino, barbiere, bettoliere, friggitore, norcino nel proprio guscio se ne sta ciascuno. Ora c’è Roma: prima era un casino» (Mart, VII, 61. Trad. G. Ceronetti).
Questo fondamentale asse stradale, in uso sin da epoche protostoriche, non poteva essere chiuso. Lo spazio a disposizione si presentava esiguo, soprattutto in larghezza (45 m circa) e, per di piú, incassato tra gli alti muri perimetrali del tempio della Pace e dei fori di Cesare e Augusto. Ma, grazie all’ingegno e alla creatività dell’architetto Rabirio, a cui Domiziano affidò il progetto, il risultato fu straordinario. Facendo largo uso di quegli accorgimenti ottici cosí in voga nell’architettura (cosí come nella pittura) di età flavia, Rabirio riesce a moltiplicare e dilatare illusionisticamente lo spazio. La piazza si sviluppa in senso longitudinale: l’ingombrante presenza dei due emicicli meridionali del foro di Augusto, che restringevano drasticamente lo spazio a disposizione (da 45 a 30 m), viene risolta demolendo l’emiciclo minore e addossando al maggiore il tempio di Minerva, in un abile gioco di curve e controcurve. I tradizionali portici forensi vengono «simulati», decorando i lati lunghi della piazza con colonnati aggettanti dalle pareti assieme alle trabeazioni. Un monumentale «corridoio» pedonalizzato, che unificava il blocco dei fori allora esistenti.
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i fori imperiali
il foro di traiano
Nel 357 d.C. Costanzo II, reggente delle provincie orientali dell’impero, ebbe a visitare Roma per la prima volta. Racconta Ammiano Marcellino che l’imperatore «giunto al Foro di Traiano, complesso eccezionale tra tutti quelli esistenti al mondo e, si potrebbe dire, mirabile anche per assenso degli dèi, rimase attonito, aggirandosi assorto fra quelle strutture gigantesche, inesprimibili a parole e non piú attingibili dai mortali. Scartata ogni speranza di tentare alcunché di simile, disse di volere e potere imitare solo la statua equestre di Traiano, collocata al centro della piazza. Udite queste parole, un principe persiano della sua corte rispose argutamente che, per ospitare un
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cavallo simile, sarebbe stato necessario costruire una stalla adeguata» (Res Gestae, XV, 10, 15). Se le fonti tardo-antiche insistono sulla grandiosità e sulla magnificenza dell’ultimo dei Fori Imperiali, realizzato da Traiano tra il 107 e il 113 d.C., i contemporanei sembrano piuttosto esaltare gli sforzi profusi nel costruirlo. E non senza una ragione: per la creazione della superficie piana adatta a ospitare la nuova piazza forense – la piú vasta mai realizzata a Roma – fu necessario sbancare la sella montuosa che collegava il Campidoglio al Quirinale. Un intervento cosí imponente che la Colonna Traiana, come indicato nell’iscrizione dedicatoria incisa sulla
base, aveva la funzione di indicare l’altezza del mons («il monte») sbancato (vedi box a p. 132). L’inizio dei lavori coincide di fatto con il taglio delle pendici del Quirinale, realizzato con una serie di gradoni successivi. Per contenere e regolarizzare le pendici del colle e superare i circa 40 m di dislivello (misura a cui fa riferimento la Colonna Traiana) che si erano venuti a creare tra la valle forense e i sovrastanti quartieri del Quirinale, viene realizzato un complesso imponente– uno dei piú straordinari dell’architettura romana – denominato convenzionalmente dei mercati di Traiano. Lo studio dei bolli laterizi consente di datare l’inizio della costruzione entro il
Lavori in corso
Statua loricata di Traiano, da Gabii. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra ricostruzione grafica del foro di Traiano.
II secolo d.C. (primo decennio) Inizio dei lavori di sbancamento della sella di collegamento tra Campidoglio e Quirinale e mercati di Traiano 96 d.C. Morte di Domiziano 98 d.C. Traiano imperatore 107 d.C. Conquista della Dacia e inizio dei lavori 112 d.C. (15 gennaio) Inaugurazione del Foro e della Basilica Ulpia 113 d.C. (18 maggio) Inaugurazione della Colonna Traiana 117 d.C. Morte di Traiano e arco trionfale decretato dal Senato 121 d.C. Morte di Plotina, moglie di Traiano 125-138 d.C. Dedica del tempio da parte di Adriano
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primo decennio del II secolo d.C., in epoca domizianea, quindi anteriormente alla realizzazione del foro di Traiano. Ma la profonda e armoniosa compenetrazione – planimetrica e funzionale – tra i due complessi manifesta un’unica mente creatrice, riconosciuta in modo unanime dagli studiosi nella figura di Apollodoro di Damasco. Sappiamo che il celebre architetto, già attivo a Roma ai tempi di Domiziano, accompagnò Traiano nelle campagne daciche come esperto di ingegneria militare e costruí un ponte sul Danubio (presso l’odierna Drobeta, in Romania), episodio raffigurato nella Colonna Traiana. L’impresa domizianea viene proseguita e portata a termine da Traiano, grazie all’ingente bottino ricavato dalla conquista della Dacia (101-102; 105-106 d.C.). Il nuovo foro, dedicato nel gennaio del 112 d.C., si presenta come il piú vasto di Roma, estendendosi su un’area di circa 300 m di lunghezza e 185 di larghezza. Il tradizionale impianto inaugurato da Cesare e perfezionato da Augusto viene modificato e arricchito attraverso l’inserimento di nuove tipologie architettoniche. In successione assiale si susseguono, da sud a nord, la piazza forense, limitata sui lati lunghi da portici con retrostanti esedre semicircolari; una imponente basilica (la basilica Ulpia, dal nome della gens a cui apparteneva Traiano) disposta in senso trasversale rispetto all’asse principale del foro; il complesso costituito dalla Colonna Traiana e dalle due biblioteche che la inquadravano. Molto si è discusso sulla natura del complesso e sul suo significato nell’ottica della propaganda imperiale. Secondo l’archeologo e studioso dell’arte antica Paul Zanker, si tratterebbe della riproduzione, in chiave monumentale, della struttura dei principia, il «quartier generale» degli accampamenti legionari. Posti al centro della fortezza, i principia erano caratterizzati dalla presenza di una struttura basilicale, impiegata come sala delle adunanze, che si affacciava su una piazza aperta, spesso porticata. Nel foro, la Colonna Traiana, alle spalle
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L’iscrizione sulla base della Colonna Traiana
Senatus Populusque Romanus Imp(eratori) Caesari Divi Nervae f(ilio) Nervae Traiano Aug(usto) Germ(anico) Dacico Pontif(ici) Maximo Trib(unicia) Pot(estate) XVII, Imp(eratori) VI Co(n)s(uli) VI P(atri) P(atriae) ad declarandum quantae altitudinis mons et locus tan[tis oper]ibus sit egestus (Il senato e il popolo romano / all’imperatore Cesare, figlio del divo Nerva, / Nerva Traiano Augusto, Germanico, Dacico, Pontefice / Massimo, rivestito per la diciassettesima volta della potestà tribunizia, acclamato imperatore per la sesta volta, console per la sesta volta, padre della patria. / Per indicare quanto era alto / il colle che con questi lavori è stato demolito)
della basilica Ulpia, sarebbe collocata in corrispondenza della aedes signorum, vale a dire l’edificio sacro destinato a custodire i signa militaria – gli stendardi dell’unità militare acquartierata nell’accampamento – portati in battaglia e difesi anche a costo della vita. La scelta di riprodurre l’immagine di un accampamento militare in un contesto propriamente civile si spiegherebbe con la volontà di esaltare i trionfi dell’imperatore e sublimare la potenza militare dell’impero. Piú recentemente Filippo Coarelli ha posto l’accento sull’impresa, destinata a rimanere impressa nella memoria collettiva come una delle piú grandi portate a termine da Traiano, a cui fa riferimento l’iscrizione incisa sulla base della Colonna Traiana: il taglio del «mons», la sella montuosa che collegava Campidoglio e Quirinale. Un intervento traumatico, che introduceva un cambiamento irreversibile nel centro di Roma, e non solo dal punto di vista paesaggistico. Durante i lavori vennero
distrutte strutture architettoniche di grande rilievo: un tratto delle mura serviane e dell’acquedotto Marcio, l’Atrium Libertatis, presitigiosa e autorevole sede dei censori, forse alcuni edifici sacri. Ciò non poteva verificarsi senza incidere nell’immaginario religioso, fortemente conservatore, dell’intera comunità. Alla luce di ciò, l’indicazione incisa nella base della Colonna Traiana potrebbe essere intesa come allusione alla funzione «sostitutiva» del nuovo complesso rispetto alla realtà che si era dovuto sacrificare. In altre parole il foro di Traiano, o almeno parte di esso, andava a sostituire una realtà architettonica precedente, con ogni probabilità da identificare nell’Atrium Libertatis. Sappiamo infatti che il complesso, progettato da Cesare e portato a termine da Asinio Pollione nel 39 a.C., comprendeva una basilica e due biblioteche. Ad avvalorare l’ipotesi dello studioso è un frammento della Forma Urbis (la pianta marmorea di Roma di
epoca severiana) pertinente al foro di Traiano: in corrispondenza dell’abside orientale della basilica si legge la parola Libertatis, al genitivo, evidentemente da completare con Atrium. Oltre alla struttura, il foro di Traiano ereditava le funzioni amministrative e giuridiche svolte dal precedente complesso, tra cui la manumissio, cioè l’atto con cui gli schiavi venivano affrancati. Il 12 maggio del 113 d.C., a un anno dalla solenne inaugurazione del foro, viene dedicata la Colonna Traiana, vero fulcro dell’intero complesso forense. Il monumento si innalza al centro di un cortile porticato – vero e proprio recinto sacro – delimitato dalle due biblioteche del foro, «la greca e la latina», come ci ricorda lo storico Cassio Dione. Sopra una base a forma di dado decorato dalle cataste delle armi daciche conquistate da Traiano, si innalza il fusto «centenario» (alto esattamente 100 piedi), coronato da un capitello corinzio il cui abaco costituisce il piano di appoggio per la colossale statua in bronzo dell’imperatore. Su questa struttura semplice e lineare il Maestro delle imprese di Traiano (tradizionalmente identificato con Apollodoro di Damasco), costruisce una delle piú straordinarie invenzioni
scultoreo-architettoniche della romanità – la colonna coclide istoriata – imitata nella successiva colonna di Marco Aurelio e, a Costantinopoli, nelle colonne di Teodosio e di Arcadio. Intorno al fusto della colonna si avvolge un rilievo spiraliforme che illustra, con intento documentario piú che celebrativo, le due campagne daciche di Traiano (101-102 e 105-106 d.C.). Il racconto si sviluppa in una narrazione storica continua: a scandire temporalmente le due campagne militari è una figura di Vittoria intenta a scrivere su uno scudo le memorabili res gestae («le imprese») dell’imperatore. Ma la colonna non è solo il monumento del trionfo e delle virtú militari di Traiano: la sua funzione principale era quella di contenere le spoglie dell’imperatore. Sappiamo infatti che le ceneri di Traiano e di sua moglie Plotina, racchiuse entro due urne d’oro, vennero riposte in una cella appositamente scavata all’interno del basamento della colonna. Uno dei rarissimi esempi di sepoltura all’interno del pomerium, la linea che definiva sacralmente e giuridicamente lo spazio urbano e lo separava dallo «spazio esterno», dove era lecito seppellire. Questa funzione della colonna come sepolcro, già
La Colonna Traiana vista dalla Basilica Ulpia. Il monumento è decorato con un lungo fregio elicoidale a rilievo che celebra le campagne daciche dell’imperatore.
prevista sin dall’inizio del progetto, dovette essere formalizzata con un apposito decreto del senato solo dopo la morte dell’imperatore: ciò significa che Traiano, in vita, aveva posto le premesse per la sua futura apoteosi. La divinizzazione di Traiano verrà sancita sacralmente dal figlio adottivo Adriano attraverso la costruzione di un grandioso tempio sulla cui collocazione topografica ancora si discute. In attesa della soluzione «archeologica» dell’enigma, possiamo godere di uno straordinario privilegio: porci di fronte alla colonna, tenendo bene in mente le parole che, nell’immaginazione di Marguerite Yourcenar, Adriano ebbe a pronunciare durante la solenne cerimonia funebre di Traiano: «L’anima dell’imperatore saliva al cielo, sollevata dalla spirale immobile della Colonna Traiana. Il mio padre adottivo diventava dio: aveva preso il suo posto nella serie delle incarnazioni guerriere dell’eterno Marte, che vengono a sconvolgere e rinnovare il mondo di secolo in secolo.» (Memorie di Adriano, Torino 2002).
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opo la visita, assai complessa, del Foro Romano (vedi alle pp. 50-69), la passeggiata lungo i Fori Imperiali si presenta, almeno apparentemente, piú lineare e comprensibile. Una volta preso atto che via dei Fori Imperiali, su cui camminiamo, taglia in senso longitudinale il centro dell’area archeologica, è facile individuare, a destra e a sinistra della strada moderna, i brandelli dei singoli complessi forensi e coglierne gli elementi costitutivi principali: l’edifico templare, i portici, le esedre, le basiliche. Ma quando si passa a una lettura piú approfondita e si tenta di ricostruire, o almeno immaginare, ciò che un visitatore antico vedeva, entrando nelle singole piazze, la questione si fa piú complicata: in nessun luogo come nei Fori Imperiali la perdita dei volumi in alzato risulta cosí penalizzante per la comprensione dell’originaria percezione degli spazi, sia interni che esterni.
Nascosti alla vista da un muro imponente Se osserviamo una pianta d’insieme, per esempio, possiamo renderci conto di come i singoli fori siano giustapposti l’uno all’altro, in modo tutto sommato armonico ma secondo un principio di agglomerazione piuttosto che di integrazione. È difficile, però, immaginare – un po’ condizionati dal nostro moderno concetto di piazza, uno spazio aperto in cui si va e si viene liberamente – che questi complessi fossero in origine completamente chiusi da imponenti muri di recinzione che impedivano la vista dall’esterno. Le stesse schermature visive caratterizzavano anche gli spazi interni,
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agglutinati, come ha osservato da Eugenio La Rocca «come in un giuoco di scatole cinesi, l’uno dopo l’altro o l’uno a fianco dell’altro, assimilabili separatamente solo dietro il filtro di colonnati o file di pilastri che impediscono allo sguardo di andare oltre». Questi problemi di «percezione» sono affrontati nel Museo dei Fori Imperiali, allestito nella splendida cornice del complesso dei mercati di Traiano. Il museo è stato concepito come introduzione e integrazione alla visita delle aree archeologiche. Nelle cinque sezioni del percorso – ognuna dedicata a uno dei cinque fori di epoca imperiale – vengono (tra l’altro) proposte le ricomposizioni dei piú significativi partiti architettonici e decorativi dei singoli complessi, cosí da restituirne un’immagine «finale» pienamente apprezzabile dal visitatore. Un museo unico nel suo genere, che rientra in un progetto piú ampio, ancora in fieri (Sistema Museale dei Fori Imperiali), che mira a integrare le aree archeologiche (momentaneamente chiuse al grande pubblico) all’interno di un organico circuito di visita.
Pianta dell’area dei Fori Imperiali: 1. Tempio di Venere Genitrice; 2. Basilica Argentaria; 3. Latrina monumentale; 4. Curia Iulia (Foro Romano); 5. Basilica Emilia (Foro Romano); 6. Tempio di Marte Ultore; 7. Esedre; 8. Aula del Colosso; 9. Tempio di Minerva; 10. Porticus Absidata; 11. Aula di culto; 12. Aula della Forma Urbis; 13. Aula trasformata nella basilica dei SS. Cosma e Damiano; 14. Esedra inglobata nella torre dei Conti; 15. Vestibolo del foro di Traiano; 16. Sala trisegmentata; 17. Statua equestre di Traiano; 18. Basilica Ulpia; 19. Colonna Traiana; 20. Biblioteche. In basso foro di Augusto, tempio di Marte Ultore. Particolare di capitello corinzieggiante figurato, con cavalli alati di lesena, pertinente al primo ordine della decorazione interna della cella.
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Foro di Cesare D
el foro di Cesare, costruito presso l’angolo nord-occidentale del Foro Romano, lungo il clivus Argentarius, rimane oggi visibile oltre la metà della superficie originaria: l’area del tempio; il lato occidentale con il portico e le retrostanti botteghe; parte del lato meridionale (l’angolo sud, in corrispondenza della curia Giulia, è pertinente all’area archeologica del Foro Romano). L’attuale visione è in gran parte frutto degli scavi, dei restauri e delle anastilosi realizzate negli anni Trenta del secolo scorso. Recenti indagini archeologiche nell’area del tempio e all’interno del portico meridionale hanno notevolmente ampliato le nostre conoscenze, soprattutto per quanto
Foro di Cesare. Le tre colonne del tempio di Venere Genitrice rialzate negli anni Trenta del Novecento.
riguarda l’originaria planimetria del complesso. È stato possibile appurare che il foro, inaugurato da Giulio Cesare nel 46 a.C. (ma completato solo da Augusto), nonostante gli imponenti lavori di restauro realizzati rispettivamente in epoca traianea e dioclezianea, ha mantenuto inalterata l’originaria impostazione planimetrica: una lunga e stretta piazza (160 x 75 m) definita sui tre lati da portici a due navate e dominata dall’edificio templare addossato al lato breve di fondo, in posizione assiale rispetto all’ingresso. L’ingresso al sito è collocato lungo il clivus Argentarius, la strada romana, ancora oggi ben conservata, che s’insinua tra le pendici del Campidoglio e il foro di Cesare per poi sboccare nel Foro Romano, all’altezza del Carcere Tulliano (chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami). Si scende alla piazza forense, posta a una quota piú bassa rispetto a quella del clivus Argentarius, tramite due scalinate (percorribile la seconda, prossima al Carcere) poste ai lati di una monumentale latrina a emiciclo, con paramenti in laterizio e lussuosi interni in marmo, come indicato dai fori di fissaggio delle lastre. La struttura, di epoca traianea, risulta impostata al di sopra delle tabernae («botteghe») affacciate sul portico che delimita il lato occidentale del foro. Questi ambienti, costruiti in opera quadrata di blocchi di tufo e travertino, appartengono alla fase cesariano-augustea del complesso; la facciata, in corrispondenza del muro di fondo del portico, è caratterizzata da un triplice livello di aperture separate da piattabande e coronate da un arco a tutto sesto. In epoca traianea le botteghe vengono coperte da volte a botte in cementizio e sormontate da un secondo piano di ambienti (il primo piano al livello del clivus Argentarius, sul quale questi ambienti si aprono). Le botteghe si affacciano sul portico a due navate che delimita il lato occidentale del foro. Il portico si presenta nel suo rifacimento di epoca dioclezianea, con colonne in diversi tipi di granito (evidentemente vennero utilizzati materiali di reimpiego). Alla sua estremità, a lato del tempio di Venere, sono due scalinate che conducono a un grande edificio realizzato
dopo lo sbancamento della sella che collegava il Campidoglio al Quirinale. Caratterizzato da una doppia serie di pilastri disposti a squadra e coperti da due volte affiancate, l’edificio viene tradizionalmente identificato con la basilica Argentaria; alcuni graffiti con versi dell’Eneide, incisi sull’intonaco delle pareti, lasciano ipotizzare che qui avesse sede una scuola, come attestato dalle fonti per i fori di Augusto e di Traiano. Il tempio di Venere Genitrice occupa quasi tutto il lato di fondo del foro. Dell’edificio originario si conserva solo l’impianto generale: un periptero sine postico (con colonnati su tutti i lati tranne che su quello di fondo), ottastilo (con otto colonne sulla fronte), in stile corinzio. Vi si accede tramite due scalinate intagliate ai lati dell’altissimo podio. La cella è caratterizzata da un’abside semicircolare aperta sulla parete di fondo, destinata a ospitare la statua di culto della dea; le pareti laterali sono articolate in nicchie, contenenti statue e oggetti preziosi a cui accennano le fonti letterarie. Pochissimo si conserva dell’originaria decorazione architettonica: il tempio venne integralmente ricostruito in epoca traianea, a seguito dei lavori di sbancamento della sella di collegamento tra Campidoglio e Quirinale. La pianta originale viene mantenuta, ma l’abside della cella, precedentemente addossata alla parete rocciosa della collina, viene delimitata da due muri rettilinei, ancora conservati. Il tempio riceve in questa occasione una fastosa decorazione in marmo: a questo rifacimento si riferiscono le tre colonne, sostenenti un tratto della trabeazione decorata da un fregio a girali d’acanto, rialzate negli anni Trenta del Novecento con i materiali rinvenuti in stato di crollo a fianco del tempio. Il lato breve del foro opposto al tempio è delimitato da un portico originariamente aperto su un tratto dell’Argiletum (la strada che collegava il Foro Romano al quartiere della Subura), poi occupato dal foro di Nerva. I resti visibili si riferiscono al restauro di epoca dioclezianea: il portico, originariamente a due navate, viene trasformato in un unico ambiente e riceve una ricca pavimentazione in lastre di marmi colorati.
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Foro di Augusto G
li scavi condotti negli anni Trenta del secolo scorso hanno messo in luce tutto il settore nord-orientale del foro di Augusto, comprendente il tempio di Marte Ultore e parte dei portici laterali con le due esedre retrostanti. In occasione di recenti indagini presso l’angolo sud-occidentale del foro, sono stati rinvenuti i resti delle fondazioni di un terzo emiciclo, a cui doveva corrispondere un quarto, speculare, aperto sul portico opposto. L’ingresso all’area archeologica è situato in piazza del Grillo, alle spalle del foro. Su questo lato il complesso è delimitato da un imponente muraglione (oltre 30 m di altezza) in opera quadrata di blocchi di peperino e pietra gabina che aveva lo scopo di isolare e proteggere il foro dai frequenti incendi che divampavano nel retrostante quartiere della Subura (attuale rione Monti). La parete non è rettilinea, ma presenta una linea spezzata ad angoli e gomiti, in parte condizionati dall’andamento di un preesistente condotto fognario, tributario della Cloaca Maxima. Nel muraglione si aprono due ingressi al foro: quello settentrionale è un arco triforo, mentre il meridionale è un arco semplice, noto
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nel Medioevo come arco dei Pantani. Il forte dislivello tra la Subura e la piazza forense viene colmato tramite ripide e irregolari scalinate, ai cui piedi erano posizionati due archi onorari, dedicati rispettivamente a Druso Minore e a Germanico e di cui rimangono visibili i resti delle fondazioni dei piloni. Per chi giungeva dalla Subura, la visione della piazza si apriva solo al termine di due stretti corridoi (6,70 m di larghezza) rinserrati tra l’imponente podio del tempio e le colonne dei portici laterali. Della piazza, pavimentata in marmo bianco lunense, rimane oggi ben poco: la stretta fascia superstite, antistante al tempio di Marte Ultore, risulta come schiacciata dalla mole dell’edifico templare. Questo senso di «soffocamento» doveva essere percepito anche in antico, tanto che ci si riferiva al foro di Augusto con il termine «angustum» (angusto, stretto). La piazza, non eccessivamente grande (70 x 50 m circa) e per di piú affollata di statue, tra cui la colossale quadriga bronzea dell’imperatore, doveva risultare sproporzionata rispetto allo sviluppo, in
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In alto pianta del foro di Augusto: 1-2. Ingressi dalla Subura; 3. Tempio di Marte Ultore; 4. Portici; 5-6. Esedre; 7. Aula del Colosso. Nella pagina accanto foro di Augusto. Veduta del podio del tempio di Marte Ultore e dell’adiacente portico.
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verticale, degli edifici che la definivano, a iniziare dall’edificio templare. Il tempio di Marte Ultore (46 x 38 m) si innalza su un altissimo podio, realizzato in blocchi di tufo di Grotta Oscura e rivestito di marmo bianco lunense. Vi si accede tramite una scalinata di diciassette gradini: al centro era l’altare, di cui è ancora visibile il profondo incasso, mentre le due estremità erano decorate da fontane. L’edificio, in stile corinzio, presenta colonnati sulla fronte e sui lati lunghi; mentre il lato di fondo risulta cieco e concluso da un’ampia abside semicircolare. Sono ancora in piedi parti delle otto gigantesche colonne corinzie della facciata e, alzate in tutta la loro altezza, tre delle colonne del lato destro del tempio insieme al tratto corrispondente del muro della cella, dell’architrave e del soffitto della peristasi, decorato con uno splendido cassettonato marmoreo. La cella del tempio presentava una ricca decorazione in marmi policromi, in netto contrasto con il bianco che caratterizzava l’esterno del tempio. Lungo le pareti, su un alto podio continuo, si elevano due ordini di colonne libere accostate alle pareti in corrispondenza di altrettanti pilastri, caratterizzati da capitelli con Pegasi, leggendari cavalli alati, sorgenti da girali d’acanto (se ne conserva uno, esposto al Museo dei Fori Imperiali). Sullo sfondo delle pareti, tra i pilastri, sono specchiature leggermente incavate, che verosimilmente inquadravano
statue. La parete di fondo della cella si apre in un’ampia abside semicircolare preceduta da cinque gradini, all’interno della quale, come in una sorta di podio, erano collocate le due statue di culto di Marte e Venere, divinità a cui venivano fatte risalire la stirpe romana e la famiglia di Augusto. Ai due lati del tempio sono visibili i resti dei due portici, con le retrostanti esedre, che delimitavano, in modo perfettamente simmetrico, i lati lunghi del foro. Innalzati su una crepidine di tre gradini i portici, a un solo ordine, presentavano una fronte di colonne in marmo giallo antico, sormontata da un alto attico riccamente decorato: nel candido marmo lunense sono scolpite cariatidi (che imitavano quelle dell’Eretteo di Atene) alternate a scudi con protomi di divinità, delle quali si conserva quella di Giove Ammone, dalle caratteristiche corna d’ariete. Dal centro della piazza doveva risultare impossibile oltrepassare con lo sguardo i fitti colonnati: si doveva entrare dentro per percepire la profondità dei portici e, oltrepassata una seconda barriera di monumentali pilastri in cipollino, cogliere l’articolazione spaziale creata dalle gigantesche esedre. Protagonisti assoluti di questi spazi erano le immagini marmoree «di quanti hanno reso grande Roma», collocate lungo le pareti di fondo dei portici e delle esedre, all’interno di nicchie inquadrate da semicolonne. Anche il visitatore piú distratto non poteva non trarne una morale edificante. All’estremità del portico settentrionale si apre un ambiente schermato da due gigantesche colonne in marmo giallo antico: l’aula del Colosso, un vero e proprio spazio cultuale, consacrato dalla presenza della statua di dimensioni colossali di Augusto. All’interno dell’aula erano custodite opere d’arte preziosissime, tra cui le due tavole dipinte dal pittore greco Apelle, che rappresentano rispettivamente Alessandro Magno con i Dioscuri e Alessandro Magno su quadriga trionfale e l’immagine allegorica della guerra, con le mani legate. L’ambiente, di forma quasi quadrata (12 x 13 m), presentava una straordinaria decorazione pavimentale e parietale, in parte ricostruita attraverso un
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paziente lavoro di restauro. Il pavimento era rivestito da lastre alternate di marmo giallo antico e pavonazzetto, con una fascia perimetrale in cipollino. Le pareti laterali presentavano un ordine di lesene con fusti in pavonazzetto, secondo uno schema decorativo tipico della pittura pompeiana di secondo stile. Lo schema si interrompeva in corrispondenza della parete di fondo, rivestita in lastre di marmo bianco dipinte, a simulare un grande tendaggio azzurro con dettagli in rosso e oro: una raffinatezza di grande impatto visivo. Su questo sfondo si innalzava, al di sopra di un podio in pavonazzetto, la colossale statua di Augusto, forse dedicata dall’imperatore Claudio, di cui oggi restano pochi frammenti, ricomposti all’interno del loro contesto architettonico nel Museo dei Fori Imperiali. Recenti scavi condotti presso l’angolo sudoccidentale del foro, al quale si sovrappone il foro di Traiano, hanno messo in luce i resti delle fondazioni di una terza esedra, a cui doveva corrisponderne una quarta, simmetrica, sul lato opposto. L’esedra è leggermente piú piccola dei grandi emicicli settentrionali; setti murari in laterizio, disposti in senso radiale, articolano la parete curvilinea di fondo in piccoli ambienti trapezoidali aperti, forse destinati ad accogliere gli armadi degli archivi dei tribunali.
TEMPIO DELLA PACE D A sinistra ricomposizione dell’attico dei portici del foro di Augusto, con testa di Giove Ammone entro clipeo e cariatide. Roma, Museo dei Fori Imperiali. In alto tempio della Pace. La parete della Forma Urbis: ben visibili i fori per le grappe funzionali all’affissione delle lastre della grande pianta marmorea, fatta realizzare dall’imperatore Settimio Severo.
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el tempio della Pace, quasi totalmente interrato durante i lavori di costruzione di via dei Fori Imperiali, rimanevano visibili sino agli anni Novanta del secolo scorso solo esigui resti strutturali, oggi inglobati nella basilica dei SS. Cosma e Damiano e nella torre dei Conti. Recenti attività di scavo hanno reso possibile la ricostruzione del complesso, prima esclusivamente basata sui pochi lacerti murari visibili e sulla lettura di quattro frammenti della Forma Urbis, la pianta marmorea di Roma che Settimio Severo fece affiggere proprio in una delle sale a fianco dell’aula di culto. La piazza, di forma quasi quadrata (110 x 105 m), era accessibile da nord (dall’Argiletum, a cui si sovrappone in epoca domizianea il foro di Nerva). Lungo questo lato del complesso correva un colonnato in marmo africano, aggettante dalla parete assieme alla trabeazione. Gli altri tre lati risultavano definiti da portici leggermente sopraelevati, con colonne in granito rosa egiziano. Alle spalle del portico meridionale si aprivano cinque ampie sale. Quella centrale, munita di abside e preceduta da un altare e da un pronao esastilo
(con sei colonne sulla fronte) si connota come la vera e propria aula di culto. La piazza centrale, priva di pavimentazione (con l’eccezione di una stretta fascia, lastricata in marmo bianco lunense, che corre lungo il lato Nord del complesso, in corrispondenza degli ingressi principali), era sistemata a giardino, con giochi d’acqua e aiuole fiorite. Dopo l’incendio del 192 d.C., il tempio della Pace venne restaurato da Settimio Severo: gran parte dei resti visibili sono riferibili a questo intervento. La visita ha inizio presso l’incrocio tra via dei Fori Imperiali e via Cavour (largo Corrado Ricci). Qui è visibile il primo «frammento» del complesso forense: una delle due esedre rettangolari (la piú settentrionale) che si aprivano in corrispondenza della parete di fondo del portico orientale. L’esedra risulta inglobata nella base della torre dei Conti, monumento oggi isolato, ma che in origine faceva parte di un piú ampio complesso fortificato eretto nel 1203 da Innocenzo III. Oltrepassata via dei Fori Imperiali (in direzione della basilica dei SS. Cosma e Damiano) si raggiungono i resti dell’aula di culto e delle due ampie sale che la fiancheggiavano, in corrispondenza dell’angolo meridionale del complesso forense. I resti dell’aula di culto sono cinti da una rete metallica. Rimane visibile una porzione del basso podio (coperta da un telone) su cui si innalzava la base della statua di culto (una personificazione della Pax) e alcuni elementi dei fusti delle gigantesche colonne del pronao, in stato di crollo. Proseguendo, si incontrano i resti della sala adiacente all’aula di culto, nella quale venne esposta in epoca severiana la già ricordata Forma Urbis (i frammenti superstiti sono attualmente conservati nei depositi del Museo della Civiltà Romana, all’EUR). La sala si apriva sul portico antistante tramite una larga apertura, scandita da quattro colonne.
Busto-ritratto in bronzo del filosofo greco Crisippo (281-208/204 a.C.), dall’area del portico Ovest del tempio della Pace. Epoca flavia, 75-80 d.C. Roma, Museo dei Fori Imperiali.
La parete su cui era affissa la Forma Urbis è visibile, in tutta la sua altezza, tra la basilica di Massenzio e l’attuale ingresso alla basilica dei SS. Cosma e Damiano (realizzato nel Seicento insieme al convento adiacente alla basilica). Sulla cortina laterizia si possono scorgere una serie di fori disposti a distanza regolare: si tratta degli incassi per le grappe che sostenevano le lastre marmoree su cui era incisa la pianta. È assai probabile che sulla parete opposta fosse appesa una grande tavola geografica a colori rappresentante l’Italia (ne sono stati trovati quattro frammenti, dipinti su marmo). La presenza della Forma Urbis lascia ipotizzare che in questa sala avesse sede la Prefettura Urbana. Il nucleo meglio conservato del complesso vespasianeo corrisponde alla sala retrostante alla parete della Forma Urbis. L’ampia aula, unitamente al cosiddetto tempio di Romolo (vedi alle pp. 66-68, nel capitolo sul Foro Romano) venne concessa dalla regina dei Goti Amalasunta a papa Felice IV per l’impianto della basilica dei SS. Cosma e Damiano. Si tratta del primo edificio di culto cristiano (526-530 d.C.) costruito ai limiti del Foro Romano, lungo la via Sacra. L’aula romana, situata nella cripta sotterranea (nel 1626 il pavimento della basilica venne innalzato di 8 m), era probabilmente suddivisa in due ambienti (il tramezzo è scomparso), uno dei quali absidato. Proseguendo su via dei Fori Imperiali è possibile vedere un settore della piazza centrale; come appurato nel corso degli ultimi scavi, gran parte della piazza, in terra battuta, era sistemata a giardino; le sei lunghe linee parallele rappresentate nella Forma Urbis si sono rivelate degli euripi (bassi canali), bordati da canalette marmoree. Ai lati di queste e sono state trovate, disposte per file, le metà inferiori di numerose anfore che contenevano in origine cespugli di rose galliche.
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itinerario fori imperiali
FORO DI NERVA O TRANSITORIO A
l foro di Nerva si accede direttamente da quello di Augusto. A testimonianza della maestria di Rabirio, il celebre architetto a cui Domiziano affidò la realizzazione del complesso (poi titolato al successore Nerva) resta sostanzialmente un tratto del muro perimetrale meridionale, in blocchi di peperino, a cui si accostano le cosiddette Colonnacce: le due colonne superstiti dei colonnati addossati alle mura perimetrali della piazza, a imitazione di un portico. Le colonne sono conservate in tutta la loro altezza, insieme al corrispondente tratto di trabeazione: il fregio è decorato da figure femminili intente a lavori di tessitura. Al centro, in corrispondenza dell’intercolumnio, è rappresentata Minerva in atto di colpire (probabilmente con una spola) una donna inginocchiata: la scena fa riferimento al mito di Aracne, l’infelice fanciulla trasformata in ragno – quindi condannata a tessere in eterno – per aver osato sfidare la dea nell’arte della tessitura. Il sovrastante attico conserva un rilievo che reca scolpita una figura femminile armata di scudo e con il capo cinto da un elmo, identificata con Minerva. Immediatamente a fianco delle Colonnacce, si scorgono i resti informi del podio su cui si innalzava il tempio di Minerva: l’edificio, ancora in piedi agli inizi del XVII secolo, venne smontato nel 1606 e i blocchi furono reimpiegati per la costruzione della fontana dell’Acqua Paola sul Gianicolo. Gli scavi condotti nel punto di giuntura tra il foro di Nerva e il Foro Romano hanno messo in luce resti di strutture riferibili alle fasi anteriori all’impianto del foro. Tali strutture si dispongono ai lati dell’Argiletum, la strada di collegamento tra il Foro Romano e la Subura. A destra del percorso stradale sono stati individuati due piani pavimentali con lastricato
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A destra foro di Nerva. Le cosiddette Colonnacce e, in basso, un particolare del fregio, con figure femminili intente a lavori di tessitura e, al centro, rappresentazione del mito di Aracne.
in peperino riferibili al Macellum, il grande mercato alimentare della Roma repubblicana, distrutto nell’incendio del 64 d.C. A sinistra sono invece strutture sotterranee articolate in corridoi e ambienti di piccole dimensioni, chiusi da inferriate e con nicchie scavate nelle pareti, probabilmente destinate a ospitare dei giacigli: si tratterebbe, secondo l’ipotesi avanzata dagli scavatori, di ergastula, cioè di alloggi per gli schiavi impiegati nel vicino mercato o come inservienti in una delle lussuose abitazioni private presenti nella zona, come testimoniato dalle fonti letterarie.
FORO DI TRAIANO P
orzioni isolate del gigantesco complesso traianeo (300 x 185 m) si conservano ai due lati di via dei Fori Imperiali. Quanto vediamo è frutto di successive campagne di scavo: durante i primi interventi, effettuati tra il 1812 e il 1813 – ai tempi dell’occupazione napoleonica – venne liberato il troncone centrale della basilica Ulpia; tra il 1928 e il 1934 vennero portati alla luce il portico e l’esedra orientale della piazza; contestualmente, vengono riscoperti la biblioteca occidentale e il settore occidentale della basilica Ulpia. Le indagini piú recenti (iniziate nel 1998-2000 e tuttora in corso) hanno interessato il settore meridionale del foro (adiacente al foro di Augusto) e l’area che si estende oltre il complesso costituito dalla Colonna Traiana e dalle due biblioteche che la fiancheggiano. I recenti scavi hanno dimostrato che il lato meridionale della piazza era articolato in piú ambienti, che garantivano un passaggio graduale e senza soluzione di continuità con il foro di Augusto. Attraverso una corte porticata si accede a un’ampia sala «trisegmentata» (con un settore rettilineo centrale e due
Foro di Traiano. La navata centrale della basilica Ulpia.
settori obliqui laterali) scandita, sulla fronte, da un colonnato di sedici colonne corinzie sormontato da un attico continuo. Da alcune monete risulta che l’attico era decorato da statue, tra le quali campeggiava il carro trionfale trainato da sei cavalli con Traiano incoronato da una Vittoria alata. Questa monumentale quinta scenografica faceva da sfondo prospettico all’Equus Traiani – la statua colossale in bronzo dorato dell’imperatore a cavallo – che dominava la piazza. Due portici, innalzati su una crepidine di tre gradini, definivano i lati lunghi della piazza: l’ordine di facciata era sormontato da un attico con statue di Daci e clipei con ritratti; al centro della parete di fondo di ognuno dei portici si apriva una grandiosa esedra semicircolare. Attualmente è visibile la linea di fronte del portico orientale (in direzione dei mercati di Traiano) con la retrostante esedra, che conserva tratti della pavimentazione marmorea e parte dei pilastri che la separavano dai portici. In occasione dello scavo sono stati riportati alla luce i resti del quartiere settecentesco demolito per la costruzione di via dei Fori Imperiali.
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itinerario fori imperiali
Il lato settentrionale della piazza forense è chiuso dalla basilica Ulpia, la piú grande mai costruita a Roma (170 x 60 m). La facciata esterna, tripartita, era caratterizzata da una fronte colonnata sormontata da un attico con statue di Daci, sostenenti un coronamento nel quale erano inserite le insegne delle legioni romane. Dell’edificio rimangono visibili il troncone centrale, suddiviso in cinque navate da quattro file di colonne in granito grigio (parzialmente rialzate), che giravano anche sui lati minori, al di sotto, e l’abside occidentale, al di sotto dei giardini della cosiddetta «esedra arborea» (vi si accede dalla biblioteca). L’abside orientale è coperta dall’attuale scalinata di Magnanapoli. All’estremità settentrionale del complesso forense, alle spalle della basilica Ulpia, si innalza la Colonna Traiana, scampata al generale naufragio dei monumenti dell’antichità perché considerata, in epoca medievale, uno dei simboli piú rilevanti di Roma. Papa Sisto V volle «riconsacrarla» collocando sulla sua sommità la statua di san Pietro. La colonna sorgeva in origine al centro di un cortile porticato di forma quasi quadrata (25 x 20,20 m), chiuso ai lati dalle due biblioteche del foro. La colonna (h. 39,83 m) è costituita da una base a forma di dado su cui poggia il fusto «centenario» (alto esattamente 100 piedi) composto da 17 colossali rocchi in marmo lunense. A coronamento è un capitello corinzio il cui abaco costituisce il piano di appoggio per la statua in bronzo dorato dell’imperatore. L’interno del monumento è completamente scavato: sulla fronte del basamento (volto in direzione della basilica Ulpia) si apre una porta, sovrastata dall’iscrizione dedicatoria, che immette alla cella funeraria e a una scala a chiocciola intagliata nel marmo vivo: essa percorre la colonna in tutta la sua altezza sino a sboccare, tramite una porticina, all’altezza dell’abaco del capitello. Tutta la superficie esterna del monumento è decorata da rilievi: cataste di armi daciche sui tre lati della base e, intorno al fusto, il celebre fregio spiraliforme raffigurante, in
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una narrazione storica continua, le due campagne daciche di Traiano. Ci si è chiesti come fosse possibile, in antico, «leggere» i rilievi della colonna. I loggiati delle due biblioteche dovevano permettere una visione del rilievo a varie altezze, ma si trattava sempre di una visione parziale, che non consentiva di apprezzare lo sviluppo elicoidale – che corrisponde allo sviluppo storicocronologico del racconto – del fregio. Forse, molto semplicemente, questa visione non era prevista in antico: il fregio non è altro
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che la traduzione monumentale di un documento scritto (i commentari delle campagne daciche, la cui stesura è attribuita dalle fonti antiche allo stesso Traiano) conservato – e consultabile – in una delle due biblioteche poste a fianco della colonna. Delle due biblioteche si conserva in buono stato quella occidentale, visitabile al di sotto della strada moderna. Essa si presenta come un vasto salone rettangolare con pareti articolate in nicchie inquadrate da una decorazione architettonica a due ordini di colonne. All’interno delle nicchie dovevano essere incassati gli armadi lignei che
In alto pianta dei mercati di Traiano: 1. Grande Aula; 2. Corpo centrale; 3. Giardini e torre delle Milizie; 4. Insula della salita del Grillo; 5. Via Biberatica; 6. Grande Emiciclo e aule di testata; 7. Piccolo Emiciclo; 8. Foro di Traiano.
opposto del Foro), il problema resta aperto, in attesa di future indagini archeologiche.
I mercati di Traiano
In alto veduta dei mercati di Traiano. In basso particolare del fregio della Colonna Traiana, raffigurante l’imperatore che, affiancato da due luogotenenti, si accinge a interrogare un prigioniero dace. Sullo sfondo, un accampamento fortificato.
custodivano le collezioni librarie. Alle spalle della colonna e delle due biblioteche, verso nord, veniva tradizionalmente collocato il tempio dedicato dall’imperatore Adriano a Traiano e Plotina divinizzati, la cui esistenza è attestata dalle fonti letterarie e da una iscrizione rinvenuta nel 1695 presso la chiesa romana di S. Bernardo. Le recenti indagini archeologiche condotte nell’area di Palazzo Valentini sembrano escludere questa possibilità ma, nell’impossibilità di un’ipotesi alternativa (è altrettanto impossibile che si trovasse sul lato
Da via dei Fori Imperiali si può abbracciare con lo sguardo il portico orientale del foro di Traiano, con la retrostante esedra, e la quinta scenografica costituita dai mercati di Traiano, il complesso progettato da Apollodoro di Damasco per contenere il taglio delle pendici del Quirinale e collegare la valle dei Fori ai sovrastanti quartieri abitativi. Anche in questo caso la nostra visione non corrisponde a quella antica, poiché l’alto muro perimetrale dell’esedra orientale del foro, oggi perduto, doveva celare allo sguardo i primi livelli del complesso dei mercati. Procedendo dal basso, la facciata, interamente in laterizio, è costituita da una grandiosa esedra semicircolare (Grande Emiciclo) separata dall’esedra orientale del foro di Traiano tramite una strada basolata. Alle estremità del Grande Emiciclo sono due vasti ambienti semicircolari (Aule di Testata Nord e Sud); verso nord è un ulteriore corpo di fabbrica di forma semicircolare, di dimensioni minori (Piccolo Emiciclo). Lungo la parete di fondo del Grande Emiciclo si aprono undici botteghe con copertura a volta. Nella parete sovrastante si aprono finestre ad arco che davano luce a un corridoio coperto, sul quale si affacciano altre dieci botteghe. Il terzo piano è costituito da una terrazza percorsa dalla via Biberatica, la strada pedonale che collegava il quartiere della Subura con le pendici occidentali del Quirinale. Il nome, noto da fonti medievali, viene comunemente connesso con il tardo sostantivo biber («bevanda»); esso potrebbe alludere alla funzione di thermopolia – qualcosa di molto simile ai nostri bar – di alcune delle botteghe, ben conservate, che si affacciano lungo la strada. Dalla via Biberatica una ripida scala porta «ai piani alti», ovvero al cuore del complesso, costituito da due distinti corpi di fabbrica: la Grande Aula, che si sviluppa su quattro livelli (oggi ospitanti il Museo dei Fori Imperiali), e il Corpo Centrale, che si snoda tra via Biberatica, via della Torre e l’area del Giardino delle Milizie, con imponenti resti di epoca medievale.
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monografie
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PAST PASSIONE PER LA STORIA
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