N. 60 - Costantino

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Un mondo nuovo

6. L’imperatore di Cristo

28

La tetrarchia nel caos

28. Roma in subbuglio

44 28 ottobre 312, la resa dei conti 44. L’illusione di Massenzio 66. L’arco di Costantino

76

Verso il potere assoluto

76. Un uomo solo al comando 96. Il ritorno del Colosso

102

Una monarchia universale 102. L’opera è compiuta


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Sulle due pagine fotocomposizione nella quale sono compresi il volto e la mano appartenenti alla statua colossale di Costantino oggi conservati nel cortile del Palazzo dei Conservatori, sul Campidoglio, e il chrismon scolpito sul sarcofago dell’Anastasis (IV sec. d.C.; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano). Formato dalla chi e dalla rho, le due lettere iniziali del nome di Cristo, il monogramma è detto anche «costantiniano», perché, secondo la tradizione, è quello che l’imperatore avrebbe fatto mettere sulle insegne dei soldati durante la battaglia di Ponte Milvio.

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IG N O S C

N C ES VI

FLAVIO VALERIO COSTANTINO NASCE A NAISSO, NELL’ATTUALE SERBIA, INTORNO AL 280. A 26 ANNI VIENE ACCLAMATO IMPERATORE DALL’ESERCITO. NEL 325, CON IL CONCILIO DI NICEA DA LUI PRESIEDUTO, IL CRISTIANESIMO DIVIENE RELIGIONE DI STATO

IN H O

L’IMPERATORE DI CRISTO



UN MONDO NUOVO

A

lla vigilia di lanciarsi nella lunga e avventurosa cavalcata per il potere del mondo, Flavio Valerio Costantino si richiamò alla gloria militare di Claudio II il Gotico, affermando che suo padre, Costanzo Cloro, ne era il diretto discendente. Correva l’anno 310 e chiaro era l’intento: attribuire alla propria gens e a se stesso nobiltà, onore, diritti di imperio. Ci furono subito panegiristi cristiani pronti a giurare sulla veridicità di ascendenze nobili, anche se lui, Costantino, era figlio naturale di una «stabularia». Di sicuro Claudio II (Marco Aurelio Valerio Claudio) era illirico, come Costanzo Cloro. Nato a Sirmio (oggi Sremska Mitrovica, in Serbia) sulla Sava nel 219, aveva militato sotto Decio e Valeriano, poi generale sotto Gallieno, finché, nel luglio 268, all’indomani dell’uccisione proditoria di quest’ultimo, le legioni della Mesia lo proclamarono imperatore. Pare che sia lui che Aureliano (gli succederà nell’impero) abbiano partecipato o fossero a conoscenza della congiura. Per compiacere Costantino, gli scrittori cristiani, a cominciare da Eusebio di Cesarea e Lattanzio, lo negano per Claudio. A Roma il Senato si affrettò a convalidare la volontà dell’esercito; la situazione politico-militare era critica: i barbari premevano alle frontiere, vacillavano le difese sul Reno e sul Danubio, era perduta piú di metà dell’Asia.

Una dubbia nobiltà Claudio II affrontò per primi i Goti, che erano dilagati oltre il Danubio; li batté nella Tracia occidentale e, quattro settimane piú tardi, li macellò come pecore nella desolazione estiva della piana di Naisso (oggi Niš, in Serbia). Ma alla sua valentia militare fu avversa la fortuna: spostatosi con l’esercito in Pannonia, morí di peste nell’anno 270. Un fratello minore di lui, Prisco, aveva una figlia, Claudia, andata

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Solido aureo di Costantino con il profilo dell’imperatore. Introdotto dallo stesso Costantino nel 309/310, il solido sostituí l’aureo.

sposa a un certo Eutropio. Dal loro matrimonio, scrivono i panegiristi, nel 250 era nato Costanzo Cloro. Nei Caesares, Sesto Aurelio Vittore (storico latino del IV secolo d.C.), definisce la nobiltà di Costanzo Cloro una leggenda. Accettata per adulazione. D’altronde era venuta fuori abbastanza tardi con il figlio Costantino; né Costanzo Cloro in vita aveva mai avuto l’improntitudine di inorgoglirsene o di rivendicarla. Pensava che la nobiltà dipendesse piuttosto dal coraggio e dalle capacità militari di ognuno; le sue gli valsero, appena trentacinquenne, il titolo di Cesare, poi quello di Augusto. C’è, comunque, da aggiungere che, quanto a menzogne ideologicamente programmate, i panegiristi cristiani avevano pochi rivali. Costanzo Cloro era di Naisso – la città resa celebre dalla vittoria di Claudio II il Gotico – e proveniva dalla campagna come altri suoi commilitoni, che erano Diocleziano, Massimiano, Galerio, Severo, Licinio, Massimino Daia, insomma contadini o guardiani di armenti, ma saliti ai fastigi dell’impero per virtú, ferocia, ardire nelle armi. La loro nazionalità era illirica. Provenivano dalle nebbie della Sava, dai monti della Dardania, dalle colline intorno a Naisso. Alti di statura, biondi, resistenti alle fatiche della guerra e combattenti impavidi, per un secolo, si può dire, ridettero tempra e spirito vitale all’impero romano, giunto alla parabola di un lento disfacimento. Costanzo Cloro aveva poco piú di un anno quando ad Abritto (città le cui rovine si conservano nella località di Hisarlaka, presso Razgrad, in Bulgaria, n.d.r.), nella Dobrugia nei pressi del Danubio orientale, un esercito romano cadde nell’agguato di un terreno paludoso e fu trucidato dai Goti. Vi morí anche l’imperatore Decio, cinquantenne, pannonico di origine e duro, tenace, innamorato come


L’IMPERATORE «CRISTIANO» E I SUOI DISCENDENTI Costanzo Cloro

Elena

(305-306)

Minervina

Costantino I

Fausta

(306-337)

Crispo Faustina Graziano (367-383)

Costantino II

Costante

Costanzo II (337-361)

Costanza

Costanza In alto particolare di un ritratto di Elena, madre di Costantino (vedi foto a p. 11). A destra ritratto di Fausta Massima Flavia (289/290-326 d.C.), moglie di Costantino dal 307 al 310 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

Elena

Giuliano (360-363)

Qui sopra dritto di un solido di Giuliano. Zecca di Sirmio (oggi Sremska Mitrovica, in Serbia), 361-363. Belgrado, Museo Nazionale. Reca il busto dell’imperatore barbato con diadema di perle, manto e corazza. A sinistra testa colossale in bronzo di Costantino. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

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UN MONDO NUOVO

nessun altro della romanità. La perdita risultò disastrosa per due motivi: nella palude di Abritto andò distrutto oltre a un esercito, anche il prestigio militare dell’impero. Dopo secoli di dominio, la potenza di Roma franava come una fortezza corrosa dall’interno. L’impero venne a patti con i Goti, concedendo loro non solo tutto il bottino ammassato al di qua e al di là del Danubio, ma impegnandosi a pagare loro un tributo annuo proprio perché non riattraversassero il Danubio. Era scontato che una pace, comprata e degradata fino a una tale ignominia, spalancasse agli stessi Goti e alle altre genti di confine le porte dell’opulenza e della debolezza dell’impero. L’una e l’altra erano esche troppo ghiotte per giovani popoli avidi di preda. Spinti dal successo dei Goti, né vincolati da tributi o patteggiamenti, si riversarono oltre il Danubio, devastarono le province illiriche, la Mesia, oltrepassarono il Bosforo a oriente, a occidente si spinsero fino alle porte di Roma.

Roma dilaniata dalle guerre civili Ma c’era di peggio della peste, che aveva ucciso l’imperatore Decio, o dell’incombente minaccia ai confini: la lacerazione interna dell’impero, che nella Storia Augusta va sotto il nome dei Trenta tiranni (Tyranni triginta), giacché tanti – uno dopo l’altro, a volte due o tre insieme – funestarono Roma e le province con lo scempio delle guerre civili. Ci vollero diciotto anni e un imperatore come Claudio II per aver ragione dei Goti e, morto lui, un altro imperatore illirico, Aureliano, per ridare all’impero romano fiducia e capacità di ripresa. Nel 267, a diciassette anni, che era allora l’età per arruolarsi nell’esercito, Costanzo Cloro militò sotto l’imperatore Gallieno. Il fronte era quello del Danubio. Gallieno era succeduto al padre Valeriano, prigioniero dei Persiani dopo una disgraziata campagna militare (260) e morto in cattività; in pratica

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Ritratto di Elena, madre di Costantino. Il corpo è databile alla metà del II sec. d.C., mentre la testa è stata rilavorata nel IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. La statua ha assunto le sembianze di Elena solo in età costantiniana, quando il ritratto originario, probabilmente di Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio, subí una radicale trasformazione. Nella pagina accanto statua in marmo di Costantino, proveniente dalle terme dell’imperatore erette sul Quirinale, oggi nell’atrio della basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. IV sec. d.C.

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UN MONDO NUOVO

ereditava la situazione politico-militare dell’impero piú caotica, nefanda, incontrollabile dell’intero secolo. La figura di Gallieno è controversa. Il biografo della Storia Augusta, Trebellio Pollione, lo accusa di ogni infamia – viltà, lussuria, ingordigia, eccesso di ellenismo, imprudenza, avidità – e perfino di una imperdonabile leggerezza: coltivare la poesia, in particolare scrivere epitalami. Ammiano Marcellino, di gran lunga il maggior storico della decadenza, è meno severo. La storiografia moderna ha, invece, riabilitato Gallieno, lo riconosce addirittura come «una

Gaio Valerio Diocleziano Augusto

E

ra dalmata e figlio di schiavi poi liberati. Nell’autunno del 284 nell’accampamento presso Nicomedia, in Bitinia, le guardie del corpo trovarono il loro imperatore Numeriano assassinato. L’assemblea dell’esercito proclamò allora Augusto l’uomo scelto dal consiglio dei comandanti militari: Gaio Valerio Diocleziano. Dopo l’acclamazione, Diocleziano sale alla tribuna, si rivolge al suo vicino, il prefetto della guardia, e ai soldati grida: «Questo è l’assassino di Numeriano», dopo di che, sguainata la spada, l’affonda nel corpo di Apro. Si avverava quello che una donna druida aveva profetizzato anni prima a Diocleziano: che avrebbe conseguito la dignità imperiale quando avesse ucciso un cinghiale (aper in latino). Diocleziano si avvicinava ai cinquanta anni e la profezia fu interpretata sia da lui che dai soldati come volontà degli dèi. Subito dopo condusse la campagna contro Carino, fratello di Numeriano. Fu sconfitto nella vallata della Morava, ma Carino non poté giovarsene, giacché «dissoluto, ingordo predatore di femmine (nel giro di pochi mesi sposò e ripudiò nove mogli e vituperò altrettante giovani donne)», fu ucciso da un tribuno al quale aveva sedotto la moglie. Di Diocleziano le fonti cristiane dicono che fosse timido e, ovviamente, superstizioso.

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Rimasto il solo imperatore, divide l’impero con un suo commilitone, Massimiano, un pannone, a cui assegna la difesa dell’Occidente, riservando a sé l’Oriente. Ma la grande novità strutturale nel governo dell’impero ha un nome specifico: la tetrarchia. La pace nell’impero, la difesa dei grandi fiumi, che servivano da confine (Reno, Danubio, Eufrate), erano le costanti della politica di Diocleziano. La tetrarchia doveva funzionare come il migliore antidoto contro rivolte e guerre civili, che erano poi il vero cancro dell’impero romano. Durò una ventina d’anni. Nel 303 Diocleziano per l’unica volta arriva a Roma insieme con Massimiano. Nel maggio del 305 sbalordisce tutti con l’abdicazione. È il primo e solo esempio in cinque secoli di imperatori. Gli ultimi anni gli furono funestati dalle vicende della figlia amatissima Valeria e della moglie Prisca, le cui vicissitudini prima con Massimino Daia, poi con Licinio seguí impotente, scrivendo lettere angosciate ora all’uno, ora all’altro. Tardi capí come la forza fosse il solo argomento (e potere) che trovava ascolto e consensi. Morí nella grigia solitudine di Salona (Solin, a pochi chilometri da Spalato) nel 313.

Ritratto di Diocleziano, da Nicomedia. 284-305 d.C. lstanbul, Museo Archeologico. Diocleziano fu il grande riformatore dell’impero romano, che divise in due parti, riservandosi l’Oriente e affidando l’Occidente a Massimiano. Nella pagina accanto il gruppo in porfido dei tetrarchi, situato sull’angolo della basilica di S. Marco a Venezia. IV sec. d.C. Raffigura i due Augusti, Diocleziano e Massimiano, e i due Cesari, Galerio e Costanzo Cloro, uniti in un abbraccio che simboleggia l’unione delle quattro parti dell’impero.


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UN MONDO NUOVO Flavio Valerio Costanzo Cloro

C

ombatte, diciassettenne, sotto l’imperatore Gallieno sul Danubio, stante la minaccia dei Goti che premevano sull’Illirio e sulla Mesia; poi sotto Claudio II, infine sotto Aureliano, sia sul Danubio che in Oriente contro Zenobia. E appunto tornando da Palmira fa sosta a Drepano, in Bitinia, dove, nell’ozio del guerriero, incontra e si innamora di Elena, la «stabularia». La loro relazione segue le regole degli stanziamenti militari, il cambiamento di imperatori (dopo Aureliano, Probo, Caro, Numeriano, Carino), gli incarichi ricoperti da lui. A Naisso Elena gli partorisce un figlio, Costantino. Nell’ottobre del 284 l’esercito accampato vicino a Nicomedia, morto Numeriano, elegge imperatore Diocleziano. Costanzo Cloro faceva parte dell’alta ufficialità di Carino, fratello dell’ucciso. Dissoluto, amante delle donne quant’altri mai, Carino era sul campo comandante esperto, coraggioso, tanto che venuto a battaglia con Diocleziano nella piana della Morava con facilità lo mette in fuga; Diocleziano teme addirittura di non uscirne salvo, quando un ufficiale del seguito trafigge Carino a tradimento, per vendetta. Riordinando l’esercito, Diocleziano invia Costanzo Cloro sul Reno agli ordini di Massimiano che ha associato all’impero. Comincia l’avventura di Costanzo Cloro in Gallia e sul Reno. Le sue qualità di coraggio, tempestività, tattica militare gli guadagnano la completa fiducia di Massimiano. È fatto Cesare, sposa la figliastra dell’Augusto d’Occidente e dimentica Elena, ma non il figlio Costantino, nonostante la sua giovane moglie gli dia uno dietro l’altro sei figli (di cui tre maschi). Nel 305 abdicano Diocleziano e, contemporaneamente, Massimiano. Costanzo Cloro diventa Augusto e imperatore d’Occidente. Manda a chiamare il figlio. La ragione valida è la non buona salute: in realtà non sta bene. C’è una rivolta in Britannia: le navi sono alla fonda pronte a salpare, ma non si decide. Galerio gli rifiuta di lasciar partire Costantino, finché non lo vede arrivare, scappato alle maglie della sorveglianza. Con il figlio salpa per la Britannia. In pratica è Costantino che guida l’esercito. A Eboracum il male che lo affligge ha il sopravvento e lo costringe alla resa. Al capezzale del morente Costanzo Cloro, la moglie Teodora, gli altri figli. Morí a cinquantasei anni. Costantino lo avrebbe sopravanzato solo di un anno.

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Nella pagina accanto, a destra testa ritratto di Costanzo Cloro. 300 d.C. circa. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek. Nella pagina accanto, in basso dritto di un aureo di Diocleziano con la testa laureata dell’imperatore. 284-305 d.C. Diocleziano si fece promotore di una importante riforma monetale per frenare la costante inflazione dell’impero.

grande figura di imperatore», sia per il valore militare, sia per la «posizione eminente» che rappresenta nell’evoluzione dell’impero romano. Il fatto, comunque, piú stranamente controverso è che il «corrotto», l’«ignavo», il «gaudente» Gallieno sia stato ucciso in un accampamento vicino a Milano da una congiura militare per una motivazione specifica: il rigore e la disciplina che intendeva o forse aveva già introdotto nell’esercito.

Colpo di fulmine Costanzo Cloro seguí il nuovo imperatore, Aureliano, nelle campagne sul Danubio, poi in Oriente e fino a Palmira contro la regina Zenobia. Nel 273, al ritorno da Palmira, si fermò a Drepano in Bitinia (oggi Yalova, in Turchia). Era il riposo del guerriero dopo tante battaglie. E fu a Drepano che Costanzo Cloro vide e si innamorò di Elena. Faceva la «stabularia» in una di quelle osterie, dove al piano di sopra era lecito alle ragazze, le stabulariae, intrattenere rapporti con i clienti, vogliosi di compagnia femminile. Elena era bella, procace, l’occhio timido di cerbiatta, ma nel portamento altera come una principessa. Aveva poco piú di sedici anni: per una donna d’Oriente il fiore della giovinezza. Costanzo Cloro, ventitreenne, biondo, struttura atletica, apparteneva, per la sua virtú militare, all’alta ufficialità delle legioni. Non ebbe difficoltà ad avere nel letto l’avvenente stabularia. Quello che agli occhi degli altri e di lui stesso sembrò inconsueto, fu invece la continuità della loro relazione. Il concubinato non era una difformità, al contrario: fra gli ufficiali delle legioni era quasi una regola tenere amanti ovunque la necessità del servizio militare li destinasse di guarnigione. I panegiristi cristiani si sono arrampicati sugli specchi per trasformare la convivenza di Costanzo Cloro con Elena nel vincolo sacrale del matrimonio. Nel 275, a Bisanzio, Aureliano viene ucciso in una congiura. Succedono altri imperatori: Tacito (275-76), Probo (276-82), Caro (282-83), Carino (283-84), in ultimo Diocleziano dal 284 al 305. Costanzo Cloro ha combattuto dal Danubio al

Reno, alla Tracia, all’Illirio contro Franchi, Sarmati, Geti, Vandali. Ha unanimi riconoscimenti di coraggio, di sagacia militare, primo ufficiale nella guardia imperiale, poi tribuno, comandante di legione, infine governatore della Dalmazia (279). Ora ha la possibilità di fermarsi, ed Elena è accanto a lui, desiderosa di amore, il suo grembo è come la terra arata, pronta a ricevere il seme: e l’anno dopo (280) a Naisso gli partorisce un figlio, Costantino. L’idillio familiare conobbe pause già nel 282 con l’uccisione di Probo, la cui morte si portò dietro i contraccolpi piú o meno fisiologici dei cambi di potere. Un segnale impietoso dei tempi è anche in questo: che in meno di quindici anni furono dodici gli imperatori legittimi o illegittimi morti ammazzati. Allora e nel biennio successivo Costanzo Cloro si seppe districare con una certa abilità, valutando tempestivamente uomini e circostanze.

Ritorno a Nicomedia Ed Elena? Era cambiata con la maternità: non piú la giovane avvenente che aveva affascinato Costanzo Cloro, ma ora, piuttosto, madre scrupolosa e gelosa della propria creatura. Improvvisamente, nel 284, la separazione. Diocleziano, il nuovo imperatore, opera negli alti gradi dell’esercito una serie di «avvicendamenti». Costanzo Cloro è scaraventato sul Reno contro i Germani, mentre Elena, con il figlio, deve tornare in Bitinia a Nicomedia (oggi Izmit), dove Diocleziano ha stabilito la capitale. Non rivedrà mai piú Costanzo Cloro. Passano quattro anni, prima lettere sempre piú rade, poi il silenzio, infine la notizia per lei dirompente: Costanzo Cloro ha sposato la figliastra dell’Augusto Massimiano, Teodora. Bella, raffinata, figlia di una Siriana e molto piú giovane di lui. Nel giro di una decina di anni gli darà sei figli. Ma Diocleziano ha in mente, soprattutto, un progetto nuovo per la struttura dell’impero. Con l’obiettivo preciso di scongiurare le continue ribellioni nelle province o nei vari (segue a p. 18)

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Resti di uno degli acquedotti che assicuravano l’approvvigionamento idrico di Nicomedia (oggi Izmit, in Turchia), città che Diocleziano elevò al rango di capitale.

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scacchieri periferici, aumentando nel contempo la vigilanza e ripristinando la disciplina nell’esercito, divide l’impero in Oriente e Occidente, chiama il vecchio commilitone Massimiano, al quale affida l’Occidente, riservando a sé l’Oriente, oltre la preminenza del comando e delle grandi decisioni. Di lí a poco perfeziona la divisione nella tetrarchia: due Augusti, Diocleziano e Massimiano; e due Cesari alle dipendenze degli Augusti: rispettivamente Galerio e Costanzo Cloro. Poi quattro capitali: Nicomedia (Diocleziano), Sirmio o Sardica (Galerio), Milano (Massimiano), Treviri (Costanzo Cloro). Indubbiamente la tetrarchia, almeno negli anni a cavallo del secolo, riportò l’impero all’antico prestigio e l’efficienza militare delle legioni a livelli che sembravano perduti. Ai margini, tuttavia, restavano sussulti di rivolta. Due si ebbero, in Africa, in due città dal nome fatidico: Cartagine e Alessandria d’Egitto. Nell’una e nell’altra si erano proclamati imperatori Giuliano e Achilleo. Contro Achilleo (anno 296) si mosse da Nicomedia lo stesso Diocleziano, portando con sé il giovanissimo Costantino. La resistenza di Achilleo, rinchiuso dentro Alessandria, costrinse Diocleziano a tagliare gli acquedotti. Quando la città si arrese, fu il massacro. Archiviato il capitolo Alessandria, Costantino seguí Diocleziano in Mesopotamia, dove il Cesare d’Oriente, Galerio, era impegnato sul fronte dell’Eufrate contro i Persiani.

Dall’umiliazione alla vendetta Ignaro o ostentatamente dimentico delle precedenti campagne di Roma, Galerio si era avventurato nelle pianure desolate della Mesopotamia alla mercé della cavalleria persiana. A stento riuscí a salvare le legioni dalla distruzione. Diocleziano lo accolse senza rimproveri, ma lo costrinse a percorrere a piedi piú di un miglio dietro il suo carro per la grande strada di Antiochia. L’anno dopo Galerio, umiliato, roso dalla rabbia, cambiò truppe e tattica. Accertatosi del modo di accamparsi dei Persiani, li assaltò di notte, cogliendoli di

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sorpresa. Ne fece strage. Quanto alle condizioni, che allora impose ai vinti, valsero ad assicurare all’impero quarant’anni di pace sulla frontiera del Tigri. Tornato a Nicomedia con Diocleziano, Costantino ha vent’anni. Combatte nella Mesia e sul Danubio contro Goti e Sarmati, le incursioni dei quali erano, si può dire, periodiche come le stagioni dell’anno.

Salonicco, Grecia. Rilievi dell’arco che celebra la vittoria ottenuta da Galerio sui Persiani di Narsete, al termine della guerra condotta fra il 296 e il 298 d.C. In alto, ambasciatori alleati


dei Persiani al cospetto di Galerio; in basso, una scena di sacrificio, officiato forse dallo stesso Galerio e celebrato per ringraziare gli dèi del successo riportato sul campo.

La guerra contro i Sarmati fu anche teatro di un episodio d’altri tempi ed ebbe l’effetto di richiamare alla memoria l’epicità dei duelli omerici dell’Iliade: Costantino che sfida e scende a singolare tenzone con il capo dei barbari, al cospetto dei due eserciti schierati, e ne esce vincitore. Di statura e struttura atletica, era inoltre coraggiosissimo e come tale, allora e poi in seguito, amatissimo dai soldati.

Anzi, la fiducia e la popolarità che riscuoteva fra loro, la sua virtú militare, la rapidità delle risoluzioni sono la chiave per capire – come per Alessandro, Annibale o Cesare – la straordinarietà delle sue vittorie. Diocleziano, che a Nicomedia lo aveva tenuto vicino a sé quasi come un ostaggio (o almeno all’inizio, secondo le insinuazioni di Lattanzio), ebbe modo e tempi per valutare di lui l’ardire

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dell’animo e le qualità militari, come aveva valutato quelle del padre Costanzo Cloro. La stima manifestatagli in piú occasioni da Diocleziano, aggiunta alla popolarità fra i soldati, finí per ingelosire Galerio.

Un inaspettato gran rifiuto Con dispetto, il Cesare d’Oriente intravide in Costantino non soltanto un futuro, valente condottiero d’eserciti, ma un avversario temibile. I prodromi della rivalità saltarono fuori alle dimissioni di Diocleziano; dimissioni che, inusitate e impreviste, furono un evento sconvolgente. Nella storia romana c’era un unico precedente: Lucio Cornelio Silla, che, nel 79 a.C., aveva rinunciato alla dittatura. Lo fece pubblicamente, scegliendo la platea sbigottita e trepidante del Foro. Diocleziano, quasi quattrocento anni dopo, preferí per il gran rifiuto la piana a tre miglia da Nicomedia, dove

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aveva convocato l’assemblea dei soldati. Era il 1° maggio del 305: diritto nella persona, ma pallido per la strana malattia che lo affliggeva da un anno, Diocleziano per l’ultima volta passò in rivista i vessilli delle legioni, gli ufficiali, la guardia palatina prima di salire alla tribuna e rendere esplicita la sua decisione. Per le fatiche sopportate e per la debolezza degli anni (toccava in realtà appena i sessanta) non se la sentiva piú di reggere il peso del governo; quindi cedeva la somma del potere a chi aveva energie e forze adeguate per adempiere ai doveri e ai compiti richiesti dalla vastità dell’impero. In quello stesso giorno a Milano, rispettando le disposizioni concordate in precedenza per un corretto funzionamento della tetrarchia, anche Massimiano abdicava al suo potere di Augusto. Li avrebbero sostituiti Gaio Galerio in Oriente, Costanzo Cloro in Occidente. Restava da nominare i nuovi Cesari,

Affresco raffigurante Elena, madre di Costantino, che, recatasi a Gerusalemme, ritrova la croce di Cristo. 1243-1254. Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati, cappella di S. Silvestro.


che furono rispettivamente Valerio Massimino Daia e Flavio Valerio Severo. Presente alla cerimonia dell’abdicazione e del passaggio di consegne c’era un testimone avidissimo di notizie e retore: Lucio Celio Firmiano Lattanzio (autore in seguito di un libro famoso per l’apologia del cristianesimo, De mortibus persecutorum). Di Diocleziano e del suo rifiuto scriverà dodici anni dopo, quando era ad Arles e precettore di Crispo, il figlio naturale di Costantino. Nel racconto di Lattanzio la figura di Diocleziano è molto diversa da quella dell’imperatore imperturbabile e controllato degli storici pagani. Alla tribuna dinanzi all’esercito schierato si presenta addirittura in lacrime. La decisione di dimettersi gli è stata imposta con le minacce, o peggio con l’incubo di una guerra civile, da Galerio che oltretutto gli era genero, avendo sposato la sua unica figlia

Valeria. E ci sarebbe stata anche un’altra imposizione di Galerio: la nomina dei due nuovi Cesari. Lattanzio sostiene che la scelta di Diocleziano era caduta su Costantino (per l’Occidente) e Massenzio (per l’Oriente), quest’ultimo figlio legittimo di Massimiano e, fra l’altro, genero di Galerio.

Al cospetto delle truppe Il racconto di Lattanzio si colora di imprevisti: ecco che all’annuncio dei nuovi Cesari un vento iroso scompiglia le linee irrigidite dell’esercito. Si pensa perfino che Costantino abbia cambiato nome, tanto piú che i soldati lo vedevano sulla tribuna; finché Galerio, senza nemmeno voltarsi, allunga una mano all’indietro, afferra Massimino Daia, poi Severo e li trascina in prima fila alla vista dei soldati. La nomina dei due Cesari poneva le premesse, in un non lungo volgere di lune, a future rivalse,

Elena Flavia Augusta

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lena era di Drepano, in Bitinia; da giovane lavorava come «stabularia» (termine traducibile, grosso modo, con ostessa, da stabulum, luogo di soggiorno, ma anche locanda, n.d.r.). E in una taberna di Drepano incontrò Costanzo Cloro. Siamo nel 273 e, causa le numerose incursioni dei Goti sul Bosforo, Drepano era considerata città di retrovia. Per gli ufficiali dell’impero, una sorta di riposo del guerriero. Naturalmente Elena era bella e Costanzo Cloro se ne innamorò. Nel caldo della passione forse l’avrebbe anche sposata, ma la legge romana del tempo vietava agli alti ufficiali il matrimonio con le donne del luogo. È inutile ripetere come i vari panegiristi facessero prestigiosi giochi di equilibrismo per dimostrare che l’unione di Elena con Costanzo Cloro fosse regolare e quindi Costantino un figlio legittimo, non un bastardo. Nel 284 i soldati vicino a Nicomedia eleggono imperatore Diocleziano. Costanzo Cloro era stato un ufficiale superiore di Carino; ma, primula rossa dei tempi, era rimasto fedele alla memoria del defunto imperatore. Questo esempio di lealtà piacque a Diocleziano, che lo inviò sul Reno al fianco del suo commilitone Massimiano. Elena non vide piú il suo amantemarito e si rinchiuse in una solitudine di madre. A diciassette anni Costantino accompagnò Diocleziano in Egitto, in Persia, poi combatté anno dopo anno sul Danubio, finché, scomparso Diocleziano dalla scena politica, lasciò

Nicomedia e raggiunse il padre in Gallia e poi in Britannia. I legionari della Britannia, morto Costanzo Cloro a Eboracum (York), eleggono Costantino imperatore. Si trasferisce a Treviri (306) e da lí chiama la madre Elena. Che diventa Augusta. A Treviri c’è anche Teodora, la moglie legittima di Costanzo Cloro, al letto del quale Costantino ha giurato di rispettare e Teodora e i sei figli avuti da lei. Ma Elena è inflessibile: non starà mai nella stessa corte con la donna che le ha strappato l’uomo della sua vita. Costantino cede di fronte alla madre ed esilia Teodora a Tolosa. Nel frattempo la giovane Minervina, concubina di Costantino dal tempo di Nicomedia, che in pratica ha ricalcato le orme di Elena, abbandona il campo (non sappiamo se morta o ripudiata), ed Elena si prende cura come una madre dell’educazione e della crescita del figlio di lei, Crispo. Nel 312 Elena è a Roma, dove per opera di Osio, vescovo di Cordoba, simpatizza e poi si converte al cristianesimo. La tragedia di Crispo la travolge. Si raffredda perfino con il figlio e non ha pace finché non smaschera Fausta. Poi parte per la Palestina, in espiazione. Per la sua morte (335 circa) gli elogi, le preghiere, le omelie si sprecano. Il suo corpo trasportato a Roma fu sepolto nel mausoleo imperiale collegato con la chiesa dei Ss. Pietro e Marcellino. Costantino chiamò con il nome di Elena due città: una in Palestina, l’altra Drepano, dove era nata.

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UN MONDO NUOVO

discordie, guerre civili. Rientrato in città, Diocleziano cambiò la biga in una carrozza da viaggio e, senza fermarsi ulteriormente a Nicomedia, proseguí per il Bosforo, poi per le strade polverose della Tracia fino alla solitudine di Salona (oggi Solin, nei pressi di Spalato, in Croazia). Con lui finiva una struttura politica, una concezione del potere. Doveva averlo avvertito lui stesso nel momento in cui si accingeva all’abdicazione, se arrivò a proporre alla dignità di Cesari Costantino e Massenzio. Ritornava cioè al principio di successione ereditaria in luogo dell’altro, aristocratico e razionale, dell’adozione e della scelta per merito. Ma era anche riconoscere, almeno in parte, il fallimento di una costruzione politica, immaginata e portata avanti dalle geometrie della ragione. Nella quale, quasi da neofita, lui, Diocleziano, che era figlio di schiavi, aveva creduto con un eccesso di ottimismo, riversando nell’efficacia delle leggi concepite la salvaguardia risolutiva di tutti i problemi politici e sociali.

Sete di potere Scomparso Diocleziano dalla scena politica, Costantino non aveva piú ragione e voglia di rimanere a Nicomedia, né intendeva militare agli ordini dell’uno o dell’altro dei Cesari, tanto meno di Galerio. Ambizione e orgoglio lo mordevano alla nuca. Dei nuovi Cesari, Flavio Valerio Severo, bravo generale e piú bravo bevitore, era sempre stato alle dirette dipendenze di Galerio; l’altro, Massimino Daia, era piú giovane, irruente, superstizioso e figlio della sorella dell’Augusto. In pratica due creature di quest’ultimo. Nella tetrarchia Galerio assumeva

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Famiglia de’ primitivi cristiani vicini ad essere divorata dalle fiere, olio su tela di Agostino Caironi. 1852. Milano, Pinacoteca di Brera. Durante l’impero di Diocleziano le persecuzioni furono assai feroci.

ora non solo il compito di primus inter pares, che era stato di Diocleziano, ma indirettamente – attraverso il Cesare d’Occidente, Severo – veniva a invadere il terreno dell’altro Augusto, Costanzo Cloro. Il quale non tardò a far sentire la sua voce. Dapprima in forma, si può dire, amichevole, con la richiesta a Galerio di Costantino, adducendo a pretesto lo stato non buono di salute e il naturale desiderio paterno di rivedere il figlio primogenito dopo dodici anni. Galerio indugiò a rispondere, poi enumerò


Da allora non ebbe piú dubbi: i cristiani erano i nemici subdoli dell’impero. Arrestati, gli eunuchi sono giustiziati uno dopo l’altro e con loro altre persone, eminenti per gli uffici che avevano ricoperto come per il favore che avevano goduto. Potentissimi quondam eunuchi necati, scrive Lattanzio. Sulla persecuzione dei cristiani Costantino aveva evitato di pronunciarsi; sull’incendio, invece, se l’era cavata proponendo la caduta di un fulmine, visto che pioveva. Insomma Galerio, due anni dopo, non aveva nessuna ragione valida per opporsi alla richiesta di Costanzo Cloro per il figlio Costantino, anzi solo un presentimento, partorito dalla paura. Continuò, in ogni modo, a tergiversare, affidandosi agli eventi. Il grande gioco del potere era già in atto.

una serie di motivi. Taceva ovviamente quello vero, determinante: che padre e figlio uniti, proprio per le loro ambizioni, qualità militari, generale consenso negli eserciti, sarebbero stati prima o poi tentati dalla grande avventura di essere i soli padroni del mondo.

Alto, possente e temibile Su Costantino, in particolare, anche nel periodo di Nicomedia, non mancavano descrizioni celebrative dei panegiristi. Senza alcun dubbio, nelle operazioni di guerra sui vari fronti, aveva dato prove di coraggio, abilità, grande valore, risolutezza. Basta ricordare il duello omerico con il capo dei Sarmati. Dalle statue, poi, appare evidente come fosse aitante e forte della persona. Eusebio di Cesarea aggiunge che «non c’era nessuno che gli si potesse paragonare per grazia e bellezza del corpo, nonché per la statura, e che superava tutti i suoi coetanei in gagliardia e attività al punto da sembrare loro perfino temibile». Per di piú a Nicomedia, nel 303, Costantino era stato testimone della persecuzione dei cristiani e insieme dell’incendio del palazzo imperiale, che doveva fugare le residue perplessità di Diocleziano. La persecuzione l’aveva voluta soprattutto Galerio Cesare quando nell’esercito si era trovato di fronte a casi di viltà, mascherati da motivi religiosi. I soldati che avevano disertato, obiettori di coscienza ante litteram, erano cristiani. Inizialmente contrario a decisioni radicali, Diocleziano ordina allora un’inchiesta nell’esercito. Sospettati di slealtà, i cristiani vengono ipso facto radiati. Ma il vero e piú pericoloso covo degli adepti alla religione salvifica del cristianesimo era all’interno del palazzo e costituito dagli eunuchi. Forse per loro istigazione lo stesso palazzo imperiale va a fuoco, bruciano le stanze di Diocleziano. Era troppo anche per uno come lui disposto alla ragionevolezza.

Lucerna cristiana in terracotta, con emblema della croce. V sec. Tunisi, Museo del Bardo.

Una lunga cavalcata E Costantino non attese oltre: una notte fuggí e, temendo di essere raggiunto, in ogni stazione di posta, dopo aver cambiato i cavalli, azzoppava gli altri che rimanevano, affinché gli inseguitori non se ne potessero servire. Attraversò il Bosforo, percorse la Tracia, l’Illirio, la Pannonia, entrò in Gallia e arrivò a Bononia (già Gesoriacum, oggi Boulogne-sur-Mer, in Francia), dove suo padre stava imbarcando le truppe per una spedizione in Britannia contro i Pitti e gli Scoti. La fuga avvenne nella primavera del 306, e non fu soltanto la lunga cavalcata di un giovane nel pieno delle forze (aveva ventisei anni), ma anche irta di non poche difficoltà, giacché Costantino si portava dietro il figlio naturale Crispo, natogli l’anno precedente, e la madre di lui, Minervina, con la quale viveva more uxorio. Come Costanzo Cloro, piú di vent’anni prima, con Elena, la «stabularia». Solo che lui, Costantino, scappando, non poteva lasciare ostaggi nelle mani vendicative di Galerio.

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UN MONDO NUOVO

La spedizione in Britannia ebbe un esito rapido. Nell’isola Costantino combatté a fianco del padre; piú verosimilmente, per la precarietà della salute di Costanzo Cloro, ottenne sul campo le insegne del comando delle legioni; il che spiega come, alla morte del padre, Augusto d’Occidente, proprio le legioni, senza esitazione alcuna, lo proclamarono imperatore. Costanzo Cloro morí a Eboracum (York) il 21 o il 25 luglio del 306, a cinquantasei anni. Era stato Augusto d’Occidente poco meno di quindici mesi. Al suo capezzale la moglie Teodora con i sei figli e Costantino. Gli storici del tempo sono abbastanza incerti sul fatto che Costanzo Cloro abbia o no designato il suo primogenito a succedergli.

Voglia di continuità La proclamazione di Costantino venne dalle truppe, spontaneamente, ritornando alla vecchia e deleteria provocazione di essere l’esercito a eleggere un imperatore. Il che era poi il contrario della costruzione ideata e voluta da Diocleziano. Di sicuro l’esercito sbarcato in Britannia, eleggendo il figlio di Costanzo Cloro, intendeva assicurare la continuità del comando, sotto il quale aveva militato per quindici anni, apprezzandone sia la sagacia militare, la temperanza, la sollecitudine, sia il tenore di vita uguale negli accampamenti come nella residenza imperiale. Si diceva, per esempio, che in occasione di ricevimenti o di pranzi ufficiali Costanzo Cloro si facesse prestare da amici e dignitari l’argenteria. A ogni buon conto l’elezione di Costantino si avvalse anche del pieno consenso di un corpo di Alemanni che in Gallia si era imbarcato con Costanzo Cloro. Era il segno dei tempi: in seguito, quando l’impiego di interi corpi di «barbari» divenne normale e indispensabile, l’impero affrettò la propria rovinosa catastrofe. Costantino, di solito risoluto nelle decisioni militari, nella situazione specifica si comportò da politico navigato, forse ricordandosi della lezione di Diocleziano. Scrisse una lettera a Galerio. Travolto, diceva, dalla morte del padre, come dal fermento nell’esercito, aveva

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accettato o meglio subíto la proclamazione a «imperatore» per stroncare sul nascere le possibili degenerazioni di mestatori e capipopolo, come era accaduto in passato prima della tetrarchia dioclezianea. In breve, gli era mancato proprio il lasso necessario di giorni per sollecitare direttamente da lui, Galerio, l’investitura costituzionale. Prudente, modesto il tono della lettera, non però servile, giacché Costantino era cosciente di rivendicare con giusta ragione il diritto alla successione del padre. A Nicomedia Galerio fu tutt’altro che convinto. Quello che piú lo imbestialiva era l’ipocrisia di Costantino, la stessa che imputava ai cristiani e per la quale era stato ed era con loro inesorabile. Furibondo, accecato dalla rabbia, voleva addirittura trapassare da parte a parte con la spada l’incolpevole messaggero. Anche le minacce, dichiarate al momento, si esaurirono come il fuoco nelle are dei sacrifici. Non solo la distanza di Nicomedia da Eboracum era immensa, ma, soprattutto, avrebbe dovuto affrontare sul campo l’esercito d’Occidente, formato in gran parte da Celti e Germani. Non tanto la ragione, insomma, quanto l’incertezza di una guerra civile, l’abilità militare e, al di là delle parole cortesi o «ipocrite», la risolutezza di Costantino lo indussero a ratificare la scelta dell’esercito delle Gallie. Si riservò, comunque, una non piccola rivalsa: promosse Severo da Cesare ad Augusto, facendolo subentrare a Costanzo Cloro con sede a Milano, e dette a Costantino il titolo di Cesare. La forma della istituzione tetrarchica si poteva dire salva, come era salvo, apparentemente, il rispetto fra i suoi quattro membri.

Il malcontento di Roma Ma non resistette che due mesi. I venti inclementi d’autunno scoperchiarono prima il tetto della costruzione dioclezianea, poi presero a sgretolare i cornicioni, infine i muri di sostegno. La rovina prese l’avvio proprio da Roma, la capitale dimenticata e abbandonata. Diocleziano c’era stato una sola volta insieme con Massimiano, nel novembre 303, per il

Il monumentale sarcofago in porfido realizzato per Elena, madre di Costantino, morta intorno al 335 e sepolta nel mausoleo imperiale a Tor Pignattara, tra la vie Prenestina e Labicana. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino.


ventennale della sua proclamazione all’impero. Mai Costanzo Cloro e Galerio. A Roma, invece, abitava Massenzio. Avvelenato per essere stato escluso dalla spartizione del potere, lui che era l’unico figlio maschio di Massimiano, si fece interprete della insofferenza e della rivolta di Roma contro l’Augusto d’Oriente. Per avidità o perché pressato da vuoti di cassa, Galerio aveva in effetti ordinato un censimento dei beni dei sudditi dell’impero con lo scopo preciso di gravare nuove imposte sugli

immobili, come sulle persone. Di Massenzio i panegiristi delineano il ritratto di un uomo corrotto, dissoluto, sensuale, crudele. Forse aveva davvero queste tare del carattere e del comportamento. Era anche «brutto e meschino d’aspetto», faceva della notte giorno e appunto di notte entrava nelle case e violentava le donne. Lo strano, tuttavia, è che tutti questi difetti, vizi, brutture dell’animo vennero fuori quando si mise a contendere il possesso dell’Italia a Costantino. In pratica cinque anni piú tardi.

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UN MONDO NUOVO

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Costantino nasce a Naisso (Niš),

in Illiria, dal generale Flavio Costanzo Cloro e dalla sua concubina Elena, un’ex ostessa. 293 Il padre di Costantino, che aveva sposato la figliastra dell’imperatore Massimiano, viene adottato da quest’ultimo, ed eletto Cesare. 305 Abdicazione di Diocleziano e Massimiano. Il padre di Costantino diventa imperatore della pars occidentalis. 306 Morte di Costanzo Cloro presso Eboracum (York), in Britannia. Le truppe acclamano imperatore Costantino. A Roma, viene eletto imperatore Massenzio, figlio di Massimiano. 310 Morte di Massimiano, dopo un duro conflitto con il figlio. 28 ottobre 312 Costantino e Massenzio si scontrano presso Ponte Milvio. Massenzio, sconfitto, annega nel Tevere. 313 Alleanza fra Costantino (Augusto per l’Occidente) e Licinio (Augusto per l’Oriente). Eliminazione di Massimino Daia, l’altro imperatore d’Oriente eletto da Galerio. A Milano, Costantino e Licinio emanano il celeberrimo «editto di tolleranza». 324 Scontro tra i due Augusti. Costantino sconfigge Licinio a Crisopoli (18 settembre 324) e assume su di sé tutto il potere. 11 maggio 330 Inaugurazione di Costantinopoli. 22 maggio 337 Battesimo in articulo mortis e morte di Costantino presso Nicomedia.

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Ma r M R os s o L’impero romano dall’età di Costantino alla vigilia delle invasioni barbariche (306-401).

| COSTANTINO | 27 |


| 28 | COSTANTINO |


ROMA IN SUBBUGLIO LE SPEDIZIONI DI SEVERO E DI GALERIO DEVASTARONO LA PENISOLA E SUSCITARONO IL FORTE MALCONTENTO DELLA POPOLAZIONE. A CUI MASSENZIO CERCÒ DI RIMEDIARE IMPEGNANDOSI NELLA RICONQUISTA DELL’AFRICA, COSÍ DA SCONGIURARE IL PERICOLO DI CARESTIE CAUSATE DAL MANCATO AFFLUSSO DI GRANO

Un tratto delle mura fatte costruire a Roma dall’imperatore Aureliano nel III sec. d.C. Come Costanzo Cloro, padre di Costantino, anche Aureliano era di origine illirica.

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LA TETRARCHIA NEL CAOS

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ino al 306 l’Italia e Roma in primis erano state quasi esenti da regolari tassazioni (Roma lo era dalla conquista della Macedonia). Adesso, però, i funzionari inviati da Galerio e preposti all’estimo, temendo occultamenti o frodi, usavano non pochi mezzi coercitivi e perfino la tortura. Fu la causa o il principio piú saldo per la rivolta. Machiavelli dice che un principe, nella pratica di governo, deve soprattutto fuggire l’odio, e questo lo può quando si astenga «dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi (…) perché gli uomini sdimenticano piú presto la morte del padre che la perdita del patrimonio». Era un pensiero di Tacito, ma Arbelio, vicarius in urbe Roma, l’aveva scordato o non l’aveva mai letto o temeva piú le ire di Galerio che le dimostrazioni popolari. Furono spogliate le famiglie piú ricche e non solo quelle; carri pieni di suppellettili, argenteria, vasi dorati, statue, attraversavano ogni giorno le strade. La loro vista eccitava la folla. Per contro le guardie di Arbelio erano insolenti, volutamente spregiose. Accadde che da Ostia per quattro o cinque giorni non arrivassero i barconi con il grano. La città era alla fame, ma ci voleva un capo che prendesse su di sé l’onere e l’orgoglio di riscattare la grandezza di Roma, come la libertà dell’Italia dal dispotismo di un armentario illirico. Per il nome e la volontà di riscatto Massenzio era l’uomo. Galerio, ovvero Arbelio per lui, commise l’errore definitivo: minacciò una riduzione drastica delle coorti pretoriane, addirittura la loro soppressione. Fu una fiammata: Arbelio ucciso, saccheggiato il palazzo vicariale, Massenzio acclamato imperatore romano. Era il 28 ottobre 306. Per Galerio franava il mondo. Nel giro di appena diciotto mesi i legami, le aspettative, le leggi, la struttura medesima della tetrarchia, di cui si vantava di essere ora il capo supremo, gli si disfecero tra le mani, divennero passato. Non era mai stato un abile politico, pensava da soldato come in un campo di battaglia. E adesso la rivolta in atto non era in un angolo dell’impero, ma in Italia, e il capo era suo genero. Non cercò neppure un approccio.

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Era offeso: Massenzio si tenesse pure sua figlia in ostaggio; Severo, che da Milano si sarebbe subito mosso con un esercito, non avrebbe incontrato difficoltà o resistenza, doveva combattere con una plebaglia, quella romana, avvezza solo ai giochi del circo e a vivere di congiari (le distribuzioni alla plebe di olio e di vino, n.d.r.); e Massenzio – il genero impostogli da Diocleziano – non era che un imbelle vizioso.

Una situazione inaspettata La sorpresa Severo l’ebbe non appena si trovò di fronte alle mura di Roma. Fino allora si era figurato di compiere una rapida spedizione punitiva: vide sulle Mura Aureliane macchine da lancio e armati spavaldi pronti a resistere a qualunque assedio. Inoltre, già nei primi giorni, successe un fatto increscioso e assolutamente imprevisto e che ebbe conseguenze devastanti: un numeroso contingente di cavalleria maura disertò, passando a Massenzio. Certo era stato adescato con il miraggio di donativi speciali, ma era proprio questo che inquietava. Arrivarono altre defezioni. Infine, una mattina di gennaio, il pallido sole invernale, alzatasi la nebbia, scoprí nella campagna intorno a Roma la desolazione che segue all’abbandono di un esercito. Severo fuggí a Ravenna in attesa di aiuti e ordini precisi da parte di Galerio. Quanto era

Nella pagina accanto altri rilievi dell’arco di Galerio a Salonicco. IV sec. d.C. In alto, l’ingresso in città (Adventus Augusti); in basso, una battaglia fra Romani e Persiani. In basso rilievo raffigurante Tyche, dea della fortuna e patrona di Salona, dalla Porta Cesarea della città dalmata, eretta durante il regno di Costanzo (337-361 d.C.), figlio di Costantino. Spalato, Museo Archeologico. Nella mano destra tiene un vessillo su cui si legge MIVSF (Martia Iulia Valeria Salona Felix), acronimo del nome completo della città; con il braccio sinistro si appoggia ad un moggio colmo di grano, simbolo di prosperità.


Gaio Valerio Massimiano Galerio

D

i modestissima famiglia, guardiano di armenti e proveniente dalla Dacia, si arruolò giovanissimo nell’esercito, subito distinguendosi per coraggio, aggressività, valore, fermezza d’animo. Era il campione dell’alta ufficialità nella frontiera danubiana, quando Diocleziano lo aggregò alla tetrarchia come Cesare dell’impero d’Oriente. E, rispedito sulla frontiera del Danubio, combatté per due anni contro Sarmati, Carpi, Goti. Ma la sua gloria militare è legata soprattutto alla campagna di Persia. Il primo anno, imbaldanzito dalle vittorie sul Danubio e temerario com’era, si lasciò trascinare in una pianura piatta, sabbiosa, senza una collina o un albero e, a distanza di trecentocinquanta anni, ripeté l’errore fatale di Marco Licinio Crasso. Alla notizia Diocleziano l’umiliò, costringendolo a camminare, addirittura un miglio, dietro il suo cocchio per le strade di Antiochia, dove l’aspettava. Galerio ne uscí distrutto nell’orgoglio, non nella rabbia di rivalsa. L’anno dopo arruolò veterani illirici, contingenti goti, cambiò strategia. Per due notti di seguito, con la scorta di due soli cavalieri, perlustrò in lungo e in largo l’accampamento dei Persiani. Dai tempi di Senofonte non usavano steccati di protezione. La quinta notte Galerio li sorprese, attaccandoli da piú parti. La carneficina fu superiore a ogni aspettativa. Narsete, il re, fuggí, ma lasciò nelle mani dei Romani, oltre a un bottino ingentissimo, i padiglioni con mogli, concubine, sorelle, figli. Fu la piú grande vittoria romana sulla Persia.

Fruttò all’impero cinque province al di là del Tigri, piú una pace sicura di quarant’anni. L’abdicazione dello Iovius suocero (305) innalzò Galerio al primato della tetrarchia, ma proprio di questa, nemmeno un anno dopo, avvertí gli scricchiolii. Cominciò a rivoltarglisi Roma; poi Massenzio, marito di sua figlia, è eletto imperatore dai pretoriani. La spedizione «punitiva» di Severo fallisce miseramente. Allora si muove lui con l’esercito dei veterani: ma scorge appena le mura di Roma; in compenso distrugge campagne, brucia villaggi e città. Intanto in Britannia è morto l’altro Augusto, Costanzo Cloro, e i legionari delle Gallie hanno eletto «loro» imperatore Costantino. Esacerbato, impotente, Galerio si rivolge al vecchio Diocleziano e si inventa il convegno di Carnuntum. È un fuoco di paglia. Senza un esercito al suo comando, lo Iovius è un titolo vano. Lo sfascio della tetrarchia non si arresta. E quel che è peggio e irreparabile per lui, gli si sfascia anche il corpo. Improvvisamente gli si aprono piaghe nel basso ventre e pullulano di vermi. «È la vendetta di Dio per la persecuzione dei cristiani» grida Lattanzio. Valeria, la moglie, chiama medici cristiani. Niente. Il disfacimento del corpo non lasciava a Galerio nemmeno un minimo di orgoglio. Arrivò anche all’editto di ritrattazione a favore dei cristiani (aprile 311). Ma non gli serví a placare il Dio di Lattanzio. Morí a Sardica ai primi di maggio del 311, sei anni dopo essere stato eletto primo Augusto della tetrarchia.

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accaduto gli appariva incredibile, peggio di un brutto incubo. Poi venne a sapere che dalla villa in Calabria, in cui si era ritirato, Massimiano era piombato a Roma. Forse c’era già durante l’assedio. Chiamato dal figlio o spinto dall’insopprimibile desiderio di potere. Massimiano conosceva bene Galerio e sapeva che non avrebbe avuto pace finché non si fosse vendicato del doppio scacco subito. Per non avere contemporaneamente a combattere con tutti e due, avrebbe dovuto ingabbiare Severo prima che Galerio giungesse in Italia.

Un agguato fatale Si presenta davanti alle mura di Ravenna, parla di tregua, ricorda ai soldati il suo recente passato di Augusto, ottiene anche un colloquio con Severo. Promesse, giuramenti, elogi ammantati di sottili adulazioni. Non era forse meglio, aggiunge, affidarsi alla lealtà di un vecchio Augusto piuttosto che alla collera irata del nuovo? Lo convince. Severo esce da Ravenna diretto a Roma per stipulare le

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Il peristilio del Palazzo di Diocleziano a Spalato. 293-305 d.C. Nella pagina accanto moneta in bronzo con l’effigie di Valeria Galeria, figlia di Diocleziano. 308-309 d.C.

condizioni di un accordo. Ma, varcate appena le mura, è ucciso. Zosimo sostiene che l’uccisione avvenne tra Spoleto e Terni e che fu Massenzio a tendergli l’imboscata e che poi «gli strinse il cappio intorno al collo». Per Massimiano la calata di Galerio in Italia era scontata. Di sicuro sarebbe venuto con un esercito imponente, agguerrito; né lui, Massimiano, era al momento in grado di opporglisi. Pensò, allora, a Costantino come all’unica alleanza capace e di contrastare e di battere l’Augusto d’Oriente. D’accordo, la morte proditoria di Severo rendeva la situazione ancora piú difficile dal punto di vista morale, ma restava il fatto che Massenzio e il figlio di Costanzo Cloro si erano ripresi i territori (l’Italia il primo, le Gallie il secondo) assegnati loro dalla volontà e dalla decisione di Diocleziano, poi stravolte da Galerio. L’incontro con Costantino ebbe luogo a Treviri. La neve imbiancava ancora le campagne intorno al Reno e Massimiano aveva con sé la sua ultima figlia, Fulvia, bella, giovanissima, e la offrí in matrimonio a


Valeria, figlia di Diocleziano Costantino. Dimenticata o morta, secondo le fonti cristiane, Minervina, l’amante e madre di Crispo. Le nozze furono celebrate il 31 marzo del 307 a Treviri con grandi festeggiamenti. Allo scopo di attirare il genero nell’alea della sua politica, Massimiano si prestò ora a conferirgli il titolo di Augusto. Insomma, per una combinazione di eventi, Massimiano aveva dato in moglie le figlie prima al padre, poi al figlio e posto loro sul capo, successivamente, con le proprie mani, la corona di imperatore.

Nessuno ferma l’avanzata Galerio scese in Italia con l’esercito d’Oriente, i veterani illirici e l’animo vendicativo e gonfio di ferocia. Arrivò fino a Narni, a sessanta miglia da Roma, incontrando una resistenza limitata. Ma la grande battaglia in campo aperto, come si aspettava, contro Massimiano e il genero, non avvenne. Si ripeté, anche se in scala meno sconvolgente, ciò che era successo a Severo. Tanto erano forti l’astio, il rancore, la paura, la collera contro Galerio che i Romani,

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é storici pagani, né panegiristi cristiani ci dicono la sua età. Nel 293, istituita la tetrarchia – due Augusti, due Cesari – Diocleziano, anche per rendere piú stretti i legami e i rapporti di condivisione delle responsabilità di governo, dette in moglie la figlia Valeria al Cesare d’Oriente da lui scelto: Gaio Valerio Massimiano Galerio. Valeria doveva avere dai quattordici ai sedici anni, che nelle donne era considerata l’età ottimale per sposarsi. Galerio di anni ne aveva fra i quaranta e i quarantacinque ed era padre di due figli avuti da un precedente matrimonio. Pare che sia Valeria che la madre Prisca fossero, se non cristiane, vicine allo spirito della nuova religione. Quando ebbe inizio la persecuzione (303), voluta soprattutto da Galerio, Diocleziano costrinse moglie e figlia a fare pubblico atto di ossequio agli dèi di Roma. Ma bruciate le chiese, uccisi vescovi e preti, Valeria si trovò a essere in continuo disaccordo con il marito. Da lui non le erano nati figli; ora la sua sterilità, la differenza di anni le fecero sentire piú acutamente il senso di solitudine e il fallimento spirituale. A Carnuntum incitò il padre a riprendersi il titolo e la posizione. Inutilmente. Anche lui, il padre, con la sua ostinazione la deluse. Poi tutto peggiorò. A Galerio si aprirono piaghe purulente nel basso ventre. Ricorse a medici cristiani. Nessun risultato. Ed era appena morto il marito, che Licinio, chiamato al suo capezzale e impegnatosi con giuramento a proteggere lei e il figliastro Candidiano, prese a insidiarla. Attraversò il Bosforo con la madre Prisca e Candidiano e chiese asilo a Massimino Daia, nipote di Galerio e da lui elevato a Cesare. Fu il rimedio peggiore del male. A un ripetuto diniego Massimino Daia confinò lei, la madre, il figliastro nel deserto. Riuscirono a fuggire e raggiunsero Tessalonica, dove speravano di imbarcarsi e raggiungere Costantino. Era l’unica speranza. Candidiano credette alle promesse di Licinio e fu ucciso. Loro, madre e figlia, tradite, portate davanti a Licinio, livido di rancore e di vendetta, nella pubblica piazza di Tessalonica furono giustiziate. Raccontando la loro fine, Lattanzio, che pure doveva a Diocleziano la cattedra di retorica, ha di Valeria e della madre Prisca un solo ricordo preciso: che erano cristiane o vicine al cristianesimo e durante la persecuzione avevano rinnegato la fede; insomma, scrive Aurelio Vittore, «la vendetta di Dio, giustamente e per mano di Licinio, era caduta sulle loro teste».

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spontaneamente, dettero a Massimiano e Massenzio le ricchezze che avevano sottratto alla sua rapacità. A questo si aggiungano la liberalità di Massenzio e il ricordo delle elargizioni alle truppe di Severo, esche fin troppo appetibili per la diserzione. Galerio piú che combattere contro i nemici, fu ora costretto a trattenere anche i veterani. La loro fedeltà cominciava a vacillare. Ritirandosi, permise loro saccheggi indiscriminati e selvaggi. Le campagne furono bruciate, villaggi e piccole città rasi al suolo. L’esercito di Galerio che ripassava le Alpi era carico di preda, di rabbia e di buia impotenza. Come il suo imperatore.

Un affare di famiglia Massenzio aveva tallonato a distanza la ritirata del suocero. Massimiano, invece, fremeva dal desiderio di non lasciare impunite le distruzioni che l’altro si lasciava dietro di sé. Corre da Costantino: gli si profilava davanti, dice, la piú insperata delle occasioni: sbarazzarsi una volta per sempre di Galerio, in fuga dall’Italia, stanco e avvilito l’esercito. Se attaccato improvvisamente e al momento opportuno, l’avrebbe avuto alla sua mercé e l’esercito si sarebbe disfatto come una palla di lardo messa al fuoco. L’impero, insomma, si poteva ridurre a una questione di famiglia. E, tuttavia, nemmeno le voglie di una giovane moglie bastarono a impigliare fra le lenzuola del letto la lucidità di Costantino. Semmai, proprio la prospettiva di un impero da gestire o spartire in famiglia, lo dissuase. Massimiano valeva Galerio; fra i due era da preferire il secondo, impulsivo, prevedibile, meno dissimulatore e meno abile nel gioco della politica. Inoltre Costantino, che era stato a lungo sulla frontiera del Danubio, sapeva bene che le migliori truppe di Galerio erano di stanza appunto su quel fronte e, all’occorrenza, potevano essere richiamate in qualunque momento. Fra l’altro le

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Follis di Massenzio. Zecca di Ostia, 309-311 d.C. Al dritto, il profilo laureato dell’imperatore: al rovescio, i Dioscuri in piedi uno di fronte all’altro. Nella pagina accanto testa quasi colossale di Massimiano, dalla villa romana di Chiragan (Alta Garonna, Francia). Post 293 d.C. Tolosa, Musée Saint-Raymond.

comandava un commilitone di Galerio, a lui legato da vecchia amicizia e generale validissimo, Licinio. Non si rassegnò Massimiano, vedendo svanirgli un potere o almeno la possibilità di un ritorno al potere, che gli era sembrato a portata di mano. Rientrò in Italia, fidando nella riconoscenza di Massenzio. Per due volte l’aveva salvato dagli eserciti di Severo e di Galerio. Giudicava il figlio dissoluto e indolente. Meno che mai sarebbe stato in grado di governare o destreggiarsi in una situazione di giorno in giorno piú drammatica, in continuo cambiamento, e che richiedeva nervi saldi e prontezza di azione. Operata una nuova divisione dell’impero d’Oriente, Galerio aveva affidato a Licinio (nominato Augusto al posto di Severo) la Rezia, la Pannonia, l’Illirio, cioè le regioni a ridosso dell’Italia. In caso di attacco come gli avrebbe resistito Massenzio? In Italia era al potere per un colpo fortunoso di mano. Ma se gli era stato facile impadronirsene, molto piú difficile gli sarebbe stato mantenerla. In breve, gli occorreva una guida, la mente e l’esperienza di chi aveva alle spalle una serie vittoriosa di battaglie, sostenute nei diversi fronti, e quindi sapeva come guidare un esercito.

Un affronto insostenibile Contrariamente a quanto si aspettava, Massenzio non solo non cedette, ma gli si rivoltò con arroganza: lui, Massenzio, era l’imperatore d’Italia, legittimato dal voto del popolo romano e del Senato. Per Massimiano, roso dall’ossessione di quello che era stato (padrone di una metà del mondo), fu uno schiaffo intollerabile da sopportare, ricevuto per di piú dal figlio. Cieco di furore arrivò, nel buio dell’esasperazione, fino a deturpare se stesso, mettendo in giro una voce ignobile: che Massenzio non era suo figlio, ma nato dall’adulterio di sua moglie con un Siriano.


Marco Aurelio Valerio Massimiano

O

riginario della Pannonia. Militò con Diocleziano sotto Caro, che fu l’unico dopo Traiano a portare le armi romane oltre il Tigri dopo aver devastato la Mesopotamia, tagliate a pezzi le armate che gli si opponevano, conquistate le due grandi città dell’impero sassanide, Seleucia e Ctesifonte. L’amicizia con Diocleziano fu il fulcro di tutta la sua vita. Diocleziano lo associò all’impero quasi fin dall’inizio della sua elezione, dandogli a governare l’Occidente (Gallie, Spagna, Britannia, Italia, Illirio, Africa) con capitale Milano. A sua volta lui si prese come Cesare Costanzo Cloro, della cui abilità militare aveva avuto prove sul Reno. E perché i legami fossero piú stretti gli dette in moglie la figliastra Teodora, giovane e bellissima siriana. Per le regole della tetrarchia, l’abdicazione di Diocleziano nel 305 costrinse anche lui a dimettersi. Lo fece con l’animo gonfio di rimpianti. Un anno dopo lo risvegliò dalla solitudine della Calabria, dove si era ritirato e aveva una villa, la rivolta di Roma e l’elezione a imperatore del figlio Massenzio. Si precipita nella capitale. Non stimava il figlio, vizioso e imbelle. Di sicuro organizza la difesa per la discesa in Italia di Severo, che era poi l’Augusto che l’aveva sostituito. Lo respinge, lo assedia a Ravenna. L’altro si arrende e viene ucciso. In Italia è la volta di Galerio. Sebbene superbo e vendicativo, non ha migliore fortuna. Quando Galerio si ritira, Massimiano corre da Costantino (che ha sposato sua figlia Fausta) e lo sollecita a tagliare la ritirata e distruggere Galerio: sarebbero diventati i padroni del mondo. Ma Costantino non intende disfarsi di un avversario per poi averne un altro in casa e rifiuta. Massimiano va ad Arles, dove c’è la figlia, e quando corrieri dal Reno annunciano la (falsa) notizia della morte di Costantino, si impossessa del potere. Fu di breve durata. Costantino piomba ad Arles, Massimiano scappa a Marsiglia, ultimo disperato tentativo di resistenza. Temendo l’assedio e la vendetta del vincitore, i Marsigliesi lo consegnano a Costantino.

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Poi gonfio del vecchio orgoglio, si presenta alla caserma dei pretoriani e alla tribuna inveisce contro Massenzio. Un uomo corrotto, imbelle, che mai nella mischia di una battaglia ha rischiato il ferro del nemico, può vestire la porpora di imperatore? Nel fervore dell’accusa e dell’indignazione gliela strappa di dosso. Credeva già di udire urla e grida di consenso. Niente. Lo investí, invece, il gelo del silenzio. Poi via via mugugni, contestazioni che andavano a infrangersi contro la tribuna come marosi contro gli scogli. Era la fine. L’altro, figlio o bastardo, lasciò la tribuna e si gettò nelle braccia dei pretoriani. A Massimiano la fortuna mostrava ora la livida faccia della malignità. Tutti l’avevano tradito: la moglie, il figlio e, in parte, anche l’altra figlia a Treviri. Partí per l’Illirio e, solitario e triste, andò alla ricerca dell’unico che gli restava e in cui aveva sempre avuto una fede intemerata: l’esule volontario di Salona.

L’incontro in Pannonia Carnuntum era una cittadina della Pannonia alla confluenza del Danubio con l’Inn e il Lech (oggi in Austria). Nel novembre del 308 vi si riunirono i membri della tetrarchia con l’esclusione del

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non riconosciuto Massenzio e di Costantino, che al momento, forse, era il membro piú determinante. L’idea era partita da Galerio, con lo scopo preciso di ridare fondamenti legali e spettacolari a una struttura politica per molti versi traballante. Pretesto: la consacrazione ufficiale ad Augusto di Licinio Valerio Liciniano. Naturalmente Diocleziano e Massimiano nei posti d’onore per conferire, almeno alla facciata, lustro e solennità. Diocleziano era stato molto restio a lasciare il palazzo di Spalato per Carnuntum. A spingerlo erano state due persone a lui piú vicine e interessate: Massimiano e Valeria, la figlia; ambedue con la volontà dichiarata di convincerlo a riprendere nella tetrarchia la sua posizione di Iovius, di indiscusso primato. Massimiano vi aggiunse i rigurgiti ambiziosi di rientrare nel ruolo che aveva avuto. Un progetto o disegno politicamente anacronistico, inattuabile. L’autunno in Pannonia era piovoso e lo scenario naturale, grigio e spoglio, induceva a riflettere sulla instabilità della fortuna. Silla e Cesare avevano insegnato che l’esercito era il potere. Diocleziano e Massimiano, che non avevano piú il comando di eserciti che legittimassero la

La cosiddetta Porta Pagana a Carnuntum (Austria) probabilmente innalzata durante il regno di Costanzo II (351-361 d.C.). Si trattava, in origine, di un arco quadrifronte, eretto come monumento trionfale, il che significa che non era possibile passare attraverso l’arco. Sul piedistallo collocato al centro della Porta, alto poco piú di 4 m, era probabilmente collocata una statua dell’imperatore a grandezza naturale. Nella pagina accanto, in alto ritratto di Fausta Massima Flavia, moglie di Costantino dal 307 al 310 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.


In basso la monumentale Porta Nigra, a Treviri, in Renania (Germania), città in cui, secondo i panegiristi cristiani, muore Massimiano, che aveva attentato alla vita di Costantino.

validità, nonché la forza delle loro richieste, incredibilmente (Massimiano, soprattutto), se ne dimenticarono. E il loro passato di Augusti, al di fuori delle ipocrite e sontuose attestazioni di rispetto, non poteva avere, né ebbe alcun peso sulla bilancia decisionale del potere. Carnuntum serví a Galerio per l’ultima illusione di un prestigio e di una maestà, che in parte erano soltanto formali, e a Licinio Valerio Liciniano per una specie di investitura sacrale, a lungo desiderata, dalle mani dell’Augusto Iovius. In definitiva fu anche l’epilogo della tetrarchia. Dall’indomani avrebbero preso a spirare i venti furiosi e distruttivi delle guerre civili. Augusti e Cesari, gli uni contro gli altri, senza esclusioni di colpi, con massacri e stragi fin nello stesso ambito

familiare. Proprio niente di nuovo sotto il sole. Non erano finite le brume autunnali sul Danubio che Massimiano lasciò Carnuntum e si diresse ad Arles, nella Gallia meridionale, presso la figlia Fulvia e il genero Costantino. Era avvilito, moralmente distrutto. A Carnuntum i contrassegni esterni dell’antica considerazione gli erano sembrati una mascheratura da Saturnali. Nella cerimonia, poi, dei commiati, Galerio – dopo aver recitato una sorta di apologia di se stesso – vi aveva aggiunto una nota vendicativosarcastica, eleggendolo insieme con lui console per il 309. Sapeva bene che i consoli nominati a Nicomedia o Sardica non erano riconosciuti a Roma, e viceversa. Sicché lui, Massimiano, sarebbe stato console contro o al posto del figlio Massenzio. Ad Arles – dove Costantino da Treviri aveva trasferito una parte

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LA TETRARCHIA NEL CAOS Valerio Licinio Liciniano

E

ra compatriota e amico di Galerio, gli era stato accanto nella guerra persiana (297-8) al comando delle legioni illiriche, poi generale del Danubio. Godeva della fama di ottimo comandante, soprattutto del rispetto e dell’obbedienza dei soldati che erano ai suoi ordini. Nel 308 divenne Cesare a Carnuntum. L’investitura sacrale gli venne dallo Iovius Diocleziano, titolo che, dopo l’abdicazione, non aveva alcun peso sulla bilancia del potere. I panegiristi cristiani hanno per lui versioni diverse a seconda che fosse alleato o nemico di Costantino per il dominio del mondo. Gli attribuiscono, a ogni modo, ogni sorta di vizi: avarizia sordida, infami dissolutezze, carattere aspro e facile a irritarsi, avversione per le lettere e per tutti coloro che le praticavano e da lui definiti veleno e pubblica peste. Come tali, specie se filosofi e retori, li crocifisse come si trattasse di schiavi.

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Fu, poi, spergiuro. A Sardica al letto di Galerio aveva giurato di rispettare e proteggere la moglie di Galerio, Valeria, e il figlio Candidiano, nato da un precedente matrimonio. Insidiò Valeria tanto che lei fu costretta a fuggire insieme con la madre, e quando poi capitarono di nuovo nelle sue mani le fece decapitare nel Foro di Tessalonica. Non diversamente si comportò con Candidiano. In battaglia vinse Massimiano Daia ad Adrianopoli nella Mesia Inferiore; con Costantino combatté a Cibalis e Mardia e ad Adrianopoli dieci anni dopo, e ancora a Crisopoli, e ogni volta perdette irreparabilmente, eccetto forse a Mardia, giacché la notte pose termine al combattimento. La fine fu miseranda. Se fosse morto sul campo avrebbe guadagnato rispetto a sé, alla moglie, al figlio. Preferí vivere nell’umiliazione del perdono. Ma la morte gli fu solo rimandata, per disprezzo, dal vincitore.


del governo e soprattutto il tesoro per le campagne di guerra – Massimiano depone la porpora per la seconda volta. Si sentiva estraneo, tagliato fuori dalla vita attiva della politica e ripensava alla saggezza e al distacco di Diocleziano. «Se tu vedessi quali cavoli mi crescono negli orti di Spalato – gli aveva detto, accomiatandosi da lui – nemmeno mi avresti chiesto di tornare a occuparmi dell’impero».

Una notizia clamorosa Arrivò la primavera e con essa ripresero sul Reno le invasioni dei popoli germanici. Questa volta furono i Franchi, popolo fra i piú valorosi e amanti della guerra. Costantino si mosse da Treviri con la solita rapidità. Era la sua arma migliore e piú sorprendente. Ma, improvvisamente, sulla riva sinistra del Reno, poi nella Gallia si propaga la voce che i Franchi hanno rotto, massacrato l’esercito romano, lo stesso Costantino morto sul campo. Valorosamente. La voce arriva ad Arles. Sgomento e paura. Non per Massimiano, che anzi di colpo riacquista energie, spirito combattivo, iniziativa. La morte di Costantino lo rimette, di necessità, in gioco. Si può riprendere la porpora di Augusto. Né lascia tempo in mezzo: si impadronisce del tesoro imperiale, poi raduna e parla ai soldati di stanza ad Arles, corre all’accampamento fuori città, dispensa denaro a piene mani. È convinto che la fortuna gli aliti di nuovo sulla faccia. Ma se lui conosce, per esperienza, i vantaggi della violenza, le sorprese dell’inganno, l’altro, il creduto morto, è un fulmine di guerra. Appena informato di quello che stava accadendo ad Arles, stipula una tregua con i Franchi: rinuncia a inseguirli e ad ammucchiare i loro cadaveri sulla riva del fiume, purché ripassino subito il Reno e se ne allontanino per quaranta miglia; poi velocemente giunge a Soana, imbarca le truppe a Châlons e, seguendo la corrente del Rodano, arriva ai porti di Arles. Massimiano è pratico di

Nella pagina accanto incisione raffigurante il trionfo di Licinio, dal disegno di Peter Paul Rubens di un cammeo antico facente parte della raccolta Varie Figueri de Agati Antique. 1622. Londra, British Museum. In basso moneta battuta al tempo di Massimino Daia, Imperatore dal 309 al 313 d.C.

guerra e di movimenti di truppe, ma è meravigliato, atterrito dalla stupefacente rapidità di Costantino. Neppure tenta di opporglisi in qualche modo. Fugge a Marsiglia, che è ritenuta imprendibile. E Costantino pone l’assedio alla città dalla parte di terra. Massimiano credeva di contare su due fattori: la via libera sul mare, che gli consentiva rifornimenti e quindi una resistenza a oltranza; l’aiuto di Massenzio. I Marsigliesi vanificarono l’uno e l’altro, aprendo le porte a Costantino.

Lo sconfitto in catene Sulla morte di Massimiano le versioni sono diverse. Il dato certo è che, il giorno dopo la resa della città, Massimiano comparve in catene davanti al vincitore. Incerto è se, nella circostanza, si parlassero o no; e quale morte fosse riservata al prigioniero. Costantino gli concesse di morire da Romano, suicidandosi, oppure lo fece impietosamente strangolare? La versione dei panegiristi cristiani è piú fantasiosa e molto meno credibile, conoscendo il carattere duro, inflessibile di Costantino e come in seguito si sia comportato con chiunque – legato o no a lui da vincoli di parentela – avesse attentato al suo potere. Dunque, secondo Eusebio e Lattanzio, Costantino fa grazia della vita a Massimiano e non solo: gli permette di vivere a corte, benché spogliato di ogni potere. E a corte, a Treviri, Massimiano cerca un giorno dopo l’altro di persuadere la figlia a rendersi complice dell’assassinio del marito; assassinio che si doveva compiere di notte e nel letto matrimoniale. Fausta acconsente o finge di acconsentire; finché un giorno lo rivela al marito. La notte stabilita per l’assassinio di Costantino, il posto di lui nel letto è preso da un eunuco. Sicché, quando Massimiano, lordo di sangue e uscito dalla camera, si mette a gridare di essere il solo imperatore, ecco che dal fondo del corridoio, illuminato

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LA TETRARCHIA NEL CAOS

improvvisamente dalle torce dei soldati, gli viene incontro proprio Costantino, la figura alta e ieratica come una condanna. Nell’estate del 310 Galerio era nella Mesia a Sardica (l’odierna Sofia), che con Nicomedia in Bitinia divideva il vanto di capitale dell’impero d’Oriente. La montagna a ridosso della città rendeva l’aria piú salubre di quella affocata di Nicomedia. Inoltre Sardica gli ricordava gli anni della giovinezza, della prima milizia, le battaglie sul Danubio e il periodo esaltante di quando era Cesare e aveva sposato Valeria, la figlia di Diocleziano. Dopo l’euforia momentanea di Carnuntum gli riaffiorarono alla mente i problemi non risolti, gli scacchi subiti: l’Italia e l’Africa in mano a Massenzio, invendicati il fallimento della sua «spedizione» fin quasi alle porte di Roma e la morte di Severo. E non stava bene in salute. Aveva un temperamento bilioso e facilmente irritabile. Nel riposo, per la rabbia, si era messo a bere piú del dovuto, ingrassava, poi un giorno si scoprí un’ulcera ai genitali, che piú o meno rapidamente gli si propagava al basso ventre. Nell’inverno gli si aprirono altre ulcere, le loro bocche pullulavano

di vermi. Il fetore era enorme. Si chiamarono medici, maghi, guaritori, si immolarono vittime sulle are dei vari dèi. Bagni, profumi, pomate erano inutili contro i vermi e il fetore. Il corpo di Galerio si decomponeva in un sozzo, inarrestabile, vituperoso marciume.

Guai a chi tortura i giusti Lo scrupoloso cronista della malattia di Galerio è Lucio Celio Firmiano Lattanzio. Nel suo libro De mortibus persecutorum – scritto comunque dopo il 317 a Treviri, alternando la sua attività di retore a quella di precettore di Crispo, il bastardo primogenito di Costantino – con freddo, pietoso sadismo segue ogni ulteriore fase del male, che era poi la prova evidente del castigo di Dio per la persecuzione dei cristiani. Fu Valeria, la moglie dell’Augusto (che si diceva essere cristiana o simpatizzante insieme con la madre Prisca della nuova religione) a chiamare medici cristiani per la malattia del marito. Non servirono a nulla. Alla fine di aprile del 311 Galerio si umiliò a emettere, in favore dei cristiani, l’editto di ritrattazione e di tolleranza. Nemmeno questo gli serví per scampare alla Salonicco. Veduta dell’arco (sulla sinistra) e della tomba di Galerio. Quest’ultima è un mausoleo a pianta circolare, noto anche come rotonda di S. Giorgio, e fu trasformato in chiesa al tempo di Teodosio.

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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

Affresco con scena di carico della nave Isis Geminiana, dalla necropoli della via Laurentina. Prima metà del III sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

morte. E implacabile il giudizio di Lattanzio: «Coloro che si avventarono contro Dio, giacciono sconfitti; coloro che torturarono a morte i giusti hanno esalato l’anima colpevole fra meritati tormenti, sotto i colpi della mano di Dio». Gaio Galerio Massimiano morí a Sardica il 3 o 4 maggio del 311. Era stato eletto Augusto esattamente sei anni prima, il 1° maggio 305. Al suo capezzale, oltre alla moglie, il solo Licinio, venuto da Sirmio sulla Sava. A lui il morente raccomandò la moglie e il figlio bastardo Candidiano. Ma come non lo avevano «miracolato» i medici cristiani o l’editto di tolleranza, cosí non sortirono alcun effetto le raccomandazioni per la moglie e il figlio. Anzi Licinio, che gli era stato commilitone fin dalla giovinezza e a lui doveva titoli, cariche, comandi di eserciti, province, lo avrebbe tradito miserevolmente, arrivando addirittura a uccidergli e l’una e l’altro.

Un odio viscerale I sintomi della guerra civile si erano avvertiti già nei bui risvolti della riunione di Carnuntum. Massimino Daia non era stato affatto contento della consacrazione di Licinio ad Augusto. Per

quanto piú giovane, credeva di avere piú titolo e diritti di lui. Erano ambedue feroci, sensuali, avidi di potere. E si odiavano visceralmente. Ingordo, rozzo e depravato Massimino Daia; Licinio piú abile ed esperto condottiero, ma gonfio di libidine, come un soldato mercenario. Nella morte di Galerio videro un’occasione unica di rifarsi: l’uno defraudato da una sorte avversa, l’altro dall’invidia degli antagonisti. Licinio di province aveva solo la Rezia, la Pannonia e parte dell’Illirio; Massimino Daia la Siria e l’Egitto. Ora si spalancavano loro le province di Galerio: l’altra parte dell’Illirio, la Grecia, la Macedonia, Mesia Superiore e Mesia Inferiore, tutta l’Asia Minore, inclusa la Bitinia con la capitale Nicomedia. Avvantaggiò enormemente Massimino Daia la circostanza che Galerio durante la malattia e al momento della morte si trovasse a Sardica. Né lui si era mosso per visitarlo o per i funerali, benché gli fosse nipote e debitore della nomina a Cesare, fra l’altro non voluta e ostacolata da Diocleziano. Cosí, avendo mano libera in Asia, si spinse con l’esercito fino alla Troade, occupò Nicomedia e arrivò al Bosforo senza colpo ferire. Licinio, ancora impelagato a Sardica, era

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LA TETRARCHIA NEL CAOS

stato colto di sorpresa e quando, radunato in tutta fretta un esercito, corse al Bosforo, l’altra riva era saldamente presidiata dalle truppe di Massimino Daia. Stettero a guardarsi attraverso la liquida barriera del mare, misurando l’uno le forze dell’altro, finché decisero che era meglio venire a una tregua, lunga o breve che fosse.

Dalla tregua all’accordo Del resto nessuno dei due era, al momento, preparato per una guerra, né intendeva rischiare in una battaglia i territori appena conquistati. E in effetti il Bosforo, con il mare che separava le due rive, diveniva un confine naturale: da una parte l’Occidente, dall’altra l’Oriente. Un imprevisto della tregua, trasformata poi in accordo, fu la fuga repentina

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da Licinio di Valeria insieme con la madre Prisca e il figlio bastardo di Galerio, Candidiano. Attraversato il Bosforo, Valeria chiese asilo all’altro contendente, Massimino Daia a Nicomedia, tornata ora a essere la capitale d’Oriente. Lattanzio addebita la fuga alla paura di Valeria di fronte alla libidine di Licinio. Lui sessantenne, lei sotto i trenta. Per lo piú le passioni senili sono pervicaci, distruttive e non di rado (come nel caso in questione) impossibili a dominarsi. Valeria era illirica, bionda, una di quelle bellezze misteriose, dal fascino segreto. Galerio ne era stato innamorato e geloso, ma da lei non aveva avuto figli. Delle donne all’apice del potere la vicenda umana di Valeria è fra le piú penose. Toccò i due estremi della fortuna. La sua avvenenza fisica le fu al tempo

I resti del circo di Massenzio, facente parte del complesso fatto realizzare dall’imperatore fra il II e il III miglio della via Appia Antica e comprendente anche un palazzo, una terma e un mausoleo dinastico.


stesso causa di passioni e di grandi sciagure. È strano come la storia, paludata o austera, dimentichi o releghi in un canto la storia cosiddetta «minore», il dietro della facciata per intendersi, o quella che ha il letto come naturale gioco di contesa, e il cui peso non è meno determinante, a volte, dei colpi di Stato o delle battaglie perdute o vinte. In una struttura politica, quale la tetrarchia per esempio, immaginata e portata avanti dalle geometrie della ragione, le rivalità di potere si intrecciarono con i vincoli di famiglia e con quelli generati dalle passioni. Gli uni e gli altri, come era sempre accaduto dal tappeto di Cleopatra o dal ballo discinto di Ester, univano o strangolavano. Galerio aveva sposato la figlia di Diocleziano, Valeria, e la passione per lei fu un aculeo di continuo presente nella lotta mortale fra Licinio e Massimino Daia. Costantino, unito in matrimonio con Fausta, figlia di Massimiano e sorella di Massenzio, combatté e uccise sia l’uno che l’altro. Ugualmente si comporta con Licinio, al quale dapprima, per convenienza politica, dà in moglie la sorellastra prediletta Costanza, poi, nel giro di pochi anni, muove guerra per arraffare il potere unico del mondo, arrivando impietosamente alla morte dello stesso e del figlio (ovverossia cognato e nipote).

L’incubo della fame Ripartiamo da Massenzio. Dopo le fiammate di un ritrovato orgoglio «romano», suscitate nella popolazione dalla ritirata del burbanzoso Galerio, Massenzio non capí o non volle rendersi conto di come, finito lo stato di emergenza, dovesse riordinare l’assetto sociale ed economico della Penisola, nonché quello particolare di Roma. Le due spedizioni «punitive» di Severo e di Galerio (quest’ultima, soprattutto) avevano spopolato le campagne, bruciati i villaggi, distrutto i magazzini di grano, rapito gli armenti. A questo si aggiunsero, sventuratamente, due cattivi raccolti. Per la Penisola era la carestia, con l’incubo della fame. In condizioni normali l’Italia dipendeva dall’Africa per un terzo del suo fabbisogno

granario. Ma ora accadde che l’Africa si ribellasse, eleggendosi un nuovo imperatore, Domizio Alessandro. Di colpo la situazione in Italia e a Roma divenne drammatica. Massenzio era pigro, dissipatore e un incorreggibile lussurioso. Aveva sempre bisogno di soldi, quindi costretto a gravare di continuo o a rapinare i cittadini. Per avidità riuscí a renderseli ostili. Gli rimanevano fedeli, conservando per lui simpatia e un attaccamento quasi incondizionato, i soldati e soprattutto i pretoriani. Vero è che godevano di non pochi privilegi: una regolare distribuzione dei salari, spesso integrata da occasioni straordinarie, nelle quali era compresa la licenza, concessa loro piú o meno liberamente, di angariare con soprusi le persone civili, profittando da un lato del silenzio delle leggi, dall’altro del timore che ai malcapitati ispirava la loro vista o la loro reazione. Ma ecco che con davanti lo spettro della carestia, Massenzio esce dal letargo della smemoratezza. Primo atto liberare l’Africa. Significava i trasporti regolari di grano ai porti di Ostia e dell’Italia. Poiché era superstiziosissimo, aveva atteso fino ad allora segnali favorevoli. In Africa manda il prefetto del Pretorio, Rufio Volusano, con un esercito non numeroso, ma addestrato e agguerrito. Breve la campagna. Domizio Alessandro strangolato. L’Africa era ricca e i soldati di Massenzio la depredarono come si trattasse della conquista di una nuova provincia. Riempiti i magazzini di grano e rimpinguate le casse dello Stato, Massenzio pensò alla sicurezza militare, assoldando nuove truppe, di cavalleria in primo luogo, e cioè contingenti di Mauri, che venivano appunto dall’Africa, appena «riconquistata». Per gli occhi della plebe romana fece, poi, un trionfo solenne, strepitoso, richiamandosi ai vecchi tempi della Repubblica, insieme esibendo nei cartelloni «pubblicitari» l’immagine di Cartagine, divenuta nell’occasione simbolo dei nemici di Roma. In realtà aveva coscienza che si stava avvicinando il momento dello scontro per il possesso dell’Italia.

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L’ILLUSIONE DI MASSENZIO DOPO LA VITTORIA OTTENUTA NELL’OTTOBRE DEL 312 AL PONTE MILVIO, ROMA È NELLE MANI DI COSTANTINO, IL QUALE, POCO PIÚ CHE TRENTENNE, SI PREPARA ALLA RIUNIFICAZIONE DELL’IMPERO, PROCLAMANDOSI «STRUMENTO DI DIO»

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Città del Vaticano, Stanze di Raffaello, Sala di Costantino. Battaglia di Ponte Milvio, affresco eseguito su disegno di Raffaello, ma la cui esecuzione pittorica spetta materialmente all’allievo Giulio Romano, che lo ultimò dopo la morte prematura del maestro prima della fine dei lavori (1520).

M

assenzio era troppo pigro per cullare sogni o fantasie di conquiste. Non aveva mai amato, né amava ora gli esercizi militari, la vita dura degli accampamenti, le lunghe marce sotto il sole o nel freddo dell’inverno. Lo interessavano piuttosto le giovani mogli o figlie di senatori o di popolari capaci di stuzzicare i suoi appetiti sessuali. In una città dai costumi licenziosi come Roma non c’erano in pratica donne belle e amanti del lusso che non fossero disposte a compiacerlo in uno qualunque dei suoi giochi erotici. E c’era, comunque, anche il risvolto della medaglia: la loro compiacenza lo veniva a

privare del sapore piú piccante, quello dell’oltraggio gratuito, arbitrario, provocatorio, inaspettato, oltre naturalmente allo sfregio della violenza fisica. Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica) ricorda una giovane matrona che si uccise per sottrarsi alla lussuria di Massenzio. Precisa che era cristiana, moglie del prefetto di Roma e che il suo nome era Sofronia. La testimonianza del panegirista, anche se di parte, non può essere messa in dubbio. Ma rimane accidentale il fatto (per Eusebio, primario) che la donna fosse cristiana. A ogni buon conto, è assolutamente certo che nel 311, subito dopo l’editto emanato in aprile da Galerio, Massenzio concesse ai cristiani –

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ugualmente come il suocero – il diritto di tolleranza religiosa, anzi si spinse addirittura a restituire alla Chiesa cristiana le proprietà confiscate durante la persecuzione.

Alla conquista del mondo Con il che si può dire, anticipando, che non risponde a verità, come scrissero in seguito i panegiristi, che Costantino si sia mosso dalla Gallia contro Massenzio per liberare Roma e i cristiani da una persecuzione religiosa. La guerra di Flavio Valerio Costantino fu una guerra di conquista. La prima, in ordine di tempo, per arrivare alla signoria del mondo. Da una parte e dall’altra si trovarono subito pretesti, motivi, rivendicazioni per giustificare la guerra. Massenzio tirò fuori la morte del padre Massimiano, fatto strangolare da Costantino dopo la resa di Marsiglia. Per renderne la morte ancora piú infame, si affrettò a deificare il padre, a tesserne gli elogi, a innalzargli statue. Costantino, diceva Massenzio, non si era macchiato soltanto di empietà, uccidendo il suocero, ma anche di nera ingratitudine, giacché sia Costanzo Cloro, sia lo stesso Costantino dovevano a Massimiano l’ascesa a Cesare e poi ad Augusto. Le accuse del cognato contro Massenzio si limitarono a rinfacciargli di aver distrutto in Italia come a Roma le statue di lui, Costantino. Era niente. Ma nel tempio di Apollo a Gand trovò un incentivo impellente, perentorio, indifferibile per la guerra: una visione. Gli apparvero Apollo e la Vittoria nell’atto di offrirgli una corona di alloro. Costantino identificò subito Apollo con il Sol Invictus, al quale era unanimemente riconosciuto il dominio del mondo. L’anno prima, rivalutando la propria

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discendenza imperiale, aveva scelto quale propria divinità il Sol Invictus, elevato da Aureliano a divinità dello Stato e venerato da Claudio II il Gotico e da suo padre Costanzo Cloro. Insomma il vero motivo della guerra, iniziando dalla campagna d’Italia, fu la suggestione di un sogno a occhi aperti, che si tramuterà poi in segno e infine in certezza di essere il predestinato al potere unico.

Nato per combattere Quando scese in Italia, nella primavera del 312, Costantino aveva trentadue anni. Contrariamente a Massenzio – indegno, per Giuliano l’Apostata, di essere annoverato fra i Cesari, e capace, per Zosimo, che pure era uno storico pagano, di qualsiasi perversione –, Costantino non conosceva le dissolutezze della carne. Nemmeno il fasto o le gozzoviglie notturne rientravano nel suo orizzonte esistenziale. Era nato per la guerra e per dominare. Nei sei anni precedenti aveva represso rivolte in Britannia, riconquistata la Spagna, respinto e distrutto eserciti di Germani oltre il confine del Reno. Contro di lui, secondo Zosimo, Massenzio schierò piú di centosessantamila uomini, ma la cifra è assolutamente esagerata. Con piú ragionevolezza si può fissare in venticinquemila, piú cinquemila cavalieri, in gran parte germanici, l’esercito di Costantino; in quarantamila, con l’aggiunta di diecimila cavalieri e delle dodici coorti di pretoriani, quello di Massenzio. Quest’ultimo, inoltre, poteva contare sulla difesa delle Mura Aureliane, che cingevano Roma e delle quali, in previsione della guerra, aveva rafforzato le capacità di resistenza. Per qualsiasi esercito la presa della città sarebbe stata difficilissima. Se poi le mura erano piene di difensori, di macchine da lancio e i magazzini riforniti di scorte, l’assedio poteva durare mesi, un anno, e rovinosamente per gli assedianti, come era accaduto per Severo e Galerio.

Medaglia in oro con le effigi di Costantino e di Alessandro Magno, personaggio a cui l’imperatore si ispirava. IV sec. d.C. Nella pagina accanto testa ritratto di Costantino, con ogni probabilità pertinente a una statua dell’imperatore a dimensioni maggiori del vero. 325-370 d.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Costantino passò le Alpi alla fine di aprile, fra il Moncenisio e il Monginevro. All’atto della partenza gli auspici gli furono avversi, ma l’ambizione era in lui un aculeo troppo forte per aspettarne di nuovi. Ed ebbe fortuna: i generali di Massenzio non avevano presidiato i passi che scendevano in Italia, sicché Susa, ai piedi delle Alpi, una fortezza ritenuta inespugnabile, investita ora da tutto l’esercito di Costantino, nello stesso giorno fu assediata, presa e bruciata. Il primo scontro diretto avvenne nei pressi di Torino fra Alpignano e Rivoli. Costantino si trovò di fronte la cavalleria catafratta, una sorta di grossa testuggine mobile o di muro di ferro che si spostava in avanti. Pesante, lenta, ma adatta per combattere in pianura e formidabile per armamento. I cavalieri catafratti si disposero a cuneo. Coperti com’erano di ferro, sia uomini che cavalli, potevano essere irresistibili, ma anche soggetti a subire a loro volta attacchi sui fianchi da una cavalleria leggera e veloce, che poteva offendere e ritirarsi. Quando, sfiniti e disuniti, i cavalieri di Massenzio persero compattezza, in cui poi consisteva la loro vera forza d’urto, si dispersero, Costantino mandò a finirli gruppi speciali di assalitori muniti di grosse mazze.

L’Adige si trasforma in una trappola Torino si arrese; ugualmente si arresero Milano e le altre città dell’Italia settentrionale. La strada per Roma era aperta. Ma, sulla sinistra, Verona era in mano a Ruricio Pompeiano, il migliore e piú attivo dei generali di Massenzio. Costantino non poteva lasciarselo alle spalle: se Ruricio Pompeiano non era in grado di impedirgli la marcia su Roma, poteva però tagliargli le comunicazioni con la Gallia. Non aveva scelta, e decisamente puntò su Verona. Per tre quarti delle mura la città era difesa dall’Adige. Per Ruricio Pompeiano, tuttavia,

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28 OTTOBRE 312, LA RESA DEI CONTI Massenzio

A

scatenare Massenzio, che pure era pigro e imbelle, fu la nuova spartizione dell’impero dopo il gran rifiuto di Diocleziano. I nuovi Cesari, suffragati dallo Iovius, dovevano essere Costantino e Massenzio. Uscirono fuori, imposti dal nuovo Augusto Galerio, Severo e Massimino Daia: il primo un generale burocrate e beone, l’altro un capraio, il cui vero titolo di merito era quello di essere figlio della sorella di Galerio. I panegiristi cristiani ci danno di Massenzio un’immagine stereotipata, comune a tutti quelli che erano nemici o avversi alla religione cristiana: dissoluto, vizioso, avido, sensuale, crudele. Può essere che avesse tutte queste tare di carattere. Quello però che si può affermare «storicamente» è che non mancava di un certo fiuto politico e che seppe sfruttare abilmente l’«occasione» che gli si offriva: trasformare una rivolta di piazza in un colpo di Stato. Questo gli dette il potere a Roma e in gran parte dell’Italia. Nonostante la sua pigrizia, fu poi solerte a organizzare la difesa di Roma, riempiendola di soldati e di macchine da lancio. Severo, nominato addirittura Augusto, fece la figura dell’inetto. Non migliore fortuna toccò a Galerio. È anche vero che era piombato a Roma, dalla sua villa

di Calabria, Massimiano, il padre. Il quale non aveva certo molta stima del figlio e, fidando nell’antico ascendente, era sicurissimo di sostituirlo nel potere, come nell’animo dei pretoriani. Dalla tribuna del Castro Pretorio accusa Massenzio di corruzione, di viltà: è indegno, dice, di vestire la porpora, e gliela

strappa. Si aspettava acclamazioni, ricevette mugugni, poi aperte disapprovazioni. Massenzio, per contro, una riconferma forse maggiore di quanto si immaginava. E veniamo alla campagna d’Italia (312). I panegiristi, che poi agiscono come l’ufficio stampa e propaganda del partito di

Costantino, accusano Massenzio di persecuzione dei cristiani. Costantino, insomma, sarebbe venuto in Italia a difesa della fede. Non risponde a verità. Non solo Massenzio aveva accettato l’editto di tolleranza, emanato dal suocero un mese prima della morte (aprile 311), ma aveva restituito alla Chiesa le proprietà confiscate. Che piú? Ed ecco, in contropartita, la descrizione di Massenzio: «Brutto e meschino d’aspetto, faceva della notte giorno, entrava con violenza nelle case altrui dove vi fossero donne giovani e avvenenti e, stupratele, le concedeva ai suoi compagni di orge». In seguito aggiunsero che faceva sacrifici umani, specialmente di bambini, sugli altari degli dèi perché gli dessero la vittoria. Colpe Massenzio ne aveva di grandi, soprattutto sul piano militare: che lo portarono a schierare l’esercito al di là del Tevere, forse credendo alle profezie (era superstizioso) degli aruspici e degli indovini. In realtà la battaglia sulla destra del Tevere fu un suicidio strategico-tattico. Fosse rimasto, avvicinandosi l’inverno, dentro le mura, Costantino avrebbe dovuto o tornare indietro come Severo e Galerio o rimandare ad altro momento la presa di Roma. Morí, fuggendo ignominiosamente, nelle acque gialle del Tevere in piena.

Moneta in bronzo battuta al tempo di Massenzio e recante il profilo dell’imperatore. Collezione privata.

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finiva per diventare una trappola, né rispondeva alle sue attitudini militari il sopportare a lungo un assedio. Aveva tentato a piú riprese audaci sortite; incerto l’esito, finché escogitò una nuova strategia: uscire dalla città, raccogliere un esercito e con quello piombare alle spalle di Costantino. Gli riuscí l’intento con l’esercito, che era di una notevole consistenza, ma fallí nella sorpresa: Costantino lo aspettava in uno scenario di colli, ideale per sbarrargli la strada. Le forze in campo erano squilibrate. Costantino aveva con sé soltanto la cavalleria e le truppe mobili, che aveva potuto sottrarre all’assedio. In guerra era temerario, risoluto, tempestivo. La giornata volgeva al termine e l’oscurità incombente avrebbe nascosto al nemico l’entità vera delle sue forze. Di sicuro si ricordò di Alessandro a Gaugamela. Con la cavalleria attaccò al centro. La comandava lui stesso. La battaglia durò fino a notte inoltrata. Al mattino la pianura e i colli che aveva davanti erano disseminati di cadaveri, uno dei quali era quello di Ruricio Pompeiano. E il numero dei prigionieri era cosí grande che per le catene Costantino ordinò di fondere le spade degli stessi prigionieri.

Statuetta di Cristo docente, forse proveniente da Civita Lavinia (Roma). IV sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

Un’avanzata inarrestabile Verona aprí le porte, poi toccò ad Aquileia e, oltre il Po, a Modena. A Roma le notizie delle vittorie e dell’avanzata di Costantino trovarono in Massenzio un ascoltatore distratto. Ostentava sicurezza, minimizzava gli insuccessi; Costantino, diceva, non aveva un esercito né migliore, né piú potente di quelli di Severo o di Galerio; quindi, come loro, destinato a scappare dall’Italia. In realtà, Massenzio viveva l’attesa fra paure, piccole viltà e le profezie degli aruspici. Quando non lo sorreggevano le parole di questi ultimi, ricorreva agli stupri nelle case dove i delatori riferivano esserci giovani donne, oppure a rapine per puro divertimento. La sua cupidità, comunque, era tale che trovava colpevoli e nemici dello Stato tutti quei senatori e cavalieri

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Uno scorcio dell’esterno dell’anfiteatro di Verona, meglio noto come Arena. L’edificio sorse intorno alla metà del I sec. d.C.

che erano o fossero ritenuti ricchi. Finalmente i vecchi ufficiali, che avevano militato sotto Massimiano, gli esposero brutalmente la gravità della situazione militare. Anche i pretoriani, da parte loro, lo sollecitarono a uscire dall’inerzia, come dalla noia dei bagordi notturni. Si riscosse, come venisse fuori da una sorta di letargo o da una lunga ubriacatura. Soprattutto lo colpirono dalle gradinate del circo gli epiteti di vigliacco, donnicciola, coniglio, lanciatigli da quegli stessi che fino a cinque, dieci giorni prima lo avevano osannato in ogni modo. Non aveva mai preso parte a una battaglia, né maneggiato uno scudo, ma ora, scortato dalla guardia pretoriana, si fece vedere al campo.

Sul Tevere, fuori dalle mura Giunto a Roma dalla Flaminia, Costantino non si affrettò a porre l’assedio alla città, anzi non passò nemmeno il Tevere e trattenne l’esercito sulle colline a ridosso del fiume. Era il 25 ottobre. Negli ultimi giorni aveva sempre piovuto, i campi zuppi d’acqua, il Tevere – come lo vedeva dall’alto – gonfio e giallo. Gli rimaneva tempo per studiare un piano, se non voleva avventurarsi nell’incognita di un assedio. Prima di iniziare la campagna d’Italia aveva stipulato un patto di alleanza con Licinio, Augusto e signore dei territori dell’Europa meridionale (Rezia, Pannonia, Illirio, Grecia, Macedonia, Mesia Superiore e Inferiore) fino al Bosforo. Il patto, che avrebbero poi sancito con il matrimonio di Licinio con la sorellastra prediletta di Costantino, Costanza, risultava in effetti favorevole ad ambedue: garantiva a Costantino, mentre era impegnato in Italia, la frontiera orientale; a sua volta Licinio era garantito a Occidente nella campagna che stava per intraprendere oltre il Bosforo, contro Massimino Daia. L’alleanza fra i due futuri cognati portò di conseguenza a un’uguale alleanza di Massenzio con Massimino Daia, secondo il piú antico adagio della politica: i nemici dei miei nemici sono miei amici. Il vero timore di Costantino era che Massenzio si rinserrasse dentro le mura. Di sicuro gli

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erano presenti gli scacchi subiti da Severo e Galerio. Un lungo assedio lo spaventava. Inaspettatamente gli vennero in aiuto i Libri Sibillini. Massenzio, come abbiamo sottolineato, era molto superstizioso. Ogni sua decisione dipendeva dal responso delle vittime sacrificate o dalle predizioni degli aruspici. Cercava in loro sicurezza alle sue viltà. Qualche giorno avanti l’arrivo di Costantino gli aruspici gli avevano minacciato la fine dell’impero e la morte «se mai si fosse allontanato dalle porte della città», e lui aveva fatto abbattere il ponte sul Tevere a un miglio dalla porta Flaminia (Ponte Milvio), e poi, in seguito alle proteste popolari, ne aveva costruito un altro di legno con uno stratagemma: composto cioè di due parti, snodabili e unite fra loro a metà da cavicchi, che si potevano facilmente sganciare.

Un presagio infausto Nella notte fra il 25 e il 26 ottobre ebbe un sogno che gli ingiungeva di non fermarsi piú oltre nel luogo dove si trovava. Subito la mattina dopo uscí dal palazzo imperiale e con la famiglia andò ad abitare una residenza privata. Finché gli venne l’idea, o gli fu suggerita, di consultare i Libri Sibillini – atto che rientrava nel solco della grande tradizione religiosa dei Romani. Ma il responso fu sconvolgente e cambiò del tutto la sua condotta strategica. Diceva che nel giorno del giubileo imperiale il nemico di Roma sarebbe stato sconfitto. Il giorno era il 28 ottobre, sesto anniversario della proclamazione a imperatore romano di Massenzio. Non ci potevano essere dubbi su chi fosse il reale nemico di Roma. Fra l’altro, Costantino si trascinava dietro un’armata di Galli, di Germani, di Britanni, mentre l’«esercito di Roma» era costituito, per la maggior parte, da Romani e da Italici. Ad avvalorare la predizione ci fu, nella piana presso Ponte Milvio, al di là del Tevere, uno scontro di avanguardie che impegnò cavalleria e legionari. Incerto l’esito, ma il solo fatto che fosse sostenuto con fermezza e determinazione da una minima parte delle forze «romane», contribuí rovinosamente a

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Colonne del foro romano di Aquileia.

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Un angelo alza con la mano destra una corona di mirto e regge con la sinistra un ramo di palma, particolare dei mosaici teodoriani dell’Aula Sud della basilica di Aquileia. L’immagine viene tradizionalmente interpretata come un’allegoria della vittoria cristiana.

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suggestionare Massenzio. Cosí lui, che era pigro, timoroso, di colpo si lasciò vincere da uno spavaldo orgoglio di imperio e, all’alba del 28 ottobre, giorno appunto del giubileo imperiale, ordinò a tutte le sue forze di uscire dalla città, oltrepassare il Tevere e pigliare posizione sulla destra, in pratica con le spalle al fiume. Costantino si era attestato sulla Flaminia a Saxa Rubra, da dove dominava il Tevere. Dopo lo scontro di tre giorni prima, intuendo il disegno suicida di Massenzio, si era affrettato a ritirare le avanguardie che scorrazzavano sulla destra del fiume.

In attesa del momento propizio La giornata si annunciava instabile, nuvolosa, con le nebbie nelle valli, ma per tutto quel ventotto ottobre non piovve. Con la vista dei colli, nell’umida velatura della nebbia e a specchio del fiume, si snodò verso la via Flaminia il lungo, oscuro lombrico di oltre cinquantamila unità dell’esercito romano di Massenzio, pesante, disarticolato e ignaro di andare incontro alla piú tremenda delle catastrofi. Costantino, al riparo delle alture, aspettava che la vittima designata si infilasse nel budello-trappola che aveva preparato fra Ponte Milvio e Saxa Rubra. Aveva schierato, infatti, una parte dell’esercito appunto a Saxa Rubra, profittando del vantaggio che gli offriva il terreno. Con il resto dell’esercito girò intono alle colline in un ampio semicerchio fino a incontrare la Cassia e, seguendo questa, si portò all’altezza di Ponte Milvio. Quando, diradatasi la nebbia, l’avanguardia di Massenzio si trovò a contatto con le truppe gallo-germane di Costantino schierate sui pendii di Saxa Rubra, il lungo, oscuro lombrico si incurvò, ebbe un sussulto di assestamento. Poi cominciò a distendersi, allargandosi a ventaglio, portando la sinistra alle pendici delle alture e la destra a sostenere l’attacco dell’avanguardia. Era il momento scelto da Costantino. Improvvisamente, al comando della cavalleria, si gettò con impeto sul fianco nemico. Massenzio gli mandò contro la cavalleria: con le coorti pretoriane era

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l’elemento di forza del suo esercito. Numerosa, ben addestrata, contava nelle sue file catafratti e cavalleggeri numidi e mauri: i primi, coperti di ferro, lenti, avevano dato prova delle loro qualità in primavera nella piana di Torino; i secondi erano rinomati per la loro mobilità e la loro azione avvolgente, simile a un vento rapinoso. Finché la cavalleria di Massenzio tenne il campo, la battaglia in qualche modo rimase in bilico, ma appena Mauri e catafratti cedettero, non ebbe piú storia e si trasformò in una strage e in una fuga miseranda. L’esercito di Massenzio, per imbecillità tattica, aveva combattuto sulla riva destra del Tevere, con le spalle al fiume: era sconfitto prima ancora di levare il grido di guerra. E, rotta la cavalleria, la massa dei fanti si disfece. Alcuni reparti non aspettarono di trovarsi di fronte i legionari di Costantino, buttarono via gli scudi e scapparono. Soltanto i pretoriani, per rancore o disperazione, combatterono valorosamente. Al centro com’erano dello schieramento di Massenzio, tentarono a piú riprese di sollevare le sorti infauste della giornata, ma ricoprirono con i loro cadaveri lo stesso terreno che avevano occupato durante la battaglia. I panegiristi cristiani hanno attribuito la straordinaria ed efferata vittoria di Costantino al famoso sogno da lui avuto alla vigilia della battaglia. Ci sono, poi, d’obbligo, il monogramma di Cristo dipinto sugli scudi o sui labari e la scritta fatidica «in hoc signo vinces». Una favola. Magari appartiene a una storia virtuale, all’iconografia cristiana del Quattro o Cinquecento o a versioni cinematografiche del XX secolo. L’«illuminazione» Costantino l’aveva avuta a Gand, nel tempio di Apollo, identificato con il Sol Invictus, come abbiamo scritto nelle

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pagine precedenti. Il primo racconto «ideologicamente cristiano» lo si ha in Lattanzio cinque anni dopo (317), mentre era alla corte di Costantino a Treviri. E, a ogni modo, Lattanzio non parla affatto di apparizione, accenna piuttosto a una voce udita da Costantino nel sogno o nel dormiveglia. Il racconto, per cosí dire, «ecumenico» è del 325, a dodici anni dalla battaglia sul Tevere e scritto da Eusebio di Cesarea, che a sua volta l’aveva appreso direttamente da Costantino.

Un mito da rivedere? Se possiamo ragionare con freddezza, sgombrando il campo da fole e da riempitivi, fioriti nella infatuazione religiosa degli anni dopo con lo scopo preciso di avvalorare una tesi ideologica, allora dovremmo forse dire che, se Costantino andava debitore a una deità, questa erano i Libri Sibillini, la cui profezia aveva indotto Massenzio a lasciare le mura di Roma, consegnando sé e l’esercito che comandava a uno dei peggiori suicidi militari. Solo che, sempre i panegiristi, assegnano al Dio dei cristiani anche l’uscita di Massenzio da Roma. Scrive Eusebio di Cesarea: «Per evitare che Costantino fosse costretto a combattere contro i Romani, Dio stesso trascinò costui (Massenzio) lontano dalle porte di Roma». Massenzio morí annegato insieme con le torme impecorite dei suoi soldati nella piena del Tevere. Ritrovato il cadavere, gli fu staccata la testa, infissa in una lancia e portata in giro per Roma. Costantino, il vincitore, non meritò né la lode di clemente, né la taccia di crudele. Spietato e senza remore lo fu, però, con tutta la stirpe di Massenzio, che sterminò scrupolosamente a partire dai figli, bastardi o

In alto, sulle due pagine la battaglia di Ponte Milvio, particolare del fregio scolpito sul fornice destro del lato sud dell’Arco di Costantino, a Roma. IV sec. d.C.


BATTAGLIA DI PONTE MILVIO Vi

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Battaglia di ponte Milvio 28 ottobre 312

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A sinistra schema della battaglia di Ponte Milvio, che, cominciata in località Saxa Rubra, proseguí fino alla zona del ponte romano. In basso disegno ricostruttivo di un momento della battaglia di Ponte Milvio.

legittimi che fossero (Romolo, il primogenito, era morto nel 309), e continuò con le concubine che erano a palazzo e con la moglie, figlia di Galerio, che dicevano fosse cristiana. Poi abolí le coorti dei pretoriani, fece giustiziare le persone piú coinvolte con Massenzio, infine tenne un discorso in Senato, promettendo di ristabilire l’antica dignità e gli antichi privilegi. Si trattenne a Roma non piú di due mesi: la città non gli piaceva; infine si recò a Milano per incontrare Licinio Valerio Liciniano, il nuovo alleato, di lí a poco cognato, e insieme futuro antagonista

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per il dominio del mondo. Aveva conosciuto Licinio a Nicomedia, una ventina di anni prima, quando lui, Costantino, era al seguito di Diocleziano e non era ancora ben chiaro se il soggiorno alla corte dello Iovius della tetrarchia lo doveva alla stima per valentia militare di cui godeva il padre Costanzo Cloro, inviato sul Reno, o non fosse invece la sua una permanenza vigilata, quasi una specie di ostaggio, anche se mascherata dalla consueta ipocrisia orientale. In realtà l’ipotesi dell’ostaggio, almeno all’inizio, era la piú probabile, considerando che Diocleziano era succeduto a Carino e che fino allora Costanzo Cloro aveva governato l’Illirio per conto di quest’ultimo. Nel giro brevissimo di qualche mese caddero sospetti e timori. La considerazione dello Iovius su Costantino crebbe al punto da designarlo come Cesare il

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A sinistra lastra frammentaria sulla quale è scolpito un rilievo che allude alla vittoria di Costantino al Ponte Milvio. IV sec. d.C. Alfedena, Museo Civico Aufidenate Antonio De Nino.


Sulle due pagine una veduta di Ponte Milvio, a Roma, presso il quale si scontrarono le truppe di Costantino e di Massenzio, il 28 ottobre del 312. Secondo la tradizione, alla vigilia dello scontro, Costantino sarebbe stato avvertito in sogno di far contrassegnare gli scudi dei suoi soldati con il monogramma cristiano.

giorno dell’abdicazione. Ma Galerio si oppose. Licinio Valerio Liciniano fu l’altro dimenticato nelle nomine del 305. Era amico e commilitone di Galerio, lo aveva seguito in Persia, sul Danubio e per la scelta di Massimino Daia si sentí ingiustamente tradito. Si rifece a Carnuntum, diventando Augusto.

Un gioco mortale La morte di Galerio, la spartizione delle province lo misero ora direttamente a fronte di Massimino Daia in una partita di odio e di morte. Nel primo impatto il figlio della sorella di Galerio arrivò al Bosforo in anticipo e a Licinio fu giocoforza accettare il fatto compiuto. Ma poi al vecchio odio si aggiunse una vicenda dai risvolti passionali. I prodromi si erano avuti a Sardica. Erano appena finite le cerimonie per la morte «immonda» di Galerio,

che Licinio intendeva allestirne altre di segno opposto. Valeria era bella, vedova, giovane, appena trentenne, lui il doppio e avido di piaceri e di dominio, come un barbaro che, affacciatosi all’opulenza dell’impero, volesse ripagarsi sia del tempo perduto, sia delle delizie non godute. Se ne era innamorato e voleva sposarla. Avrebbe unito amore e prestigio, oltre ad assicurarsi contro una eventuale aspirazione al potere di Candidiano, il figlio primogenito e bastardo di Galerio. Valeria si defilò ora con un pretesto, ora con un altro, finché riuscí a fuggire da Sardica, con la madre Prisca e Candidiano. Arrivato al Bosforo, Licinio venne a sapere che i suoi cavalli per meno di un giorno non avevano raggiunto la carrozza di Valeria con la madre, Candidiano e le casse piene di gioielli e delle altre ricchezze che aveva potuto racimolare e

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28 OTTOBRE 312, LA RESA DEI CONTI Ulpio Vittorino, che combatté a Ponte Milvio

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ggi conservata nel Lapidario profano dei Musei Vaticani, questa lapide sepolcrale (databile tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C.) venne fatta a pezzi in antico ed è stata poi ricostruita dagli archeologi. Il personaggio defunto è raffigurato due volte: la prima in alto, tra due maschere, sdraiato per il banchetto funebre, di profilo. Nella seconda scena, invece, lo vediamo molto piú grande, quasi imponente: è di fronte a noi, in abiti militari e con la spada nel fodero. L’iscrizione ci dice che il defunto è un certo Ulpio Vittorino (Ulpius Victorinus), venuto a Roma dalla Pannonia, membro del corpo degli equites singulares, nel quale militò per tredici anni. Al di là della carriera militare, la vicenda di Ulpio è legata al tempo di Costantino e, anzi, ha a che fare con una delle piú trionfali comparse di un regnante nella storia. È il 28 ottobre 312: Costantino è deciso a sconfiggere e a strappare il trono a Massenzio, che per lui non è altro che un usurpatore. Arriva a Roma da nord con le sue truppe, e sferra l’attacco decisivo presso il ponte Milvio, lungo la via Flaminia. È una battaglia celeberrima, riprodotta anche nel fregio dell’arco di Costantino, a due passi dal Colosseo. Massenzio ha la peggio: viene ucciso, e il suo esercito è sconfitto. Ne fanno parte gli equites singulares, la guardia del corpo a cavallo dell’imperatore. Dunque, con il senno di poi, possiamo dire che di fronte al flusso della storia gli equites hanno il solo torto d’essersi schierati dalla parte «sbagliata», quella di chi ha perso. E subito dopo Costantino si mostra spietato verso di loro, mettendo in atto un programma di damnatio memoriae. Prima di tutto distrugge le loro caserme, e lí permette la fondazione della cattedrale di Roma, la basilica del Salvatore (oggi S. Giovanni in Laterano). E poi rade al suolo il loro cimitero, che si trovava alle porte della città, sulla via Labicana. Anche in questo caso è una chiesa a prendere il posto del complesso distrutto, la grande basilica dei Ss. Marcellino e Pietro. Le tombe degli equites vengono distrutte, le loro ossa disperse, le lapidi che ne ricordavano i nomi vengono frantumate e in buona parte reimpiegate nelle fondazioni della chiesa, come materiale da costruzione. In altre parole, la nuova basilica cancella il ricordo della guardia a cavallo di Massenzio; anzi, di piú: poggia simbolicamente sulla sua memoria distrutta, che ha tenuto nascosta per secoli, finché sono intervenuti gli archeologi e l’hanno recuperata, acquisendo un tassello in piú di questa storia.

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Le insegne di Massenzio che si era portata dietro. Lo sgarbo lo ferí, ma gli parve e poi gli divenne intollerabile appena gli riferirono che Valeria era a Nicomedia, oggetto di onori e di attenzioni da parte di Massimino Daia, sicché mentre navigava in mezzo al Bosforo per incontrarlo, riusciva a stento a frenare rabbia e dispetto. Ma Massimino Daia era un bestione pericoloso, piú giovane di lui e somigliava agli orsi bruni che ricordava di aver cacciato nelle foreste del Danubio. Bilioso, mortalmente offeso, in collera con se stesso, mentre si preparava alla vendetta, non ebbe alternativa nello stringere alleanze: Costantino era ugualmente avverso a Massimino Daia e a Massenzio, che aveva in mano l’Italia. In effetti fra loro non potevano esserci che rapporti di necessità e lettere formali. Diversissimi i caratteri, differente l’età con un salto generazionale di trent’anni, e diversa la loro formazione. Costantino, quando la ragione politica glielo imponeva, crudele e spietato, per il resto paziente, sobrio e avido soltanto di potere, misurato comunque da una intelligenza vigile; Licinio, lussurioso, ingordo, assillato di continuo da una voglia insaziabile di fasti, di potere, di sfrenatezze. E crudele senza necessità.

Un’alleanza forzata Questi due imperatori che mai avrebbero potuto accordarsi fra loro per affinità d’animo, furono dagli eventi della storia costretti ad allearsi, si scambiarono perfino pegni di amicizia e di solidarietà familiare. Si videro a Milano nel febbraio 313. Era freddo e c’era la neve. Insieme emisero un editto a favore dei cristiani. Non si allontanava da quelli emanati due anni prima a Sardica da Galerio e a Roma da Massenzio. In aggiunta c’era che la

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el 2005, la pendice nord-orientale del Palatino è stata teatro di una scoperta sensazionale: quella di un set delle insegne del potere. Si tratta di tre scettri (uno dei quali è qui riprodotto), quattro punte di lancia da parata e altre quattro punte di lancia portastendardo (oggi custoditi a Roma, nel Museo Nazionale Romano, in Palazzo Massimo alle Terme). Avvolti nella seta e chiusi in astucci di legno, i reperti erano stati sepolti volontariamente nella prima metà del IV secolo (una cronologia ricavata dallo studio degli strati che coprivano gli astucci e dalle analisi al C14). Ma perché furono nascosti? E che cosa sono, veramente? Tutti gli indizi concordano. Poiché si tratta di oggetti che erano appannaggio esclusivo dell’imperatore, datati all’inizio del IV secolo, e che furono sepolti presso i palazzi imperiali, la soluzione appare obbligata: sono le insegne del potere di Massenzio, che risiedeva proprio sul Palatino. Massenzio è l’antagonista, il nemico una volta sgominato il quale Costantino può fare il suo ingresso trionfale a Roma e assumere definitivamente il potere supremo. Attenzione al risvolto tragico, macabro, quasi shakespeariano della vicenda: Massenzio muore in battaglia, a ponte Milvio, ma la sua testa viene troncata di netto e mostrata ai Romani il giorno dopo, conficcata su una lancia. Nell’interpretazione di Tina Panella – l’archeologa alla quale si deve una scoperta – le insegne furono sepolte da qualcuno molto vicino all’imperatore, magari un membro della corte, probabilmente con l’intento di recuperarle in seguito; cosa che poi evidentemente non avvenne, anche perché la vendetta di Costantino contro chi era rimasto fedele a Massenzio fu totale. Gli scettri sono composti da alcune parti in legno, e altre in metallo; all’estremità sostengono sfere in vetro di colore verde smeraldo. Le punte, invece, facevano parte di lance per usi differenti, alcune delle quali servivano a sostenere gli stendardi propri dell’imperatore. Il destino di questo gruppo di oggetti è simile a quello del loro proprietario, Massenzio: dimenticati, espunti dalla storia. Ma, grazie all’archeologia, sono tornati a testimoniare il passato.

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28 OTTOBRE 312, LA RESA DEI CONTI L’elmo di Berkasovo

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elmo di Berkasovo è un manufatto straordinario: è raro, infatti, vedere un elmo decorato cosí riccamente, con la struttura in lamina d’argento dorata e la superficie impreziosita da gemme di vetro verdi, di varie forme. Un’iscrizione a punzone, in greco, ci informa sul nome dell’artigiano che lo produsse: «Opera di Avitus». Il testo è in lingua greca, ma il nome dell’artigiano è latino: si pensa quindi che l’elmo sia stato fabbricato in un’area di confine, dove si usavano entrambe le lingue. Siamo nei primi decenni del IV secolo. In questo periodo la guerra è all’ordine del giorno. Costantino (come già i suoi predecessori) ha a che fare principalmente con tre nemici diversi: i Persiani, i popoli germanici che premono lungo il Reno e il

Danubio, e le popolazioni che si trovano presso le altre periferie dell’impero: dalla Britannia, all’Africa, alla Palestina. Ma alcune tra le battaglie fondamentali combattute (e vinte) da Costantino sono senza dubbio ponte Milvio (312) e Siscia, Cibalae e Campus Ardiensis (316); e ancora Adrianopoli e Chrysopoli (324). Tutti scontri contro i suoi principali antagonisti dentro l’impero: Massenzio nella prima, e Licinio in tutte le altre. Insomma, quello di Costantino è un impero in guerra, contro nemici interni ed esterni, e lui un imperatore-soldato. Tanto che uno dei motivi che spingono a pensare che il mausoleo sulla via Labicana, poi lasciato alla madre Elena, fosse in origine a lui destinato, sono le immagini di battaglia scolpite sul sarcofago di porfido trovato proprio lí. Dell’elmo di Berkasovo conosciamo anche il nome del proprietario, grazie a un’altra iscrizione: «Dizzon, portalo in buona salute!». Dizzon, soldato di Costantino, che dal nome sembrerebbe un abitante della Tracia, o dell’Illiria. L’elmo di Berkasovo è conservato a Novi Sad, nel Museo della Vojvodina.

religione cristiana non solo era tollerata, ma giuridicamente lecita, alla pari di quella pagana. Da Treviri Costantino aveva fatto venire la sorellastra Costanza. L’accompagnava Eutropia, vedova di Massimiano, che rivedeva Milano dopo otto anni. Costanza era alta, statuaria, piena di energia, gli somigliava anche nei tratti del volto e Costantino, non sappiamo quanto freddamente, la usò per la ragione di Stato, dandola in moglie a Licinio. Lei venti anni, lui sessantatré. Una giovane giovenca per un toro sfiancato dall’età e dalle fatiche delle guerra. Licinio portò alla moglie anche un figlioletto da adottare, Liciniano, nato l’anno prima da una schiava. A Milano gli sponsali di Licinio e di Costanza, se mai ebbero le sontuosità romane, furono interrotti da notizie sempre piú preoccupanti, via via che giungevano i corrieri a cavallo dal Reno e dalla Mesia Inferiore. I Franchi, abituati si può dire ogni primavera a provocare la saldezza delle difese romane sul Reno, trovandole in parte sguarnite e pensando Costantino impegnato in Italia, avevano attraversato il fiume e dilagavano in Gallia. Costantino corre a Treviri, raduna cavalleria e truppe mobili e va incontro ai Franchi; ma,

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stabilito il contatto, finge di ritirarsi. I nemici, sicuri di essere gli incontrastati padroni del campo, si danno precipitosamente a inseguirlo, cadono invece in una imboscata, sono presi in mezzo e trucidati. Costantino, però, non si ferma. Conosce la regola aurea della guerra: vincere non basta, l’essenziale è distruggere il nemico. Il giorno dopo imbarca truppe e cavalleria, ripassa il Reno, piomba sul territorio dei Franchi e lo mette a ferro e fuoco. Un anonimo panegirista (Nazario, forse), leggendo a Treviri

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28 OTTOBRE 312, LA RESA DEI CONTI L’editto di Milano

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romulgato nel 313 a Milano da Costantino e dal suo collega Licinio, il cosiddetto «editto di tolleranza» metteva fine alle persecuzioni dei cristiani e riconosceva la loro religione anche dal punto di vista legale. L’editto ha un’importanza storica enorme, pari soltanto al successivo editto di Teodosio (380), con cui quest’ultimo prescriveva che tutti i sudditi dell’impero si convertissero al cristianesimo. Ne riportiamo un ampio stralcio: «Quando noi, Costantino e Licinio imperatori, ci siamo incontrati a Milano e abbiamo discusso riguardo al bene e alla sicurezza pubblica, ci è sembrato che, tra le cose che potevano portare vantaggio all’umanità, la reverenza offerta alla Divinità meritasse la nostra attenzione principale, e che fosse giusto dare ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che a ciascuno apparisse preferibile; cosí che quel Dio, che è seduto in cielo, possa essere benigno e propizio a noi e a tutti quelli sotto il nostro governo». «(3) Abbiamo quindi ritenuto una buona misura, e consona a un corretto giudizio, che a nessun uomo sia negata la facoltà di aderire ai riti dei Cristiani, o di qualsiasi altra religione a cui lo dirigesse la sua mente (...). (4) Di conseguenza vi facciamo sapere che, senza riguardo per qualsiasi ordine precedente riguardante i Cristiani, a tutti coloro che scelgono di seguire tale religione deve essere permesso di rimanervi in assoluta libertà, e non devono essere disturbati in alcun modo. (5) E crediamo che sia giusto ribadire che (...) l’indulgenza che abbiamo accordato ai Cristiani in materia religiosa è ampia e senza condizioni; (6) e che tu capisca che allo stesso modo l’esercizio aperto e tranquillo della propria religione è accordato a tutti gli altri, alla stessa maniera dei Cristiani. Infatti è opportuno per la stabilità dello stato e per la tranquillità dei nostri tempi che a ogni individuo sia accordato di praticare la religione secondo la propria scelta (...)». «(7) Inoltre, per quanto riguarda i Cristiani,

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in passato abbiamo dato certi ordini riguardanti i luoghi di cui essi si servivano per le loro assemblee religiose. Ora desideriamo che tutte le persone che hanno acquistato simili luoghi (...) li restituiscano ai Cristiani, senza per questo chiedere denaro o un altro prezzo (...). (8) Desideriamo anche che quelli che hanno ottenuto qualche diritto su questi luoghi come donazione, similmente restituiscano tale diritto ai Cristiani (...). (9) E dato che sembra che, oltre ai luoghi dedicati ai riti religiosi, i Cristiani possedessero altri luoghi che non appartenevano a singole persone ma alla loro comunità, ovvero alle loro chiese, tutte queste cose vogliamo che siano comprese nella legge espressa qui sopra, e desideriamo che siano restituite alla comunità e alle chiese senza esitazione né controversia (...). (10) Nel mettere in pratica tutto ciò in favore dei Cristiani, dovrai usare la massima diligenza (...). (11) E cosí possa il favore divino (...) continuare ad accordarci il successo, per il bene della cosa pubblica. (12) E affinché questo editto sia noto a tutti, desideriamo che facendo uso della tua autorità tu faccia sí che sia pubblicato ovunque» (Lattanzio, De Mort. Pers., ch. 48. opera, ed. O.F. Fritzsche, II, p. 288 sg., Bibl Patr. Ecc. Lat. XI).

Costantino in trono, rilievo da Salona. IV sec. d.C. Spalato, Museo Archeologico. In basso, sulle due pagine la fronte del sarcofago dell’Anastasis, che raffigura, da sinistra verso destra: il cireneo che porta la croce di Cristo; Cristo coronato di spine; l’Anastasis (Resurrezione), simboleggiata dalla croce sormontata dal monogramma cristologico entro corona, con ai piedi due soldati vinti; Cristo condotto davanti a Pilato. IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano.


un peana di gloria dinanzi allo stesso Costantino, giunge a paragonarlo a un dio liberatore.

La preghiera dell’angelo Non diversa fortuna toccò a Licinio, fresco di nozze e di lodi da parte dei panegiristi cristiani, giacché in quel periodo, come dice Eusebio di Cesarea, era «caro a Dio». Licinio, dunque, partí da Milano, raggiunse l’Illirio, dove sapeva di poter raccogliere le milizie piú valide, e si scontrò con Massimino Daia ad Adrianopoli, nella Mesia Inferiore. Contro gli oltre settantamila dell’avversario non disponeva che di trentamila uomini, ma erano Illirici, molti veterani, esperti di guerra e combattenti impavidi. È vero, comunque, che considerando la stragrande superiorità degli altri, anche se si trattava di Asiatici (con Galerio, per esempio, avevano dato cattiva prova di sé nella campagna di Persia), Licinio indugiava ad attaccare. Poi, nella notte fra il 29 e il 30 aprile, ecco che, come scrive Lattanzio, ha un sogno. Piú o meno lo stesso che avrebbe avuto o potuto avere Costantino alla vigilia di Ponte Milvio. C’è, tuttavia, una variante: invece della frase («In hoc signo vinces») sui labari o del

In alto moneta al nome di Vetranione, recante al rovescio l’immagine dell’imperatore che regge un labaro sul quale compare il cristogramma di Costantino. 350 d.C.

monogramma di Cristo sugli scudi, l’angelo apparso a Licinio detta la preghiera da recitare prima di porre mano alle spade. E Licinio, appena alzato, chiama gli scrivani e comanda loro di riempire tanti biglietti con la preghiera quanti erano i soldati. Minima la differenza di aspettative nel campo, diciamo pagano, di Massimino Daia. Superstizioso al pari di Massenzio, la mattina del 30 aprile fa suonare le trombe e schierare le masse asiatiche, sicuro della vittoria. Gliel’avevano predetta, confermata, ripetuta i sacerdoti pagani che portava sempre con sé. La giornata era chiara, piatta la pianura e spoglia di alberi. Nell’altro campo i soldati di Licinio, ubbidienti agli ordini ricevuti, toltisi gli elmi, intonarono la preghiera, poi impugnano le spade e «come leoni affamati» si buttano sui nemici. I quali, al confronto, sembravano immobili e usciti dall’accampamento non per combattere, ma per farsi scannare. La strage fu spaventosa: morí piú della metà dell’esercito di Massimino Daia. Lui fuggí, ignominiosamente, vestito da schiavo. E la sua fuga fu tanto precipitosa che in poco piú di trentasei ore, oltrepassato il Bosforo e cavalcando giorno e notte, percorse centosessanta miglia e arrivò a Nicomedia.

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ARCO DI COSTANTINO | 66 |

L’arco di Costantino in un’incisione a colori di Matthew Dubourg (1786-1838).



L’ARCO DI COSTANTINO Un monumento emblematico

I PRIGIONIERI DI TRAIANO

Con le sue dimensioni colossali, quello di Costantino, è il piú grande degli archi trionfali romani giunti fino a noi e, insieme, uno dei monumenti che meglio illustrano lo spirito dell’architettura tardo-antica e le sue contraddizioni. È un arco di tipo classico a tre fornici: quello centrale, sotto il quale passava la via percorsa dai cortei trionfali, è di dimensioni maggiori rispetto ai due laterali. Sopra la trabeazione un grande attico ospita su entrambi i lati l’iscrizione con la quale il Senato dedicò il monumento a Costantino per la vittoria riportata al Ponte Milvio (28 ottobre 312) su Massenzio. Il testo epigrafico fa riferimento alla «grandezza della mente» (magnitudine mentis) e a una non meglio precisata «ispirazione della divinità» (instinctu divinitatis) che avrebbero guidato Costantino nella battaglia: se la prima formula richiama la virtú della megalopsychía («grandezza d’animo») tipica dei sovrani ellenistici, la seconda potrebbe coerentemente collocarsi nel solco dell’imitazione di Alessandro (modello degli uomini politici e poi dei principi romani fin dall’età di Cesare). Ma non è improbabile che, con una formula volutamente ambigua, per non offendere la sensibilità di alcuna delle componenti della società romana del tempo, si volesse qui anche alludere discretamente all’aiuto che, secondo la tradizione, Costantino avrebbe ricevuto dal Dio dei cristiani. Statue di prigionieri daci, provenienti dal Foro di Traiano, collocate sul basamento dell’attico.

QUELLO DI COSTANTINO È IL PIÚ GRANDE ARCO TRIONFALE GIUNTO SINO A NOI

Schema grafico dell’arco di Costantino, dedicato all’imperatore dal Senato romano, realizzato reimpiegando elementi piú antichi presi da monumenti di Marco Aurelio, Traiano e Adriano.

TRAIANO ADRIANO MARCO AURELIO COSTANTINO

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IL TRIONFO NEL SEGNO DEL SOLE

Rilievi del fianco est, raffiguranti l’entrata trionfale dell’imperatore in Roma (in

basso) e la quadriga di Helios che ascende al cielo (nel tondo).

SCAMBIO DI TESTE

Particolare dei pannelli marmorei sull’attico del lato sud, raffiguranti originariamente Marco Aurelio la cui testa è stata sostituita con quella di Costantino. A sinistra, una scena di liberalitas, elargizioni al popolo romano; a destra, la sottomissione di un capo barbaro all’imperatore seduto su un alto podio.

CACCIA ALL’ORSO

▼ Una scena di caccia all’orso (a sinistra) e un sacrificio a Diana (a destra), particolare dei tondi di epoca adrianea posti sopra il fornice destro del lato sud.


L’ARCO DI COSTANTINO

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Particolare della decorazione della fronte meridionale dell’arco di Costantino. Nei due tondi, di epoca adrianea, sono raffigurati la partenza per una battuta di caccia e un sacrificio a Silvano. Il fregio sottostante, di età costantiniana, raffigura l’assedio di Verona, condotto dall’imperatore contro le truppe di Massenzio nel 312. Sulla sinistra, è ritratto lo stesso Costantino, che viene incoronato da una Vittoria alata.

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Particolare di uno dei pannelli che decorano la fronte meridionale dell’arco di Costantino. Il rilievo, in origine appartenente a un arco onorario di Marco Aurelio, raffigura quest’ultimo impegnato nella celebrazione di un suovetaurilia, il sacrificio dei tre animali domestici tipici: il maiale (sus), la pecora (ovis), il toro (taurus), offerti a scopo purificatorio.

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La fronte meridionale dell’arco di Costantino. L’iscrizione sul fornice centrale narra che il monumento fu solennemente dedicato dal Senato all’imperatore in memoria della vittoria riportata nella battaglia di Ponte Milvio e in occasione dei decennalia dell’impero all’inizio del decimo anno di regno, il 25 luglio del 315 d.C.

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VERSO IL POTERE ASSOLUTO

UN UOMO SOLO AL COMANDO

FURIOSI SCONTRI CAMPALI INSANGUINANO L’IMPERO, MA, ALLA FINE, COSTANTINO PREVALE. FORTE DELL’APPOGGIO DEI SUOI PANEGIRISTI CRISTIANI, CHE VEDONO IN LUI UNO «STRUMENTO DI DIO»

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A

Mosaico di frammenti marmorei (opus sectile) con figure geometriche e, al centro, il Cristo, da un edificio presso Porta Marina, a Ostia Antica. IV sec. d.C. Ostia Antica, Museo Archeologico.

gli occhi di Lattanzio la sconfitta di Adrianopoli ha i colori miracolistici: al paragone, quella di Massenzio a Ponte Milvio si riduce a una cronaca nuda e cruda. Lo strano, soprattutto, è in questo: che Lattanzio ed Eusebio di Cesarea, ma in particolare il primo, non si siano posti nemmeno il dubbio di riscrivere copioni già usati con sogni e apparizioni e collocati al medesimo punto del racconto, con l’aggiunta in Lattanzio di una specie di intontimento collettivo che sarebbe sopravvenuto ai soldati di Massimino Daia, impedendo loro di scagliare i dardi e di mettere mano alle spade. Quanto a Massimino Daia, neppure Nicomedia gli sembrò abbastanza protetta. Prese con sé moglie e figli a scappò in Cappadocia con il proposito di raccozzare un altro esercito. Era feroce, grosso, tracotante, ma militarmente incapace di competere con Licinio o con Costantino. Nonostante avesse a disposizione l’intera Asia, non riuscí a organizzare una qualunque linea di difesa in Cappadocia o in Cilicia. Lo fecero i suoi generali, fortificando i passi del Tauro, mentre lui, come un forsennato, passava giorni e notti in orge e correndo dall’Egitto alla Siria, alla Cilicia. Delle sconfitte militari si vendicò alla sua maniera: ferocemente. Riuní tutti i sacerdoti, profeti, indovini che gli avevano annunciato vittorie e perfino il dominio universale, e li fece sgozzare davanti ai suoi occhi, inebriandosi e sghignazzando ai loro lamenti. Aveva anche torturato e impalato gli eunuchi cristiani che erano a corte; ma ora, d’improvviso, fu colto da rigurgiti di pentimento. La paura, la viltà gli fecero emettere un editto in favore dei cristiani. Piú o meno uguale a quello di Galerio.

Una fine ingloriosa E appunto come Galerio, che dall’editto si aspettava la guarigione dalle piaghe che gli insozzavano il corpo, Massimino Daia sperò in impossibili rivincite. Si era rinchiuso in Tarso, trepidante, ma quando seppe che le difese del Tauro all’arrivo di Licinio si erano liquefatte, prese il veleno. Il guaio è che aveva una

struttura fisica robusta, una sorta di grosso orso bruno, e nell’avvilimento aveva mangiato e bevuto a strippapelle, e il veleno non ebbe effetto. Si trascinò, urlando, per le sale e le stanze del palazzo. Il corpo gli si disfece e gli si riempí di piaghe; si sentiva bruciare le viscere. Divenne anche cieco. Morí a Tarso, sbattendo la testa contro il muro per i dolori e la disperazione. Era agosto, il cielo affocato, e il fiume Cnido – che trecentocinquantaquattro anni prima aveva visto Cleopatra, novella Afrodite, arrivare in nave dal mare per l’incontro con Marco Antonio – aveva le rive bianche di sassi. Se Massimino Daia si era impigliato nella fangaia di sangue dei sacerdoti, indovini, profeti, perché ingannato dalle loro predizioni, Licinio per crudeltà non gli fu da meno. Appena giunto a Tarso, fece uccidere parenti e amici dello sconfitto, quelli almeno che poté raggiungere, cominciando dalle concubine e dai figli (anche una figlia di sette anni, che era stata promessa al bastardo di Galerio, Candidiano). Una piú accurata, metodica carneficina la compí comunque ad Antiochia, rivelando una implacabilità omicida fino a quel momento ignorata o nascosta, forse perché gli erano mancati i modi e le occasioni per manifestarla. Per prima fu gettata nei gorghi dell’Oronte la moglie di Massimino Daia, che pure era stata da lui abbandonata, privata dei figli, infine ripudiata; poi ricercò scrupolosamente ministri, cortigiani, favoriti e a spregio tolse loro la vita non tanto perché accusati di crimini o di ingiustizie, quanto colpevoli di aver scelto e servito un imperatore piú volte vinto in battaglia. Si erse anche a difensore dei cristiani condannando a morte tutti quelli del seguito di Massimino Daia che fossero stati loro contrari o in una qualunque circostanza avessero manifestato ostilità alla loro religione. Ma Licinio, uomo dai rancori e risentimenti indelebili, aveva da prendersi ancora una rivincita. Coniugato, come si è detto, con la sorellastra di Costantino, bella, giovane (fra loro correvano piú di quarant’anni), non aveva dimenticato il rifiuto e lo sgarbo subiti da Valeria

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VERSO IL POTERE ASSOLUTO

e, come se non bastasse, la fuga di lei attraverso il Bosforo per andare a buttarsi in braccio al suo peggior nemico. La vicenda della vedova di Galerio è fra le piú penose. Sfuggita a Sardica alle profferte di Licinio, era caduta in quelle ugualmente pressanti del nuovo «protettore», Massimino. Il quale arrivò a offrirle le nozze; lei tergiversò, cercò di guadagnare tempo, finché rispose che la figlia di Diocleziano e moglie di Galerio non poteva, per decoro, passare a seconde nozze.

Esilio a Spalato Quel «decoro» mandò in bestia Massimino, uso alle adulazioni asiatiche. Si sentí offeso da lei e provocatoriamente umiliato. La cacciò in un’ala del palazzo, spogliandola insieme di gioielli, ricchezze, suppellettili, cavalli, carrozze;

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infine la confinò con la madre e Candidiano nel deserto. Anche esiliata, Valeria riusciva a inviare lettere al padre. Diocleziano scrisse sdegnato, poi supplice, implorando. Aveva avuto un impero e, per orgoglio o stanchezza, l’aveva deposto. Nella desolata solitudine di Spalato ora non contava piú niente. Ma non avrebbe mai pensato che quelli stessi che lui, privandosi del potere, aveva innalzato alla porpora, sarebbero stati i suoi carnefici. Ebbe coscienza di essere responsabile della propria impotenza e colpevole della sorte sciagurata dei suoi. Si ammalò. A Spalato la primavera era dolce: barche di pescatori alzavano la vela al largo e presto al mattino gli portavano il pesce, ma lui rifiutava di mangiare, la notte non dormiva, vagava da una torre all’altra, ascoltando il lento sciabordío della risacca contro gli scogli che

Matrimonio di Costantino, olio su tavola di Peter Paul Rubens. 1622. Tokyo, Fuji Art Museum.


L’imperatore Licinio in una delle incisioni realizzate da Hubert Goltzius per l’opera Vivae omnium fere imperatorum imagines, a C. Iulio Caes. Usque ad Carolum V et Ferdinandum eius fratrem. 1557.

proteggevano il palazzo. Morí al tramonto di una giornata di giugno del 313. Naturalmente, l’ipocrisia regalò al cadavere di Diocleziano gli onori e le considerazioni che gli erano state negate negli ultimi due o tre anni di vita. E lo deificarono, come Massimiano e Galerio. Figlia e moglie gli sopravvissero quindici mesi, continuando a vagare da un luogo all’altro. Per loro nessun amico era piú sicuro: se non cedeva per paura alla delazione, lo impigliavano le ricompense in denaro. Senza aiuti, ricchezze, complicità era impossibile arrivare ai confini dell’impero di Costantino. Candidiano, che aveva creduto alle promesse di Licinio, era stato ucciso con l’accusa di sovversione. Valeria e la madre giunsero, comunque, a Tessalonica con la speranza di imbarcarsi per l’Italia. Le spie le riconobbero. Arrestate, furono loro addebitate colpe ignobili. Licinio, vendicativo di natura, divenne ancora piú spietato per la loro fermezza. Non risparmiò loro calunnie, sozzure, malvagità, finché lui stesso si stancò e le fece decapitare nel Foro di Tessalonica.

Dispute dottrinarie Finite le persecuzioni, divenuta la religione cristiana giuridicamente legale in tutto l’impero, contrasti e divisioni vennero fuori all’interno stesso della Chiesa. Se ne rese conto e se ne stupí Costantino, tanto che ad Arles durante il sinodo, tenuto al principio dell’estate del 314, non si peritò di dire che «uomini, obbligati alla concordia fraterna, si dividevano invece in modo addirittura ripugnante, offrendo cosí il pretesto di irrisione a quanti erano avversi alla “santissima” religione». La bufera partí dall’Africa, per la nomina del vescovo di Cartagine. Due erano i

«partiti» che si contendevano la nomina: i «donatisti» (chiamati tali dal loro giovane vescovo Donato) e i traditores. I primi non avevano mai ceduto durante le persecuzioni (i puri, quindi), i secondi, al contrario, si erano adattati alle circostanze, piú semplicemente avevano salvato la pelle. Dalle discussioni, rimproveri, accuse, contumelie si passò agli atti di fanatismo, all’occupazione delle chiese, alla violenza, al saccheggio, alle uccisioni. Costantino ordinò per l’Africa l’intervento delle truppe: morti i facinorosi, esiliati i vescovi ribelli. A lui, in realtà, non interessavano le contrapposizioni di fede o la disciplina ecclesiale, interessavano la concordia, l’ordine, la pace sociale. Scopi, del resto, esclusivamente politici. Il che rientrava nei compiti del pontifex maximus, titolo che gli apparteneva nell’ordinamento costituzionale romano. Quanto, poi, alle dispute sulla fede o sul comportamento dei cristiani, la nuova religione non andò esente da lacerazioni, e questa prima, per il vescovo di Cartagine, fu, a ogni modo, solo di facciata; ne sarebbero venute in seguito di piú gravi, una dopo l’altra, e lui vivente. Le predizioni di Gand nel tempio di Apollo, identificato con il Sol Invictus, che lo destinavano al dominio del mondo, furono l’antefatto e crearono la suggestione.

In missione per conto di Dio Le vittorie in Italia, sbalorditive per la facilità e osannate dal corifeo dei panegiristi cristiani al punto da confonderle con una sorta di missione divina e impostegli dal cielo, dettero spazio alla sua immaginazione. Lattanzio ed Eusebio di Cesarea chiamavano Costantino «strumento di Dio». Cosí la sua avidità di potere ebbe il crisma del volere di Dio.

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VERSO IL POTERE ASSOLUTO Eborac Eb Ebo rac rac acu um m

Lon L Lo o din dinium ium m

Aug gust u a Trev ve ero rorum

Oceano Atlantico

G a l l ia ia Costantino

Pannoniae

Lug L ugdu dun u um m

Bur B urdig digala a al

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Vie Vienna enna nn na

Med Med diiol ollan o anu anu n m

Aqu A qu uiile ille leia a Ver Ver ero ona on nna a Tor To Tor oriino in noo n ciiirrca 3122 cir c cirrca 3122 c R enn Rav enna a

Sirmiu Sir miu um

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Eme erita riiitta Augu rit ug g sta st

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Neapol Nea poliis s

Massenzio

Car artha ar tha hago ha go No go No ov va

The Th The hes sssallon ssa lo o iica ca a

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Tin ngi gis Cae esar sarea ea Mau Maurit ritani aniae a

Cor C oriint no Cartag Car tagine ine ne e

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A f r iic ca Mar Mediterraneo Costantino Massenzio Licinio Galerio Massimino Daia

Le L Lep e ti Ma eptis M gna gn

Costantino (312) Licinio (311)

Licinio (313)

Massimino Daia (311)

Vittorie di Costantino N

Vittorie di Licinio

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NE

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Confini delle diocesi

Oriens Nome delle diocesi

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500 Km


L’impero romano fra il 311 e il 313 d.C.: alla morte di Galerio, Massimino Daia si impadronisce dell’Oriente, suddiviso fra Costantino, di cui condivide il regno con Licinio, mentre l’Occidente è nelle mani di Costantino e Massenzio. La nuova tetrarchia non dura a lungo, perché Massimino, Costantino e Licinio si coalizzano per eliminare Massenzio. In basso aureo al nome di Licinio. Zecca di Alessandria, 313-314 d.C.

Mar Nero

Una nuova guerra civile

Thracia P lip Phi ppop popoli oli li s li

P o n t i ca ca

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Galerio

Lui stesso se ne convinse, poi ci credette. Glielo confermavano le apparizioni, i sogni. Eusebio di Cesarea scrive che, tredici anni dopo Ponte Milvio, fu proprio Costantino a raccontargli della visione avuta mentre era in marcia verso l’Italia e a rivelargli le parole udite nitidamente, «Con questo vincerai». Non si comportarono diversamente gli altri grandi condottieri della storia, Alessandro Magno, Scipione l’Africano, Silla, Cesare. Il limite fra il reale e l’immaginario non era in loro che un filo teso dalla fortuna. Alessandro si fece figlio di Giove, Silla si dette il nome di Felix, il prediletto degli dèi e della fortuna, in battaglia la parola d’ordine di Cesare era Venus Victrix.

A sei Ama s a

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Asiana

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Lao odicea dic icea ea Antiochia

Or i e ns Massimino Daia Cesarea Marittiima

Alessa Ale ssandr ndria a

Mar Rosso

A litigare per il potere unico lui e Licinio cominciarono addirittura nel 314, a ridosso dell’accordo di Milano, come del matrimonio di Licinio con la sua giovane sorellastra Costanza, la prediletta. Inseguito di notte dai sogni, di giorno dalle prosternazioni degli adulatori, Costantino era impaziente di saggiare le forze del cognato. Della nuova guerra civile – fra l’altro, i due antagonisti uscivano allora vincitori da altrettante guerre intestine – gli storici pagani Zosimo ed Eutropio incolpano decisamente Costantino. L’accusa è precisa: «Non rispettò, come al solito, gli accordi e volle prendersi qualcuna delle province che erano sotto il potere di Licinio» scrive Zosimo. Vero è che Zosimo, di imperturbabile fede pagana, in ogni occasione non demorde dal condannare il cinismo politico di Costantino, nonostante gli riconosca grande valentia militare. Non un accenno, comunque, alla giovinezza di Costanza, che avrebbe potuto intrigare nel letto la tarda maturità di Licinio al punto da assopirne la vigilanza, come era accaduto nel primo grande scontro fra cognati, Cesare Ottaviano e Marco Antonio. Le fonti cristiane – Lattanzio ed Eusebio di Cesarea, nonché l’Anonimo Valesiano, storico

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VERSO IL POTERE ASSOLUTO

del V secolo e autore di una vita di Costantino – sono, ovviamente, di opinione contraria. En passant: la perennità della storia poggia appunto sul fatto che la verità è ipotecata, di volta in volta e nel tempo, dalla posizione politica o ideologica di chi la scrive.

Ambizioni, nomine e spartizioni I sospetti, dunque, dell’imperatore d’Oriente presero l’avvio dalla proposta formulata da Costantino di eleggere un Cesare. E questo doveva essere Bassiano, sposato a una sorellastra di Costantino, Anastasia, al quale aveva intenzione di affidare il governo dell’Italia, forse dell’Africa, in pratica il territorio che era stato di Massimiano e poi di Severo. Ma Costantino si era ingolosito anche della parte piú occidentale della Pannonia. Questa, però, rientrava nei domini di Licinio fin dal 308, quando a Carnuntum era stato investito, alla presenza di Diocleziano, del titolo di Augusto. Licinio accettò la nomina di Bassiano a Cesare, ma tergiversava per la cessione della Pannonia. Geloso del potere che aveva acquisito – un impero immenso che andava da Alessandria di Egitto al Norico – temeva l’ambizione, l’abilità militare di Costantino. Al momento non aveva la certezza di poterlo vincere sul campo; cosí, mentre preparava truppe e mezzi, scelse l’unica strada che gli era possibile: prendere tempo. Alla corte di Nicomedia viveva il fratello di Bassiano, Senecione. Lo avvicinò, cercò di capirne il carattere, le attitudini, la volontà di rischio e, quando credette di avere un quadro abbastanza vicino alla realtà, lo spronò all’azione. Esaltato dalla nomina a Cesare, Bassiano era ansioso di governare l’Italia. Ogni giorno che passava nell’attesa lo viveva come un oltraggio alla sua persona. Ebbe direttamente, o attraverso corrieri, contatti con il fratello. L’idea di riscatto dall’umiliazione, che credeva di sopportare, gli fece intuire nella scelta di una congiura prospettive di potere fino allora non considerate. Costantino si trovava a Roma per il decennale del suo impero e per l’inaugurazione dell’arco di trionfo.

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L’occasione era unica per la congiura, confusa nelle orge delle adulazioni, dei giochi del circo, dei festeggiamenti, degli applausi e, naturalmente, dei congiarii. Roma, quindi, il luogo piú adatto. E poi corrotta, libera di costumi e, come l’aveva definita Tacito, «comune asilo di tutto ciò che è impuro e atroce». Ma Costantino venne a sapere della congiura prima ancora che se ne tirassero le fila. Bassiano fu ripudiato come parente, spogliato della porpora e giustiziato in pubblico. Costantino si scatenò. Chiese a Licinio l’immediata consegna di Senecione; l’altro la negò. Equivaleva ad ammettere di essere complice della congiura. E fu la guerra. Con la rapidità e la risolutezza che gli erano abituali, Costantino entrò nel Norico, poi in Pannonia. Non disponeva di un grande esercito, ventimila uomini, ma addestrati, pronti ai comandi e alle evoluzioni o spostamenti in battaglia.

Era d’ottobre... Come Cesare o Alessandro, al numero preferiva la qualità e la fermezza dei soldati. Licinio, in parte colto di sorpresa dalla sua rapidità di marcia, gli contrappose un esercito che di effettivi ne contava quasi il doppio. Luogo dell’incontro: l’ondulata pianura di Cibalis (oggi Vinkovci, in Croazia), sulla Sava, lontano una cinquantina di miglia da Sirmio, da dove Licinio si era mosso. Erano i primi di ottobre, il cielo sereno, buono il terreno per lo spiegamento dei due eserciti. Licinio si collocò ai piedi del colle che portava a Cibalis; Costantino, cosciente della eccessiva inferiorità numerica, si premuní di avere i fianchi e le spalle il piú possibile protetti, e si attestò su un’altura che aveva un fronte non piú largo di mezzo miglio, fra una rupe scoscesa e la palude. E adottò lo schema di battaglia già sperimentato a Verona contro Ruricio Pompeiano, e che poi ricopiava quello di Alessandro contro Dario a Gaugamela, seicento anni prima. Non aveva alternativa: attacco al centro nemico con la cavalleria, da lui stesso guidata. La battaglia fu violentissima: Zosimo la definisce la piú feroce, sanguinosa di


Una veduta dei resti di Tarso, città della Cilicia (nell’odierna Turchia) nella quale Massimino Daia si rifugiò dopo essere stato sconfitto ad Adrianopoli da Licinio.

quante mai furono combattute in quell’arco di tempo. E durò dall’alba al tramonto. Da una parte l’irruente, incontenibile cavalleria dei Germani, dall’altra le legioni illiriche, memori della loro fama, delle vittorie riportate dalla Persia al Danubio, dell’orgoglio che le animava. Piú volte, durante la giornata, si riordinarono dopo gli attacchi a cuneo dei Germani con Costantino in prima linea. Ressero fino a quando l’imperatore delle Gallie variò l’attacco, pigliandole di fianco. Si sgretolarono. E l’esercito di Licinio andò in pezzi, come una diga schiantata dalla piena del

fiume. Ne morí piú della metà, cioè oltre ventimila uomini. Gli altri, scrive Zosimo, «abbandonati viveri, carriaggi, ogni sorta di equipaggiamento, portarono con sé solo quel poco di frumento che bastava loro per non morire di fame durante la notte e in tutta fretta raggiunsero Sirmio insieme con Licinio». Per quest’ultimo la ritirata non fu meno disastrosa. Né gli servirono le altre migliaia di morti e gli incendi per arrestare o frenare l’irruenza omicida degli inseguitori. Ora aveva toccato con mano la risolutezza, la rapidità, l’efficienza bellica di Costantino.

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VERSO IL POTERE ASSOLUTO

Le proporzioni della sconfitta di Cibalis gli avevano sconvolto la mente. Oltre alle capacità strategiche e tattiche del figlio di Costanzo Cloro – il destino lo aveva condannato a competere prima con il padre, poi con il figlio – quale forza sconosciuta, si chiedeva come in un incubo, aveva costretto le sue legioni a cedere, e lui, Licinio, invecchiato sui campi di battaglia d’Europa e d’Asia, a fuggire? Pensò che la sua unica, perversa e finora invincibile nemica fosse la fortuna di Flavio Valerio Costantino. Non si credette al sicuro neppure a Sirmio, la capitale, che pure per due terzi delle mura era circondata e difesa dalla Sava. Fece distruggere il ponte sul fiume e con il figlio, la moglie, le ricchezze accumulate, riprese la fuga. Attraverso la Dacia, giunse nella Mesia inferiore, eleggendo – mentre ancora si spostava da un luogo all’altro e raccoglieva truppe – un nuovo Augusto, quasi che a Cibalis avesse vinto o ucciso Costantino. Il nuovo Augusto, Aurelio Valerio Valente, era stato comandante di truppe alla frontiera dell’Illirio.

L’inseguimento e poi lo scontro Intanto Costantino occupa Sirmio, fa ricostruire il ponte sulla Sava e a marce forzate arriva in Tracia. Le sue legioni erano stanche e i contingenti celti e germani arrivati dalle Gallie e dal Reno poco piú che sufficienti a colmare i vuoti lasciati dalla precedente battaglia. Licinio, al contrario, aveva messo insieme un esercito poderoso. La vista delle sue legioni, schierate nella pianura di Mardia, a occidente di Adrianopoli, lo rianimò e, spinto da una rabbia implacabile, congenita alla sua natura, si apprestava ora alla rivincita. Occupata Sirmio, Costantino aveva per la verità mandato all’inseguimento di Licinio un corpo di cinquemila uomini fra cavalleria e ausiliari. Avrebbero dovuto impedire a Licinio di riorganizzarsi. Non ci riuscirono o peggio si dispersero. Costantino raggiunse la piana di Mardia di notte, fece riposare l’esercito e al

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mattino lo schierò a battaglia. Contava, come a Cibalis, sulla sorpresa: trovò Licinio preparatissimo e impaziente di combattere. Le forze erano impari. La battaglia dura, accanita, incerta. Licinio incitava i suoi a rompere lo schieramento celto-germano, quando nella prima ora del pomeriggio fu improvvisamente e violentemente attaccato alle spalle. Era il contingente di cinquemila uomini fra cavalleria e ausiliari di Costantino. Non è chiaro se il loro arrivo fu dovuto all’abile e coraggiosa mossa tattica di lui o perché richiamati dalle grida della battaglia. Le sorti della quale stavano cambiando. Questa volta, però, Licinio fu pronto ad affrontare la nuova situazione, disponendo il proprio esercito su due fronti. Tenne poi il campo finché la notte non pose termine ai combattimenti. Il che gli consentí, appunto di notte, di lasciare il


campo e di ritirarsi nei monti della Macedonia. Ma nella lunga giornata di Mardia le perdite di Licinio erano state gravi non solo per il numero quanto per la qualità dei soldati. Cibalis e Mardia gli avevano falcidiato il meglio dell’esercito; soprattutto insostituibili erano i veterani illirici e pannoni. Alla loro presenza, al loro valore andava debitore del doppio fronte e della resistenza.

Meglio la pace della disfatta Le masse asiatiche non gli avrebbero mai potuto garantire di vincere la partita con Costantino, nelle cui file militavano legionari e ausiliari dei Celti e soprattutto dei Germani. Chiese la pace. A Costantino si presentò il suo ambasciatore, Mistriano. Era il contrario di Licinio: affabile, suadente, buon parlatore. Allogava proposte di circostanza: nelle guerre civili, diceva, non c’erano vinti o vincitori, ma solo perdenti, giacché sia gli uni che gli altri si ammazzavano e morivano a unico

A destra uno scorcio del palazzo di Diocleziano a Spalato, dove l’imperatore risiedette dopo aver deposto la porpora e nominato Galerio come successore. Nella pagina accanto, in alto argenteo a nome di Diocleziano, con il profilo dell’imperatore al dritto, e, al rovescio, i tetrarchi che compiono un sacrificio. 294 d.C. In basso le sale sotterranee del palazzo di Diocleziano a Spalato.

vantaggio dei nemici esterni. Appena i barbari, alle frontiere, avessero avvertito sintomi di debolezza o di minore vigilanza, si sarebbero precipitati oltre il Danubio e avrebbero invaso città e campagne. Non era meglio un accordo? E dividersi l’impero? Fino a due anni addietro non avevano stretto fra loro patti di alleanza, di amicizia, sanciti poi da vincoli familiari? Mistriano credeva di aver ottenuto, almeno in parte, lo scopo che si era prefisso, quando commise uno sbaglio: nominò anche l’«altro» imperatore, Aurelio Valerio Valente. Sdegnato e sprezzante, come fosse morso dalla tarantola, Costantino troncò il colloquio. «Non per questo – disse – sono partito dalle rive dell’oceano occidentale con un seguito di battaglie e di vittorie. Forse per accettare quale collega un miserabile schiavo e dopo avere per di piú respinto un ingrato congiunto? Il primo articolo del trattato deve essere l’abdicazione di Valente». Licinio aveva tale necessità di stabilire una pace o tregua che fosse con Costantino, che Valente – del resto

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VERSO IL POTERE ASSOLUTO

imperatore da non molti giorni – perdette la porpora insieme con la vita.

Il nuovo ordine del mondo Con la pace si arriva a una nuova spartizione. Costantino, vittorioso e pungolato dalle predizioni, si era arrogato – com’era del resto naturale – il prezzo della vittoria. Che fu ampio: oltre al Norico e alla Pannonia, l’Europa della parte orientale, e cioè Illirio, Grecia, Macedonia, Dacia, Mesia Superiore. A Licinio non lasciava che una striscia di territorio della Tracia che confinava con il Bosforo. Poi, dimenticate ingiurie, sconfitte, paure del

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futuro, ci fu l’aggiunta di manifestazioni celebrative: innanzi tutto il solenne riconoscimento di due imperi, due entità politico amministrative distinte l’una dall’altra, l’impero di Occidente con capitali fluttuanti (Treviri, Arles, Sirmio o Sardica) e l’impero di Oriente con capitale Nicomedia; infine l’affacciarsi nell’arengo politico dei futuri eredi del potere, i figli, nominati Cesari da Costantino – in qualità di Augustus Maximus (carica un tempo ricoperta da Domiziano) – e che erano Crispo (il bastardo primogenito) e Costantino II (primo figlio di Fausta) per l’Occidente, e Liciniano, bastardo di Licinio,

Città del Vaticano, Stanze di Raffaello, Sala di Costantino. Visione della Croce, affresco eseguito su disegno di Raffaello. 1520.


prese ora a girare per le province, facendo tappa a Treviri, Arles, Roma, Aquileia, Tessalonica, oltre a Sirmio e a Sardica che erano state le capitali di Galerio e di Licinio. Scelse poi di fermarsi a Sardica. L’intento, quello cioè conclamato, era di sorvegliare la frontiera del Danubio contro Goti e Sarmati; l’altro piú nascosto, di aspettare l’occasione propizia di chiudere la partita con Licinio.

I cristiani: un nemico perfetto

ma adottato da Costanza, la moglie, per l’Oriente. Pace, patti, spartizione si conclusero definitivamente fra gennaio e febbraio del 317. Convalidò non solo uno stato reale, ma rese evidenti le diversità di territori, costumi, caratteri, cultura, modus vivendi; insomma si prese atto dell’esistenza di due continenti, due mondi, Europa e Asia. Nel giro di nemmeno cinque anni, Costantino aveva conquistato piú o meno un terzo dell’impero e, a ben vedere, a spese dei cognati. Sembrava, anzi, che l’impero fosse divenuto soltanto una questione di rivalità familiari. Attivo come sempre, instancabile, Costantino

Se a Costantino era l’ambizione a non dargli requie, a Licinio mordeva il fegato la rabbia di essere stato sconfitto a Cibalis e a Mardia. Di notte lo assaliva lo spettro delle pianure nere con le cataste di morti che erano bruciate fino a due giorni dopo la battaglia. Temeva di non avere molte speranze per lo scontro finale, e si sentiva vecchio (aveva sessantacinque anni) e imprecava contro la malignità di fortuna. Poi, come Massimino Daia, si dette a bere. Attraverso il Bosforo il vento di mare gli portava fino al loggiato di Nicomedia l’impazienza dei soldati celti e germani, bramosi di saccheggi e di fasti orientali, insieme con le lodi che i cristiani tributavano all’imperatore di Occidente. Fu troppo per un animo angosciato e, dalla ubriachezza, spinto a incrudelire anche contro di sé. Vedeva nemici dappertutto. I cristiani d’Oriente furono un bersaglio abbastanza facile. Osannavano Costantino a ogni pié sospinto, per contro infastidivano lui, Licinio, con le loro diatribe teologiche, incentrate da Ario sulla natura del Cristo – se, insomma, era uguale o generato da Dio Padre – e per di piú petulanti, spocchiosi, intendevano addirittura impartire direttive su come governare. Cominciò a odiarli. In particolare lo ferirono i loro discorsi segreti: come c’era un solo Dio, era auspicabile che si avesse un solo imperatore. Lattanzio, il retore, per esempio, sosteneva che la storia, cosciente o meno, ubbidiva al disegno di Dio. Licinio pensò a un complotto o peggio a un lento, continuo scivolamento verso l’unità dell’impero, favorita, se non anche preparata e coordinata

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VERSO IL POTERE ASSOLUTO

dai cristiani a sostegno dell’attività militare di Costantino. Si riscoprí pagano e intollerante. Cominciò con il proibire l’ingerenza dei vescovi nelle cose pubbliche; eliminò i cristiani dalla corte e dagli uffici amministrativi; soprattutto, ricordandosi di Galerio, si premuní contro di loro perché non avessero il sopravvento nell’esercito. Ebbe, comunque, quattro o cinque anni di pace con Costantino. Aurelio Vittore, storico contemporaneo (e autore di un libro, Caesares, da Augusto a Costanzo II), parla di sei anni dal 317 al 321. In realtà già nel 321 cominciarono a manifestarsi le prime incrinature nelle relazioni di Licinio con Costantino. E screzi, contrasti, intolleranze nascevano principalmente da diversi atteggiamenti e valutazioni nei confronti dei cristiani. Quando, infine, gli parve di avvertire sulla nuca il fiato acre della guerra «familiare», Goti e Sarmati traboccarono dal Danubio e invasero la Mesia Superiore. La

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Mesia non faceva piú parte del suo impero, toccava a Costantino ributtarli indietro. E Licinio ebbe ancora piú di un anno di attesa.

Incendi e devastazioni Erano trascorsi cinquant’anni dalle stragi di Goti e Sarmati compiute da Claudio II e da Aureliano, ma ora a primavera le nuove generazioni dei barbari, a riscatto del passato o perché irretite dalle vere o immaginate opulenze dei territori dell’impero, oltrepassarono in forze il Danubio, ammazzarono i difensori, incendiarono le campagne, occuparono le città, saccheggiarono. L’impeto iniziale fu cosí improvviso e tale il loro numero che quasi non trovarono resistenza. Costantino accorse allarmato, ma resosi conto della situazione, evitò di venire a giornata, almeno finché non riuscí a mettere insieme un esercito adeguato alla bisogna; e anche allora, lucido,

L’anfiteatro romano di Arles, città nella quale Costantino convocò, nell’estate del 314 d.C., un concilio che mirava a risolvere i contrasti causati dai «donatisti» in seno alla Chiesa.


tempestivo, attese il momento opportuno. Poi, quando li vide tracotanti per i successi ottenuti, gonfi di cibo e di vino, appesantiti dai carriaggi stracolmi di bottino, li attaccò al centro delle loro colonne. Tagliati a pezzi, in fuga, separati i Goti dai Sarmati, ripassarono il fiume in poco piú della metà, lasciando dietro di sé – insieme con le distese di cadaveri e i fuochi di bivacco – carriaggi e bottino. L’imperatore di Occidente era uomo di guerra troppo geniale ed esperto per perdere l’occasione che gli si offriva. Fatto rapidissimamente ricostruire il ponte di Traiano sul Danubio, lo attraversò ed entrò con l’esercito nella Dacia. Uccise, distrusse, incendiò con accanimento, crudeltà, metodo, pari o superiori a quelli usati nella Mesia dai barbari, i quali, inginocchiati ai suoi piedi, accettarono tutte le condizioni di pace che volle loro imporre. Una delle condizioni li obbligava a fornirgli un contingente di quarantamila uomini ogniqualvolta ne facesse richiesta.

In cerca di un casus belli Il destinatario della richiesta era già stabilito, si trattava soltanto di fissare il momento e scegliere il pretesto. Quest’ultimo – strano a dirsi e considerando che ambedue gli imperatori avevano ampiamente usufruito e dei sogni e delle suggestioni cristiane – fu religioso, anche se al principio abilmente mascherato da uno sconfinamento, proprio nel territorio trace di Licinio, effettuato da bande o da rimasugli di Goti e di Sarmati, umiliati da Costantino nella loro precedente campagna. Affrontandoli per una operazione che poteva sembrare di semplice polizia, Costantino infrangeva il punto piú importante del trattato di pace: la violazione della integrità territoriale. Vi era stato trascinato dalla foga di inseguire e punire le bande dei barbari? Licinio non era intervenuto. Forse era lontano dal Bosforo. Intenzionalmente, sospettarono subito i panegiristi cristiani, schierati in modo unilaterale dalla parte di Costantino. E qualunque fosse la verità, fu il pretesto per la guerra.

Le masse armate di Licinio alla fine del 323 erano già tutte concentrate lungo gli stretti di mare che separano l’Asia dall’Europa. Nella primavera del 324 passano il Bosforo e l’Ellesponto, entrano in Tracia e pigliano posizione nel campo trincerato di Adrianopoli. Ancora occupato con Goti e Sarmati, Costantino ha riunito la maggior parte della sua armata a Tessalonica, dove staziona anche la flotta al comando del figlio primogenito Crispo. Le forze in campo erano, come al solito, a favore di Licinio. Al quale Zosimo assegna centocinquantamila soldati di fanteria, quindicimila cavalieri e trecentocinquanta galee a tre ordini di remi e fornitegli da esperte marinerie (Fenicia, Egitto, Cilicia, Bitinia). Per contro Costantino avrebbe avuto centoventimila uomini di fanteria, diecimila cavalieri, duecento galee. Le cifre sono enormi. Sicuramente sia l’uno che l’altro non superavano un quarto di quelle fornite da Zosimo. Ma differentissimi per valore, stato d’animo, età i due condottieri: Costantino quarantatreenne, nel pieno dell’energia vitale, slancio, immaginazione, audacia; Licinio toccava i settantatré anni e prudente, incerto nelle decisioni. Cominciò con il mancare l’occasione di spedire la flotta oltre l’Ellesponto ad assalire Grecia e Illirio, alle spalle cioè dello schieramento di Costantino, considerando che la sua flotta, quasi il doppio di quella dell’avversario, teneva benissimo il mare per lunghe traversate. La immobilizzò, invece, nei porti dell’Ellesponto o sulle coste dell’Asia Minore e aspettò Costantino nel campo fortificato di Adrianopoli. Gli ricordava la grande vittoria ottenuta negli stessi campi su Massimino Daia. Adrianopoli gli sarebbe stata di buon auspicio, solo che questa volta il segno divino non era piú quello affrettato e appiccicoso del cristianesimo (la famosa preghiera dettata in sogno dall’angelo e recitata dai soldati prima della battaglia), ma il ritorno «rancoroso» alle antiche divinità. Negli ultimi provvedimenti ostili ai cristiani Licinio aveva abbandonato qualsiasi prudenza e discrezione, proprio per marcare un distacco

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netto dai provvedimenti che, al contrario, Costantino emanava a favore dei cristiani. Aveva poi reintrodotto l’obbligo dei sacrifici. Naturalmente aruspici, sacerdoti, maghi si precipitarono a emettere oracoli uno dietro l’altro per la sua vittoria. Alla vigilia della battaglia, durante i sacrifici nell’area sacra di Adrianopoli, in presenza della sua guardia del corpo e degli amici piú fidati, Licinio in forma solenne onorò «gli dèi padri» e per contro ingiuriò Costantino, il fedifrago, che aveva optato per un «dio straniero» e il cui «vergognoso segno» macchiava anche l’esercito, che combatteva per lui. «Fidando in questo dio – aggiunse – egli non muove contro di noi, bensí contro gli stessi dèi che ha rinnegato. Domani il campo dimostrerà chi di noi erra nella sua fede». In effetti ad Adrianopoli – per la prima volta – l’esercito di Costantino innalzò il «vergognoso segno», il labaro, il vessillo della Croce con il monogramma di Cristo. Eusebio di Cesarea afferma che «l’imperatore aveva perfino predisposto una tenda per pregare Dio con fervore e perché gli fosse favorevole e perché lui, Costantino, potesse fare solo ciò che Dio gli avesse suggerito».

Le truppe si studiano La giornata era calda, piena estate (3 luglio). A Licinio non era bastato il campo trincerato di Adrianopoli, aveva schierato l’esercito dietro l’Ebro, un fiume impetuoso e dalle rive scoscese. Gli attaccanti non solo dovevano superare le difficoltà naturali, ma usciti appena dall’acqua si sarebbero trovati di fronte la muraglia mobile degli armati e della cavalleria di Licinio. I due eserciti stettero per alcuni giorni a guardarsi, misurando l’uno le forze dell’altro. A un certo momento Costantino intraprese la costruzione di un ponte, ma lo scopo era palesemente diversivo. Era impaziente di venire a battaglia. La situazione ricordava quella di Alessandro al Granico con le rive gialle e scoscese della Troade. Finché un giorno decise di attraversare il fiume e lo fece al comando della cavalleria e

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alla vista degli eserciti schierati, offrendo una prova di straordinario coraggio, sprezzo del pericolo, incredibile sicurezza nella vittoria. Le masse dei nemici, attestate sull’altra riva, furono talmente impressionate, atterrite, ipnotizzate dalla sua audacia che si lasciarono azzannare come mandrie da un leone affamato. Dopo l’attacco di Costantino con la cavalleria l’esercito di Licinio si disfece. Trentaquattromila i morti; piú della metà. La sera stessa il campo fortificato di Adrianopoli fu preso; lui, Licinio, rovinosamente fuggito a Bisanzio. Nella disfatta, dall’ignominia dell’abbandono lo salvò l’orgoglio di vecchio condottiero. Ebbe in mente che Bisanzio si potesse trasformare in una gigantesca pira per le esequie di un grande impero perduto. Bisanzio – che a distanza di sette anni sarebbe


Rilievo policromo con scene del Nuovo Testamento, da Roma, Vigna Vaccarini. III-IV sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano. Nella pagina accanto icona bulgara raffigurante i quaranta martiri di Sebaste, che, secondo la tradizione, furono messi a morte durante le persecuzioni di Licinio. Primo quarto del XVIII sec. Parigi, Musée des Beaux-arts de la Ville de Paris.

diventata la capitale dell’impero con il nome di Costantinopoli – si protendeva in mare per due terzi, in forma di penisola allungata. Questo significava che la città, finché avesse libertà di navigazione, poteva ricevere dalla costa asiatica aiuti di ogni genere: viveri, uomini, armi. Licinio fino ad allora, e forse colpevolmente, aveva risparmiato la flotta. Adesso ne mise una parte a guardia del Bosforo e ai collegamenti con l’Asia; spedí l’altra alle bocche dell’Ellesponto per impedire l’accesso alle navi di Costantino.

Assedio a Bisanzio Come dopo ogni vittoria sul campo, l’obiettivo di Costantino era quello di impedire al vinto di riorganizzarsi e preparare cosí la rivincita. Piomba quindi su Bisanzio e pone l’assedio dalla parte di terra. Le mura erano solidissime e di recente accresciute. Ebbe subito coscienza che senza una flotta non avrebbe mai

espugnato la città e lo scacco rischiava di macchiare la sua aureola di conquistatore, per di piú ispirato da Dio. Ordina alle sue navi di forzare in qualunque modo lo stretto dell’Ellesponto (oggi dei Dardanelli) e affida il comando della flotta al primogenito Crispo, che l’anno addietro sul Reno aveva riportato una straordinaria vittoria sugli Alemanni. Crispo gli somigliava nel fisico e nel carattere: forse solo piú chiuso e meno freddo ragionatore, ma pieno di ambizione, temerario e di pari abilità nella condotta tattica, nel risolvere situazioni critiche, nel suscitare l’entusiasmo dei soldati. Con ottanta navi «di trenta rematori, le migliori sul mare», secondo Zosimo, penetra nelle strettoie dell’Ellesponto e affronta la flotta di Licinio, che ne contava duecento al comando di un esperto ammiraglio, Abanto (o Amando, per altri autori). L’angustia del braccio di mare impediva un grande spiegamento a raggiera. Crispo, che

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veniva dal Pireo, forse si ricordò di Salamina e del genio di Temistocle e fece breccia al centro. Abanto, che intendeva forzare alle ali, fu sorpreso da tanta spregiudicatezza, si disuní e si disperse. Il giorno dopo un furioso vento dal Sud investí la flotta di Abanto che si era riorganizzata. Cogliendo l’occasione favorevole, Crispo le si buttò contro e la disfece. Centotrenta navi affondate, cinquemila morti. Aperta la via del Bosforo alla flotta di Crispo, Bisanzio veniva bloccata anche dal mare. Le sconfitte sollecitavano l’immaginazione di Licinio. Dopo Cibalis aveva promosso Augusto un comandante di truppe di frontiera, Aurelio Valente, ora approssimandosi la resa di Bisanzio elesse Cesare il magister officiorum Martiniano. Fu anche l’ultima nomina; poi con quanto gli rimaneva di ricchezze fuggí nella notte a Calcedonia, sulla costa asiatica. Mentre la nave si allontanava e sfumavano nella nebbia le torri e le mura di Bisanzio, si ricordò dell’immensa pira immaginata per le esequie dell’impero d’Oriente. Diocleziano gli aveva lasciato in eredità il distacco dal potere e il valore della rinuncia; ma a settantaquattro anni Licinio con l’istinto di sopravvivenza si avvinghiava al rimasuglio di impero che gli restava, come il naufrago all’ultimo rottame della nave.

Un avversario soverchiante Licinio aveva perduto a Cibalis, Mardia, Adrianopoli, ammassando cataste e cataste di morti, ed era fuggito, non proprio coraggiosamente, da Bisanzio. Il lato persistente del suo carattere era la caparbietà, la tenacia, l’indomita volontà di non arrendersi mai, neppure all’evidenza. Che Costantino gli fosse militarmente superiore avrebbe dovuto essere un fatto da lui acquisito fin dal primo scontro; e comunque allora un qualche alibi potevano offrirglielo la fortuna, le circostanze, ma dopo Adrianopoli non poteva piú, ragionevolmente, nutrire alcun dubbio. A ogni modo resta perfino ammirevole l’energia con cui, ormai vecchio, seppe radunare nel retroterra asiatico truppe e

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cavalieri e di nuovo mettere in piedi un esercito. Nondimeno questa volta un punto l’ebbe chiaro in mente: che gli Asiatici non potevano reggere il campo a fronte dei Celti e dei Germani. Doveva poter disporre di armati di pari valentia ed efficienza militare. Subito intavolò trattative e ottenne che un grosso contingente di Goti al comando diretto del loro capo Aliquaca venisse ad affiancarglisi. Poi inviò il nuovo Cesare, Martiniano, a Lampsaco allo sbocco orientale dell’Ellesponto, pensando che Costantino, sbarcato nella Troade e guadagnata la Frigia, lo pigliasse alle spalle. Intanto lui, Licinio, con i veterani illirici che gli erano rimasti e con i Goti avrebbe preso posizione sulle colline davanti a Calcedonia. Quanto poi alla Bitinia credeva di essere al sicuro per le coste a picco sul mare, battute dal vento del Nord e inaccessibili a navi da carico. Manco a dirlo, Costantino lo prevenne: con imbarcazioni leggere e veloci, preparate all’uopo, sbarcò direttamente all’imboccatura del Ponto a nemmeno duecento stadi da Calcedonia, rovesciando cosí il dispositivo difensivo di Licinio. Non solo Costantino gli si dimostrava imbattibile in battaglia, ma lo sorprendeva di continuo con soluzioni strategiche imprevedibili. Di necessità Licinio doveva ora accettare lo scontro in campo aperto, appunto quello che invece aveva voluto evitare. Il momento e il terreno gli erano sfavorevoli, ma non poteva sottrarvisi. E sarebbe stato un giudizio senza appello. Se perdeva, era finito. Piú nessun luogo dove scappare. L’Egitto? O la Persia, il nemico tradizionale dell’impero in Oriente? Il vinto aveva, poi, la particolarità di eccitare la folla dei traditori. Era accaduto a Severo, a Massimiano e a Massimino Daia. Neppure lui si era comportato diversamente: aveva oltraggiato Diocleziano quando costituiva il simulacro vivente di una dignità senza potere, calpestata vituperosamente Valeria, che non aveva voluto cedergli, e aveva rotto il giuramento fatto al capezzale di Galerio, uccidendogli il figlio Candidiano con l’accusa di una congiura inesistente.


Incisione raffigurante Eusebio di Cesarea (260-339 d.C.). 1698. Nel riquadro in basso, il vescovo e scrittore cristiano, nonché biografo di Costantino, è raffigurato mentre visita in prigione il suo mentore e maestro Panfilo, con il quale aveva collaborato alla stesura di una delle sue opere.

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Quale dio doveva invocare? I cristiani se li era inimicati cacciandoli dagli uffici, mettendosi in urto con i vescovi. Soprattutto non aveva tollerato la controversia con Ario, fonte di divisioni, disordini in ogni provincia, violenze, incendi, morti. E tutto questo per una disputa teologica che non aveva senso ai suoi occhi (che voleva dire: «uguale al Padre» o «generato da Lui»?). Per appianare i contrasti era intervenuta anche Costanza, sua moglie,

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cristiana o almeno legata alle dottrine del cristianesimo come il fratellastro imperatore. A Nicomedia lei era stata in contatto con il vescovo della città, Eusebio, e perfino con l’altro Eusebio di Cesarea (autore di una Historia Ecclesiastica). Aveva poi ricevuto Ario, completamente prosciolto dal sinodo di Nicomedia, ma non erano passati due o tre mesi che il sinodo di Alessandria sconfessa quello di Nicomedia, ignora l’imperatore e

In alto, sulle due pagine particolare dei mosaici che ornano l’interno della cupola della tomba di Galerio a Salonicco. IV sec.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

condanna all’esilio Ario e i suoi discepoli. Fu questa arroganza, unita al dispregio dell’autorità imperiale a indispettire prima, a ferire poi l’animo di Licinio. Si convinse che i cristiani erano apportatori di disordine sociale, disubbidienti alle leggi, quindi potenziali nemici. La religione pagana tornò a essere il suo punto di riferimento, il suo usbergo a mano a mano che gli venivano in odio i cristiani e che loro, con quella aperta, provocatoria simpatia per Costantino, potevano essere considerati e in realtà divennero una specie di quinta colonna nelle province dell’impero d’Oriente.

Le trombe suonano l’assalto

A destra testa in marmo di Costantino, dall’antica Eboracum (York). IV sec. d.C. York, Yorkshire Museum.

Avvenne il 18 settembre a Crisopoli (l’odierna Scutari) non lontano da Calcedonia. Licinio aveva richiamato in tutta fretta il Cesare Martiniano da Lampsaco; non gli serviva piú ora che Costantino, lasciatasi alle spalle Bisanzio che continuava a resistere, era in Asia. Di mattina presto passò in rivista le truppe, solennemente, soffermandosi schiera per schiera, le spronò alla battaglia, promise loro premi straordinari, invocò gli déi con pubblici sacrifici, infine assicurò che lui sarebbe stato al loro fianco in prima linea e in ogni momento della giornata, fiducioso com’era della vittoria e del loro valore. Poi fece suonare le trombe. Splendida la giornata, con un cielo pulito e azzurro com’è di metà settembre. Il vento di mare piegava l’erba delle colline, agitava le insegne delle legioni, le tuniche degli arcieri, i pennacchi colorati della cavalleria. Ma forse svagati da tanta luminosità, gli dèi pagani, invece di guardare in basso e odorare il fumo sacrificale delle vittime, si distrassero giocando fra loro o distendendosi nelle piagge verdi e odorose dell’Olimpo. A leggere Eusebio di Cesarea solo il Dio dei cristiani fu vigile, attento, e si ricordò di essere anche il Dio degli eserciti, invocato da David, per il suo nuovo protetto: Flavio Valerio Costantino. La vittoria di quest’ultimo era scontata. Gli Asiatici e con loro i Goti resistettero disperatamente all’inizio, poi quando si disunirono fu un immane massacro.

Contrariamente a quanto aveva dichiarato o giurato, Licinio, protetto dai Goti, fuggí a Nicomedia. Se avesse mantenuto la parola data e fosse morto sul campo, avrebbe guadagnato rispetto per sé, per la moglie, per il figlio. Preferí l’umiliazione e implorare dal vincitore lo straccio di vita che gli rimaneva ancora da vivere. Per due volte mandò Costanza al campo del fratellastro quale portatrice di suppliche. Ebbe perfino la spudoratezza di chiedere che gli fosse «conservata la coreggenza». Costantino respinse la richiesta e ordinò l’assedio di Nicomedia. Allora Licinio depose le armi e la porpora. Fu mandato in esilio a Tessalonica (Salonicco). Per disprezzo la condanna a morte era solo rimandata. Si compí l’anno dopo (325) con l’accusa fin troppo prevedibile di «alto tradimento»: intesa «con i barbari del Danubio». La versione degli storici pagani è che Costantino fece giustiziare Licinio «senza rispetto alcuno per la santità del giuramento». Eusebio di Cesarea vince l’imbarazzo, scrivendo che Licinio fu condannato «secondo le leggi di guerra».

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IL RITORNO DEL COLOSSO

IL RITORNO DEL COLOSSO

La ricostruzione in scala 1:1 della statua colossale dell’imperatore Costantino (il cui originale si data al IV sec. d.C.), collocata nel giardino di Villa Caffarelli, sul Campidoglio, a Roma.

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Nella pagina accanto «L’artista disperato davanti alla grandezza dell’antichità», disegno di Johann Heinrich Füssli ambientato nel cortile del Palazzo dei Conservatori. 1778-80. Zurigo, Kunsthaus.


A

lla fine del Quattrocento, nel cortile del Palazzo dei Conservatori, sul Campidoglio, furono sistemati i nove frammenti superstiti di una statua colossale in marmo pario di Costantino rivenuti poco prima nei pressi della basilica di Massenzio. Da allora, la testa, il piede, la mano e le altre nobili membra dell’imperatore cristiano sono divenute altrettante icone di Roma e un artista come Johann

Heinrich Füssli volle perfino elevarle a simbolo della grandiosità dell’antico. Una presenza comunque familiare per Romani e turisti, che ha acquistato un nuovo e importante significato da quando, poco distante, nel giardino di Villa Caffarelli, è stata installata la ricostruzione in scala 1:1 dell’opera, grazie alla quale si può avere un’idea eloquente delle proporzioni complessive della statua e dell’impatto

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IL RITORNO DEL COLOSSO che essa doveva avere sull’osservatore. La replica è l’esito di un progetto avviato in occasione della mostra «Recycling Beauty», presentata alla Fondazione Prada di Milano nell’inverno 2022/2023, ed è frutto della collaborazione fra la stessa Fondazione Prada, la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali del Comune di Roma e la Factum Foundation for Digital Technology in Preservation.

La ricostruzione digitale del Colosso di Costantino.

Il monumentale ritratto rimase senza una identità certa sino alla fine dell’Ottocento, quando fu correttamente identificato con l’imperatore Costantino. Successivi studi hanno permesso di riconoscere sicuri segni di rilavorazione, soprattutto in corrispondenza del mento e del sottogola, a indicare che il personaggio originariamente raffigurato avesse la barba. Il Colosso è dunque il risultato del riadattamento di una scultura piú antica e, secondo alcuni studiosi, potrebbe trattarsi della statua di culto di Giove Ottimo Massimo, collocata all’interno del tempio a lui dedicato sul Campidoglio, il piú importante della romanità. L’opera è un acrolito (dal greco akros, «estremo», e lithos, «pietra», il termine designa statue che abbiano testa, mani e piedi di pietra o marmo o avorio, e il resto del corpo di legno), con le parti nude realizzate in marmo, montate su una struttura portante rivestita da panneggi in bronzo dorato o in preziosi marmi colorati. Seduto in trono, il dio è avvolto in un mantello che lascia scoperti il torso, le braccia e il ginocchio. Quest’ultimo è un motivo iconografico di tradizione omerica associato quasi esclusivamente all’immagine di Giove e successivamente degli imperatori, che a essa si ispira come segno della devozione rivolta a loro dai sudditi. Nel 312 d.C., dopo la vittoria su Massenzio al Ponte Milvio, Costantino diventa il padrone assoluto della parte occidentale dell’impero e di Roma e agli anni iniziali del suo regno risalirebbe la realizzazione del Colosso, che, nella sua fissità ieratica, costituisce una delle manifestazioni piú impressionanti dell’arte costantiniana. La celebrazione dell’imperatore avviene dunque attraverso il reimpiego di una statua colossale già esistente, raffigurante un imperatore o una divinità, quale Giove Ottimo Massimo. Attraverso di essa Costantino si mostra come comes (compagno) degli dèi e la natura stessa del suo potere si manifesta come divina. Il progetto di ricostruzione della figura colossale di Costantino è stato realizzato da Factum Foundation a partire dai frammenti noti della scultura, sulla base dell’ipotesi archeologica di partenza: il Colosso era seduto e doveva essere stato realizzato come acrolito, ovvero con le parti nude in marmo bianco e il panneggio in bronzo dorato. Factum Foundation ha utilizzato la fotogrammetria per documentare i frammenti del Colosso conservati nel cortile di Palazzo dei Conservatori e il frammento del petto conservato al Parco Archeologico del Colosseo. Durante la scansione, il team ha effettuato anche la scansione 3D del calco della statua dell’imperatore Claudio come Giove, per utilizzarlo come modello

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In alto i rappresentanti di Factum Foundation, Sovrintendenza Capitolina e Fondazione Prada nel laboratorio di Factum Foundation. A sinistra le prove per la resa del marmo pario sui facsimili dei frammenti della statua.

per la posa e il drappeggio. Numerosi dettagli sono stati ricostruiti a partire dalla lettura delle fonti letterarie ed epigrafiche e dal confronto con altre statue sedute di età imperiale. I dati digitali sono stati stampati in 3D a grandezza naturale e usati per realizzare un calco in resina rinforzata. Per le copie facsimile dei frammenti, sul calco è stato adoperato uno stucco apposito, dipinto per suggerire l’effetto del marmo pario invecchiato dall’esposizione agli elementi; le parti ricostruite sono state realizzate in poliuretano, rinforzato da

diversi strati di resina mista a polvere di marmo e mica per ottenere un effetto marmoreo bianco neutro. I panneggi e le parti in bronzo dorato sono stati realizzati in polistirene patinato in resina e polvere di bronzo, su cui è stata applicata foglia d’oro. Il Colosso originale, che raggiungeva un’altezza di circa 13 m, aveva una struttura interna che si ipotizza fosse fatta di mattoni, legno, elementi in metallo. Per la ricostruzione, Factum Foundation ha realizzato una struttura portante in alluminio, che ne permette il montaggio e lo smontaggio. Il Giardino di Villa Caffarelli, che ha accolto la riproduzione integrata in scala 1:1 del Colosso di Costantino, insiste in parte sull’area occupata dal Tempio di Giove Ottimo Massimo, che un tempo ospitava la statua di Giove, forse la stessa da cui il Colosso fu ricavato o che comunque ne costituisce il modello di derivazione. I resti del tempio sono oggi visibili all’interno dell’Esedra di Marco Aurelio (uno degli spazi espositivi del Palazzo dei Conservatori).

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IL RITORNO DEL COLOSSO rifacimento, concluso da Domiziano, suo fratello e successore. Anche in questo caso, le statue di culto di Giove, Giunone e Minerva furono sostituite Per il Giove Capitolino il modello è sempre la statua di Fidia, riprodotta come acrolito in marmo. Del tempio di Domiziano si conserva ormai ben poco, ma la fastosa decorazione del frontone è documentata A sinistra la testa della statua colossale originale di Costantino. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori. A sinistra, in basso la ricostruzione del Colosso di Costantino in mostra a Milano, presso la Fondazione Prada. A destra, sulle due pagine tecnici della Factum Foundation impegnati nella ricostruzione del Colosso di Costantino, 2022.

Il tempio fu dedicato nel 509 a.C. dal primo console della repubblica, M. Horatius Pulvillus, alla triade capitolina: Giove, Giunone, Minerva. La prima statua di culto di Giove era in terracotta ed era opera dello scultore Vulca di Veio. Quest’ultima venne sostituita, nel 69 a.C., in occasione della ricostruzione promossa da Silla, con una nuova statua ispirata al celebre Zeus di Olimpia di Fidia: seduto in trono, il torso scoperto, un mantello a coprire le gambe. Dopo l’incendio dell’80 d.C., durante il regno dell’imperatore Tito, si intraprende un ulteriore

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da un celebre rilievo storico oggi ai Musei Capitolini, proveniente da un monumento onorario di Marco Aurelio e raffigurante il sacrificio al tempio di Giove Capitolino. Tra il 217 e il 222 d.C., un fulmine danneggiò gravemente la statua di Giove. Tale evento potrebbe avere creato il presupposto per il suo riutilizzo per celebrare il nuovo imperatore Costantino agli inizi

del IV secolo d.C. Quale che sia la statua rilavorata per la realizzazione del Colosso, Costantino si appropria comunque di uno dei simboli della religione romana per legittimare la sua ascesa al potere, collocandolo in una sede di grande significato: la basilica di Massenzio lungo la Via Sacra, l’ultimo monumento architettonico pubblico di carattere civile realizzato a Roma antica.

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Affresco raffigurante Costantino che offre a papa Silvestro I la tiara imperiale, simbolo del potere temporale. 12431254. Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati, cappella di S. Silvestro.

L’OPERA È COMPIUTA ORMAI PADRONE DEL MONDO, COSTANTINO CONSOLIDA IL SUO POTERE, FONDA LA «SUA» CAPITALE IMPERIALE, E RENDE SEMPRE PIÚ SALDO IL LEGAME CON LA RELIGIONE CRISTIANA. CHE SUGGELLA, IN PUNTO DI MORTE, FACENDOSI BATTEZZARE

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UNA MONARCHIA UNIVERSALE

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uando fece l’ingresso vittorioso a Nicomedia, aveva quarantaquattro anni. Due piú di Cesare prima che desse avvio alla conquista della Gallia; ma Costantino, con la resa di Nicomedia, era padrone di un impero la cui vastità l’altro non aveva mai raggiunto. Si estendeva da Cadice alla Scozia, dal Reno al Danubio, al Tigri, al Nilo, compresa l’Africa che si affaccia sul Mediterraneo. Tra l’autunno e l’inverno del 324 gli toccarono tutte le fortune possibili: la gloria militare (in diciannove anni mai aveva subito un rovescio), il potere assoluto, l’ammirato rispetto dei soldati, il timore dei barbari, l’incensamento e la gratitudine dei cristiani, cosí come il plauso delle folle sempre pronte a inginocchiarsi davanti al vincitore; infine, dimenticato l’oltraggioso tradimento di Bassiano, la serenità e i gaudi familiari: la madre Elena elevata ad Augusta da stabularia che era in Bitinia; ossequienti i fratellastri (Dalmazio, Giulio Costanzo, Annibaliano) figli di Teodora; giovane e avvenente la moglie Fausta, cinque i figli avuti da lei, tre maschi (Costantino II, Costanzo, Costante) e due femmine; e poi Crispo, il primogenito, bastardo come era stato lui, già dimostratosi abilissimo e ardito condottiero. Ma Omero, che conosceva gli dèi, dice che erano gelosi della fortuna degli uomini, e Davide nella Bibbia, quattro o cinque secoli prima, aveva ammonito: «Il Signore dà e il Signore toglie». Fu il giovane Cesare, Crispo, che, colpevole o innocente, interruppe il corso di una fortuna che sembrava immobile. Imprecisa l’età di Crispo. Era nato a Nicomedia quando il padre faceva parte o meglio era il piú eminente della cerchia militare di Diocleziano. La madre Minervina doveva essere di Nicomedia, piú difficilmente illirica o trace o germana. Nel marzo del 307 Costantino sposa la giovanissima e avvenente figlia di Massimiano, Fausta. A quel tempo Minervina era morta o era

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A sinistra collane in grani di ambra (a sinistra) e vetro da tombe del IV sec. d.C. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum. A destra, in alto fibule a disco in argento dorato, da una tomba femminile di Spielberg (Erlsbach). 300 d.C. circa. Oettingen/Ries, Heimatmuseum. A destra, in basso spada con guaina in lamiera dorata e manico a piastra di granati. IV sec. d.C. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum. In basso moneta al nome di Crispo, con, al dritto il profilo dell’imperatore. 321 d.C. Chicago, The Art Institute.


Spade alemanne del V sec. d.C. con decorazioni in oro. Stoccarda, Württembergisches Landesmuseum.

stata ripudiata. Crispo doveva avere quattro o cinque anni, e di lui da allora si prese cura la nonna Elena che se lo tenne come figlio. Dal 317 Crispo ebbe come precettore il retore Lattanzio, chiamato a Treviri da Costantino. Il primo maggio dello stesso anno fu elevato a Cesare insieme con il fratellastro Costantino II, figlio di Fausta e nato da non molti giorni; fu poi console nel 318, nel 322, nel 324. Prove di grande valentia militare le aveva date nel 320 sul Reno, sconfiggendo clamorosamente Franchi e Alemanni. Di anni doveva averne diciassette o diciotto, l’età in cui Cesare Ottaviano alla testa di veterani di Calazia e di Casilino del padre adottivo marciò su Roma, e Alessandro a Cheronea comandava l’ala destra macedone dell’esercito di Filippo contro i Greci. Successivamente, nella guerra civile contro Licinio, Costantino affidò al figlio il comando della flotta. Forzare la Propontide per tagliare fuori Licinio, asserragliato a Bisanzio, dal cordone ombelicale dell’Asia, richiedeva coraggio, perizia, tempestività. Sotto ogni aspetto l’azione di Crispo fu perfetta. Si giovò, nondimeno, del grosso aiuto elargitogli dalla fortuna, quando la flotta nemica, fra l’altro numerosissima, improvvisamente travolta da un furioso vento del Sud, fu alla mercé delle sue navi.

Un erede illustre Nella strategia della guerra civile l’impresa di Crispo era stata determinante, tanto che l’unico dubbio sulla vittoria di Costantino riguardava esclusivamente la supremazia navale di Licinio. Caduta Bisanzio, le acclamazioni, i peana adulatori per Crispo non si fecero attendere. Uniti a quelli altisonanti per il padre dettero libero sfogo a un rituale tipicamente orientale. Si proclamò che il mondo era finalmente

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ridotto a un solo padrone e che questi, dotato di ogni virtú, poteva contare su un figlio illustre, amato dal cielo e immagine viva delle perfezioni paterne. In effetti, l’erede designato godeva del favore popolare, come dell’entusiasmo dell’esercito (uguale in questo al padre che in Britannia aveva goduto dell’entusiasmo dell’esercito di Costanzo Cloro). La giovinezza ne aumentava, poi, il

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fascino e le aspettative. Ma, piú o meno contemporaneamente, accadde che il riflesso della sontuosità orientale e la stessa città di Nicomedia, dove aveva stabilito la nuova capitale, cambiassero il Costantino di Britannia o anche di Treviri. Come se respirasse e si muovesse sotto una diversa costellazione, il padrone del mondo scivola in un’aria di mollezza, di rituali e fasti pletorici, del tutto

La condanna di Ario al concilio di Nicea, affresco di Giuseppe Nicola Nasini. 1698-1699. Siena, oratorio della SS. Trinità.


impropria in un uomo nel pieno della maturità, fisicamente eccellente, vigoroso e, fino alla giornata di Crisopoli, combattente fra i piú temerari e che mai aveva rinunciato a essere in prima fila alla testa della cavalleria. Ora il guerriero vittorioso vestiva abiti e costumi che se gli garantivano il servilismo dei cortigiani, avvilivano l’ammirazione degli eserciti. Mise perfino parrucche di vari colori,

un diadema di foggia piú costosa, e profusione di gemme, collane, braccialetti e una lunga tunica di seta cangiante, ricamata a fiori d’oro. Per i ricevimenti a palazzo stava su un trono piú alto del normale e sotto un baldacchino purpureo. Chiunque gli si avvicinasse doveva prostrarsi ai suoi piedi. Le monete che emise portavano la scritta: Rector totius mundi. Ubique Victor. A tutto questo apparato

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facevano da contorno le lodi e le celebrazioni dei panegiristi. Forse non è esagerato aggiungere che, dopo Crisopoli, la coscienza della propria grandezza, l’aculeo dell’ambizione gli furono offuscati o stravolti dalla smania delle adulazioni dei cristiani.

Protetto dall’Altissimo Finí per considerarsi l’inviato di Dio. Eusebio di Cesarea, che fu il suo grande «intervistatore» e autore di una Vita Constantini, riporta di lui il primo messaggio inviato alle province asiatiche: «È Dio che ha voluto il mio servizio e lo ha ritenuto adatto al compimento delle sue decisioni. E cosí io, partendo dal mare di Britannia, là dove per legge di natura tramonta il sole, ho colpito e disperso, ubbidendo alla volontà divina, gli orrori dovunque li incontrassi, affinché la stirpe umana, resa edotta per mio tramite, tornasse al servizio della legge sacra e contemporaneamente fosse diffusa la legge sotto la protezione grandiosa dell’Altissimo». Ne aveva fatta di strada dall’inverno del 311 a Gand, in Gallia, con la visione nel tempio di Apollo, identificato nel paterno Sol Invictus. A Nicomedia la coscienza del proprio destino gli si era definitivamente verticalizzata nel Dio

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dei cristiani. Anzi, adagiatosi sul trono della stabilità, pareva non avesse piú niente da chiedere o da offrire di imprevisto. Perfino i meriti della pace, mescolati con la fastosità adulatoria e traboccante della corte, divenivano ripetitivi. Per contro Crispo, il primogenito, rappresentava la novità. Lo era per il popolo di Nicomedia con le grida di plauso che lo accompagnavano ogni volta che compariva in pubblico. Lo sarebbe stato anche per gli accampamenti di Gallia o del Reno? Di colpo, nei riguardi di Crispo, Costantino provò un inatteso rigurgito di rabbia. La gelosia del potere non aveva faccia, né conosceva affetti. Crispo era destinato ad andare in Gallia; Costantino gli revocò il comando, lasciandolo volutamente nell’ozio degli ambulacri del palazzo imperiale. C’erano tutti gli elementi che determinano una tragedia del potere; mancava l’occasione. La procurarono le beghe dei vescovi, che non piú stretti dalla paura delle persecuzioni, presero a dilaniarsi fra loro per questioni teologiche. Il punto irrisolto e lacerante era la questione di Ario sulla natura del Cristo. Da anni procurava divisioni, odi anche feroci, morti e perfino distruzioni di chiese. Favorevoli

Sulle due pagine mosaico funerario con sposi su letti circondati da amorini, da Thaenae (Tunisia). IV sec. d.C. Sfax, Museo Archeologico.


ad Ario i sinodi dei vescovi della Bitinia e della Palestina, avverso quello di Alessandria. Costantino intese risolvere la questione sul piano politico, giacché la concordia fra i cristiani non soltanto era necessaria per l’esistenza armonica dello Stato, ma la Chiesa guidata dai vescovi andava considerata come un organismo in subordine rispetto allo Stato universale, che lui si vantava di aver fondato.

Quasi un ritorno alle origini Ritornava, in pratica, alla concezione romana del pontifex maximus. Che non a caso era una carica politica (Cesare, Augusto e via via gli imperatori riunivano nella loro persona la somma dei poteri temporale e religioso). In breve, la vittoria del cristianesimo sui pagani (i cui ultimi sussulti si erano avuti con Licinio) e l’ordine nel sistema statale erano per Costantino, come scrive Eusebio di Cesarea, strettamente uniti fra loro. Aveva fretta. Dal vescovo di Alessandria mandò il suo consigliere personale, Osio di Cordoba: rispetto alla concordia fra i cristiani e all’unità della fede, diceva nella lettera, la causa delle loro dispute era irrilevante, frutto di ripicche e di cavilli interpretativi. Naturalmente la natura del

Cristo esulava dal suo orizzonte conoscitivo. La missione di Osio di Cordoba fallí, anzi ad Antiochia si tenne un altro sinodo che emise una nuova condanna per Ario. Il che scatenò la rivolta degli «ariani» di Nicomedia. Allora Costantino prese una risoluzione drastica: convocò un concilio a Nicea di tutti i vescovi, che lui stesso avrebbe presieduto. Era a mezza giornata da Nicomedia. Vi parteciparono piú di duecentocinquanta vescovi. Il concilio cominciò il 20 maggio del 325 e non in una chiesa, ma in una sala sfarzosa del palazzo imperiale. Quando Costantino fece il suo ingresso, dette l’impressione di essere «un angelo di Dio, sceso dal cielo, luminoso nei suoi vestiti lucenti, radioso della focosa vampa della porpora e ornato dello scintillio chiaro dell’oro e delle pietre preziose». La descrizione è di un testimone oculare, Eusebio di Cesarea. L’assemblea dei vescovi, in piedi e in un attonito silenzio, lo vide attraversare lo spazio centrale dell’aula e poi andare a sedersi sul trono al centro della parete di fondo. Tenne le redini del concilio, come era da aspettarsi. Le divergenze teologiche non si appianarono. Ario difese con foga la dottrina

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della diversità del Figlio dal Padre. L’ultima parola toccò a Costantino, l’autocrate. Un compromesso: il Figlio era della stessa natura del Padre. I partecipanti al concilio l’accettarono. E nell’euforia di una ritrovata concordia religiosa, Costantino invitò i vescovi a Nicomedia per la festa dei suoi vent’anni di imperio. Largheggiò in pranzi e in doni, orientaleggiando per munificenza e sontuosità. Toccava l’apogeo della gloria: vittorie militari, armonia religiosa, una monarchia universale. Eppure la realtà dell’impero era contraddittoria e molteplice. Venti anni di guerre civili, di

depredazioni hanno spopolato città e campagne, distrutto i cardini dell’economia, spalancato vuoti sociali.

L’altra faccia del sovrano L’abitudine al governo scoprí, poi, un Costantino avido e generoso, avaro e scialacquatore a seconda delle circostanze. Di continuo aveva cambiato capitale o tenutane piú d’una: Treviri, Arles, Roma, Sirmio, Sardica e ora Nicomedia. Questo significava palazzi, rituali di magnificenza, pletore di cortigiani, servi, guardie del corpo; e Sulle due pagine disegno ricostruttivo del Gran Palazzo di Costantinopoli, residenza degli imperatori bizantini dal 330 all’XI sec. d.C. L’ampio complesso, posto nei pressi dell’Ippodromo e della basilica di Santa Sofia, venne danneggiato da un incendio nel 532, e ricostruito e ampliato sotto Giustiniano (527-565), Giustino II (565-578) e Tiberio I Costantino (578-582). chiesa di s. stefano

ippodromo

maneggio

sala aurea

palazzo di giustiniano

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faro


il tutto gravava su una economia depauperata e al limite di rottura. Ma i canti liturgici di Nicea e i fuochi vicennali, che per due giorni illuminarono Nicomedia, gli offuscarono la vista, come gli impedirono di avvertire gli scricchiolii di una struttura appesantita e complessa, qual era del resto la universalità dei popoli che la componevano. In questa gratificante dimenticanza maturò la tragedia. Di raccontarla se ne dimenticò anche il biografo di Cesarea, e, d’altronde, come poteva addebitare al suo eroe, all’invitto, solerte difensore del vero Dio, un crimine che santa sofia pietra miliare d’oro (milion) terme di zeuxippo

colonna di giustiniano curia del senato quartieri della guardia di palazzo

concistoro

Zosimo qualifica come empio e contrario alle leggi di natura? Attori: Crispo, il primogenito, e Fausta, la moglie dell’imperatore. Quello recitato nel palazzo di Nicomedia fu un adulterio o il sospetto di esso? E ispirato da passione o dalla vendetta di una moglie delusa o dalla rancorosa ripicca di un figlio? Crispo doveva avere allora ventidue o ventitré anni. Come mostrano le monete, la somiglianza con il padre era evidente nella struttura fisica e nella fisionomia. Timido e insieme spavaldo, chiuso, leale e cresciuto troppo in fretta. Gli pesavano A destra e nella pagina accanto, a sinistra Statuette (tychai) di Roma (nella pagina accanto) e Costantinopoli (a destra), in argento parzialmente dorato, dal Tesoro di Proiecta, rinvenuto ai piedi dell’Esquilino, a Roma. Fine del IV sec. d.C.

palazzo della magnaura

nea ekklesia (chiesa nuova)

stadio del polo

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un’infanzia senza madre, una sensibilità scoperta e ombrosa, solo in parte lenite dall’affetto della nonna paterna, Elena, l’unica ad amarlo in maniera esclusiva. Uno storico come Luigi Pareti (1882-1962) gli attribuisce il matrimonio con Elena, la figlia di Licinio e sorella quindi di Liciniano, che nel 317 era stato elevato a Cesare insieme con lui. Di sicuro ci furono i peana di gloria dei panegiristi per le sue vittorie sul Reno e nell’Ellesponto. Forse eccessivi, tanto che finirono per infastidire Costantino. Era primavera, la stagione piú eccitante dell’anno. Fausta, bella, nel fiore dell’età e bramosa di vivere, si appellò ai suoi diritti di donna e di moglie, ma Costantino già smaniava per il concilio nella sua nuova veste di arbitro della cristianità. Insomma fu nell’estate di Nicomedia fra i complici silenzi del palazzo imperiale, mentre a Nicea si consumavano le diatribe teologiche, che presero avvio e forme le scene di un adulterio. Com’era Fausta? Affascinante, desiderabile? Sua madre lo era stata e cosí la sorella Teodora. La bellezza delle Siriane era proverbiale, e tale comunque da eccitare la fantasia di Crispo. O fu soltanto una trappola

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ordita dalla trama di potere, e che della seduzione si serví come della messinscena piú semplice e naturale? Oppure fu Fausta a essere attratta dalla giovane presenza di Crispo? È la versione piú convincente, considerando gli avvenimenti che seguirono e che la portarono alla morte. L’esito delle loro conversazioni o della loro relazione, se mai ci fu, è ancora da scrivere. I testimoni, Eusebio di Cesarea e Lattanzio, tacciono.

Una verità indicibile Le fonti per gli storici sono, principalmente, nove righe di Zosimo, il quale scrive che Costantino «sospettava» che il figlio «avesse una relazione con la matrigna Fausta». Per uno abituato alla proscinesi (il prostrarsi, cioè, ai piedi del monarca), a credersi il protetto di Dio, fu peggio di una mazzata fra capo e collo. Gli si rovesciò addosso la volta del cielo. Vinceva le battaglie, conquistava il mondo, dirigeva un concilio con duecentocinquanta vescovi, e poi affondava nel vituperio delle pareti domestiche, tradito dalle persone a lui piú care, il primogenito e la moglie legittima. E cosa contavano i panegirici, le orazioni

In alto, a sinistra il circo e l’ippodromo di Costantinopoli in una stampa della metà dell’Ottocento.


Sulle due pagine pannello in opus sectile raffigurante una pompa circensis, dalla Basilica di Giunio Basso. IV sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

laudative, le gemme, le parrucche se poi era offeso nella sua virilità? I sospetti gli erano venuti durante le feste per il suo ventennale d’imperio. Non aveva l’intelligenza per le passioni del cuore, ma un occhio acutissimo per tutto quello che turbava la regolarità del palazzo. Notò sguardi e reticenze, subodorò riserbi e paure. Era cosí avvezzo alle adulazioni che le medaglie coniate con i volti congiunti di Costantino e di Crispo e le manifestazioni spontanee di popolo

per il primogenito lo colsero di sorpresa e improvvisamente lo irritarono. Stava ancora mettendo ordine ai suoi pensieri, quando Fausta per paura o per rabbia o per vendetta, gli confidò che durante la sua assenza a Nicea era stata oggetto delle attenzioni libidinose da parte di Crispo. Non sappiamo né la data, né il luogo della confessione. Forse a Nicomedia, piú facilmente a Roma, dove nel 326 Costantino si trasferí per celebrare il ventennale da Augusto. Zosimo propende per

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UNA MONARCHIA UNIVERSALE Per la piú preziosa delle reliquie

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el Museo Benedettino e Diocesano d’Arte Sacra di Nonantola (Modena) è conservata questa preziosa stauroteca in legno e argento dorato. Con il termine «stauroteca» si indicano i contenitori per la conservazione e il trasporto delle reliquie, in particolare quelle della croce di Cristo. Nell’Alto Medioevo le reliquie diventano uno dei trofei piú ambiti e ricercati, e alcuni personaggi si specializzano fino a diventare ladri di questi oggetti riconosciuti a livello internazionale. Nasce e fiorisce un vero mercato. Ogni chiesa, ogni monastero con qualche ambizione aspira ad avere una o qualche reliquia, per beneficiare dell’aura di santità che esse emanano e attirare stuoli di fedeli. Si moltiplicano le ossa, le parti del corpo, perfino le barbe dei santi, che iniziano a viaggiare in Occidente, per tutto il Mediterraneo. Anche Costantino ha a che fare con le reliquie. In realtà c’entra ancor di piú sua madre, Elena, la quale, secondo la tradizione, si spinse fino a Gerusalemme e ritrovò la croce di Cristo, per poi portarla in Occidente. La notizia non è accertata, né verificabile, però un fatto è sicuro: nel Medioevo si ritrovano, e viaggiano, moltissimi frammenti della croce, o presunti tali, che generalmente vengono conservati in reliquiari dalle forme differenti. Questo è un tipo particolare di reliquiario: al centro c’è un

Roma. Nel bel mezzo delle celebrazioni, inginocchiamenti, composizioni laudative, l’arresto di Crispo fu come una buia, violenta tempesta d’estate. Il popolo lo paragonò a Nerone che aveva ucciso la madre. Lo storico inglese Edward Gibbon (1737-1794) scrive che Costantino «depose l’amore di padre senza assumere l’equità del giudice».

Un crimine imperdonabile In realtà Crispo non ebbe un processo. Sotto scorta fu inviato a Pola, dove venne ucciso per decapitazione o con il veleno. Zosimo aggiunge un particolare: che Costantino, dopo la morte di Crispo, si presentò ai sacerdoti pagani chiedendo loro sacrifici espiatori. Gli risposero che nessuna purificazione gli avrebbe cancellato il crimine commesso. In compenso l’autocrate fece costruire per i cristiani sei chiese: la basilica del Laterano, S. Paolo sulla via Ostiense, S. Agnese sulla Nomentana, S. Lorenzo sulla Tiburtina, S. Pietro sul colle Vaticano, Ss. Pietro e Marcellino ad duos Lauros. Elena, l’Augusta, non era a

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intaglio, un alloggio a forma di croce con due bracci orizzontali, e dentro trova posto proprio un frammento della croce dalla stessa forma, bordato da una lamina d’argento e ornato con placchette (una delle quali è decorata a smalto). In alto, quattro angeli, quasi giotteschi (soprattutto quelli piú in basso), e ai piedi della croce ci sono Costantino ed Elena, vestiti come imperatori bizantini. Il reliquiario risale alla fine dell’XI o all’inizio del XII secolo, e venne forse fabbricato a Costantinopoli. Ci parla della fortuna di Costantino, ben oltre il suo tempo. Perché, alla fine, Costantino è e sarà sempre ricordato soprattutto per l’impulso dato all’affermazione del cristianesimo. Anche grazie a oggetti come questo reliquiario, la fama di Costantino ha attraversato il Medioevo, l’età moderna, ed è giunta fino ai giorni nostri. Costantino è passato alla storia per le cose che ha fatto davvero, e anche per quelle che gli sono state attribuite senza fondamento di verità. Alla fine, è ricordato per aver saputo immaginare e mettere in atto un’idea di principato grande, molto ambiziosa, conclusa con successo. Un sogno, in qualche modo; come quello che lui stesso fece la notte del 27 ottobre del 312: il sogno che il giorno dopo, nella battaglia al Ponte Milvio, lo portò a usare il monogramma cristiano come emblema per sé e per le sue truppe.

Nicomedia nell’estate del 325, e a Roma visse la morte di Crispo nell’esilio di Pola con lo strazio e la lacerazione di una madre. Non credette mai alla colpevolezza del nipote. Era sicura del contrario e si mise a spiare Fausta. Ordí la tela entro cui impigliarla con la pazienza vendicativa della vecchia. Raggiunse la prova delle sfrenatezze di Fausta prima di quanto avesse calcolato. E fu biblicamente implacabile al ritorno di Costantino. Il quale, nella punizione, vi aggiunse una ferocia pari all’orrore della scoperta. Né si placò con la morte della moglie, soffocata in un bagno, ma quanti erano sospetti o complici o le erano stati amici furono, senza distinzione, ammazzati. Filostorgio (storico cristiano vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo, n.d.r.) scrive che «la relazione colpevole» Fausta l’aveva avuta con uno schiavo addetto alle scuderie imperiali. Nell’orazione ufficiale per il suo trentennale di imperio Eusebio di Cesarea (il «vescovo cortigiano», come lo definisce Gibbon) lo chiamò «beato», giacché «nella vita terrena era stato ritenuto degno di governare da solo


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

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in tutto l’impero e nella futura avrebbe regnato insieme al Figlio di Dio». Era troppo anche per un imperatore, soffocato dagli incensi del servilismo. Protestò con il vescovo, ammonendolo dall’astenersi da «parole cosí temerarie».

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Una fortuna simile non era capitata né ad Alessandro, né a Cesare, i conquistatori, né a Traiano o ad Aurelio, presi a modello dagli imperatori che seguirono, e neppure al divo Augusto, il solo a superarlo nella durata del potere. In effetti l’immagine sublimata, unica, in cui si rimirava, era la stessa che retori, panegiristi, biografi, cortigiani disegnavano nelle aule palatine, nelle piazze, negli accampamenti dei soldati.

Veduta dall’alto della basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.


Nonostante l’età, il pericolo per lui era di rimanere senza un margine di dubbio fra la realtà e la fissazione dell’immaginario. Assai presto pensò di aver dimenticato l’oltraggio di Fausta e la morte di Crispo. Poi, invece, scorrendo gli anni, si accorse che la prima gli ritornava nelle immagini dei figli, l’altro lo aspettava a Costantinopoli, la nuova Roma, nella solitudine notturna del loggiato del palazzo imperiale, quando la città dormiva, i fuochi di

vedetta bruciavano in cima alle torri e il mare, in basso, sciabordava contro gli scogli. L’idea di una città che portasse il suo nome, eternandolo, dovette affacciarglisi alla mente proprio a Roma. Nel luglio del 326 vi era entrato con il massimo dispiego di fasto orientale, in piedi su un cocchio imperiale d’oro e passando sotto l’arco di trionfo erettogli un decennio prima. Credeva di stupire. Chiaro l’intento di una provocatoria, sfolgorante

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UNA MONARCHIA UNIVERSALE Mausoleo di Santa Costanza

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Terme di Costantino Basilica di San Pietro

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Basilica circiforme di San Lorenzo

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Basilica di San Marco Piazza Navona

Tempio di Minerva Medica

Piazza Venezia

Basilica Nova (Basilica di Massenzio) Foro Romano

Piazza Vittorio Emanuele II

Isola Tiberina

Via Aurelia

Arcus Novus (C. d. Arco di Giano)

Piazza S. Croce in Gerusalemme Piazza S. Giovanni in Laterano

Circo Massimo

Porta Maggiore Sessorium (Residenza imperiale di Costantino)

Arco di Costantino Battistero Lateranense

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esibizione. Ma proprio questo, aggiunto alla proschinesi, ignota ai Romani, e alla voluta dimenticanza di salire al tempio di Giove in Campidoglio, simbolo della grandezza e perennità di Roma, gli alienò l’animo dei cives delle due sponde del Tevere. Non gli risparmiarono battute e sarcasmi; quando poi si

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seppe della morte di Crispo, lo ingiuriarono. L’albagía di Costantino ne uscí a pezzi; si ritenne offeso e, com’è proprio della permalosità dell’autocrate, in diritto di vendicarsi. E Zosimo non ha dubbi: Costantinopoli nasce dalla rabbia contro i Romani. Inizialmente la scelta del luogo fu nella Troade

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Tempio di Minerva Medica

Un palazzo grande come una città

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Mausoleo di Sant’Elena Via L

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fra le rovine di Ilio e il capo Sigeo; poi si fermò a Bisanzio. I Greci l’avevano fondata nel VII secolo a.C. Una volta presa la decisione, Costantino convogliò risorse, energie, uomini per il compimento dell’impresa.

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Basilica circiforme dei SS. Pietro e Marcellino

Mausoleo di Elena Proprietà imperiali intra duas lauros

Sulle due pagine pianta schematica dell’area urbana di Roma e di una parte del suo suburbio tra il III e il IV sec. d.C. Sono evidenziate le piú importanti opere realizzate per volontà di Costantino, la cui attività edilizia si concentrò soprattutto al di fuori del circuito delle mura aureliane.

Sembra che lui stesso con la lancia, rifacendosi a un vecchissimo rituale, tracciasse il confine delle nuove mura dalla parte di terra, considerando che la città per due terzi era sul mare. Come Roma, Costantinopoli ebbe un Forum, centro politico, circondato da portici colonnati su quattro lati e denominato Augusteion in onore della madre Elena; poi un Forum Constantini a occidente del primo, una colonna miliare e un ippodromo per le corse delle bighe, ma anche luogo deputato per cortei trionfali, giochi, ricevimenti pubblici. Il palazzo imperiale, grande come una cittadina, elevava le sue imponenti costruzioni fino al Mare di Marmara. A popolarla arrivarono da Roma e dall’Italia nobili e senatori, come del resto da altre parti dell’impero, tanto piú che Costantino aveva offerto loro premi, cariche, speciali donazioni, anche se era già sufficiente il miele del potere, dal momento che Costantinopoli sarebbe stata la capitale permanente dell’impero. I lavori avevano avuto un ritmo forsennato. Con progettisti, architetti, agronomi, edili, costruttori privati avevano lavorato maestranze scelte, come comuni operai e poi caterve di schiavi e anche quarantamila Goti. Il giorno ufficiale dell’inaugurazione di Costantinopoli fu l’11 maggio del 330. La giornata era luminosa, il mare azzurro. Avviò la cerimonia una liturgia cristiana, ma anche i sacerdoti pagani degli dèi di Roma compirono i loro riti sacrificali di propiziazione.

Missione in Terra Santa Tra la fine del 326 e il 327 l’Augusta Elena intraprese un viaggio in Palestina. Alcuni storici dicono che a spingerla fosse il desiderio di espiazione per il nipote Crispo, della morte del quale non riusciva a darsi pace. Certo è che,

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coscientemente o meno, pose uno spazio di tempo e di luogo fra sé e la tremenda severità del figlio imperatore. Qualcosa si incrinò nel cristallo purissimo del suo amore materno. E che l’ipotesi sia abbastanza vicina al vero ci

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viene in qualche modo confermata dalla scoperta della vita scandalosa di Fausta; il che scagionava del tutto il nipote, come lei aveva sempre pensato e sostenuto. È anche vero che Elena con le Siriane, figlie di Massimiano e di


Avanzo del Tempio della Speranza Vecchia, incisione di Giovanni Battista Piranesi facente parte della serie Le antichità romane. 1746-1756. L’edificio è oggi considerato una basilica con funzione di rappresentanza all’interno del complesso del Sessorium, risalente all’epoca in cui questo divenne residenza di Elena, madre di Costantino. In basso ricostruzione virtuale del Sessorium.

Costantino di esiliarla a Tolosa (e questo l’ottenne appena dalla Beozia arrivò a Treviri); della seconda, scoprendo e denunciando le sue sfrenatezze extraconiugali. In Palestina visitò i luoghi della Passione di Cristo e fece costruire tre chiese: una sul luogo del Sepolcro e della Crocifissione, un’altra sul Monte degli Ulivi, la terza a Betlemme, nel luogo della Natività. Quanto al ritrovamento della Croce si tratta di una leggenda medievale, benché il primo a farne menzione fosse Ambrogio, vescovo di Milano, nel 395 durante l’elogio funebre per l’imperatore Teodosio. Elena morí nel 328, forse dopo il ritorno dalla Palestina. E Costantino chiamò Elenopoli la città di Drepano, dove lei era nata.

Una «genía spaventosa» Sul letto di morte di Eboracum (York) Costantino giurò al padre Costanzo Cloro di rispettare la moglie e i sei figli di lei, che poi erano i suoi fratellastri. Per Teodora, gli fu possibile fino al giorno in cui a Treviri arrivò la madre Elena (fra l’altro chiamata da lui). Ma per i fratellastri Elena non poteva pretendere la stessa rigidezza. Di sicuro i due maggiori Dalmazio e Giulio Costanzo (e forse anche Annibaliano) erano al suo fianco nella campagna d’Italia a Ponte Milvio.

Eutropia, aveva aperto da tempo un conto personale. La giovane e bellissima Teodora le aveva portato via l’uomo della sua vita, Costanzo Cloro; la sorella Fausta il nipote. Della prima si era vendicata imponendo a

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Costanza l’aveva assecondato, accettando il letto stagionato di Licinio e adottando il figlio di una schiava. Poi, morta Elena, Costantino chiamò a corte i fratelli, e subito assegnò loro incarichi importanti. Si sentiva solo. Nessuno dei tre figli legittimi gli somigliava. Forse la paura e la rabbia che gli montava al ricordo della moglie potevano distorcergli il giudizio. Costanzo II, quello che all’aspetto piú lo ricordava, mancava di nerbo, astuto invece che risoluto, e piuttosto esente da vizi che rigoglioso di virtú. Il primo dei figli dell’adultera (Costantino II) aveva forse piú ingegno, ma indolente, fiacco, cupido di sontuosità come un satrapo orientale. Di Costante, il minore, prima di quanto si aspettasse, riconobbe i segni infausti del carattere: subdolo, ipocrita, effeminato, simulatore. Jacob Burckardt, nella biografia di Costantino, definisce i figli di lui «una genía spaventosa». Magari attenuato dalla pietà paterna, ma, segretamente, non doveva essere molto diverso il giudizio di Costantino. Con quest’animo nel 332 partí per il Danubio contro i Goti, portando con sé i nipoti Flavio Giulio Dalmazio e Flavio Claudio Annibaliano. Ablabio, un Germano, legato a lui dai tempi lontani del Reno ed elevato poi a comandante del Pretorio, glieli aveva segnalati per le loro propensioni militari. Fino a Sardica Costantino si fece accompagnare dalla figlia Costantina. Aveva la figura della nonna Elena, nel portamento un misto di affabilità e di naturale alterigia, che ne indicava il piglio decisionale. Quando la lasciò a Sardica, era convinto di aver scoperto in lei gli attributi che avrebbe voluto e che mancavano ai figli maschi. Ma la guerra con i Goti gli rivelò un’altra sorpresa: la condotta coraggiosa, tempestiva, tatticamente perfetta dei due nipoti, Giulio Dalmazio e Claudio Annibaliano, ai quali di volta in volta, appunto con l’idea di metterli alla prova, aveva affidato compiti, responsabilità, iniziative sempre piú difficili e complesse. Lo stupí l’azione avvolgente contro la cavalleria dei Goti portata a termine da Giulio Dalmazio nella Mesia Meridionale. Vide in lui, come nell’altro, attitudini militari inaspettate. Tornando indietro

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in un alone di campagna vittoriosa (e per lui l’ultima, ne fanno fede anche le medaglie celebrative Victoria Gothica) non ebbe dubbi ad assegnare la difesa del Danubio a Giulio Dalmazio. E a Sardica, trovando la figlia Costantina ad aspettarlo, decise di maritarla all’altro nipote Claudio Annibaliano. Aurelio Vittore ed Eutropio dicono che la campagna militare contro i Goti si protrasse fino al 334. Anzi, in quell’anno, Costantino stanziò entro i confini dell’impero oltre trecentomila Sarmati proprio per salvarli da un genocidio dei Goti. La frontiera piú critica, lo sapeva bene, rimaneva ancora quella del Danubio, dove le invasioni di popolazioni barbariche erano piú o meno periodiche.

Un rimedio peggiore del male Gli osanna per le vittorie militari, i plausi di servilismo non bastavano per quietare una situazione economica e sociale traballante. Le tasse opprimevano ogni ripresa dell’economia. Molte città si spopolavano. Per ridare respiro all’agricoltura Costantino fu costretto a ridurre di un quarto la tassazione dei terreni; infine si decise a rivedere da capo tutta la complessa macchina dell’amministrazione. Non escogitò niente di meglio che rifarsi al modello dioclezianeo. La novità fu nella netta separazione dei poteri civili da quelli militari, negando cioè ai prefetti qualsiasi ingerenza nei comandi delle legioni che stanziavano nel territorio sotto la loro giurisdizione. Il rimedio, secondo Zosimo, fu peggiore del male. Non mai benigno sull’operato di Costantino, se ne scandalizza, trova nel cambiamento la ragione della «rovina dello Stato». In realtà la situazione generale si era ovunque via via deteriorata. Le spese per l’apparato militare amministrativo erano enormi. Il popolo rumoreggiava: una tremenda carestia aveva investito Siria e Cilicia; numerosissime le vittime. Ma anche Costantinopoli era senza pane. Venti contrari impedivano alle navi, provenienti dall’Egitto, di attraccare nel Bosforo. E per la prima volta, dopo Roma, Costantino sperimentò l’altra faccia dell’umore

Veduta dell’Avanzo del Mausoleo di S. Elena, madre di Costantino Imperatore, incisione di Giovanni Battista Piranesi facente parte della serie Le antichità romane. 1746-1756.


popolare. Anzi le grida di protesta arrivarono fin sotto le mura del palazzo imperiale.

Celebrazioni solenni Il trentesimo come imperatore cadeva nel 335. Solite pompe, orazioni laudative, iperboliche esaltazioni. Si largheggiò anche in grandiosi spettacoli del circo e in congiari per il popolo di Costantinopoli. I cristiani, che in suo favore innalzavano preghiere al «Dio degli eserciti», arrivarono a vedere in una sua statua, issata sulla colonna di porfido del Foro, «come una

similitudine di Cristo». Aveva elevato il fratello Giulio Costanzo a patrizio nobilissimo e ora gli dette il consolato. All’altro fratello, Dalmazio, già console due anni prima, affidò l’incarico al momento piú scabroso: dirimere la questione di Ario con il vescovo di Alessandria, che nemmeno lui, l’imperatore, era riuscito a risolvere. Poi fece un annuncio sorprendente: dichiarò Cesare il nipote Giulio Dalmazio e proclamò l’altro, Claudio Annibaliano, re del Ponto, della Cappadocia e dell’Armenia Inferiore. Ambedue erano figli di Dalmazio, il

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maggiore dei suoi fratellastri. La decisione proponeva due aspetti della sua condotta politica: il primo e piú evidente era che lui, fino allora sostenitore, puntuale esecutore del disegno di un potere assoluto, rinnegava se stesso, perfino misconoscendo la benignità di Dio che l’aveva scelto come suo unico campione; il secondo affrontava il giudizio sui figli legittimi (nominati Cesari uno dopo l’altro e, si può dire, appena dopo la nascita). In loro non vedeva niente o ben poco dei Flavi illirici, e neanche del nonno Massimiano, corposo e sanguigno; avevano preso dalla madre e dalla nonna materna, che era una Siriana. E ai Siriani i tre Cesari si uniformavano nei costumi, nella depravazione, nell’inganno, nella nascosta malvagità. Se considerava quanto era avvenuto in trent’anni dalla volontaria abdicazione di Diocleziano, non poteva non concludere – con quattro Cesari e un re, quanti ne aveva nominati – che la spartizione dell’impero non solo era inevitabile, ma avrebbe avuto come conseguenza una guerra fratricida.

Testa in argento di un sovrano sasanide, realizzata al tempo del re Sapore II. IV sec. d.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto cammeo in sardonica a piú strati raffigurante un imperatore a cavallo. Metà del IV sec. d.C. Belgrado, Museo Nazionale.

Il giudizio della storia La storia non era una teoria o una immaginazione che poteva cambiare a seconda degli umori del momento. Era là, dietro di lui, inappellabile: le eredità di potere, spartite tra fratelli, conducevano alla definizione sanguinosa del vincitore. Lui, Costantino, non si era comportato diversamente con Massenzio, con Massimiano, con Licinio. Per arrivare fino all’uccisione di Crispo, il suo primogenito. Ancora ammantato della veste laminata d’oro, indossata per il trentennale, evitò di guardarsi in uno dei grandi specchi che erano nelle sale del palazzo. L’«altra» immagine di sé poteva rivolgergli una domanda a cui sfuggiva da dieci anni: se il tentativo di adulterio non fosse stato

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che uno schermo per nascondere a se stesso la vera, mostruosa verità di una inarrestabile gelosia di potere. Nel 334 era arrivata a Costantinopoli un’ambasciata del re persiano Sapore II. Sontuosi e ricchissimi i doni, non meno traboccanti di adulazioni le orazioni degli emissari reali per le recenti vittorie di Costantino sui Goti; in cambio chiedevano una grande quantità di ferro, di cui la Persia era sprovvista. I Persiani erano maestri


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Taq-i Bustan, Iran. Rilievo raffigurante due figure reali identificate con Sapore II (il Grande) e suo figlio, Sapore III, che regnarono dal 309 al 388 d.C.

insuperabili di discorsi laudatori, come di slealtà e di inganni. Costantino era troppo intelligente per non sapere l’uso che Sapore II avrebbe fatto del ferro che gli chiedeva. Eusebio di Cesarea ci spiega che Costantino temeva il ricatto di Sapore II, che cioè al suo diniego infierisse sui cristiani di Persia. Piú vero che l’imperatore cedesse perché rammollito dagli elogi. E c’è un’aggiunta: che sia lui che Eusebio, divenuto il suo consigliere permanente, confidavano nell’indiscusso aiuto di Dio il giorno in cui Sapore II, invece di rivolgere le armi contro i nemici d’Oriente, le avesse usate contro l’impero. Le cose, in seguito, ebbero un esito diverso. Costantino aveva dimenticato che in politica l’ingenuità (o lealtà) da un lato, la perfidia dall’altro vanno sempre di pari passo.

Una provocazione inaccettabile Non trascorse molto tempo che Sapore II, dopo il ferro (con cui completò l’armamento), gli richiese le cinque province al di là del Tigri, che il suo antenato Narsete, sconfitto rovinosamente da Galerio quasi quarant’anni prima, era stato costretto a cedere all’impero romano. Indignato dall’impudenza dei Persiani, Costantino si preparò alla guerra ormai inevitabile. Avvezzo com’era a vincere, lo sfregio dell’ingratitudine gli mordeva il fegato e anelava a una esemplare vendetta. Gli mancò il tempo. La vendetta la lasciò in eredità al suo successore in Oriente, Costanzo II, il meno adatto a una conduzione risolutiva della campagna. L’unico che ne ricordava il coraggio, la rapidità, l’intelligenza strategica sarebbe stato un altro nipote, il piú giovane, chiamato poi l’Apostata. Morí proprio contro i Persiani a trentatré anni, la stessa età di Alessandro, a cui si ispirava, e di Cristo, che aveva rinnegato. Ancora non credeva di avere cosí pochi spiccioli da spendere di una esistenza che era stata ricchissima di glorie e di avvenimenti.

Aveva cinquantacinque anni e gliene rimanevano poco piú di due. Con la grandiosa beneficiata delle cariche per il trentennale pigliava corpo la prima dinastia cristiana. Le spinte del sangue prevalevano sulle ragioni dell’intelligenza e della virtú. E, come per i faraoni, assistiamo a matrimoni fra consanguinei. A Sardica la figlia prediletta Costantina l’aveva sposata a Claudio Annibaliano ed era diventata regina del Ponto, Cappadocia, Armenia Inferiore: Costanzo II prende in moglie Galla, figlia dello zio Giulio Costanzo. Insomma, a partire dal 335 si può dire che l’impero romano, vasto e multiforme come il mondo, sia andato a mano a mano trasformandosi in una enorme eredità di famiglia. I Costantinidi lo governano: un Augusto, l’autocrate, quattro Cesari, un re e una regina, oltre a consoli, censori, sempre dello stesso ceppo familiare con responsabilità di potere. Lo perderanno, come si perdono o si disfanno i grandi patrimoni ereditari: per avidità, turpitudini, discordie interne, morti. Fino a Diocleziano l’impero era stato preda del generale piú feroce; la fortuna premiava o univa i contendenti con un arbitrio imprevedibile: gli dèi erano capricciosi e vendicativi come gli uomini; ma con il cristianesimo tutto questo gioco delle passioni umane, intrecciate con la fortuna, era finito, chiuso, annullato. Per Lattanzio ed Eusebio di Cesarea la storia, piccola o grande, dipendeva dalla sapienza di Dio. E Costantino era arrivato a diventare il solo padrone del mondo perché Dio l’aveva «ritenuto adatto al compimento delle sue decisioni». Ma di sicuro non lo assistette nella partizione dell’impero. Oppure Costantino – in passato, freddo, lucido, risoluto – ebbe un annebbiamento di amore filiale, violentando la sua intelligenza politica fino a distorcere rovinosamente quell’unità dell’impero conquistata in venti anni. E il peggio è che aveva poca o nessuna fiducia sulle qualità carismatiche dei suoi figli. E perché cedette? Questa la divisione: a Costantino II le Gallie, la Spagna, la Britannia, la Mauritania in Africa; a Costante l’Italia, l’Africa, l’Illirio; a Costanzo II

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l’Oriente con l’Egitto, piú la Tracia e Costantinopoli. Claudio Annibaliano aveva il regno del Ponto, Cappadocia, Armenia Inferiore; Giulio Dalmazio, dovendo proteggere la frontiera gotica sul Danubio, presidiava Dacia e Mesia e in piú Macedonia, Grecia, Epiro e, secondo Aurelio Vittore, anche Costantinopoli. Ma quali che fossero le disposizioni testamentarie di Costantino, l’odio, l’inganno, l’avidità di potere, la ferocia dei figli di Fausta le travolsero, riducendo lo stesso palazzo imperiale di Costantinopoli a un macello per beccai il Venerdí di Pasqua. Figli e nipoti di Costanzo Cloro furono tutti uccisi, eccetto Gallo e Giuliano, figli di Giulio Costanzo e che nei giorni di mattanza avevano rispettivamente otto e tre anni.

A febbraio del 337 nella piana di Nicomedia, che gli ricordava Diocleziano il giorno del gran rifiuto, passò in rivista l’esercito per la campagna di Persia. Avrebbe dovuto affrettarsi: Claudio Annibaliano, il nipote genero, lo aspettava nell’Armenia Inferiore per invadere la Persia da nord (seguendo il vecchio disegno di Cesare). Ma la stagione era inclemente, pioveva e lui aveva brividi di freddo. Di giorno in giorno rimandava la partenza. Nell’attesa cambiò strategia: avrebbe attaccato la Persia con una manovra a tenaglia da nord e da sud.

Le ultime ore La conquista della Persia poteva poi risultare una grande campagna di propaganda per la diffusione del cristianesimo. Si portava dietro

Sulle due pagine Roma, basilica dei SS. Quattro Coronati, oratorio di S. Silvestro. Altri particolari della Leggenda di Costantino e San Silvestro. In basso, Costantino riceve da Silvestro il battesimo; a destra, sulle due pagine, Costantino colpito dalla peste.

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vescovi e preti; per sé addirittura una tenda adibita a chiesa mobile. Ma quando l’esercito, concentrato a Nicomedia, era pronto e impaziente di partire e già arrivavano corrieri annunciando le incursioni della cavalleria persiana, si ammalò. Febbre, vomito, improvvisi collassi. Era la settimana di Pasqua del 337. Chiese di andare nella città materna di

Drepano, ora Elenopoli. La suggestione nostalgica non lo aiutò. Riportato a Nicomedia si spense nel sobborgo di Ancyron, dove aveva una villa, il 22 maggio. Il battesimo, che doveva consacrarlo quale primo imperatore cristiano, lo ricevette il giorno stesso, festa della Pentecoste. Intorno a lui non un figlio, non un nipote. Solo Eusebio di Cesarea.

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MONOGRAFIE

n. 60 aprile/maggio 2024 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007

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