Archeo Monografie n. 58 – Dicembre/Gennaio 2023/2024

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di marco di Branco

LA GRANDE RAZZIA

L’AVVENTUROSA STORIA DEI FURTI D’ARTE DALL’ANTICHITÀ AI GIORNI NOSTRI

LA GRANDE RAZZIA Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC

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N°58 Dicembre 2023/Gennaio 2024 Rivista Bimestrale

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ARCHEO MONOGRAFIE

MONOGRAFIE IN EDICOLA IL 30 DICEMBRE 2023

€ 7,90



LA GRANDE RAZZIA L’AVVENTUROSA STORIA DEI FURTI D’ARTE DALL’ANTICHITÀ AI GIORNI NOSTRI di Marco Di Branco

4. presentazione Possedere la bellezza

6. mesopotamia Ladri di statue tra il Tigri e l’Eufrate

22. egitto

I primi «tombaroli» della storia

34. grecia e roma Graecia capta. I Romani e l’appropriazione dell’arte greca

50. obelischi Souvenir d’Egitto

60. mondo islamico

Sulla via di Dio Distruzioni e furti di opere d’arte degli «infedeli»

70. crociate e razzie

All’ombra della Croce. 1204: il sacco di Costantinopoli

88. napoleone Dalle Alpi alle piramidi

100. asia centrale

Diavoli stranieri sulla via della seta

114. prede di guerra Sotto il segno della svastica

120. furti e musei

Dai Marmi Elgin alla Gioconda


possedere la bellezza I

furti d’arte avvengono da sempre. O, almeno, da quando si è cominciato ad attribuire valore a un manufatto, a un dipinto, a un’opera nata dalla fantasia e dal talento creativo dell’uomo. Prima della nascita del mercato delle opere d’arte, ad attrarre erano essenzialmente la fattura dell’oggetto, il suo potere di seduzione, la sua magia, che inducevano a desiderarlo, a volerlo a ogni costo, fino al punto di rubarlo. Il ladro di opere d’arte è, lui per primo, vittima di un rapimento. D’altra parte, la religiosità primitiva prevedeva – e prevede tuttora – in molti contesti l’adorazione di feticci, ovvero di oggetti antropomorfi o zoomorfi che si riteneva fossero dotati di magici poteri (il termine «feticcio» deriva dal portoghese feitiço, «artificiale», usato per definire gli oggetti di culto delle popolazioni africane) e il cui possesso era fonte di ricchezza e prestigio. Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trova la sua espressione nel culto: le opere d’arte piú antiche sono nate al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. Occorre inoltre considerare che, fino alle soglie dell’epoca contemporanea, le opere d’arte non erano tecnicamente riproducibili. I Greci, per esempio, conoscevano soltanto due procedimenti per la riproduzione tecnica delle opere d’arte: la fusione e il conio. Bronzi, terrecotte e monete erano le uniche opere d’arte che essi fossero in grado di produrre in quantità. Tutte le altre erano uniche e, per ciò stesso, tanto piú desiderabili. Tra il XIX e il XX secolo, la riproducibilità tecnica delle opere d’arte diviene pressoché totale, eppure, come ha notato Walter Benjamin in un saggio molto fortunato (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1966), anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, viene a mancare un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile

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Particolare della decorazione di un vaso in porcellana raffigurante il trasporto delle opere d’arte fatte prelevare in Italia da Napoleone e trasferite in Francia. Manifattura di Sèvres, 1813. Sèvres, Manufacture et Musée nationaux. Si riconoscono, a sinistra, la Venere Capitolina (una variante della Venus pudica) e, qui sotto, il gruppo del Laocoonte.


Bronzetto raffigurante un nano danzante, appartenente al carico di una nave affondata nelle acque al largo di Mahdia (Tunisia). Età tardo-ellenistica. Tunisi, Museo del Bardo. L’imbarcazione colata a picco trasportava statue di marmo e di bronzo di varie dimensioni, verosimilmente destinate a Roma, dove l’arte greca, all’indomani della conquista, aveva scatenato la caccia ai tesori del Paese sottomesso.

nel luogo in cui si trova. Di conseguenza, l’opera, per quanto riprodotta all’infinito, non cessa di essere bramata e desiderata. Anzi, sempre di piú si fa valere l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il piú possibile ravvicinata. E, inequivocabilmente, la riproduzione si differenzia dall’immagine diretta, dal quadro o dalla statua originali. In questi ultimi, l’unicità e la durata s’intrecciano quanto la labilità e la ripetibilità nella prima. Se tra l’antichità e il Medioevo il furto d’arte, accanto a cause squisitamente economiche, ha spesso motivazioni legate alla sfera religiosa, con l’avvento del mercato delle opere d’arte e con l’estendersi del fenomeno del collezionismo l’aspetto finanziario diviene di gran lunga prevalente. Il collezionista, lo sfrenato e appassionato cultore di opere d’arte, oggi si nasconde nelle pieghe di un sistema criminale che, come affermano fonti dell’UNESCO, fattura decine di milioni di dollari ogni anno: il volume d’affari del traffico clandestino delle opere d’arte è secondo solo a quello del traffico di droga. Si tratta di una vera e propria emergenza, che è tanto piú drammatica per l’Italia, Paese in cui sono conservati moltissimi capolavori: un patrimonio immenso, unico, inestimabile che, oltre ad attirare l’attenzione e la meraviglia di turisti, visitatori, appassionati e studiosi, richiama inevitabilmente anche le brame di ladri e criminali, pronti a impossessarsi di una tela o di una scultura, magari dietro le indicazioni e i desideri di committenti internazionali, disposti a sborsare somme ingenti pur di avere quel determinato pezzo nella loro collezione privata. Fortunatamente, però, accanto a questi veri e propri geni del crimine, esistono in tutto il mondo importanti istituzioni che si battono strenuamente per tutelare il patrimonio culturale dell’umanità. E va detto che, in questo campo, l’Italia è all’avanguardia nel mondo, essendo stata la prima nazione a dotarsi di un organismo di polizia specializzato nel settore, anticipando la raccomandazione della Conferenza Generale dell’UNESCO, che nel 1970 indicava agli Stati aderenti l’opportunità di adottare varie misure volte a impedire l’acquisizione di beni illecitamente esportati e favorire il recupero di quelli trafugati. Le origini del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale risalgono infatti al 3 maggio 1969, allorché il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, sulla base di una lungimirante intuizione del Capo di Stato Maggiore pro tempore, il generale Arnaldo Ferrara, determinò di costituire, presso il Ministero della Pubblica Istruzione e d’intesa con questo, il Nucleo Tutela Patrimonio Artistico. Proponiamo dunque ai nostri lettori un viaggio nello spazio e nel tempo sulle tracce dei piú celebri furti d’arte della storia: un viaggio che ci porterà dalla Mezzaluna fertile del III millennio a.C. alla Valle dei Re dell’età della XX dinastia, alla Grecia caduta sotto il giogo romano; dall’Oriente islamico alla Costantinopoli saccheggiata dai crociati; dalla Samarcanda di Tamerlano alla Parigi di Napoleone; dal bunker di Hitler ai grandi musei dell’Occidente. Una piccola storia globale del furto d’arte dedicata a tutti coloro che, come Indiana Jones, sanno bene che le opere veramente importanti «dovrebbero stare in un museo». Buona lettura.

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MESOPOTAMIA

LADRI DI STATUE

TRA IL TIGRI E L’EUFRATE

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DA QUEL CHE RACCONTANO LE FONTI E DA QUANTO TESTIMONIANO LE RICERCHE ARCHEOLOGICHE, LA PALMA DI «PRIMI RAZZIATORI DELLA STORIA» VA ASSEGNATA AI POPOLI MESOPOTAMICI. PER I QUALI, APPROPRIARSI DELLE OPERE D’ARTE NON ERA SOLTANTO UNA DELLE CONSEGUENZE NATURALI DEI SUCCESSI OTTENUTI SUL CAMPO DI BATTAGLIA, MA RAPPRESENTAVA ANCHE UN’OPERAZIONE DALLE FORTI VALENZE SIMBOLICHE Disegno ricostruttivo nel quale si immagina il trasporto di una statua di culto dorata all’interno di una ziqqurat, la tipica torre templare a base quadrangolare mesopotamica che si elevava per terrazze digradanti, fino ad accogliere sull’ultima un tempio o cella templare, residenza di un dio.

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MESOPOTAMIA

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he il furto d’arte sia in qualche modo connesso alla nascita stessa del fenomeno artistico è attestato dal fatto che tale fattispecie criminosa è presente sin da epoche remote nei luoghi stessi in cui la grande arte fa la sua comparsa: la Mesopotamia e l’Egitto. E tuttavia, in queste due regioni, essa si presenta in forme molto diverse: se in terra egiziana sembra soltanto dettata da motivazioni economiche, nell’area della Mezzaluna fertile si evidenziano fattori stimolanti di altro genere, legati strettamente alle sfere della religione e della politica. A questo proposito, vale la pena di soffermarsi in primo luogo su una tipologia di furto d’arte tipicamente mesopotamica: quello dei rapimenti delle statue di divinità, un fenomeno che si verifica occasionalmente durante l’invasione e la conquista militare di un Paese. Per la sua piena comprensione si deve però accennare brevemente alla storia politica delle città-stato mesopotamiche e al loro sistema religioso.

Città-stato e monarchia L’area geografica alla quale ci riferiamo comprendeva quasi tutto il territorio dell’odierno Iraq. Essa era abitata, almeno a

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Ur

Kuwai t

Golfo Persico/ Golfo Arabico

In alto cartina dei territori corrispondenti all’antica Mesopotamia, con l’indicazione dei siti archeologici piú importanti. A destra statua di una divinità amorrea delle sorgenti, da Mari (oggi Tell Hariri, Siria), antica città sul medio Eufrate. XVIII sec. a.C. Aleppo, Museo Nazionale. La scultura era provvista di un canale interno, che le permetteva di funzionare come fontana, facendo zampillare l’acqua dal vaso che la dea tiene nelle mani.


A sinistra statuetta in calcite con occhi in avorio a intarsio raffigurante un toro androcefalo, da Tell Brak (Siria). Metà del III mill. a.C. Deir-ez-Zor, Museo Archeologico.

partire dal IV millennio a.C., da popolazioni semitiche giunte dai limiti settentrionali e nordorientali del deserto siro-arabico, a cui si affiancarono ben presto altre genti, da noi chiamate Sumeri, arrivate verosimilmente dalle rive iraniche del Golfo Persico. Questi due gruppi culturali rappresentarono il nucleo fondamentale del popolamento del Paese e, con una sorta di osmosi e simbiosi, crearono insieme una comune civiltà superiore. Ognuno aveva portato la propria cultura e parlava la propria lingua: quella dei semiti (detta, nel Paese, «accadico») è imparentata con l’aramaico e l’arabo; quella dei Sumeri non è ricollegabile a nessun’altra famiglia linguistica nota. I due popoli, inizialmente isolati, si incontrarono e si mescolarono piuttosto presto, mettendo in comune il loro «capitale culturale». Fin dalla seconda metà del IV millennio a.C., costruirono cosí una civiltà originale, ricca e raffinata, che ebbe il suo culmine, intorno al 3000 a.C., nell’invenzione della scrittura. L’evoluzione politica del Paese fu determinata dalla sua economia, largamente dipendente dalle grandi opere finalizzate all’irrigazione artificiale di un vasto territorio alluvionale (e dunque potenzialmente fertilissimo), ma caratterizzato da mancanza d’acqua.

A destra statua in alabastro della dea Ishtar, da Mari. III mill. a.C. Damasco, Museo Nazionale.

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MESOPOTAMIA

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In alto disegno ricostruttivo del possibile aspetto della città di Babilonia al tempo di Nabucodonosor II (r. 605-562 a.C.). Nella pagina accanto pannello in alabastro con un rilievo raffigurante i soldati assiri che trasportano il bottino razziato a seguito della presa di Lachish, città di Giuda, nel 701 a.C., dal palazzo di Sennacherib a Ninive. Arte neo-assira, 700-692 a.C. Londra, British Museum.

Lo scavo di una grande rete di canali in grado di trasportare l’acqua del Tigri e dell’Eufrate in luoghi molto lontani dai bacini fluviali necessitava infatti di un’autorità centralizzata, capace di coordinare e di dirigere un simile progetto. Di conseguenza, i villaggi, dapprima isolati e autarchici, si confederarono rapidamente in piccoli stati, caratterizzati da una burocrazia estremamente sviluppata. Nacque cosí e fu introdotto nel Paese il fondamentale principio politico che ne avrebbe contrassegnato l’intera storia: la monarchia. Durante il III millennio a.C., queste città-stato vissero fianco a fianco, entrando in conflitto solo in pochi casi, ma dall’inizio del II millennio la situazione cambiò: i Sumeri, definitivamente assorbiti dalla popolazione semitica, assai piú numerosa, scomparvero per sempre, anche se il sumerico lingua restò a lungo in uso come lingua liturgica e letteraria; inoltre, verso il 1750 a.C., il re di Babilonia Hammurabi unificò tutto il Paese in un unico regno. Gli abitanti delle cittàstato mesopotamiche erano decisamente

politeisti e rappresentavano i loro dèi (in accadico, ilu) sotto forme umane, ma senza le imperfezioni e le infermità degli uomini. Le divinità potevano essere di sesso maschile o femminile, e nelle fonti vi sono molti accenni alle loro straordinarie capacità sessuali; avevano figli, che erano anch’essi dèi, e, tutti insieme, componevano una famiglia divina; mangiavano, bevevano (a volte anche troppo), scherzavano, litigavano, si lavavano, si agghindavano, si muovevano sui carri o sulle navi, e abitavano nei templi. Inizialmente, ogni città aveva il proprio pantheon alla cui testa si trovava un dio particolare (il principio monarchico era applicato anche alle divinità). Solo dopo l’unificazione del Paese per mano di Hammurabi prende forma un autentico pantheon nazionale.

Il significato delle statue divine Nei riti religiosi mesopotamici, l’elemento centrale era svolto dalle statue di culto. Esse erano generalmente costituite da un nucleo interno di legno rivestito di metalli e pietre

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preziose, ma purtroppo il loro aspetto è noto solo nelle descrizioni presenti nella documentazione scritta. Spesso, quando parlano della loro fabbricazione, i testi delle tavolette mesopotamiche utilizzano una terminologia legata a quella della nascita degli esseri umani, giacché la statua di culto non veniva considerata come un’opera d’arte: essa era, a tutti gli effetti, il dio. In particolare, sappiamo che per infondere nella statua lo spirito divino, si procedeva al rituale del Mis pî, il lavaggio della bocca, dopo il quale, questa cessava appunto di essere una statua e si trasformava nell’incarnazione del dio. Non a caso, la letteratura conservata si riferisce a tali oggetti come a divinità. Inoltre, secondo la tradizione, le statue dovevano essere approvate dagli dèi stessi che dovevano rappresentare, ed essi davano inizio alla loro costruzione. In un caso interessante, il tempio di Shamash, grande divinità solare della guerra e della giustizia, si dovettero attendere centocinquant’anni prima che il dio rivelasse la nuova forma che la sua statua avrebbe dovuto assumere. Analogamente, si credeva che le divinità potessero abbandonare le loro statue se non approvavano piú il loro aspetto. Per esempio, nel testo noto come Epica di Erra, il dio accadico Erra convince Marduk, nume tutelare di Babilonia, ad abbandonare la sua statua, perché essa ha bisogno di restauri. Marduk cade nella trappola del suo collega e lascia la statua, cosicché Erra è libero di creare scompiglio. A un caso simile allude un’iscrizione del re assiro Esarhaddon (681-669 a.C.), in cui si afferma che Marduk, adirato con Babilonia, avrebbe abbandonato il suo tempio, causando la rovina della città, i cui abitanti furono ridotti in schiavitú.

Il dio e la città Oltre che dalle statue, gli dèi potevano essere rappresentati anche da simboli speciali come dischi solari, corone cornute, vesti, armi, animali. Ma il rapporto tra il dio e la statua era fondamentale: a essa venivano offerti pasti in vari momenti del giorno, giacché si credeva

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che gli dèi avessero bisogno di nutrimento per poter sopravvivere, e i fedeli davanti alla statua si ritenevano in presenza del dio. Un elemento costante della religione mesopotamica è il particolare rapporto di patronato che ogni divinità stabiliva con una città. Per esempio, Shamash era adorato a Sippar, dove si trovava il suo tempio, l’Ebabbar. Proprio questa relazione esclusiva tra il dio, la statua di culto e la città rappresenta la chiave per comprendere il senso dei furti di statue nell’antica Mesopotamia: sottrarre alla città nemica la propria divinità significava infatti privarla della sua protezione e porre le basi della sua sconfitta.

Furti e distruzioni Che i Babilonesi, gli Assiri e, successivamente, i Persiani fossero soliti impadronirsi delle opere d’arte del nemico è dimostrato, per esempio, dai numerosi monumenti di origine straniera rinvenuti nelle loro capitali. Di questi saccheggi possediamo anche documenti figurativi, come i rilievi di Khorsabad, e letterari, come le tavole cuneiformi e le incisioni su pietra. Tra i tesori di cui Sargon II (721-705 a.C.) fece bottino durante la campagna contro il re di Urartu nella città di Urzana, si trovavano, per esempio, oltre a una quantità di oro e di pietre preziose, la statua del dio Haldia trafugata dal tempio, nonché una statua di bronzo proveniente dall’ingresso del tempio e raffigurante una vacca nell’atto di allattare il suo vitellino. Cosí riferisce lo stesso Sargon in un’iscrizione votiva al dio Assur. Anche Assurbanipal (668-631 a.C.) che, grazie alla sua biblioteca di tavolette cuneiformi interamente conservata e ai bassorilievi del palazzo di Ninive, è il meglio conosciuto tra i re assiri, compose un dettagliato resoconto della sua campagna contro gli Elamiti nell’anno 639 a.C., descrivendo la presa di Susa, loro capitale, e le opere d’arte trafugatevi. I rilievi assiri oggi conservati al Museo del Louvre documentano in immagini il trasporto del bottino. La documentazione piú interessante sui furti delle statue di culto mesopotamiche è


La Porta di Ishtar, ricostruita all’interno del Vorderasiatisches Museum di Berlino. Realizzato da Nabucodonosor II (r. 605-562 a.C.), il magnifico monumento, che era una delle otto porte di Babilonia, giunse in Germania all’indomani degli scavi condotti nel sito da Robert Koldewey, dal 1899 al 1917.

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costituita dai cosiddetti Annali assiri, una collezione di iscrizioni reali incise sulle mura del palazzo e su varie stele. L’uso di impadronirsi delle statue divine delle città-stato nemiche era certamente molto antico, ma è ben attestato a partire dall’epoca del re assiro Tiglatpileser I, alla fine dell’XI secolo a.C.

Rapire (e restituire!) gli dèi Il furto aveva un’efficacia tanto piú grande quanto piú importante era il dio che veniva «rapito»: tra le piú famose divinità sottratte, le iscrizioni menzionano Marduk, Haldia e Bagbartum. Ma a volte si preferiva una soluzione piú radicale e violenta. In una famosa epigrafe da Bavian (località del Kurdistan iracheno) il re assiro Sennacherib (704-681 a.C.) afferma di aver marciato contro Babilonia e fa riferimento alla distruzione delle statue degli dèi, attribuendone la responsabilità alle sue truppe. Ciò è particolarmente interessante, in quanto il sovrano rivendica a se stesso in prima

In alto estremità bronzea di un timone in forma di dragone cornuto, simbolo del dio babilonese Marduk, da Hillah (Iraq). VII-VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

persona l’onore e l’onere di tutte le altre azioni. Probabilmente, Sennacherib voleva evitare di incorrere nelle maledizioni connesse alla distruzione di oggetti preziosi; inoltre, autorappresentandosi come un monarca pio, egli non desiderava essere coinvolto nella distruzione di statue di culto che raffiguravano l’annientamento delle divinità babilonesi. Rispetto alla loro distruzione, il furto delle statue era certamente un crimine meno grave, anche perché c’era la possibilità di restituirle. Alcune tarde iscrizioni degli Annali assiri menzionano la riconsegna ai legittimi proprietari delle statue di vari dèi. Un’iscrizione del re Esarhaddon allude al furto di alcune divinità dell’Arabia e afferma che esse furono successivamente rinviate nella loro terra dopo un periodo di esilio forzato in Assiria come segno della benevolenza del re nei confronti delle popolazioni di quella regione. Taluni sovrani si gloriano di aver riportato un certo numero di città ai loro antichi fasti, restituendo loro gli dèi e ricostruendo i loro templi. Il furto e la restituzione delle statue divine rivelano dunque tutto il loro potenziale politico: essi sono infatti strumenti nelle mani dei sovrani che possono essere usati sia in chiave ostile sia in chiave diplomatica. In un capitolo dedicato ai furti d’arte in Mesopotamia il posto d’onore va senz’altro A sinistra ancora un pannello dal palazzo di Sennacherib a Ninive, raffigurante il re assiro che vede sfilare davanti a sé il bottino razziato a Lachish. Arte neo-assira, 700-692 a.C. Londra, British Museum.

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La distruzione degli dèi di Babilonia

La celebre iscrizione sul rilievo scolpito di Bavian (Iraq settentrionale; qui in un’illustrazione del 1849) contiene una notevolissima descrizione della distruzione di Babilonia operata nel 689 a.C. dal re assiro Sennacherib, che lo stesso sovrano descrive dettagliatamente (e con qualche esagerazione) nelle righe 43-54 dell’epigrafe. Di grande interesse è, appunto, l’accenno alla distruzione delle statue degli dèi babilonesi, che Sennacherib attribuisce ai suoi uomini: «Nella mia seconda campagna marciai rapido contro Babilonia bramando di conquistarla: mi scatenai come un uragano ricoprendola come un nebbione, la strinsi d’assedio e la conquistai aprendo brecce nelle mura e scalandole. Non risparmiai persona né piccola né grande e riempii le strade della città di cadaveri, deportai nel mio paese il re di Babilonia Šuzubu assieme alla sua famiglia [e a ...], distribuii ai [miei uomini] le proprietà di quella città, argento, oro, pietre preziose, beni e proprietà e se ne appropriarono essi. I miei uomini si impossessarono degli dèi che vi abitavano e li fecero a pezzi, e si presero i loro [beni] e proprietà, mentre io ricondussi dopo 418 anni da Babilonia a Ekallate, nelle loro sedi, Adad e Shala, gli dèi di Ekallate che Marduk-nadin-ahhere di Akkad (1100-1083 a.C.) al tempo di Tiglatpileser (I) re di Assiria (1115-1077 a.C.) si era preso e aveva trasportato a Babilonia. Distrussi, rasi al suolo e detti alle fiamme la città e gli edifici dalle fondamenta alle merlature, strappai tutti i mattoni e la terra delle mura esterne e interne, dei templi e della ziqqurat e li gettai nel canale Arahtu. Scavai canali nel mezzo di quella città, spianai con l’acqua il suo territorio e ne distrussi la pianta fino alle fondamenta devastandola piú del Diluvio. Perché in futuro il sito di quella città e dei templi non fosse piú riconoscibile la spazzai via con l’acqua fino a ridurla a una piana». (traduzione di Giuseppe Del Monte)

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MESOPOTAMIA | Jacques de Morgan: un Indiana Jones del XIX secolo | riservato a Shutruk Nakhunte, autore di quelli che potremmo considerare i tre «colpi» piú importanti del II millennio a.C. Shutruk Nakhunte era un re dell’Elam, un’area corrispondente alle regioni del Khuzistan e del Fars, nell’attuale Iran. I due centri principali del regno elamita furono Susa, nell’estensione sud-orientale del bassopiano mesopotamico, e Anshan, identificata con il sito di Tall-i Malyan, nella piana di Marvdasht (a nord-est di Shiraz). Il regno raggiunse l’acme della sua potenza nel XII secolo a.C., approfittando del logoramento reciproco tra Assiria e Babilonia.

Shutruk Nakhunte: il re dei ladri In questo periodo, nacque una nuova dinastia, che fece di Susa, con il suo dio protettore In-Shushinak, il centro del regno. Di tale dinastia, Shutruk Nakhunte fu uno dei sovrani piú importanti: egli rafforzò notevolmente il regno in tutta la sua estensione, dalle sponde del Golfo Persico sino ai confini della Mesopotamia, concentrando nella rinnovata capitale, Susa, i monumenti dei precedenti re dell’Elam. La vittoriosa spedizione dell’assiro Ashur-dan contro Babilonia forní a Shutruk Nakhunte il quadro piú favorevole per intervenire a sua volta in Mesopotamia. L’estensione della sua campagna militare si può seguire nella sua stessa iscrizione celebrativa, integrata dai luoghi di provenienza dei monumenti che egli portò a Susa come bottino di guerra: il sovrano elamita percorse inizialmente le regioni a est del Tigri, poi piegò a ovest, oltre il fiume, nella Babilonia settentrionale, infine, scese a sud verso Akkad e Kish, fino a Babilonia. Conquistata la città, vi lasciò come governatore suo figlio e tornò a Susa carico di prede, tra le quali figuravano tre eccezionali opere d’arte razziate dai templi babilonesi: la stele di Naram-Sin, l’obelisco di Manishtusu e la stele contenente

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acques de Morgan nasce a Huisseau-sur-Cosson (Loir-et-Cher, Francia centrale) il 3 giugno del 1857. Grazie alle amicizie del padre, durante la sua adolescenza ebbe modo di frequentare molti archeologi celebri e di partecipare a brevi campagne di scavo sul suolo francese. Non ancora trentenne, viaggia in Scandinavia, Boemia, Romania, Armenia, India (dove visitò le famose miniere di Golconda e le rovine di Vijayanagar), Malesia e Caucaso, occupandosi di geologia, zoologia, etnologia e botanica. Dopo una breve parentesi lavorativa come consulente minerario, a partire al 1888 si dedica totalmente all’archeologia. Dopo essersi interessato ai monumenti armeni e georgiani, de Morgan intraprende un lungo viaggio in Persia (1889-1892) i cui risultati scientifici furono pubblicati in cinque volumi, A sinistra statua in diorite di Manishtusu, re di Akkad. 2270 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Portata a Susa come bottino di guerra nel XII sec. a.C., l’opera fu ritrovata da Jacques de Morgan.


comparsi fra il 1894 e il 1904. Successivamente è nominato direttore del Servizio di Antichità dell’Egitto (1892-1897): in questo periodo, si dedica allo scavo della grande necropoli di Dahshur e ha la fortuna di scoprire il tesoro delle principesse nelle gallerie delle regine della piramide di Sesostri III. Nel frattempo, nel 1895 gli viene assegnata anche la responsabilità degli scavi archeologici francesi in Persia, che dirige per quindici anni, dal 1897 al 1912. Installatosi a Susa con un budget notevolissimo (230 000 franchi circa solo per il primo anno), dà inizio agli scavi dell’acropoli, utilizzando piú di 1000 operai. Nel corso dei lavori molte vestigia vengono distrutte, ma de Morgan trova fra l’altro la stele di NaramSin, la statua in bronzo della regina elamita Napir-Asu e il codice di Hammurabi, tre monumenti che andranno a costituire altrettanti pezzi forti della collezione orientale del Louvre. Nel 1907 egli subisce duri attacchi da parte dei suoi collaboratori e della Corte dei Conti, ma è assolto dalla Camera dei Deputati. Nel 1912, si dimette per motivi di salute. Gli scavi di Susa furono successivamente diretti da Roland de Mecquenem (1913-1946), Roman Ghirsham (1946-1967) e Jean Perrot (1968-1979). Tornato in patria, de Morgan si ritira nel Sud della Francia; abbandonato dalla famiglia e dalla maggior parte dei suoi amici, muore in miseria a Marsiglia, il 12 giugno del 1924. Molti dei suoi libri furono pubblicati solo dopo la sua morte.

Nella pagina accanto, in alto Jacques de Morgan in una foto scattata intorno al 1897. In basso statua in bronzo e rame della regina Napir-Asu, trovata nel 1903 da Jacques de Morgan a Susa. 1340-1300 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

il codice di Hammurabi. Tre monumenti celeberrimi, riscoperti solo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo grazie agli scavi condotti a Susa dall’archeologo francese Jacques de Morgan (vedi box qui accanto).

L’obelisco di Manishtusu Il piú antico degli oggetti rubati da Shutruk Nakhunte a Babilonia è il cosiddetto «obelisco di Manishtusu», una stele di forma piramidale che serviva da supporto a una grande iscrizione cuneiforme redatta in accadico (vedi foto a p. 18). Questo monumento, eretto da Manishtusu (2270-2255 a.C.), figlio di Sargon e terzo re della dinastia di Akkad, è un documento molto importante per la storia del diritto mesopotamico. Come altri monumenti simili (tra cui una statua dello stesso re), esso fu portato a Susa come bottino. Scolpita nella diorite, la stele testimonia dell’apprezzamento dei re accadici per questa pietra, che essi facevano venire dal paese di Magan (Oman) e che utilizzavano soprattutto per le loro stele di vittoria e per le loro statue. In un testo di una tavoletta di argilla, Manishtusu stesso afferma che «dalle montagne al di là del Mare inferiore (cioè del Golfo Persico) egli trasse delle pietre nere; le caricò su delle navi e le trasportò sulle rive di Akkad. Modellò la sua statua e la dedicò al dio Enlil». L’iscrizione cuneiforme, che copre le quattro facce della stele, è caratterizzata da un’eccezionale qualità grafica e decorativa, e mostra l’abilità degli artisti accadici nel lavorare questa pietra particolarmente dura. Il contenuto del testo ricorda come il re Manishtusu abbia effettuato vari acquisti di terre nella regione di Kish, luogo di origine della dinastia, distribuendo poi i lotti ai suoi ufficiali per assicurarsene la fedeltà. Perché Shutruk Nakhunte, scelse di trasferire a Susa la stele? Certamente, un ruolo importante deve aver svolto la sua bellezza formale, ma la motivazione principale deve essere stata

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MESOPOTAMIA

piuttosto quella politica. Portando a Susa gli antichi monumenti e documenti dei grandi re mesopotamici, il re elamita rivendicava esplicitamente per se stesso il ruolo di erede della potenza babilonese e per la sua capitale il rango di «nuova Babilonia».

La stele di Naram-Sin Il secondo capolavoro scelto da Shutruk Nakhunte per adornare Susa è la celeberrima stele di Naram-Sin, che oggi fa bella mostra di sé nel Museo del Louvre (vedi foto alla pagina accanto). Naram-Sin (2254-2218 a.C.), nipote di Sargon di Akkad, fu uno dei piú grandi sovrani orientali. Conquistatore e costruttore, guidò i suoi eserciti in varie spedizioni. Ma il monumento che rende immortale questo re guerriero è appunto la stele monolitica in arenaria rossa oggi custodita a Parigi, ma originariamente eretta a Sippar, nell’odierno Iraq, e ritrovata a Susa, nell’odierno Iran, dove era stata portata come bottino di guerra circa mille anni piú tardi. Qui l’arte accadica si esprime in tutto il suo genio. Sulla stele sono rappresentati quindici personaggi che appartengono a due eserciti: otto soldati da una parte, sette dall’altra; il re si trova davanti ai suoi, dominando i combattenti con la sua statura gigantesca. La scena si svolge in una regione montagnosa e selvatica, la terra dei Lulubi, antichissima popolazione montanara del Kurdistan. I guerrieri accadici vengono avanti in una doppia colonna ascensionale. Fanteria leggera con le insegne spiegate, di fronte alle quali il nemico fugge chiedendo pietà. Naram-Sin calpesta

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due cadaveri sovrapposti mentre dalle rocce ne cade un altro. Arco e ascia in una mano, giavellotto nella destra, il sovrano, coronato come un dio da una tiara cornuta, è giunto ai piedi di una montagna. Due astri raggianti nel firmamento sono la sola allusione alle divinità favorevoli che hanno presieduto a questa indubbia vittoria: l’esercito nemico conta soltanto i morti, i feriti e i fuggiaschi. Anche in questo caso, l’elemento estetico si fonde in maniera mirabile con quello politico, giustificando ampiamente la scelta di Shutruk Nakhunte. La terza opera d’arte rubata da Shutruk Nakhunte a Babilonia è uno dei monumenti piú celebri al mondo: un’alta stele in pietra scura che costituisce il fiore all’occhiello della collezione di antichità orientali del Louvre sin dal 1902, quando fu scoperta a Susa dagli scavatori della missione di Jacques de Morgan. Alla sommità della stele, sulla faccia principale, un rilievo rappresenta il re Hammurabi di Babilonia (17921750 a.C. circa), nell’atto di ricevere dal dio Marduk le insegne del potere regale. Sotto questa immagine sono

LE GESTA DEL RE L’obelisco in diorite di Manishtusu, figlio di Sargon e terzo re della dinastia di Akkad. 2270 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. L’opera fu trovata nel 1898 da Jacques de Morgan a Susa, dove era stata portata da Shutruk Nakhunte, re dell’Elam. L’iscrizione, incisa con grande eleganza, ricorda gli acquisti di terre effettuati da Manishtusu nella regione di Kish, luogo di origine della dinastia; il sovrano distribuí poi i lotti ai suoi ufficiali per assicurarsene la fedeltà.


incise ventitré colonne di un’iscrizione, che continua sul retro per altre ventotto colonne (le ultime sette della facciata principale sono state fatte scalpellare dal sovrano elamita, probabilmente per farvi aggiungere una sua iscrizione, che però non fu mai incisa): in totale, piú di 3500 righe iscritte.

All’alba del diritto In questo lungo testo si alternano prosa e versi. Nel prologo, Hammurabi si dichiara chiamato dagli dèi alla gloria militare e politica del suo Paese, che proclama di aver garantito mediante una serie di conquiste, elencate per intero; egli presenta la parte legislativa che segue come un insieme di misure prese da lui, sovrano esperto e giusto, per realizzare la volontà divina. Nell’epilogo, il re sottolinea invece la saggezza e l’equità delle decisioni riportate nel corpo del testo, e le offre come eterno modello ai sovrani del futuro. Il codice propriamente detto si presenta come una serie di clausole apparentemente ordinate per regolamentare la condotta sociale dei sudditi del regno. Tali clausole sono raggruppate a seconda dei diversi settori della vita sociale: false

STORIA DI UN TRIONFO Stele in calcare che celebra la vittoria di Naram-Sin, re di Akkad. 2250 a.C. Parigi, Museo del Louvre. È un’altra delle grandi opere d’arte razziate in Mesopotamia dal re elamita Shutruk Nakhunte, e da questi trasportata a Susa, dove fu ritrovata da Jacques de Morgan nel 1898. Sulla stele sono rappresentati quindici personaggi che appartengono a due eserciti: otto soldati da una parte, sette dall’altra; il re si trova davanti ai suoi, dominando i combattenti con la sua gigantesca statura. La scena si svolge in una regione montagnosa e selvatica, la terra dei Lulubi, antichissima popolazione montanara del Kurdistan.

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testimonianze; furto; feudi reali; lavoro agricolo; locali d’abitazione; commercio; depositi e debiti; donna e famiglia; percosse e ferite; professioni; schiavi.Contrariamente a quanto ancora si crede, se il codice di Hammurabi è effettivamente il piú ampio e meglio conservato, non è il solo né il piú antico fra i documenti cuneiformi di questo tipo giunti fino a noi. Sono stati infatti ritrovati una decina di codici analoghi sparsi per la Mesopotamia: il piú antico risale all’epoca di Ur-Nammu (2111-2046 a.C. circa), il fondatore della III dinastia di Ur, il piú recente è della metà del I millennio a.C.

Un manifesto politico Inoltre, la famosa stele del Louvre non è l’unico esemplare conosciuto del codice di Hammurabi: sono stati infatti ritrovati una quarantina di frammenti di questo testo, provenienti da varie località mesopotamiche; tuttavia, i tre quarti di questi frammenti sono copie molto posteriori all’epoca di redazione del codice. In effetti, come ha giustamente notato il grande archeologo Jean Bottéro, piú

LE LEGGI DI HAMMURABI Q

uelli che seguono sono alcuni degli «articoli» piú interessanti del Codice di Hammurabi. Saltano immediatamente agli occhi l’estrema severità delle pene e l’applicazione sistematica della legge del taglione. Dalla lettura integrale del testo si evince che la società babilonese dell’epoca era divisa in tre classi: «cittadini liberi», «cittadini comuni» e «schiavi», e che le leggi di Hammurabi stabilivano per il medesimo delitto pene diverse a seconda dello status del reo e di quello della vittima. • Se un uomo ha sporto contro un altro un’accusa di omicidio senza fornirne le prove, l’accusatore sarà messo a morte. • Se un uomo vincolato da un obbligo, ha venduto o dato in servitú sua moglie, suo figlio o sua figlia: questi ultimi lavoreranno tre anni al servizio del loro acquirente o detentore; ma, dopo questi tre anni, saranno rimessi in libertà.

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che un vero e proprio codice di leggi, il testo noto come codice di Hammurabi è un manifesto politico, fondato innanzitutto sulla coscienza della virtú tipicamente regale della giustizia; è un testamento politico, che condensa una visione complessa, dettagliata e ordinata dell’esercizio equanime di tale virtú, ed è perciò un vero e proprio trattato di giurisprudenza. Che questo «codice», nel periodo di Hammurabi e in quello immediatamente successivo, sia stato usato per regolamentare determinati settori della vita sociale è ben possibile, ma il testo presente sulla stele non è solo il risultato di un intento legislativo: esso è piuttosto un documento esemplare, degno di essere diffuso e ricopiato attraverso i secoli, che simboleggia le virtú politiche della regalità mesopotamica. È questo, in fondo, il motivo per cui Shutruk Nakhunte, che aveva ben compreso come negli antichi monumenti mesopotamici risiedesse una straordinaria fonte di auto legittimazione etico-politica, volle assolutamente appropriarsene.

Sulle due pagine veduta integrale e particolari del Codice di Hammurabi, re di Babilonia. 1792-1750 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Portata a Susa da Shutruk Nakhunte nel XII sec. a.C., la stele fu ritrovata dalla missione francese guidata da Jacques de Morgan nell’inverno 1901-1902.

• Se una donna non è discreta, ma di facili costumi, tanto che dissipa la sua casa e discredita il marito, questa donna verrà gettata in acqua. • Se un medico ha risistemato il membro rotto di un notabile, o ha ridato la salute a uno dei suoi muscoli malati, il paziente darà al medico la somma di cinque sicli. • Se uno schiavo ha dichiarato al suo padrone: «non sei piú il mio padrone!», quando si sarà appurato che è proprio il suo schiavo, il suo padrone avrà il diritto di tagliargli l’orecchio. • Se un capomastro non ha assicurato la solidità di una casa che gli si è fatta costruire, e se allora la casa cosí costruita da lui crolla, provocando la morte del proprietario, questo capomastro sarà messo a morte. Se a causa di questo crollo si è verificata la morte del figlio del proprietario, si metta a morte il figlio del capomastro.

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EGITTO

3 giugno 1886. Nel Museo di Bulaq, quartiere del Cairo che ospitò la prima sede del futuro Museo Egizio, l’egittologo francese Gaston Maspéro, alla presenza del khedivè Tawfiq, sbenda la mummia di Ramesse II, trovata nella cachette dei Deir el-Bahari. Illustrazione tratta dal settimanale francese Le Monde Illustré.

LA PIAGA DEI SACCHEGGI E DELLE RAZZIE, SOPRATTUTTO AI DANNI DEI MONUMENTI FUNERARI, HA ORIGINI ANTICHE. NE SONO PROVA I NUMEROSI EPISODI VERIFICATISI NELL’ANTICO EGITTO, DOVE SI GIUNSE PERFINO A CREARE UN NASCONDIGLIO PER SALVARE LE MUMMIE DEI FARAONI PIÚ CELEBRI | 22 | LA GRANDE RAZZIA |


I PRIMI «TOMBAROLI» DELLA STORIA

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EGITTO

Mar Mediterraneo Porto Said Alessandria El Alamein

Cairo Giza

Suez

Saqqara

Menfi Ain Sukhna

Nilo

Fayyum Gharib

Al-Minya

Sina i Golfo di Suez

Beni Hassan Tell el-Amarna Asyut Sohag

Akhmim

el-Balyana Qena Abido Coptos Dendera Deir el-Bahari Tebe Luxor Esna Egitto

Edfu Kom Ombo Assuan

C

ome ben sa chi ha avuto la fortuna di visitare il Museo Egizio del Cairo, una delle sue attrazioni principali è senza dubbio la sala delle mummie reali, in cui sono esposte ventisette mummie di faraoni e regine dell’Egitto, tra cui tra cui quelle di Sethi I, Thutmosi I, II e III, Amenofi I, Ahmes Nefertari, Tao II, Ramesse II e III. Forse non tutti sanno che la maggior parte di queste mummie è stata rinvenuta in un’unica tomba – la cosiddetta «cachette», oggi nota con la sigla TT320 (o DB320) – sita presso Deir el-Bahari, nella necropoli tebana. Nelle vicende legate a questo sepolcro si intrecciano in modo romanzesco crimini antichi e moderni e grandi scoperte archeologiche: una storia che merita davvero di essere raccontata. Nell’estate del 1871 un abitante del villaggio di Qurna, alla ricerca di oggetti antichi, scoprí una tomba piena di sarcofagi accatastati uno

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Cartina dell’Egitto, con l’indicazione dei siti archeologici piú importanti.

sull’altro. Molti di essi erano coperti di cartigli e, nella parte anteriore, vi era rappresentato l’ureo. Gli abitanti di Qurna, che avevano spesso preso parte come operai agli scavi archeologici della Valle dei Re, sapevano che questi erano segni della dignità reale, e il nostro uomo conosceva troppo bene il suo lavoro per non indovinare al primo sguardo che la fortuna gli aveva consegnato un sotterraneo


pieno di faraoni. Una cosa del genere non si era mai vista a memoria d’uomo; ma lo sfruttamento di questa straordinaria scoperta si presentava molto difficile.

Un saccheggio... complicato I sarcofagi erano numerosi e pesanti e per rimuoverli sarebbe stata necessaria almeno una dozzina di operai; inoltre la camera

L’anfiteatro naturale di Deir el-Bahari, con, in basso, il tempio della regina Hatshepsut. A Deir el-Bahari furono nascoste oltre 40 mummie di sovrani, regine e dignitari.

funeraria era accessibile solo da un profondo pozzo e ciò rendeva il lavoro di asportazione del materiale assai difficile. Per impadronirsene, lo scopritore avrebbe dovuto mettere al corrente dell’esistenza del tesoro i suoi vicini, con il rischio che qualcuno potesse riferire la cosa al governatore della provincia o al direttore degli scavi. Inizialmente, egli informò della sua scoperta solo due fratelli e un figlio, che lo

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EGITTO

aiutarono a togliere le fasce ad alcune mummie per rimuovere alcuni oggetti facili da trasportare e nascondere (statuette funerarie, papiri, ecc.). In dieci anni, essi scesero solo tre volte all’interno della tomba, di notte, restandovi solo per qualche ora, e nessuno sospettò mai nulla. Ogni inverno, vendevano ai viaggiatori europei o americani qualche elemento del bottino che avevano riportato dalle loro «spedizioni», sperando sempre che capitasse a Tebe uno studioso inviato in missione dal suo governo o un turista abbastanza ricco per acquistare in blocco i faraoni e ottenere il lasciapassare della dogana egiziana.

L’inchiesta di Gaston Maspéro Nel villaggio di Qurna, per il piccolo gruppo di «tombaroli faraonici», tutto sembrava andare

nel migliore dei modi. Tuttavia, alcuni degli oggetti che essi avevano venduto, erano giunti in Europa, attirando l’attenzione di alcuni tra i principali egittologi dell’epoca. Tra questi, c’era Gaston Maspéro, erede della cattedra di Jean-François Champollion al Collège de France e direttore generale degli scavi e delle antichità in Egitto. Analizzando il materiale pubblicato in alcune riviste scientifiche, egli si rese conto, già nel 1878, che qualcuno doveva aver scoperto uno o piú ipogei di un gruppo sconosciuto di tombe reali della XXI dinastia. Di conseguenza, Maspéro diede inizio a una lunga inchiesta che lo portò, in primo luogo, a identificare i personaggi coinvolti nell’affaire: un certo ‘Abd al-Rasul Ahmad e suo fratello Muhammad ‘Abd al-Rasul, del villaggio di Qurna, e Mustafa Agha Ayat, agente consolare di Inghilterra, Belgio e Russia a Luxor,

A sinistra l’imbocco della cachette di Deir el-Bahari, costituito da un pozzo profondo 13 m.

A destra la posizione dell’ingresso della cachette, in uno dei bracci dell’anfiteatro roccioso, sopra il tempio funerario di Hatshepsut. La tomba fu ufficialmente scoperta nel 1881, ma era stata già individuata, e parzialmente depredata, da scavatori clandestini.

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DEIR EL-BAHARI


In alto una pagina del Libro dei Morti di Pinedjem II, che, inizialmente, era il titolare della tomba di Deir el-Bahari successivamente trasformata nella cachette reale. XXI dinastia, 1070-945 a.C. Londra, British Museum. La vignetta accanto al testo raffigura lo stesso Pinedjem II nelle sue vesti di «primo profeta di Amon», mentre fa un’offerta a Osiride.

quest’ultimo coperto da immunità diplomatica. Il 4 aprile del 1881 ‘Abd al-Rasul Ahmad venne arrestato e accusato di scavi clandestini, vendita non autorizzata di papiri e statuette, rottura di sarcofagi e di oggetti d’arte appartenenti allo Stato egiziano. L’uomo, però, durante l’interrogatorio a cui fu sottoposto in presenza di Maspéro, negò ogni addebito e, dopo alcuni mesi, fu rimesso provvisoriamente in libertà. Ma a questo punto, all’interno della famiglia ‘Abd al-Rasul scoppiò una contesa, giacché Ahmad pretendeva un cospicuo risarcimento per i mesi di prigione che aveva dovuto scontare, minacciando, in caso contrario, di rivelare tutto alla direzione degli scavi. Dopo un mese di discussioni e di litigi, Muhammad, il fratello piú anziano, temendo di essere tradito, si recò segretamente dal governatore di Luxor e confessò di conoscere il luogo cosí faticosamente e inutilmente

ricercato dalle autorità. Dopo una serie di consultazioni fra le autorità ottomane e lo stesso Maspéro, il 6 luglio Muhammad ‘Abd al-Rasul accompagnò una commissione di notabili locali e archeologi alla tomba: ma non fu Maspéro, in quel momento assente, che tanto si era prodigato per la soluzione del mistero, a presenziare all’esplorazione ufficiale della cachette, bensí Emil Brugsch, assistente di Auguste Mariette.

La scoperta ufficiale Da un pozzo profondo 13 m, il gruppo imbocca uno stretto corridoio, che compie una svolta di 90 gradi per giungere a un secondo corridoio che conduce a una sorta di vestibolo, probabilmente una camera sotterranea incompiuta; tramite due rampe di scale si giunge quindi a un terzo lungo corridoio che porta alla camera funeraria di fondo. Quando

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EGITTO

scendono nella galleria, Emil si sente soffocare, teme di non riuscire a raggiungere i sarcofagi, poi supera la crisi e rimane esterrefatto: In quella tomba, in quella cachette, vi sono moltissime mummie, numerosi gioielli e sarcofagi che portano incisi i nomi di Ahmose, dei tre Tuthmosi, di Amenofi I, dei tre Ramesse e delle regine Ahhotep, Nefertari, Hatshepsut, oltre a quelli di principi e principesse. Tutti rimasero impressionati dall’abilità con cui gli antichi architetti responsabili dello scavo della tomba ne avevano dissimulato la presenza fra le colline sovrastanti la necropoli tebana. Per evitare ulteriori furti, le mummie e tutti i corredi furono subito trasportati al Museo di Bulaq, e oggi, come già accennato in precedenza, si trovano nelle collezioni del Museo Egizio del Cairo.

Salvate le mummie reali! Come annotò Gaston Maspéro, «il successo oltrepassava tutte le speranze». L’archeologo

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A destra, sulle due pagine il coperchio del sarcofago e un particolare della mummia di Ramesse II. 1290-1224 a.C. Il Cairo, Museo Egizio. In basso l’egittologo Gaston Maspéro (1846-1916). Nel 1880 divenne direttore della missione archeologica francese in Egitto; succedette quindi ad Auguste Mariette come direttore del Museo di Bulaq e poi del Servizio egiziano delle antichità, che riorganizzò su basi scientifiche.


francese pensava che si sarebbe trovato al cospetto di due o tre sovrani di secondo piano, e invece i fellah di Qurna avevano dissotterrato intere dinastie di faraoni. E che faraoni! I piú illustri che avessero regnato sull’Egitto: Tuthmosi III, Sethi I, Ramesse II…! Lo studio delle iscrizioni presenti nella tomba rivelò che quest’ultima era stata inizialmente prevista per essere l’ultima dimora del «primo profeta di Amon» Pinedjem II, di sua moglie e di molti altri membri della sua famiglia. Pinedjem II morí intorno al 969 a.C., un periodo di grave crisi per l’Egitto. Ma mentre il profeta di Amon era ancora in vita, gli amministratori preposti al controllo della necropoli reale presero una decisione estrema, in seguito alla quale un numero notevole di mummie dei faraoni delle dinastie precedenti fu raccolto in questa tomba cosí ben nascosta. Lo scopo era evidentemente quello di proteggere i resti dei grandi dell’Egitto dalla voracità dei tombaroli, che ormai costituivano una vera e propria piaga impossibile da controllare. All’entrata del corridoio principale si trova un’iscrizione tracciata a pennello in ieratico, che ricorda la chiusura della cachette delle mummie reali durante l’anno 10 del regno del faraone Siamun (XXI dinastia, 978-959 a.C.).

Guardie e ladri nella Valle dei Re Ma perché si era giunti a una decisione cosí radicale? Perché si era dovuti giungere al punto di disturbare il sonno eterno dei piú grandi faraoni della storia egiziana, profanando le loro tombe regali per ammassare le loro mummie in una piccola tomba nascosta sulla montagna? Era davvero cosí difficile estirpare la malapianta dei cacciatori di tesori? La risposta a queste domande è contenuta in alcuni interessantissimi documenti risalenti al periodo della XX dinastia: sono gli atti dei processi intentati contro i «tombaroli», che fanno emergere una realtà del tutto insospettata, alzando il sipario sulle continue ruberie a cui erano sottoposte le ultime dimore dei re dell’Egitto tra l’epoca di Ramesse IX e quella di Ramesse XI (1525-1060 a.C.).

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EGITTO

LA VALLE DEI RE I

n una valle desertica situata vicino all’antica città di Tebe (l’odierna Luxor), il cui accesso è a meno di 3 km dalla riva occidentale del Nilo, nel periodo compreso tra la XVIII e la XX dinastia (XVI-XI secolo a.C.) sorse una grande città dei morti, nella quale furono sepolti quasi tutti i faraoni del tempo. L’ancor oggi impressionante maestosità del luogo, sovrastato dalla piramide naturale rappresentata dalla vetta del monte Qurn, può essere stata una delle

ragioni della scelta di questa valle, a cui si aggiunse anche la venerazione della dea Hathor, che aveva il suo centro di devozione presso la vicina parete rocciosa di Deir el-Bahari, dove anche la regina Hatshepsut e il grande faraone Tuthmosi III avevano eretto templi per il loro culto funebre. Le tombe della Valle dei Re, insieme alle piramidi, costituiscono la testimonianza piú suggestiva del culto dei morti dell’antico Egitto. Splendide per la ricchezza dei tesori che contengono, per le decorazioni che le abbelliscono, per la raffinata simbologia che celano, esse rappresentano una fonte inesauribile per la conoscenza della concezione egizia dell’oltretomba e fanno della Valle dei Re uno dei siti archeologici piú importanti del mondo, visitato, fin dall’antichità, da pellegrini, viaggiatori, filosofi e studiosi provenienti da ogni parte della terra. Fino al 1922, la piú importante tomba della Valle dei Re era quella di Sethi I, rinvenuta dal padovano Giovanni Battista Belzoni all’inizio del XIX secolo. Ma questa scoperta fu completamente oscurata da quella della tomba di Tutankhamon e del suo spettacolare corredo, compiuta il 4 novembre del 1922 da Howard Carter. In alto ushabti (statuette funerarie) del faraone Sethi I. 1306-1290 a.C. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra Howard Carter intento a esaminare il sarcofago del faraone Tutankhamon.

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È questo un periodo di grave crisi per il Paese, in cui si registrano un notevole squilibrio nel sistema amministrativo delle risorse, l’evidente diminuzione dei bottini di guerra e, soprattutto, il fortissimo aumento dei costi dei generi alimentari di prima necessità, fenomeni a cui si aggiunge la corruzione generalizzata dei funzionari. Ne conseguirono l’esplosione di rivolte di vario genere e, appunto, saccheggi a catena di sepolcri reali e privati, alla ricerca di oggetti preziosi. Ed è proprio su questa realtà che i documenti summenzionati gettano una vivissima luce. Esaminiamone alcuni.

La banda di Amon-em-heb Il primo testo del «dossier egizio» dedicato ai furti di oggetti preziosi nella Valle dei Re è un papiro contenente gli atti di un processo avvenuto nel XVI anno di regno di Ramesse IX (anni Dieci del XII secolo a.C.). Esso allude alle imprese di una banda capeggiata da un contadino, di nome Amon-em-heb e composta da altri due contadini, uno scalpellino, un cavatore e un commerciante di acqua fresca. Questi sei individui avevano saccheggiato varie tombe della necropoli tebana e tolto ad alcuni sarcofagi l’oro e l’argento che li rivestivano. Nel verbale, uno dei ladri entra nei dettagli e descrive la razzia operata nella tomba di Cia-nefer, primo sacerdote di Amon (vedi box alla pagina accanto). Quando furono fermati, uno degli imputati diede allo scriba del territorio 36 grammi d’oro, e lo scriba chiuse un occhio: la corruzione dei magistrati era una piaga non meno purulenta dei furti e dei saccheggi. Al sedicesimo anno di regno di Ramesse IX risale anche una serie di documenti relativi all’inchiesta condotta su furti e saccheggi nelle tombe della necropoli tebana, che coinvolse a vario titolo anche il prefetto di Tebe Pa-ser, il sindaco di Tebe ovest Pa-uraa, e il vizir Kha-emUaset. In base a una doppia denuncia, il prefetto accusò infatti alcuni operai di essersi resi colpevoli di crimini passibili della pena di morte, insinuando implicitamente che il sindaco di Tebe ovest – responsabile della sicurezza della necropoli – avesse lasciato

saccheggiare in maniera fraudolenta le sepolture della riva occidentale del Nilo, fra cui, appunto, alcune tombe della Valle dei Re, e suggerendo altresí che il vizir Kha-em-Uaset, che non aveva preso provvedimenti contro il Sindaco, non fosse stato all’altezza della situazione. Si procedette quindi agli interrogatori dei ladri di tombe, che descrissero minuziosamente il loro modus operandi ed elencarono il bottino: oro, argento, vasellame in bronzo, pietre dure. A questo punto, il vizir inviò un gruppo di controllori a ispezionare le tombe dei re e dei nobili: su dieci sepolture reali esaminate, si trovò profanato solo il sepolcro di Sobek-em-Saf, un faraone della XVII dinastia. Al contrario, il cimitero della gente comune era stato completamente saccheggiato. Il sindaco di Tebe ovest e i membri dell’ispezione inviarono al vizir un nuovo rapporto, contenente anche i nomi dei ladri, che, arrestati e posti sotto tortura, confessarono le loro imprese. Subito dopo, un uomo venne accusato ingiustamente di aver violato la tomba della regina Iside, moglie di Ramesse III, ma quando si verificarono i sigilli del sepolcro, li si trovarono intatti. Ciò provocò una grande manifestazione di gioia che coinvolse i poliziotti, gli operai della tomba e la squadra di approvvigionamento. Tale manifestazione non risultò gradita al prefetto di Tebe, Paaser, che la considerò una provocazione nei suoi confronti e minacciò di riferire direttamente al faraone. Furono interrogati anche i fabbri del Ramesseum, accusati di furto nella tomba della regina Iside, ma anch’essi risultarono innocenti. La causa fu quindi archiviata e i suoi verbali vennero depositati negli archivi del vizir. Gli unici a essere perseguiti furono i ladri della tomba di Sobek-em-Saf. Il tentativo del prefetto di Tebe di lucrare politicamente sulla questione non ebbe dunque successo.

Furti nel Ramesseum Ma le spoliazioni e i furti non si limitavano alla Valle dei Re. Durante il regno di Ramesse XI si verificarono episodi analoghi anche nel

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EGITTO

Ramesseum, il grande tempio funerario del faraone Ramesse II. Vari documenti accennano a circa 35 kg di oro trafugati nel tempio, all’asportazione delle lamine d’oro dei suoi portali e al furto di tavole di cedro libanese commissionato da personaggi di un certo rango, appartenenti alla classe degli scribi o agli alti gradi dell’esercito. In questi traffici, spicca la figura dello scriba del santuario, Sedy, che appare essere lo zelante esecutore di furti su commissione riguardanti arredi sacri.

Il processo Bu-khaaf Uno dei processi meglio documentati contro i ladri della Valle dei Re è l’istruttoria contro il mandriano Bu-khaaf e gli undici membri della sua banda. Essa si compone di 48 interrogatori e controinterrogatori. Ogni interrogatorio inizia con una formula di giuramento da parte del teste di non dire falsità, pena

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mutilazioni, deportazione nelle guarnigioni nubiane o impalamento. Si procede poi con una bastonatura «semplice», che spesso provoca la confessione. Quando però la confessione non è ritenuta convincente, si ricorre a una seconda tornata di bastonature e alla torsione delle membra. Il procedimento è identico per entrambi i sessi: le donne non ricevono alcun trattamento di favore. Alla luce dei documenti che abbiamo finora analizzato, la decisione degli amministratori della Valle dei Re di stipare in un’unica tomba nascosta e sorvegliatissima le spoglie dei grandi faraoni egiziani appare pienamente

Sulle due pagine il tempio funerario costruito da Ramesse II sulla riva occidentale del Nilo a Tebe e noto come Ramesseum.


Un doppio calamaio e un mortaio per la preparazione dell’inchiostro. Parigi, Museo del Louvre.

motivata. Non solo: questi testi rappresentano anche la chiave per valutare meglio la forza d’animo e la determinazione di Howard Carter, lo scopritore della tomba di Tutankhamon. Tra ladri antichi e tombaroli moderni, le probabilità di ritrovare una tomba faraonica

ancora intatta nella Valle dei Re era prossima allo zero. Ma Carter, su quello zero, scommise e vinse. Lo straordinario corredo del faraone-bambino esposto nel Museo del Cairo è in fondo anche un monumento alla tenacia e alla testardaggine degli archeologi.

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GRECIA E ROMA

Statua bronzea del Satiro danzante, originale greco attribuito a Prassitele, 340 a.C. circa. Mazara, Museo del Satiro Danzante. La magnifica scultura è stata ripescata nel Canale di Sicilia nel 1998.

GRAECIA CAPTA

I ROMANI E L’APPROPRIAZIONE DELL’ARTE GRECA

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DOPO AVERLA CONQUISTATA, ROMA COSTRINGE LA GRECIA A VESTIRE I PANNI DI PRIMO «FORNITORE» D’OPERE D’ARTE. NE DERIVA UN TRAFFICO INTENSISSIMO, TALVOLTA ALIMENTATO DA PASSIONI SINCERE, MA PIÚ SPESSO DETTATO DAL DESIDERIO DI POTER OSTENTARE STATUE E DIPINTI CONSIDERATI COME VERI E PROPRI STATUS SYMBOL

Statua di Niobide, dagli Horti Sallustiani. Originale greco databile al 440-430 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.

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Lutezia (Parigi)

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Battaglie e date

Asia

Province romane

133 Alleati e data di conquista di Roma 66 Battaglie e date Confini del regno

di Pergamo nel 133 a.C. Alleati di Roma

Confini del regno

di Pergamo nel 133 a.C. Roma fosse degna delle grandi città del mondo greco, ma che le superasse sotto ogni aspetto, a cominciare appunto da quello artistico.

Il bottino spetta ai vincitori Come lo stesso Livio fa osservare, la presenza di opere d’arte greca a Roma era in qualche modo la manifestazione esterna del dominio romano: anche l’atteggiamento dei Romani verso l’arte fu dunque condizionato dal loro spirito di conquista. Dopo la presa di Siracusa, Marco Claudio Marcello fu il primo a ornare i fori romani con statue saccheggiate in una città greca. A partire da questo momento, il furto di statue in edifici sacri o profani venne considerato come un diritto non solo dei generali vittoriosi, ma anche dei governatori e

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Zona d’influenza di Crasso

66

Province romane e data di conquista

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Mar Rosso

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Conquiste e annessioni dal 120 al 58 a.C.

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Suddivisione d’influenza di Cesare delloZona Stato (56 a.C.)

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Suddivisione dello Stato (56 a.C.)

econdo Tito Livio, l’inizio dell’ammirazione per le opere d’arte dei Greci da parte dei Romani sarebbe collegato a un episodio di carattere militare: la conquista di Siracusa da parte del console Marco Claudio Marcello. In effetti, non solo la caduta di Siracusa in mani romane (211 a.C.), ma anche e soprattutto il saccheggio di Corinto ordinato da Lucio Mummio (146 a.C.) e quello di Atene a opera di Silla (86 a.C.) furono decisivi tanto per la storia dell’espansione di Roma nel Mediterraneo quanto per la storia dell’arte romana. In un primo tempo i Romani desideravano semplicemente possedere le pitture e le sculture dei Greci; in seguito cercarono anche di imitarle. I conquistatori non vollero solo che

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Conquiste e annessioni Conquiste di Giulio Cesare dal 201 al 121 a.C.

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Espansione di Roma Conquiste e annessioni dal 201 al 121fino a.C. a Cesare Zona d’influenza di Pompeo Lo Stato romano neldal 201120 a.C.al 58 a.C. Conquiste e annessioni

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Espansione di Roma fino a Cesare Lo Stato romano nel 201 a.C.

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| Il saccheggio di Siracusa secondo Plutarco |

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arcello, richiamato dai concittadini (…), nel tornare a Roma prese con sé la maggior parte e le piú belle opere d’arte fra i doni votivi che si trovavano a Siracusa, con l’intenzione di farne mostra nel suo trionfo e di abbellire la città. Infatti, fino ad allora Roma non possedeva né conosceva nulla di cosí raffinato e squisito né in essa c’era amore per questa leggiadria e delicatezza; al contrario, piena di armi barbare e di spoglie insanguinate, adorna di monumenti trionfali e di trofei, non era uno spettacolo né gaio né rassicurante né adatto a spettatori ignavi e delicati (…). Per questo, Marcello acquistò ancora maggior fama presso il popolo, perché adornò la città di opere che avevano gradevolezza e leggiadria greca e attrattiva, mentre le persone illustri apprezzavano maggiormente Fabio Massimo. Infatti, non rimosse né portò via niente di simile a Taranto, quando la conquistò; aveva preso i tesori e le ricchezze, ma aveva lasciato le statue, pronunciando le celebri parole: “Lasciamo ai Tarantini questi loro dèi adirati”. A Marcello si rimproverava prima di tutto di rendere Roma esposta all’invidia non solo degli uomini, ma anche degli dèi che vi aveva portato per cosí dire prigionieri e che aveva condotto nel suo corteo trionfale; poi, il fatto che un popolo che era abituato a combattere o a lavorare la terra, che ignorava il lusso e le mollezze (…), era stato da lui reso un popolo dedito al tempo libero dalle occupazioni e pieno di loquacità, che disquisiva di arte e di artisti e passava gran parte della giornata su questi argomenti. Tuttavia, Marcello se ne vantava anche davanti ai Greci, dicendo che aveva insegnato ai Romani ciò che prima non sapevano, cioè ad apprezzare e ad ammirare le bellezze e le meraviglie della Grecia».

Qui sotto statua in marmo di kore, dal santuario di Giunone a Samo. 570-560 a.C. Parigi, Museo del Louvre. L’opera fu strappata alla sua collocazione originaria da Gaio Verre, il quale, quando esercitava la carica di propretore di Cilicia, aveva depredato il tempio.

(Plutarco, Vita di Marcello, XXI, in Vite parallele: Pelopida/Marcello, traduzioni di Pierangiolo Fabrini, BUR, Milano 1998; pp. 455 ss.) In basso isola di Samo, santuario di Giunone. Un gruppo di statue, tra cui due korai simili a quella oggi conservata al Louvre (foto a destra), evidentemente scampate ai saccheggi di Gaio Verre.

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GRECIA E ROMA | Le razzie di Silla nei santuari della Grecia |

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illa non esitò a mettere mano ai tesori dell’Ellade, sia quello di Epidauro, sia quello di Olimpia, mandando a prelevare le offerte piú belle e preziose che lí si trovavano. Scrisse pure al concilio degli Anfizioni a Delfi, sostenendo che era meglio inviare a lui i tesori del dio, poiché lo stesso proconsole li avrebbe tenuti in modo piú sicuro, o, se li avesse utilizzati, poi li avrebbe restituiti. E mandò Cafi, nativo della Focide, uno dei suoi amici, con l’ordine di pesare ogni oggetto. Cafi, giunto a Delfi, era restio a toccare gli oggetti sacri, e versando molte lacrime, alla presenza degli Anfizioni, per lo stato in cui si trovava. E quando alcuni di loro dichiararono di aver sentito il dio che suonava la lira all’interno santuario, e Cafi, o perché ci credette, o perché voleva incutere in Silla un timore superstizioso, glielo mandò a dire, Silla rispose scherzosamente, esprimendo il suo stupore che Cafi non avesse capito che il canto fosse un segno di gioia, non di rabbia, e che i suoi ordini erano pertanto di prendere tutti i doni con coraggio, assicurando che il dio era felice e pronto a dare». (Plutarco, Vita di Silla, XII, in Vite parallele: Lisandro/Silla, traduzioni di Lucia Ghilli e Federico M. Muccioli, BUR, Milano 2001; pp. 373 ss.)

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A destra particolare del fregio del Tesoro dei Sifni, con le figure di Era, Atena e Demetra. Età arcaica. Delfi, Museo Archeologico. All’indomani delle vittorie ottenute su Mitridate, nell’87 a.C., Lucio Cornelio Silla non esitò a saccheggiare Atene e molti altri centri della Grecia, tra cui Delfi. Dalla città dell’oracolo chiese che gli venissero mandati i doni originariamente destinati ai luoghi di culto innalzati in onore delle divinità del pantheon ellenico.


Nel 148 a.C., vent’anni dopo la battaglia di Pidna, i cittadini romani che assistevano al trionfo di Quinto Cecilio Metello, poterono contemplare un altro grandioso bottino di guerra: le sculture di avorio, di bronzo e di marmo requisite dopo la conquista della Macedonia e consacrate dal generale vincitore nei templi di Giunone Regina e di Giove Statore, nell’area dell’odierno portico di Ottavia. Dalle testimonianze degli autori apprendiamo che del bottino facevano parte anche alcune sculture originali attribuite ai piú grandi artisti greci: una Diana e un Asclepio di Prassitele, un Giove e una Giunone di Policleto, uno Zeus eburneo di Pasitele, un gruppo di figure con Pan di Eliodoro e una Venere al bagno di Policarmo. Lo stesso spettacolo si ripeté quando il console Lucio Mummio inflisse una dura sconfitta alla Lega Achea, schieratasi a fianco della Macedonia. Per punire la lega, Mummio decretò la distruzione della ricca città commerciale di Corinto. Scrive Aurelio Vittore (De viris illustribus LXI) che, in conseguenza del saccheggio della città, Mummio «riempí l’Italia di statue e di quadri conquistati, senza portarne uno solo a casa propria». Nella pagina accanto, in basso Delfi. I resti del tempio di Apollo. Pausania scrive che il santuario in onore del dio aveva avuto sei successive fasi: le strutture superstiti oggi visibili si riferiscono all’ultima ricostruzione, databile al IV sec. a.C.

dei magistrati al loro seguito. Il console Marco Fulvio, conquistatore di Etolia e Acarnania, portò a Roma 285 statue di bronzo e 230 di marmo, che furono consacrate nel tempio di Ercole e delle Muse appena fondato. Le divinità venerate nel santuario erano rappresentate da un gruppo dedicato alle Muse proveniente da Ambracia (l’odierna Arta) e da un Ercole di Lisippo, sottratto dal tempio di Ercole ad Alizia, antica città sulla costa occidentale dell’Acarnania. Un altro generale, Lucio Emilio Paolo, che sconfisse il re di Macedonia Perseo a Pidna (168 a.C.), portò nel suo corteo trionfale ben 250 carri pieni dei tesori raccolti in tutta la Grecia come ricompensa per la liberazione dal dominio macedone. Tra le sculture consacrate da Emilio Paolo nel tempio della Fortuna figurava anche, secondo quanto narrato da Plinio, una statua bronzea di Fidia raffigurante Atena.

Solo per abbellire Roma Fino all’epoca imperiale, infatti, la legge prescriveva che le opere d’arte conquistate in guerra appartenessero allo Stato e dovessero servire unicamente ad abbellire Roma: non a caso, la principale accusa mossa da Cicerone a Gaio Verre nella seconda delle sue orazioni fu quella di essersi arricchito personalmente. In effetti, quand’era propretore di Cilicia, Verre aveva non solo depredato delle sue statue l’antico tempio di Giunone (Era) sull’isola di Samo, ma anche quelli di Tenedo, Chio, Alicarnasso ed Eretria. Lo stesso Mummio fu estremamente sorpreso dell’alta offerta avanzata da Attalo, re di Pergamo, per un dipinto di Aristeides (fondatore della scuola pittorica tebano-attica degli inizi del IV secolo a.C.) rappresentante Dioniso, al punto che fece ritirare il quadro dall’asta, «sospettando

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GRECIA E ROMA

PRONTI A PARTIRE... A destra, sulle due pagine la Sala dei Bronzi del Museo Archeologico del Pireo. Vi sono esposte le statue, trovate casualmente nel 1959 in un antico magazzino portuale, distrutto da un incendio alla fine dell’età repubblicana. È probabile che facessero parte di un carico di sculture pronte per essere imbarcate alla volta dell’Italia, all’indomani del saccheggio dell’86 a.C.

Sulle due pagine alcune delle statue ritrovate nel 1959 e oggi esposte nel Museo Archeologico del Pireo. Da sinistra si riconoscono: una Afrodite, databile alla metà del IV sec. a.C.; un’Artemide, databile anch’essa alla metà del IV sec. a.C.; un Apollo, che è invece ascrivibile all’età tardo-arcaica e databile tra il 530 e il 480 a.C. ed è uno dei rarissimi esempi di scultura bronzea di questo periodo.

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nell’opera qualche virtú nascosta», come scrive Plinio (Nat. hist., XXXV, 24). La tavola fu poi posta nel tempio di Cerere a Roma e, secondo lo stesso Plinio, fu la prima opera di pittura straniera dedicata in un luogo pubblico.

Un terribile massacro All’inizio del I secolo a.C. Mitridate VI, re del Ponto, cominciò una politica di espansione sulle coste del Mar Nero e in Asia Minore, chiamando alla riscossa tutti i sudditi e tutti i nemici di Roma. Nell’88 a.C., Mitridate giunse a Efeso e, in segreto, diramò ai magistrati delle città greche l’ordine di massacrare, in un giorno stabilito, tutti i civili romani e italici presenti in Asia: quel giorno – si dice – perirono 80 000 uomini. Nello stesso anno, i suoi eserciti raggiunsero la Macedonia e la Grecia; varie città, fra cui Atene, che in passato era sempre stata dalla parte di Roma, accolsero entusiasticamente i nuovi venuti, visti come liberatori. Il senato romano decise dunque di inviare un esercito in Oriente e ne affidò il comando al console Lucio Cornelio Silla. Nei primi mesi dell’87 a.C., Silla partí per

la Grecia e sconfisse piú volte le forze di Mitridate, e verso la fine dell’anno giunse sotto le mura di Atene, governata dal filosofo Aristione, alleato di Mitridate. Silla decise allora di assediare la città. L’assedio di Atene da parte delle truppe di Silla fu uno degli eventi piú tragici a cui la città dovette sottostare in tutto il corso della sua storia millenaria, paragonabile solo al sacco persiano del 480 a.C., alla sconfitta nella guerra del Peloponneso e all’occupazione nazista. D’altra parte, l’immagine stessa del grande generale romano offerta dalle fonti greche aderisce in toto allo stereotipo del distruttore, pur non essendo priva di un certo fascino misterioso, derivante dalla sua indubbia intelligenza e astuzia. Dopo un primo assalto fallito, Silla si ritirò presso Eleusi, dove cominciò a costruire un enorme numero di macchine ossidionali; le fonti non mancano di ricordare che il generale, in questa occasione, abbatté il boschetto dell’Accademia platonica, che si trovava lí vicino, per utilizzarne il legname. Per la guerra, poi, gli occorreva molto denaro ed egli, senza porsi alcun tipo di problema etico-religioso, pensò bene di attingere alle ricchezze dei grandi santuari greci, saccheggiandoli senza ritegno. Narra Plutarco che, poco prima dell’attacco, Aristione tentò una mediazione, inviando a Silla alcuni suoi compagni di banchetti per trattare per la pace. Costoro, invece di fare richieste in merito alla salvezza della città, si misero a raccontare le gesta di Teseo ed Eumolpo e le vicende delle guerre persiane. Silla, allora, avrebbe risposto: «Andatevene pure, miei cari signori, portandovi pure questi discorsi con voi, poiché io non sono stato inviato qui ad Atene dai Romani per imparare la sua storia, ma per domare i ribelli» (Vita di Silla, XIII).

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GRECIA E ROMA

Il 1° marzo dell’86 a.C., avendo appreso che i difensori di Atene erano ormai privi di sostentamento, e che alcuni, per la fame, erano giunti al punto di nutrirsi di carne umana, Silla dispose che i suoi soldati circondassero la città con un fossato in modo che nessuno degli abitanti potesse piú fuggire di nascosto. Contemporaneamente, ordinò di attaccare le mura con scale e macchine d’assedio. I difensori furono ben presto messi in fuga e i Romani riuscirono a penetrare all’interno della città. Come scrive lo storico Appiano (Guerre mitridatiche, XXXVIII), «seguí ad Atene una strage grande e spietata. Gli abitanti erano troppo deboli per scappare, a causa della mancanza di nutrimento. Silla ordinò un massacro indiscriminato, non risparmiando donne o bambini. Era adirato per il fatto che si erano uniti ai barbari senza motivo, e avevano mostrato una forte animosità verso lo stesso comandante romano. La maggior parte degli Ateniesi, quando sentirono l’ordine dato, si scagliarono contro le spade dei loro aggressori volontariamente.

Alcuni presero la via che sale verso l’Acropoli, tra i quali lo stesso tiranno Aristione, il quale aveva bruciato l’Odeion, in modo che Silla non potesse avere il legname a portata di mano per bruciare l’Acropoli».

Silla detta le sue condizioni Dopo questa immane strage, Silla proibí l’incendio della città, ma permise ai suoi soldati di saccheggiarla e vendette i sopravvissuti come schiavi; quindi, stabilí una serie di posti di guardia intorno all’Acropoli, costringendo lo stesso Aristione e le poche milizie a sua disposizione ad arrendersi per fame. Infine, condannò a morte il tiranno greco e tutti quelli che si erano ribellati alle leggi provinciali romane. Chiese poi come risarcimento del danno di guerra, circa 20 kg di oro e 600 libbre d’argento, prelevandoli dal tesoro dell’Acropoli; inoltre fece trasportare a Roma colonne corinzie del tempio ateniese di Zeus per sostituire quelle del tempio di Giove sul Campidoglio, distrutte durante la guerra civile, e, secondo le testimonianze di Pausania e di Plutarco, inviò in Italia migliaia di altre opere greche provenienti dalle città sottomesse. Tra queste non c’erano solo sculture di epoca classica, ma anche capolavori del periodo arcaico, che ebbero un grandissimo successo fra gli aristocratici romani: ne sono prova le numerose copie che di esse furono prodotte a Roma. Nel 1959

| La cattiva coscienza dei collezionisti romani |

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ome ha giustamente notato il grande archeologo e storico dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975), l’atteggiamento dei grandi collezionisti romani di opere d’arte greca fu sempre caratterizzato da uno strano ritegno a confessare la loro passione: una sorta di cattiva coscienza verso l’antica e sofferta austerità dei padri e di disagio verso una superiorità dei Greci in cose che nessun artigiano romano sapeva adeguatamente imitare e tanto meno inventare. Una eco delle polemiche in merito ci è giunta condensata nelle contrastanti posizioni del filleleno circolo degli Scipioni e del conservatorismo di Catone il censore e dei suoi seguaci. In ogni caso, va sottolineato che l’affluire di opere d’arte importate dalla Grecia, anche se esposte nei templi e nei portici e, a un certo momento, distribuite anche nei municipi, rimase sempre un fatto circoscritto alla cultura di élite e alla classe dirigente.

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alcuni muratori al lavoro in una strada del Pireo si imbatterono in un gruppo di statue di bronzo di varia epoca (oggi conservate al Museo del Pireo; vedi box a p. 40), tra cui quella di un kouros. Poiché le statue si trovavano nelle rovine di un antico magazzino portuale distrutto da un incendio alla fine dell’età repubblicana, si è ipotizzato che potessero far parte di un carico di sculture da imbarcare alla volta dell’Italia in conseguenza del saccheggio dell’86 a.C.

Arte e diplomazia Come in Mesopotamia, anche nel mondo greco-romano le opere d’arte potevano essere utilizzate a scopi diplomatici: cosí, dopo la la battaglia di Azio, in cui Antonio fu sconfitto da Ottaviano, quest’ultimo fece restituire agli abitanti di Samo un gruppo scultoreo del celebre Mirone raffigurante Zeus, Atena ed Eracle, trafugato dallo stesso Antonio. Il vincitore di Azio tenne però per sé la statua di Zeus che fece sistemare in bella mostra sul Campidoglio. Analogamente, per punire gli abitanti di Mantinea che avevano deciso di allearsi con Antonio, Ottaviano sottrasse al tempio di Atena a Tegea la celeberrima statua della dea, che fece collocare all’ingresso del suo nuovo foro: secondo Pausania (I 430), si sarebbe trattato di un’opera di Endoios tutta intagliata nell’avorio. In epoca giulio-claudia, una delle piú straordinarie collezioni romane di opere d’arte greca era esposta nel portico di Ottavia, un grande complesso monumentale costruito da Augusto tra il 27 e il 23 a.C. su quella che era stata la proprietà di Metello, dedicandolo, appunto, a nome della sorella Ottavia. In effetti, sembra che il portico di Ottavia sia stato una sorta di museo pubblico, in cui i custodi, secondo Plinio, rispondevano con la propria vita delle opere esposte. Il colonnato eretto da Metello davanti ai templi di Giove e Giunone era stato abbattuto per fare spazio a un’enorme quantità di sculture: qui era collocata, fra l’altro, la celeberrima turma Alexandri, cioè le statue equestri in bronzo,

Statuetta in bronzo di efebo portalampada, dalla Casa dell’Efebo di Pompei. Fine del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto la Fanciulla di Anzio, statua in marmo, forse raffigurante una sacerdotessa, dalla villa imperiale di Nerone ad Anzio. Età ellenistica. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.


GRECIA E ROMA

raffiguranti i compagni caduti di Alessandro Magno nella battaglia del Granico, opera dello scultore Lisippo e della sua bottega. Tra i successori di Augusto, spicca per filellenismo Nerone. Nel 67 d.C., l’imperatore visitò molte città della Grecia, partecipando anche ai giochi olimpici. Prima di lasciare l’Ellade, annunciò la decisione di restituire la libertà alle poleis greche, suscitando il malcontento degli aristocratici romani. Tra le rovine della famosa Domus Aurea, come anche del palazzo neroniano di Anzio (dove l’imperatore era nato), furono ritrovate sculture celeberrime, tra cui la splendida Fanciulla di Anzio di età ellenistica, una Sibilla intenta a leggere una iscrizione (oggi al Museo Nazionale delle Terme), il Galata morente della scuola di Pergamo e l’Apollo del Belvedere del Vaticano. Alcune sculture greche ebbero la singolare ventura di essere rubate piú di una volta: per esempio, secondo il racconto di Pausania, la statua di Eros a Tespi, opera di Prassitele (o di Lisippo) fu portata a Roma da Caligola, venne restituita da Claudio e fu nuovamente trafugata da Nerone, per finire poi distrutta nel grande incendio di Roma del 64 d.C., durante il quale numerosissime opere d’arte giunte a Roma come bottino di guerra scomparvero per sempre. Per sostituirle, Nerone avrebbe inviato in Grecia e in Asia Minore alcuni emissari, che non si sarebbero fermati davanti a nulla pur di eseguire gli ordini ricevuti. Dopo la caduta dell’imperatore e la distruzione della sua Domus Aurea, molte tra le opere piú famose conservate nel palazzo trovarono posto nel tempio della Pace eretto dall’imperatore Vespasiano.

Il fenomeno delle copie Il fenomeno culturale (e commerciale) delle copie delle opere d’arte greca si manifesta soprattutto nella scultura, ma dovette coinvolgere anche la pittura. In quanto fenomeno culturale, le copie delle

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Il Galata Capitolino (o Morente), dagli Horti Sallustiani. Roma, Musei Capitolini. Incerta è la datazione dell’opera: potrebbe essere una copia di età cesariana, ma anche una copia diretta o l’originale pergameno.

sculture greche, classiche ed ellenistiche, eseguite soprattutto durante l’età imperiale costituiscono un aspetto estremamente importante della cultura artistica romana. Queste copie, in marmo e in bronzo, in qualche caso eseguite tramite calco, erano principalmente destinate ai collezionisti. Per una cultura ben lontana dal moderno concetto di «aura», le copie dovevano equivalere all’originale, e, infatti, nella letteratura artistica romana non v’è alcun accenno a una differenziazione di apprezzamento tra originale e copia. E tuttavia, come notava Ranuccio Bianchi Bandinelli, accanto alla copia sorge facilmente il raffazzonamento, il «pasticcio», che varia e amalgama originali diversi. Successivamente, le copie, anche approssimative, divennero


soltanto un elemento ornamentale da inserire all’interno dei complessi architettonici.

Costantino, il grande saccheggiatore Quando, nel 324 d.C., Costantino fondò Costantinopoli, capitale orientale dell’impero, volle edificare una città che potesse competere con l’Urbe in bellezza e grandezza. Al fine di arricchire di opere d’arte gli edifici pubblici e i fori della nuova città, l’imperatore ricorse ancora una volta al saccheggio di opere d’arte

| Nerone libera la Grecia |

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o splendido discorso, pronunciato nel 67 a.C. nello stadio di Istmia, con cui Nerone decretò la liberazione della Grecia, ci è pervenuto grazie a un’iscrizione rinvenuta nel villaggio beotico di Akrephia (Dittenberger S.I.G.3, nr. 814). «L’imperatore (…) proclamò quanto segue: “Greci! Concedo a voi un dono inatteso, quantunque non del tutto insperato da parte della mia magnanimità, tanto grande quanto non siete arrivati a chiedere: tutti voi Greci che abitate l’Acaia e quello che fino ad ora è stato il Peloponneso ricevete la libertà e l’immunità, che neanche nei periodi piú felici avete tutti avuto, perché eravate schiavi o di stranieri o l’uno dell’altro. Oh! se avessi potuto concedere questo dono quando la Grecia era all’apice della potenza, perché piú persone potessero godere del mio favore! Per questo, biasimo il tempo che ha consumato la grandezza del mio favore. E ora vi reco questo beneficio non per pietà, ma per benevolenza e contraccambio gli dèi, la cui benevola presenza ho sempre sperimentato sia per terra sia per mare, per il fatto che mi hanno concesso di beneficiare in maniera cosí grande. Infatti, anche altri hanno liberato città e capi, ma Nerone ha liberato l’intera provincia”».

greche, depredando dei loro monumenti piú celebri le città e le campagne della Grecia, dell’Asia Minore e dell’Egitto. In questo modo, Costantinopoli divenne di gran lunga la piú splendida capitale del mondo antico. Sebbene Costantino avesse abbracciato la religione cristiana, facendo della Chiesa il suo principale strumento di potere, le statue delle divinità pagane e quelle degli imperatori romani adornavano tutti i principali luoghi cittadini. Un gran numero di statue si trovavano raccolte proprio nel foro di Costantino, tra cui dodici sirene, un elefante di provenienza probabilmente egiziana e altri animali. Nell’ippodromo fatto costruire dall’imperatore fu poi collocato il gigantesco tripode di bronzo usato dalla Pizia nel tempio di Delfi insieme a una statua di Apollo.

Cataloghi immaginari Il paesaggio costantinopolitano sembra dunque traboccare di opere d’arte, ma non si deve prestare fede a tutto ciò che raccontano le fonti. Alcuni testi di epoca tarda (VII secolo d.C. circa), simili ai Mirabilia romani, descrivono la città creando veri e propri cataloghi immaginari di opere d’arte, come se Costantinopoli racchiudesse in sé tutte le opere d’arte piú famose del mondo. Per esempio, il cosiddetto Anonimo Banduri elenca tra le opere greche visibili per le strade della capitale le statue di Zeus di Olimpia e di Dodona, l’Era di Samo, l’Apollo Pizio, l’Atena Lindia, le Muse dell’Elicona e quattro statue di ninfe provenienti dal tempio di Atena a Efeso, e afferma che la chiesa di S. Sofia sarebbe stata circondata da ben 427 statue. In realtà, occorre tenere presente che la tradizione letteraria che ha prodotto simili testi – vere e proprie guide archeologiche delle grandi città dell’antichità – rappresenta appunto il tentativo di costruire un ponte fra due epoche separate da lunghi secoli di oblio. I Mirabilia si formano infatti nelle pieghe del complesso fenomeno della trasformazione della città antica nella

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città medievale: essi sono il frutto di cesure e abbandoni, e nello stesso tempo di un rapporto diretto con i frammenti di un passato che incombe su ogni momento della vita quotidiana ed è tuttavia sfuggente e misterioso. Un testo come l’Anonimo Banduri, sospeso fra oralità e scrittura e fra strada e letteratura, è il frutto dello spirito di ammirazione per l’antichità, ma anche dell’appiattimento della prospettiva storica, che provoca l’imporsi di una visione deformata nel senso di una falsa continuità. La città assume cosí le sembianze di un palinsesto sul quale possono leggersi tutte le vicende del suo glorioso passato, con una sovrana indifferenza per il rigore delle distinzioni fra tempi, luoghi e soggetti; l’horror vacui degli anonimi redattori di queste opere, ansiosi di stupire il lettore mostrando l’ampiezza delle proprie conoscenze, li porta a un ingenuo e pletorico sfoggio di erudizione, in cui ai dati reali si affiancano disordinatamente invenzioni e fantasie: in ogni pietra della città essi individuano i segni di vicende che, seppure coincidono solo molto parzialmente con la verità storica, non sono per questo – ai loro occhi – meno vive e attuali.

Il destino di un capolavoro In ogni caso, il punto di partenza della narrazione è sempre il dato materiale, i monumenti: questi, infatti, costituiscono le reliquie dell’antica grandezza della città, che possono essere riutilizzate per aggiungere valore a una nuova architettura, o indagate per scoprirvi il loro recondito significato. I Mirabilia costantinopolitani, quasi in una sorta di metaforico scavo archeologico, svelano agli abitanti i misteri dell’antica Bisanzio alla quale si è sovrapposta la capitale fondata da Costantino, ma che rimane ben viva nell’immaginario collettivo dei suoi abitanti. E in questa sintesi immaginaria, le principali opere d’arte della Grecia antica giocano un ruolo di primo piano.

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Per una scultura celeberrima dell’antichità classica abbiamo però indizi piú concreti di una sua reale presenza a Costantinopoli: lo Zeus di Olimpia di Fidia. Nel 471 a.C., gli Elei, la popolazione custode del santuario di Olimpia, deliberarono la costruzione di un nuovo tempio che ospitasse finalmente un degno simulacro di Zeus. Questa decisione metteva fine a una strana anomalia: Zeus, prima divinità tutelare del santuario, vi aveva regnato per tre secoli senza un tempio né un’immagine di culto,


«accontentandosi», come in epoche lontane, di essere celebrato su un altare costituitosi nel tempo con i resti dei sacrifici compiuti in suo onore. La costruzione dell’edificio fu affidata a un architetto locale, Libone di Elide, che lo realizzò di dimensioni imponenti e di aspetto maestoso, improntato al massimo rispetto per i modelli del passato. La cella, il cui interno era diviso in tre navate, era completata dal pronao e dall’opistodomo (gli spazi rispettivamente definiti davanti e dietro la cella medesima, n.d.r.), rigorosamente identici in dimensioni e pianta. Contemporaneamente alle strutture architettoniche, fu progettata e realizzata la decorazione scultorea del tempio, che era forse già conclusa nel 456 a.C. Tale decorazione comprendeva le due enormi composizioni frontonali e le dodici metope che ornavano i lati brevi del naos, piú i sei acroteri e la serie delle protomi leonine dei gocciolatoi. Un complesso di sculture imponente e di grande respiro, che rivela nell’ideazione e nell’esecuzione una coerenza e un’unità davvero mirabili, forse il massimo capolavoro della fase finale dello stile severo, durante la quale si consuma la transizione verso lo stile mimetico della piena classicità.

Un colosso d’oro e d’avorio Per molti anni, dopo che il tempio fu terminato, vi si conservò probabilmente un antico e venerato oggetto di culto, ma il gusto del V secolo a.C. richiedeva un’immagine molto piú grandiosa: alla fine, intorno al 420 a.C., gli Elei decisero di commissionare il

MIRABILI REPLICHE Statua di Afrodite Callipige, dalla Domus Aurea neroniana. Copia del I sec. d.C. da un originale greco del II sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto statua in bronzo raffigurante un fanciullo ritratto nell’atto di estrarre una spina dal piede sinistro, nota come Spinario Capitolino. Roma, Musei Capitolini. A lungo considerata un originale greco del IV sec. a.C., venendo attribuita addirittura a Lisippo, il maestro attivo alla corte di Alessandro Magno, l’opera risale invece al I sec. a.C.

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simulacro del re degli dèi al famosissimo scultore Fidia, che aveva già lavorato per Pericle all’Acropoli di Atene. Fidia aveva sviluppato una tecnica che permetteva di forgiare statue d’oro e di avorio di enorme grandezza: prima di tutto, si costruiva una struttura in legno che occupasse sia in larghezza sia in altezza lo spazio della scultura finita. Sottili strati d’avorio venivano modellati per le parti in cui la pelle figurava scoperta, e lamine di metalli preziosi erano modellate per i drappeggi e altri particolari, quindi riportate sulla struttura di legno a costituire l’esterno della statua. Ogni pezzo doveva combaciare esattamente con quello vicino e ogni giuntura doveva essere ben dissimulata, affinché la statua finita desse un’impressione di compattezza.

Da Olimpia a Costantinopoli Dal momento della sua costruzione, il simulacro di Zeus fu ammirato come il grande capolavoro dell’età dell’oro della scultura classica, e fu sempre motivo di stupore e meraviglia per chi avesse avuto l’occasione di vederlo. Circa 450 anni dopo, Caligola cercò con ogni mezzo di impadronirsene. Narra Svetonio che l’imperatore inviò una squadra di operai perché studiassero il modo di trasportare a Roma la statua, e che costoro decisero di scomporla in varie parti per facilitarne lo spostamento; ma a questo punto la scultura scoppiò in una risata cosí forte, che le impalcature, già predisposte per lo smontaggio, crollarono rovinosamente e gli operai si diedero alla fuga. Nel 391 d.C. l’imperatore Teodosio I bandí i culti pagani da tutto l’impero

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In basso e nella pagina accanto, in alto tavole settecentesche nelle quali si immaginano l’aspetto del tempio di Zeus a Olimpia e quello della statua crisoelefantina (oro e avorio) del dio, scolpita da Fidia nel 436 a.C. e annoverata tra le Sette Meraviglie del mondo.

e ordinò la chiusura dei templi. I giochi olimpici furono vietati e il grande santuario di Olimpia venne completamente abbandonato. La bottega in cui Fidia aveva costruito la statua fu trasformata in una chiesa, verso il 425 d.C. il tempio fu gravemente danneggiato da un incendio e, nel VI secolo, il fiume Alfeo cambiò il suo corso. L’intera area in cui sorgeva il santuario, abbandonata all’incuria, fu distrutta da frane, terremoti e inondazioni, e giacque per piú di mille anni sotto un enorme strato di sabbia e detriti. E la statua di Zeus? Un’informazione interessante in merito è contenuta nella cronaca dello storico bizantino


Cedreno (Historiarum Compendium, 322C), il quale afferma che lo Zeus di Olimpia sarebbe stato portato a Costantinopoli e collocato nel palazzo di Lauso, celebre uomo politico e collezionista del V secolo d.C. Purtroppo però il palazzo di Lauso fu distrutto da un incendio nel 475 d.C., e con esso svaní per sempre la sua splendida collezione di sculture. D’altra parte, come ricordava a se stesso Epifanio, vescovo di Salamina, per quanto gli artisti cerchino di rendere immortali e durature le loro opere, esse non lo sono. Eppure, il ricordo della statua crisoelefantina di Zeus – come quello delle altre «meraviglie del mondo» ormai scomparse da secoli – resta tuttora scolpito nella memoria degli uomini. Forse, almeno in parte, Epifanio si sbagliava.

| Lo Zeus di Olimpia descritto da Pausania |

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olte famose statue dell’antichità classica ci sono note tramite riproduzioni di epoca romana, ma dello Zeus di Olimpia non ci è pervenuta neppure una copia. A Cirene, nell’attuale Libia, il locale tempio di Zeus doveva ospitarne una: ne fu trovata la base durante gli scavi, ma niente di piú. L’unico modo per farsi un’idea dell’aspetto della statua è leggerne la descrizione fornita da Pausania: «Sul capo è posata una corona fatta a somiglianza di rami d’ulivo. Nella mano destra regge una Vittoria, anch’essa d’avorio e d’oro (…). Nella sinistra invece il dio ha uno scettro ornato di ogni genere di metalli, e l’uccello appollaiato sullo scettro è l’aquila. D’oro sono anche i sandali del dio e cosí pure il manto. Sul manto sono istoriate figure di animali e il fiore del giglio. Il trono è variamente ornato d’oro e di gemme nonché di ebano e avorio; vi sono raffigurate forme di animali e incise immagini. Quattro Vittorie sono rappresentate nell’atto di danzare, una per ogni piede del trono; altre due stanno alla base di ogni piede. Su ciascuno dei piedi stanno delle sfingi, mentre sotto le sfingi Apollo e Artemide abbattono a colpi di freccia i figli di Niobe. (…). Sulle parti superiori del trono, Fidia ha messo, sopra la testa della statua, da un lato le Grazie, dall’altro le Stagioni, tre e tre. Anche queste ultime infatti nell’epica sono indicate come figlie di Zeus (…). Lo sgabello sotto i piedi di Zeus (…) porta dei leoni d’oro e, in rilievo, la battaglia di Teseo contro le Amazzoni, il primo atto di valore degli Ateniesi contro stranieri. Sul piedistallo che regge il trono e Zeus con tutti i suoi ornamenti vi sono, in oro, il Sole sul cocchio, Zeus ed Era, quindi Efeso e al suo fianco la Grazia. A questa segue Ermes, a Ermes, Estia. Dopo Estia vi è Eros che accoglie Afrodite sorgente dal mare, e Afrodite è incoronata da Persuasione. Anche in rilievo sono Apollo con Artemide e Atena nonché Eracle; infine, all’estremità del piedistallo, Anfitrite e Poseidone, nonché la luna al galoppo, io direi, su un cavallo (...). Quando la statua fu terminata, Fidia pregò il dio di manifestare con un segnale se l’opera fosse di suo gradimento; e subito, dicono, un fulmine cadde nel punto del pavimento dove fino ai miei tempi vi era per copertura un’anfora. Tutto il pavimento davanti alla statua è composto di lastre non bianche, ma nere; però un bordo di marmo pario circonda quello nero per trattenere l’olio di oliva che si fa scorrere lungo la statua» (Pausania, Periegesi della Grecia, V 11).

I resti del tempio di Zeus a Olimpia, che nel V sec. fu trasformato in chiesa cristiana da Teodosio.

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OBELISCHI

SOUVENIR

D’EGITTO ELEMENTI TIPICI DEL PAESAGGIO EGIZIANO, GLI OBELISCHI SUSCITARONO GLI APPETITI DEGLI IMPERATORI ROMANI. UN GRAN NUMERO DI QUEI GRANDIOSI MONOLITI PRESE DUNQUE LA VIA DELLA CAPITALE DELL’IMPERO E LE LORO SAGOME AFFILATE ABBELLISCONO ANCORA OGGI ALCUNE DELLE PIAZZE PIÚ IMPORTANTI DELLA CITTÀ

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Roma, Piazza del Popolo con l’Obelisco Flaminio, dipinto di Giovanni Capranesi. 1865. Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe. Il monolite, eretto originariamente da Ramesse II a Heliopolis nel XIII sec. a.C., fu portato nell’Urbe da Augusto, per ornare il Circo Massimo.

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ra i resti monumentali di maggior interesse della civiltà faraonica, gli obelischi, antichi oggetti di culto dedicati al dio sole, contendono il primato alle piramidi. Ma mentre le piramidi, per ovvi motivi, non furono mai spostate dai luoghi in cui erano state erette, gli obelischi, anche a causa della loro relativamente facile trasportabilità, furono tra gli oggetti egiziani piú depredati dagli imperatori, anche allo scopo di potenziare la sacralità dei santuari romani dedicati a Iside, il cui culto, in epoca imperiale, divenne sempre piú diffuso. Fatto sta che Roma ne possiede piú di qualsiasi altra città del mondo: sui ventuno obelischi ancora esistenti, ben tredici si innalzano ancora oggi nella capitale d’Italia. Tutti furono trasportati dall’Egitto, sebbene le decorazioni di alcuni siano state completate solo dopo il loro arrivo a Roma. Sette sono stati iscritti da faraoni, due da imperatori romani, uno reca un’iscrizione pseudo-egizia, mentre i rimanenti non presentano iscrizioni di alcun tipo. Furono invece i Greci a chiamare gli obelischi con questo nome (essi erano designati dagli Egizi con il termine tekhenu, di etimologia incerta), che si è poi diffuso in quasi tutte le lingue moderne. In greco, obeliskos significa infatti «spiedino», con una chiara allusione alla sua forma allungata e sottile.

Da Eliopoli a piazza del Popolo Il primo obelisco egiziano trasferito a Roma, su iniziativa di Augusto, è quello che si trova attualmente in piazza del Popolo. Alto piú di 23 m, con un peso di 235 t e proveniente dal tempio del sole di Eliopoli, questo monolito fu commissionato dal faraone Sethi I e completato da suo figlio Ramesse II. Nelle iscrizioni geroglifiche incise su di esso, Sethi I è definito «Colui che riempie Eliopoli di obelischi, perché i loro raggi possano illuminare il tempio di Ra», mentre Ramesse II appare come «Colui che produce monumenti innumerevoli come le stelle del cielo». Il suo invio a Roma fu considerato degno di tanta ammirazione che la nave usata per il trasporto fu addirittura

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esposta al pubblico. Nel 10 a.C., l’obelisco venne innalzato sulla spina del Circo Massimo come simbolo del sole e al fine di commemorare la vittoria di Azio (31 a.C.) e la conquista dell’Egitto. Sappiamo che il monolito era ancora in piedi nel IV secolo d.C., e lo storico Ammiano Marcellino ne fornisce una descrizione accompagnata da una pretesa traduzione delle sue iscrizioni geroglifiche dovuta a un certo Ermapione, sacerdote egiziano non altrimenti noto. L’obelisco fu poi dimenticato per circa un millennio, finché un certo Alberto di Camaldoli non ne trovò alcuni frammenti nelle rovine del Circo; nel 1586, durante il pontificato di Sisto V, venne avviata una ricerca sistematica di tutte le sue parti (tra l’altro, fu rinvenuta l’iscrizione dedicatoria originale di Augusto, che fu inserita in un nuovo basamento), e tre anni dopo, esso fu eretto in Piazza del Popolo, a decorare uno degli accessi principali alla città di Roma.

Il gigante del Laterano Tra tutti gli obelischi superstiti, il piú grande, con i suoi 32,18 m di altezza per 455 t di peso, è quello che si trova oggi a Roma, in piazza S. Giovanni in Laterano. Si tratta di un monolito di granito rosso di Aswan (l’antica Siene), forse proveniente dalla stessa cava in cui giace tutt’ora il famoso obelisco incompiuto, una delle piú notevoli

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In questa pagina Roma, piazza del Popolo. L’obelisco proveniente da Heliopolis e fatto trasferire da Augusto, al fine di abbellire il Circo Massimo.


Rilievo funerario con una scena di corsa delle quadrighe nel circo. Età imperiale. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Profano. Il Circo Massimo fu la piú grande di queste strutture per spettacoli e in essa fu collocato l’obelisco di Ramesse II.

«attrazioni turistiche» dell’alto Egitto. Il personaggio che ne curò la fabbricazione per ordine del faraone Thutmosi III fu probabilmente Min, governatore di Tini e sovrastante ai sacerdoti di Onuri. La cuspide dell’obelisco si presenta ora tronca: in origine era rivestita di lamine d’oro, come anche tutta la parte superiore del monumento. Su ciascun lato della cuspide è raffigurato il faraone che riceve favori da una divinità solare, Amon-Ra o Amon-Aton. Sulla parte superiore del fusto, lo stesso faraone reca offerte agli dèi. Piú in basso, una colonna di geroglifici riporta l’onomastica completa di Thutmosi III e un’iscrizione commemorativa dell’erezione del monumento. Thutmosi IV aggiunse sopra ogni

lato due colonne di geroglifici. Nella prima, si afferma che il monolito fu lasciato giacente su un fianco per trentacinque anni nelle mani degli operai della fabbrica del tempio; nella seconda, si legge la descrizione di come Thutmosi IV abbia abbellito Karnak con numerosi monumenti e abbia eretto l’obelisco presso il portale superiore, di fronte alla città di Tebe. Al di sotto, Ramesse II fece aggiungere alcune scene figurate, di cui restano solo pochi frammenti sul lato frontale, mentre sugli altri lati esse furono sostituite da bizzarre iscrizioni pseudo-geroglifiche. Come si evince da queste testimonianze, l’obelisco lateranense fu cavato verso la fine del regno di Thutmosi III (1504-1450 a.C.), ma

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piazza san pietro

pantheon

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GLI OBELISCHI DI ROMA L’iscrizione commemorativa dell’obelisco del Laterano

«Egli (cioè Thutmosi III, n.d.r.) fece come suo monumento per suo padre Amon-Ra, signore dei Troni delle Due Terre (l’Alto e il Basso Egitto, n.d.r.) l’erezione per lui di un obelisco singolo nel cortile superiore del tempio nei pressi di Karnak, nella prima occasione di erigere un obelisco singolo in Tebe».

Sulle due pagine pianta di Roma con l’ubicazione dei 13 obelischi dall’Egitto. Nella pagina accanto, in alto l’obelisco che domina l’attuale piazza S. Pietro proviene dal circo di Caligola e Nerone, che si trovava presso la basilica. Plinio il Vecchio lo attribuisce a Nencoreo, figlio di Sesostri, ma potrebbe invece trattarsi di un’opera romana. Nella pagina accanto, in basso l’obelisco collocato di fronte al Pantheon: già innalzato nel santuario di Iside in Campo Marzio, proviene da Heliopolis. In alto l’obelisco sistemato in piazza S. Giovanni in Laterano, proveniente da Tebe.

venne messo in opera solo da Thutmosi IV (circa 1425-1417 a.C.). Per quanto riguarda la sua collocazione, l’egittologo francese Gustave Lefebvre, tenendo presente quanto affermato dall’iscrizione dedicatoria, secondo cui il monolito sarebbe stato destinato al portale superiore, cioè a uno dei principali accessi al tempio di Karnak, concluse che esso doveva essere stato collocato a oriente del tempio principale. Fu però un altro studioso francese, Paul Barguet, che, scavando a est della cosiddetta Sala delle Feste di Thutmosi III, scoprí la base dell’obelisco: quattro grandi blocchi di pietra calcarea collegati con incassi sagomati a coda di rondine.

L’inviato di Costantino Ma la storia dell’obelisco non era certo finita qui: nel IV secolo d.C., Ammiano Marcellino scrisse di essere stato presente alla sua erezione in Roma. Secondo lo storico, il primo ad aver avuto l’idea di trasferirlo nella capitale imperiale sarebbe stato Augusto, che tuttavia avrebbe abbandonato l’impresa sia per le eccezionali dimensioni del monumento, sia per paura dell’ira degli dèi. Circa tre secoli dopo, Costantino inviò a Karnak un nobile ateniese, Nicagora, con l’incarico di negoziare, per conto dell’imperatore, la rimozione dell’obelisco con le autorità di Tebe, evidentemente piú disponibili a trattare con un pagano affidabile e rispettato che con un cristiano dell’entourage costantiniano. Naturalmente, il primo imperatore cristiano voleva l’obelisco per la sua nuova capitale da poco fondata: Costantinopoli. L’accordo si trovò, ma estrarre il monolito dal tempio non fu certo impresa facile: esso, infatti, era circondato da altri monumenti, per cui il basamento e una parte delle fondazioni andarono distrutti. Uno dei blocchi presso il sito originale mostra ancora visibili i segni delle funi per calare l’obelisco. Navigando sul Nilo, il monolito raggiunse Alessandria in condizioni relativamente buone, e lí attese la costruzione di una nave adatta a poterlo trasportare a Costantinopoli. Ma la morte dell’imperatore,

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sopravvenuta nel 337 d.C., ne ritardò il trasferimento, e alla fine il monolito cambiò destinazione: poco prima del 357 d.C., infatti, Costanzo II (337-361 d.C.), figlio e successore di Costantino, ordinò di trasportarlo a Roma. Anche in questo caso, come riferisce Ammiano, si dovettero affrontare molte difficoltà: fu costruita una nave speciale che trasportò l’obelisco attraverso il Mediterraneo sino alla foce del Tevere; poi esso fu trasferito su una chiatta che risalí il Tevere per 5 km. Di qui, il monolito fu condotto via terra fino al Circo Massimo, dove venne innalzato accanto a quello che era stato eretto da Augusto. Sulla sua sommità fu collocato un globo di bronzo ricoperto d’oro. Sul basamento, venne incisa un’epigrafe latina che rievocava le vicende del suo trasferimento. L’obelisco fu inaugurato ufficialmente durante una breve visita romana di Costanzo II, nella primavera del 357 d.C., data dopo la quale se ne perde ogni traccia. Esso riemerge alla piena luce della storia solo nel XVI secolo, quando monsignor Michele Mercati informò papa Sisto V dell’esistenza dell’obelisco, localizzato a circa 7 m sotto il livello della palude che ricopriva le rovine del Circo Massimo. Con non poche difficoltà, i tre grandi frammenti in cui il monolito di era spezzato furono recuperati e trasportati presso il Laterano: il 3 agosto 1588 l’obelisco fu eretto nella piazza sopra un nuovo basamento con quattro leoni e un’iscrizione che ricorda l’avvenimento. Sulla sua sommità, fu collocata una croce, segno del passaggio dalla Roma pagana alla Roma cristiana.

Dal circo di Caligola L’obelisco che oggi svetta al centro della piazza piú famosa della cristianità è privo di iscrizioni, e dunque restano ignote la sua data di fabbricazione e la sua provenienza. Probabilmente, gli obelischi anepigrafi furono cavati in Egitto sotto gli imperatori romani espressamente per essere trasferiti, ma è anche possibile che essi giacessero incompleti a causa dell’improvvisa morte del faraone

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committente. Il monolito di piazza S. Pietro, di granito rosso, alto circa 25 m, fu innalzato un tempo nel Foro Giulio di Alessandria per ordine di Augusto. Nel 37 d.C., Caligola lo fece portare a Roma e collocare nel Circo Vaticano, dove la tradizione vuole che siano stati martirizzati molti cristiani, tra cui san Pietro. Già a partire dalla metà del XV secolo, i papi avevano dunque stabilito di trasferire questo testimone sui generis del martirio del Principe degli apostoli sulla piazza a lui intitolata, ma fu ancora una volta Sisto V a realizzare questo progetto. Appena eletto, il pontefice nominò una commissione finalizzata a individuare l’architetto al quale affidare l’operazione, ma poi scelse egli stesso Domenico Fontana, il suo architetto di fiducia. Questi si mise immediatamente al lavoro, liberando l’obelisco dalle macerie che lo circondavano e, contemporaneamente, preparando l’area destinata ad accoglierlo. Il giorno fissato per far scendere il monolito sul carrello sopra il quale doveva essere trasportato nella nuova sede era il 28 aprile 1586; successivamente, il 9 maggio dello stesso anno, l’obelisco fu fatto scendere dal basamento e deposto a terra. Quel giorno, una grande folla, proveniente da tutti i rioni di Roma, assistette ai lavori, che si conclusero felicemente fra gli applausi dei convenuti: lo stesso Fontana, che, dicevano le malelingue, seguí l’erezione stando su una carrozza, pronto a darsi alla fuga in caso di insuccesso, venne portato in trionfo al suono di trombe e tamburi. Il 13 giugno, l’obelisco fu trascinato nella piazza, che, a partire dal 30 agosto, in previsione dell’ultima fase delle operazioni, venne chiusa al pubblico; il 10 settembre esso fu collocato sul basamento, e il 14 dello steso mese venne rimossa l’incastellatura che lo circondava. La cerimonia inaugurale ebbe luogo il 26 settembre. In una chiesa vicina fu celebrata una messa alla quale assistettero tutta la corte papale e una gran folla di cittadini. Poi, tutti si diressero in processione verso l’obelisco, che fu benedetto, e sulla sua sommità venne posta una croce. Commemora tutt’ora l’evento un’epigrafe latina collocata

Incisione raffigurante i lavori di innalzamento dell’obelisco di piazza S. Pietro, dall’opera del cartografo olandese Joan Blaeu Theatrum civitatum et admirandorum Italiae, ad aevi veteris et praesentis temporis faciem expressum, pubblicata nel 1663. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. L’operazione fu affidata da papa Sisto V a Domenico Fontana, suo architetto di fiducia, e si concluse il 9 maggio del 1586.


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sulla parte alta del basamento. In essa si ricordano Augusto e Tiberio, che si occuparono delle precedenti sistemazioni del monumento, e il papa Sisto V, promotore dell’ultima.

Sempre al suo posto L’ultimo obelisco asportato dall’Egitto dagli imperatori romani è quello dell’ippodromo di Costantinopoli (oggi Atmeidan, o «piazza dei cavalli» nella moderna Istanbul). A differenza di quelli portati a Roma, che subirono varie vicende e trasferimenti, l’obelisco dell’ippodromo rimane in piedi nell’esatto luogo in cui fu collocato dopo il trasporto. Il monolito dell’ippodromo, di granito rosso e alto attualmente circa 20 m, è un esemplare della coppia eretta nel grande tempio di Karnak da Thutmosi III e compare nella raffigurazione di una scena di offerte conservata nel tempio stesso. Risulta mancante di una sezione della parte inferiore, forse spezzatasi durante il trasporto. Su ciascuna faccia della cuspide del monolito, che si presenta deformata, compare una

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divinità stante che stringe la mano del faraone, porgendogli l’ankh, simbolo della vita. Sulla sommità delle quattro facce vi è una scena in cui Thutmosi III compie offerte al dio Amon-Ra, e sotto tale scena, una colonna di iscrizioni geroglifiche. Ogni colonna inizia con un’elaborata lista di epiteti del sovrano; poi, due di esse continuano: «Colui che attraversa il grande circuito di Naharina con valore e vittoria alla testa del suo esercito, compiendo grande strage (…) Signore della vittoria che soggioga tutti i paesi, fissando le sue frontiere all’inizio della terra fino alle regioni paludose di Naharina». Tali attestazioni commemorano una delle piú celebri campagne militari di Thutmosi III, durante la quale egli giunse fino in Siria e attraversò l’Eufrate. L’obelisco di Istanbul sorgeva un tempo a sud del settimo pilone sull’asse trasversale del grande tempio di Karnak. Recentemente, gli archeologi del Centro franco-egiziano di Luxor hanno ritrovato le rampe utilizzate dai Romani per rimuoverlo. La direzione dei geroglifici sul


lato frontale del monumento indica che esso sorgeva sul lato occidentale del portale. La parte inferiore del tronco del suo compagno poggia ancora oggi sopra un massiccio basamento sul lato orientale del portale, mentre intorno giacciono numerosi frammenti superstiti. Non è certo quale imperatore abbia promosso l’invio dell’obelisco a Costantinopoli, ma è probabile che sia stato Giuliano, del quale si conosce una lettera in cui chiede agli Alessandrini di spedirgli un obelisco di granito che giaceva nella loro città, promettendo loro in cambio una propria statua. Non sappiamo se gli Alessandrini abbiano accolto la richiesta: le iscrizioni sulla base del monumento riferiscono soltanto che l’obelisco, prima di essere eretto nell’ippodromo, giacque a terra per un certo periodo di tempo.

Nella pagina accanto Istanbul. L’obelisco del faraone Thutmosi III, proveniente da Heliopolis. Nel 390 d.C. Teodosio lo fece collocare nell’ippodromo di Costantinopoli. In basso una delle facce decorate del basamento dell’obelisco con l’imperatore che assiste alle corse dei carri.

Il definitivo innalzamento è attribuito all’imperatore Teodosio I (347-395) e al prefetto di Costantinopoli Proclo, incaricato della direzione dei lavori. La base si presenta divisa in due sezioni: la parte inferiore, oltre alle iscrizioni, reca due bassorilievi in cui compare l’obelisco: in una lo si vede ancora disteso sulla chiatta, mentre nell’altra appare già eretto sulla spina dell’ippodromo, mentre si svolge una corsa di carri. La parte superiore della base mostra l’imperatore e la corte nell’atto di osservare le corse che si svolgevano intorno all’obelisco. Poi, le corse finirono, l’impero crollò e gli imperatori cristiani furono sostituiti dai sultani ottomani: l’obelisco rimase testimone di questo passaggio, e ancora oggi veglia su una delle città piú belle del mondo.


MONDO ISLAMICO

SULLA VIA DI DIO

DISTRUZIONI E FURTI DELLE OPERE D’ARTE DEGLI «INFEDELI»

Il Colosso di Rodi, olio su tavola di Louis de Caullery. 1600 circa. Parigi, Museo del Louvre. Nel 228 a.C., la statua fu abbattuta da un terremoto e può darsi che fosse stata in qualche modo restaurata in età romana, ma all’epoca dell’invasione araba essa era certamente scomparsa da tempo. Non ha dunque alcun fondamento la tradizione che attribuisce la distruzione dell’opera agli Arabi che nel VII sec. conquistarono Rodi.

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N

È OPINIONE DIFFUSA CHE L’ISLAM ABBIA SEMPRE RIFIUTATO L’USO DELLE IMMAGINI, MA SI TRATTA DI UN PREGIUDIZIO, NATO DA ERRORI DI INTERPRETAZIONE. E CHE, NEL TEMPO, HA ALIMENTATO LA CONVINZIONE CHE ALLE GENTI MUSULMANE ANDASSE IMPUTATA LA DISTRUZIONE DI ALCUNI DEI GRANDI CAPOLAVORI DELL’UMANITÀ

el corso delle grandi conquiste islamiche le truppe musulmane ebbero occasione di entrare in contatto con le grandi civiltà del mondo tardo-antico, che avevano elaborato importanti tradizioni culturali e figurative. Nella vulgata storiografica, la storia dei rapporti con tale tradizione è spesso rappresentata sotto un segno esclusivamente negativo, in cui l’elemento prevalente sembra essere quello del rifiuto e dell’annichilimento: secondo questa visione, per l’Islam, l’arte degli «infedeli» Greci, Romani e Bizantini, in quanto arte demoniaca, non avrebbe potuto essere neppure oggetto di preda o di razzia, ma il suo unico destino possibile e plausibile sarebbe stato la distruzione. In realtà, come vedremo subito, l’atteggiamento islamico nei confronti delle opere letterarie e artistiche prodotte dalla civiltà greco-romana e bizantina, fu assai piú complesso e sfaccettato. Ma, per rendercene pienamente conto, si deve esaminare piú da vicino il problema del rapporto fra la cultura islamica e l’arte figurativa. Le vignette satiriche sul Profeta dell’Islam comparse di recente su alcuni quotidiani europei, oltre a suscitare in tutto il mondo il disgusto, la protesta e la rivolta di un gran numero di musulmani, hanno provocato in Occidente, come «effetto collaterale», il riaccendersi della curiosità sul tema affascinante del ruolo e della liceità delle immagini nel mondo islamico. Chiunque abbia visitato una moschea sa bene come tali luoghi siano privi di immagini sacre, e come, in generale, non vi si trovino rappresentazioni di esseri viventi; e tuttavia, la consapevolezza di questa diffidenza per le immagini – che l’Islam peraltro condivide con l’ebraismo – è spesso fonte di equivoci. Per esempio, si ritiene comunemente che il divieto delle immagini sia connesso con lo «spirito semitico», senza considerare che questo stesso «spirito» si è espresso nella creazione di grandi correnti artistiche ricche di rappresentazioni di esseri animati: si pensi all’arte assirobabilonese, a quella palmirena o a quella dei Nabatei di Petra. L’avversione per le

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MONDO ISLAMICO

Rotolo con il testo del Corano. Periodo abbaside, VIII-IX sec. Istanbul, Museo d’arte turca e islamica.

rappresentazioni iconiche non è, dunque, una caratteristica dei popoli semitici: lo fu, tutt’al piú, di una loro parte, gli Ebrei e, anche in questo caso, per un periodo limitato della loro storia.

Muhammad, profeta «iconofilo» Un punto fondamentale è invece quale sia stata l’attitudine dell’Islam primitivo, e soprattutto quella del Profeta, rispetto ai monumenti figurati. In effetti, Muhammad non fu quel feroce iconoclasta dipinto dalla tradizione, e nel Corano non troviamo una chiara condanna delle immagini. Solo un passo del libro sacro dell’Islam lascia qualche dubbio: «astenetevi dalla contaminazione degli awtân, astenetevi dal discorso mendace!» (XXII 30). Qui infatti non sappiamo con certezza se intendere il termine

awtân come «immagini» o «idoli». In ogni caso, sarebbe inutile cercare nel Corano la precisa interdizione delle immagini che troviamo invece nell’Antico Testamento (Deuteronomio V 8): «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassú in cielo né di ciò che è quaggiú sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai». Nel Corano, inoltre, non v’è traccia di divieti nei riguardi delle rappresentazioni profane, e infatti nell’Islam primitivo abbondano oggetti e ornamentazioni figurate: la tradizione ci parla di pittori che decoravano le case di Medina – la città in cui Muhammad si era rifugiato al momento dell’ègira (622 d.C.), facendone la sua capitale – e al tempo del califfato omayyade (661-750 d.C.) grandi cicli pittorici ornavano le sontuose residenze dei sovrani, quei «castelli del deserto» resi celebri dalle descrizioni di Lawrence d’Arabia nei Sette pilastri della saggezza; negli stessi palazzi gli archeologi hanno anche rinvenuto statue che ritraevano i califfi o forse i grandi personaggi della storia islamica.

L’arte del ritratto Fra i musulmani era diffusa anche l’arte del ritratto: le prime monete da loro coniate – che imitano i tipi persiani e bizantini – recavano infatti la figura del sovrano armato di spada. Nei primi secoli dell’Islam esistevano, infine, numerosi racconti relativi alla diffusione delle immagini del Profeta; in uno scritto sui «segni della profezia» dell’erudito musulmano Abû Bakr Ahmad ibn al-Husayn al-Bayhaqi – attivo nella prima metà dell’XI secolo d.C. – al capitolo intitolato «Ciò che è noto riguardo all’immagine (surah) del Profeta Muhammad e a proposito delle immagini dei Profeti che lo hanno preceduto in Siria» l’autore narra, per esempio, di un mercante meccano contemporaneo del Profeta che, in un monastero di Bosra, avrebbe avuto modo di vedere le immagini dipinte di Muhammad e di Abu Bakr, il primo califfo; e di un altro commerciante di Mecca, il quale, durante un

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Miniatura raffigurante Maometto con le sue consorti (contrassegnate dalle aureole), da un manoscritto turco sulla vita del Profeta. XVIII sec. Istanbul, Museo d’arte turca e islamica.

viaggio in Siria, sarebbe stato condotto in una casa decorata da pitture, e avrebbe identificato fra esse l’immagine del Profeta. Narrazioni come queste, se pure appartengono a quel particolare tipo di letteratura il cui scopo principale era di fornire ogni sorta di prove della missione profetica di Muhammad, sono comunque di notevole antichità e rivelano un mondo saturo di immagini a carattere religioso, facendo balenare la possibilità che raffigurazioni del Profeta – ben attestate, in epoche piú recenti, in molte regioni del mondo islamico – fossero presenti, in contesti di tipo privato, anche nel periodo iniziale dell’Islam. Tuttavia, già nei primi decenni dell’VIII secolo,

si era verificato un importante episodio di iconoclastia islamica, provocato da un decreto del califfo omayyade Yazîd ibn ‘Abd al-Malik: dovette trattarsi di un provvedimento territorialmente limitato ed esplicitamente anticristiano, inquadrabile nel piú vasto contesto delle teorie iconoclastiche elaborate in ambito ebraico e bizantino. La vera svolta nell’atteggiamento islamico nei confronti dell’immagine si ha però con l’avvento della nuova dinastia che, alla metà dell’VIII secolo, sostituisce gli Omayyadi alla guida dei musulmani: gli Abbasidi. Costoro spostano la capitale dell’impero da Damasco alla Mesopotamia, dove fondano Baghdad, e

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rompono, sia dal punto di vista politicoamministrativo, sia dal punto di vista artistico, con la tradizione ellenistico-romana, guardando piuttosto all’eredità persiana.

Le fonti della teologia e della legge In questo periodo prende forma quella grande opera di raccolta di tradizioni riguardanti Muhammad che costituiscono, insieme allo stesso Corano e al consenso della comunità, le fonti della teologia e della legge islamica. In tali tradizioni l’atteggiamento nei confronti delle immagini è fortemente negativo: secondo al-Bukhari, curatore, attorno al IX secolo, di una

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monumentale silloge di «detti e fatti del Profeta dell’Islam», Muhammad avrebbe espresso una ferma condanna della pittura, affermando che nel Giorno del Giudizio gli artisti sarebbero stati puniti da Dio nel modo piú severo, in quanto usurpatori della funzione creativa spettante appunto solo ed esclusivamente al Creatore. Il passo successivo è la formalizzazione del divieto assoluto di produrre o utilizzare immagini, perché «gli angeli non entreranno in una casa dove c’è un dipinto», e perché coloro che le creano «mentono contro Dio e sono suoi nemici». Questo divieto non fu comunque sempre rispettato e i giuristi stessi escogitarono


Damasco, Grande Moschea. Particolare della decorazione a mosaico del cortile raffigurante un paesaggio. 706-705. Realizzata da esperti artigiani bizantini, la scena si ispira alla concezione islamica del Paradiso, in cui, all’ombra di alberi sempreverdi, mormorano ruscelli di acque freschissime. La rappresentazione allude anche alla pax omayyade e potrebbe rappresentare le diverse città dell’impero.

vari accomodamenti: in molte regioni del mondo musulmano sovrani e ministri amanti delle arti promossero la creazione di opere pittoriche di livello notevolissimo, un’eco delle quali si ritrova nelle splendide miniature che, soprattutto a partire dal X secolo, illustrano i manoscritti islamici in lingua araba, turca e persiana.

Un rapporto complesso Le vicende relative al rapporto dell’Islam con la sfera delle immagini sono dunque assai complesse e in larga misura non riconducibili alle categorie del pensiero artistico occidentale. Nei nostri mezzi di comunicazione di massa, che si sono ampiamente occupati del problema in occasione dell’affaire delle vignette, si è invece imposta una lettura semplicistica e fuorviante, tutta imperniata su un’astratta – e del tutto incongrua – polarizzazione tra Islam «massimalista» e «progressista». Secondo tale interpretazione, nella controversia sulle immagini una parte del mondo islamico avrebbe fatto prevalere un’interpretazione massimalista, vietando anche la raffigurazione iconica del Profeta, e, indirettamente, ponendo un blocco su tutta la creazione artistica nell’Islam. Nei periodi di ripiegamento dell’Islam o di irrigidimento delle società musulmane, tali questioni divengono facilmente anche questioni politiche. Questa ricostruzione, oltre a essere palesemente errata dal punto di vista storico (basti ricordare che l’ostilità nei confronti delle immagini si afferma in uno dei periodi di maggior fioritura culturale dell’Islam, e che se a tale ostilità si è talvolta derogato nella pratica, nessun musulmano, per quanto «progressista» ha mai esplicitamente teorizzato la liceità delle immagini in campo religioso), è del tutto priva di fondamento anche per ciò che concerne la storia dell’arte: lungi dal costituire un blocco su tutta la creazione artistica, il particolare rapporto dell’Islam con l’iconografia ha invece rappresentato uno stimolo straordinario alla nascita di forme artistiche originali quali la calligrafia o l’arabesco, nel quadro di una contrapposizione fra spazio pubblico,

rigorosamente non figurativo, e spazio privato, in cui le immagini possono invece dispiegarsi liberamente.

La barbarie «inventata» Le spedizioni militari arabe contro Rodi si collocano in un arco cronologico che va dal 653/4 al 680 d.C. e si conclusero con la conquista dell’isola. A differenza di molte altre isole dell’Egeo cadute nelle mani degli Arabi in questo primo periodo della loro espansione, Rodi aveva una particolarità: quella di ospitare la statua colossale dedicata al dio Sole, che non era solo una scultura, ma una delle Sette Meraviglie del mondo. Il cosiddetto «Colosso di Rodi» era stato commissionato dai Rodiesi allo scultore Carete di Lindo per commemorare la loro vittoria (305 a.C.) su Demetrio Poliorcete, figlio di Antigono di Macedonia. Per una volta, infatti, l’«Assediatore» (è questo il significato di «Poliorcete») aveva trovato pane per i suoi denti, era stato costretto a levare l’assedio e aveva abbandonato sull’isola tutte le macchine da guerra. Gli abitanti di Rodi vendettero il materiale bellico e ne ricavarono una grande somma, che investirono appunto nella statua bronzea di Helios. Tra il 304 e il 293 a.C., Carete e i suoi fonditori attesero alla realizzazione dell’opera, che raggiungeva l’altezza di 33 m circa. Sul cosiddetto «Colosso», termine che originariamente indicava una statua divina dotata di magici poteri, e che, essendo stato utilizzato per indicare la scultura rodiese, passò poi a definire ogni tipo di statua «colossale», abbiamo pochissime notizie. Non sappiamo neppure dove esattamente sorgesse e quale fosse il suo aspetto. Solo tre autori antichi – Strabone, Plinio il Vecchio e Filone di Bisanzio – ne parlano un po’ piú dettagliatamente, e i loro resoconti suscitano molti interrogativi. V’è poi un epigramma greco, che esalta il Colosso parlando di una «splendente fiaccola d’indomita libertà», che i Rodiesi avevano innalzato perché fosse vista non solo dal mare, ma anche dal continente. L’elemento che colpiva straordinariamente i contemporanei era

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comunque la grandezza della scultura: statue alte piú di 10 m non erano rare allora in Grecia, ma nessuna era grande come il Colosso. Nel 228 a.C. (come prova un’iscrizione recentemente rinvenuta a Iasos), la statua fu abbattuta da un terremoto.

Novecento cammelli per il bronzo Strabone afferma che il Colosso si spezzasse all’altezza delle ginocchia e che i Rodiesi rifiutarono l’offerta di Tolomeo III d’Egitto di pagarne subito il restauro perché un oracolo aveva vietato loro di ricostruirlo. È forse possibile che la scultura fosse stata in qualche modo restaurata in epoca romana, ma all’epoca dell’invasione araba essa era certamente scomparsa da tempo. Su questa limitata impalcatura fattuale, in epoca medievale si è sviluppata una tradizione che, contro ogni evidenza, attribuisce la distruzione del Colosso agli Arabi che nel VII secolo conquistarono Rodi. Secondo il cronografo bizantino Teofane (VIII-IX secolo d.C.), ad abbattere la statua sarebbe stato il generale musulmano Mu‘awiya ibn Sufyan (futuro fondatore della dinastia omayyade) nel 645 d.C. Il bronzo ricavato sarebbe stato acquistato da un mercante ebreo, che lo avrebbe caricato su novecento cammelli. Questa stessa notizia è ripetuta, con qualche minima variante, dall’imperatore di Bisanzio Costantino Porfirogenito (912-959 d.C.), che definisce Mu‘awiya «il distruttore del Colosso di Rodi», e dal patriarca siriano Michele I Qindasi, meglio noto come «Michele il Siro» (morto nel 1199), il quale sostiene che gli Arabi avrebbero distrutto la statua con il fuoco per impadronirsi del bronzo con cui era fatta. Brevi accenni a questo episodio si trovano anche in altre fonti medievali, e quasi tutte concordano nell’individuare gli Arabi come distruttori del Colosso, e il mercante ebreo come acquirente del materiale da esso ricavato (l’unica eccezione è costituita da un passo di uno storico arabo-cristiano, Agapio di Manbij, secondo cui gli Arabi avrebbero gettato «l’idolo» nel mare). Come è evidente, tutta la

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tradizione cristiana concernente la distruzione del Colosso è una mera invenzione, basata sullo stereotipo della barbarie degli Arabi, rozzi, incolti e ostili a ogni tipo di immagini. A esso si aggiunge poi un chiaro elemento anti-giudaico, costituito dalla menzione del mercante ebreo. Arabi ed Ebrei sono cosí rappresentati dalle fonti cristiane come corresponsabili della distruzione e della vendita di ciò che restava dell’eredità antica. Un classico caso di antisemitismo, fondato, come sempre, su una «colossale» menzogna.

La distruzione della biblioteca Il plurisecolare stato di guerra tra Occidente cristiano e Oriente islamico ha prodotto inevitabilmente innumerevoli distorsioni nella rappresentazione dei caratteri del «nemico». Cosí, nella visione tradizionale cristiana, i musulmani sono spesso descritti come distruttori e saccheggiatori, ignoranti e belluini, nemici della bellezza e della cultura; nulla o quasi, invece, è detto a proposito del fatto che nei primi secoli del califfato abbaside la scienza e la filosofia dei Greci non fu considerata contraria al Corano, ma affascinante e indispensabile, e le opere di autori quali Galeno, Aristotele, Platone e Plotino furono ricercate, tradotte, studiate e commentate. Ma a volte le deformazioni e gli errori possono nascere all’interno stesso di una tradizione, come prova il caso veramente notevole della supposta distruzione islamica della Biblioteca di Alessandria. Benché vi siano numerosissime testimonianze in senso contrario, molti studiosi, per esempio, sono ancora disposti a credere che la Biblioteca di Alessandria sia stata distrutta dagli Arabi dopo la loro conquista della città del 642 d.C., per ordine del califfo ‘Umar. Questa storia venne per la prima volta a conoscenza degli studiosi occidentali nel 1663, quando Edward Pococke, professore di arabo a Oxford, pubblicò un’edizione del testo arabo, con traduzione latina, di una parte della Storia delle dinastie dell’autore siro-cristiano Barebreo (1226-1286). Secondo questo autore, ‘Ambr ibn al-‘As, il comandante dei

Nella pagina accanto statua in marmo ispirata al Colosso di Rodi, commissionato dai Rodiesi a Carete di Lindo per commemorare la loro vittoria (305 a.C.) su Demetrio Poliorcete, figlio di Antigono di Macedonia. Età imperiale. Lindo, Museo Archeologico.


conquistatori arabi, avrebbe scritto al califfo ‘Umar una lettera piena di entusiasmo in cui magnificava la bellezza di Alessandria: «Non mi è facile enumerare le sue ricchezze e le sue bellezze. Mi limiterò a ricordare che conta quattromila palazzi, quattromila bagni pubblici, quattrocento teatri o luoghi di divertimento, dodicimila negozi di frutta e quarantamila Ebrei tributari». In ogni caso, ‘Amr era assolutamente contrario a ogni idea di distruzione o di saccheggio della città, e il generale sarebbe stato del tutto incline ad accettare la richiesta del filosofo alessandrino Giovanni il Grammatico di non distruggere la biblioteca. Ma il califfo gli inviò da Medina un ordine inequivocabile: «Quanto ai libri» – avrebbe scritto ‘Umar, «ecco la risposta: se il loro contenuto si accorda con il libro di Allah, noi possiamo farne a meno, dal momento che, in tal caso, il libro di Allah è piú che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di difforme rispetto al libro di Allah, non c’è alcun bisogno di conservarli. Procedi e distruggili». Ligio al responso del califfo, ‘Amr avrebbe allora intrapreso l’opera di distruzione, distribuendo i libri tra i quattromila bagni di Alessandria perché fossero usati come combustibile delle fornaci che li rendevano cosí confortevoli: ci vollero ben sei mesi per bruciarli tutti. Già nel 1713 un orientalista francese, Padre Eusèbe Renaudot, sollevò dubbi su questo racconto, e lo stesso fece il celebre storico Edward Gibbon, il quale, dopo averlo riferito nel suo Decline and Fall of the Roman Empire, affermò di essere fortemente tentato di considerarlo un’invenzione, sia perché la storia in questione faceva la sua comparsa ben seicento anni dopo gli eventi sia perché essa contrastava con tutto ciò che gli era noto dell’atteggiamento musulmano nei confronti della cultura. Dopo Gibbon, altri studiosi esercitarono la loro critica nei confronti di vari elementi del racconto, notando come

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molti dei suoi dettagli, come per esempio il numero dei bagni di Alessandria, fossero totalmente fantasiosi, e come una storia identica a questa sia narrata da Ibn Khaldun a proposito di una biblioteca persiana, il che lascia pensare che possa trattarsi di un motivo leggendario applicato a realtà diverse. Piú recentemente, il grande storico Bernard Lewis ha ribadito che l’argomento piú forte contro l’autenticità di questa tradizione è costituito dalla sua attestazione tardiva: Barebreo, la fonte principale utilizzata dagli storici occidentali, visse dal 1226 al 1286 e aveva attinto le notizie da lui riportate a proposito della Biblioteca di Alessandria da due

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Dirham in rame con l’immagine di Saladino seduto, da Mayyafariqin (oggi Silvan, Turchia). 1190-91. Lipsia, Biblioteca Universitaria.

autori attivi in Egitto all’inizio del XIII secolo: ‘Abd Latif e Ibn al-Qifti. Per accettare come autentico il racconto, sostiene Lewis, bisognerebbe spiegare come mai un evento cosí drammatico e «spettacolare» non sia stato mai menzionato non solo nella letteratura storica araba medievale, ma neppure nella letteratura copta, in quella ebraica e in quella bizantina. Ma se, come sembra, si tratta di un mito, come e quando si è originato? Come Lewis ha magistralmente dimostrato, la storia è nata alla fine del XII secolo, nel contesto del passaggio dell’Egitto dal dominio di una dinastia sciita, i Fatimidi, a quello della dinastia sunnita degli Ayyubidi, fondata dal


celebre Saladino. Uno dei primi atti compiuti da quest’ultimo all’indomani della sua presa del potere fu infatti quello di impadronirsi delle collezioni di tesori dei Fatimidi e di venderle in aste pubbliche. In tali collezioni, un posto importante spettava ai libri, molti dei quali erano peraltro opere contenenti dottrine sciite, considerate eretiche.

È l’ora della riabilitazione In una società raffinata e civilizzata come quella musulmana, la distruzione di una biblioteca, per quanto traboccante di libri «pericolosi», rischiava però di essere vista con disapprovazione: qui, dunque, entrava in gioco il mito della distruzione della Biblioteca di Alessandria da parte del califfo ‘Umar, una

In alto miniatura raffigurante una giostra di cavalieri. Periodo fatimide, X-XII sec. Il Cairo, Museo d’Arte Islamica. All’indomani della sua presa di potere, l’ayyubide Saladino si impadroní dei tesori dei Fatimidi, che furono venduti in aste pubbliche. A sinistra, sulle due pagine le rovine della Biblioteca di Alessandria in una incisione di Luigi Mayer. 1804. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs. La distruzione del grande centro di cultura è stata a lungo attribuita agli Arabi che conquistarono la città nel 642.

storia che costituiva un precedente, un modello e una giustificazione per la decisione di Saladino. Secondo l’interpretazione degli intellettuali che l’avevano fabbricato, il messaggio del racconto non era certo quello di mettere in rilievo la «barbarie» del distruttore di biblioteche ‘Umar, ma quello per cui la distruzione di una biblioteca, in alcuni casi, poteva essere giustificata, perché anche il califfo ‘Umar aveva preso tale decisione in nome della fede. Come spesso succede nel mondo islamico, un antico eroe musulmano viene dunque mobilitato per dare sanzione postuma ad azioni e comportamenti con i quali egli non aveva nulla a che fare. Ma la vicenda non finisce qui: in effetti, quando la storia inizia a circolare, i cristiani se ne impadroniscono, rovesciandone il messaggio e trasformando ‘Umar da pio difensore dell’ortodossia islamica in rozzo barbaro, nemico della scienza e della cultura. Come ha scritto giustamente Lewis, «è ormai tempo che il califfo ‘Umar e ‘Amr ibn al-‘As siano finalmente assolti dall’accusa mossa loro, in singolare accordo, da ammiratori e detrattori».

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ALL’OMBRA DELLA

CROCE

1204: IL SACCO DI COSTANTINOPOLI FACENDOSI SCUDO DEL RUOLO DI DIFENSORI DELLA FEDE CRISTIANA, LE ARMATE CHE PRESERO PARTE ALLA IV CROCIATA SI MACCHIARONO DI UNA DELLE IMPRESE PIÚ IGNOBILI DELLA STORIA. DEVASTANDO QUELLA CHE ERA STATA LA NUOVA ROMA DI COSTANTINO E SPOGLIANDOLA DI TUTTI I SUOI TESORI PIÚ PREZIOSI

«I

La caduta di Costantinopoli, dipinto del Tintoretto (al secolo Jacopo Robusti). 1580 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.

trionfi della crociata furono i trionfi della fede, ma è pericolosa la fede senza la saggezza. Lo studioso che a secoli di distanza ne considera l’eroica storia deve sentire che la sua ammirazione viene offuscata dal dolore per la dimostrazione che essa offre dei limiti della natura umana. C’era tanto coraggio e cosí poca lealtà, tanta devozione e cosí poca comprensione; ideali elevati erano insozzati da crudeltà e cupidigia, spirito d’iniziativa e costanza nelle avversità erano annullati da un sentimento della propria giustizia cieco e limitato. La guerra santa stessa non fu altro che un lungo atto di intolleranza compiuto nel nome di Dio». Questa celeberrima sentenza di condanna, tanto piú significativa in quanto emanata da uno dei piú grandi storici del fenomeno delle crociate, sir Steven Runciman, è stata oggi riveduta e, almeno in parte, attenuata. Franco Cardini, per esempio, ha mostrato

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CROCIATE E RAZZIE | Enrico Dandolo, doge di Venezia | In basso veduta del Palazzo Ducale e di piazza S. Marco a Venezia, olio su tela di scuola veneta. 1900 circa. Collezione privata.

come non sia del tutto vero che le crociate provocarono lontananza e inimicizia reciproca tra Occidente cristiano e Oriente musulmano, ricordando che l’epoca in cui esse si svolsero (XI e XIII secolo), fu anche quella del massimo avvicinamento culturale e scientifico fra Cristianità e Islam. E tuttavia, fra le nove spedizioni «ufficiali» riconosciute dagli storici, v’è n’è una che sembrerebbe adattarsi in toto al giudizio radicalmente negativo espresso da Runciman: è la IV crociata, che si svolse tra il 1202 e il 1204. Lungi dal perseguire l’obiettivo della liberazione della Terra Santa, infatti, essa portò la guerra nel cuore dell’impero bizantino e produsse la caduta della piú grande capitale cristiana del tempo, Costantinopoli. La città fu costretta a subire un terribile saccheggio: molti capolavori dell’arte greca, romana e bizantina che, sfidando il tempo, le catastrofi naturali e le sventure umane, erano ancora presenti fra le sue mura, furono portati in Occidente, e con essi anche centinaia di sante reliquie raccolte per secoli dagli imperatori di Bisanzio.

Il sogno di Innocenzo III Tutto ebbe inizio nel 1198, con l’elezione di un giovane papa, brillante e deciso, che assunse il nome di Innocenzo III ed ebbe come destino quello di divenire uno dei pontefici piú celebri

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N

ipote di un patriarca e figlio di un giudice della corte ducale, entrambi valorosi crociati, Enrico Dandolo (Venezia, 1107 circa-Costantinopoli, 21 giugno 1205) fu senz’altro il doge piú famoso della storia di Venezia. A lungo, esercitò il mestiere di mercante, spaziando tra Costantinopoli e Alessandria d’Egitto; la sua carriera politica cominciò solo a piú di sessant’anni, nel 1170, quando Enrico fu nominato bailo a Costantinopoli e, l’anno successivo, si trovò a dover negoziare la pace con l’imperatore bizantino Manuele Comneno, resosi responsabile dell’arresto e della confisca dei beni di tutti i cittadini veneziani residenti nei territori dell’impero, provvedimenti ai quali Venezia aveva reagito con la guerra. Stando alle cronache, in questo frangente, Enrico avrebbe perso parzialmente o totalmente la vista: in occasione della fuga da Bisanzio o nel corso di un’accesa discussione con l’imperatore, sarebbe rimasto cieco da un

Nella pagina accanto Il doge Enrico Dandolo nonagenario e i capitani dei Crociati giurano in S. Marco i patti, olio su tela a cui lavorarono Carlo Saraceni e Jean Le Clerc, ma ultimato dal solo artista francese per la morte del collega italiano. 1621 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.


occhio o forse da entrambi. Tornato in patria, riprese a viaggiare per affari in Oriente, ma nel 1183 fu nuovamente inviato a Costantinopoli per riallacciare i rapporti diplomatici con i Bizantini. Poi, il 21 giugno del 1192, alla veneranda età di ottantacinque anni, fu eletto quarantunesimo doge della Repubblica. La quarta crociata, dal punto di vista degli interessi veneziani, fu il suo capolavoro politico: essa infatti pose le basi per la creazione dell’impero marittimo di Venezia. Dopo la conquista di Costantinopoli, Enrico Dandolo non tornò piú in patria: morí il 21 giugno 1205 e fu sepolto nella parte meridionale della galleria del matroneo della basilica di S. Sofia. Si dice che dopo la conquista della città da parte dei Turchi, nel 1453, la sua tomba fu aperta e le ossa furono gettate in pasto ai cani. La lapide recante la scritta «Henricus Dandolo» che ancora oggi può vedersi nella basilica è un falso ottocentesco.

del Medioevo. Subito dopo la sua salita al trono di Pietro, Innocenzo lanciò infatti un appello per una nuova crociata che, nei suoi disegni, avrebbe dovuto riscattare il sostanziale fallimento della terza crociata (1189-1192) e, soprattutto, riportare in mani cristiane Gerusalemme, che nel 1187, dopo la decisiva battaglia di Hattin, era stata riconquistata da Saladino. Innocenzo rese pubblici i suoi intendimenti in un’enciclica del 15 agosto del 1198, e nominò due legati pontifici, che furono inviati in Francia, in Inghilterra e a Venezia, allo scopo di organizzare la campagna militare sia dal punto di vista diplomatico, sia da quello logistico. Come ha giustamente sostenuto lo storico Thomas F. Madden, la decisione di prendere contatto con Venezia nella fase preparatoria dell’impresa è un chiaro indizio del fatto che il ruolo assunto dalla Repubblica in quella che sarà appunto la quarta crociata non fu né il frutto di un ripensamento tardivo. Né fu una condizione imposta al papa contro il suo volere, bensí uno stato di cose largamente

previsto e auspicato dallo stesso Innocenzo, il quale ultimo, per assicurarsi la partecipazione della flotta repubblicana, concesse ai Veneziani la dispensa per commerciare un gran numero di derrate nei porti egiziani, permettendo cosí a Venezia di derogare all’obbligo di non commerciare con gli infedeli. All’inizio dell’anno 1200, i nobili Baldovino di Fiandra, Tebaldo di Champagne e Luigi di Blois si riunirono a Soissons per discutere i tempi e gli obiettivi della nuova crociata e decisero di procedere via mare, come aveva già fatto a suo tempo Riccardo I Cuor di Leone. Ma, a differenza di quest’ultimo, Baldovino, Tebaldo e Luigi non disponevano di una flotta e dunque conclusero di appaltare la sua costruzione a una città portuale, costituendo un comitato che avrebbe dovuto scegliere la città in questione e stipulare con essa un contratto ad hoc. Come racconta il maresciallo di Champagne Goffredo di Villehardouin, nella sua famosissima cronaca, che costituisce una delle fonti essenziali sulle crociate, il comitato,

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CROCIATE E RAZZIE

Qui accanto crocifisso ligneo. XIII sec. Zara (Croazia), chiesa dei Francescani, sacrestia. In basso Ravenna, basilica di S. Giovanni Evangelista. I Veneziani, guidati dal doge Enrico Dandolo, danno

l’assalto alle mura di Zara, nel novembre del 1202, frammento del mosaico pavimentale (rimossa dalla sede originaria, l’opera è ora inserita nelle murature della chiesa). 1213 circa.

del quale lui stesso faceva parte, non ebbe dubbi: il candidato ideale era, sotto tutti i punti di vista, Venezia. Cosí, nel febbraio del 1201 la commissione scelta dai nobili crociati si trasferí in laguna e, dopo una serie di trattative estenuanti, sulle quali si sofferma ampiamente Goffredo di Villehardouin, il popolo veneziano, riunito in S. Marco, acconsentí a prendere parte alla spedizione. Non si trattava di una scelta individuale, come avveniva nel resto di Europa. La Repubblica aderiva all’iniziativa in modo collettivo, e ciò

era soprattutto il frutto dell’abilissima opera di propaganda messa in atto dall’uomo che piú di ogni altro, nel bene e nel male, legò il suo nome alla quarta crociata: il doge di Venezia Enrico Dandolo. Fu lui, infatti, che riuscí a ottenere l’appoggio dei cittadini piú eminenti al progetto, essenziale per far approvare la partecipazione alla crociata dal complicatissimo sistema di assemblee che caratterizzava il governo veneziano. E tuttavia, sin dall’inizio si manifestarono alcune ambiguità di fondo: il trattato stipulato fra la Repubblica e il comitato (di cui restano due copie, entrambe sottoscritte a nome del doge) non menzionava la destinazione della crociata, anche se Baldovino Tebaldo e Luigi avevano già stabilito che essa avrebbe dovuto raggiungere la Terra Santa dall’Egitto, portando dunque la guerra nel cuore del sultanato ayyubide fondato da Saladino e governato in quel tempo da suo fratello al-‘Adil I. Inoltre, Venezia si trovava a fronteggiare da tempo la ribellione della città dalmata di Zara, postasi sotto la tutela del re d’Ungheria, ed era assurdo pensare di inviare la sua flotta in Oriente senza prima aver debellato un nemico cosí vicino e cosí pericoloso; per giunta, il papa, che pure aveva approvato il trattato con entusiasmo, non vedeva affatto di buon occhio un intervento della Repubblica contro la monarchia ungherese, che egli proteggeva.

La crisi del debito In ogni caso, i Veneziani si misero all’opera, e tra il maggio 1201 e il giugno 1202, con un enorme sforzo produttivo, allestirono una flotta

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di 50 galee da guerra e 150 galere da trasporto, rispettando alla lettera gli impegni presi. Non altrettanto poteva dirsi dei nobili postisi a capo della crociata. Nel maggio del 1201 Tebaldo di Champagne era morto, e la leadership dell’impresa era passata a Bonifacio di Monferrato. Il passaggio di consegne si rivelò piuttosto arduo e a ciò si aggiunsero gravi problemi finanziari, che impedirono il pagamento a Venezia delle rate concordate nel contratto. Quando, nel giugno del 1202, cominciarono ad affluire in città i primi crociati, la flotta era pronta a salpare, ma i Veneziani non avevano ricevuto nulla, salvo un piccolo anticipo iniziale. Si giunse cosí alla fine di luglio: la situazione era drammatica, perché la Repubblica ospitava un esercito divenuto ormai molto grande e in preda al nervosismo. D’altra parte, anche i Veneziani erano alquanto irritati con i Franchi, che erano palesemente venuti meno agli accordi. Entrambe le parti volevano qualcosa l’una dall’altra, e solo l’abilità di Enrico Dandolo riuscí a superare l’impasse.

Ravenna, basilica di S. Giovanni Evangelista. Frammento del mosaico raffigurante un marinaio che suona un corno dalla coffa di una nave, in segno di allarme. 1213 circa. La scena potrebbe evocare un episodio accaduto durante gli scontri navali combattuti nel corso della crociata del 1204.

La partenza della flotta crociata, costituita da 50 navi per il trasporto dei soldati, 100 galere per il trasporto dei cavalli e 60 galee da guerra, oltre a numerose imbarcazioni ausiliarie, avvenne nei primi giorni di ottobre del 1202. L’armata fece scalo in alcuni porti della costa dalmata per caricare provviste e compiere gli ultimi arruolamenti di rematori e marinai; infine, fra il 10 e l’11 novembre, i crociati giunsero a Zara. Questa splendida e antica città era entrata nell’orbita veneziana sin dall’anno 1000, ma già dal 1114 era oggetto delle mire dei re d’Ungheria, che essendosi annessi la Croazia, vantavano gli antichi diritti dei sovrani croati sulla Dalmazia veneziana. Nel 1183 Zara si consegnò agli Ungheresi che le concessero ampia autonomia, e da allora seppe resistere ai numerosi tentativi veneziani di riportarla sotto il controllo della Repubblica. A Enrico Dandolo si presentava dunque la grande occasione di punire e riconquistare la città

La mossa a effetto di Enrico Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, il doge organizzò un incontro con i capi crociati facendo loro presente che Venezia attendeva il pagamento delle rate scadute, ma essi furono in grado di raccogliere meno della metà di quanto dovuto. Dandolo allora prospettò un nuovo accordo: i crociati avrebbero saldato il debito con la loro parte di bottino, ma soprattutto, scendendo lungo l’Adriatico, avrebbero aiutato i Veneziani a riconquistare Zara, la temibile città ribelle che ormai da molti anni costituiva per la Repubblica una ferita aperta. Era una proposta che non si poteva rifiutare, e anche il legato pontificio non ebbe il coraggio di opporsi. Inoltre, con una grande mossa a effetto, Enrico chiese ufficialmente di prendere parte alla crociata in prima persona e S. Marco si riempí delle grida dei Veneziani che accoglievano la sua richiesta e correvano ad arruolarsi. Ora il doge poteva condurli dovunque avesse voluto.

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CROCIATE E RAZZIE | Il ritratto del nemico |

M

olti studiosi hanno erroneamente sostenuto che Enrico Dandolo sia stato il piú acceso sostenitore della proposta di attaccare Costantinopoli. Al contrario, come si è visto, il progetto fu ideato dai Tedeschi, e immediatamente fatto proprio da Bonifacio da Monferrato e dai nobili francesi. E Dandolo vi aderí solo piú tardi e con molte riserve. Furono soprattutto gli autori bizantini ad accentuare le responsabilità del doge, per il loro odio nei confronti di Venezia, al prezzo di stravolgere la realtà dei fatti. Si legga, per esempio, quanto scrive in proposito uno dei piú celebri storici

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bizantini, Niceta Coniata: «Una gran iattura fu senza dubbio Enrico Dandolo, a quel tempo doge dei Veneziani: un cieco, vecchio decrepito; un individuo insidioso e ostile ai Romani (cioè ai Bizantini, n.d.a.), pieno di rancore e invidia nei loro confronti; un fior di impostore, che si proclamava il piú savio tra i savi, ed era avido di gloria come nessun altro. Tutte le volte che egli si soffermava a riflettere, e considerava quante offese avessero dovuto sopportare i Veneziani durante il regno dei


fratelli Angeli e al tempo in cui prima di loro Andronico (Andronico I Comneno, 1183-1185) e, ancor prima, Manuele (Manuele I Comneno, 1143-1180) governarono l’impero romano (cioè l’impero bizantino, n.d.a.), riconosceva di meritare la morte, per non aver ancora punito i Romani dell’oltraggioso comportamento verso la sua gente. Tuttavia, consapevole com’era che avrebbe unicamente nuociuto a se stesso, se avesse tentato di vendicarsi dei Romani con l’aiuto dei suoi soli concittadini, considerò l’opportunità di procurarsi altri alleati, e di informare dei suoi segreti progetti coloro che, a quanto sapeva, nutrivano un

Nella pagina accanto la richiesta d’aiuto di Alessio Comneno, giunto a Zara, al doge Enrico Dandolo, in un dipinto di Andrea Vicentino. 1578. Venezia, Palazzo Ducale.

implacabile odio contro i Romani, alla cui prosperità guardavano con occhi insidiosi e avidi. Presentatasi inaspettatamente l’occasione favorevole di alcuni nobili signori che avevano progettato di compiere una spedizione in Palestina, prese gli opportuni accordi con essi e li indusse a unirsi a lui nella guerra contro l’impero romano».

Niceta Coniata, Cronaca, ed. Jean-Louis van Dieten, traduzione di Anna Meschini. Da Bisanzio nella sua letteratura, a cura di Umberto Albini ed Enrico V. Maltese, Garzanti, Milano 2004; p. 649.

ribelle. Dopo aver vinto le ultime resistenze di alcuni nobili che rifiutavano di contravvenire al divieto papale – che nonostante tutto non era mai stato ritirato –, il doge ottenne che la città fosse messa sotto assedio, e dopo soli cinque giorni essa fu presa e saccheggiata. Era il 24 novembre del 1202.

Una missione «umanitaria» Qualche settimana dopo la conquista di Zara, mentre ancora infuriavano le polemiche sulla liceità dell’assedio, giunsero in città Bonifacio da Monferrato, il comandante ufficiale della crociata, e alcuni messaggeri di Filippo di Svevia, uno dei due aspiranti alla carica di sovrano del Sacro Romano Impero. Questi ultimi raccontarono una storia di violenze, soprusi e intrighi che, oltre a mutare completamente il corso della quarta crociata, avrebbe cambiato per sempre i rapporti tra Venezia e Bisanzio: l’imperatore di Bisanzio Isacco II Angelo era stato deposto e accecato dal fratello maggiore, che salí al trono con il nome di Alessio III (1195-1203). Il figlio di Isacco, anch’egli di nome Alessio, era riuscito a fuggire dal carcere nel quale era stato rinchiuso con suo padre e si era recato a cercare aiuto in Occidente, giungendo infine presso la corte di Filippo, che aveva sposato sua sorella, la principessa Irene. Parlando a nome di Filippo, i suoi inviati rivolsero ai crociati un accorato appello alla «guerra umanitaria»: non era

possibile ignorare le sofferenze del giovane Alessio, che pure, essendo nato prima che suo padre diventasse imperatore, non aveva alcun diritto al trono. I crociati avrebbero dovuto sostenere con ogni mezzo la causa di Isacco II e del suo figlio sfortunato. Come sempre, dietro la retorica delle motivazioni «umanitarie» e l’apparenza di una lotta per il ristabilimento della giustizia si celavano interessi concreti e consistenti: in questo caso, i disegni egemonici di Filippo, il quale presentandosi come vendicatore di Isacco e protettore della famiglia imperiale legittima, avanzava chiaramente pretese ben precise sul trono di Bisanzio. Se Bonifacio da Monferrato aveva abbracciato la causa del figlio di Isacco sin dal dicembre del 1201, Enrico Dandolo fu, almeno inizialmente, molto piú cauto: egli infatti temeva che, se il piano di Filippo fosse fallito, Venezia avrebbe compromesso definitivamente i suoi già difficili rapporti con l’impero bizantino, rapporti a cui la Repubblica, per molti motivi, teneva grandemente. Ma alla fine, il doge si risolse ad accettare il rischio. Il 20 aprile 1202 la flotta crociata salpò alla volta di Corfú, e il 25 aprile fu raggiunta da Alessio il Giovane, il quale promise somme di denaro colossali e fece intravedere la possibilità di mettere fine allo scisma fra la Chiesa bizantina e quella occidentale. La meta dell’armata non era piú l’Egitto, né il Santo Sepolcro, ma la nuova

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CROCIATE E RAZZIE | Periodizzare Bisanzio | Roma, la gemma del Bosforo, la regina di tutte le città: Costantinopoli.

Una testa senza corpo A questo punto, dobbiamo distogliere per un momento la nostra attenzione dalla crociata per posare lo sguardo sulle condizioni dell’impero bizantino sullo scorcio iniziale del XIII secolo. Non sarà un bello spettacolo. In effetti, da quasi un secolo e mezzo Bisanzio si dibatteva in una crisi senza speranza di soluzione. Nel 1071, presso la città armena di Mantzikert, non lontano dal lago Van, le truppe turche selgiuchidi avevano inflitto ai Bizantini una disastrosa sconfitta: ma la vera tragedia furono gli eventi successivi, e, in particolare, il lungo periodo di instabilità politica all’interno dell’impero che permise ai Selgiuchidi di occupare rapidamente gran parte dell’Asia

«S

tando alle definizioni della maggioranza degli storici, l’impero bizantino sarebbe nato con la fondazione della città di Costantinopoli o Nuova Roma nel 324 d.C. e sarebbe finito con la resa della medesima città ai Turchi Ottomani nel 1453. Nel corso di questi undici secoli l’impero bizantino conobbe profonde trasformazioni; di qui, l’uso di dividere la storia bizantina in almeno tre unità principali: il primo periodo bizantino cui succedono il medio e il tardo periodo. Può rientrare nella prima unità l’epoca che giunge sino alla metà del settimo secolo e cioè sino all’insorgenza dell’Islam e alla definitiva installazione degli Arabi lungo le coste orientali e meridionali del Mediterraneo; il medio periodo può giungere sino all’occupazione turca dell’Asia Minore (intorno al 1070) oppure – con minor fondamento – sino alla presa di Costantinopoli da parte dei Crociati (1204); il tardo periodo, da una qualunque di queste date sino al 1453. Per quanto arbitraria possa apparire, ci sono buone ragioni per mantenere tale definizione» (Cyril Mango, La civiltà bizantina, traduzione di Paolo Cesaretti, Laterza, Roma-Bari 1991; p. 5).

| Una lunga sequela di saccheggi e profanazioni |

«I

Latini, vedendo che, contro ogni aspettativa, nessuno prendeva le armi per attaccare o per difendersi, compresero che la situazione del momento era per loro estremamente propizia: le iniziative, realizzabili; le strette straducole, accessibili; i trivi, sicuri; nessun rischio di scontri; non pochi vantaggi sui nemici. Ed ecco verificarsi, davvero a proposito, un’occasione che li favorí ulteriormente. Tutta la popolazione moveva verso di loro, portando le croci e le sante immagini di Cristo, com’è d’uso nelle feste religiose e nelle processioni. A quella vista, essi non mutarono il loro abituale stato d’animo; non atteggiarono le labbra a un pur lieve sorriso: tale inattesa visione non valse a rasserenare i volti irati, ad addolcire gli sguardi biechi e minacciosi, a placare l’eccitazione. Ebbero invece il coraggio di assalire i fedeli e di depredarli senza pietà non solo di quanto possedevano, a cominciare dai carri, sibbene anche degli oggetti sacri. Tutti impugnavano le spade, e con le armi sguainate trattenevano a stento i loro cavalli eccitati dagli squilli di tromba. Quale delle tante nefandezze commesse in quell’occasione da quegli scellerati dovrò raccontare per prima? Quale dopo? Quale per ultima? Ahimè! Che infamia abbattere le venerate immagini e profanare le reliquie di coloro che morirono per amore di Cristo! La cosa piú orribile, anche solo ad ascoltarsi, era la vista del Sangue divino versato e del Corpo di Cristo gettato a terra. Impadronitisi dei preziosi vasi, in parte ridussero in pezzi, nascondendo in petto le gemme che vi erano incastonate, in parte li asportarono per utilizzarli sulle loro mense come ciotole per i cibi e coppe per

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il vino, codesti precursori dell’Anticristo, antesignani e araldi delle atrocità che Egli ha profetizzate. Da codesta genia Cristo venne spogliato e schernito ancora una volta, come già in tempi lontani: le sue vesti furono divise ed estratte a sorte; mancava solo che, colpito da lancia nel costato, facesse nuovamente scorrere a terra rivoli del suo sangue divino. Ma non vi è orecchio che possa facilmente prestare ascolto al racconto dei sacrilegi commessi nella cattedrale. L’altare maggiore, interamente ricoperto di metalli preziosi, fusi con il fuoco e intarsiati di una bellezza e una policromia straordinaria, veramente rara e degna dell’universale ammirazione, fu fatto a pezzi e spartito fra quei predoni; la stessa sorte subí tutto il tesoro della cattedrale, altrettanto ricco e infinitamente prezioso. Quando si dovettero portar via, come avviene per ogni rapina, i vasi e gli oggetti destinati al culto, composti di materiali rari cesellati con incomparabile raffinatezza e maestria, come pure l’argento fino, tutto bordato d’oro, che rivestiva il cancello della tribuna, lo stupendo pulpito e le porte, e che era stato fuso per creare parecchi altri fregi ornamentali, furono introdotti muli e asini già portati a basto fin nelle parti piú interne della chiesa. Ma poiché alcuni animali scivolavano, non riuscendo a reggersi sulle zampe a causa della levigatezza dell’impiantito, erano pungolati con le spade, sí che il pavimento della chiesa si imbrattò tutto di sterco e sangue. Intanto, una donnaccia, gonfia di peccati (…) si faceva beffe di Cristo seduta sul seggio patriarcale, cantava con voce roca e di tanto in tanto si lanciava volteggiando in una danza vorticosa.


Minore. Nello stesso anno, Bisanzio aveva perso i suoi ultimi possedimenti italiani, essendosi completata, con la presa di Bari, la conquista normanna dell’Italia meridionale bizantina. Anche l’autorità imperiale sulla penisola balcanica risultava fortemente indebolita. L’impero, come affermavano gli stessi Bizantini, era ormai ridotto a una grande «testa senza corpo», dove per «testa» si intendeva la capitale imperiale, Costantinopoli. Gli encomiabili sforzi della dinastia comnena (1081-1185) condussero a una momentanea ripresa, ma l’impero era minato alla radice da una crisi interna provocata dalla disgregazione del sistema economico-sociale del periodo medio-bizantino. L’esercito assorbiva tutte le forze dell’impero; la popolazione era ridotta in miseria da tributi sempre piú pesanti e insopportabili; perfino nelle città, molti

vendevano la loro libertà per passare al servizio dei magnati, che, al contrario, vedevano aumentare costantemente le loro ricchezze; lo Stato non aveva piú la forza di reagire allo strapotere dei grandi latifondisti. Per di piú, i Comneni concessero ai Veneziani eccezionali privilegi commerciali, e quando si accorsero che ciò significava inevitabilmente cedere a Venezia il ruolo di potenza marittima in passato esercitato da Bisanzio, era ormai troppo tardi per tornare indietro. In queste condizioni disperate Costantinopoli si trovò dunque a fronteggiare la nuova minaccia che si profilava all’orizzonte. Una minaccia che non veniva dai grandi rivali dell’impero, i Turchi musulmani, ma da un pugno di cavalieri cristiani e dagli ex alleati veneziani. Già una volta i Bizantini avevano avuto a che fare con i crociati: era stato circa cento anni prima, e

Un’imbarcazione crociata sotto le mura di Costantinopoli nel 1203, particolare di una miniatura da un manoscritto francese del 1300 circa.

I Latini non commisero solo codeste nefandezze; non ne commisero alcune piú gravi e altre meno: ma tutte le peggiori atrocità e scelleraggini furono di comune accordo perpetrate da tutti. Avrebbero mai potuto trattare con rispetto le donne oneste, le fanciulle da marito o le giovinette che si erano consacrate a Dio e avevano scelto di rimanere vergini, codesti scellerati che tanto spudoratamente profanavano le cose sacre? Era oltremodo difficile, anzi impossibile, intenerire con suppliche o ammansire in qualche modo i barbari, che erano estremamente irritabili, che in genere montavano in collera anche per una parola pronunciata senza alcuna cattiva intenzione (…). Ognuno di noi aveva le sue pene. Nelle strette vie non si udivano che pianti, imprecazioni e lamenti; nei trivi, gemiti; nelle chiese, voci di dolore, grida di uomini, urla di donne. Si avevano arresti e rapimenti; si verificavano episodi di violenza carnale e forzate separazioni di persone fino ad allora vissute insieme. I nobili si aggiravano coperti appena; i vegliardi, piangenti; i ricchi, privi dei loro averi. Tutto questo avveniva nelle piazze, negli angoli delle strade, nei santuari, nei piú reconditi asili: non vi era un solo luogo che potesse sfuggire ai nemici e che garantisse sicurezza ai derelitti. O Cristo Signore! Quali furono allora le angustie e le tribolazioni nostre!». Niceta Coniata, Cronaca, ed. Jean-Louis van Dieten, pp. 572-575, traduzione di Maria Minniti Colonna. Da Bisanzio nella sua letteratura, a cura di Umberto Albini ed Enrico V. Maltese, Garzanti, Milano 2004; p. 666 ss.

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CROCIATE E RAZZIE Il gruppo in porfido

dei Tetrarchi, proveniente da Costantinopoli e collocato nell’angolo sud-est della facciata sud della basilica veneziana di S. Marco.

la cosa aveva comportato enormi problemi. Ma stavolta sarebbe stato assai peggio.

L’attacco Il 24 maggio del 1203 la flotta crociata spiegò nuovamente le vele e lasciò Corfú, doppiando Capo Malea e dirigendosi verso Costantinopoli lungo la rotta consueta, che prevedeva l’attraversamento dell’Egeo, dello Stretto dei Dardanelli e del Mare di Marmara. Circa un mese dopo, i crociati erano davanti alla capitale bizantina, difesa da un guarnigione tre volte piú grande dell’esercito crociato: centinaia di Greci si assieparono sulle mura per vedere l’armata nemica. La flotta approdò a Calcedonia, una città che si affacciava sul Bosforo proprio di fronte a Costantinopoli. Il giovane Alessio continuava a sostenere che la sua semplice presenza avrebbe scatenato la rivolta nella capitale, ma i giorni passavano e nulla accadeva. I crociati provarono a trattare con i Bizantini, inviando loro messaggeri per spiegare i motivi e i contenuti della loro missione «umanitaria», ma furono comprensibilmente ricevuti con scariche di proiettili. Fu addirittura organizzato una sorta di spettacolo politico-militare di fronte alle mura marittime della città: le sessanta galee veneziane si schierarono e tutti i crociati indicarono ai Bizantini Alessio, invitandoli a riconoscere il loro legittimo imperatore ed elencando uno a uno tutti i crimini commessi da Alessio III: la risposta del popolo fu ancora una volta un lancio di proiettili, a cui si aggiunsero sanguinosi insulti. Se volevano ottenere qualcosa, i crociati dovevano prepararsi alla guerra. L’attacco avvenne la mattina del 5 luglio e colpí per prima cosa il quartiere di Galata, chiave di accesso al Corno d’Oro, l’insenatura del Bosforo dove si trovava il porto di Costantinopoli. Galata fu conquistata il giorno seguente e subito venne infranta la grande catena galleggiante che sbarrava l’ingresso nel canale: le navi dei crociati potevano fare il loro ingresso nel porto. Cominciava l’assedio delle mura della città dalla terraferma.

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LONDRA

PARIGI TOURS

VÉZELAY

Fondata nel XIII secolo dal re Luigi IX,

CHAMBÉRY

Aigues-Mortes divenne porto d’imbarco per le spedizioni in Terra Santa.

LISBONA

TOLOSA

LIONE

MADRID

AI GRANADA

ALGERI PRIMA CROCIATA (1096-1099) SECONDA CROCIATA (1148-1152) TERZA CROCIATA (1187-1192) QUARTA CROCIATA (1202-1204) QUINTA CROCIATA (1217-1221) SESTA CROCIATA (1228-1229) SETTIMA CROCIATA (1248-1254) OTTAVA CROCIATA (1270)

VERDUN

G

S UE

M

T OR

ES MARSIGLIA


I SECOLI DELLE CROCIATE La morte dell’imperatore tedesco Federico I Barbarossa, annegato durante l’attraversamento del fiume Salef, in Cilicia, il 6 giugno 1190.

WÜRZBURG METZ RATISBONA VIENNA

VENEZIA GENOVA

BUDA PEST

TRIESTE

L’assedio crociato

a Costantinopoli, conclusosi il 12 aprile 1204 con la conquista della città.

BELGRADO

Il Krak dei Cavalieri,

ZARA

PISA

SPALATO

SOFIA

ROMA BARI NAPOLI

possente fortezza crociata a guardia del valico di Homs, nell’entroterra siriano. COSTANTINOPOLI

DURAZZO

NICEA

BRINDISI

SARDI PALERMO

SIRACUSA

KONYA

ATENE

EDESSA

TARSO ANTALYA

MESSINA TUNISI

CESAREA

PERGAMO

CANDIA

RODI

ANTIOCHIA NICOSIA TRIPOLI DAMASCO ACRI GERUSALEMME

TRIPOLI DAMIETTA

Nave adibita al trasporto

IL CAIRO

di uomini e mezzi al tempo di Luigi IX (settima e ottava crociata).

La Moschea degli Eserciti al Cairo, costruita dai Fatimidi nell’XI secolo. Alla conquista dell’Egitto muoverà Luigi IX nel 1248.

Combattente saraceno: favorita da un equipaggiamento leggero, la mobilità era uno dei punti di forza degli eserciti musulmani.

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CROCIATE E RAZZIE

IL TESORO DI S. MARCO

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Presentiamo sulle due pagine alcuni degli oggetti piú preziosi fra quelli appartenenti al tesoro della basilica di S. Marco, costituito da 283 pezzi in oro, argento, vetro e altri materiali preziosi. Il nucleo piú antico risulta da una parte del bottino trasportato a Venezia da Costantinopoli tra il 1204 e il 1261, dopo la conquista veneziana. In basso, a sinistra bruciaprofumi e reliquiario a forma di piccolo edificio a pianta centrale sormontato da cinque cupole, lavorato a filigrana. XII sec. Qui sotto calice di Teofilatto (o dei patriarchi), realizzato in sardonica. Oreficeria bizantina, X sec.


Nella pagina accanto, in alto, a sinistra particolare della Pala d’Oro, un prezioso paliotto fatto costruire a Costantinopoli dal doge Ordelaffo Falier (che potrebbe essere il personaggio rappresentato) nel XII sec. Nella pagina accanto, in alto, a destra icona di san Michele da Costantinopoli. Oreficeria bizantina, XI sec. In basso coppa in vetro turchese con animali stilizzati in rilievo e montatura in argento dorato con pietre dure incastonate. Oreficeria bizantina, IX-X sec.

Il 17 luglio 1203 la capitale dell’impero bizantino cadde nelle mani dei crociati. Enrico Dandolo, sfidando i proiettili degli eroici difensori, era stato il primo a lanciarsi verso la spiaggia di Costantinopoli, sulla quale i suoi marinai piantarono lo stendardo con il leone alato di san Marco, guidando i suoi concittadini alla battaglia. Lo splendido dipinto di Domenico Tintoretto nella Sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale di Venezia ha immortalato per sempre il celebre episodio (vedi alle pp. 84/85). A tarda notte, Alessio III fuggí dalla città, portando con sé oro e pietre preziose di cui intendeva servirsi per organizzare la resistenza. Subito, gli aristocratici bizantini restituirono la corona a Isacco II e il primo agosto 1203 suo figlio, il giovane protetto dei crociati, salí al trono come co-imperatore con il nome di Alessio IV. Ma la situazione volse presto al peggio. Il giovane imperatore, infatti, non era in grado di mantenere le promesse fatte a Corfú e ora si trovava tra due fuochi: da un lato i crociati e i Veneziani esigevano il pagamento immediato delle somme pattuite e respingevano con sdegno le richieste di proroga; dall’altro la popolazione bizantina, che vedeva come il fumo negli occhi il sovrano che aveva chiamato i crociati sul suolo dell’impero e aveva ridotto se stesso alla condizione di servo dei Latini. Alla fine di gennaio del 1204, a Costantinopoli scoppiò una rivolta e Alessio IV perse la corona e la vita, e anche suo padre morí poco dopo in prigione. Al trono salí un ministro di Alessio IV, Alessio Ducas, detto «Murzuflo» («dalle folte sopracciglia»), di tendenza politica fortemente anti-latina, che

prese il nome di Alessio V. Era solo il preludio della tragedia che andava preparandosi. Al colpo di stato di Alessio V, i crociati reagirono in maniera durissima, dichiarando Murzuflo un assassino e i suoi sudditi complici dei suoi delitti: l’indulgenza plenaria che spettava ai partecipanti a una crociata era ora estesa a tutti coloro che avessero mosso guerra al tiranno spinti da propositi di giustizia. Non era piú necessario recarsi in Terra Santa, perché il lavoro da fare per conto di Dio era a Costantinopoli. Nel mese di marzo, sotto le mura della capitale, i crociati e i Veneziani conclusero un trattato che prevedeva la divisione dell’impero bizantino e la creazione di un «impero latino» a Costantinopoli. L’attacco tanto atteso avvenne il 9 di aprile, ma i crociati non riuscirono a far breccia nelle difese della città e dovettero ritirarsi. Dopo un lungo e vivace dibattito, si decise di attaccare nuovamente le mura del porto il 12 aprile, e questa volta i Veneziani ricorsero a uno stratagemma: posero sulle cime degli alberi delle navi alcune piattaforme, inclinando le imbarcazioni fino a che le piattaforme stesse andassero a toccare le mura, permettendo ai soldati di irrompere su di esse. Un anonimo milite veneziano fu il primo a saltare sulle mura di una torre nemica, ma fu subito ucciso. Fu seguito da un francese, Andra D’Ureboise, che riuscí a resistere all’attacco dei difensori permettendo ad altri Veneziani e crociati di occupare le mura.

Il piú grande saccheggio della storia Poco tempo dopo le porte della città vennero aperte dagli attaccanti penetrati all’interno, e per Costantinopoli non ci fu piú scampo. «Cosí» – scrive il grande bizantinista Georg Ostrogorsky – «la città che dai tempi di Costantino il Grande era sempre rimasta inespugnata, che aveva resistito ai poderosi assalti dei Persiani e degli Arabi, degli Avari e dei Bulgari, era diventata la preda dei crociati e dei Veneziani. Per tre giorni il saccheggio e la strage regnarono in Costantinopoli.

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CROCIATE E RAZZIE

I tesori piú preziosi del piú grande centro di cultura del mondo di allora vennero distribuiti tra i conquistatori e in parte barbaramente distrutti. “Dalla creazione del mondo non è mai stato fatto un tale bottino in una città”, dice lo storico dei crociati Villehardouin. “Perfino i musulmani sono umani e benevoli in confronto a questa gente che porta la croce di Cristo sulle spalle”, annota il cronista bizantino Niceta Coniata».

Bisanzio a Venezia Il saccheggio di Costantinopoli fu certamente anche una conseguenza dell’avidità dei crociati, bramosi di ricchezze, ma alla sua base c’era anche un’altra esigenza: quella di rivendicare per Venezia il ruolo di «altra Bisanzio», di unica e autentica erede della cultura e dell’arte bizantine e del ruolo politico dell’impero romano d’Oriente nel Mediterraneo. In effetti, i Veneziani presero parte al saccheggio, ma nel complesso cercarono soprattutto di salvaguardare i capolavori artistici che si trovavano davanti: non è un caso che molti fra i piú splendidi monumenti razziati nella capitale bizantina abbiano trovato una collocazione pubblica sulle rive della Laguna. Cosí, per esempio, il celebre gruppo in porfido dei Tetrarchi, prelevato dal Philadelphion, venne collocato all’esterno della cella del Tesoro di S. Marco insieme ai cosiddetti «Pilastri acritani», elementi architettonici della basilica di S. Polieucto, fatta erigere tra il 524 e il 527 d.C. dalla nobile Anicia Giuliana. Un vero e proprio profluvio di splendide opere d’arte bizantine è poi conservato nel Tesoro di S. Marco, cui si accede attraverso una porta del transetto meridionale impreziosita da un mosaico del XIII secolo che, a ricordo dell’incendio del 1231, rappresenta due angeli mentre sorreggono il reliquiario della Croce miracolosamente rimasto intatto. Il piccolo vestibolo introduce, a sinistra, nel santuario e, a destra, nel tesoro vero e proprio. Nel santuario sono raccolte, in otto nicchie aperte nelle pareti, numerosi reliquiari che

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In alto Venezia. Particolare della facciata della basilica di S. Marco.

I MAGNIFICI QUATTRO I

l trofeo di guerra piú importante della crociata del 1204 furono certamente i celeberrimi «Cavalli di S. Marco». Sulla base di alcune descrizioni di Costantinopoli composte in età proto e mediobizantina, questi magnifici bronzi sono stati identificati con i cavalli della quadriga bronzea, attribuita a Lisippo, che si trovava sopra i carceres (le gabbie di partenza, n.d.r.) dell’Ippodromo della capitale. Stando a quanto sostenuto da alcuni autori, tale quadriga sarebbe stata trasportata da Chio sotto Teodosio II (408-450 d.C.); secondo altri, la quadriga sarebbe stata donata dai cittadini di Corinto ai Romani, che a loro volta ne avrebbero fatto dono a Bisanzio; oppure si tratterebbe di un’opera di età neroniana, trasferita da Roma sotto Costantino. Stilisticamente e iconograficamente sembra comunque da escludere una datazione in età romana. Secondo una recente ipotesi, i cavalli sarebbero invece appartenuti alla quadriga di Helios dedicata a Delfi dai Rodiesi, che Costantino fece portare a Costantinopoli insieme al tripode di Platea perché i due monumenti fossero collocati nell’ippodromo della città. In ogni caso, la tradizione attribuisce concordemente il loro trasporto a Venezia a Enrico Dandolo, ma nessuna testimonianza diretta e contemporanea di tale trasferimento è giunta fino a noi. Sembra comunque probabile che esso sia stato voluto dallo stesso doge, sebbene l’invio a Venezia si sia concretizzato solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1205, per opera del primo podestà veneziano di Costantinopoli, Marino Zeno. Lo storico Marin Sanudo racconta che uno dei cavalli ebbe uno zoccolo spezzato durante il trasporto a Venezia nella galera di Domenico Morosini (1205-1206) e che questi conservò il pezzo, cosicché il dogado dovette provvedere a realizzarne un altro. Nella città lagunare, i quattro cavalli furono forse custoditi per breve tempo


nell’Arsenale, finché, ancora nei primi decenni del Duecento, non vennero collocati nella parte esterna piú significativa e importante della basilica di S. Marco, cioè nel punto mediano del loggiato che divide la facciata principale che dà sulla piazza, secondo una disposizione araldica e speculare (i due centrali volgevano la testa verso il centro, insistendo sulla gamba interna, i due esterni si volgevano all’esterno), come mostra chiaramente il mosaico del portale di S. Alipio con la prima raffigurazione della basilica di S. Marco (1265 circa). I cavalli rimasero in questa prima e originaria posizione, di cui danno testimonianza anche Francesco Petrarca e il viaggiatore e antiquario Ciriaco d’Ancona, fino alla metà del Quattrocento, quando, forse in seguito a un incendio, si produsse il crollo della grande finestra con arcatelle entro le quali erano inseriti i bronzi. Si realizzò allora l’arcone che può vedersi ancor oggi: i cavalli, in tale occasione, furono portati completamente all’aperto e rimasero in questa posizione fino al 1797, quando Napoleone li portò a Parigi. Il 13 dicembre 1815, alla presenza di Francesco I d’Austria, nuovo sovrano di Venezia, i cavalli furono restituiti alla facciata di S. Marco. La preziosa quadriga in bronzo dorato, l’unica pervenutaci dall’antichità, aveva però subito

notevoli danni: quindi, prima della ricollocazione, venne portata in Arsenale per essere restaurata. Altri interventi saranno necessari negli anni successivi, e la quadriga viene calata dall’arcone marciano ancora due volte, per essere riposta in un rifugio sicuro nel corso delle due ultime guerre mondiali. Nel 1982, dopo un ulteriore e fondamentale restauro, si decide di collocare i cavalli nel Museo della basilica per proteggerli dai danni provocati dagli agenti atmosferici e dallo smog. Quelle che oggi guardano il turista dall’alto dell’arcone della basilica sono dunque solo le loro repliche.

I cavalli di S. Marco. Provenienti dall’ippodromo di Costantinopoli, i bronzi furono trasportati nella città lagunare da Enrico Dandolo alla fine della IV crociata, e collocati sulla facciata della basilica marciana, dove sono rimasti fino al 1977. Oggi sostituiti da una copia (in alto), gli originali (in basso) sono custoditi nel Museo di S. Marco.

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CROCIATE E RAZZIE | L’elenco delle reliquie | contengono i resti di santi provenienti da Costantinopoli, dalla Terra Santa e da vari altri centri del bacino orientale del Mediterraneo. Il Tesoro si compone di 283 pezzi in oro, argento, vetro e altri materiali preziosi.

Per la maggior gloria dell’evangelista Il nucleo piú antico della collezione è appunto costituito da una parte del bottino trasportato a Venezia da Costantinopoli tra il 1204 e il 1261, dopo la conquista della città. Si tratta prevalentemente di calici liturgici, coppe, patene in pietra dura montati su oreficeria smaltata bizantina. Ne fanno parte anche le due icone dell’arcangelo Michele con cornici a smalti. Ma il gioiello bizantino piú prezioso della basilica di S. Marco, vero e proprio «tempio di stato» della Repubblica, è certamente la Pala d’oro dell’altare maggiore della basilica marciana, che glorifica l’evangelista e ne racchiude le reliquie. L’opera è in realtà il frutto di tre interventi

«I

l palazzo Bocca di Leone (Boukoleon, n.d.r.) era tanto ricco e cosí ben costruito come vi descriverò. Dentro quel palazzo ci saranno state almeno trenta cappelle, grandi e piccole, e ce n’era una che chiamavano la Santa Cappella. Dentro quella cappella si trovavano molte ricche reliquie: vi si trovarono due pezzi della Vera Croce, grossi quanto la gamba di un uomo e lunghi tre piedi e vi si trovò il ferro della Lancia da cui Nostro Signore ebbe il costato trapassato e i due chiodi che gli furono conficcati nelle mani e nei piedi. E si trovò anche una fiala di cristallo con una gran parte del Suo Sangue. E vi si trovò la tunica che aveva indosso quando lo spogliarono e lo portarono al Monte Calvario. C’erano anche altre reliquie in quella cappella, che noi abbiamo dimenticato di descrivervi. C’erano infatti due ricchi recipienti d’oro che pendevano in mezzo alla cappella da due grosse catene d’argento. In uno di questi recipienti c’era una tegola e nell’altro un pezzo di tela: ora vi racconteremo da dove erano giunte quelle reliquie. Un buon uomo aveva indosso un pezzo di tela e Nostro Signore gli disse: “Su, dammi quel pezzo di tela”. E l’uomo glielo diede e Nostro Signore se lo avvolse intorno al viso in modo che la sua fisionomia vi restasse impressa, poi glielo ridiede e gli disse che lo prendesse e lo facesse toccare ai malati e chiunque avesse avuto fede

diversi: la parte inferiore risale al periodo del doge Ordelaffo Falier (1102-1118); in questa stessa epoca furono disposti gli smalti, sia sulle cornici laterali, con le storie di san Marco, sia sulla cornice superiore con i sei diaconi e le feste cristologiche del calendario liturgico, nonché del gruppo centrale del Pantocrator. La parte superiore della pala, con la serie delle sei feste bizantine e l’arcangelo Michele al centro, fu invece realizzata all’inizio del XIII secolo, con materiali portati a Venezia da Costantinopoli dopo il saccheggio della capitale bizantina. Il terzo intervento è da collocare tra il 1343-1345 e consiste nell’inquadramento del complesso entro cornici ad arco romanico e ad arco gotico, tempestate di 1927 fra pietre preziose, gemme e perle. Oltre alle opere d’arte, i crociati erano particolarmente interessati a un altro tipo di oggetti: le reliquie, che avevano un valore Mappa di Costantinopoli, da un’edizione del Liber Insularum Archipelagi, isolario del geografo fiorentino Cristoforo Buondelmonti (1386-1430 circa). 1490 circa. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

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sarebbe guarito da qualsiasi infermità. E il buon uomo lo prese e lo portò via, ma prima di portarlo via, non appena Gesú gli ebbe reso il pezzo di tela, l’uomo buono lo prese e lo nascose sotto una tegola fino al tramonto. Al tramonto, quando stava per andarsene, prese il suo pezzo di tela ma, come sollevò la tegola, si accorse che il volto divino era impresso sulla tegola cosí come sulla tela; allora prese il pezzo di tela e insieme la tegola e da allora guarirono molti ammalati. E queste reliquie pendevano dentro la cappella, come vi ho detto». Robert de Clari, La conquête de Constantinople, a cura di Jean Dufournet, Paris, Champion, 2004, LXXXIII. «E tra le altre cose v’è ancora una chiesa, che è detta S. Maria della Blacherne, dove si trova la sindone in cui fu avvolto Nostro Signore, che ogni venerdí veniva esposta ritta in modo che si potesse vedere bene la figura di Nostro Signore; non vi fu nessuno, né Greco né Franco, che abbia saputo ciò che avvenne di questa sindone quando la città fu presa». Robert de Clari, La conquête de Constantinople, a cura di Jean Dufournet, Paris, Champion, 2004, XCII.

religioso, ma anche, e soprattutto, un enorme valore commerciale. I piccoli e grandi sovrani dell’Occidente erano pronti a pagare cifre notevolissime per avere una reliquia importante da esporre nelle loro cappelle palatine. A Costantinopoli esisteva un luogo che conteneva la piú incredibile collezione di reliquie della cristianità: la Cappella del Faro. Essa si trovava all’interno del Palazzo Imperiale del Bukoleon, posto in riva al mare, a sud dell’ippodromo.

Un’immagine miracolosa Qui gli imperatori bizantini avevano stipato tra l’altro alcuni oggetti ritenuti connessi alla Passione di Gesú: frammenti della Croce, la lancia con la quale Longino avrebbe trapassato il costato del Signore, il Mandylion di Edessa (il telo sul quale Cristo si sarebbe asciugato il viso, e su cui se ne sarebbe miracolosamente impressa l’immagine). I crociati non si lasciarono sfuggire l’occasione di impadronirsi di tutto questo «ben di Dio», che di conseguenza si disperse per mille rivoli

Il re Abgar che tiene un telo con il volto santo di Cristo, il Mandylion, particolare dalla tavola bizantina Storia del re Abgar e Santi. 940. Sinai, Monastero di S. Caterina.

nell’Occidente cristiano. Un elenco delle reliquie presenti nella Cappella del Faro è contenuto nel resoconto dei fatti a cui aveva assistito durante la crociata scritto da Robert de Clari, un oscuro cavaliere piccardo, che aveva seguito il suo signore Pietro di Amiens nell’avventura d’oltremare (vedi box in queste pagine). Lo stesso de Clari, nel suo racconto, cita anche un’altra famosissima reliquia, custodita, a suo dire, nella chiesa di S. Maria delle Blacherne, presso il palazzo imperiale che sorgeva nella zona nord-orientale di Costantinopoli: la «sindone» di Gesú. Secondo molti studiosi, questa «sindone» sarebbe stata trafugata proprio durante il sacco del 1204, al quale anche Robert de Clari prese parte. Ma, come ha sottolineato Andrea Nicolotti, che ha dedicato un libro importante alla decostruzione del mito della «sindone» di Torino (I templari e la sindone. Storia di un falso, Salerno editrice, Roma 2011) di questo furto e dei suoi singoli passaggi (che i «sindonologi» descrivono nei piú minuti dettagli) non v’è la minima traccia documentaria.

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DALLE ALPI ALLE PIRAMIDI | 88 | LA GRANDE RAZZIA |


SULLA SCIA DEGLI ESPROPRI OPERATI IN FRANCIA IN NOME DELLA RIVOLUZIONE, NAPOLEONE BONAPARTE FECE DELLE OPERE D’ARTE UNO DEGLI OBIETTIVI DELLE CAMPAGNE CONDOTTE IN ITALIA E POI IN EGITTO. UN «DANNO COLLATERALE» CHE VIDE PARTIRE PER PARIGI UN NUMERO QUASI INCALCOLABILE DI CAPOLAVORI, CHE SOLO IN PARTE HANNO RIACQUISTATO LA LORO COLLOCAZIONE ORIGINARIA

Il gladiatore Borghese, firmato da Agasia di Efeso, da Anzio. 100 d.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto il gruppo del Laocoonte, attribuito a tre scultori di Rodi, Atenodoro, Agesandro e Polidoro. Scoperta a Roma nel 1506, l’opera si data tra il 40 e il 20 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Confiscato e portato a Parigi da Napoleone dopo la campagna d’Italia, il gruppo tornò in Vaticano nel 1815.

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C

ome ben sanno gli storici dell’arte, la maggior parte delle grandi raccolte principesche si è formata tra il XVII e il XVIII secolo. Tale genesi è avvenuta attraverso acquisti o lasciti, o tramite la reductio ad unum di patrimoni dispersi in vari rami delle piú importanti famiglie aristocratiche: in questo periodo l’acquisizione di opere d’arte per via militare era un fenomeno del tutto inconsueto. A cambiare le cose fu la Rivoluzione francese, che può essere considerata in qualche modo la base ideologica della piú grande «razzia artistica» che la storia ricordi. I rivoluzionari procedettero, infatti, alla confisca e alla statalizzazione dell’intero patrimonio reale, dei beni del clero e degli aristocratici in fuga, nelle cui mani si trovavano le maggiori raccolte d’arte, ed esse aprirono la strada alle

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imprese degli anni successivi. Il 27 settembre 1792, con il re ormai deposto e prigioniero, l’Assemblea Nazionale decretava l’allestimento di un museo pubblico nelle gallerie dell’exreggia, denominandolo patriotticamente «Muséum François», trasformato nel 1796 in un piú neutro «Musée Central des Arts».

Alle origini del Louvre Aperto il 9 novembre 1793, quando Luigi XVI aveva già perso la testa sotto la ghigliottina, esso presentava una serie di dipinti e di sculture antiche, un settore, quest’ultimo, destinato nei decenni successivi a uno sbalorditivo incremento, con capolavori giunti da tutto il mondo: dai marmi Borghese, acquistati da Napoleone, a originali greci famosissimi, come la Venere di Milo o la Nike di Samotracia. L’accesso era gratuito, ma in

Incisione raffigurante i Francesi che, entrati a Venezia nel 1797, rimuovono i cavalli di S. Marco e ne predispongono il trasporto in Francia. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.


giorni stabiliti, mentre gli altri giorni erano riservati agli artisti che dovevano formarsi su quelle opere esemplari, e che del resto frequentavano già da tempo il palazzo in cui, nel 1692, si era insediata l’Accademia Reale di Pittura e Scultura. I principi democratici della Rivoluzione si ritrovano nell’organizzazione del museo, con le didascalie sotto i dipinti, le conferenze organizzate fra le antichità e la pubblicazione di un catalogo popolare alla portata di tutte le borse. Tuttavia, poiché i beni artistici erano stati fino ad allora di proprietà esclusiva dei ceti privilegiati, le masse popolari non avevano alcun interesse per le opere d’arte, il cui significato era loro estraneo se non come valore economico: questo spiega le distruzioni e i saccheggi indiscriminati avvenuti agli inizi della Rivoluzione. Com’era facile prevedere, quelle distruzioni e quei saccheggi dettati dal fanatismo provocarono l’intervento degli intellettuali piú ragionevoli, e, dopo la caduta di Robespierre, le voci di protesta si fecero ancora piú forti e pressanti. Ancora nel novembre del 1793 erano stati distrutti 434 dipinti nel deposito del Museo Centrale, e solo il coraggioso

intervento del conservatore Alexandre Lenoir permise di salvarne altri dalla distruzione. Ma nell’aprile del 1794, al culmine del Terrore, alcuni incaricati del Comitato di Salute Pubblica vennero a incendiare tutti i dipinti che per il loro contenuto ricordassero in qualche modo l’epoca feudale. Nell’agosto dello stesso anno tuttavia il deputato abate Henri Grégoire osò discutere pubblicamente all’Assemblea Nazionale i suoi tre «Rapporti sulle distruzioni operate dal vandalismo e sui mezzi per impedirle». Nella politica dello Stato francese verso i beni artistici ebbe cosí inizio una nuova fase: si diffuse l’idea che fosse assurdo distruggere opere d’arte appartenenti al patrimonio nazionale. La Convenzione emanò un’ordinanza rivolta alle amministrazioni regionali in cui si diceva: «Voi siete soltanto i depositari di beni di cui la grande famiglia del popolo potrà chiedervi conto».

La campagna d’Italia Proprio grazie alla Rivoluzione Napoleone ebbe modo di mettere in atto la prima delle sue grandi razzie di opere d’arte: infatti, nel 1796 egli ricevette dal Direttorio l’incarico di guidare una serie di operazioni militari alla testa

A destra Le nozze di Cana, un monumentale olio su tela (9,94 x 6,77 m) di Paolo Veronese (al secolo Paolo Caliari), realizzato per il refettorio del convento benedettino di S. Giorgio Maggiore e portato anch’esso in Francia. 1563. Parigi, Museo del Louvre.

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dell’Armata d’Italia contro le potenze monarchiche del regno di Sardegna, del Sacro Romano Impero e dello Stato pontificio. Da buon seguace degli ideali rivoluzionari, Napoleone perseguiva in questa fase della sua carriera un duplice obiettivo: liberare gli Stati italiani dai vecchi regimi assolutistici e legarli strettamente alla Francia, magari facendone delle province francesi. Pur non avendo, com’è noto, una grande cultura artistica, Napoleone comprese presto il valore dell’arte e della scienza come strumenti di propaganda per un regime politico, e, in particolare, per un regime bisognoso di legittimazione in quanto nato da una rivoluzione. I Paesi liberati dovettero pagare un prezzo molto alto, provvedendo al sostentamento materiale delle truppe francesi, versando le somme richieste a titolo di risarcimento e contribuendo ad arricchire i tesori culturali della comune capitale, Parigi. Napoleone desiderava, come ebbe a dire piú tardi, fare di Parigi la piú bella città del mondo, e questo desiderio nacque proprio in Italia.

Conquiste militari, conquiste artistiche Poiché in Italia i beni artistici erano da sempre nelle mani dei principi, dell’aristocrazia e della Chiesa, sussistevano ampie possibilità di esproprio. Le «conquiste» artistiche seguirono cosí di pari passo quelle militari. E per dare a questi espropri una parvenza di legalità, Napoleone escogitò il sistema geniale di includere le opere d’arte tra le clausole dei trattati di pace e di farle rientrare addirittura tra i contributi di guerra. A questo scopo formò una commissione di esperti con il compito di scegliere i dipinti e le sculture piú significative da inviare a Parigi. Tra il maggio e il giugno del 1796 Napoleone occupò in rapida successione Milano, Modena, Parma e Bologna, capoluoghi di altrettanti principati. Due mesi piú tardi scrisse al Direttorio che 110 quadri erano sulla strada per Parigi, e precisamente 25 da Milano, 15 da Parma, 30 da Modena e 40 da Bologna, per non parlare dei numerosi oggetti grandi e piccoli

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– sculture, manoscritti, reliquiari, medaglie e monete – sequestrati nello stesso periodo. Mentre il presidio militare del Castello Sforzesco opponeva ancora resistenza, alla Biblioteca Ambrosiana si requisirono un lungo elenco di opere: tra queste, il disegno preparatorio di Raffaello per la Scuola di Atene al Vaticano, il Codice Atlantico di Leonardo e il prezioso manoscritto delle Bucoliche di Virgilio, illustrato da miniature di Simone Martini (XIV secolo). Per quanto riguarda i quadri, furono scelti paesaggi dipinti da Jan Brueghel per il suo mecenate, il cardinale Carlo Borromeo, fondatore della Biblioteca e due opere dello scolaro di Leonardo Bernardino Luini, come pure numerosi vasi antichi dipinti, noti allora sotto la denominazione generica di vasi «etruschi». Analogamente, nel gennaio 1797, a Monza, venne razziato il tesoro longobardo della Cattedrale: quest’ultima custodiva intatto lo straordinario tesoro donatole nel sesto secolo dalla regina Teodolinda, che comprendeva, oltre alla famosissima corona

Incisione raffigurante una sala del Louvre, che, dopo l’arrivo delle opere prelevate in Italia, fu riallestito e inaugurato nel 1800, per essere infine ribattezzato Musée Napoleon nel 1803.

| Un condottiero che amava il Bel Paese |

L

a campagna d’Italia fu l’impresa piú felice di Napoleone. Se si legge la sua corrispondenza degli anni 1796-98, e in particolare le sue relazioni al Direttorio, si resta colpiti dalla perspicacia e dalla presenza di spirito del giovane generale non meno che dal suo talento organizzativo. Da solo, egli creò una nuova Italia, i cui effetti sul periodo della Restaurazione durarono fino al Risorgimento. Nato nel 1769 ad Ajaccio, in Corsica, da una famiglia di origine italiana, Napoleone era vicino all’Italia piú di qualunque altro conquistatore straniero, e gli Italiani comprendevano i suoi gesti e la sua lingua. Nello stesso tempo, fu proprio la campagna d’Italia, con le sue vittorie assimilate ai trionfi romani, a suscitare in lui l’idea dell’impero, idea che, sull’esempio di Augusto, doveva trasformare in realtà nel 1804. Da questo punto di vista, è abbastanza facile capire in che modo lo stile rivoluzionario, improntato alla Roma repubblicana, abbia potuto trasformarsi senza difficoltà in una politica di potenza di stampo imperiale.


| Il furto d’arte come umiliazione politica |

D

ai soffitti del Palazzo Ducale di Venezia furono sottratti dai Francesi cinque dipinti: l’Allegoria del doge Antonio Grimani, attribuita a Tiziano, l’Allegoria della Fede di Tiziano e tre quadri di Paolo Veronese conservati nella Sala dei Dieci: Giove fulmina i vizi, San Marco incorona le virtú religiose e Giunone distribuisce doni a Venezia. Infine, dall’anticollegio del Palazzo Ducale venne prelevata la grande tela di Paolo Veronese col Ratto d’Europa (oggi

nuovamente al Palazzo Ducale), una delle molte versioni del mitico episodio eseguite dal maestro. Al di là del loro valore artistico, si trattava di dipinti che, piú di ogni altra opera d’arte, celebravano i fondamenti etico-politici della Repubblica veneziana. La loro asportazione dal centro del potere della Serenissima – il Palazzo Ducale – ha dunque un valore simbolico estremamente chiaro: quello di umiliarne il governo.

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ferrea del regno longobardo – cosí chiamata perché secondo una tradizione conteneva un chiodo di ferro della Croce – le corone, le croci, le armature e i reliquiari d’oro e d’argento della regina e del suo sposo Agilulfo, vari dittici in avorio di grande valore e infine un esempio molto raro di oreficeria altomedievale: il gruppo in argento dorato di una gallina coi suoi pulcini in grandezza naturale, simboli della Chiesa di Cristo. Se fino a questo momento il bottino napoleonico era ancora abbastanza modesto, esso si arricchí non appena le truppe francesi misero piede nello Stato pontificio. In città come Ravenna, Pesaro, Ancona e Perugia il numero di opere d’arte asportato fu enorme, ma il grande obiettivo di Napoleone ora era Roma. Come egli stesso scrisse al Direttorio nel febbraio del 1797, «i nostri esperti d’arte hanno fatto un buon raccolto a Ravenna, Rimini, Pesaro, Ancona e Perugia. Queste opere verranno subito spedite a Parigi. Con queste, e con quelle che spediremo da Roma, tutto quello che c’è di bello in Italia sarà nostro».

Mentre nell’Italia settentrionale la scultura classica greca e romana era assai poco rappresentata, giungendo a Roma i commissari napoleonici si trovarono improvvisamente di fronte a una moltitudine di opere celeberrime che, come il Laocoonte tanto venerato da Winckelmann, erano ben note a tutti gli intenditori d’arte del Settecento. Per i commissari si trattava dunque di scegliere il meglio dalle raccolte pontificie. Come risulta

| Il saccheggio di Roma |

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esoconti di testimoni oculari, biografie, diari, lettere e cataloghi danno un’idea abbastanza chiara del sistematico saccheggio a cui Roma fu sottoposta dai Francesi. Per esempio, lo scultore svizzero Heinrich Keller, che aveva nell’Urbe una scuola d’arte, scrive in una lettera a un amico: «La distruzione è spaventosa. I quadri piú belli vengono venduti a prezzi ridicoli (…). Quanto piú sacro è l’oggetto, tanto piú basso è il prezzo. Ieri sono andato al Campidoglio, dove lo

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spettacolo è disperante. La statua di Marco Antonio è in una cucina, con un collare di legno e guanti di paglia. Il Galata morente è completamente imballato nella paglia, la splendida Venere è sepolta nel fieno fino al petto, mentre Flora aspetta in un sotterraneo dentro una cassa di legno». Un catalogo sommario, dal titolo Specchio generale di tutti gli oggetti d’arte che partono da Roma a Parigi, elenca sei statue colossali, 170 figure singole e gruppi di marmo, 36 busti, 180 erme e busti piú piccoli, oltre a


In basso l’Apollo del Belvedere. Copia romana della metà del II sec. d.C. di un originale in bronzo attribuito a Leocare (330-320 a.C.). Città del Vaticano, Museo Pio Clementino. Johann Joachim Winckelmann la considerava «il piú alto ideale dell’arte tra le opere antiche che si sono conservate fino a noi».

In alto particolare di un vaso in porcellana raffigurante Napoleone che assiste all’arrivo al Louvre delle opere fatte prelevare in Italia. Manifattura di Sèvres, 1813. Sèvres, Manufacture et musée nationaux. Tra di esse si riconosce l’Apollo del Belvedere (vedi qui accanto). Nella pagina accanto la Venere Capitolina. Copia romana di un originale di Prassitele (IV sec. a.C.). Roma, Musei Capitolini.

una quantità di rilievi, mosaici, bronzi, vasi e terrecotte. Le antichità piú ammirate delle gallerie vaticane e capitoline e del Museo PioClementino erano il Laocoonte, l’Apollo e il Torso del Belvedere, la Venere Capitolina (nota anche come Venus pudica) del Campidoglio, l’Apollo sauroctono appoggiato al tronco di un albero e il Fanciullo che strozza l’oca, copia romana di un bronzo di Boeto di Calcedonia descritto da Plinio. A questi vanno aggiunti il celebre Spinario di

bronzo, l’Amazzone di Villa Mattei, una delle molte copie della Amazzone ferita di Fidia, il gruppo ellenistico di Amore e Psiche giovinetti nell’atto di abbracciarsi, dell’Aventino, la Arianna dormiente, il cosiddetto «sarcofago della Nereide», il Discobolo di Mirone, ritrovato pochi anni prima, nel 1792, il Galata morente, la Flora della Villa Adriana, il Meleagro, rilievo con le Muse e Apollo proveniente dalla villa di Cassio, le statue colossali del Nilo e del Tevere, ecc.

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NAPOLEONE

Particolare delle pitture che ornano il soffitto della Sala Campana del Museo del Louvre: il dipinto, opera di Leon Cogniet, rappresenta la spedizione di Bonaparte in Egitto. Si riconoscono, tra gli altri, lo stesso Napoleone e Vivant Denon. In primo piano è raffigurata la scoperta di un sarcofago.

dalla corrispondenza col Direttorio, gli elenchi delle opere da sequestrare erano già pronti, a Roma, sin dalla fine del marzo 1797.

La caduta della Serenissima Pochi mesi dopo, il 12 maggio, dopo una lunga resistenza, cadde Venezia: Napoleone stesso dettò a Mestre le durissime condizioni per la città ribelle: il doge e il governo furono deposti, la flotta requisita, e la città si vide imporre un risarcimento di sei milioni di sesterzi tra denaro contante e oggetti di valore, tra cui venti quadri e 500 manoscritti di proprietà dello Stato. Il generale Louis Baraguay-d’Hilliers occupò con le sue truppe la città lagunare, e i commissari napoleonici poterono mettersi all’opera. Benché le clausole parlassero solo di quadri, sotto il controllo delle truppe francesi venne rimosso anche il leone di bronzo, simbolo della città, che fin dal Medioevo dominava piazza S. Marco, e cosí pure i cavalli di S. Marco, la cui storia abbiamo raccontato nel capitolo precedente. I pittori piú ricercati della scuola veneziana erano Tiziano, Veronese e Jacopo Tintoretto.

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Due tra i piú grandi dipinti del Veronese – le Nozze di Cana e la Cena in casa di Levi – furono prelevati rispettivamente dal convento di S. Giorgio Maggiore, sull’isola omonima di fronte al Palazzo Ducale, e dalla chiesa di S. Giovanni e Paolo. È davvero incredibile che queste tele gigantesche, sia pure arrotolate, abbiano potuto raggiungere senza danni il porto di Livorno – da cui la maggior parte delle opere d’arte italiane furono imbarcate per la Francia – percorrendo le strette strade appenniniche su carri trainati da buoi. Quando, il 3 ottobre 1797, fu firmata la pace di Campoformio che «svendeva» Venezia agli Austriaci, Napoleone non trascurò di incaricare il suo generale Louis-Alexandre Berthier, nuovo comandante in capo delle truppe in Italia, di assicurarsi che i quattro cavalli di bronzo e il leone di S. Marco, insieme alle altre opere d’arte, venissero «evacuati». Quando Napoleone, vincitore della campagna d’Italia ed eroe popolarissimo della Repubblica, fece ritorno a Parigi, il Direttorio organizzò in suo onore un banchetto con settecento invitati. Come cornice adeguata all’avvenimento fu scelta la Grande Galleria del Louvre, dove per


l’occasione furono esposti per la prima volta in pubblico i quadri conquistati sul campo. Mentre Napoleone veniva festeggiato a Parigi, i rapporti con Roma peggiorarono al punto di richiedere un intervento immediato.

Tutti i tesori di Roma Una parte del Direttorio desiderava che il papa venisse deposto e lo Stato della Chiesa trasformato in una repubblica, cosa che Napoleone aveva fino ad allora evitato di fare per motivi di opportunità politica. Ma una serie di disordini e di sommosse anti-francesi lo convinsero a intervenire. L’11 gennaio, ordinò al comandante in capo Berthier di entrare nello Stato della Chiesa con 20 000 uomini e di occupare Roma «nel piú gran segreto». Il 9 febbraio Berthier si sistemava provvisoriamente a Monte Mario, con i cannoni puntati contro Castel Sant’Angelo, e pretese la resa e la consegna delle armi da parte delle truppe papaline. Il giorno dopo, i Francesi entrarono nella città, e da allora Roma fu considerata a tutti gli effetti territorio occupato. Berthier pretese un risarcimento straordinario di quattro milioni di piastre.

Il papa e il governo papalino furono deposti e fu insediata una repubblica romana; gli innumerevoli ordini religiosi furono soppressi e i loro beni confiscati. Benché un pubblico avviso assicurasse ai Romani che nessuno avrebbe toccato i loro antichi monumenti, alcuni generali proposero di rimuovere le colossali statue di Castore e Polluce al Quirinale, e addirittura di smontare la Colonna Traiana. Fortunatamente, entrambi i piani fallirono di fronte alle insormontabili difficoltà del trasporto. In ogni caso, le opere d’arte romane erano ormai un chiaro obiettivo francese. Per provvedere alla scelta di quelle da asportare, Napoleone raccomandò al ministro degli Interni di inviare a Roma una nuova commissione. Dopo l’abdicazione e la partenza del papa, i commissari vennero incaricati di compilare un inventario dei tesori raccolti al Vaticano e al Quirinale. Poi iniziò il saccheggio. Le biblioteche, e in particolare quella vaticana, offrirono un bottino incalcolabile di stampe antiche e di manoscritti, che furono spediti alla Bibliothèque nationale di Parigi in 350 casse. Le sculture di Villa Albani riempivano da sole

| La stele di Rosetta |

L

a Stele di Rosetta è uno dei vanti del British Museum. Si tratta di una lastra di pietra alta 112 cm e larga 76, che reca inscritto il testo di un accordo stabilito il 27 marzo del 196 a.C. tra il re Tolomeo V Epifane e un’assemblea di sacerdoti egiziani. L’iscrizione è redatta in egiziano geroglifico, greco e demotico (una forma di geroglifico abbreviato, molto utilizzato nella documentazione scritta egiziana di età ellenistica), circostanza che permise a Jean-François Champollion la decifrazione dei geroglifici, impresa di cui diede conto il 27 settembre1822, nel corso di una riunione pomeridiana dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres. La stele giacque per secoli fra le rovine del tempio in cui era stata eretta, forse nella città di Sais; successivamente, fu reimpiegata come materiale da costruzione nel forte della città di Rosetta. Nel 1799, i Francesi, che avevano invaso l’Egitto, ristrutturarono l’edificio e la scoprirono. Essa finí presto in mani inglesi, raggiungendo, nel 1802, come bottino di guerra, la sua attuale collocazione nel British Museum.

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Scultura in calcare policromo raffigurante una coppia seduta con il proprio bambino. XVIII dinastia, 1550-1307 a.C. Tolosa, Musée Georges-Labit. L’opera fu donata a Tolosa dal generale Charles-FrançoisJoseph Dugua (1744-1802), che aveva partecipato alla spedizione in Egitto.

280 casse, e in tutto le casse contenenti statue antiche raggiunsero il numero di 500. Per quanto riguarda la pittura, Roma era una miniera di opere del tanto ammirato barocco seicentesco, e già l’anno prima i commissari avevano destinato a Parigi le piú importanti tra quelle conservate al Vaticano e al Quirinale. Curiosamente i commissari francesi lasciarono al loro posto i tre grandi quadri del Caravaggio della vicina chiesa di S. Luigi dei Francesi. I commissari accompagnarono i tesori romani fino a Livorno; di qui a Marsiglia via mare, per risalire successivamente il Rodano, la Saône e i suoi canali fino alla Senna e a Parigi. Mentre le altre spedizioni di opere d’arte erano state

accolte a Parigi senza particolare solennità, questa volta il loro arrivo si trasformò in una grande festa popolare che celebrava insieme le feste rivoluzionarie e i trionfi romani. Nei giorni 27 e 28 luglio 1798 i Parigini poterono cosí assistere all’ingresso dei «Monuments des Sciences et Arts». Era un corteo interminabile: guidata dalle due statue colossali del Nilo e del Tevere, provenienti dal Vaticano, la processione si mosse dal Jardin des Plantes costeggiando la Senna fino al Champs de Mars e di qui al Louvre. Il contenuto delle casse era indicato da grosse scritte all’esterno, e tra le statue greche e quelle romane sfilava un manifesto con le parole. «la Grecia le ha cedute, Roma le ha perdute, la loro sorte è cambiata due volte: non cambierà piú». I quattro cavalli di bronzo di S. Marco non erano imballati, ma come si vede in una stampa dell’epoca, vennero trasportati con un sistema di piattaforme e di rulli, scortati da giraffe, cammelli e altri animali esotici destinati al giardino zoologico. Furono quindi collocati su piedestalli marmorei all’estremità orientale

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delle Tuileries e infine, nel 1808, sull’Arc de Triomphe del Caroussel insieme a un carro della vittoria e ad altri accessori moderni. Il leone di bronzo di S. Marco fu sistemato su una fontana agli Invalides.

Da Roma all’Egitto Napoleone, l’artefice del trionfo, non poté vedere le dimensioni effettive del bottino romano, essendosi imbarcato il 19 maggio a Tolone per la campagna d’Egitto. Tuttavia, l’esperienza italiana lo indusse a formulare progetti altrettanto grandiosi anche per il Vicino Oriente: per aprirsi la strada in quei Paesi, e con l’idea di fondare un Istituto Orientale sul modello parigino, portò con sé 75 studiosi di vari campi: astronomi geologi, economisti, agronomi, archeologi e architetti: questi ultimi, diretti dallo storico dell’arte ed egittologo Vivant Denon e dall’architetto JeanBaptiste Lepère, avevano lo speciale compito di studiare i monumenti archeologici dell’Egitto, di farne il rilievo e di disegnarli. Mentre l’esercito francese, dopo la vittoriosa battaglia di Giza, avanzava verso Tebe, Karnak e

Luxor nell’Alto Egitto, gli studiosi erano impegnati a studiare piramidi, templi, statue colossali e altri monumenti faraonici. Sia Denon che Lepère pubblicarono i risultati del loro lavoro in grandi volumi di incisioni (1802 e 1809-23), che diedero all’Europa le prime immagini dell’antica civiltà egiziana. Ma fu soprattuto il Voyage dans la Haute et Basse Égypte di Denon a esercitare un influsso decisivo sulla nascita dello stile impero con i suoi motivi egizi e pseudo-egizi. Quanto alle numerose opere d’arte raccolte durante i due anni di occupazione e custodite all’Istituto Orientale del Cairo, esse passarono nelle mani degli Inglesi dopo la capitolazione del corpo di spedizione napoleonico, e furono spedite a Londra anziché a Parigi. Con molta previdenza l’Istituto aveva fatto preparare i calchi di gesso dei pezzi piú importanti, tra cui la cosiddetta stele di Rosetta, che i Francesi avevano trovato nelle vicinanze di Alessandria e che con la sua iscrizione trilingue permise a Jean François Champollion di decifrare la scrittura geroglifica (vedi box a p. 97).

Il generale Bonaparte davanti alla Sfinge, olio su tela di Jean-Léon Gérôme. 1886. San Simeon (California, USA), Hearst Castle.

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ASIA CENTRALE

DIAVOLI STRANIERI SULLA VIA DELLA SETA | 100 | LA GRANDE RAZZIA |


Niya (contea di Minfeng, Regione Autonoma dello Xinjiang Uygur). Resti di uno stupa buddhista. III sec. d.C. Considerato una sorta di «Pompei della via della seta», il sito fu individuato nel 1901 da Aurel Stein, che vi scoprí varie tavolette iscritte, alcune con sigilli raffiguranti divinità ed eroi della mitologia greca.

IN TEMPI MODERNI, I PERCORSI SEGUITI DA MARCO POLO E DA TANTI ALTRI IGNOTI VIAGGIATORI SONO STATI BATTUTI DA STUDIOSI ED ESPLORATORI EUROPEI. LA CUI SETE DI CONOSCENZA SI È TRADOTTA SPESSO IN VERI E PROPRI SACCHEGGI AI DANNI DI UN PATRIMONIO DI RARA RICCHEZZA

N

el 1271 Marco Polo partí alla volta di Khanbalik, cioè Pechino, la «città del Khan» (che nel Milione è indicata come Cambaluc), nuova capitale di Kubilai, discendente di Gengis Khan. È difficile ricostruire il suo itinerario, dal momento che Marco menziona nel suo libro anche luoghi per i quali, in realtà, non passò e di cui sentí semplicemente parlare. Probabilmente transitò per Tabriz, quindi per la regione a sud del Mar Caspio, e si diresse verso Balkh e quindi alla volta di Kashgar, di Yarkand, di Khotan, per poi giungere nel Gansu e finalmente in Cina. Il percorso era uno dei tanti itinerari possibili su quella che il geografo ottocentesco Ferdinand von Richtofen aveva per primo definito «via della seta», un reticolo di strade che collegavano la Cina al Mediterraneo su cui, dal II secolo a.C. in poi, corsero incessantemente carovane cariche di merci preziose, tra cui, appunto, la richiestissima seta cinese. Questo percorso rimase in voga per molti secoli, ma, a partire dal Cinquecento, quando nei grandi commerci intercontinentali le carovane vennero sostituite dalle caravelle, iniziò un lento declino, che ebbe il suo culmine alla fine del XIX secolo, allorché la maggior parte dei centri commerciali un tempo fiorenti della via della seta fu completamente abbandonata. È proprio a questo punto che

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ASIA CENTRALE

comincia la storia della riscoperta e del saccheggio di questa straordinaria regione, portati a termine, ambedue, con la medesima sagacia e determinazione da alcuni dei piú grandi studiosi europei.

Gen G Ge eno en ova ov va va Pis P iissa sa

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Caf afffa a M ar Caf Nero

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Ass rak Ast A ra akh han an an

Cos Cos osttan ta an a ntin tin ti iinopo nopo op op po oli ( sta (Is ttan an a nbul bu ) bu Trrebis T Tre biis b i o ond nd n da

L’arte del Gandhara Questa grande via commerciale veicolò anche beni immateriali, come filosofie, correnti artistiche e religioni: tra queste ultime, particolare importanza ebbe il credo buddhista, originatosi nel Nord dell’India nel VI secolo a.C., che insegnava la compassione per tutte le creature viventi. La penetrazione del buddhismo in Cina diede ai suoi abitanti una nuova religione e, soprattutto, offrí al mondo uno stile artistico del tutto nuovo. Per giungere fino in Cina, il buddhismo e la sua arte percorsero un itinerario indiretto, al fine di aggirare l’imponente massiccio himalayano, e ciò fece sí che esse, lungo la strada, assorbissero nuove influenze. La vera base di partenza dell’arte buddhista era in realtà il regno del Gandhara, nell’odierno Pakistan nordoccidentale: qui si era infatti realizzata la fusione artistica tra l’arte buddhista indiana, importata dai Kushana nel I secolo d.C., e l’arte greca, introdotta nella regione da Alessandro Magno. Il prodotto piú rivoluzionario di questo connubio fu la rappresentazione del Buddha in forme umane di stile ellenistico. I primi viaggiatori occidentali che nel XIX secolo raggiunsero l’area del Gandhara dall’India furono particolarmente colpiti dai dipinti e dalle sculture gandharici e cercarono subito di ottenerne esemplari per i musei europei: la precipitazione con cui ciò avvenne, fu causa di grandi danni per i siti che custodivano quelle opere. Fu comunque l’arte del Gandhara a portare il messaggio della religione e dell’arte buddhiste in Asia centrale e in Cina. L’avanzata del nuovo credo lungo le oasi che bordavano il deserto del Taklamakan favorí il proliferare di monasteri, grotte buddhiste e stupa (costruzioni in mattoni senza spazio interno sviluppatesi dalla forma dei primitivi tumuli funerari; destinate in origine ad accogliere le

Sar Sa arrai a

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Tab abriz ab riiiz

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Le «vie» della seta Percorso principale Itinerario descritto nel manuale per mercanti di Francesco Balducci Pegolotti (1330-1340) Percorsi alternativi Il canale imperiale in epoca Yuan (1279-1368) Rotte marittime

In alto cartina dell’itinerario della via della seta e delle sue varianti principali. A destra scultura lignea dorata riferita a Marco Polo, copia ottocentesca dell’idolo venerato nel Tempio dei Cinquecento Dei di Canton, in Cina. Commissionata dal sindaco di Venezia in occasione dell’Esposizione Geografica del 1881, Venezia, Museo Correr.

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Kar Kar arako akorum ako r rum

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G o lf o d el B e n g ala

Cal Ca C alicu a cu ut

reliquie di Buddha, divennero poi monumenti commemorativi, n.d.r.). Alla costruzione e alla manutenzione di questi luoghi sacri provvedevano i notabili locali e i ricchi mercanti di passaggio, che chiedevano al Buddha protezione o lo ringraziavano per essere tornati sani e salvi dai loro viaggi. In molti dipinti delle grotte o degli stupa della via della seta si possono vedere raffigurati i donatori e i benefattori, spesso identificati da iscrizioni commemorative. Ma il buddhismo non era la sola religione straniera ad arrivare in Cina attraverso la via della seta: a esso si aggiunsero infatti il cristianesimo nestoriano e il manicheismo. I nestoriani, che negavano la duplice natura umana e divina di Cristo, furono sconfitti e condannati come eretici nel concilio di Efeso del 431 d.C., e molti di loro si rifugiarono nei territori dell’impero sassanide, nell’odierno Iran. Di qui, alcuni missionari si spinsero fino in Cina: a Xi’an, nel

| Da Xi’an a Roma |

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a via della seta partiva dall’antica capitale dell’impero cinese, l’odierna Xi’an, e puntava verso nord-ovest, passando per il cosiddetto «corridoio del Gansu» verso l’oasi di Dunhuang nel deserto del Gobi, città destinata ad avere in questa storia un ruolo molto importante. Lasciata Dunhuang e passato il confine cinese al Cancello di Giada, la strada si divideva, offrendo alle carovane la scelta fra due vie che bordavano il grande e terribile deserto del Taklamakan, «il luogo da cui non si fa ritorno». La via settentrionale costeggiava le «Montagne celesti» (Tien Shan) e passava per le città-oasi di Turfan, Karashahr, Kucha, Aksu e Kashgar. La pista meridionale, invece, dopo aver attraversato le oasi di Miram, Khotan e Yarkand, svoltava a nord e si congiungeva con la via settentrionale presso Kashgar. Da qui, la via della seta entrava in Asia centrale, continuando per Khokand, Samarcanda, Bukhara e Merv; alla fine, attraversando la Persia e l’Iraq, raggiungeva la costa del Mediterraneo, dove le merci venivano caricate sulle navi per essere inviate ad Alessandria e a Roma.

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ASIA CENTRALE | La vita nelle città-oasi |

M

A destra pannello ligneo dipinto con il dio Siva, divinità tra le più venerate della mitologia indú, nelle vesti di Mahesvara («il grande signore»), da Dandan Oiliq (oasi di Khotan, Cina), VI-VIII sec. d.C., Londra, British Museum. In basso statuetta cinese in ceramica invetriata di tre colori, raffigurante un conducente di cavalli. Rinvenuta nel villaggio di Jialicun, presso Chang’an. Dinastia Tang (618-907 d.C.).

olto tempo prima di Marco Polo, alcuni viaggiatori e pellegrini che percorsero la via della seta hanno lasciato vivide descrizioni della vita quotidiana nelle ricche e fiorenti città-oasi che ne costituivano per cosí dire l’ossatura. Il diario di viaggio di un pellegrino cinese, Fa-Shien, contiene, per esempio, interessanti notazioni sul regno di Khotan: «Questo è un paese prospero e felice. Il suo popolo è benestante e trova il suo svago nella musica religiosa (…). Nel regno vi sono quattordici monasteri, senza contare i piú piccoli. Alla porta di ogni casa si innalza una pagoda, la piú piccola delle quali è alta sei metri (…). Gli abitanti hanno in casa stanze per i sacerdoti in viaggio e le mettono a disposizione con tutto il necessario».

638 d.C., fu fondata la prima chiesa nestoriana cinese e comunità nestoriane erano presenti in molte città-oasi. Numerosi manoscritti nestoriani in lingua siriaca furono scoperti nei primi anni del XX secolo a Turfan e a Dunhuang, mentre a Xi’an si conserva una famosa stele che racconta la storia della fondazione della chiesa nestoriana nella capitale dell’impero cinese. Né l’editto dell’845 d.C., con cui in Cina si misero al bando tutte le religioni straniere, né la conquista dell’Asia centrale da parte dei musulmani nell’XI secolo riuscirono a fermare l’espansione spirituale dei nestoriani: quando Marco Polo, alla fine del XIII secolo, passò per Kashgar e Khotan, incontrò molte loro comunità.

L’eterna lotta tra luce e oscurità Il manicheismo, che prende il nome da Mani, il suo fondatore, nacque invece in Persia nel III secolo d.C. ed è considerato un’eresia del mazdeismo, la religione nazionale dell’Iran pre-islamico. Esso si fonda

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A destra particolare di un rilievo in scisto grigio con l’immagine di un bodhisattva assiso in trono, dal Gandhara, regione dell’attuale Pakistan situata grosso modo nella piana di Peshawar. II o III sec. d.C. Parigi, Musée national des Arts Asiatiques Guimet. L’arte del Gandhara, che abbraccia un orizzonte cronologico compreso tra il I sec. a.C. e il VI-VII sec. d.C., copre un’area estesa oltre il territorio dell’antica regione da cui prende il nome e si diffonde in tutto l’Afghanistan occidentale, parte dell’Asia Centrale e della valle dell’Indo, con irradiazioni che interessano Cina e Giappone.


sostanzialmente sull’opposizione di due principi: la luce e l’oscurità, perennemente in lotta fra loro. I manichei furono perseguitati come eretici sia in Persia sia in Occidente; cosí alcuni di essi, in fuga dalle persecuzioni, si stabilirono in Cina fra il VI e il VII secolo d.C. Fino a quando studiosi tedeschi non si imbatterono in intere biblioteche manichee nella regione di Turfan, si riteneva che il manicheismo fosse una religione priva di scritture. Sulla via della seta, questa dottrina cosí minoritaria e, per certi versi, «sovversiva», molto diffusa nel ceto mercantile, ebbe la ventura di divenire religione ufficiale di uno Stato. Essa infatti fu adottata dai Turchi Uighuri, sotto il cui regno il manicheismo conobbe il suo

apogeo. Dalla fine del X secolo, cominciò invece il suo lento declino: nelle città-oasi occidentali, esso venne cancellato dall’onda dell’Islam, mentre a Oriente fu soppiantato dal buddhismo. Una testimonianza eccezionale di questa evoluzione storico-religiosa è visibile a Karakhodja, sul confine nord-orientale del Taklamakan: qui, infatti, alcune splendide pitture murali manichee sono state ricoperte e nascoste da dipinti buddhisti piú tardi.

L’età dell’oro della Cina L’arte e la civiltà della via della seta raggiunsero il loro apogeo durante la dinastia Tang (618-907 d.C.), i cui tre secoli di governo sono considerati come l’età dell’oro cinese.

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ASIA CENTRALE

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L’epoca Tang fu infatti caratterizzata da lunghi periodi di pace e prosperità, che condussero a un notevole incremento demografico e a un eccezionale sviluppo culturale. La capitale Ch’ang-an si era trasformata in una vera e propria metropoli, circondata da un imponente circuito murario. Vi risiedevano piú di 5000 stranieri, e i loro culti (mazdeismo, manicheismo, cristianesimo nestoriano, giudaismo, buddhismo, induismo) erano tutti leciti e ben accetti. Una processione ininterrotta di viaggiatori, comprendente Persiani, Turchi, Arabi, Sogdiani, Mongoli, Armeni, Indiani, Malesi, Coreani e Giapponesi, varcava giorno e notte le porte della città. Molto spesso si trattava di mercanti, ma vi erano anche pellegrini, cortigiani, musici e diplomatici. Il rapporto tra i Tang e il commercio sulla via della seta era di fatto strettissimo, tanto che, quando tali traffici cominciarono a declinare, lo stesso accadde alla dinastia.

Una lunga decadenza La decadenza di una delle piú importanti vie commerciali della storia fu un processo lungo ma inesorabile, che ebbe esiti estremi, conducendo alla definitiva scomparsa di molte ricche città, con tutti i loro monasteri, i templi e le opere d’arte che furono riportati alla luce solo alla fine del XIX secolo. Alla sua base vi furono soprattutto il graduale prosciugamento delle oasi, l’espansione islamica e la radicale riorganizzazione delle vie commerciali dopo la scoperta dell’America. In questa situazione, solo le oasi piú ricche e meglio irrigate sopravvissero; le altre, con i loro segreti ormai dimenticati, finirono sepolte sotto le

sabbie del Taklamakan, dove sarebbero rimaste celate per molti secoli. Marc Aurel Stein fu uno dei primi studiosi e avventurieri occidentali a compiere scorrerie sulla via della seta alla ricerca dei suoi antichi tesori. Le sue spedizioni, che sarebbero durate sedici anni, ebbero come risultato l’asportazione di un numero enorme di opere d’arte e di manoscritti dell’Asia centrale. Non a caso, i Cinesi lo considerano ancora oggi il peggiore dei «diavoli stranieri» che li depredarono delle venerande vestigia della loro storia. Nato a Budapest nel 1862 da genitori ebrei (dai quali, per facilitargli la carriera, fu battezzato), Stein studiò lingue orientali a Vienna, Lipsia e Tubinga, e, dopo avere ottenuto il dottorato, a soli ventun anni, si recò in Inghilterra, destinata a divenire la sua patria adottiva. Trascorse tre anni a Oxford e al British Museum studiando archeologia e lingue orientali (ma non il cinese). A ventisei anni si trasferí in India, dove entrò nel servizio scolastico e divenne amico del padre di Rudyard Kipling, che lo iniziò ai «misteri» del buddhismo dell’Asia centrale. La sua prima spedizione nella regione del Taklamakan ebbe inizio nel maggio del 1900 e durò quasi un anno, durante il quale Stein ebbe modo di visitare molti siti importanti, scoprire varie città-oasi abbandonate, tra cui l’antica Niya, dove egli rinvenne tra l’altro ottantacinque tavolette iscritte in pracrito (un’antica lingua indiana), ma con caratteri kharoshti (un antico alfabeto usato nell’India nordoccidentale alcuni secoli prima e dopo l’inizio dell’era cristiana) e alcune

Qui accanto frammento di un documento in grafia kharoshti (una delle due forme di alfabeto adottate dalle lingue indo-arie fin dal III sec. a.C., d’uso limitato all’India nord-occidentale) trovato da Sir Aurel Stein a Loulan, antico insediamento militare cinese. Nella pagina accanto la missione di Sir Aurel Stein nel Taklamakan, in una illustrazione del Journal des Voyages dell’aprile 1910. In basso ritratto dell’archeologo ed esploratore Sir Aurel Stein (1862-1943), eseguito nel XX sec. da Sir William Rothenstein. Oxford Corpus Christi College.

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tavolette lignee chiuse da sigilli di terracotta che ritraevano divinità greche ed eroi (Atena, Eros, Eracle). Si trattava in gran parte di rapporti di polizia e di funzionari locali, liste di lavoratori, libri contabili, che offrono uno straordinario spaccato della vita quotidiana nelle città-oasi de Taklamakan in epoca medievale. Le scoperte della prima spedizione di Stein suscitarono grande interesse in tutta Europa: esse infatti davano conto di una civiltà buddhista fino ad allora sconosciuta e

In alto affreschi rinvenuti da Albert von Le Coq a Karakhoja, l’antica Khocho, nel Turfan. X sec. d.C. Berlino, Museum für Asiatische Kunst. Raffigurano adepte al culto manicheista (a sinistra) e una processione.

| Polvere e champagne |

I

n un passo del suo libro fondamentale sulle missioni europee in Asia Centrale all’inizio del XX secolo, irrinunciabile per chiunque voglia saperne di piú su questo straordinario capitolo dell’archeologia mondiale, Peter Hopkirk descrive con vivacità la vita difficile di von Le Coq e Bartus durante gli scavi di Karakhoja: «Incominciavano a lavorare all’alba, qualche volta alle quattro di mattina o anche prima, e partecipavano agli scavi, esposti al caldo o al freddo estremi, fino alle sette del pomeriggio, l’ora in cui gli operai ricevevano la paga giornaliera e i due tedeschi si mettevano a registrare e imballare i ritrovamenti della giornata. Una delle maledizioni degli scavi di Karakhoja era la polvere che si levava in nuvole soffocanti. “La sera“ – si lamenta von Le Coq – “ci capitava di tossire espellendo dai bronchi blocchi compatti di Löss”. Benché la polvere attenuasse un po’ il calore crudele del sole del Turkestan, essa però rendeva difficile la fotografia e tutte le loro prime

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straordinariamente ricca di arte e letteratura. Fino a quel momento, peraltro, gli archeologi si erano dedicati quasi esclusivamente ai siti faraonici dell’antico Egitto e ai siti biblici: l’archeologia dell’Asia centrale era una novità assoluta. Nel 1901, quando ad Amburgo si tenne il tredicesimo congresso internazionale degli orientalisti, Stein ricevette un messaggio di felicitazioni per le sue eccezionali scoperte. Ma i suoi successi ebbero anche un effetto collaterale certamente non gradito dallo stesso


Stein: la proliferazione di missioni archeologiche europee nate con il fine di seguirne le orme. Dalla Germania alla Francia, tutti volevano la loro porzione della via della seta: la sfida era cominciata.

La scoperta di Karakhoja In Asia centrale, le spedizioni tedesche piú importanti furono guidate da Albert von Le Coq. Nato a Berlino nel 1860, von Le Coq era figlio di un ricco mercante di vini ugonotto. A ventun anni il padre lo mandò a Londra e poi negli Stati Uniti, dove studiò anche medicina, per avviarlo al lavoro nell’impresa di famiglia. A ventisette anni, Albert tornò in Germania ed entrò nell’azienda, ma, dopo tredici anni di lavoro, vendette tutto e cominciò a studiare lingue orientali a Berlino. A quarantadue anni si arruolò come volontario nella sezione indiana del Museo Etnologico berlinese, proprio mentre veniva organizzata una prima missione sulla via della seta. Nel 1904, von Le Coq fu selezionato come direttore di una nuova spedizione, che comprendeva solo lui stesso e il tuttofare del museo, Theodor Bartus. Il 18 novembre 1904, dopo un viaggio avventuroso e ricco di

Nella pagina accanto, in basso Albert von Le Coq (a sinistra) e Theodor Bartus con Isa Khan, aksakal ( leader) dei Turchi russi di Taskent, e gli assistenti agli scavi. In basso frammento di affresco rappresentante Buddha seduti, dalle grotte di Bezeklik, provincia di Xinjiang. IX sec. d.C. Berlino, Museum für Asiatische Kunst. Von Le Coq e Bartus operarono una vera e propria razzia nel sito, asportando sistematicamente i grandi cicli pittorici che ornavano le grotte.

imprevisti, i due esploratori raggiunsero Karakhoja, una città-oasi completamente in rovina nella regione di Turfan. Gran parte dell’insediamento, costruito in argilla cruda, era stato livellato e arato dagli agricoltori locali: ma nel cuore della città, von Le Coq e Bartus trovarono un affresco alto circa 2 m, in cui era rappresentata una figura maschile con aureola attorniata da discepoli. Von le Coq comprese subito che doveva trattarsi di Mani: quello era dunque il primo ritratto del fondatore del manicheismo mai venuto alla luce. Le scoperte che seguirono confermarono che Karakhoja, il cui nome antico era Khocho, aveva ospitato tra l’VIII e il IX secolo un’importante comunità manichea. Von le Coq rinvenne splendidi manoscritti miniati su seta, pergamena e carta, pitture murali, dipinti su stoffe e altri tessuti che fornirono informazioni fondamentali sul manicheismo, fino ad allora conosciuto solo attraverso gli scritti polemici degli eresiografi cristiani e musulmani. Un’altra scoperta eccezionale fu quella di una piccola chiesa nestoriana che conteneva i resti di dipinti

immagini risultarono sottoesposte. I pasti erano estremamente monotoni: “riso con grasso di montone, o grasso di montone con riso“, annota von Le Coq. Per di piú, d’estate, il grasso di montone era invariabilmente rancido. Questa dieta poco appetitosa era però completata, in tutte le stagioni, da uva e meloni freschi, da frutta secca e dall’eccellente pane sfornato dalla loro padrona di casa. In occasioni molto speciali i tedeschi si permettevano di stappare una delle preziose bottiglie di Veuve Clicquot Ponsardin, dopo averla rinfrescata alla maniera turkestana, avvolgendola in un feltro bagnato. Alla loro partenza dalla Germania, infatti, una cassa di champagne era stata il premuroso regalo d’addio delle sorelle di von Le Coq». Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, traduzione di Gilberto Tofano, Adelphi, Milano 2006; pp. 157 ss.

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ASIA CENTRALE

L’ARTE ORIENTALE A BERLINO F

rutto dell’unione del Museo d’arte indiana e del Museo d’arte dell’Estremo Oriente, il Museo d’arte asiatica di Berlino ospita una delle piú importanti collezioni di arte proveniente dall’area culturale indo-asiatica e si trova nel complesso dei musei di Dahlem. Le opere sono suddivise in due aree geografiche. La prima è la collezione dell’Asia centrale, del sud e del sud-est e spazia dal quarto millennio a.C. a oggi. Qui si trova l’importante «collezione di Turfan», che raccoglie oggetti provenienti dalla via della seta, frutto delle missioni di von Le Coq in Turkestan. Particolarmente notevole è la ricostruzione a grandezza naturale di un tempio buddhista con decorazioni murali originali.

In alto e nella pagina accanto, in alto un frammento di pittura murale raffigurante una divinità buddhista che suona uno strumento (V-VI sec. d.C.) e un frammento di scultura in terracotta dipinta della divinità buddhista Devata (IV-V sec. d.C.), dalle grotte di Kizil (Cina). Berlino, Museum für Asiatische Kunst. A destra testa di bramino, particolare di un affresco, dalle Grotte dei Mille Buddha di Bezeklik. VIII-IX sec. d.C. Berlino, Museum für Asiatische Kunst.

in stile bizantino raffiguranti una processione (forse la cerimonia della Domenica delle Palme; vedi foto a p. 108, in alto, a destra).

Il «metodo von Le Coq» Ma il nome di von Le Coq è soprattutto celebre per la scoperta, e il furto, di alcuni dei dipinti buddhisti piú interessanti dell’Asia centrale. La razzia iniziò a Bezeklik, un vasto insediamento monastico scavato nella roccia, ben nascosto e di difficile accesso. Esplorando le grotte di Bezeklik, von Le Coq e Bartus si resero conto che la maggior parte delle grotte contenevano grandi cicli pittorici buddhisti, recanti iscrizioni in brahmi, uighuro e cinese che identificavano i ritratti dei loro committenti. I due tedeschi non avevano dubbi: quelle pitture avrebbero fatto la loro fortuna. Dunque, dovevano essere assolutamente staccate e portate a Berlino. Cominciò allora un’opera di saccheggio sistematico che ancora oggi lascia stupefatti i visitatori che riescono a raggiungere i siti in questione. Intorno a ogni

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dipinto veniva praticato un taglio, in modo tale da penetrare attraverso lo strato preparatorio (composto da fango, sterco di cammello, paglia e gesso) sul quale era stato disteso il colore; accanto al taglio si scavava un buco con il piccone o con martello e scalpello, in modo da potervi introdurre una piccola sega; poi il dipinto veniva tagliato e rimosso con delicatezza dalla parete. Quando l’opera non era in buone condizioni, gli operai tenevano premuta una tavola ricoperta di feltro contro il dipinto da


DOVE E QUANDO MUSEUM FÜR ASIATISCHE KUNST Berlino, Humboldt Forum, Schlossplatz Orario mercoledí-lunedí, 10,30-18,30; chiuso il martedí Info www.smb.museum

La storia di questo museo comincia nel 1906, quando il Direttore generale dei Musei reali di Berlino raccomandò che venisse istituita ufficialmente la prima Collezione d’arte dell’Estremo Oriente. Oggi la collezione vanta opere provenienti da Cina, Corea e Giappone. Il salone centrale è dedicato all’arte buddhista nei tre Paesi. Ci sono poi importanti collezioni di ceramiche cinesi dal Neolitico al Quattrocento, una sala da tè realizzata da falegnami giapponesi e una selezione di giade e bronzi antichi. Uno spazio è poi dedicato alle nuove tendenze artistiche nell’area, compresa un’installazione video dell’artista coreano Nam June Paik. Ulteriori approfondimenti sono forniti attraverso filmati e presentazioni interattive. Per entrambe le sezioni del museo sono disponibili audioguide in diverse lingue.

asportare e facevano in modo di rimuoverlo scostando il bordo superiore e poi facendolo scivolare verso il basso, fino a farlo giacere orizzontalmente sulla tavola. A questo punto si applicavano strati protettivi di canne e ovatta, sui quali si depositava un altro dipinto, creando cosí una sorta di sandwich. Infine, il tutto veniva legato con corde e inserito all’interno di una cassa foderata di paglia e lino al fine di impedire movimenti durante il trasporto. Dopo venti mesi di viaggio, i dipinti cosí imballati arrivavano sani e salvi a Berlino. Tuttavia, il «metodo von Le Coq» e, soprattutto, la sua disinvoltura nel saccheggio non erano apprezzati da tutti: in particolare, alcuni archeologi tedeschi condannavano gli esami superficiali dei siti condotti da von Le Coq e consideravano molto negativamente l’appropriazione dei dipinti e delle opere piú rilevanti, ritenendola un vero e proprio ladrocinio privo di ogni giustificazione.

I dipinti piú belli del Turkestan La scoperta di gran lunga piú celebre delle missioni tedesche in Asia centrale fu senza

dubbio quella delle pitture murali delle grotte di Kyzil, un altro importante sito buddhista del Turkestan cinese. Scrisse von Le Coq: «I dipinti erano i piú belli di tutto il Turkestan, e ritraevano scene della leggenda di Buddha in uno stile ellenistico quasi puro (…). Trovammo ovunque templi non profanati e come nuovi, pieni delle piú interessanti e artisticamente perfette pitture, tutte molto antiche». In effetti, i dipinti erano anteriori al 685 d.C., anno nel quale la regione si sottomise alla Cina, e dunque in essi non si manifestava ancora quella forte influenza cinese che caratterizza le pitture di epoca successiva. Divenuto direttore del Museo Etnologico di Berlino, fu lo stesso von Le Coq a stabilirvi la disposizione dei reperti provenienti dal Turkestan. Quando ebbe inizio la seconda guerra mondiale, tutti gli oggetti rimuovibili esposti nei musei berlinesi furono depositati in luoghi sicuri, ma i dipinti piú grandi, provenienti da Bezeklik, non

In basso statuetta in terracotta dipinta di monaco seduto, dalle Grotte dei Mille Buddha di Mogao. Dinastia Tang (618-907 d.C.), Parigi, Musée national des arts asiatuques Guimet.

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ASIA CENTRALE | Ricostruire la biblioteca: l’International Dunhuang Project | poterono essere spostati. Tra il 23 novembre 1943 e il 15 gennaio 1945 il Museo fu colpito almeno sette volte dalle bombe angloamericane, e ventotto affreschi furono totalmente distrutti. Gli affreschi piú piccoli e i manoscritti, invece, si salvarono. Una parte di essi finí nelle mani dei Russi come preda di guerra, ma la gran parte della collezione è tuttora visibile in uno dei musei piú belli e meno noti della capitale tedesca: il Museum für Asiatische Kunst (vedi box alle pp. 110-111).

Le meraviglie di Dunhuang Il centro carovaniero di Dunhuang, posizionato nel cuore del deserto del Gobi, all’incrocio dei rami settentrionale e meridionale della via della seta, racchiude uno dei piú splendidi tesori artistici della Cina: le Grotte dei Mille Buddha, una vera e propria galleria d’arte buddhista in mezzo al deserto databile tra il IV e il XIII secolo d.C. Pitture, ma anche sculture straordinarie, alcune delle quali di dimensioni gigantesche. Questo grandioso complesso monastico ebbe origine grazie alle donazioni di mercanti e pellegrini che all’entrata (o all’uscita) del deserto del Taklamakan si fermavano a pregare o a ringraziare il Buddha. Il primo «diavolo straniero» a raggiungere Dunhuang fu Aurel Stein. Qui egli venne a sapere che un prete taoista aveva scoperto una grande biblioteca di libri e manoscritti antichi, custoditi per secoli in una camera segreta di una delle Grotte dei Mille Buddha. Stein riuscí a sapere il nome del monaco, un certo Wang Yuan-lu, e, dopo non poche difficoltà, fu in grado di contattarlo e di chiedergli il permesso di vedere i manoscritti. Unendo offerte economiche a professioni di devozione nei confronti dei sacri testi buddhisti, l’archeologo riuscí infine a ingraziarsi il monaco e a convincerlo a mostrargli la biblioteca segreta. Vale la pena di lasciare la parola a Peter Hopkirk, che ha descritto magistralmente la scena del «disvelamento» nel suo libro dedicato alle spedizioni europee nel Turkestan: «Prima che tramontasse il sole Stein stava sbirciando

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L’

International Dunhuang Project (IDP: http://idp.bl.uk/) è un progetto internazionale il cui scopo è quello di rendere gratuitamente accessibili on line le informazioni e le immagini di tutti i manoscritti, i dipinti, i tessuti e gli oggetti d’arte provenienti da Dunhuang a dai siti archeologici della via della seta, ricostruendo virtualmente quel contesto che le spedizioni dei «diavoli stranieri» hanno irrimediabilmente alterato e distrutto, pur salvando i singoli oggetti. Ogni giorno, il progetto si arricchisce di nuovi dati, e tutte le informazioni e le immagini sono accessibili liberamente. L’IDP, che utilizza le piú sofisticate tecniche di digitalizzazione e informatizzazione, ha aperto sezioni locali a Londra, Pechino, Dunhuang, San Pietroburgo, Kyoto, Berlino, Parigi e Seul. Le risorse offerte dal progetto sono state alla base della grande mostra The Silk Road: Trade, Travel, War and Faith, organizzata alla British Library nel 2004, e che ha avuto piú di 150 000 visitatori.

nella stanza segreta alla luce della primitiva lampada a olio di Wang. La scena ne ricorda un’altra, di una quindicina di anni successiva: quando Howard Carter, alla luce tremolante di una candela, posò il suo primo sguardo all’interno della tomba di Tutankhamon. Per un archeologo, ciò che vide Stein non era meno sbalorditivo: “la vista che offriva la piccola stanza era tale da farmi spalancare gli occhi” – racconta. “Alla luce fioca della lampada del monaco, mi apparve una massa compatta di fasci di manoscritti, ammucchiati a strati ma senza alcun ordine; essa raggiungeva l’altezza di quasi tre metri e occupava, come dimostrarono poi le misurazioni, uno spazio di quasi cinque metri cubi”. Si trattava, con le parole di Sir Leonard Woolley, scopritore di Ur, di uno “scoop archeologico senza pari”. Il Times Literary Supplement proclamò: “Pochi archeologi hanno fatto scoperte piú mirabili di questa”».

Il primo testo a stampa del mondo La biblioteca, che era stata murata intorno all’anno 1000 per proteggerla dalle invasioni di popolazioni guerriere, non conteneva solo manoscritti cinesi, sanscriti, sogdiani, uighuri, tibetani, turchi e runici, ma anche una ricca collezione di pitture buddhiste e stendardi su seta. Il pezzo piú importante conservato nella


Illustrazione da un’edizione del Sutra del Diamante, Il supremo sutra Mahayana sulla perfezione della saggezza. La copia rinvenuta a Dunhuang da Sir Stein, conservata al British Museum, è il piú antico testo a stampa del mondo e reca il nome del committente, Wang Jie, e la data di stampa, l’11 maggio 868 d.C.

stanza segreta è una versione cinese di un celebre discorso attribuito al Buddha e noto come Sutra del Diamante. La sua fama non riguarda l’opera in sé, di cui esistono innumerevoli copie, ma il fatto che quello di Dunhuang è il piú antico testo a stampa del mondo. La copia è composta da sette strisce di carta unite tra loro e presenta un frontespizio riccamente illustrato. La copia, oggi conservata nel British Museum, riporta il nome del committente, Wang Jie (altrimenti ignoto), e la data della stampa: il quindicesimo giorno del Quarto mese del Nono anno del periodo Xiantong del sovrano Tang Yizong, corrispondente all’11 maggio 868 d.C., circa 587 anni prima della data della stampa della Bibbia di Johann Gutenberg. Aiutato da Wang, Stein cominciò a rimuovere l’enorme mole di materiale dalla biblioteca nascosta e in sedici mesi raccolse ventiquattro casse di manoscritti e cinque di pitture e ricami, che furono spedite al British Museum.

Un intervento tardivo Stein non fu il solo a essere assistito dalla collaborazione interessata di Wang: egli infatti permise di asportare un gran numero di manoscritti e dipinti anche al linguista ed esploratore francese Paul Pelliot, che giunse a Dunhuang nel 1906 e, dopo un’intensa attività

di studio in loco, scelse le opere piú significative da spedire a Parigi, dove sono oggi conservate nel Musée national des arts asiatiques-Guimet. Quando finalmente furono informate dei fatti, le autorità cinesi interruppero la razzia, mettendo sotto tutela tutto ciò che era rimasto nella grotta. Ma, ormai, i pezzi migliori avevano preso il volo. Se, dal punto di vista etico, le spedizioni sulla via della seta dei «diavoli stranieri» devono essere considerate come dei veri e propri saccheggi, è pur vero che esse dettero un contributo decisivo alla conoscenza occidentale della storia e della cultura dell’Asia centrale. Un giudizio complessivo su queste campagne, a metà strada tra la razzia coloniale e l’impresa scientifica, resta dunque molto difficile. D’altra parte, anche le attuali rivendicazioni dei Cinesi sembrano abbastanza pretestuose, dato che, nell’area in oggetto, anche la Cina ha sempre giocato il ruolo di potenza coloniale, né piú né meno della Francia, della Germania e dell’Inghilterra. Forse, piú che giudicare, bisogna cercare di capire. Come scrisse una volta Benedetto Croce, con le lamentazioni e i giudizi moraleggianti «si fa poesia, e non già storia. Quei fatti sono avvenuti e nessuno può cangiarli; come nessuno può dire che cosa sarebbe avvenuto se non fossero avvenuti».

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SOTTO IL SEGNO DELLA

SVASTICA FIN DAL SUO AVVENTO, IL REGIME NAZIONALSOCIALISTA VOLLE CHE ANCHE LE OPERE D’ARTE CONCORRESSERO AD ESALTARNE LA POTENZA. E COSÍ, SU MANDATO DELLO STESSO ADOLF HITLER, INIZIÒ UNA CACCIA SISTEMATICA, CHE EBBE TRA I SUOI PIÚ ACCANITI ESECUTORI UNO DEI PERSONAGGI DI PUNTA DEL TERZO REICH, HERMANN GÖRING

Un soldato della 101ª Divisione aviotrasportata statunitense esamina alcune tele facenti parte della collezione d’arte riunita da Hermann Göring. Le opere furono ritrovate nel maggio 1945 dall’unità americana in un nascondiglio allestito in una grotta nei pressi della cittadina bavarese di Berchtesgaden, dove Adolf Hitler aveva fatto realizzare la sua residenza nota come Nido dell’Aquila.

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PREDE DI GUERRA

C

ome abbiamo avuto modo di vedere nei capitoli precedenti, nel corso della storia i furti d’arte sono sempre stati connessi alla guerra, alla politica, alla propaganda e alla volontà di potenza. Di conseguenza, il fenomeno dei furti d’arte non poteva essere estraneo alla forma di governo che piú di tutte, nella prima parte del secolo da poco conclusosi, ha messo in atto politiche imperialistiche e aggressive: il regime nazionalsocialista di Adolf Hitler. Questo elemento caratteristico non ha mancato di stimolare la fantasia di romanzieri, fumettisti e cineasti: non possiamo non ricordare qui due famosi film in cui i nazisti sono rappresentati come protagonisti del furto di due oggetti d’arte un po’ particolari: l’Arca dell’Alleanza e il Sacro Graal. Si tratta naturalmente de I Predatori dell’Arca Perduta e di Indiana Jones e l’ultima Crociata, durante i quali, peraltro, l’archeologo piú amato dai cinefili di tutto il mondo non manca di pronunciare una frase-tormentone che tutti noi possiamo certamente sottoscrivere: «Nazisti… Io la odio quella gente!». La collezione piú importante raccolta da un membro della gerarchia nazista fu certamente quella di Hermann Wilhelm Göring, uno degli uomini piú potenti del Terzo Reich. Göring,

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seppure in maniera modesta, aveva iniziato a raccogliere opere d’arte già subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Quando prese il potere, Hitler gli affidò il compito di mettere insieme una grande collezione che egli avrebbe potuto conservare presso di sé per tutta la vita, ma che avrebbe dovuto donare alla nazione tedesca dopo la morte. Cosí, Göring, che ora poteva disporre di mezzi praticamente illimitati, cominciò a lavorare su larga scala, accumulando ogni sorta di oggetti, dai frammenti architettonici romani ai dipinti tedeschi, dai tappeti ai pezzi di oreficeria, avvalendosi di un certo numero di consiglieri ed esperti d’arte. Tra le sue opere favorite v’erano nudi femminili, ritratti e trittici. Inizialmente, Göring volle mantenere una rigorosa correttezza formale, rifiutandosi di ricorrere alle requisizioni e a indebite pressioni sui proprietari delle opere alle quali era interessato, ma presto questa parvenza di onestà e rigore morale lasciò il posto a ben altri comportamenti: se infatti il Feldmarschall non requisiva direttamente gli oggetti desiderati, i suoi agenti, che operavano nei Paesi conquistati dall’armata nazista, non si facevano altrettanti scrupoli. In ogni caso, Göring e i suoi diretti dipendenti dedicarono sempre molto tempo alle attività connesse alla collezione,

A sinistra soldati della 7ª Armata statunitense recuperano tre dipinti dal castello bavarese di Neuschwanstein, presso Füssen, nel quale erano state portate molte delle opere d’arte razziate dai nazisti come bottino di guerra o provenienti da raccolte sequestrate a Ebrei e oppositori al regime, quali le collezioni Rothschild e Wildenstein. Nella pagina accanto, in basso ancora un soldato della 101ª Divisione Aviotrasportata, di fronte a uno dei dipinti facenti parte della collezione di Hermann Göring.


anche nel periodo piú duro della guerra. D’altra parte essa, col tempo, si ampliò sempre di piú e dovette essere smembrata nelle varie residenze di cui Göring disponeva.

Capolavori in cassaforte | I Monuments Men |

L

i chiamavano «Monuments Men». Erano soldati, tanto coraggiosi quanto improbabili. Un esiguo plotone di topi di biblioteca, colti e appassionati, arruolati nell’esercito alleato durante il secondo conflitto mondiale e spediti nell’Europa in fiamme con una missione precisa: salvare i capolavori dell’arte. Mentre Hitler invadeva un Paese dopo l’altro, infatti, le sue armate si impadronivano di sculture e dipinti secondo un piano sistematico per concentrare le opere piú importanti nelle mani dei Tedeschi. Fu cosí che intellettuali, artisti, direttori e conservatori di musei – su mandato di Roosevelt – si trovarono a lottare per impedire una delle piú grandi razzie artistiche della storia. Il loro compito era inizialmente quello di limitare i danni dovuti ai combattimenti, ma in seguito la missione si concentrò sulla localizzazione dei beni trafugati. Pochi, isolati, e senza disponibilità di uomini e mezzi, ingaggiarono la loro speciale battaglia contro il Führer. In una gara contro il tempo, irta di ostacoli, ciascuno di loro dovette ricorrere a ogni possibile stratagemma per salvare chiese e monumenti dalla distruzione, riportare alla luce collezioni inestimabili sepolte nelle viscere della terra, seguire per tutto il continente le tracce di opere uniche al mondo. Aiutati da collaboratori altrettanto oscuri e determinati, come l’impiegata francese Rose Valland, che corse enormi pericoli; parroci, archivisti e semplici amatori. Questa incredibile vicenda è stata raccontata da Robert M. Edsel in un libro tradotto in italiano da Sperling & Kupfer (Monuments Men, Eroi alleati, ladri nazisti e la piú grande caccia al tesoro della storia) ed è diventata anche un film, diretto da George Clooney. Fra i Monuments men italiani va senz’altro citato Rodolfo Siviero, lo «007 dell’arte» (egli stesso era un collezionista), il cui nome è indissolubilmente legato a rocambolesche operazioni di salvataggio, come quella dell’Annunciazione di San Giovanni Valdarno, un’opera del Beato Angelico che Göring aveva destinato alla propria collezione: Siviero riuscí a saperlo in anticipo e salvò il capolavoro, facendolo prelevare e nascondere in un luogo sicuro il giorno prima che i nazisti giungessero per trafugarlo.

Molti degli oggetti accumulati dal Feldmarschall erano appartenuti a famiglie ebree. Grazie alla denuncia dell’ultima erede di una di tali famiglie, i Fischer, che si videro confiscare tutto il loro enorme patrimonio dai nazisti, un’indagine internazionale ha portato al ritrovamento e al sequestro di una parte della collezione Göring, nascosta in una cassaforte della filiale della Bahnhofstrasse della Zürcher Kantonalbank, la Banca cantonale di Zurigo. La cassaforte, grande quanto un armadio, era stata affittata nel 1978 a Zurigo da Bruno Lohse, un grande esperto d’arte che aveva lavorato come selezionatore di opere da razziare per Göring e per altri gerarchi. Nella filiale sono stati trovati una quindicina di dipinti, ognuno del valore di diversi milioni di euro. Opere di Dürer, Monet, Renoir, Sisley, Corot, Kokoschka. Tutti rubati da musei dei Paesi occupati dalla Wehrmacht o da collezioni private di Ebrei o di oppositori del regime. E dispersi da oltre sessant’anni. Lohse agí certamente per ordine di Göring: «Il dottor Lohse» – si legge in una lettera firmata dal

Il diplomatico italiano Rodolfo Siviero (1911-1983), che nel 1946 fu nominato ministro plenipotenziario per il recupero delle opere d’arte, in particolare di quelle trafugate dai Tedeschi durante la seconda guerra mondiale.

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PREDE DI GUERRA

Feldmarschall – «è da me incaricato di acquistare opere d’arte in trattative sul mercato, in aste pubbliche, in collezioni private. Ogni ufficio o comando dello Stato, del Partito e della Wehrmacht ha il compito di appoggiarlo nell’esecuzione del suo incarico». Dopo la guerra, Lohse venne arrestato dagli Americani ed estradato in Francia, dove scontò dieci anni di prigione. Liberato, si stabilí a Monaco e cominciò una nuova vita come commerciante d’arte. Morí nel marzo del 2007, a 95 anni. In questo stesso anno, due ignoti offrirono all’ultima erede dei Fischer Le quai Malaquaisprintemps, un capolavoro di Pissarro che i nazisti avevano rubato alla sua famiglia. L’anziana signora, invece, sporse denuncia. La magistratura di Monaco aprí un’inchiesta, che condusse in Lichtenstein, sede legale della galleria d’arte di Lohse. E di lí in Svizzera. Dove il magistrato Ivo Hoppler, indagando, ha scoperto la cassaforte segreta.

Palma il Vecchio nel Führerbunker Ma l’ossessione per la grande arte non aveva colto solo Hermann Göring. Uno dei suoi rivali era infatti lo stesso Adolf Hitler, interessato a fare del suo luogo di residenza giovanile, Linz, una grande capitale dell’arte e dell’architettura mondiali. Egli diede dunque mandato ai suoi collaboratori di acquistare opere importanti per un museo e una biblioteca che avrebbero dovuto essergli intitolati. Un estremo riflesso della passione artistica del Führer emerso alcuni anni fa per merito di due giovani studiosi italiani, Sergio Momesso e Serena D’Italia. Il 17 gennaio 2013 la rivista Life diffuse alcune foto inedite realizzate, dal reporter allora trentatreenne William Vandivert, nel bunker di Hitler, pochi giorni dopo la caduta del regime nazista (30 aprile 1945). L’obiettivo del fotografo inquadra il divano dove furono trovati i corpi senza vita del Führer e di Eva Braun, i mobili sfondati, le carte sparpagliate sulla scrivania, i soldati russi che ispezionano il luogo e si mettono in posa per una foto ricordo. In una di queste immagini si vede anche un quadro antico, adagiato su una tanica di benzina, con il

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In alto la grotta presso Berchtesgaden nella quale furono trovati dipinti e sculture facenti parte della collezione Göring. In basso Hermann Göring e Adolf Hitler visionano un quadro «acquisito» dal Terzo Reich. Fra i sogni del Führer vi era quello di edificare a Linz, sua residenza giovanile in Austria, la piú grande esposizione permanente d’arte al mondo, tanto da commissionare all’architetto Albert Speer il plastico del progetto, che portò nel suo bunker a Berlino.


vetro della cornice spezzato. La didascalia della rivista recita: «A 16th century painting reportedly stolen from a Milan museum» («Un quadro del XVI secolo, rubato, a quanto si dice, da un museo milanese»). Ma, a questo punto, lasciamo la parola a Serena D’Italia: «Poiché la didascalia sostiene che si trattasse forse di un quadro rubato da un museo di Milano, ci siamo subito in­curiositi: è nota la voracità con cui il dittatore tedesco accumulò nel giro di pochi anni centinaia di opere d’arte, quasi sempre in maniera illegale. Hitler doveva essere particolarmente affezionato a questo dipinto per scegliere di portarlo nel suo rifugio, che dalle fotografie pare essere stato per il resto piuttosto spoglio. Dall’immagine si capiva che il soggetto è ripreso dalla Donna allo specchio di Tiziano del Louvre, ma per fortuna la memo­ria di Sergio Momesso mi ha risparmiato molte di ore di lavoro: si tratta di un ritratto attribuito a Palma il Vecchio, transitato in passato sul mercato

A destra particolare di una foto scattata dal reporter William Vandivert nel bunker di Hitler, pochi giorni dopo la caduta del regime nazista. Si vede un quadro adagiato su una tanica di benzina, con il vetro rotto, identificato da Serena D’Italia e Segio Momesso come un dipinto di Palma il Vecchio, oggi disperso, proveniente molto probabilmente da una collezione privata di Milano.

inglese e poi su quello americano ma di cui si sono da tempo perse le tracce. La foto resa nota da Philip Rylands nella sua monografia su Palma non è molto leggibile, invece in quella conservata nella fototeca Zeri si colgono bene i dettagli dell’abito, rendendo praticamente certa l’identificazione. Rimangono quindi da chiarire i passaggi di proprietà del quadro (forse non proveniva da un museo pubblico milanese ma semplicemente da una collezione privata) e da attendere che, prima o poi, in qualche asta, rispunti fuori». Con l’immagine tragica del bunker di Hitler espugnato dall’Armata Rossa possiamo chiudere questo breve excursus sui furti del nazismo. Purtroppo, però, va detto che la conclusione della grande razzia hitleriana non ha significato la fine delle asportazioni di opere d’arte in seguito a eventi bellici, come prova, per esempio, il vergognoso episodio del saccheggio del museo di Baghdad durante la seconda guerra del Golfo. È vero però che le dimensioni del fenomeno si sono drasticamente ridotte, almeno in Occidente: nelle società capitalistiche e democratiche, lo strumento principe del furto d’arte non è piú la violenza della guerra, ma la forza non meno dirompente del denaro.

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Statue di dee dal frontone est del Partenone di Atene, forse identificabili, da sinistra, con Estia, personificazione divina del «focolare», Dione, ricordata come una delle spose di Zeus e, secondo una versione, come madre della dea Afrodite, che sarebbe la terza delle figure. 438-432 a.C. Londra, British Museum. Il gruppo scultoreo fa parte dei cosiddetti «Marmi Elgin», cioè delle opere appartenenti alla decorazione del Partenone che Lord Thomas Bruce Elgin, ambasciatore britannico a Costantinopoli tra il 1799 e il 1803, fece trasportare in Inghilterra.

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DAI MARMI ELGIN ALLA

GIOCONDA MUSEI COME DIFENSORI DEL PATRIMONIO DAI SACCHEGGI, MA ANCHE COME COMMITTENTI DI RAZZIE... UNA QUESTIONE DELICATA, NEL SEGNO DELLA QUALE ANCHE LE CRONACHE RECENTI HANNO REGISTRATO CASI CLAMOROSI


FURTI E MUSEI

I

musei, luoghi pubblici per eccellenza almeno dalla Rivoluzione francese in poi, nei quali le opere d’arte sono tutelate ed esposte alla fruizione di tutti, giocano un ruolo interessante anche nelle problematiche connesse ai furti dei capolavori artistici. E si tratta di un ruolo non privo di ambiguità. Se infatti, da un lato, le istituzioni museali sono comprensibilmente un obiettivo naturale dei razziatori, in quanto contenitori di tesori straordinari, dall’altro, in piú d’un caso, gli stessi musei hanno piú o meno direttamente incentivato le razzie per arricchire le loro collezioni. D’altra parte, molte famose raccolte europee e statunitensi sono nate proprio grazie

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a saccheggi sistematici. Basti pensare al Louvre, di cui abbiamo avuto modo di parlare, al British Museum, alla Gliptoteca di Monaco di Baviera e al Museo Pio-Clementino, nucleo originario dei Musei Vaticani. In questo ultimo capitolo della nostra inchiesta sui «predatori della bellezza» ci occuperemo dunque, brevemente dei due aspetti contrastanti della relazione fra musei e furti d’arte. Chiunque abbia un minimo interesse per l’archeologia ha certamente sentito parlare della controversia relativa ai cosiddetti «Elgin Marbles», cosí chiamati in onore di Lord Thomas Bruce, settimo conte di Elgin e ambasciatore britannico a Costantinopoli fra il

The Temporary Elgin Room, dipinto di Archibald Archer raffigurante la sistemazione provvisoria dei marmi del Partenone al British Museum. 1819, Londra, British Museum.


1799 e il 1803, che riempí interi bastimenti di statue e rilievi asportati dal Partenone durante i primi dieci anni del XIX secolo. In particolare, Lord Elgin si appropriò di 17 sculture frontonali, di oltre 75 metri del famoso fregio fidiaco che correva intorno alle pareti esterne della cella del tempio e di 15 delle 92 metope che rappresentavano la Gigantomachia, l’Amazzonomachia, la Centauromachia e la guerra di Troia. Una parte di tali sculture, crollata a terra nel corso dei secoli, fu raccolta dal suolo circostante, molti elementi vennero invece rimossi dall’edificio, non esitando a

smantellare tutto ciò che ne impediva l’estrazione; inoltre, il retro delle lastre piú spesse fu segato via per eliminare il peso in eccesso. Tutto ciò suscitò immediate polemiche, e il primo ad attaccare pesantemente l’ambasciatore britannico fu un altro, famosissimo, lord inglese: George Gordon Byron, il principe dei filelleni, colui che trovò la morte (anche se per via della febbre e non dei cannoni turchi) a Missoloungi, combattendo per la causa dei Greci e della Grecia. In uno dei suoi poemi piú celebri, il Childe Harold, Byron scrisse tra l’altro alcuni versi destinati a divenire una sorta di slogan di tutti i sostenitori della restituzione dei Marmi Elgin, in cui si condannano senza appello le «mani britanniche» che hanno sottratto alla Grecia le sacre reliquie del suo passato.

Una polemica infinita

A destra Thomas Bruce, settimo conte di Elgin (1766-1841), in un ritratto da un originale di Anton Graff. 1795. Contro le spoliazioni operate da Elgin si scagliò, tra gli altri, il celebre poeta inglese George Byron (1788-1824), nel poema Childe Harold.

Le discussioni si incentrarono sin dall’inizio su due punti chiave, che ancora oggi son ben lungi dall’essere stati definitivamente chiariti: se Lord Elgin fosse legalmente autorizzato a rimuovere i marmi, e se la sua fosse stata un’iniziativa personale o il furto gli fosse stato commissionato dal governo inglese o dal British Museum. In ogni caso, nel 1816 le sculture e i rilievi del Partenone furono venduti al governo britannico. Di qui in poi, comincia la storia della ricezione dell’arte greca del V secolo a.C. nella cultura occidentale, giacché, come è noto, prima dell’arrivo in Europa dei Marmi Elgin essa era essenzialmente conosciuta solo attraverso copie romane. A sancire l’apertura di questa nuova fase della riscoperta della tradizione classica c’è, anche in questo caso, la voce di un poeta: John Keats. Egli, infatti, nel 1817 ebbe modo di ammirare le sculture, appena collocate nel British Museum, e dedicò loro due splendidi componimenti: On seeing Elgin Marbles (Vedendo i Marmi di Elgin) e la famosa Ode on a Grecian Urn (Ode su un’urna greca),

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FURTI E MUSEI | Il poeta e i «Marmi»: Ode su un’urna greca di John Keats | Tu, ancora inviolata sposa della quiete, Figlia adottiva del tempo lento e del silenzio, Narratrice silvana, tu che una favola fiorita Racconti, piú dolce dei miei versi, Quale intarsiata leggenda di foglie pervade La tua forma, sono dei o mortali, O entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia? E che uomini sono? ,Che dei? E le fanciulle ritrose? Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata? E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia?

Ah, rami, rami felici! Non saranno mai sparse Le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera; E felice anche te, musico mai stanco, Che sempre e sempre nuovi canti avrai; Ma piú felice te, amore piú felice, Per sempre caldo e ancora da godere, Per sempre ansimante, giovane in eterno. Superiori siete a ogni vivente passione umana Che il cuore addolorato lascia e sazio, La fronte in fiamme, secca la lingua.

Sí, le melodie ascoltate son dolci; ma piú dolci Ancora son quelle inascoltate. Su, flauti lievi, Continuate, ma non per l’udito; preziosamente Suonate per lo spirito arie senza suono. E tu, giovane, bello, non potrai mai finire Il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli; E tu, amante audace, non potrai mai baciare Lei che ti è cosí vicino; ma non lamentarti Se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire, E tu l’amerai per sempre, per sempre cosí bella.

E chi siete voi, che andate al sacrificio? Verso quale verde altare, sacerdote misterioso, Conduci la giovenca muggente, i fianchi Morbidi coperti da ghirlande? E quale paese sul mare, o sul fiume, O inerpicato tra la pace dei monti Ha mai lasciato questa gente in questo sacro mattino? Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre, E mai nessuno tornerà a dire Perché sei stato abbandonato.

quest’ultima ispirata al fregio della cella. Di conseguenza, a coloro che condannano Lord Elgin e sostegono che i marmi del Partenone andrebbero restituiti ai loro legittimi proprietari, cioè ai Greci, i sostenitori della tesi contraria rispondono spesso che è stato proprio grazie a Elgin e al British Museum che i Marmi sono divenuti un punto di riferimento fondamentale della cultura dell’Occidente: se essi fossero rimasti in situ in un’Atene che era, all’epoca dei fatti, un insignificante villaggio di una provincia secondaria del grande impero ottomano, non avrebbero avuto alcun ruolo nella cultura mondiale. Dibattiti come questi proseguono ormai da quasi duecento anni e si sono intensificati negli ultimi decenni, da quando cioè – all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso – la questione della restituzione dei Marmi Elgin alla Grecia è stata nuovamente posta con forza dal ministro greco della Cultura Melina Mercouri, che, in un

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Ritratto del poeta inglese John Keats (1795-1821), eseguito dall’amico pittore Joseph Severn (1793-1879). 1819. Roma, Keats and Shelley House.

celebre discorso, affermò che i Marmi sono l’essenza della grecità, l’orgoglio e l’aspirazione dei Greci. Davanti a una simile disputa, l’impulso immediato è certamente quello di schierarsi e prendere posizione a favore di una parte o di un’altra. Argomenti a sostegno di ambedue le tesi non mancano di certo. Eppure, crediamo che oggi piú che mai sia necessario sottrarsi a questa scelta, e riflettere piuttosto sulla possibilità che il dibattito sui Marmi del Partenone – come altre controversie dello stesso genere – sia in realtà un’«arma di distrazione di massa». Essa, infatti, concentrando l’attenzione dell’opinione pubblica su una storia «spettacolare» e ricca di suggestioni nazionalistiche, la svia da problemi ben piú concreti, urgenti e importanti. Per esempio, per restare nella


Oh, forma attica! Posa leggiadra! con un ricamo D’uomini e fanciulle nel marmo, Coi rami della foresta e le erbe calpestate – Tu, forma silenziosa, come l’eternità Tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale! Quando l’età avrà devastato questa generazione, Ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori Non piú nostri, amica all’uomo, cui dirai ‘Bellezza è verità, verità bellezza’, – questo solo Qui sulla terra è dato di sapere. John Keats, Ode su un’urna greca

In questa pagina altre due opere facenti parte dei Marmi Elgin e oggi conservate al British Museum. In alto particolare del fregio nord del Partenone forse raffigurante la preparazione della processione svolta prima della battaglia di Maratona. 438-432 a.C. A destra statua di divinità originariamente collocata nell’angolo sinistro del frontone orientale del tempio, identificata come Dioniso (o Eracle o Ares). 438-432 a.C.

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FURTI E MUSEI

IL TESORO DI TROIA DA SCHLIEMANN ALL’ARMATA ROSSA Un caso da manuale del furto d’arte è quello, notissimo, del tesoro di Troia. Ripercorriamone brevemente le tappe principali. Tra il 1870 e il 1876 Heinrich Schliemann scoprí la città e il tesoro di Troia e le tombe dei re di Micene. Con lui nasceva l’archeologia omerica e si apriva un nuovo capitolo di storia. Ma non tutti sono forse consapevoli del fatto che quello di Schliemann fu un vero e proprio furto. Il primo tesoro troiano, il cosiddetto «Tesoro di Priamo» (una collezione di cui restano oggi 259 reperti: gioielli, vasi, statuette antropomorfe, asce-martello, manufatti in cristallo di rocca, ecc.), fu scoperto il 31 maggio 1873. Il 6 giugno dello stesso anno, Schliemann lo inviò in Grecia, senza tenere in alcun conto l’accordo con il governo turco, che prevedeva che si dividesse in parti uguali tutti gli eventuali beni preziosi che venissero scoperti sulla collina di Hissarlik. L’indignazione dei Turchi, alla scoperta di quanto avvenuto, è enorme. Nel 1874 Schliemann è condannato a pagare 10 000 franchi oro al Museo Archeologico di Costantinopoli. Nel 1875 si giunge faticosamente a un accordo: Schliemann pagherà 50 000 franchi oro alla Turchia, ma il tesoro resterà in suo possesso. Nel 1880, l’archeologo tedesco offre il tesoro di Priamo alla Germania: l’imperatore accetta e la collezione viene collocata nel Museo di Berlino (Kunstgewerbe Museum), con la supervisione dello stesso Schliemann e della moglie Sofia, per poi essere esposta, nel 1885, nel Museo Etnologico. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, il Tesoro viene nascosto nelle cantine del museo, per essere protetto da eventuali incursioni aeree, e successivamente trasferito nel grande Bunker dello Zoo di Berlino. Nel maggio del 1945 il Direttore del Museo etnologico (divenuto nel frattempo Museo di Pre e Protostoria) consegna il tesoro di Troia a un ufficiale dell’Armata Rossa, che lo fa trasferire a Mosca, presso il Museo Puškin; tuttavia, la Russia riconoscerà ufficialmente di esserne in possesso solo nel 1993. Nel 1996 si svolsero trattative per la sua restituzione alla Germania, ma i direttori dei musei russi dichiararono che esso doveva essere trattenuto quale compenso per i danni di guerra nazisti alle città russe. Oggi, il Tesoro è esposto nella sala 3 del Museo Puškin. Altri oggetti provenienti da Troia (soprattutto in bronzo e argilla) si trovano al Museo dell’Ermitage.

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Nella pagina accanto, in alto diadema in oro facente parte del Tesoro di Priamo, rinvenuto a Troia da Heinrich Schliemann nel 1873. Nella pagina accanto, in basso la celebre foto che ritrae Sophia Engastromenou, seconda moglie di Schliemann, con indosso alcuni gioielli del Tesoro di Priamo. In basso, sulle due pagine reperti aurei del Tesoro di Eberswalde, rinvenuto nel 1913 e databile al X-IX sec. a.C. Entrambi i tesori furono trafugati dai Russi alla fine della seconda guerra mondiale.

sfera culturale, quello della tutela del patrimonio artistico e archeologico, in Grecia come in Italia sempre piú in pericolo e alla mercé di speculatori senza scrupoli, o quello del mancato rinnovamento del personale delle ephoriai greche e delle soprintendenze italiane, sempre piú sottodimensionate rispetto alle esigenze concrete del territorio, mentre i giovani archeologi e storici dell’arte formati nelle università e nelle scuole di specializzazione hanno davanti a loro solo prospettive di disoccupazione e di precarietà. Davanti a una simile catastrofe, che negli ultimi anni si è fortemente accentuata anche a causa della crisi finanziaria che ha colpito crudelmente la Grecia e molti altri Paesi europei, il dibattito sui Marmi Elgin rischia di apparire del tutto fuori luogo. Speriamo almeno che non duri altri duecento anni.

Saccheggio in Mesopotamia Come spesso accade, nell’analizzare le vicende storiche il metro di giudizio varia sensibilmente a seconda dei protagonisti e dei rapporti di forza tra chi giudica e chi è giudicato. Cosí, se su alcune delle grandi razzie di opere d’arte a cui abbiamo accennato in questa Monografia, si è abbattuta una condanna pressoché unanime, su altre è invece caduta

una spessa coltre di complice silenzio. È, quest’ultimo, il caso del saccheggio del Museo archeologico di Baghdad, avvenuto nell’aprile del 2003, durante la seconda guerra del Golfo. In effetti, dopo un iniziale interesse dei media, questa incredibile vicenda è stata quasi del tutto dimenticata. Fortunatamente, però, Frederick Mario Fales, un archeologo che ha lavorato a lungo in Iraq, ha dedicato all’episodio una ponderosa monografia, Saccheggio in Mesopotamia. Il Museo di Baghdad dalla nascita dell’Iraq a oggi, che, oltre a chiarire con grande acribia la dinamica dei fatti, ricostruisce nei dettagli il contesto di corruzione, connivenze e riciclaggio di denaro sporco attraverso un floridissimo traffico di antichità in cui si è potuto verificare un evento del genere. Nel libro, Fales mette tra l’altro in rilievo come piú testimoni oculari e una fonte interna al museo (che preferí restare anonima) abbiano riferito del trasporto di materiale non identificato fuori dal museo da parte dei militari USA nelle ore precedenti all’inizio del saccheggio cominciato all’alba del 10 aprile. Ma soprattutto, con un semplice ma preciso resoconto degli avvenimenti, muove un preciso atto di accusa contro le responsabilità delle truppe di occupazione statunitensi, che di fatto, non intervenendo in alcun modo per impedirla, si sono rese corresponsabili della razzia. Sembra che in una prima fase i saccheggiatori fossero appena sette persone, divenute piú tardi alcune decine. Costoro, che per varie ore poterono agire del tutto indisturbati, penetrarono nella zona dell’amministrazione, rubando computer, fotocamere e qualsiasi altro oggetto di valore, e dandosi anche ad atti di vandalismo. I soldati USA passarono davanti al Museo ma si limitarono a sparare qualche colpo in aria. La razzia continuò per tutta la notte tra il 10 e l’11 aprile, proseguendo tranquillamente fino al tramonto dell’11, mentre le truppe statunitensi continuavano a non intervenire. La mattina del 12 aprile l’UNESCO invitò ufficialmente gli USA e la Gran Bretagna a collocare pattuglie presso i piú importanti musei e siti archeologici del

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FURTI E MUSEI

Paese per evitare altri saccheggi, ma neppure questo richiamo sortí l’effetto sperato: al contrario, furono gli addetti del Museo a occuparsi personalmente di cacciare gli intrusi. Solo il 14 aprile, il primo ministro britannico Tony Blair e il segretario di Stato statunitense Colin Powell intervennero per condannare il saccheggio e per dare generiche rassicurazioni sulla protezione del patrimonio artistico iracheno, ma l’ordine ufficiale alle truppe di occupazione USA di proteggere uno dei musei archeologici piú importanti del mondo giunse solo il 16 aprile. Incapacità o dolo? In assenza di ulteriore documentazione, ogni opinione è lecita. Anche grazie alla coraggiosa inchiesta di Fales è comunque ormai chiaro per tutti che i grandi saccheggi di opere d’arte non sono certo finiti con la morte di Adolf Hitler nel bunker di Berlino.

La scomparsa della Gioconda Non è possibile concludere questo nostro viaggio senza accennare al furto d’arte piú clamoroso del XX secolo: quello di cui fu vittima la Gioconda. Tutto ha inizio a Parigi la mattina di lunedí 21 agosto 1911, giorno di chiusura settimanale del Louvre, quando, intorno alle ore 7,00, un uomo in camice bianco

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riesce a penetrare nei corridoi del museo. Raggiunto il Salon Carré, punta dritto alla Gioconda di Leonardo, stacca il quadro e lo porta sulle scale di servizio. A questo punto, estrae un coltellino e stacca la cornice dalla tela: abbandona la prima sulle scale e nasconde la seconda sotto il camice. Mentre cerca di forzare con il coltellino la serratura della porta da cui vorrebbe fuggire e che ha trovato chiusa, l’uomo è disturbato dalla presenza di un idraulico e risale velocemente le scale. L’idraulico ha solo il tempo di vedere una sagoma in camice bianco, che egli scambia per uno degli operai del museo, poi apre la porta chiusa con il suo passe-partout e scompare. Il ladro esce dalla toilette in cui si è rifugiato, scende di nuovo le scale, passa attraverso la porta lasciata aperta dall’idraulico, attraversa con calma il Cortile della Sfinge e si ritrova sul lungosenna, passando da un’altra porta spalancata e priva di sorveglianza. Quest’uomo, che si sta allontanando in tutta fretta, ha appena realizzato il furto del secolo. Sembra incredibile, ma l’allarme venne dato solo il giorno successivo, martedí 22 agosto, e solo alle ore 11,30 si comprese con certezza che la Gioconda era stata rubata. Nel primo pomeriggio dello stesso giorno, il

Rilievi assiri raffiguranti tori alati con testa umana e geni alati esposti al Museo Nazionale di Baghdad dopo gli interventi di restauro e ricostruzione. Amira Eidan, direttrice del Museo, ha affermato che degli oltre 15 000 reperti saccheggiati o distrutti, ne sono stati ritrovati circa 5000. I lavori di restauro proseguono incessantemente, anche col sostegno italiano.


Roma, 1913. La cerimonia di riconsegna della Gioconda. Da sinistra: il direttore dell’Accademia di Francia Albert Besnard, il Ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello, il Ministro dell’Istruzione Luigi Credaro, il Direttore Generale delle Belle Arti Corrado Ricci e l’ambasciatore francese Camille Barrère.

prefetto Louis Lépin accorse al Louvre dicendosi convinto di risolvere il caso in pochi giorni. Ci vollero in realtà piú di due anni. Qui, purtroppo, non abbiamo la possibilità di raccontare nei dettagli questa incredibile vicenda: fortunatamente ci ha pensato uno storico francese, Jean-Yves Le Naour, che ha dedicato al furto di Monna Lisa un libro tanto informato quanto ironico e divertente (Il furto della Gioconda, Bologna 2013): diciamo solo che l’uomo che rubò la Gioconda era un operaio italiano, Vincenzo Peruggia. Egli la tenne presso di sé per ventotto mesi e dopo il rocambolesco ritrovamento, che avvenne a Firenze nell’albergo «Tripolitania» (che da allora in poi cambiò nome in «Hotel La Gioconda»), dichiarò di aver compiuto il suo gesto per restituire all’Italia un’opera sottrattale da Napoleone. Dunque, il piú famoso furto d’arte della storia sarebbe stato portato a termine per vendicare una razzia?

Se le cose stessero davvero cosí, la nostra piccola storia globale del furto d’arte si concluderebbe in maniera simmetrica ed elegante. Ma simmetria ed eleganza non si addicono quasi mai alla storia, che è materia traboccante di contraddizioni e di conflitti. E in effetti, sebbene i saccheggi napoleonici abbiano inondato il Louvre di opere d’arte provenienti dall’Italia, la Gioconda non è mai stata bottino di guerra. Anzi, è stata acquistata nel modo piú legale possibile, e oltretutto a peso d’oro (4000 scudi), dal re di Francia Francesco I, mecenate e protettore di Leonardo da Vinci. Dunque, ci si deve rassegnare: il ritratto di Monna Lisa è francese a tutti gli effetti. A meno di non voler sostenere, come pure qualcuno ha fatto, che la proprietà sia un furto. Ma le conseguenze di una simile affermazione potrebbero creare sconvolgimenti assai maggiori di quelli causati dal furto della Gioconda.

PER SAPERNE DI PIÚ Pietro Testa, Cospirazioni e furti nell’Egitto della XX dinastia, Aracne, Roma 2009 Filippo Coarelli, Revixit ars: arte e ideologia a Roma: dai modelli ellenistici alla tradizione repubblicana, Quasar, Roma 1996 Cesare D’Onofrio, Gli obelischi di Roma, Bulzoni, Roma 1967 Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa, Sellerio, Palermo 1986 Giorgio Ravegnani, Bisanzio e le Crociate, il Mulino, Bologna 2011 Paul Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Einaudi, Torino 1988 Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, Adelphi, Milano 2006 Mary Beard, Il Partenone, Laterza, Roma-Bari 2004 Frederick Mario Fales, Saccheggio in Mesopotamia. Il Museo di Baghdad dalla nascita dell’Iraq a oggi, Forum, Udine 2006 Jean-Yves Le Naour, Il furto della Gioconda, Odoya, Bologna 2013 Fabio Isman, L’Italia dell’arte venduta. Collezioni disperse, capolavori fuggiti, il Mulino, Bologna 2017

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MONOGRAFIE

n. 58 dicembre 2023/gennaio 2024 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Gli autori: Marco Di Branco è professore associato di storia dei Paesi islamici presso Sapienza Università di Roma. Illustrazioni e immagini: RMN-Grand Palais/Martine Beck-Coppola/Dist. Foto SCALA, Firenze: copertina – Doc. red.: pp. 4-7, 8 (destra), 9, 10-19, 22/23, 24-33, 36/37, 38-42, 44/45, 50/51, 52, 54 (alto), 55 (alto), 57, 58-59, 60/61, 62, 67, 68/69, 69, 70/71, 73, 74 (basso), 75, 76, 79, 82 (alto, a destra, e basso, a sinistra e a destra), 83, 84-91, 94-97, 98/99, 100/101, 102, 104-105, 106, 107 (alto), 108, 111 (basso), 113, 120-129; Emanuela Solaroli: disegno alle pp. 54/55; Giorgio Albertini: disegno alle pp. 80/81 – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/K&K Archive: pp. 20 (alto), 21, 37; Album/Prisma: pp. 20 (basso), 49 (alto); AKG Images: pp. 48, 49 (alto), 52/53, 63, 68 (alto), 72/73, 74 (alto), 82 (alto, a sinistra), 92/93, 107 (basso), 109, 110, 111 (alto); Archivio Luca Mozzati/Luca Mozzati: p. 64; Album/Oronoz: p. 80 – da La forza del bello. L’arte greca conquista l’Italia (catalogo della mostra), Milano 2008: pp. 34-35, 43, 46-47 – da Bonaparte et l’Égypte. Feu et lumières (catalogo della mostra), Parigi 2008: p. 98 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 8, 24, 36, 102/103. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

In copertina: particolare della decorazione di un vaso in porcellana raffigurante l’arrivo a Parigi delle opere prelevate in Italia da Napoleone e destinate al Louvre. Manifattura di Sèvres, 1813. Sèvres, Manufacture et musée nationaux. Si riconosce il gruppo scultoreo del Laocoonte.

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