N. 61 - Gli Imperdibili

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Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC

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Avventure, storie e misteri di 16 capolavori dell’antichità

GLI IMPERDIBILI

di Daniele F. Maras

GLI IMPERDIBILI

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N°61 Giugno/Luglio 2024 Rivista Bimestrale

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GLI IMPERDIBILI AVVENTURE, STORIE E MISTERI DI 16 CAPOLAVORI DELL’ANTICHITÀ di Daniele F. Maras, con contributi di Stefano Mammini

6. Presentazione

60. Sarcofago degli Sposi

A che serve un Museo? La missione culturale degli «Imperdibili»

Un abbraccio per l’eternità

68. Olpe Chigi Il golpe sull’olpe

14. Patera di Parabiago L’universo in una coppa

76. Guerriero di Lanuvio L’ultimo viaggio del guerriero

20. Stele dei Veneti Melting pot nella terra dei cavalli

82. Tazza Farnese Una magnifica scudella...

26. Fegato di Piacenza Tutto il cosmo in una mappa

92. Mosaico di Alessandro Echi di un’antica gloria

32. Statue stele della Lunigiana

98. Tomba del Tuffatore

Gli antenati scolpiti nella pietra

Tuffarsi nell’ignoto

40. Bronzi di Cartoceto

104. Zeus di Ugento

Un enigma tutto d’oro

La folgore e l’aquila

46. Chimera di Arezzo

112. Venere Landolina

Un mistero ruggente

Splendida pudicizia

54. Guerriero di Capestrano

118. Statue di Mont’e Prama

Chi era veramente quel soldato?

Eroi in parata


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N°59 Febbraio/Marzo

2024

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A CHE SERVE UN MUSEO?

LA MISSIONE CULTURALE DEGLI «IMPERDIBILI»

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Statue stele della Lunigiana esposte a Pontremoli, nel Museo delle Statue Stele della Lunigiana (vedi alle pp. 32-39). In basso, a destra particolare della Chimera di Arezzo, scultura etrusca in bronzo conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze (vedi alle pp. 46-53).

L’

archeologo può essere definito come una via di mezzo tra uno scienziato e un poeta, dal momento che il suo lavoro consiste nello scavare nella terra e riportare alla luce delle storie. Infatti, non solo i siti, i monumenti e le opere d’arte, ma anche le stratigrafie, i contesti sepolti e i piú umili frammenti del passato portano dentro di sé la memoria degli eventi ai quali hanno preso parte. Eventi che hanno coinvolto sia i popoli e i re i cui nomi restano scritti nei libri di storia, sia, soprattutto, la gente comune, la cui vita quotidiana ha lasciato una traccia indelebile nella documentazione archeologica. Si può dire, quindi, che la storia di ciascuno dei ritrovamenti archeologici è, di fatto, un messaggio da parte delle persone del passato, che fa da ponte tra noi e la Storia. Come avevano ben compreso gli antichi, la storia di un oggetto (per esempio quella di una statua) non si esaurisce con la sua produzione, ma viene arricchita da ogni passaggio di mano in mano, che porta da una pietra bruta a una scultura, che poi diviene oggetto di culto, nel corso del tempo viene danneggiata, abbandonata, sepolta e ritrovata dopo migliaia di anni; poi possibilmente restaurata ed esposta. Ma la biografia di un reperto archeologico non finisce qui: anzi, può diventare ancora lunga e complessa, a seconda che sia finito in una collezione privata o destinato sin dall’origine a un museo, se abbia viaggiato da un’esposizione all’altra, se sia stato rubato e recuperato dalle forze dell’ordine, se sia diventato il simbolo di una comunità, o addirittura se sia entrato a far parte del Patrimonio dell’Umanità! Tocca all’archeologo dipanare questa complicata matassa, raccontando la storia nascosta dietro ogni singola testimonianza del passato. È proprio questo uno dei compiti principali di un museo: conservare la memoria e raccontare la storia allo scopo di produrre nuova cultura (un compito che, per inciso, deriva direttamente dalla nostra Costituzione, quando dice che «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura», art. 9).

| GLI IMPERDIBILI | 7 |


Nelle prossime pagine il lettore troverà una selezione di oggetti archeologici «imperdibili», conservati in diversi musei nelle varie regioni italiane. Di questi oggetti viene raccontata la storia antica e quella moderna, iniziata con il loro ritrovamento; vengono presentati il loro significato storico e il loro valore culturale; sono forniti dati tecnici e raccontati dettagli e curiosità. Ovviamente non c’è tutto, ma si è cercato di offrire al lettore un esempio di quel che è nascosto dietro l’apparenza ieratica di un oggetto posto in vetrina o su un piedistallo. Gli oggetti «imperdibili», capolavori d’arte o monumenti della memoria, sono esempi privilegiati, che per la loro stessa natura hanno molto da raccontare. Ma attraverso di loro è possibile gettare uno sguardo al di là della barriera del tempo e capire come anche i reperti minori e i frammenti compongano un tassello di quello stesso grande mosaico storico. Si parte da esempi «nobili» come la Chimera d’Arezzo, la cui immagine campeggia in copertina, assurta sin dal suo ritrovamento a simbolo dell’ambizione di Cosimo I de’ Medici, che desiderava essere ricordato come il Magnus Dux Etruriae (in italiano «Gran Duca di Toscana»). Oggi la creatura impossibile, composta da tre teste e tre diverse nature, continua la propria missione comunicativa, essendo divenuta il simbolo del rinato Museo Archeologico Nazionale di Firenze, che racchiude in sé le nature di musei diversi: quello etrusco, quello egizio e le raccolte granducali. Ma si presentano anche casi «popolani», come il meraviglioso Zeus di Ugento, il cui luogo di deposizione era stato trasformato involontariamente in uno scarico di liquami fognari e che venne salvato dai suoi moderni scopritori. Si va dalla preistoria, con le antichissime e suggestive statue stele della Lunigiana, alle corti dei sovrani ellenistici, con la splendida Tazza Farnese, che ha toccato varie tappe in tutto il Mediterraneo durante il suo lungo viaggio da Alessandria a Napoli. E si va dalle soglie dell’età romana imperiale, con l’impressionante ed enigmatico gruppo scultoreo dei bronzi di Cartoceto, fino alla tarda antichità, con la patera di Parabiago, che racconta una storia di diversità culturale e tolleranza religiosa. In questa rapida carrellata, che inevitabilmente lascia fuori decine e decine di altri

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Ecco l’elenco degli «Imperdibili» selezionati per questa Monografia con l’indicazione della loro provenienza, posizionata sulla foto satellitare della penisola italiana.

A sinistra statua di pugilatore, da Mont’e Prama (Cabras, Oristano). Cabras, Museo Civico «Giovanni Marongiu» (vedi alle pp. 118-129). Sulle due pagine particolare del Mosaico di Alessandro, dalla Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (vedi alle pp. 92-97).


capolavori «imperdibili» delle collezioni italiane, sono stati accomunati nella presentazione musei nazionali e musei civici, grandi parchi archeologici e piccole collezioni locali, nella convinzione che tutti questi luoghi meritino l’attenzione del pubblico e che tutti contribuiscano oggi, ciascuno per un aspetto particolare, alla diffusione e comunicazione della storia e della cultura italiana. Dopo tutto l’Italia è ancora oggi un crocevia delle genti e racchiude, nel suo passato come nel suo presente, riferimenti a tutto il Mediterraneo dall’Egitto all’Europa e da Cartagine alla Grecia, senza contare i referenti culturali dell’arte etrusca, italica e romana, come dimostrano le opere raccontate in queste pagine. Non resta che augurare al lettore buon viaggio, tra le regioni italiane con i loro musei ricchi di storie da narrare, attraverso secoli ininterrotti di incontri tra civiltà e attraverso le testimonianze personali dei protagonisti del nostro passato.

Daniele F. Maras Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Firenze

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DA DOVE

VENGONO... 1

Patera di Parabiago

9

Parabiago (Milano) 2

Stele dei Veneti

10

Fegato di Piacenza

11

Statue stele della Lunigiana

12

Bronzi dorati di Cartoceto

13

Chimera di Arezzo

Guerriero di Capestrano

14

Sarcofago degli Sposi Cerveteri (antica Caere)

| 10 | GLI IMPERDIBILI |

Zeus di Ugento

Ugento (città messapica del Salento) 15

Venere Landolina Siracusa, area dell’Ospedale Civile

Capestrano (L’Aquila) 8

Tomba del Tuffatore

Paestum, necropoli in località Tempa del Prete

Arezzo 7

Mosaico di Alessandro Pompei, Casa del Fauno

Pergola, località Cartoceto 6

Tazza Farnese

1458: prima attestazione della presenza a Napoli

Vari siti della Lunigiana 5

Guerriero di Lanuvio Lanuvio (Colli Albani, Roma)

Settima di Gossolengo (Piacenza) 4

Olpe Chigi

Veio, Tumulo Chigi

Altino, Oderzo, Padova e altre località 3

Ecco l’elenco degli «Imperdibili» selezionati per questa Monografia con l’indicazione della loro provenienza, posizionata sulla foto satellitare della penisola italiana.

16

Statue di Mont’e Prama

Mont’e Prama (Cabras)


1

2 3

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16

14

15

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...E DOVE

VEDERLI 1

Milano

9

Museo Civico Archeologico «Ubaldo Formentini»

Museo Civico Archeologico (Patera di Parabiago)

2

Oderzo

(Statue stele della Lunigiana)

10

(Stele dei Veneti)

Altino

(Statue stele della Lunigiana)

11

(Stele dei Veneti)

Padova

(Bronzi di Cartoceto)

12

(Stele dei Veneti)

Vicenza

(Chimera di Arezzo)

13

(Stele dei Veneti)

Piacenza

(Guerriero di Capestrano)

14

(Fegato di Piacenza)

Pontremoli

(Sarcofago degli Sposi, Olpe Chigi)

15

Museo delle Statue Stele della Lunigiana

Filattiera

Pieve di S. Stefano di Sorano

(Statue stele della Lunigiana)

| 12 | GLI IMPERDIBILI |

Roma

Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano

(Statue stele della Lunigiana)

8

Roma

Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia

Museo Archeologico

7

Chieti

Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo

Museo Naturalistico Archeologico di Santa Corona 6

Firenze

Museo Archeologico Nazionale

Musei Civici, Museo Archeologico 5

Pergola

Museo dei Bronzi Dorati e della Città di Pergola

Museo Archeologico Nazionale 4

Genova

Museo di Archeologia Ligure

Museo Archeologico «Eno Bellis» 3

La Spezia

(Guerriero di Lanuvio)

16

Napoli

Museo Archeologico Nazionale (Tazza Farnese, Mosaico di Alessandro)


17

Paestum

Cagliari

20

Museo Archeologico Nazionale

Museo Archeologico Nazionale

(Tomba del Tuffatore)

18

(Statue di Mont’e Prama)

Taranto

Cabras

21

Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Museo Civico «Giovanni Marongiu»

(Zeus di Ugento)

19

(Statue di Mont’e Prama)

Siracusa

In questa doppia pagina indichiamo invece i musei nei quali è possibile ammirare le opere descritte, anche in questo caso posizionati sulla foto satellitare della penisola italiana.

Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» (Venere Landolina)

2 5

1

4

3

6 10

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17 21 20

19

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INCREDIBILI | | 14 | GLI IMPERDIBILI


L’UNIVERSO IN UNA

COPPA

RECUPERATA AI PRIMI DEL NOVECENTO, LA SPLENDIDA PATERA DI PARABIAGO PRESENTA UNA DECORAZIONE DEDICATA AL TRIONFO DELLA DEA CIBELE. È DUNQUE UNA TESTIMONIANZA PREZIOSA DELLA SOPRAVVIVENZA, NEI PRIMI SECOLI DEL CRISTIANESIMO, DELL’ANTICHISSIMO CULTO DELLA GRANDE MADRE

N

el 1929 l’ingegner Guido Sutermeister, infaticabile appassionato delle antichità del territorio milanese, era intento a raccogliere materiale e informazioni per una carta archeologica del Comune di Parabiago. Si imbatté allora nella notizia di un prezioso oggetto archeologico conservato nella collezione privata di Felice Gajo, Senatore del Regno e proprietario di una villa in loco. Si trattava di una coppa d’argento con figurazioni a rilievo che, secondo le informazioni fornite dal possessore, era stata ritrovata nel 1907, durante i lavori per la sistemazione del giardino intorno alla villa, all’interno di «un ricco loculo», che, in base alle note di Sutermeister, conteneva: «Un’anfora peduncolata contenente alcuni fittili, due cucchiai di bronzo e altri oggetti non ben identificabili (forse due piattini d’argento)». La coppa d’argento faceva da coperchio dell’anfora, la cui imboccatura era stata segata, evidentemente per utilizzarla come urna cineraria. Il vaso fu segnalato prontamente all’allora soprintendente, Alda Levi Spinazzola, che avviò una trattativa con la famiglia Gajo, grazie alla quale esso venne ceduto alle collezioni statali, potendo cosí essere esposto

dapprima nella Pinacoteca di Brera (1933) e poi nel Civico Museo Archeologico di Milano, dove tuttora è custodito, dopo aver subito interventi di restauro tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nulla si sa, purtroppo, del restante materiale del contesto archeologico, rimasto separato dalla coppa e oggi probabilmente andato disperso. La coppa appartiene a una categoria di vasi preziosi decorati a rilievo con scene mitologiche o di tradizione cristiana e datati nel corso del tardo periodo imperiale, con particolare addensamento fra il IV e il V secolo. Al di là del pregio del metallo – argento quasi puro, con una modesta percentuale di rame e con l’aggiunta di alcune coloriture in oro – la coppa è arricchita da una decorazione a rilievo realizzata a fusione piena, che rappresenta il trionfo di Cibele nel contesto di un’allegoria cosmica.

Con la corona turrita Il carro della dea, trainato da quattro leoni «al galoppo», corre da sinistra a destra, circondato da tre figure di coribanti (sacerdoti orgiastici), che danzano agitando scudi e pugnali. Cibele è seduta sul carro, avvolta in un’ampia veste, e sostiene nella destra uno

Particolare della decorazione della coppa in argento nota come Patera di Parabiago. IV sec. d.C. Milano, Civico Museo Archeologico.

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PATERA DI PARABIAGO

scettro, mentre la testa è, come di consueto, coronata di merli da fortificazione (corona turrita). Al suo fianco siede l’amato Attis (vedi box a p. 19), che tiene le redini e indossa il tipico berretto frigio; suoi attributi sono il flauto di Pan (syrinx) e un bastone da pastore. Meta del loro viaggio sembra essere un gruppo di figure sulla destra del piatto, fra le quali spicca un giovane e solenne dio con scettro e mantello, incapsulato nel cerchio dello zodiaco, il quale a sua volta è sostenuto da un vigoroso Atlante che spunta a mezzo busto dal terreno. Con ogni probabilità si tratta del Tempo, simbolo di eternità per il culto di Cibele, la «Grande Madre» della tradizione romana. Alle spalle del dio, un corto obelisco, stretto tra le spire di un serpente, sembra ribadire il concetto di eternità e un riferimento solare in chiave egiziana; e alla sfera simbolica del tempo possono essere riferiti anche il grillo e la lucertola riprodotti sotto Atlante. Altre figure allegoriche incorniciano la scena, al di sopra e al di sotto del carro di Cibele. In cielo si susseguono in processione verso destra: la quadriga del Sole sorgente, lanciata al galoppo secondo un’iconografia dell’età di Costantino; Phosphoros, la stella del mattino, rappresentato come un putto alato che solleva una fiaccola in alto; il carro di Selene, la luna, trainato da due tori; Vespero, la stella della sera, identico a Phosphoros, ma in atto di spingere la fiaccola verso il tramonto. Nella metà bassa della coppa, invece, sono rappresentate le acque dolci a sinistra, nella forma di due ninfe assise, che recano una canna palustre, mentre un’anfora rovesciata allude alla fonte di un fiume. Al centro, Oceano e Teti sorgono dai flutti, dai quali fanno capolino quattro pesci boccheggianti, mentre a destra è raffigurata la dea della Terra, mollemente adagiata con la cornucopia in mano e accompagnata da due amorini che rappresentano i frutti. Infine, nello spazio di risulta al di sopra delle divinità marine, danzano quattro putti con gli attributi delle stagioni in ordine sparso: falcetto e spighe per l’Estate; un grappolo d’uva per l’Autunno; un

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agnello per la Primavera; un ramo d’olivo e un mantello per l’Inverno. Sembra chiaro che la coppa sia stata l’oggetto di maggior valore di un set di suppellettile preziosa utilizzato per il culto di Cibele – o che perlomeno alludeva all’interesse per la dea – in un contesto privato di alto rango della tarda romanità pagana. La Grande Madre aveva un ruolo speciale nel pantheon romano, essendo allo stesso tempo una figura divina straniera e in qualche modo aliena dalla normale religione dei padri, eppure anche una divinità delle origini troiane, percepita come legata alle fasi piú remote della storia di Roma.

Dall’Anatolia a Roma L’introduzione del suo culto a Roma era stata comandata nel 204 a.C. da un oracolo dei Libri Sibillini, che il corpo speciale dei decemviri consultava su ordine del Senato in situazioni di pericolo, tali da richiedere una revisione della religione ufficiale. In questo caso il pericolo, estremamente concreto, era costituito da Annibale, che aveva messo in ginocchio le forze di Roma, presumibilmente grazie alla protezione degli dèi di Cartagine. Consultati in proposito, i Libri Sibillini avevano prescritto di ripristinare un culto delle origini, importando dall’Anatolia – che in ultima analisi era la patria di Enea – il simulacro della Grande Madre Cibele. Si direbbe che in questo modo si intendesse garantire a Roma la protezione di una divinità orientale altrettanto e forse piú grande di quelle cartaginesi. La dea fu trasportata dal suo santuario di Pessinunte sotto forma di una pietra sacra e installata a Roma. Contrariamente all’uso, però, il culto straniero non fu praticato ai margini della città, fuori del circuito sacro del pomerio; bensí, con la scusa che la dea era di casa presso i discendenti dei Troiani, alla Magna Mater fu dedicato un tempio sul Palatino, dove piú tardi divenne una delle divinità protettrici della casa imperiale. Ciononostante, i Romani non furono mai del tutto convinti dell’appartenenza di questo culto alla propria tradizione; motivo per cui i


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Patera di Parabiago • Definizione Coppa d’argento con decorazione a soggetto mitologico (diametro 39 cm circa) • Cronologia Seconda metà del IV secolo d.C. • Luogo di ritrovamento Parabiago (Milano) • Luogo di conservazione Milano, Civico Museo Archeologico • Identikit Preziosa suppellettile per il culto privato

Coribante (sacerdote di Cibele) Phosphoros (stella del mattino)

Carro di Selene

Quadriga del Sole Vespero (stella della sera) Attis Aion (tempo assoluto)

Cibele

Coribante (sacerdote di Cibele)

Ellisse dello Zodiaco

Atlante Coribante (sacerdote di Cibele)

Ninfe Tellus (dea della terra)

Allegoria delle Stagioni con putti danzanti con attributi Oceano

Teti

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SICILIA

sacerdoti vennero fatti arrivare dalla Frigia e ai cittadini di pieno diritto fu proibito di prendere parte ai misteri della dea. Ma che cosa, dunque, risultava cosí intollerabile agli occhi dei Romani in questi riti? Di fatto, il culto anatolico di Cibele era terribilmente cupo e sanguinoso, essendo basato su rituali orgiastici sfrenati di autoflagellazione e ferimento, che arrivavano all’autocastrazione dei devoti piú fanatici e dei sacerdoti. Gli operatori del culto, chiamati galli con una parola di origine orientale (e il loro capo archigallo), praticavano la questua e presiedevano alle festività, che spesso avevano un carattere orgiastico. Fra i riti, al di là dei dettagli masochistici e autolesionisti, si contemplava il taurobolion, che comprendeva una sorta di battesimo nel sangue di un toro sacrificale, e anche una pratica «medica», basata sulla corrispondenza tra le divinità e la musica. L’aspetto musicale, infatti, era parte integrante e fondamentale del culto della dea e strumenti musicali come cimbali, tamburi, flauti e lire caratterizzavano sacerdoti e devoti sin dall’epoca arcaica, in Anatolia come in Grecia e poi a Roma. E forse a cimbali (una sorta di sonagli) vanno ricondotti i «piattini» d’argento menzionati nella notizia del

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rinvenimento della Patera di Parabiago. L’aspetto esotico di questi riti, con la loro particolare crudezza e brutalità da un lato, e l’ambiguo status dei sacerdoti eunuchi dall’altro (a un tempo menomati e assurti per questo a un rango superiore), era decisamente poco affine alla piú antica tradizione religiosa romana, che integrava famiglia, religione e politica in un’unica organica sfera rituale. Ciononostante, il culto di Cibele prese piede stabilmente a Roma e venne esportato in tutto l’impero e infine, come anche in altri casi di culti misterici, fu tra gli ultimi resti del paganesimo a scomparire sotto la spinta del cristianesimo.

Una preghiera per la madre degli dèi Per questo motivo alcuni hanno voluto vedere nella Patera di Parabiago il frutto della propaganda delle famiglie aristocratiche pagane in opposizione all’evangelizzazione cristiana. Infatti, la cronologia nella seconda metà del IV secolo si pone suggestivamente a metà tra l’età di Costantino, che per primo liberalizzò il cristianesimo, e quella di Teodosio, che ne fece la religione di Stato. In questo lasso di tempo si pose il regno dell’imperatore Giuliano, detto l’Apostata per il suo tentativo di

Pompei, Casa di Pinarius Cerialis e Cassia. Affresco raffigurante Attis e la ninfa Sangaritide. Nella pagina accanto replica di un rilievo raffigurante Cibele e Attis, da un’ara dedicatoria. 295 d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.


Il mito di Attis

I

l culto e i riti di Cibele sono strettamente intrecciati con i suoi miti, che vedono protagonista il fanciullo frigio Attis, amato dalla dea e divenuto prototipo dei suoi sacerdoti asessuati. Diverse varianti del mito sono giunte, tutte assai complesse e spesso altrettanto confuse, a dimostrazione della natura misterica del culto, che solo in parte era svelato ai non adepti. Secondo una delle varianti tramandate, Attis aveva promesso a Cibele di conservare la propria purezza fanciullesca, giurando che se mai avesse un giorno agito da uomo, quella sarebbe stata la prima e l’ultima volta. Quando però il giovane cedette alle lusinghe della ninfa Sangaride, la Grande Madre lo fece impazzire fino al punto di autoevirarsi; in seguito, una volta perdonato, divenne il primo seguace del culto della dea. Un’altra variante introduce l’ambigua figura di Agdistis,

un essere ermafrodito nato dal seme di Zeus che aveva fecondato una roccia o la terra: gli dèi tentarono di ripristinare l’ordine naturale evirando Agdistis, ma dall’operazione nacque un mandorlo, che, a sua volta, ingravidò una principessa frigia. Esito del singolare artificio fu la nascita di Attis, il quale, fattosi adulto, suscitò l’amore di Agdistis, che ne impedí il matrimonio, facendo uscire di senno tutti coloro che stavano partecipando alla festa organizzata per le nozze. Purtroppo anche Attis cadde preda della follia e finí con l’autoevirarsi; ma Agdistis ottenne di non farlo morire e di conservarlo in una sorta di sonno eterno. A complicare ulteriormente le cose, diverse fonti considerano Agdistis un epiteto di Cibele, mentre altre sembrano indicarle come due figure divine diverse, entrambe innamorate dello sfortunato Attis.

respingere la dottrina cristiana e reintrodurre il paganesimo, sotto l’influsso della filosofia neoplatonica. Non a caso, lo stesso Giuliano si proclamava devoto di Cibele, alla quale aveva dedicato l’orazione Alla madre degli dèi. Tuttavia, è difficile che un oggetto di piccole dimensioni come la coppa potesse farsi veicolo di propaganda politica e religiosa. È invece probabile che i committenti della Patera esprimessero con essa la propria

aderenza, almeno nel privato, alla religione pagana e al culto della Grande Madre. La provenienza dai dintorni di Milano indica con buona probabilità la presenza in zona della residenza di una famiglia aristocratica, presumibilmente di rango senatoriale, installata nei pressi della capitale, che già alla fine del III secolo l’imperatore Massenzio aveva spostato da Roma a Mediolanum, per ragioni di ordine strategico. Un diverso problema è invece quello del luogo di produzione, per il quale Luisa Musso ha ritenuto piú probabile un’officina dell’antica capitale, dal momento che Roma continuava a fornire beni di lusso per l’apparato cerimoniale pubblico e privato dell’impero, come informa una lettera dello statista Quinto Aurelio Simmaco nel 394 d.C.

PER SAPERNE DI PIÚ • Luisa Musso, Manifattura suntuaria e committenza pagana nella Roma del IV secolo. Indagine sulla lanx di Parabiago, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1983 • Anna Maria Volonté (a cura di), La patera di Parabiago, catalogo della mostra, Parabiago 2010.

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STELE DEI VENETI

MELTING POT NELLA DEI

TERRA CAVALLI

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DA PADOVA A VICENZA, DA ALTINO A ODERZO, LE ISCRIZIONI MONUMENTALI DEI VENETI CI RESTITUISCONO L’IMMAGINE DI UNA SOCIETÀ APERTA AGLI STRANIERI SIN DA EPOCHE REMOTE. FINO AD ARRIVARE ALL’ACCOGLIENZA DEI ROMANI COME FRATELLI E A OTTENERE DA QUESTI LA CITTADINANZA... SENZA CONFLITTI!

I

l Veneto antico era considerato in origine una terra lontana, posta all’estremità dell’Adriatico, da cui venivano merci esotiche e miracolose come l’ambra e i cavalli da corsa piú rinomati del Mediterraneo. Secondo Strabone, il tiranno Dionigi di Siracusa avrebbe importato l’allevamento dei cavalli veneti in Sicilia all’inizio del IV secolo a.C., cosicché le vittorie della sua scuderia alle Olimpiadi e in altre gare resero la razza famosa e richiesta anche nella Grecia propria. Erano controverse, invece, le notizie sul popolo che allevava questi pregiati destrieri. Il poeta greco Esiodo (vissuto forse agli inizi del VII secolo a.C.) li assimilava probabilmente ai mitici Iperborei, abitanti dell’estremo Nord, vicini agli dèi. Altri poeti preferivano attibuire ai Veneti un’origine troiana (al seguito di Antenore, forse con una tappa in Tracia) o achea (come termine delle peregrinazioni di Diomede, che sarebbe

divenuto un dio presso di loro). In seguito, però, lo storico greco Polibio (200-120 a.C. circa) screditò queste teorie, affermando che «su di loro [i Veneti] i tragediografi hanno raccontato molte cose e hanno riferito molte notizie fantasiose» e che «i Veneti, per usanze e abbigliamento, si discostano poco dai Celti, ma parlano una lingua diversa».

Un’antica fratellanza Protagoniste di queste pagine sono dunque alcune testimonianze scritte degli antichi Veneti, che informano sull’indipendenza e sulla tradizione culturale di questo popolo, conservata attraverso la storia fino alla romanizzazione. Si tratta di una storia vissuta nel segno del confronto e dell’integrazione con i popoli vicini, di cui è prova l’accoglienza pacifica di usi e istituzioni romane e perfino della lingua latina. Quello che Livio definiva «l’angolo dei Veneti», nel Nord-Est italiano,

Sulle due pagine reperti riferibili alla cultura degli antichi Veneti e, in particolare, alla sfera religiosa. In alto laminetta votiva raffigurante, da sinistra, una processione aperta da due uomini armati, seguiti da sette donne, da Vicenza, piazzetta San Giacomo. Fine del IV sec.-inizi del III sec. a.C. Vicenza, Museo Naturalistico Archeologico di Santa Corona. Nella pagina accanto disco votivo in lamina bronzea, raffigurante una dea con una chiave, affiancata da un corvo e un lupo, da Montebelluna IV sec. a.C. Treviso, Museo Civico. L’oggetto presenta vari elementi riferibili a un sincretismo culturale e religioso: la «signora», infatti, indossa il costume tradizionale veneto, ma porta al collo un torquis a tamponi celtico, mentre la chiave, di tipo retico, era anche attributo di Ecate e Demetra, cosí come il tralcio d’edera rimanda a rituali dionisiaci.

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STELE DEI VENETI

non fu conquistato da Roma con la forza, ma si uní alle sorti dell’Italia romana nel segno dell’antica fratellanza tra Veneto e Latini. La documentazione scritta del Veneto preromano è ricchissima e abbraccia il periodo che va dal VI al I secolo a.C. Le iscrizioni sono incise soprattutto su oggetti di bronzo e d’osso e spesso scolpite su pietra. In quest’ultimo caso, si tratta di testi monumentali, a scopo funerario, votivo o pubblico, che registrano soprattutto formule onomastiche personali. Il nome del ciottolone iscritto era aklon, letteralmente un «segnacolo emergente» o qualcosa del genere; mentre molto diffuso era il termine ekupetaris, che indica un monumento o un oggetto riferito alla classe sociale dei cavalieri: letteralmente «signori dei cavalli» (eku-pet-), evidentemente di grande importanza presso gli aristocratici allevatori veneti (e di cui possiamo

In alto restituzione grafica dell’iscrizione sul ciottolone del «poliglotta» di Oderzo, Padros figlio di Kaialo, di probabile origine celtica. V-IV sec. a.C. Oderzo, Museo Archeologico «Eno Bellis». Il testo, posto sulle due facce piane, va letto da destra verso sinistra.

Formule tipiche erano, per esempio, quelle di Voltigenes Andetiaio e di suo figlio Fremaisto Voltigeneio, ricordati insieme in un monumento sepolcrale, oppure, al femminile, quella di Fugia Andetina Fuginia, «(moglie) di Andetio (e figlia) di Fuginio», menzionata in un’altra iscrizione. Tuttavia, quelli che qui vogliamo descrivere sono soprattutto casi di nomi di evidente origine straniera integrati nell’onomastica veneta, a testimonianza del già citato fenomeno dell’accoglienza.

Un caso tre volte prezioso Una delle piú antiche iscrizioni venete, databile ancora alla metà del VI secolo a.C., ricorda un Volties Tursanis Patavnos, che fece un’offerta votiva in un santuario di Altino (oggi in provincia di Venezia). Il nome è tre volte prezioso, poiché documenta l’integrazione di un etrusco Velthie (divenuto Voltie nella

Qui sopra restituzione grafica dell’iscrizione incisa su una laminetta in bronzo, dal santuario altinate in località Fornace. Metà del VI sec. a.C. Altino, Museo Archeologico Nazionale. Il testo ricorda l’offerta votiva fatta da Volties Tursanis Patavnos, il cui nome tradisce le chiare origini etrusche. In basso stele in arenaria con iscrizione veneta, da Isola Vicentina. II sec. a.C. Vicenza, Museo Naturalistico Archeologico di Santa Corona. Il testo (che corre con andamento bustrofedico) può cosí leggersi: Iats Venetkens osts ke enogenes Laions meu fasto, liberamente traducibile in «Iants straniero tra i Veneti e indigeno tra i Laevi mi fece fare».

considerare «erede» la «Fieracavalli» che Verona ospita ogni anno in autunno). I nomi personali sono in genere composti da due elementi, che comprendono il nome individuale e un appositivo, che, di regola, può essere interpretato come patronimico, ovvero come la filiazione dal lato paterno. Non esisteva invece, come in Etruria e presso i Romani, un gentilizio ereditario, assimilabile al moderno cognome.

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pronuncia locale), proveniente dall’Etruria (Tursanis, identico al greco dorico Tyrsanís, che indicava propriamente il «Mare Tirreno») e naturalizzato patavino (Patavnos, che ci restituisce la piú antica testimonianza del nome di Padova). Presumibilmente giunto terra veneta per motivi commerciali e qui accolto come membro (onorario? provvisorio?) della cittadinanza di Padova, il personaggio aveva proseguito il suo viaggio fino al santuario di


Il cippo del lupo

Foto e restituzioni grafiche di due facce del cippo detto «del lupo», proveniente anch’esso dal santuario altinate in località Fornace. III-II sec. a.C. Altino, Museo archeologico Nazionale. Si tratta della base di una statuetta votiva che su una faccia (a sinistra) reca l’iscrizione nella quale viene citato Krumio Turens, un altro personaggio di sicura origine etrusca; sulla faccia opposta (a destra), si vede appunto la sagoma di un lupo, sopra l’immagine stilizzata di un altare.

Altino, lasciando questa testimonianza preziosissima della sua avventura.

L’etrusco e il poliglotta Poco piú tardi, verso il 540-530 a.C., si trasferí a Padova un altro etrusco, il cui nome suonava probabilmente Pupu Rachu e che venne immortalato nell’iscrizione scolpita sulla stele di Camin: puponei ego rakoi ekupetaris, «io sono l’ekupetaris (il «monumento cavalleresco» potremmo dire) di Pupon Rako». Oltre che per il nome del personaggio, la stele è preziosa anche per essere la piú antica finora ritrovata del suo genere. Si tratta di una lastra parallelepipeda di pietra, incisa sulla faccia principale con una decorazione figurata racchiusa su due lati dal testo dell’iscrizione e delimitata in basso da un fregio a «denti di lupo». Le figure rappresentano un uomo e una donna vestiti nel tipico abbigliamento veneto arcaico e sono tracciate secondo uno stile di influenza greco-orientale. Questo tipo di monumento funerario deriva dall’uso etrusco (si pensi alla stele di Vetulonia) e potrebbe essere divenuto di moda in Veneto proprio grazie a immigrati di alto rango come Pupon Rako. Inoltre, la grafia utilizzata è la prima attestazione della seconda fase della scrittura veneta, in cui l’influenza etrusca si fa piú evidente, dimostrando, ancora una volta, la profonda interazione tra Etruschi e Veneti. Un ciottolone di granito ritrovato a Oderzo, in provincia di Treviso, e conservato nel locale Museo Archeologico testimonia della vita e

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STELE DEI VENETI

La faccia principale della stele funeraria di pietra incisa da Camin (frazione di Padova). 540-530 a.C. Padova, Museo Civico Archeologico. La scena mostra l’estremo saluto del defunto (sulla destra, con cappello e bastone da viaggio), identificato dall’iscrizione come Pupon Rako, che riceve un volatile in dono da sua moglie (sulla sinistra).

CARTA D’IDENTITÀ DELLE OPERE • Nome • Definizione • Cronologia • Luogo di ritrovamento • Luogo di conservazione

tele con iscrizioni S Testimonianze epigrafiche riferibili al Veneto antico VI-I secolo a.C. Località varie, tra cui Altino, Oderzo e Padova Vari musei archeologici statali e civici del Veneto

dei viaggi di un vero e proprio poliglotta del V-IV secolo a.C. Incisa sui due lati della pietra, l’iscrizione riporta il nome di un Padros Pompeteguaios Kaialosio, ovvero di un «Padros figlio di Kaialo», il cui soprannome era Pompeteguaios, in lingua celtica letteralmente «colui che parla cinque lingue». La formula onomastica è una vera miniera di informazioni linguistiche, a partire dal nome

personale, Padros, che è la continuazione, secondo la fonologia celtica, di un latino *Quadrus (o simili). Il che ci restituisce l’identità di due delle cinque lingue parlate dal nostro. La terza era senz’altro il veneto, data la provenienza del ciottolo e la scelta di un monumento funerario tipico del posto. Dal celtico d’Italia (ovvero il leponzio, parlato in Piemonte e in Lombardia), derivano la desinenza –osio del genitivo e forse anche il nome del padre, Kaialo (anche se non si può escludere un’origine veneta). Per le altre due lingue di cui Padros poteva vantare la conoscenza si possono fare solo ipotesi, anche se nel contesto dell’Italia settentrionale preromana il greco e l’etrusco restano buoni candidati.

Come un’aratura Uno spiraglio per comprendere le modalità di integrazione degli stranieri viene offerto dalla complessa formula onomastica di un personaggio che, nel II secolo a.C., fece iscrivere una lastra di pietra a Isola Vicentina, in provincia di Vicenza. L’iscrizione è scolpita con andamento bustrofedico (ovvero cambiando direzione a ogni volgere di riga, come si fa con i buoi durante l’aratura) e si legge in questo modo: Iats Venetkens osts ke enogenes Laions meu fasto, che, in una traduzione libera, suona «Iants straniero tra i Veneti e indigeno tra i Laevi mi fece fare».

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L’iscrizione registra probabilmente un’offerta votiva, ma l’elemento piú interessante è l’utilizzo del lessico specifico ufficiale dell’immigrazione. Il nostro Iants (il cui nome ha una base celtica) era immigrato dalla valle del Ticino, dove risiedevano gli antichi Laevi, e conservava la cittadinanza di questo popolo, ricordandola orgogliosamente nella propria formula onomastica (enogenes, «indigeno»). Con lo stesso orgoglio, però, vantava la posizione di «ospite» o «straniero» (osts) presso i Veneti, evidentemente a un livello precedente alla naturalizzazione dell’etrusco di Padova Volties piú antico di diverse generazioni. Alla stessa area «tecnica» dell’integrazione degli stranieri sembra rimandare anche il nome Hostihavos di un’altra iscrizione padovana, da interpretare letteralmente come «il garante degli stranieri»: probabilmente una figura istituzionale o un soprannome dato a una persona che intratteneva rapporti con gli immigrati.

Il dono di Krumio Per quel che riguarda la fase recente della documentazione veneta, troviamo ancora una volta un etrusco, Krumio Turens (dal greco tyrrhenós), il quale donò al dio eponimo della città di Altino una statuetta di bronzo, di cui ci è pervenuto soltanto il piedistallo. Il suo nome personale potrebbe fare riferimento alla professione di agrimensore (ovvero geometra, misuratore di terreni), se derivato dall’etrusco *cruma, che indicava appunto uno strumento utilizzato per il tracciamento dei confini, corrispondente al latino groma e al greco gnomon. L’ultimo atto dell’apertura veneta agli stranieri si ha con la loro estrema lealtà nei confronti dell’alleato romano, che, alle soglie della nostra era, li portò a ottenere la cittadinanza romana senza alcun conflitto e a essere inseriti nella X regione augustea: Venetia et Histria. L’assorbimento di modi romani e il contemporaneo sforzo di conservare l’antica

tradizione appare evidente nella bella stele funeraria di due coniugi, ormai divenuti cittadini romani a Padova nell’avanzato I secolo a.C. L’antico riferimento ai cavalli è conservato dalla rappresentazione del loro ultimo viaggio su una biga e dalla ripetizione del termine EQUPETARS, ormai scritto in alfabeto latino subito dopo i nomi dei defunti: «Gallenio figlio di Manio e Hostiala Gallenia».

PER SAPERNE DI PIÚ • Venetkens. Viaggio nella terra dei Veneti antichi, catalogo della mostra (Padova, 6 aprile-17 novembre 2013), Marsilio, Milano 2013

Stele funeraria dei Gallenii, da Padova, via San Massimo. I sec. a.C. Padova, Musei Civici, Museo Archeologico. I defunti viaggiano verso gli inferi su una biga, ma, mentre la donna indossa ancora il tradizionale costume veneto, gli uomini indossano abiti romani, come in latino è anche l’iscrizione.

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FEGATO DI PIACENZA

TUTTO IL

COSMO IN UNA MAPPA

AL MOMENTO DELLA SCOPERTA, FU GIUDICATO COME UN OGGETTO DI SCARSO VALORE, E IL CURIOSO BRONZETTO OGGI NOTO COME «FEGATO DI PIACENZA» RISCHIÒ DI FINIRE NEL DIMENTICATOIO. È GRAZIE ALL’INTUIZIONE DI UN NOBILE ERUDITO, IL CONTE FRANCESCO CARACCIOLO, CHE POSSIAMO TUTTORA AMMIRARE (E CERCARE DI COMPRENDERE) IL PIÚ IMPORTANTE MONUMENTO DEL POLITEISMO ANTICO

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I

Romani consideravano i loro vicini etruschi un popolo molto attento alla religione e al rispetto delle leggi divine. Fu questa particolare disposizione d’animo a determinare il notevole sviluppo delle scienze divinatorie, cioè dei metodi di predizione del futuro e di interpretazione della volontà degli dèi. Le pratiche divinatorie piú importanti nella Disciplina Etrusca (come veniva chiamata la scienza degli aruspici) erano la brontoscopia, basata sull’osservazione di tuoni e fulmini, e l’aruspicina, che si affidava invece all’osservazione delle viscere degli animali sacrificati. Una branca specifica di quest’ultima era l’epatoscopia, ovvero l’osservazione del fegato delle vittime, ritenuto un organo privilegiato per la divinazione.

si rivelò un documento unico ed eccezionale, in grado di illustrare le credenze etrusche in materia di epatoscopia e il funzionamento delle pratiche divinatorie degli aruspici. Nel 1906 un volume dello studioso tedesco Karl Thulin inaugurò una stagione di studi sul fegato e sulla disciplina etrusca, che, a distanza di oltre un secolo, non può dirsi conclusa e ancora in tempi recentissimi ha portato novità e sorprese. Il Fegato è una piccola scultura in bronzo a fusione piena (12,6 × 7,6 × 6 cm), probabilmente realizzata con il metodo della cera persa, databile all’inizio del I secolo a.C. Il modello riproduce a grandezza naturale il corrispondente organo di una pecora, completo sulla faccia anteriore della cistifellea o vescicola

Nella pagina accanto il modello in bronzo di fegato detto «di Piacenza». 100 a.C. circa. Il manufatto è esposto nei Musei Civici della città, in una sala del Palazzo Farnese (foto in basso).

Un’aratura fortunata Un ritrovamento fortuito, avvenuto oltre cento anni fa, ci ha restituito uno dei piú preziosi documenti in materia: nel 1877, un contadino che arava un campo in una tenuta della nobile famiglia Arcelli, a Settima di Gossolengo, pochi chilometri a sud di Piacenza, si imbatté in un piccolo oggetto di bronzo, dalla forma bizzarra, con una faccia letteralmente coperta di iscrizioni etrusche. Il proprietario del terreno, giudicandolo di poco valore, lo lasciò al contadino, che si affrettò a mostrarlo al parroco del paese. Ne giunse cosí voce al conte Francesco Caracciolo, il quale lo acquistò e fece eseguire ricerche sul luogo di rinvenimento, che però non diedero alcun frutto. Negli anni successivi la comunità scientifica si interessò all’eccezionale manufatto, con contributi di Vittorio Poggi (1878) e Wilhelm Deecke (1880), che ne dimostrarono l’autenticità e il riferimento delle iscrizioni alle divinità del pantheon etrusco. Nel 1894 il cimelio fu donato al Museo Civico di Piacenza, ma solo dopo il volgere del secolo Antonio Milani (1900) e Gustav Körte (1905) vi riconobbero la riproduzione di un fegato animale, simile ad altri raffigurati nelle mani di aruspici etruschi su urne cinerarie e altre raffigurazioni. Il «Fegato di Piacenza», quindi,

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FEGATO DI PIACENZA

biliare (in latino vesica fellea) e di due sporgenze del cosiddetto lobo caudato, denominate processus papillaris (arrotondato a sinistra) e processus pyramidalis (appuntito a destra). L’intera faccia anteriore (o viscerale, che nell’animale è rivolta verso l’interno) è suddivisa in 38 caselle, demarcate da tratti incisi. Quattro di esse interessano anche la cistifellea, mentre le altre due sporgenze non sono contrassegnate. Ciascuna delle ripartizioni cosí create è iscritta con uno o due nomi di divinità etrusche in genitivo, spesso abbreviati e a volte ripetuti in piú di un posto. Un’ulteriore casella circolare, posta al centro della parte sinistra del Fegato, è marcata con un trattino curvo; un tratto simile, piú lungo, è presente all’estremità sinistra, entro una delle altre caselle iscritte. Tali segni, corrispondenti ad altrettante caratteristiche anatomiche di un fegato ovino, vengono descritti nei testi di epatoscopia babilonese e denominati rispettivamente manzazu, la «presenza», e padanu, «il sentiero». Questa analogia ha contribuito ad accostare le pratiche divinatorie etrusche a quelle del Vicino Oriente, dove sono stati trovati modelli di fegato simili.

Messaggi per le divinità Ma l’unicità del Fegato di Piacenza è data dalla presenza delle suddivisioni contrassegnate da iscrizioni con nomi divini. L’osservazione di anomalie di forma e colore, lesioni o altre caratteristiche salienti del fegato di una vittima permetteva all’aruspice di conoscere il nome della divinità che stava inviando un messaggio, grazie all’accurata mappa conservata dal modello di Piacenza. L’interpretazione del messaggio e le eventuali contromisure necessarie spettavano al sacerdote; ma è indubbio che l’analisi delle viscere e la mappatura delle diverse parti dipendeva da una lunga tradizione di osservazioni anatomiche veterinarie. Tuttavia, il Fegato di Piacenza non si limita a questo: una fascia che circonda l’intero organo, non corrispondente all’anatomia originale, è stata aggiunta per ospitare sedici caselle

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segnate con nomi divini, che in parte coincidono con quelli degli dèi che popolano le sedici regioni del cielo secondo una tradizione riportata agli inizi del V secolo d.C. dal poeta latino Marziano Capella. In base a questa impressionante analogia, gli studiosi, a partire da Thulin, hanno supposto che Marziano attingesse a una perduta tradizione etrusca che disegnava la geografia celeste in base alle sedi delle diverse divinità. Tale suddivisione era verosimilmente funzionale all’interpretazione dei segni celesti, dai fulmini al volo degli uccelli e dai fenomeni atmosferici a quelli astronomici.

Una miniera di informazioni Il Fegato di Piacenza, pertanto, non solo costituisce una mappa dell’epatoscopia etrusca, ma registra anche la simmetria con la geografia celeste, secondo la teoria della corrispondenza del microcosmo e del macrocosmo nel disegno dell’universo. Lo studio delle divinità menzionate nel Fegato è una miniera inesauribile di informazioni sulla religione e sul pantheon degli Etruschi. La cronologia tarda del manufatto spinge a tenere

Schema del cielo degli Etruschi, secondo l’erudito del IV-V sec. Marziano Capella (per i settori esterni), del Fegato di Piacenza (per i settori centrali) e del filosofo e storico latino del III-IV sec. Arnobio.


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Fegato di Piacenza • Definizione Modello di bronzo di un fegato ovino corredato di iscrizioni etrusche • Cronologia 100 a.C. circa • Luogo di ritrovamento Settima di Gossolengo (Piacenza) • L uogo di conservazione Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico • Identikit Mappa dettagliata del microcosmo etrusco

A sinistra veduta frontale del Fegato, che evidenzia la resa accurata dei particolari anatomici dell’organo.

A destra il retro del bronzetto, diviso in due metà, assegnate al sole (a sinistra) e alla luna.

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FEGATO DI PIACENZA

A ciascuno la sua casella Ecco i nomi leggibili sul fegato: lungo il nastro esterno 1. tin(s) cilen(sl) 2. tin(s) thvf(lthas) 3. tinsth ne(thunsl) 4. uni(al) mae( ) 5. tecvm( ) 6. lvsl 7. neth(unsl) 8. cath(as) 9. fufluns(l) 10. selva(nsl) 11. lethns 12. tluscv(al) 13. cels 14. cvl(sansl) alp(ans) 15. vetisl 16. cilensl sezione di destra, «a scacchiera» 17. tins thvf(lthas) 18. thuflthas 19. tinsth neth(unsl) 20. catha(s) 21. fuflu(n)s(l) 22. lasl; nella stessa sezione,

in considerazione l’influenza della religione romana, ma le radici della tradizione aruspicina suggeriscono la conservazione di elementi arcaici nella composizione delle liste divine. Maggiori informazioni si hanno per le divinità della fascia esterna, grazie alla corrispondenza con altre fonti. A Giove, secondo Marziano Capella, spettavano le prime tre regioni, com’è puntualmente confermato dal Fegato di Piacenza: la prima è condivisa da Tina con Cilens, divinità della notte che ritroviamo nella casella 16; nella seconda casella il padre degli dei è affiancato dalla dea del fato Thufltha; la terza è invece dedicata letteralmente «a Nethuns nella (casa) di Tina».

La regina e la triade La regina degli dèi, Uni, è al quarto posto a differenza della serie di Marziano, dove era stata anticipata alla seconda regione, forse per influenza della cosiddetta triade capitolina di Roma, Giove-Giunone-Minerva, che infatti occupa le prime tre sedi celesti. Un anticipo di due caselle si ha anche per la dea solare Cath(a) in ottava posizione, se corrisponde come

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sembra alla «figlia del sole» della sesta regione di Marziano, confermata dalle corrispondenze dei seguenti Fufluns/Liber, Selvans/Veris Fructus e Leth(a)ns/Genius. Al dodicesimo posto compaiono le misteriose divinità Tluscva, probabilmente femminili, che fino a pochi anni fa erano sconosciute, ma che oggi si sanno venerate a Cerveteri e a Orvieto. Interessante, alla casella 15, è il nome di Vetis, corrispondente al latino Vedius/Veiovis, che qui sostituisce, probabilmente, l’Apollo infero degli Etruschi. Per quanto riguarda la divisione interna del Fegato, si individuano facilmente quattro sezioni principali, scandite dalla cistifellea e dal

Coperchio di un’urna in alabastro raffigurante un aruspice che tiene un fegato ovino, da Volterra. II sec. a.C. Volterra, Museo Etrusco «Guarnacci».


in basso, a destra 23. lethn(s) 24. pul(?) cistifellea 25. tvnth(?) 26. marisl lar( ) 27. leta(msl) 28. neth(unsl) sezione centrale 29. herc(les) 30. mari(sl) 31. letham(sl) metlvmth 32. tlusc(val) mar(utl) sezione di sinistra «a ruota» 33. selva(nsl) 34. letha(msl) 35. tlusc(val) 36. lvsl velch( ) 37. satres 38. cilen(sl) sul retro (non visibile nel disegno) usils, tiur(s)

processus papillaris. Nella sezione di destra, sei caselle, disposte a scacchiera, ripetono alcuni dei nomi della prima parte del nastro esterno, da Tina fino a Catha. Una simile riduzione da otto a sei caselle si ha nella sezione di sinistra, dove sei caselle radiali ospitano nomi da Selvans a Cilens. La fascia centrale è suddivisa in larghe caselle, articolate attorno alle sporgenze dell’organo: spicca la presenza di Herc(le) e, di nuovo, delle Tluscva. Infine, come si è detto, la cistifellea è divisa in quattro parti, una delle quali dedicata a Neth(uns), a conferma della consacrazione di questa parte a Nettuno secondo una notizia di Plino. Anche il retro del Fegato è contrassegnato da iscrizioni, che ne attribuiscono le due metà dell’organo al sole (Usil) e alla luna (Tiur).

A che cosa serviva? Varie ipotesi sono state avanzate sulla funzione del Fegato di Piacenza, considerato di volta in volta uno strumento didattico per insegnare l’epatoscopia o un promemoria professionale per aruspici o addirittura un elemento «realistico» appartenente a una statua

onoraria. In mancanza di dati sul suo contesto originario, non è possibile scegliere con certezza tra le varie opzioni; ma non va trascurata la complessa dottrina in base alla quale la mappa è stata realizzata: la corrispondenza tra le sedici case divine del cielo e le varie articolazioni del fegato di una vittima può essere la traccia concreta del lavoro di un aruspice etrusco-romano intento a tramandare e aggiornare la Disciplina Etrusca. Oggi, a distanza di oltre duemila anni, il Fegato mantiene la sua funzione di documento della scienza aruspicina e della religione etrusca. La sua esposizione in una teca speciale, quasi sospeso nell’aria e tra passato e presente, costituisce uno dei gioielli del Museo Archeologico di Palazzo Farnese a Piacenza.

PER SAPERNE DI PIÚ • Annamaria Carini (a cura di), testi di Elisabetta Govi, Il fegato di Piacenza, Palazzo Farnese, Artecultura, Piacenza 2000 • Vincenzo Bellelli, Marco Mazzi, Extispicio. Una «scienza» divinatoria tra Mesopotamia ed Etruria, Scienze e Lettere, Roma 2013

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La statua stele Bigliolo, appartenente al gruppo C, raffigurante un guerriero armato di ascia e con un’iscrizione etrusca sul petto (VI sec. a.C.), e (nella pagina accanto) la testa della statua stele Filetto XI di gruppo B, dalla caratteristica forma «a cappello di carabiniere». Età del Rame. Entrambe sono conservate a Pontremoli, nel Museo delle Statue Stele della Lunigiana.

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GLI ANTENATI SCOLPITI NELLA PIETRA ERETTE PRESSO I LUOGHI DI CULTO DELLE ANTICHE POPOLAZIONI DELLA VALLE DEL MAGRA, LE STATUE STELE DELLA LUNIGIANA MANTENNERO PER MILLENNI LA LORO FUNZIONE DI «SIMBOLI SACRI». RISPETTATE E CONSERVATE PER GENERAZIONI, RAPPRESENTANO UN SEGNO DI APPARTENENZA E DISTINZIONE PER GLI ABITANTI DELLA REGIONE

A

rgomento di questo capitolo non è un singolo oggetto, ma un’intera classe di monumenti, che ha avuto una lunga storia di abbandono e riscoperta già nell’antichità e che ancora oggi affascina studiosi e appassionati. Le statue stele della Lunigiana, infatti, costituiscono un patrimonio sacro della preistoria, che ha continuato a contrassegnare il territorio della valle del Magra per piú di quattromila anni, alternando periodi di oblio a momenti di ripresa del loro valore culturale, simbolico ed etnico. La tradizione di scolpire figure umane stilizzate nella pietra arenaria risale all’avanzata età del Rame, nella regione oggi posta al confine tra le provincie di La Spezia e Massa-Carrara. Tale tradizione appartiene al piú vasto fenomeno del megalitismo, che ha interessato buona parte dell’Europa, fino alle regioni piú meridionali d’Italia; ma, a differenza dei menhir (dal bretone, letteralmente «pietre lunghe»), maggiormente diffusi, e che contrassegnano i luoghi del sacro in modo anonimo e fortemente simbolico, le statue stele della Lunigiana aggiunsero un piú marcato riferimento antropomorfo, forse alludendo a figure di

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STATUE STELE DELLA LUNIGIANA

divinità e spiriti o, piú probabilmente, di antenati divinizzati. Figure affini si sono trovate in Corsica, da sempre in stretto rapporto etnico e culturale con la costa ligure, e in Puglia, nella Daunia, con uno sviluppo culturale parallelo e del tutto indipendente. A ogni modo, nella piccola porzione di territorio della valle del Magra, le pietre scolpite, erette nei boschi presso i luoghi di culto delle antiche popolazioni locali, mantennero per millenni la loro funzione di segni sacri fortemente simbolici, garantendo agli abitanti della regione un senso di appartenenza e di distinzione. Per questo motivo, le statue stele, quali reliquie degli antenati, a volte continuarono a essere oggetto di culti ancestrali ovvero, nel caso fossero dimenticate o abbandonate, vennero comunque rispettate e conservate generazione dopo generazione, nonostante i cambiamenti culturali e la mobilità di persone e popoli che interessarono la penisola italiana nel corso dei secoli.

Collo massiccio e il volto stilizzato La scultura da cui prendiamo le mosse, come molte delle statue stele, fu ritrovata accidentalmente, all’inizio del secolo scorso, nel corso di lavori agricoli nella cosiddetta «Selva di Filetto» lungo la sponda sinistra del

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fiume Magra. Come spesso accade in questi casi, il monumento è rimasto privo di un contesto archeologico, nell’impossibilità di realizzare uno scavo documentato del sito. L’impostazione rettangolare della statua, con la testa «a cappello di carabiniere», collo massiccio e il volto stilizzato, incorniciato da una linea circolare a rilievo e ridotto all’indicazione del naso e degli occhi, denuncia la sua appartenenza al tipo B (vedi box a p. 36). La decorazione a rilievo si limitava originariamente alla rappresentazione delle braccia, che pendevano da una fascia a rilievo all’altezza delle spalle (la cosiddetta linea scapolare) e si è supposto che sul petto fossero raffigurati i seni, che caratterizzavano la figura come femminile. Di essi, però, oggi non v’è traccia, poiché la statua è stata rilavorata attorno alla fine del VII secolo, presumibilmente per diventare il segnacolo della sepoltura di un guerriero di alto rango: sul ventre liscio furono scolpiti a bassorilievo i contorni di un’ascia a lama quadrata e di due giavellotti, raffigurati come se fossero tenuti in mano dal personaggio, mentre una cintura a fascia corre attorno alla vita. Sul fianco destro è assicurata una spada ad antenne del tipo caratteristico della cultura di Hallstatt, attestata in Europa nella prima metà del I millennio a.C.

Cartina dell’Europa con le aree di maggior concentrazione delle statue stele preistoriche. Le stelline in giallo indicano i tre territori italiani piú importanti in proposito: la Valle d’Aosta, la Lunigiana e il Trentino-Alto Adige.


FILETTO I - CARTA D’IDENTITÀ • Nome Stele di Filetto I • Definizione Stele antropomorfa in pietra arenaria, decorata a rilievo • Cronologia Tra la tarda età del Rame e la prima età del Bronzo (terzo-secondo millennio a.C.) rilavorata alla fine del VII secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Villafranca (loc. Filetto), presso il torrente Taverone • Luogo di conservazione La Spezia, Museo Civico Archeologico «Ubaldo Formentini»

L’artigiano intervenne inoltre sul volto, aggiungendo il taglio orizzontale della bocca, considerato ormai indispensabile nella scultura dell’età del Ferro, e scolpí un’iscrizione in alfabeto etrusco sul petto (lasciato libero dall’asportazione dei seni, ammesso che ci siano mai stati), della quale purtroppo resta solo la prima lettera: un segno a M, chiamato tsade, che designava un suono sibilante. All’epoca della rilavorazione della statua, nella Liguria orientale si era sviluppata un’aristocrazia guerriera, in costante rapporto commerciale e militare con i vicini Etruschi, dai quali aveva appreso alcune tradizioni di ostentazione del lusso e del rango, specialmente in ambito funerario. Le stele funerarie dell’Etruria settentrionale, spesso iscritte e decorate con rappresentazioni di armati, erano un modello forte e facile da seguire; ma lo spirito di indipendenza che continuò a caratterizzare i Liguri fino a oltre la romanizzazione, impedí che si verificasse un semplice fenomeno di imitazione. Il recupero e riutilizzo delle statue stele tramandate dagli antenati offrí ai principi liguri la possibilità di rinnovare il senso di appartenenza alle proprie origini e di rappresentare allo stesso tempo il proprio «moderno» potere aristocratico e militare.

Linee essenziali La stele di Zignago è per molti versi un monumento eccentrico e isolato nel panorama lunigianese, a partire dal luogo di ritrovamento: l’unico al di fuori della valle del Magra, nella Pieve di Zignago in provincia di La Spezia, piú a ovest di ogni altra stele a oggi nota. Anche in questo caso, la scoperta da parte di un «rozzo agricoltore» fu piuttosto precoce, già a fine

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STATUE STELE DELLA LUNIGIANA

dicembre del 1827, e rimase priva di informazioni sul contesto archeologico. L’elaborazione scultorea si limita alla sola testa, del tipo «a cappello di carabiniere», con un collo tozzo e massiccio che la separa da un vero e proprio cippo a forma di parallelepipedo. Il volto è ancora dell’antico tipo a «U», non circondato da una linea a rilievo; ma presenta un naso realistico, allargato in basso, e occhi a rilievo, che si direbbero di un tipo piuttosto evoluto. Sebbene sia un esemplare unico, le caratteristiche stilistiche sembrano puntare verso una realizzazione avanzata del gruppo B, forse databile ai primi secoli dell’età del Bronzo.

Una tradizione mediterranea Nell’insieme la scultura mantiene un aspetto enigmatico e ieratico, che dovette ispirare anche i principi liguri dell’età arcaica, che riutilizzarono la stele, presumibilmente come segnacolo funerario. In questo caso, però, non vennero aggiunte armi o altre caratterizzazioni somatiche, per «aggiornare» la scultura preistorica; ma l’artigiano si limitò a incidere una lunga iscrizione in grafia etrusca, in verticale, lungo il lato sinistro della faccia anteriore: mezu nemusus. Una lettura nemunius del secondo nome, pure possibile, è sconsigliata dal riconoscimento della presenza del segno a M (tsade) nell’iscrizione di Filetto già ricordata e dal confronto del nome con alcuni nomi celtici, tra cui quelli delle città galliche di Nemossos (menzionata da Strabone) e Nemausus (oggi Nîmes). Con ogni probabilità, la formula onomastica a due membri è composta da un nome personale e dal patronimico, secondo la piú comune tradizione mediterranea ed europea, prima della diffusione del sistema gentilizio etrusco-latino. L’ascendenza celtica dei nomi conferma la commistione e la sovrapposizione di elementi d’Oltralpe con l’antico popolamento ligure in tutta l’area dell’Italia nord-occidentale, cosí come ricordato dalle fonti letterarie, che a volte definivano gli stessi gruppi etnici come galli o come liguri, aggiungendo perfino

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Tre «famiglie» principali

L

e statue stele a oggi rinvenute A sono state divise dagli studiosi in tre gruppi principali, definiti sulla base delle caratteristiche morfologiche delle sculture, anche se non mancano varianti e pezzi unici, che non si inquadrano facilmente nella tipologia. Gruppo A Un primo tipo di statue, piú antico e stilizzato, è caratterizzato dalla testa B emisferica, unita direttamente alle spalle senza distinzione del collo e con volto a forma di «U» che incornicia la rappresentazione del solo naso; ma a volte sono segnati anche gli occhi, a rilievo o a incavo. La lavorazione a rilievo interessa solo la faccia anteriore e si limita alle braccia, che pendono da una fascia all’altezza delle C spalle (linea clavicolare). Gruppo B L’aggiunta del collo, corto e massiccio, conferisce alla testa una caratteristica forma «a cappello di carabiniere»; i volti sono spesso incorniciati da una fascia circolare e il rilievo di armi e accessori si fa progressivamente piú dettagliato. Molte statue dei tipi A e B sono infatti caratterizzate come maschili con l’aggiunta di armi, come asce e pugnali a lama triangolare, ovvero come femminili dalla rappresentazione a rilievo di seni piccoli e ravvicinati e a volte di gioielli. L’analisi antiquaria dei dettagli e degli attributi indica una cronologia di questi tipi compresa tra l’età del Rame e la prima età del Bronzo. Gruppo C Un terzo tipo di statue stele è molto distanziato nel tempo rispetto ai precedenti, risalendo ormai alla piena età del Ferro, tra il VII e il VI secolo a.C.: la forma della testa è arrotondata, con volti circolari in cui è indicata anche la bocca; il rilievo interessa anche i fianchi e a volte il retro delle stele, che evidentemente era concepita come una scultura a tutto tondo. Le rappresentazioni femminili spariscono e quasi tutti gli esemplari presentano armi «aggiornate», come spade ad antenne, asce quadrangolari «a tallone» e coppie di giavellotti.


ZIGNAGO - CARTA D’IDENTITÀ • Nome Stele di Zignago • Definizione «Erma» in pietra arenaria, iscritta e decorata a rilievo • Cronologia Prima età del Bronzo (?) (fine del IIIinizi del II millennio a.C.); rilavorata nel VI secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Zignago (loc. Novà), nella valle del fiume Vara • Luogo di conservazione Genova (Pegli), Museo di Archeologia Ligure

denominazioni ibride, come, per esempio, «semigalli» o «celto-liguri», nell’impossibilità di distinguerli con chiarezza.

I tesori della pieve Nell’alta valle del Magra, non lontano da Pontremoli, la pieve di S. Stefano di Sorano ha restituito i resti di ben sei diverse statue stele frammentarie, riutilizzate come materiale da costruzione nell’edificio sacro e nell’insediamento medievale circostante. L’insolita concentrazione fa supporre che la chiesa sorgesse sul sito di un luogo sacro preistorico, dove in origine le pietre scolpite erano state erette. Una concentrazione simile, infatti, è stata rinvenuta ancora in situ in località Pontevecchio, presso Fivizzano (MassaCarrara), dove un gruppo di nove statue stele del gruppo A erano allineate ordinatamente da est verso ovest. Lavori di restauro della pieve di Sorano nell’agosto del 1999 hanno portato alla scoperta di un nuovo esemplare di statua stele monumentale, che presentava le tracce di successive rilavorazioni nel corso di vari millenni. La prima realizzazione della scultura ancora nell’età del Rame apparteneva al tipo A, privo di indicazione del collo, completato presumibilmente con il semplice volto a «U» e la scultura a rilievo delle sole braccia e mani (vedi box a p. 36). Attorno alla fine del VII secolo a.C. o poco dopo, la statua venne rilavorata per adattarla alle esigenze dell’età del Ferro, probabilmente allo scopo di essere riutilizzata come stele funeraria. La testa è stata definita meglio, riducendola a una forma circolare attorno all’ovale del volto, che fu a sua

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SICILIA SORANO V - CARTA D’IDENTITÀ • Nome Stele di Sorano V • Definizione Stele antropomorfa in pietra arenaria, decorata a rilievo • Cronologia Età del Rame (III millennio a.C.); rilavorata alla fine del VI secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Filattiera, nell’alta valle del fiume Magra • Luogo di conservazione Filattiera, pieve di S. Stefano di Sorano

La stele «consacrata»

L

a Lunigiana è una terra esostorica, nella quale le tracce di culto preistorico e pagano s’innestano visibilmente nel culto cristiano. Un quarto di tutti i ritrovamenti di statue stele hanno, direttamente o indirettamente, a che vedere con luoghi di culto ancora attuali, dalle pievi alle chiesette rurali e alle maestà, senza dimenticare il numero cospicuo di quelle recuperate sul luogo degli attuali cimiteri, antichi monasteri o santuari di valico. In quest’ambito una particolare curiosità ha destato la testa scoperta a oltre 3 m d’altezza in una casa antica del borgo di Caprio, presso Filattiera (MassaCarrara). Si tratta di una testa di stele del Gruppo B, databile al piú tardi alla piena età del Rame (metà del III millennio a.C.), sul cui volto, evidentemente per allontanarne possibili influenze pagane, è stato inciso un monte Calvario, con tanto di croce sul colle piú alto. È possibile che quest’intervento sia avvenuto all’atto di inserire la testa nella muratura, ma non può essere esclusa una sua esecuzione anche precedente, forse non anteriore ai secoli XVII-XVIII. Angelo Ghiretti e Germano Cavalli

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Nella pagina accanto a destra la stele di Sorano V. Età del Rame (III mille. a.C.), rilavorata alla fine del VI sec. a.C. Filattiera, pieve di S. Stefano di Sorano. Nella pagina accanto, a sinistra, in basso testa di stele del Gruppo B inglobata nel muro di una casa antica del borgo di Caprio, presso Filattiera (Massa-Carrara).

volta «aggiornato», con l’indicazione di occhi, naso e bocca a bassissimo rilievo. Nelle mani si aggiunsero due giavellotti e un’ascia, disegnati incidendo i contorni anziché a rilievo; con la stessa tecnica furono aggiunte in basso una cintura a fascia e due esili gambe in prospettiva laterale, secondo un rarissimo schema che concepisce la stele come una scultura a figura intera. Lungo il fianco destro venne scolpita una spada. Anche in questo caso, un’iscrizione in alfabeto etrusco correva nello spazio libero al centro del torace, ma solo alcune lettere danneggiate sono ancora visibili: …vem... Un’antica stele preistorica era divenuta cosí una scultura funeraria di stile etruschizzante.

Guerra agli idoli Ma la lunga storia della pietra scolpita non finí cosí: in un momento imprecisato del Medioevo, essa venne riutilizzata come materiale da costruzione, danneggiando in piccola parte la raffigurazione per adattarla alla nuova funzione. Si può ben immaginare che la Chiesa cercasse di sradicare il valore sacrale e simbolico che le statue di pietra continuavano a esercitare presso la popolazione locale: un’iscrizione dell’VIII secolo ricorda infatti come nel corso delle sue funzioni un prelato cristiano (probabilmente il vescovo di Luni Leothecarius) si assunse il compito di distruggere gli idoli pagani (idola fregit) e volle essere sepolto nel luogo stesso che aveva «purificato»; e ancora mille anni dopo, nel 1779, un frammento di statua stele fu murato nel campanile della chiesa di S. Michele a Gigliana, non lontano da Filattiera, come supporto per un’iscrizione commemorativa. Non molto tempo piú tardi, la nostra stele venne ancora una volta recuperata e riadattata come architrave di una delle porte laterali della pieve di S. Stefano, dove fu riscoperta solo in tempi recentissimi. Lo spirito parsimonioso dell’economia medievale non aveva voluto sprecare un’ottima pietra di costruzione, al solo scopo di distruggere un idolo dei tempi antichi: cosí, per ironia della sorte, un antico simbolo sacro fu conservato e

tramandato fino a noi nella tessitura di un edificio sacro cristiano, proprio grazie a coloro che avevano voluto far sparire la stele.

Un territorio culturalmente omogeneo In realtà, le avventure della stele di Sorano V, cosí come quelle di tutte le altre statue stele fino a oggi ritrovate, non si sono ancora concluse: se il valore sacro è venuto meno con il passare dei secoli e il mutare della religione, i monumenti di pietra mantengono intatta la propria funzione culturale e di simbolo etnico regionale. Neppure il moderno confine tra le provincie di Massa-Carrara e La Spezia e tra le regioni Toscana e Liguria (che attraversa la valle del fiume Magra, ricalcando approssimativamente il limite delle corrispondenti regiones romane) ha spezzato l’unità culturale del territorio lunigianese. A testimonianza di ciò le due maggiori collezioni di statue stele sono ospitate in altrettanti castelli a Pontremoli (Museo delle Statue Stele Lunigianesi, nel Castello del Piagnaro), dove una moderna raccolta abbraccia la maggior parte degli esemplari noti in originale o in calco, e a La Spezia (Museo Civico Archeologico, nel Castello di S. Giorgio), dove alcuni dei ritrovamenti piú importanti e suggestivi sono inquadrati nel contesto dell’archeologia della regione.

PER SAPERNE DI PIÚ • Augusto C. Ambrosi, Statue stele lunigianesi: il museo nel Castello del Piagnaro, Sagep Editrice, Genova 1988 • Marzia Ratti (a cura di), Antenati di pietra. Statue stele della Lunigiana e archeologia del territorio, catalogo della mostra, Sagep Editrice, Genova 1994 • Giuseppina Spadea, Raffaele C. de Marinis (a cura di), I Liguri. Un antico popolo europeo tra Alpi e Mediterraneo, catalogo della mostra, Skira, Milano 2004 • Ricco di informazioni è il sito del Museo delle Statue Stele Lunigianesi, Pontremoli: statuestele.org

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BRONZI DI CARTOCETO

UN ENIGMA TUTTO

D’ORO N

el giugno del 1946, con l’Italia ancora in ginocchio dopo i disastri della seconda guerra mondiale e le vicende politiche dell’inizio della repubblica, ben poco risalto veniva dato alle notizie di ritrovamenti archeologici nelle campagne. E tanto piú questo era vero quando gli stessi scopritori cercavano di tener nascosto il materiale nella speranza di trarne qualche lucro. Al di là del biasimo per le pratiche illecite, la guerra aveva lasciato uno strascico di fame e miseria in molte parti d’Italia e non

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SONO PERSONAGGI CERTAMENTE DI RANGO ELEVATO, LA CUI MEMORIA È TORNATA ALLA LUCE DUEMILA ANNI DOPO L’OCCULTAMENTO DELLE STATUE ERETTE IN LORO ONORE. EPPURE, I PROTAGONISTI DEL GRANDIOSO GRUPPO EQUESTRE DI CARTOCETO CONTINUANO A NASCONDERE LA PROPRIA IDENTITÀ


ci si deve perciò meravigliare se due fratelli che si imbatterono in alcuni grandi frammenti di statue del colore dell’oro, mentre lavoravano un campo a Cartoceto di Pergola, in provincia di Urbino, credettero di aver ricevuto un dono dal cielo e tennero per sé la scoperta. Tuttavia, la notizia non tardò a diffondersi e presto arrivò alle orecchie dei funzionari Il magnifico gruppo di sculture in bronzo dorato rinvenuto a Cartoceto di Pergola. Età augustea. Pergola, Museo dei Bronzi Dorati e della Città di Pergola.

della Soprintendenza Archeologica delle Marche, che ordinarono la consegna dei materiali rinvenuti. Superate alcune difficoltà, un gran numero di frammenti fu restituito alle autorità, assieme all’indicazione del luogo di ritrovamento. Fu subito chiaro che si trattava di un gruppo formato da varie statue in bronzo dorato, molto danneggiate dal tempo e dalla giacitura, ma che ancora conservavano minuti dettagli e buona parte della doratura originaria. Quanto prima furono condotti sul posto nuovi scavi, che portarono alla luce altri frammenti, anche se molte parti delle sculture originarie risultarono mancanti e sono ormai ben poche le speranze che possano essere un giorno recuperate. Sebbene lacunose, le statue di Cartoceto entrarono a far parte del ristretto novero dei grandi bronzi dell’antichità pervenuti fino a noi. Un interessante dato negativo emerso dagli scavi è che, salvo i resti della viabilità locale, nelle vicinanze mancavano tracce di strutture romane tali da poter giustificare la presenza di un gruppo monumentale di tale pregio e dimensioni. Già nell’antichità, quindi, i bronzi erano stati abbandonati in un luogo appartato e poco frequentato, fuori dai centri abitati della regione. Vennero forse nascosti dopo un saccheggio? Abbandonati per cancellarne la memoria? Difficile a dirsi. Il gruppo di Cartoceto consiste in due statue

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BRONZI DI CARTOCETO

La matrona meglio conservata è avvolta in ricche vesti, che comprendono la stola (un abito lungo fino ai piedi) e la palla (manto riportato fin sopra la testa). Ne fuoriescono solo la punta del piede destro e le mani, oltre al volto incorniciato dal velo, che lascia trasparire anche parte dell’acconciatura, con i capelli scriminati sulla fronte. Di particolare interesse è un ricciolo ribelle, che scende accanto all’orecchio sinistro e conferisce un tocco giovanile e leggiadro a un ritratto altrimenti decisamente austero. Tutto considerato, nonostante la deformazione subita dal bronzo, che neanche l’intervento di restauro è riuscito a riparare e che impedisce di apprezzare la curva delle forme sotto il panneggio, non sembra sia possibile attribuire alla matrona un’età troppo avanzata, come pure in passato è stato ipotizzato. Di età senz’altro matura, anche se non anziana, è invece il cavaliere di cui si conserva il busto: lo dimostrano l’ampia stempiatura della fronte e i tratti asciutti del viso. La veste solenne, che comprende tunica e paludamentum (corto mantello militare) e lascia le braccia nude, gli conferisce un’aria marziale, quale si addice a un comandante di ritorno da una missione, privo della corazza e acclamato per le sue imprese. Mentre il cavallo avanza al piccolo trotto, l’uomo alza la mano destra per salutare la folla (il cosiddetto gesto dell’adventus) e non per chiedere il silenzio prima di un

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San Marino

Pesaro Fano

Mare Adriatico Senigallia

Urbino

Pergola

Ancona

Marche Fabriano

Lago Perugia Trasimeno

Macerata Civitanova Marche

San Severino Marche

Umbria re

Quel ricciolo ribelle

Nella pagina accanto la statua equestre di uno dei due cavalieri, ricomposta in ampia parte, e, nel riquadro, lo splendido modellato della testa della matrona. In basso una delle due statue femminili, raffigurante una matrona, ricostruita quasi interamente grazie ai frammenti recuperati nel 1946.

Tev e

equestri maschili e due stanti femminili, che dovevano con ogni probabilità essere disposte in modo simmetrico e piramidale, con le cavalcature al centro e le donne ai lati. I frammenti conservati hanno consentito di ricostruire quasi per intero uno dei cavalieri e una delle statue femminili, mentre quanto resta delle altre due sculture fa pensare che le pose dei personaggi fossero del tutto simili.

San Benedetto del Tronto Ascoli Piceno

Teramo

discorso (adlocutio), come è stato da alcuni ipotizzato. La decorazione della ricca bardatura del cavallo, che comprende sulla fronte una coppia di tritoni che reggono uno scudo tra delfini guizzanti, sembra alludere a un’ambientazione marina o in terre lontane delle sue vittorie, anche se non consente di andare oltre con le ipotesi.

Un dettaglio decisivo Dell’altro cavaliere, purtroppo, si conservano soltanto le gambe con gli elaborati calzari, oltre a buona parte del cavallo, gemello del primo – sebbene non identico –, sia nella posa che nell’aspetto, e perfino nei finimenti. Si è immaginato che anch’egli avesse un gesto simile al compagno, con il quale condivideva il ruolo di protagonista nel gruppo celebrativo. Da questo punto di vista risulta importante il fatto che i calzari non appartengono al tipo indossato dai senatori (calceus senatorius), ma sono i calcei patricii, prerogativa dei magistrati curuli, che originariamente erano solo patrizi, e degli imperatori a partire da Augusto. Chiude la sequenza la seconda statua femminile, ridotta purtroppo alla sola parte inferiore, che però già da sola evidenzia le differenze dalla prima matrona. Infatti, per quanto la posa sia simile, con il piede destro avanzato che fa


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome

ronzi Dorati di B Cartoceto • Definizione Gruppo monumentale di due statue femminili e due equestri maschili a grandezza naturale • Cronologia Età augustea • Luogo di Pergola, località di ritrovamento Cartoceto • Luogo Pergola (PU), Museo di conservazione dei Bronzi Dorati e della Città di Pergola • Identikit Ritratto di famiglia di un gruppo di eroi dimenticati

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BRONZI DI CARTOCETO

capolino dalla stola, il panneggio soprastante si incurva in un’ampia piega sul davanti (sinus).

Questo ci porta alla questione ancora aperta dell’identificazione dei personaggi onorati dai bronzi di Cartoceto. In questo senso, l’assenza di un vero contesto archeologico si rivela ancor piú dolorosa e rende difficile trovare conferme per il possibile riconoscimento di figure storiche note, che si può quindi basare soltanto su elementi indiziari.

Opere di alto livello Le statue sono state realizzate con il metodo della fusione a cera persa, in diverse sezioni poi montate assieme, utilizzando una lega ternaria di rame, stagno e piombo, con una forte percentuale di quest’ultimo metallo, secondo l’uso romano invalso per migliorare la lavorabilità del materiale. Sulla superficie esterna è stata poi aggiunta a freddo una doratura a foglia, di cui si conservano ampie parti, che contribuisce a conferire pregio alle sculture. La tecnica è particolarmente accurata, denotando un’officina specializzata di alta qualità, alla quale però non si adegua il livello artistico del modello, certamente di notevole efficacia scenica (soprattutto per quanto riguarda i cavalli), ma che non giustifica una eventuale committenza imperiale. L’analisi dei residui della terra di fusione ha rivelato la presenza di minerali vulcanici, che fanno pensare a una provenienza dall’area flegrea della Campania, anche se non si può escludere che il materiale grezzo sia stato importato in un’officina locale. Di un certo interesse per la cronologia è la realizzazione degli occhi in bronzo per fusione, anziché con materiali pregiati riportati a parte (come avorio e pasta vitrea), secondo la norma della scultura greca e romana repubblicana. Tale caratteristica, infatti, si affaccia nella scultura romana solo a partire dalla prima età imperiale e diviene la regola dopo l’età adrianea. Sembra piuttosto difficile, pertanto, aderire ad alcune proposte di cronologia alta, secondo le quali i bronzi sarebbero stati realizzati in epoca tardorepubblicana o triumvirale.

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Una proposta suggestiva... Una prima, affascinante ipotesi venne avanzata da Alessandro Stucchi (1922-1991) nel 1987, in occasione di un’esposizione delle statue a Firenze. Secondo l’insigne

In alto la testa del cavaliere di Cartoceto. A destra statua equestre in bronzo di Augusto, del tipo Alcudia. I sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.


studioso, il gruppo avrebbe celebrato i figli di Germanico, Nerone Cesare e Druso, con la madre Agrippina e la bisnonna Livia (già moglie di Augusto). L’ipotesi spiegherebbe anche l’abbattimento e seppellimento dei bronzi, come conseguenza della caduta in disgrazia dei protagonisti sotto il regno di Tiberio a causa delle macchinazioni di Seiano, il potente prefetto del pretorio che aspirava alla successione.

...ma senza riscontri Questa identificazione non può però essere accolta, a partire dal riconoscimento della statua femminile meglio conservata con Livia, i cui tipi iconografici noti non sono compatibili con il ritratto di Cartoceto. Allo stesso modo, anche l’età avanzata del cavaliere non corrisponde a quella che avrebbero dovuto avere i figli di Germanico. Una datazione ben piú alta, tra il 50 e il 30 a.C. è stata proposta da John Pollini e da Filippo Coarelli, che riconoscono nel gruppo rispettivamente la famiglia dei Domizi Enobarbi, tra cui il console del 32 a.C., ovvero quella di Marco Satrio, un notabile locale che fu luogotenente di Giulio Cesare e arrivò al rango senatorio, ma fu poi coinvolto nella congiura e cadde nella repressione del secondo triumvirato. Una ulteriore proposta di identificazione è stata avanzata da Bernard Andreae, il quale ha attribuito il gruppo alla celebrazione del trionfo sugli Illiri nel 39 a.C. da parte di Gaio Asinio Pollione, astro nascente della politica nell’età triumvirale, noto anche per essere stato protettore del giovane Virgilio. Tuttavia, come abbiamo già accennato, tutte le ipotesi fin qui ricordate sono destinate a cadere per il dato tecnico degli occhi fusi in bronzo, che non sembrano poter risalire piú in là della prima età imperiale, e, almeno nel secondo caso, alla luce del dato antiquario offerto dai calzari, che indicano il rango curule

Testa ritratto dell’imperatore Augusto, del tipo Forbes. Inizi del I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

di almeno uno dei protagonisti. Il gruppo può forse essere datato all’ultimo ventennio del I secolo a.C. per un confronto tra il cavaliere meglio conservato e alcuni ritratti di Augusto databili in questo periodo, come, per esempio, un bronzo equestre ritrovato nell’Egeo, oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene (esempio attardato del tipo detto Alcudia), e una testa marmorea del Museo del Louvre di Parigi (tipo Forbes). Entrambi i ritratti, infatti, condividono con il volto di Cartoceto la forma triangolare della testa con la fronte ampia e le sopracciglia basse e pronunciate, nonché la leggera inclinazione verso destra, accompagnata dalla curva del collo e sottolineata dalle orecchie sporgenti. La tipologia dei ritratti imperiali era il modello di riferimento per tutte le statue onorarie e pubbliche, sia a Roma e nelle province. Rimane perciò piú che mai verosimile che il gruppo dei bronzi sia l’eccezionale testimonianza degli onori tributati a una famiglia locale di spicco, appartenente al rango equestre e presumibilmente coinvolta nelle campagne d’oltremare di Ottaviano Augusto, come ad Azio e in Egitto, oppure contro i pirati del Mediterraneo, alla quale per ora non è possibile fornire un nome preciso in mancanza di ulteriori dati.

PER SAPERNE DI PIÚ • Giuliano de Marinis, I Bronzi dorati da Cartoceto: il punto sulle conoscenze, in Bronzi e marmi della Flaminia. Sculture romane a confronto, Catalogo della mostra (Pergola, 2002), a cura di Giuliano de Marinis, Sergio Rinaldi Tufi, Gabriele Baldelli, Artioli Editore, Modena 2002; pp. 37-43 • Roman bronzes of Cartoceto, Atti del colloquio (Montreal, Museum of Fine Arts, 2007), in The Ancient World 40, Ares Publishers, 2009; pp. 5-90. • Bernard Andreae, Des Siegers Beute. Die vergoldeten Bronzestatuen von Cartoceto bei Pergola und Gaius Asinius Pollio, Franz Steiner Verlag, Stoccarda 2015

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CHIMERA DI AREZZO

UN MISTERO

RUGGENTE

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LA STATUA SIMBOLO DELL’ARTE ETRUSCA RAPPRESENTA UNA TERRIFICANTE BELVA MITOLOGICA. FIN DALLA SUA SCOPERTA SUSCITÒ NOTEVOLI SUGGESTIONI, A CUI FECERO SEGUITO IPOTESI SPESSO FANTASIOSE. MA QUAL È, ALLORA, LA VERA «IDENTITÀ» DELL’OPERA?

«A

ddí 15 novembre 1553, mentre fuori le mura della città di Arezzo, presso Porta S. Lorentino, si scavava terra per portarla nel nuovo bastione che vi si sta costruendo, fu trovato il seguente insigne monumento degli Etruschi. Era un leone di bronzo fatto con maestria e eleganza, di grandezza naturale, di aspetto feroce, furente, forse per la ferita che aveva sulla coscia sinistra, teneva irte le chiome e spalancate le fauci, e come un trofeo da ostentare portava sopra la schiena una testa di capro ucciso, che perde sangue e vita». Con queste parole il registro delle Deliberazioni del Magistrato, dei Priori e del Consiglio Generale di Arezzo descrive la scoperta di uno dei capolavori dell’arte etrusca, destinato a riportare alla ribalta la cultura indipendente dei popoli dell’Italia preromana, grazie alla fortunata coincidenza con gli interessi della corte fiorentina rinascimentale. Il ritrovamento ebbe luogo sotto l’egida di Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze da ormai 16 anni, che da tempo aveva iniziato un’attività di recupero di antichità, allo scopo di reintegrare le collezioni di famiglia, drasticamente ridottesi in seguito alle burrascose vicende del ducato. Fu quindi accolta con entusiasmo la notizia della scoperta aretina, avvenuta proprio in seguito ai grandi lavori di edilizia militare voluti da Cosimo, anche in previsione delle future campagne contro la Repubblica senese. Grazie alla sua evidente «maniera» artistica etrusca, sottolineata da tutti i commentatori

dell’epoca, la Chimera non solo costituiva una novità assoluta nel panorama delle collezioni antiquarie rinascimentali, ma aveva anche un altissimo valore potenziale di propaganda. L’autonomia culturale degli Etruschi, considerati precedenti ai Romani e quindi piú «puri» in un’ottica di recupero dell’originaria identità italiana, era infatti destinata a diventare la bandiera di una rivendicazione di indipendenza anche politica, tanto dalla Roma papalina, quanto dall’impero, erede della potenza romana.

Il duca restauratore La Chimera venne subito portata a Firenze, in Palazzo Vecchio, dove ottenne un posto d’onore nella sala di Leone X, mentre il cospicuo gruppo di bronzetti trovato insieme alla statua venne posto al piano superiore, nello studiolo privato di Cosimo, in seguito denominato «Scrittoio di Calliope». Come racconta Benvenuto Cellini nella propria autobiografia, Cosimo si dilettava a restaurare con attrezzi da orafo sia la Chimera, sia le statuette piú piccole, dell’altezza di un piede ciascuna (pari a 30 cm circa), che raffiguravano giovinetti, animali (tra cui alcuni uccelli e un cavallo) e uomini barbuti. Purtroppo la collezione andò in seguito dispersa e soltanto due o tre di questi reperti sono stati riconosciuti tra le antichità ancora conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze. La propaganda politica si mise subito all’opera, dapprima con la presentazione del bronzo al mondo artistico dell’epoca, suscitando i commenti ammirati di figure del calibro di La Chimera d’Arezzo, rinvenuta nella città toscana nel 1553.

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CHIMERA DI AREZZO

Tiziano, Vasari e Cellini. In seguito, uno studio antiquario accurato, basato sulle monete e medaglie antiche e sull’autorevole parere di Pirro Ligorio, serví a dimostrare che la statua riproduceva effettivamente il mostro mitologico sconfitto da Bellerofonte (vedi box a p. 52) e non già un leone carico di una testa di capro a mo’ di trofeo, come si era detto in precedenza. L’identità della belva fu poi usata dal Vasari per sottolineare la coincidenza del fato, che aveva

Un’altra immagine della statua e, nella pagina accanto, la Chimera in una incisione del Museum Etruscum di Anton Francesco Gori. 1737.

CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Chimera d’Arezzo • Definizione Scultura in bronzo raffigurante la mitica belva • Cronologia Primo quarto del IV secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Arezzo • Luogo di conservazione Firenze, Museo Archeologico Nazionale • Identikit Apice e simbolo della «maniera» etrusca

posto la statua in potere di Cosimo de’ Medici, «il quale è oggi domatore di tutte le fiere».

Alla «maniera» etrusca L’identificazione della coda di serpente tra i frammenti pervenuti assieme alla statua fu opera di Cellini, mentre la riflessione artistica sulla «maniera» etrusca si deve all’aretino Giorgio Vasari, che osservò la contraddizione tra la dettagliata vena naturalistica dell’anatomia della belva, a paragone con l’arcaica e meccanica resa del pelame e soprattutto della criniera, che conferisce al muso l’aspetto di una maschera. Con queste osservazioni venne di fatto inaugurato il moderno esame critico della cifra stilistica etrusca tardo-arcaica e classica, in cui sperimentalismo e innovazione convivono con la conservazione di modelli e schemi piú antichi. Come si è detto, l’identificazione della «maniera» etrusca aveva anche risvolti politici e culturali. Già alla fine del Quattrocento, infatti, il frate domenicano Annio da Viterbo aveva


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CHIMERA DI AREZZO

Cosimo I de’ Medici (1519-1574) in un’incisione di André Thevet (1502-1590). In basso veduta posteriore della Chimera. La coda, di cui fu trovata solo una parte, troncata dal corpo, è rivolta a mordere uno dei corni del capro per effetto di un malinteso restauro settecentesco.

Assai utile ai disegni politici del granducato di Toscana, la scoperta della Chimera fu salutata con grande entusiasmo avocato alla propria città natale il ruolo di erede dell’antica grandezza etrusca, come antefatto del dominio dei papi, da lui ritenuti successori dei lucumoni etruschi. La propaganda di Cosimo trasformò questo riferimento storico in funzione della sua ambizione a ricostituire il territorio d’Etruria sotto la bandiera fiorentina e con il titolo di Magnus Dux Etruriae. Un balzo in avanti nella realizzazione di tale progetto si ebbe con la conquista di Siena, condotta da Firenze in nome dell’imperatore Carlo V (1555), e successivamente premiata con l’annessione del territorio senese (1557) e l’agognata nomina papale a granduca di Toscana (1569). La nuova situazione politica, però, riportò la propaganda antiquaria di Cosimo sul piú consueto binario dell’eredità classica romana, poiché la fedeltà all’imperatore e la

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riconciliazione con il papa erano indispensabili a consolidare il suo potere. Per questo motivo, anche se la Chimera conservò sempre un posto di primo piano nelle collezioni granducali, il ritrovamento di un nuovo grande bronzo etrusco nel 1566, universalmente noto come l’Arringatore, venne salutato come un ritratto di Scipione e il prototipo del perfetto cittadino romano, benché di origine evidentemente etrusca. Quando venne ritrovata, la Chimera


era praticamente integra, a eccezione della coda, troncata alla base, e di pochi danni alle zampe. La statua rappresenta il mostro mitologico ferito, inarcato e teso nell’imminenza di un ultimo disperato balzo contro un avversario che lo sovrasta.

Ferite che sanguinano La testa di capro che spunta dal dorso è già stata ferita mortalmente al collo e pende da un lato agonizzante, mentre il serpente che costituiva la coda dell’animale era probabilmente rivolto verso il nemico e non ripiegato a mordere un corno, come si vede oggi in seguito a un malinteso restauro settecentesco. Le gocce di sangue che grondano dalle ferite – e che causarono l’ammirazione stupita di Tiziano per la loro «liquida» verosimiglianza – mostrano un colore rosso grazie all’agemina di rame. L’aspetto piú impressionante della belva è senz’altro la «maschera» leonina, che ruggisce la propria impotenza sollevando in alto lo sguardo, come se intuisse la propria fine ormai vicina. Le fauci vuote della belva, che si possono immaginare traboccanti di fiamme, erano in origine completate da zanne in altro materiale, cosí come gli occhi. Ciò nondimeno,

In alto veduta di tre quarti del bronzo: si noti una delle gocce di sangue di cui Tiziano colse il «liquido» realismo. In basso l’iscrizione tinscvil, incisa su una delle zampe della Chimera.

la lugubre ombra che oggi riempie quelle cavità contribuisce non poco a catturare l’immaginazione dello spettatore. La criniera è divisa in ciocche triangolari che richiamano alla mente altrettante fiamme, disposte come nella corolla di un fiore a incorniciare il muso della bestia, che è stato efficacemente paragonato da Mauro Cristofani (1941-1997) a un volto di Gorgone, simbolo di morte e di paure

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CHIMERA DI AREZZO

ancestrali. Il recupero di un modulo arcaico per la testa leonina non deve stupire, nell’assenza di qualunque possibilità di rifarsi a un modello naturalistico: i leoni erano noti in Etruria solo come creature esotiche, altrettanto leggendarie e sconosciute quanto la Chimera del mito. A dimostrazione di ciò è facile osservare come l’impianto della figura e la curva tesa della bestia pronta a scattare siano decisamente piú compatibili con un grosso cane, quale un mastino o un molosso, piuttosto che con un grande felino. Curiosamente, a differenza di altre raffigurazioni, che vedono nella Chimera

In basso, a sinistra vaso a figure rosse con la Chimera (a sinistra) e Bellerofonte in sella a Pegaso. 420-400 a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso, a destra disegno di uno specchio (330 a.C. circa), con Bellerofonte che uccide la Chimera.

Bellerofonte e la Chimera

L

a Chimera era un mostro primordiale, figlio di Tifone (il gigante che aveva osato sfidare gli dèi) ed Echidna. Si trattava di una bestia ibrida, che Omero dice composta di un corpo di capra, coda di serpente e fauci di leone che eruttano fiamme; ma piú spesso fu immaginata con tre teste. Il mostro infestava le montagne della Licia, dove, il re Iobate, che voleva uccidere l’eroe, inviò Bellerofonte a stanarla. Il giovane ottenne però l’aiuto degli dèi, che gli insegnarono come imbrigliare il cavallo alato Pegaso, grazie al quale poté avvicinarsi alla Chimera. La tradizione vuole che l’eroe si sia limitato a bersagliare il mostro con arco e frecce, ma una rara versione raccontata dall’erudito bizantino Giovanni Tzetzes (attivo nel XII secolo) dice che Bellerofonte fissò alla propria lancia un lingotto di piombo; cosí, quando ne conficcò la punta nelle fauci della belva, il metallo si fuse e la soffocò definitivamente.

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una femmina, in conformità con il nome greco, la statua di Arezzo è invece rappresentata come un maschio. La zampa anteriore destra della belva presenta un’iscrizione etrusca realizzata in tutt’uno con la scultura, incidendo le lettere nella cera del modello originale che dette la forma al bronzo con il metodo della fusione a cera persa. Il testo consiste di una sola parola: tinscvil, che non corrisponde alla firma dell’artista come ingenuamente aveva supposto il Vasari, in mancanza di qualunque conoscenza della lingua etrusca. Si tratta invece di un termine di consacrazione, che compare identico e isolato anche su altre figurine di animali mitologici o spaventosi, come un grifone e un cane/lupo da Cortona. In etrusco la parola significava originariamente «sacro a Tinia», il Giove etrusco; ma venne in seguito utilizzata, piú genericamente, per la consacrazione a divinità infere (come nel caso di alcuni altari volsiniesi e del famoso Lampadario di Cortona) o alla dea Uni (sulla base di una statuetta cortonese).

Parte di un gruppo? Sin dalla sua produzione, la Chimera era stata dunque concepita come un’offerta votiva, cosa che spiega il suo ritrovamento in un deposito assieme ad altri bronzetti, evidentemente donati nello stesso santuario. Non è chiaro, però, se la statua fosse un pezzo isolato o facesse parte di un gruppo comprendente il suo uccisore, Bellerofonte, raffigurato sul cavallo alato Pegaso sul punto di dare il colpo di grazia al mostro. A favore di tale ipotesi vanno notate la posizione asimmetrica e tesa della Chimera, che presuppone l’esistenza di un avversario, nonché la presenza di una serie di validi confronti negli specchi incisi, su vasi dipinti e persino, in miniatura, su gemme lungo un arco di tempo che va dall’epoca arcaica all’età romana imperiale. La maggioranza di questi confronti vedono il gruppo nel suo insieme, col cavallo in genere impennato a sovrastare la belva e l’eroe Bellerofonte che affonda la propria lancia nelle fauci. L’esistenza o meno del gruppo maggiore


è probabilmente destinata a rimanere nel dubbio; ma va ricordata la possibilità, suggerita da Francesco De Angelis, che l’artista etrusco abbia inteso offrire allo spettatore la prospettiva di essere assimilato all’eroe che sconfigge il mostro. In tal caso il modello ricavabile dai confronti esistenti era effettivamente operante al livello della memoria dello spettatore, il quale per poter leggere l’iscrizione si trovava esattamente nel punto in cui il mitico cavaliere aveva sferrato il colpo di grazia alla bestia morente, sollevando per un attimo un comune mortale al livello di un eroe del mito.

Mosaico raffigurante Bellerofonte che, cavalcando Pegaso, uccide la Chimera. II-III sec. d.C. Autun, Musée Rolin.

PER SAPERNE DI PIÚ • Giovanni Colonna, Dalla Chimera all’Arringatore, in Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca, XLVII, Olschki, Firenze 1985; pp. 167-186 • Armando Cherici, Alcuni appunti su monumenti archeologici di provenienza aretina, in Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca, XLVIII; Olschki, Firenze 1986; pp. 3-39 • Carlotta Cianferoni, Mario Iozzo, Elisabetta Setari (a cura di), Myth, allegory, emblem: the many lives of the Chimaera of Arezzo, Atti del Colloquio (2009), Aracne, Roma 2012

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GUERRIERO DI CAPESTRANO

CHI ERA VERAMENTE QUEL

SOLDATO? SONO NUMEROSI I SEGRETI SVELATI DAGLI STUDIOSI INTORNO AL CELEBRE GUERRIERO DI CAPESTRANO, A PARTIRE DALLA RESA PIÚ CHE PARTICOLAREGGIATA DELL’EQUIPAGGIAMENTO, QUASI UNA FOTOGRAFIA DELL’ANTICA ARMATURA. MA, A OTTANT’ANNI DAL SUO RITROVAMENTO, RIMANE APERTA LA QUESTIONE DEL SIGNIFICATO DI UN’ENIGMATICA ISCRIZIONE INCISA SULLA SCULTURA...

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Nella pagina accanto il Guerriero di Capestrano nell’allestimento ideato dall’artista Mimmo Paladino all’interno del Museo archeologico nazionale d’Abruzzo di Chieti.

I

l ritrovamento della statua nota come «Guerriero di Capestrano» avvenne nel settembre del 1934 nei pressi dell’omonima cittadina abruzzese, in provincia dell’Aquila. Durante l’impianto di una vigna, un contadino, Michele Castagna, s’imbatté in un grande masso, che, a un’osservazione piú attenta, si rivelò parte di un’elaborata scultura, relativamente ben conservata. Proseguendo le ricerche negli immediati dintorni, lo scopritore trovò altri frammenti della statua e, qualche metro piú in là, il grande «cappello» rotondo che ne costituisce una delle caratteristiche piú emblematiche. Proprio sotto il cappello, poi, raccolse un grosso spezzone di un’altra statua, di dimensioni appena piú piccole, raffigurante un personaggio femminile, oggi nota con il nome di «Dama di Capestrano». Ignaro di aver legato il proprio nome a una delle maggiori scoperte del secolo, Castagna accantonò in un angolo quegli oggetti, che erano d’intralcio al suo lavoro. Solo una ventina di giorni piú tardi, il comandante della locale stazione dei Carabinieri si accorse della rilevanza dei ritrovamenti e informò la Soprintendenza. I resti furono raccolti e portati al restauro presso le Terme di Diocleziano a Roma e, già nel dicembre dello stesso anno, l’archeologo Giuseppe Moretti condusse sul sito una campagna di scavo, che mise in luce parte di una necropoli comprendente 33 tombe. Una quindicina erano attribuibili all’età arcaica e, tra queste, un gruppo di cinque mostrava un orientamento diverso rispetto al resto della necropoli (condizionato dalla presenza di un asse stradale). Le tombe numerate dal 12 al 15, infatti, erano disposte approssimativamente a raggiera attorno alla piú grande tomba 3, orientata nord/sud e dotata di una nicchia laterale per ospitare il corredo. Sembra evidente che questa sepoltura eminente fosse segnalata sul terreno da un circolo di pietre, tipico degli usi funerari italici, forse coperto da un tumulo. La statua del Guerriero – e forse anche la sua compagna di soggetto femminile – era con ogni probabilità

posta a coronamento del tumulo, che venne poi rispettato dalle successive deposizioni. Nel 1937, una ulteriore campagna di scavo mise in luce altre due basi di statue, una delle quali probabilmente pertinente alla Dama, ma purtroppo entrambe sono andate perdute. Le ricerche sul sito sono state poi riprese dall’Università di Pisa e dalla Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo, tra gli anni Sessanta e Novanta. Da ultimo, nel 2003, Vincenzo d’Ercole, allora ispettore archeologo presso la medesima Soprintendenza, ha condotto uno scavo nella necropoli, che ha permesso di ricostruirne la storia e la topografia, mettendo in luce svariate decine di tombe. La statua riproduce una imponente figura maschile stante, di dimensioni leggermente maggiori del vero, che tocca un’altezza di 209 cm, comprendendo la base e l’elmo. È ricavata da una lastra di pietra calcarea, nella cui cornice sono scolpiti due pilastrini di sostegno, congiunti alla base e alle spalle della figura e decorati ai lati da due lance a rilievo con la punta rivolta in alto. I piedi, calzati, sono scolpiti in un blocco unico con la base, che era originariamente infissa nel terreno; ciononostante, sia i pilastrini che le gambe si ruppero, all’altezza della caviglia.

Quell’elmo simile a un sombrero La figura è lavorata con forme piene e arrotondate, che le conferiscono un aspetto sensuale e morbido, al punto che non è mancato chi ha proposto di riconoscervi un personaggio femminile. La natura maschile, in realtà, è provata sia dall’equipaggiamento militare, sia dall’assenza di indicazione del seno, che spicca ancor di piú per confronto con il busto della Dama. L’elmo con ampia tesa – che lo rende simile a un sombrero – era scolpito a parte, in una pietra diversa, e connesso alla testa grazie a un sistema a incastro. Di enorme interesse antiquario è l’equipaggiamento del Guerriero, che corrisponde all’armamento militare delle aristocrazie italiche arcaiche, come confermano i ritrovamenti di armi in tombe

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GUERRIERO DI CAPESTRANO

coeve dell’Italia centrale. Elemento centrale dell’armatura è una coppia di dischi-corazza, che proteggono la regione del cuore e sono mantenuti in posizione da un sistema di corregge, presumibilmente di cuoio.

Con la spada sul petto, di traverso Al di sotto di tale «corazza», il Guerriero sembra essere a torso nudo, a meno di non immaginare un corpetto aderente di lino o di cuoio. Alle stesse cinghie è fissato il fodero della spada, riccamente decorata e portata di traverso sul petto, si direbbe in modo da poterla estrarre con la sinistra con un movimento semicircolare, piuttosto che con la destra, come un pugnale. Sopra il fodero è montata un’altra guaina, piú piccola, che ospita un coltello, da usare come cote o come arma di supporto. La mano destra, appoggiata sul petto a palmo aperto, sostiene un’esile scure – una probabile insegna di rango piuttosto che un’arma da battaglia –, mentre la sinistra è appoggiata sul ventre, in un atteggiamento condiviso da numerose statue dell’epoca alto-arcaica e che, probabilmente, deriva da una posa vicinoorientale adatta a personaggi di rango. Come ornamento, il Guerriero indossa un torques, ovvero un collare aperto sul retro, e alcune armille sugli avambracci. Il pesante cinturone militare portato in vita sostiene una sorta di perizoma, composto da due elementi triangolari, presumibilmente di cuoio, che proteggono l’inguine e i lombi. Notevoli perplessità ha destato il volto, assai piú stilizzato del resto della figura, che comunica una inquietante ieraticità. Un bordino rilevato che corre intorno al viso, isolandolo dalla testa, ha fatto pensare che il Guerriero indossi una maschera, forse metallica. Ma il mancato ritrovamento di reperti confrontabili nelle armature arcaiche della regione non conferma tale ipotesi e c’è chi vede piuttosto nel bordino un laccio per mantenere in posizione l’ingombrante copricapo. Sin dalla sua scoperta, il Guerriero di Capestrano ha suscitato grandi discussioni

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sulla cultura artistica che lo ha prodotto e sulla sua dipendenza (o indipendenza) dalle altre esperienze artistiche dell’Italia e del Mediterraneo. Studi recenti hanno messo in evidenza come la scultura dell’area medioadriatica, che ha un solido precedente protostorico nelle statue stele della Daunia nel Nord della Puglia, abbia recepito precocemente l’impulso della statuaria monumentale di tradizione orientale, approdata in Etruria nella prima età orientalizzante, ma rimasta lí poco produttiva. La trasformazione delle prime statue stele, aniconiche o con la figura umana appena abbozzata, in vere e proprie sculture monumentali ha seguito una sua evoluzione interna, attestata da opere eccezionali, come la stele di Guardiagrele, la testa di Numana, il torso di Atessa, il Guerriero e la Dama di Capestrano.

Come un alter ego? Diverse ipotesi sono state avanzate per la funzione del Guerriero, dal momento che si è fin da subito dubitato della pertinenza alle tombe scavate nella necropoli, giudicate troppo povere per collegarle a un segnacolo cosí ricco. Ma, come oggi sappiamo, la ricchezza dei corredi funerari non dipende solo dalle disponibilità economiche del defunto, quanto piuttosto dal rituale funerario e dalle consuetudini sociali, che a volte (come nel caso di Roma in epoca tardo-arcaica) rifuggono da manifestazioni di lusso nelle sepolture. Vale la pena però di ricordare la proposta avanzata a suo tempo da Silvio Ferri, seguito da Louise Holland, che il Guerriero fosse stato inteso come un’immagine sostitutiva da seppellire al posto di una persona viva. Un passo di Livio, infatti, ci informa della pratica della


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Guerriero di Capestrano • Definizione Scultura funeraria in pietra a tutto tondo • Cronologia Secondo quarto del VI secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Capestrano (L’Aquila) • Luogo di conservazione Chieti, Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo • Identikit Capolavoro della scultura italica arcaica

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A sinistra dischi corazza in bronzo (in alto) dalla necropoli di Alfedena (L’Aquila), associati alla loro ricostruzione grafica, analoga a quella della statua. Al centro particolare della statua con l’iscrizione incisa sul pilastrino sinistro. Nella pagina accanto ricostruzione grafica dell’equipaggiamento di un guerriero ernico o volsco, simile all’armatura del Guerriero.

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GUERRIERO DI CAPESTRANO

devotio, per cui un comandante militare che temesse la sconfitta, invocava solennemente sopra di sé gli dèi inferi e prometteva di portare le schiere nemiche con lui nella morte. Avendo fatto questo giuramento stando in piedi sopra una lancia, si gettava come un ossesso contro l’esercito nemico, provocando scompiglio dovunque andasse, poiché i suoi avversari temevano di ucciderlo, per non incorrere nella maledizione. In questo modo egli forniva un valido aiuto ai propri soldati, che potevano facilmente aver la meglio sui nemici atterriti. Livio racconta il rituale in relazione alla battaglia di Sentino del 295 a.C., quando il console Publio Decio Mure si immolò in questo modo; ma aggiunge anche le norme imposte dalla legge sacra nell’eventualità (improbabile) in cui il comandante non morisse nella battaglia. In tale caso, dice Livio, «occorre seppellire in terra una statua alta sette piedi (207 cm circa) o piú e offrire un sacrificio; al magistrato romano non era lecito andare nel luogo in cui la statua era sepolta».

Esposizione «eroica» Contro tale ipotesi, indubbiamente suggestiva e apparentemente avvalorata dalla coincidenza dell’altezza della statua, sta la difficoltà di spiegare l’analogo torso femminile trovato insieme al Guerriero, e l’esistenza di numerose altre statue simili o almeno paragonabili nelle regioni vicine, della cui natura funeraria non si può dubitare. Inoltre, la posa rigida della figura, tenuta in verticale apparentemente dalle due lance, materializzate nella scultura dai pilastrini di sostegno, sembra alludere all’esposizione «eroica» di un defunto in armi, dritto in piedi, come racconta Polibio per i funerali degli uomini illustri. E la stessa maschera, se di questo si tratta, è piú adatta a coprire il volto di un defunto che non per una celata militare (che, come abbiamo detto, è senza confronti). A tale riguardo, vale la pena di avanzare un’ulteriore ipotesi, prendendo spunto dal medesimo passo di Polibio a proposito dei funerali romani. Dice infatti lo storico che a

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Roma era d’uso conservare un’immagine delle fattezze del defunto, da custodire in casa come oggetto sacro e da esibire, in seguito, in occasione dei funerali solenni, montata su un busto rivestito come se fosse una persona viva, a memoria degli antenati della famiglia.

Le maschere funerarie La realizzazione di tali maschere – dette in latino imagines maiorum – faceva parte della cerimonia di sepoltura: perché non immaginare che il Guerriero di Capestrano


In alto frammento della statua femminile denominata Dama di Capestrano. Seconda metà del IV sec. a.C. Chieti, Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo-Villa Frigerj. Nella pagina accanto particolare del dorso del Guerriero di Capestrano che mette in evidenza l’allaccio del disco corazza.

indossi proprio una maschera (forse di cera) ricavata dal calco del suo viso? La statua in questo modo sarebbe servita a immortalare la cosiddetta prothesis, ovvero l’esposizione del defunto con le sue insegne di rango in occasione del funerale solenne. D’altronde, non sono molto diverse le maschere isolate che decorano la sommità di due delle stele di Penna Sant’Andrea al principio del V secolo a.C. e che potrebbero anch’esse alludere alla pratica di conservare le imagines maiorum.

Una dedica misteriosa Da ultimo resta da commentare un altro preziosissimo dato che fa del Guerriero di Capestrano un monumento di valore inestimabile. Si tratta di una lunga iscrizione nell’alfabeto definito convenzionalmente sudpiceno e nella arcaica lingua italica definita, anch’essa per convenzione, come paleosabellico. Il testo corre in una sola riga dal basso verso l’alto, lungo la faccia anteriore del pilastrino di sinistra ed è possibile leggerla quasi interamente, nonostante i danni subiti dalla superficie: «ma kuprí koram opsút aninis rakine×í× pomp[---(--)]×». Le difficoltà principali si incontrano nella sesta sequenza di lettere, letta da Adriano La Regina come raki nevíi, da tradurre «per il re Nevio», e da Alberto Calderini e Sergio Neri come rakinelís, da interpretare come un nome gentilizio al momento privo di confronti. Altre difficoltà riguardano la comprensione

generale del testo, sul quale gli studiosi non concordano. Nella prima parte dell’iscrizione, meglio comprensibile, si legge il verbo opsút, traducibile come «fece»: il testo è stato perciò interpretato da alcuni come la firma di un artista di nome aninis (o anis, con errore di trascrizione), che avrebbe dedicato la sua opera a un personaggio di alto rango. Ma è piú probabile che Aninis sia il nome del committente, che «fece fare» e quindi donò la stele funeraria a Pompone (se cosí va integrato il nome finale) in quanto suo erede a capo della comunità e quindi, presumibilmente, suo figlio, cosa che spiegherebbe l’assenza di un secondo gentilizio e che troverebbe confronto nelle iscrizioni di alcune stele funerarie etrusche di poco piú antiche. Il Guerriero di Capestrano si può oggi ammirare a Chieti, nel Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo di Villa Frigerj, assieme alla Dama e ad altri straordinari esempi della scultura di area medio-adriatica. Situata al piano terra dell’edificio, la sala che ospita il capolavoro è stata riallestita nel 2010 da Mimmo Paladino, artista contemporaneo aderente alla Transavanguardia. Il Guerriero è collocato in posizione isolata, al di fuori del tempo e dello spazio, in una sala rotonda e imbiancata, in cui un gioco di luci e ombre la pone al centro dell’attenzione, nell’intento di educare il gusto artistico dello spettatore attraverso la sottolineatura delle forme e delle geometrie.

PER SAPERNE DI PIÚ • Armando Cherici, Armi e società nel Piceno, con una premessa di metodo e una nota sul Guerriero di Capestrano, in I Piceni e l’Italia medio-adriatica (Atti del XXII Convegno di Studi Etruschi e Italici, 2000), Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2003; pp. 521-531 • Maria Ruggeri (a cura di), Guerrieri e re dell’Abruzzo antico, Carsa Edizioni, Ascoli Piceno 2007. • Marco Buonocore, Luisa Franchi Dell’Orto, Adriano La Regina, Pinna Vestinorum e il popolo dei Vestini, I, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2011

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SARCOFAGO DEGLI SPOSI

UN

ABBRACCIO PER L’ETERNITÀ

UNO DEI MONUMENTI PIÚ FAMOSI DELL’ARTE PREROMANA, IL SARCOFAGO DEGLI SPOSI, NON È SOLO L’ESPRESSIONE SUBLIME DI UNA BOTTEGA DI ARTIGIANI DI CERVETERI. LA COMPOSIZIONE, INFATTI, È ANCHE UNA SORTA DI MANIFESTO DELLA VISIONE PARITARIA SVILUPPATA DALLA CIVILTÀ ETRUSCA, CHE ALLA DONNA ASSEGNAVA UN RUOLO PUBBLICO DI GRANDE RILEVANZA

I

l Sarcofago degli Sposi è uno dei monumenti piú famosi dell’arte dell’Italia preromana, divenuto un simbolo del lusso e della raffinatezza degli Etruschi, ma anche del ruolo speciale che la donna ricopriva nella loro società (vedi box a p. 66). Gli appassionati di archeologia lo conoscono bene, ma forse non tutti sanno che sono due i monumenti cosí denominati: uno è conservato a Roma, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia; l’altro è invece custodito a Parigi, nel

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Museo del Louvre. Entrambi i capolavori vengono dall’antica Caere (Cerveteri) e sono stati prodotti dalla stessa officina di plasticatori, che operava nella metropoli etrusca nella seconda metà del VI secolo a.C. E nel Museo Nazionale Archeologico Cerite di Cerveteri e ancora una volta al Louvre sono esposte versioni di dimensioni ridotte dello stesso soggetto, generalmente ricordate come Urne degli Sposi: si tratta, probabilmente, di imitazioni o riduzioni realizzate dalla stessa


Il Sarcofago degli Sposi, grande urna in terracotta per le ceneri dei defunti in forma di letto ospitante una coppia banchettante, da Cerveteri. 530-520 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. L’opera, rinvenuta in oltre 400 frammenti nel 1881, nella necropoli della Banditaccia, fu ricomposta ed esposta per la prima volta nel 1889 nell’allora neonato museo romano.

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SARCOFAGO DEGLI SPOSI

bottega, uno o due decenni piú tardi. Per essere precisi, anche i manufatti di maggiori dimensioni di Villa Giulia e del Louvre sono «urne»: anch’essi, infatti, erano destinati a contenere le ceneri e le ossa dei defunti dopo un rito di cremazione, e non già i corpi interi, come si addice ai veri sarcofagi. D’altra parte, sarcofagi e altre urne cinerarie «degli Sposi» furono prodotti anche in seguito in Etruria, fino all’epoca della romanizzazione, a testimonianza del successo dell’idea di offrire un tributo alla memoria dell’amore coniugale. Il Sarcofago degli Sposi non è dunque un sarcofago, bensí un’urna cineraria (o, tutt’al piú, un ossuario), e non si tratta di un capolavoro dell’arte etrusca, ma di ben quattro capolavori diversi, conservati in tre musei differenti.

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Sulle due pagine due immagini del Sarcofago degli Sposi di Villa Giulia che permettono di apprezzare l’acconciatura dei coniugi, che, nel caso della donna, è arricchita dal tutulus, un copricapo a cuffia.

Una volta fatta chiarezza su questi possibili equivoci, passiamo a parlare del soggetto del nostro primo incontro.

La scoperta Come si è accennato, i tre cinerari arcaici di terracotta raffiguranti aristocratiche coppie di sposi sono stati ritrovati nelle necropoli di Cerveteri. L’esemplare oggi conservato al Louvre fu il primo a tornare alla luce, nel corso delle fortunate campagne di scavo condotte dal marchese Giovanni Pietro Campana nell’inverno del 1847-48. Oltre all’urna, infatti, gli scavi restituirono una serie di splendide lastre dipinte, ancora oggi note come «lastre Campana», e portarono alla localizzazione della celeberrima Tomba dei Rilievi, che conferma come il teatro delle scoperte fosse la necropoli della Banditaccia, la maggiore di Cerveteri. Nonostante l’impegno politico e finanziario, il marchese Campana, attivo prima di tutto come banchiere nella Roma pontificia, non frenò la sua passione per le antichità etrusche neppure di fronte alle preoccupanti notizie dei moti


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Sarcofago degli Sposi • Definizione Contenitore in terracotta per le ceneri dei defunti configurato a forma di letto ospitante una coppia banchettante • Cronologia 530-520 a.C. • Luogo di ritrovamento Cerveteri (Etruria) • Luogo Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia di conservazione Parigi, Museo del Louvre; Cerveteri, Museo Archeologico Nazionale Cerite • Identikit Simbolo di lusso, d’arte e dei rapporti tra i sessi

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SARCOFAGO DEGLI SPOSI

rivoluzionari del 1848 (anche se forse si deve a essi il ritardo nel dare notizia delle scoperte, che ancora oggi presentano qualche lato oscuro). Alcuni decenni piú tardi, nel 1881, all’indomani dell’Unità d’Italia, i fratelli Boccanera, anch’essi famosi scavatori delle necropoli ceretane, portarono alla luce un secondo Sarcofago degli Sposi, quello che oggi si trova a Villa Giulia, entro una tomba non meglio identificata della Banditaccia, in un terreno di proprietà dei principi Ruspoli.

Un’intuizione felice Il manufatto era frammentato in piú di 400 parti, che ne impedivano l’immediata valutazione artistica, com’era stato, invece, per il piú famoso gemello, ritrovato quasi intero e con i ricchi colori conservati. Poco tempo dopo, Felice Barnabei acquistò i frammenti per il neonato Museo di Villa Giulia – che aprí i battenti nel 1889 su sua iniziativa –, e li fece restaurare, rivelando la qualità addirittura piú alta del modellato e delle superfici, anche se la policromia è andata quasi del tutto perduta. Infine, sempre dalla necropoli della Banditaccia proviene l’urna del museo di Cerveteri che, coerentemente con le minori dimensioni, apparteneva al corredo di una tomba a cassone scoperta presso la cosiddetta via delle Serpi (presumibilmente in un contesto aristocratico di minore sfarzo). La fama di questa classe di monumenti cominciò a diffondersi nel 1862, con una memorabile esposizione di antichità etrusche voluta da Napoleone III e installata nell’allora modernissimo Palais de l’Industrie agli Champs Elisées di Parigi, dove il Sarcofago degli Sposi

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che poi finí al Louvre costituiva il centro focale della mostra, con il soprannome di «Sarcofago Lidio», che alludeva all’aspetto orientale delle sculture. Tutto il materiale allora esposto proveniva dalla collezione del marchese Campana, espropriata e venduta all’estero in seguito ad alcune torbide vicende giudiziarie che lo avevano visto protagonista a Roma. Secondo il gusto del tempo, il prezioso monumento era stato inserito al centro della ricostruzione ideale di una tomba etrusca. Ciononostante, l’esposizione temporanea e il successivo trasferimento della collezione al Louvre garantirono una fama imperitura al Sarcofago degli Sposi, trasformatosi in un simbolo internazionale del fascino e dell’opulenza degli Etruschi, che aggiungeva un tocco esotico, «orientale» al mistero della loro origine (ai tempi furono perfino proposti paragoni con l’arte

Particolare del Sarcofago degli Sposi conservato nel Museo del Louvre. Rispetto all’esemplare di Villa Giulia, si nota il piú ampio uso della pittura, espediente adottato per sopperire alla semplificazione del modellato.


Influenze ioniche

P

er impegno e qualità, l’urna maggiore di Villa Giulia va probabilmente considerata come la «testa di serie» di questa raffinata classe di monumenti, seguita a stretto giro dalla gemella del Louvre, che pure alcuni ritengono formalmente superiore. Le figure umane appaiono massicce e squadrate, nonostante i corpi allungati e l’aggraziato movimento delle dita affusolate. La scultura è costruita per essere osservata da vari punti di vista, mettendo in evidenza i diversi piani dei gesti della coppia; il maggiore impegno artistico è stato profuso nei volti, la cui espressività e vitalità appaiono evidenti sia nella visione frontale che di profilo, grazie all’ambivalenza degli occhi a mandorla e del taglio obliquo delle labbra (il cosiddetto «sorriso arcaico»). I maestri etruschi cimentatisi con l’urna hanno tratto ispirazione dall’arte greca ionica, la cui influenza si fa sentire prepotentemente nell’ultima parte del VI secolo a.C., in seguito alla migrazione di numerosi artigiani dall’Asia Minore. Dalla scuola ionica derivano infatti le movenze ricercate ed eleganti, cosí come il gusto della linea e dei tagli netti e incisivi, sia nelle figure che nei dettagli calligrafici del panneggio e delle acconciature. Minore attenzione è stata prestata ai corpi e alle gambe della coppia banchettante, ridotti a un semplice volume sotto le pieghe ondulate del mantello, fatta salva la cura con la quale sono stati modellati i piedi.

Una delle lastre in terracotta policroma dette «Campana», perché rinvenute dall’omonimo marchese in occasione degli scavi che portarono alla scoperta del Sarcofago degli Sposi. Fine del VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

cinese, suggeriti dagli occhi a mandorla e dalle forme allungate e affilate delle figure umane).

Prodotti «gemelli» Le due urne maggiori di Villa Giulia e del Louvre sono state considerate a ragione prodotti gemelli della stessa officina, probabilmente realizzati in uno stesso breve lasso di tempo da artigiani altamente specializzati per committenti aristocratici. Qui ne offriamo perciò una descrizione unica, e ci soffermeremo in seguito sulle differenze, per

poi passare alle urne di minori dimensioni. Data la loro funzione di contenitori per le ceneri, le urne sono composte di una cassa e di un coperchio: la prima è configurata a forma di letto conviviale, con piedi e traverse decorate a imitazione del legno e un materasso arrotondato, che deborda oltre le testate. Il coperchio, invece, è costituito dalle statue a grandezza naturale di una coppia sdraiata e appoggiata su cuscini rigonfi, raffigurata al momento di un banchetto. Le grandi dimensioni dei manufatti hanno obbligato gli

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SARCOFAGO DEGLI SPOSI

La «scandalosa» liberalità del convivio etrusco

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a consuetudine sociale del banchetto sdraiato giunse in Etruria dal Vicino Oriente, insieme ad altre componenti del fenomeno culturale orientalizzante, che, tra l’VIII e il VI secolo a.C., trasformò lo stile di vita e la cultura del Mediterraneo. La cerimonia del simposio rappresentava il culmine delle relazioni tra le aristocrazie, costituendo, al tempo stesso, un momento di accoglienza e condivisione all’insegna dell’ospitalità: una parte fondamentale del vivere civile, soprattutto per quanto riguardava visitatori stranieri o provenienti da altre famiglie di rango. La rappresentazione della coppia coniugale in un momento sociale di tale importanza è un tratto tipicamente etrusco, che forma uno stridente contrasto con l’uso greco di riservare ai soli uomini la convivialità e l’attività pubblica, condiviso da molti popoli dell’antichità. Gli autori antichi si stupivano della promiscuità con cui le donne etrusche banchettavano al fianco degli uomini (cosa che nella Grecia classica era consentita solamente alle prostitute) e il filosofo Aristotele sembra quasi alludere alle nostre urne quando afferma che «i Tirreni banchettano al fianco delle proprie mogli, sdraiati sotto la stessa coperta». La nonchalance con cui il marito circonda le spalle della moglie, in una manifestazione pubblica di affetto che avrebbe fatto inorridire un osservatore greco, la dice lunga sul fatto che presso gli Etruschi la concordia coniugale era considerata un vanto, da immortalare anche nelle rappresentazioni funerarie.

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Nella pagina accanto una delle versioni in scala ridotta del Sarcofago degli Sposi. Seconda metà del VI sec. a.C. Cerveteri, Museo Archeologico Nazionale Cerite. In basso particolare di un cratere corinzio con Eracle (a destra) accolto a banchetto da Eurito, da Cerveteri. 600 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

artisti a tagliare in lunghezza sia la cassa che il coperchio, per facilitarne la cottura in una fornace da terracotta. Il gruppo scultoreo, che evidentemente rappresentava i coniugi sepolti nell’urna, è colto in un momento di vita domestica, durante un banchetto o un simposio, simile a quelli che si svolgevano abitualmente nella vita delle antiche aristocrazie italiane e che costituivano il momento piú importante dell’incontro sociale. Riesce facile immaginare che i due coniugi stiano intrattenendo una conversazione con altri partecipanti al convivio, nel quale l’osservatore è idealmente accolto, in una sorta di anticipazione della vita beata dell’aldilà. I coniugi sono semisdraiati, con il gomito sinistro appoggiato a morbidi cuscini adagiati presso la testata del letto e il busto sollevato; il marito cinge con il braccio le spalle della moglie ed entrambi sembrano sorridere verso lo spettatore. Le mani dell’uomo e della donna sono atteggiate a sostenere alcuni oggetti, oggi purtroppo perduti in entrambi gli esemplari: si trattava probabimente di vasi e vivande, come si osserva nelle coeve rappresentazioni pittoriche di banchetti. Il confronto con l’urna piú piccola del Louvre, in cui sono conservati i dettagli, permette di ipotizzare che la donna avesse nella destra un balsamario, dal quale versava gocce di olio profumato, mentre la sinistra porgeva una melagrana, simbolo di immortalità. È interessante rilevare le differenze

nell’abbigliamento: l’uomo è a torso nudo e con il resto del corpo coperto da un mantello, che avvolge anche le gambe della compagna, la quale è invece vestita di tutto punto, con tunica e mantello e un copricapo a cuffia (tutulus), da cui spuntano trecce lunghe ed elaborate. I piedi del marito sono nudi, mentre la moglie indossa le tipiche scarpe dalla punta arricciata all’insú che prendono il nome latino di calcei repandi.

Il «vero» capolavoro La scultura era dipinta a colori vivaci, nei toni del rosso per i ricchi vestiti e bruno per i capelli, mentre, secondo la tradizione, l’incarnato femminile era candido e quello maschile piú scuro. Come si è detto, tale policromia si è conservata meglio nell’esemplare parigino. Ulteriori differenze si hanno, per esempio, nella forma della barba dell’uomo, piú lunga e appuntita nell’esemplare di Villa Giulia, e nella posizione della testa, piú sollevata e quasi «distratta» nell’esemplare del Louvre. Anche i dettagli delle acconciature e le pieghe dei vestiti sono piú elaborati e raffinati nell’urna di Villa Giulia, che pertanto può essere considerata il vero capolavoro dell’officina, mentre in quella parigina si è fatto un uso piú ampio della pittura, per sopperire alla semplificazione del modellato. Come si conviene a monumenti meno impegnativi, nelle urne minori del Louvre e del Museo di Cerveteri, oltre alle dimensioni, anche la ricercatezza dei dettagli è ridotta: la cassa, piú sottile e leggera, ha zampe piú lunghe, e l’uomo, che in questi esemplari è imberbe, si appoggia semplicemente con la mano sulla spalla della donna.

PER SAPERNE DI PIÚ • Anna Maria Sgubini Moretti (a cura di), Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Guida breve, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2010 • Gli Etruschi e il Mediterraneo. La città di Cerveteri, catalogo della mostra (Lens-Roma, 2014), Somogy-Editions d’Art, Parigi 2014

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IL GOLPE SULL’OLPE SCENE DI CACCIA E DI GUERRA, EROI, SIMBOLI E MITOLOGIA: È UNA VERA E PROPRIA «CRONACA ILLUSTRATA» QUELLA CHE ORNA IL PIÚ CELEBRE VASO GRECO TROVATO IN ETRURIA

E

ra il 20 gennaio del 1882, quando il principe don Mario Chigi Albani della Rovere ricevette una lettera da Pio Gui, Ministro della sua casa, inviato a prendere provvedimenti per fermare il trafugamento di reperti archeologici trovati nei sepolcri appena scoperti sulla vetta del Monte Aguzzo, nella campagna di Formello. «I scavi – scriveva il dipendente – furono fatti

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da Lorenzo Marini figlio di Andrea, non credo troppo accidentalmente e per trovar pozzolana come essi asseriscono». Evidentemente Gui sospettava di trovarsi di fronte a un gruppo organizzato di «tombaroli», che avevano ottenuto licenza per aprire una cava sulla sommità della collina e avevano poi proceduto a «svaligiare» un antico sepolcro lí ritrovato. Il sospetto non venne mai confermato e il

Scena di battaglia tra due schiere di opliti, una delle quali accompagnata da un flautista, particolare del fregio superiore dell’Olpe Chigi, rinvenuta nel 1882 all’interno del


Tumulo Chigi, nella campagna di Formello (Roma), non lontano dall’area della città etrusca di Veio. 650-640 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Marini, trattenuto dalla forza pubblica, fu presto rilasciato, anche perché considerato persona al di sopra dei sospetti in quanto vicesindaco di Formello. In ogni caso, prima che il padrone del terreno venisse a sapere della scoperta e inviasse un proprio incaricato a fermare gli scavi illeciti, una parte dei ritrovamenti aveva già preso il volo, per non essere mai piú rintracciata.

Il che dovette presumibilmente destare il disappunto del principe: all’epoca, infatti, la legge di tutela attribuiva il possesso dei reperti archeologici al proprietario del terreno in cui erano stati ritrovati. Per procedere nel modo migliore, don Mario decise di rivolgersi a un celebre scavatore dei suoi tempi: Rodolfo Lanciani (1845-1929), astro nascente dell’archeologia romana, il quale, all’epoca dei

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OLPE CHIGI

fatti, era stato appena nominato professore straordinario di topografia antica all’Università di Roma e, già da alcuni anni, aveva effettuato scavi sul Palatino e nel Foro Romano. Purtroppo, alla meritata fama si accompagnavano impegni di lavoro altrettanto gravosi, per cui Lanciani poté essere presente di persona sugli scavi solo sporadicamente e fu affiancato da un brillante allievo della Scuola di Archeologia di Roma, Gherardo Ghirardini. Fu presto chiaro che la tomba scoperta era una sola, con tre camere aperte a croce su un lungo corridoio d’accesso: le due camere

In questa pagina la faccia dell’Olpe Chigi con una scena di «parata», alla quale partecipano cavalli condotti a coppie da quattro scudieri. Nella pagina accanto l’altra faccia del vaso, con una caccia al leone.

minori erano purtroppo state saccheggiate sia dai sedicenti cavatori di pozzolana, sia già nella tarda antichità, come prova un piattello ellenistico utilizzato come lucerna e marchiato con un simbolo cristiano. La camera principale, invece, era stata risparmiata dai saccheggi a causa del crollo della volta, che aveva frantumato tutti gli oggetti del corredo funerario: «Onde non vi si raccolse che un numero grandissimo di frammenti», scrive Ghirardini, «ed un solo vaso di bucchero intero, che è anche per buona sorte il piú prezioso di tutti per le iscrizioni che vi sono graffite intorno».

Un vaso «perfetto» Nonostante la preferenza accordata al vaso iscritto, Ghirardini sottolinea che, tra tanti frammenti, spiccavano alcuni vasi corinzi, dei quali «sembra che uno soltanto fosse fregiato di rappresentazioni figurate (…) ricostruito per circa due terzi»: è l’Olpe Chigi, che nel suo resoconto di scavo Lanciani non esita a definire «uno dei piú belli, dei piú perfetti, dei piú importanti trovati in territorio etrusco». L’Olpe (che ha preso il nome del suo primo proprietario) è una piccola brocca da vino con imboccatura rotonda, decorata con pitture policrome nello stile definito proto-corinzio medio, databile intorno alla metà del VII secolo a.C. L’intera superficie esterna è divisa in fasce orizzontali figurate, completate in alto da una decorazione geometrica vegetale dipinta in bianco e in basso da punte attorno al piede. Il vaso è eccezionale per molti aspetti, trattandosi probabilmente di uno dei piú antichi esemplari di questa forma ceramica, di una precoce applicazione artistica della tecnica policroma, e di un prezioso repertorio miniaturistico di scene figurate. La fascia inferiore, di dimensioni minori, ospita una vivace caccia alla lepre e alla volpe, nella quale sono impegnati alcuni giovani efebi accompagnati dai cani in un ambiente selvatico. Subito al di sopra, il fregio maggiore comprende una sfilata di cavalli condotti a coppie da quattro scudieri, che seguono un

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CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Olpe Chigi • Definizione Brocca con decorazione dipinta policroma, capolavoro della ceramica proto-corinzia • Cronologia 650-640 a.C. • Luogo di ritrovamento Veio (Etruria), Tumulo Chigi • Luogo di conservazione Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia • Identikit Simbolo di lusso, d’arte e di storia, offerto come dono di ospitalità

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SICILIA

La caccia al leone raffigurata nella fascia centrale dell’Olpe Chigi. Vi prendono parte cinque uomini, uno dei quali giace ferito tra le fauci della belva. La scena è una probabile evocazione della lotta condotta a Corinto (luogo di produzione del vaso) dagli aristocratici bacchiadi contro il tiranno Cipselo.

carro, guidato da un auriga e preceduto da un servitore. Punto d’arrivo della «parata» è una sfinge bicorpore (ovvero due sfingi con una sola testa), il cui sguardo è rivolto verso l’osservatore; al di là del mostro, la scena torna ad animarsi con una concitata caccia al leone, alla quale partecipano cinque uomini, uno dei quali giace ferito sotto le fauci della belva, mentre un altro, in nudità eroica, si accinge a concludere lo scontro con un colpo di lancia.

Il giudizio e la battaglia Allo stesso livello, subito sotto l’ansa del vaso, si trova una rarissima rappresentazione mitologica del giudizio di Paride, corredata di iscrizioni in greco che identificano i personaggi: lo stesso Paride (con il nome di Alessandro), Ermes (di cui resta solo il caduceo) e le tre dee Era, Atena e Afrodite. Una stretta fascia nera bordata di rosso ospita un fregio di animali, in cui si riconoscono cani lanciati all’inseguimento di cervi e di una

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lepre. Piú in alto, un secondo grande fregio raffigura una grandiosa battaglia di opposte schiere di opliti, rappresentate nel momento immediatamente precedente allo scontro, quando i soldati, lanciati in corsa, brandiscono le lance proteggendosi con scudi rotondi variamente decorati. Una delle schiere comprende un flautista, che scandisce con la musica il ritmo della marcia, mentre all’estrema sinistra, due opliti si stanno ancora preparando per la battaglia. L’Olpe Chigi è unanimemente considerata un capolavoro della pittura vascolare greca e, come abbiamo detto, assomma in sé un discreto numero di «prime volte»: anche le didascalie della scena mitologica sono uno dei piú antichi esempi conosciuti, e ha creato non poco imbarazzo agli studiosi constatare che non siano state scritte secondo l’alfabeto corinzio, ma con una diversa scrittura greca. La scoperta di alcuni resti di pitture parietali greche di scala monumentale, ritrovati presso il


santuario di Apollo ad Abai, presso Kalapodi nella moderna Beozia, ha riaperto il discorso sui rapporti tra la grande pittura e la ceramografia nell’epoca piú antica. I pochi frammenti dell’affresco, una volta restaurati, hanno infatti mostrato una scena di battaglia tra schiere di opliti che coincide in modo sorprendente con la rappresentazione del fregio superiore dell’Olpe Chigi.

Una questione aperta Gli studiosi si sono cosí schierati su due fronti, a seconda che ritengano la pittura vascolare un prodotto artistico in qualche misura secondario, influenzato dalla fama delle opere maggiori, ovvero che suppongano un rapporto paritario tra le diverse arti – all’epoca non chiaramente differenziate nel sentire comune – o che, addirittura, gli stessi artisti potessero spostarsi agevolmente da un’arte all’altra, oggi producendo un grande affresco e domani dedicandosi a un piccolo vaso. La questione resta aperta, ma non va dimenticato che, in realtà, noi possediamo solo un minuscolo numero di resti delle pitture di medio e grande formato che gli autori antichi ci dicono essere state una delle maggiori attrattive dell’arte greca; né possiamo sperare che la quantità venga aumentata sensibilmente grazie a scavi futuri, data la deperibilità dei supporti (legno e intonaci) e la mancanza di una tradizione di dipingere le pareti di camere sepolte (come per esempio nelle tombe etrusche o egiziane). Perciò, mentre i vasi sono ben conservati e ci permettono di seguire le tappe dello sviluppo artistico nel corso dei secoli, per la grande pittura abbiamo solo una pallida eco del lavoro di generazioni di artisti, dei quali spesso conosciamo il nome grazie alla letteratura, ma non possediamo neanche un originale per farci un’idea della loro arte.

Il valore dell’Olpe Chigi, però, non si esaurisce nell’indubbio pregio artistico: il vaso, infatti, è un documento diretto di un momento cruciale della storia arcaica di Corinto. Attorno alla metà del VII secolo (e piú precisamente nel 657 a.C., secondo la cronologia tradizionale dello storico Diodoro Siculo), a Corinto aveva avuto luogo un colpo di Stato per opera del tiranno Cipselo, con la conseguente cacciata dalla città della dinastia aristocratica dei Bacchiadi, che aveva regnato fino ad allora. Considerando il contesto simbolico eroico e mitologico delle scene rappresentate sull’Olpe, risulta dunque di una certa importanza comprendere se il vaso sia stato prodotto prima o dopo il cambiamento

Lebete in ceramica etrusco-corinzia proveniente dal Tumulo Chigi. Orientalizzante Recente, fine VII-inizi VI sec. a.C. Formello, Museo dell’Agro Veientano.

Ritorno a Formello

L’

Olpe Chigi fa oggi bella mostra di sé a Roma, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Qui, continuando un’associazione che dura da quasi 2700 anni, divide la vetrina con l’altro prezioso vaso proveniente dal Tumulo Chigi, letteralmente coperto di iscrizioni etrusche. Il resto dei materiali rinvenuti all’interno del monumento funerario è invece tornato a Formello (la cittadina nei pressi della quale si estende l’area della città etrusca di Veio), nel Museo dell’Agro Veientano, ospitato nella storica sede del Palazzo Chigi: l’antica dimora del primo proprietario della collezione.

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OLPE CHIGI

politico di Corinto. La rappresentazione di una guerra di opliti nel fregio superiore e l’eroica caccia al leone del fregio principale potrebbero essere, infatti, scoperte allusioni alla difficile situazione storica della città e agli scontri che dovettero senz’altro accompagnare l’ascesa del nuovo tiranno.

Le parole dell’oracolo Una lunga tradizione di studi ha dibattuto su questi argomenti ed è stata arricchita da un fondamentale saggio di Matteo D’Acunto, che riassume l’intera situazione, raccogliendo dati da ogni fonte di informazione disponibile, e restituisce finalmente l’Olpe al suo contesto storico-artistico, sociale e culturale. Grazie a questo prezioso lavoro è ora finalmente chiaro che il vaso si riferisce agli ideali aristocratici dei Bacchiadi, proprio nell’epoca in cui essi si opponevano al «golpe» di Cipselo. Prezioso in tal senso è il testo di un

oracolo, riportato dallo storico greco Erodoto, che preannunciava l’avvento del tiranno con queste parole: «Un’aquila è incinta fra le rocce, ma partorirà un leone forte e feroce. Poi fiaccherà le ginocchia di molti». Sembra evidente che nella propaganda contro Cipselo si era fatto uso della metafora del leone feroce, che coincide proprio con la scena del fregio maggiore dell’Olpe: l’eroe che sta per uccidere la belva è quindi il campione ideale dell’antica aristocrazia, pronto a ripristinare l’ordine. La scena è però inserita in un sistema piú complesso, nel quale ogni fascia decorativa rappresenta un diverso aspetto della società aristocratica: la caccia di efebi nel fregio inferiore si riferisce all’iniziazione dei giovani di alto lignaggio; la caccia al leone, come si è visto, è un’allusione epica al valore del gruppo aristocratico, non a caso giunto sul luogo dello scontro con cavalli, un carro e i servitori; l’ordinato schieramento degli opliti in alto allude all’ordine costituito e, ancora una volta, alla gloria dell’aristocrazia, invincibile quando affronta il nemico unita e compatta, con la protezione reciproca dei pari.

Il dono di un ospite illustre? La scena mitologica del giudizio di Paride, invece, rappresenta i pericoli dell’eros e il cambiamento drastico che il matrimonio provoca nella vita dell’uomo, con l’entrata nell’età adulta: nel mito l’amore di Paride per Elena, conseguenza del suo giudizio, provocherà la distruzione di Troia; la scelta, contraria agli ideali aristocratici, si è ritorta contro lo stesso principe e la sua stirpe. Il programma decorativo dell’Olpe ha quindi anche un valore emblematico e pedagogico: scelte di vita corrette possono portare la gloria, ma i pericoli di morte e distruzione sono sempre in agguato (simboleggiati dalla sfinge e dal volto di gorgone che campeggia sullo scudo di uno degli opliti). Ma perché un vaso cosí prezioso e ricco di simboli si trovava a Veio? Con ogni probabilità si trattava di un dono di ospitalità da parte di un rappresentante dell’aristocrazia Bacchiade a

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Sulle due pagine la rappresentazione del giudizio di Paride sull’Olpe Chigi: sulla sinistra si riconosce lo stesso Paride (qui indicato come Alexandros); sulla destra, Atena (Athanaia) e Afrodite (del cui nome si leggono le prime lettere, Aphro). A sinistra Veio. L’interno del Tumulo Chigi, noto anche come Tumulo di Monte Aguzzo. VII sec. a.C.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

uno dei maggiori notabili della città etrusca, nell’ambito dei rapporti commerciali internazionali testimoniati dai tanti vasi corinzi ritrovati in Etruria. Del resto, vuole la leggenda che proprio in quegli anni Demarato, un membro di spicco della dinastia corinzia, per sfuggire alla tirannide di Cipselo, si fosse rifugiato a Tarquinia, dove sarebbe diventato il padre del futuro re di Roma Tarquinio Prisco. Sull’Olpe Chigi è fiorita un’ampia e ricca serie di studi sin dalla sua prima pubblicazione, su Notizie degli Scavi di Antichità, già nel 1882, a pochi mesi dalla scoperta. L’attualità dell’argomento è resa evidente da alcune importanti pubblicazioni degli ultimi anni, a partire dagli atti di un convegno all’Università di Salerno, che, per la prima volta, hanno messo a confronto con l’Olpe le nuove pitture di Kalapodi. Per l’occasione esperti internazionali di pittura, storia e cultura greca arcaica si sono riuniti, offrendo il proprio contributo per dare un contesto al prezioso cimelio. E a confermare l’interesse mondiale per l’argomento, nel 2013 è arrivato un contributo di Tom Rasmussen, già

docente dell’Università di Manchester. Poco piú tardi è stato dato alle stampe il prezioso volume di Matteo D’Acunto, e infine è stato pubblicato un nuovo volume dedicato all’edizione degli scavi ottocenteschi del Tumulo Chigi, che finalmente restituisce l’Olpe al suo contesto di ritrovamento in Etruria.

PER SAPERNE DI PIÚ • Eliana Mugione (a cura di), L’Olpe Chigi. Storia di un agalma, Atti del Convegno (Salerno, 3-4 giugno 2010), Pandemos, Salerno 2012 • Tom Rasmussen, Paris on the Chigi Vase, in Cedrus I, 2013; pp. 55-64. • Matteo D’Acunto, Il mondo del vaso Chigi. Pittura, guerra e società a Corinto alla metà del VII secolo a.C., De Gruyter, Berlin-Boston 2013 • Laura M. Michetti, Iefke van Kampen (a cura di), Il Tumulo di Monte Aguzzo a Veio e la Collezione Chigi. Ricostruzione del contesto e note sulla formazione della collezione archeologica della famiglia Chigi a Formello, Monumenti Antichi dei Lincei, Roma 2014

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Elmo a calotta e la corazza facenti parte della tomba del «Guerriero di Lanuvio» (descrizione a p. 79). Inizi del V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

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In alto, sulle due pagine Roma, Palazzo dei Conservatori, Sala dei Capitani. Particolare dell’affresco di Tommaso Laureti raffigurante la Vittoria del Lago Regillo. 1587-1594.


L’ULTIMO VIAGGIO DEL

GUERRIERO GLI STRAORDINARI REPERTI RINVENUTI, OTTANT’ANNI FA, NELLA TOMBA DI UN CAPO MILITARE LATINO RIEVOCANO ALCUNI EVENTI FONDAMENTALI PER LA STORIA DI ROMA. E, AL CONTEMPO, TESTIMONIANO DEGLI ANTICHI IDEALI DI PERFEZIONE FISICA E ABILITÀ, TIPICI DELL’EPOCA TARDO-ARCAICA

«A

llo spuntar del giorno Camillo fece la sua comparsa, con le armi che splendevano al sole, alla testa dei Romani che avevano ritrovato il coraggio»: con questa immagine epica lo storico greco Plutarco introduce la riscossa dei Romani contro i Galli di Brenno, che, nel 390 a.C., avevano osato conquistare la loro città (sia pure per un breve periodo). Allo stesso tempo, la descrizione letteraria ci restituisce il valore estetico dell’armatura del soldato romano, capace di incutere timore e rispetto già solo con la sua apparizione. In queste pagine ci occupiamo quindi di armi e armature, prendendo a modello un equipaggiamento piú antico di un secolo rispetto all’episodio di Furio Camillo e Capena

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proveniente da un ambito funerario esterno a Roma, ma inserito nell’universo culturale latino. Ottant’anni fa, nel gennaio del 1934, lavori agricoli condotti nella campagna di Lanuvio, il piú meridionale dei Castelli Romani, portarono alla scoperta casuale di una tomba di eccezionale valore scientifico e documentario, rimasta senza uguali nel panorama delle necropoli del Lazio. Per pura fortuna, lo scasso per la costruzione di una vasca di irrigazione raggiunse, senza danneggiarla, una fossa sepolcrale contenente un sarcofago di peperino. La zona era già nota agli archeologi per la presenza dei resti di una villa romana, ma nessuna testimonianza di necropoli era stata fino ad allora segnalata. Di propria iniziativa gli operai sfondarono la parete della cassa e recuperarono un elmo cesellato di bronzo e una lunga spada ricurva di ferro, che vennero prontamente consegnati alla Soprintendenza. Venne presto eseguito uno scavo archeologico piú accurato, portando alla luce l’intera «camera» tombale: in realtà una fossa trapezoidale di 2 x 2 m, preceduta da una breve rampa o scivolo di terra. Il sarcofago di pietra era accostato presso un angolo della fossa e protetto da un coperchio configurato a forma di tetto a due spioventi. Era evidente che la tomba era rimasta inviolata nei millenni, anche grazie al suo isolamento dalle altre aree di necropoli dell’antica città.

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GUERRIERO DI LANUVIO

Sollevato il coperchio, comparvero i resti di un individuo, la cui età fu stimata in circa 25 anni, per un’altezza di 1,66 m. Ma la caratteristica piú spettacolare, che rende la tomba unica tra le testimonianze funerarie latine arcaiche e di età repubblicana, è l’armatura esibita dal defunto, completa di una corazza (che si aggiunse all’elmo già raccolto) e di un cinturone, di cui rimangono le parti in lamina di bronzo, essendosi il cuoio del tutto deteriorato. La sepoltura di un soldato, insomma: presumibilmente un capo militare; e infatti la scoperta venne presto ricordata con il nome di «Tomba del Milite», poi modificato nel piú moderno «Tomba del Guerriero» di Lanuvio. Tuttavia, a contrastare con questa caratterizzazione militaresca, il resto del corredo conteneva esclusivamente oggetti legati alla palestra e alle attività ginniche, mentre mancavano (coerentemente con gli usi degli antichi Latini) vasi da banchetto e offerte funerarie, cosí comuni nei corredi funerari etruschi della stessa epoca.

Studi e riscoperte Sebbene prontamente e accuratamente pubblicato da don Alberto Galieti, benemerito studioso della storia e archeologia lanuvina, il corredo della Tomba del Guerriero rimase al margine degli studi moderni fino agli anni Settanta e Ottanta del Novecento, quando apparvero contributi di Giovanni Colonna e Carmine Ampolo sulle usanze funerarie dei Latini. Ma una vera «riscoperta», con l’opportuno inquadramento storico dell’eccezionale sepoltura, si deve a Fausto Zevi, che se ne interessò in occasione di due importanti esposizioni del 1990: «La grande Roma dei Tarquini» e «Archeologia a Roma». Lo status eccezionale del personaggio nella Lanuvio dei primi anni del V secolo a.C. (tale è la datazione della tomba) si riflette nella preziosa fattura del suo armamento. La corazza di bronzo, che al momento della scoperta conservava ancora ampi resti delle componenti di cuoio e lino, che la rendevano piú confortevole da indossare, è modellata a

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riprodurre i muscoli massicci del torso, in modo da conferire un aspetto imponente e guerresco. L’elmo di bronzo ha la forma di una calotta, bordata in basso da una corona d’alloro stilizzata, che si immaginava cingere la fronte del guerriero vittorioso. Sul davanti, un rilievo in argento applicato riproduce due occhi spalancati, completi di sopracciglia e dell’attacco del naso; cosa che garantiva al guerriero un’altezza maggiore del vero e un’apparenza «sovrumana». Sulla sommità, due piccoli dragoni a tutto tondo facevano da base per l’attacco del cimiero, oggi perduto, che coronava in alto la figura. Tanto la corazza quanto l’elmo, evidentemente pezzi da parata, che forse non sono mai stati usati realmente in battaglia, sono prodotti di officine etrusche meridionali con ogni probabilità installate a Vulci, dove sono stati trovati i confronti piú vicini per entrambe le componenti dell’armatura. Al contrario il cinturone, con fibbia rotonda e interamente rivestito di borchiette di bronzo, e la lunga spada ricurva (un tipo di sciabola da cavalleria molto diffusa nell’antichità) hanno un’origine picena e potrebbero effettivamente essere stati importati dall’area adriatica. Di maggiore interesse artistico e storico è invece il corredo da palestra, composto da elementi derivanti, in ultima analisi, dalle pratiche sportive greche, basate sull’ideale della perfetta forma fisica dell’ottimo soldato e

Un documento prezioso

Uno degli schizzi eseguiti nel 1934 da don Alberto Galieti durante lo scavo della tomba, allora battezzata «del Milite».


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Tomba del Guerriero di Lanuvio • Definizione Corredo funerario composto da oggetti legati alla guerra e all’atletismo agonistico • Cronologia Inizi del V secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Lanuvio (Colli Albani) • Luogo di conservazione Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, Collezione epigrafica

1. ELMO Un rilievo in argento, sul davanti, riproduce due occhi spalancati.

I TESORI DEL GUERRIERO

5. DISCO Il disco da lancio (vedi alle pp. 80-81), era forse il premio di una gara sportiva.

2. CORAZZA

6. ZAPPA

Il disegno dei muscoli conferisce un aspetto imponente e guerresco.

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La piccola zappa con cui gli atleti preparavano il terreno, cosí da migliorare le proprie prestazioni.

3. FIASCA E STRIGILE

7. CINTURONE

Oggetti riferibili alle pratiche ginniche e sportive.

Con fibbia rotonda e rivestito di borchiette, è di probabile produzione picena.

4. PUNTA DI GIAVELLOTTO Riferibile a un attrezzo che poteva avere un impiego sia sportivo che bellico.

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8. SPADA Del corredo faceva parte una lunga e pesante sciabola, con lama ricurva, a un solo taglio, tipica della cavalleria.

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GUERRIERO DI LANUVIO

cittadino. Due o tre unguentari di alabastro servivano a contenere gli oli profumati con cui gli atleti provvedevano alla cura del corpo. A tale pratica si legano anche i resti di una gabbietta di bronzo con imboccatura a imbuto, che in origine conteneva una sacca di cuoio riempita di sabbia fine e pulita, da usare per detergere la pelle, dopo averla spalmata di olio e prima di raschiarla con lo strigile, di cui sono stati ritrovati nella tomba due esemplari in ferro. Non mancavano una piccola zappa, usata dagli atleti per preparare il terreno prima di procedere agli esercizi ginnici, cosí da migliorare le proprie prestazioni, e due giavellotti, la cui asta lignea era andata perduta, che accanto alla funzione sportiva conservavano quella militare.

Un disco come premio Ma il manufatto piú notevole della tomba è uno splendido disco da lancio in bronzo, finemente decorato a incisione, che forse costituiva il premio di una gara sportiva e va annoverato tra gli oggetti da collezione piú pregiati del Guerriero di Lanuvio. Come in alcuni rari esemplari greci (ma come mai accade nel resto dell’Italia antica), le due facce del disco presentano scene figurate, contornate da una ricca decorazione floreale, di aspetto quasi calligrafico. Su un lato l’incisore ha voluto rappresentare l’azione stessa del lanciatore di disco, ritratto nel momento in cui ha effettuato la torsione del busto e sta per roteare su se stesso per scagliare l’attrezzo. La difficoltà di raffigurare su due dimensioni un rapido movimento circolare nello spazio ha conferito alla figura un aspetto impacciato, in cui le gambe sembrano correre a grandi falcate, mentre il busto è rivolto verso lo spettatore e la testa guarda a destra. Ciononostante, vanno notati l’efficacia compositiva e il coraggio dimostrato dall’artista nel realizzare uno schema di tale difficoltà.

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Foto e restituzione grafica della faccia del disco sulla quale è raffigurato un cavaliere armato, che scende agilmente da un cavallo al galoppo, brandendo una lancia.

Piú facile e sciolto appare il tratto sull’altra faccia del disco, sulla quale è raffigurato un cavaliere armato in modo sorprendentemente simile al Guerriero di Lanuvio (salvo l’aggiunta degli schinieri, di cui nella tomba non si è trovata traccia), che scende agilmente da un cavallo al galoppo, brandendo una lancia. Si trattava di una specialità a un tempo sportiva e militare solo raramente praticata in Grecia, dove fu introdotta piuttosto tardi, piú o meno negli stessi anni della nostra tomba; al contrario, essa ebbe un discreto successo in Italia, a partire dalla Magna Grecia, dove una simile scena era riprodotta negli acroteri di marmo del tempio di Marasà a Locri, ma anche, piú vicino nel tempo e nello spazio, a Veio, dove il santuario di Portonaccio esibisce acroteri angolari con giovani soldati che saltano giú dal cavallo al galoppo. Il corredo della tomba lanuvina e, soprattutto, le figure del disco ci restituiscono l’immagine di un provetto soldato di cavalleria (con ogni probabilità un comandante), che spendeva il proprio tempo libero in esercizi ginnici adatti alla preparazione militare. E, di fatto, nell’antichità l’attività sportiva professionale disgiunta dall’impegno civico e militare non era contemplata. In particolare, l’esercizio di destrezza del cavaliere in grado di saltare in armi dal proprio cavallo lanciato al galoppo è noto nella tradizione latina, dove tali atleti venivano chiamati desultores, letteralmente «coloro che saltano giú».

Giochi per la vittoria La piú antica menzione di tale pratica ginnica a Roma è ricordata dallo storico greco Dionigi d’Alicarnasso in occasione dei giochi del 496 a.C., organizzati per festeggiare la vittoria del lago Regillo, dove i Romani avevano sconfitto i Latini, riuniti in coalizione per riportare al potere il re Tarquinio il Superbo, esiliato dalla città. Narrano gli storici che i combattimenti


prolungati avevano fiaccato la fanteria romana, che stava ormai per cedere terreno ai nemici. Subito il console Aulo Postumio, accortosi del pericolo, ordinò agli ausiliari di cavalleria di scendere da cavallo e prestare soccorso ai loro compagni a piedi. «Essi obbedirono al comando – narra Tito Livio – saltarono giú dai cavalli e volarono fra le prime linee opponendo i propri scudi rotondi a protezione delle postazioni piú avanzate» (antesignani, letteralmente «coloro che stanno davanti alle insegne»). I termini usati da Livio: «saltare giú» e «volare» (desiliunt, provolant) si rivelano quanto mai adatti a descrivere l’immagine trasmessaci dal disco di Lanuvio; e non è un caso che la parola desultor abbia la stessa base etimologica del verbo desilio.

Un aiuto provvidenziale La battaglia del lago Regillo ha anche un pendant mitico, legato all’introduzione del culto dei Dioscuri a Roma e al conseguente voto del tempio i cui resti ancor oggi sorgono nel Foro Romano. La leggenda vuole che il console, di fronte alla difficoltà della battaglia, avesse chiesto l’aiuto dei gemelli divini, promettendo loro di innalzare un tempio in caso di vittoria: subito due cavalieri sconosciuti sarebbero accorsi a guidare le truppe romane, portando scompiglio tra i nemici. Dopo la battaglia nessuno riuscí a rintracciare i provvidenziali alleati, ma proprio in quel momento a Roma essi furono visti abbeverare i propri cavalli alla fonte di Giuturna, nel cuore del Foro Romano, e prima di sparire approfittarono per dare l’annuncio della vittoria in tempo reale. Prima di allora già in Grecia l’intervento dei Dioscuri era stato determinante per alcune vittorie militari; e in particolare una loro apparizione in soccorso dei Locresi durante la battaglia della Sagra è stata posta in relazione con le figure dei cavalieri raffigurati sul tempio di Marasà ai

L’altra faccia del disco, sulla quale si vede il lanciatore, ritratto nel momento in cui ha effettuato la torsione del busto e sta per roteare su se stesso per scagliare l’attrezzo.

quali abbiamo accennato. In questo modo il cerchio miticorituale-storico si chiude, grazie alla ricostruzione presentata da Fausto Zevi in un saggio pubblicato nel 1993. Sebbene privo di iscrizioni, il corredo della Tomba del Guerriero di Lanuvio è oggi esposto nella sezione epigrafica del Museo Nazionale Romano, ospitata nella sede delle Terme di Diocleziano, a Roma, presso la Stazione Termini. Ma la tomba, in effetti, è uno dei contesti archeologici che maggiormente «parlano» al visitatore, raccontando eventi di fondamentale importanza per la storia di Roma e del Lazio e allo stesso tempo trasmettendo gli antichi valori di perfezione fisica e abilità militare che informavano gli ideali dell’epoca tardo-arcaica. Il Guerriero di Lanuvio era forse un comandante latino che aveva combattuto al lago Regillo? Era forse un mercenario, magari etrusco o piceno, vista la provenienza della sua armatura, al servizio della città di Lanuvio? Era semplicemente un grande atleta «professionista», che si distinse nelle gare militari e ginniche piú in voga nella sua epoca e vinse i preziosi elementi del suo equipaggiamento? Non avremo mai la possibilità di indagare piú a fondo la storia individuale di questo personaggio. Ma il ritrovamento della tomba e la conservazione del contesto aprono uno squarcio di luce sulla società dell’Italia centrale nei primi anni della repubblica romana.

PER SAPERNE DI PIÚ • Fausto Zevi, La tomba del Guerriero di Lanuvio, in Spectacles sportifs et scéniques dans le monde étrusco-itqlique, Atti della tavola rotonda (Roma, 3-4 maggio 1991), Collection de l’École Française de Rome 172, Roma 1993; pp. 409-442 • Fausto Zevi, La Tomba del Guerriero, in Terme di Diocleziano. La collezione epigrafica, Electa, Milano 2012; pp. 131-133.

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UNA MAGNIFICA

SCUDELLA... LA TAZZA FARNESE, UNO DEI VANTI DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI, HA UNA STORIA LUNGA, FATTA DI RIPETUTI VIAGGI, FRA ORIENTE E OCCIDENTE, NATI DAL DESIDERIO DI ASSICURARSI IL POSSESSO DI UN MANUFATTO UNICO AL MONDO

G

li scavi, e in particolare quelli condotti a Pompei ed Ercolano a partire dal Settecento, hanno alimentato in maniera decisiva le ricchissime collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, erede del Real Museo Borbonico ufficialmente istituito nel 1816. Eppure, uno degli oggetti di maggior pregio che vi si possono vedere, sebbene sia stato realizzato circa duemilatrecento anni fa, non ha dovuto essere dissepolto, perché, cambiando piú volte proprietario – e collocazione (vedi box e cartina alle pp. 86-87) – è sempre stato visibile e ammirato: è la Tazza Farnese, una coppa in agata sardonica che, con i suoi 21 cm di diametro, è, a oggi, il piú grande vaso inciso in pietra dura giunto fino a noi dal mondo antico. La sua storia ebbe inizio ad Alessandria d’Egitto, dove il manufatto venne realizzato, in piena età ellenistica, per essere destinato alla locale corte. Fin da subito dovette essere particolarmente apprezzato e tenuto in grande considerazione. Ed è ragionevole credere che molto del fascino che sprigionava derivasse, già allora, proprio dal materiale scelto dal suo artefice, l’agata, che, sapientemente lavorato, univa all’equilibrio formale delle scene intagliate spettacolari giochi di trasparenze e

Sulle due pagine particolari della decorazione interna della Tazza Farnese, una pregiata coppa in agata sardonica di epoca ellenistica e oggi conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

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TAZZA FARNESE

riflessi. Giochi resi ancor piú affascinanti dalla duplice «tessitura» della coppa, che presenta due scene diverse: all’interno, sebbene discussa, un’allegoria divina della famiglia regnante di Alessandria e, all’esterno, la testa di una Gorgone (gorgoneion). Questa soluzione è alla base di uno dei molti dibattiti che la Tazza Farnese ha suscitato e continua ad alimentare: proprio per via della sua conformazione, si può escludere che sia stata realmente utilizzata come vaso per bere (anche perché, poggiandola su una superficie piana, ne sarebbe stata danneggiata la decorazione esterna), ma è altrettanto ragionevole ipotizzare

L’interno della Tazza Farnese, nel quale compare una scena interpretata come allegoria divina della famiglia regnante di Alessandria. In basso particolare della testa di Gorgone (gorgoneion) intagliata sulla faccia esterna del manufatto.

che abbia avuto una funzione rituale, che potrebbe comunque aver comportato la mescita di un liquido al suo interno.

Un’allegoria dell’abbondanza? Come accennato, piú complesso, e ancora assai vivo, è il confronto degli studiosi sull’interpretazione della scena che orna l’interno del vaso. Nel tondo, sulla sinistra, domina una figura maschile, seduta, che regge una cornucopia. Dopo di lui, si vede un giovane, che con la mano destra regge il timone di un aratro e con la sinistra cinge l’impugnatura della spada che porta alla vita. Piú in basso, semidistesa su una sfinge, sta una figura femminile con due spighe nella mano destra. Sulla destra, si vedono altre due figure femminili: una solleva una coppa di foggia simile alla stessa Tazza Farnese, mentre l’altra regge anch’essa, come l’uomo maturo, una cornucopia vuota. Completano la scena i due giovani che, in alto, si librano nel vento, uno dei quali è intento a suonare una buccina (uno strumento a fiato che, come in questo caso, veniva in origine ricavato da conchiglie tortili).

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La presenza della sfinge, unitamente al luogo di produzione del manufatto, hanno sempre suggerito la matrice egiziana della rappresentazione, solitamente letta come una rappresentazione allegorica dell’abbondanza di cui l’Egitto poteva godere grazie alle piene del Nilo – che molti identificano con il personaggio barbato – e al concomitante arrivo dei venti etesii, le fresche correnti che raggiungevano da settentrione la terra dei faraoni e che nel rilievo sono impersonate dai due giovani che si librano nella parte superiore del tondo. In questa chiave, la donna sulla sfinge sarebbe Euthenia, personificazione della prosperità (che sarà poi la Abundantia dei Romani), e le due fanciulle altrettante Horai, ovvero personificazioni delle stagioni. Pur rimanendo in ambito egiziano, esiste però anche una lettura in chiave religiosa della scena, riferita al pantheon isiaco. In questo

Veduta d’insieme e particolare della faccia esterna della Tazza Farnese. La presenza di questa decorazione ha indotto a credere che la coppa non sia mai stata realmente utilizzata, poiché, altrimenti, l’intaglio ne sarebbe stato danneggiato.

caso, la donna seduta sarebbe la stessa dea Iside, e la sfinge sottostante andrebbe interpretata come simbolo dei Tolomei. L’uomo maturo sarebbe quindi Osiride-Serapide, dio funerario, ma anche agrario, che presiedeva alla fertilità dei raccolti e il cui culto fu importato ad Alessandria proprio dai Lagidi. Il giovane che gli sta di fronte sarebbe a questo punto il figlio concepito con Iside, Horo-Arpocrate.

Tolomei e Cleopatre Non mancano ulteriori ipotesi, spesso suggestive, anche perché è stato da piú parti sostenuto che il tono della scena possiede

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TAZZA FARNESE

Budapest Venezia

Milano

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Corsica

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Bucarest

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Roma Rom ma

Tirana

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Sardegna

Palermo Tunisi

Smirne

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Sicilia Malta

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Mar Rosso

A destra l’interno della Tazza Farnese in un disegno del persiano Mohammed al-Khayyam. Prima metà del XV sec. Berlino, Biblioteca di Stato. La fedeltà dei dettagli suggerisce che l’artista abbia riprodotto l’originale, avallando l’ipotesi che si trovasse a Samarcanda.

caratteri troppo aulici per essere una semplice celebrazione della fertilità del Nilo. L’uomo maturo è stato variamente identificato con uno dei Tolomei – Sotere, Epifane, Aulete, Filometore –, mentre per la donna sulla sfinge è stata avanzata la proposta che possa trattarsi di una Cleopatra – I o III – e addirittura della piú celebre, vale a dire Cleopatra VII, che tanta parte ebbe anche nelle vicende di Roma sul finire del I secolo a.C. In questo caso, peraltro, si dovrebbe accettare la tesi – formulata da Eugenio La Rocca –, che la Tazza Farnese sia stata fabbricata fra il 37 e il 34 a.C. e non nel III secolo a.C. Fra le piú recenti e suggestive, merita infine d’essere ricordata l’interpretazione proposta da François Queyrel, secondo il quale la composizione esalta la prosperità dell’Egitto tolemaico inserendovi uno straniero: lo studioso vede infatti nel giovane che si trova al centro uno

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dei Galati che, dopo essere stati sconfitti da Tolomeo nel 275 a.C., erano stati impiegati con successo nei lavori agricoli, in particolare nella regione del Fayyum.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui Mar Caspio bernate laborest, ut ut aliquam rentus Baku magnim ullorepra serro dolum

Il lungo viaggio della tazza

Samarcanda

Ashgabat

Th Teheran

Golfo Persico

Come detto, il materiale scelto per il vaso è l’agata, una varietà del quarzo traslucido che si caratterizza per l’essere composta da zone di diversi colori e che fu sfruttata con straordinaria maestria dall’artefice della Tazza. In particolare, si tratta in questo caso dell’agata detta sardonica, che prende nome da un monte della Lidia, nei pressi di Sardi (città dell’Asia Minore, oggi in Turchia). Sono queste caratteristiche ad aver permesso di conferire alla coppa l’affascinante contrasto fra i colori chiari della scena allegorica che ne orna l’interno e il tono scuro del gorgoneion esterno. Contrasti ai quali si uniscono i riflessi e le trasparenze determinati dalla natura della pietra.

Prediletta dal Magnifico Dal punto di vista tecnico, un particolare balza altresí evidente ed è il foro circolare che si può vedere proprio al centro della Tazza. Le notizie

III secolo a.C. La Tazza Farnese viene realizzata per la corte alessandrina, su commissione di un sovrano tolemaico, ed entra a far parte del tesoro reale. I secolo a.C. All’indomani della sconfitta di Cleopatra e della conseguente fine dell’autonomia dell’Egitto, la coppa viene acquisita dal tesoro di Roma. Età tardo-antica (?) Seguendo con ogni probabilità le sorti del tesoro imperiale, la Tazza giunge a Costantinopoli. Inizi del XIII secolo Il pregiato vaso viene acquistato da Federico II di Svevia (ma la notizia non è unanimemente accettata), dopo essere stata prelevata da Costantinopoli, forse durante il saccheggio a cui la città fu sottoposta nel 1204, in occasione della IV crociata. Inizi del XV secolo La Tazza è nuovamente in Oriente, a Samarcanda (o Herat). Ne sarebbe prova un disegno realizzato dall’artista persiano Mohammed al-Khayyam: l’opera appare infatti raffigurata con estrema precisione e lascia credere che fosse stata disegnata potendo disporre dell’originale. 1458 Angelo Poliziano riferisce la presenza del vaso alla corte di Alfonso V d’Aragona. 1465 La Tazza Farnese entra in possesso del cardinale veneziano Trevisan, che poi lascia la sua collezione a papa Paolo II Barbo, veneziano, proprietario di una straordinaria collezione di gemme che viene quindi donata al suo successore, papa Sisto IV. 1471 Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, acquista la collezione di Sisto IV e diventa dunque il nuovo proprietario del vaso. 1537 La collezione Medici confluisce in quella dei Farnese, perché Margherita d’Austria, sposata in prime nozze ad Alessandro de’ Medici (13 giugno 1536) e rimasta precocemente vedova (6 gennaio 1537), si risposa con Ottavio Farnese (4 novembre 1538), nipote del papa. 1586 Margherita d’Austria muore il 18 gennaio e nell’inventario dei suoi beni, che comprende la collezione di gemme e dunque la Tazza, compare la prima menzione del foro praticato sul vaso. 1817 La Tazza Farnese è descritta fra gli oggetti del Museo Borbonico. 1925 Nella notte tra il 1° e il 2 ottobre, un custode del museo, in un accesso di follia, colpisce la vetrina della tazza con un ombrello e causa la rottura della parte destra; il manufatto viene immediatamente restaurato e l’intervento si conclude l’11 ottobre. 1951 Nuovo intervento di restauro. 2018 La Tazza Farnese è esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli in una vetrina realizzata ad hoc.

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TAZZA FARNESE

d’archivio provano che non si tratta di un intervento eseguito al momento della fabbricazione, ma di un adattamento successivo: almeno fino al XV secolo, infatti, la coppa era integra e il foro venne probabilmente praticato al momento del suo ingresso nelle raccolte di Lorenzo de’ Medici, forse per inserirvi un piede. Di certo, cosí doveva presentarsi al momento della redazione dell’inventario farnesiano stilato nel 1586 – la collezione medicea aveva seguito Margherita d’Austria all’indomani del suo secondo matrimonio con Ottavio Farnese, dopo essere rimasta vedova di Alessandro de’ Medici – nel quale si descrive «Una tazza d’agata, intagliata e lavorata, con octo figure di basso rilievo dentro, et nel fondo di fuora una testa di Medusa, busata nel mezzo». Va peraltro ricordato che se gli incisori che lavoravano al suo servizio non s’erano fatti scrupolo di forarla, il Magnifico fu senza dubbio uno dei piú sinceri estimatori della coppa, tanto da citarla fra gli oggetti che aveva portato con sé a Roma, nel 1471, in occasione dell’incoronazione del nuovo pontefice: «Di settembre 1471 fui eletto

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ambasciatore a Roma per l’incoronazione di Papa Sisto, dove fui molto onorato, e di quindi portai le due teste di marmo antiche delle immagini di Augusto e di Agrippa, le quali mi donò detto Papa Sisto, e piú portai la scudella nostra di calcidonio intagliata».

Cifre astronomiche Quando Lorenzo poteva ostentarla come uno dei vanti della sua raccolta, la scudella era ormai da tempo un pezzo da collezione e, a questo proposito, risulta significativo ricordare il valore venale che non tardò a esserle attribuito. Accettando l’ipotesi che uno dei suoi possessori sia stato Federico II di Svevia – la notizia, sebbene plausibile, viene da molti considerata priva di sufficienti riscontri –, questi l’avrebbe acquistata per l’astronomica cifra di 1239 once d’oro, che possiamo grosso modo convertire in circa 2 milioni di euro. Piú tardi, nel 1512, nell’inventario dei beni appartenuti a Lorenzo de’ Medici, il suo valore venne fissato in 10 000 fiorini, una somma all’epoca equivalente a circa un quarto del valore di un palazzo gentilizio. Non si può dunque che rallegrarsi all’idea che la

Incisione raffigurante la facciata del Palazzo degli Studi di Napoli. Dopo essere stato sede dell’Università, l’edificio fu oggetto di un ampio intervento di ristrutturazione, che portò alla nascita, nel 1816, del Real Museo Borbonico, la raccolta di cui è oggi erede il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Nella pagina accanto ancora un particolare del gorgoneion intagliato sull’esterno della Tazza Farnese, che evidenzia uno dei serpenti che componevano la capigliatura della Medusa, che era appunto una delle Gorgoni.


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SICILIA

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Sulle due pagine particolari della Tazza Farnese che evidenziano le proprietà cromatiche dell’agata sardonica, la materia prima scelta per la sua realizzazione. La coppa fu opera di un’officina egiziana, che la realizzò, per la corte alessandrina, in età ellenistica, nel III sec. a.C. Soprattutto negli ultimi anni, tuttavia, sono state avanzate nuove proposte di datazione, tra cui quella che la vorrebbe prodotta negli ultimi decenni del I sec. a.C.

Tazza Farnese abbia seguito l’omonima collezione nei suoi passaggi piú recenti, che l’hanno vista allontanarsi dal mercato internazionale dell’arte ed entrare a far parte del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Tazza Farnese • Definizione Coppa in agata sardonica • Cronologia Il manufatto viene variamente datato fra il III e il I secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Nel 1458 Angelo Poliziano riferisce della presenza della coppa alla corte napoletana di Alfonso V d’Aragona • Luogo di conservazione Napoli, Museo Archeologico Nazionale (inv. 27611) • Identikit A oggi, è il piú grande vaso inciso in pietra dura del mondo antico che si conosca

Quest’ultimo ha regalato alla coppa una nuova casa, realizzando una teca che esalta le qualità artistiche e tecniche dell’opera, soprattutto grazie a un sofisticato sistema di illuminazione, che gioca sapientemente con i volumi, i riflessi e le trasparenze dell’agata sardonica e delle figure intagliate. Parallelamente, la storia del manufatto è stata ripercorsa da Valeria Sampaolo in un volume che si avvale delle immagini realizzate per l’occasione dal fotografo Luigi Spina. Stefano Mammini

PER SAPERNE DI PIÚ • Valeria Sampaolo, Luigi Spina, Tazza Farnese, Collana «Tesori nascosti», Museo Archeologico Nazionale di Napoli-5 Continents Editions, Milano 2018 • Eugenio La Rocca, L’età d’oro di Cleopatra, Indagine sulla Tazza Farnese, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1984 • Carlo Gasparri, «La scudella nostra di calcidonio»: una Tazza per molte corti, in Carlo Gasparri (a cura di), Le gemme Farnese, Electa Napoli, Napoli 1994; pp. 75-83

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MOSAICO DI ALESSANDRO

ECHI DI UN’ANTICA

GLORIA

È IL PIÚ FAMOSO MOSAICO DELL’ANTICHITÀ E, ALLO STESSO TEMPO, UNA TESTIMONIANZA STRAORDINARIA DELLA GRANDE PITTURA GRECA CLASSICA: IL SUO AUTORE ERA APELLE, IL MAESTRO PIÚ INSIGNE DEL SUO TEMPO E L’UNICO DAL QUALE ALESSANDRO MAGNO SI LASCIASSE RITRARRE


I

l 24 ottobre del 1831 gli scavatori di Pompei esploravano una grande e ricca abitazione che era stata battezzata «Casa di Goethe», in ricordo di una visita di August von Goethe, figlio del grande poeta tedesco. La residenza aveva già restituito raffinati mosaici policromi e oggetti d’arte, ma nulla faceva presagire che di lí a poco un vero e proprio capolavoro sarebbe venuto alla luce, in grado di eclissare tutti i ritrovamenti precedenti. In un’esedra di rappresentanza della casa, infatti, si scoprí un pavimento a mosaico in tessere minute che riproduceva un grandioso affresco di battaglia, poco danneggiato dall’eruzione e dai secoli, e che

Il Mosaico di Alessandro, dalla Casa del Fauno a Pompei. Copia della fine del II a.C. da un originale dipinto da Apelle alla fine del IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

conservava intatti i colori originali. La casa venne subito ribattezzata in onore del «Gran Musaico», come fu chiamato il reperto, e corrisponde a quella che oggi è nota come Casa del Fauno: una imponente residenza signorile dell’età sannitica, rimodernata alla fine del II secolo a.C. e conservata con gusto antiquario fino a quel pomeriggio del 79 d.C. in cui la città fu sepolta dal cataclisma che la consegnò all’odierno Patrimonio dell’Umanità. Il mosaico è un esempio raffinato di opus vermiculatum, la tecnica che consiste nel realizzare il contorno, le campiture delle figure e i riempimenti con pietruzze minute, disposte in file curvilinee che ricordano l’andamento


SICILIA

contorto di altrettanti vermi. L’effetto generale, con colpi di luce e accostamenti di colori, è tanto straordinario che, se osservato da opportuna distanza, dà l’illusione di una pittura a fresco. Ancor piú notevole è il fatto che, in realtà, la scena risulta realizzata in quadricromia, secondo una tecnica pittorica antica, con l’uso esclusivo di gradazioni di bianco, nero, giallo e rosso, senza impiego di verde e blu. Per quasi due secoli gli studiosi hanno analizzato, commentato e interpretato il mosaico, ricostruendone le parti mancanti o danneggiate e ponendosi quesiti sul modello originale e sulla scena rappresentata.

Pura meraviglia Primo fra tutti spicca il commento di Wolfgang Goethe, che poté prendere visione di un dettagliato disegno dell’opera, eseguito dall’architetto tedesco Wilhelm Zahn, e che commentò saggiamente: «Presente e futuro non potranno giungere a dare giusto commento di tale meraviglia dell’arte, e sempre dovremo ritornare, dopo aver studiato e spiegato, alla semplice, pura meraviglia». Il dibattito si è a lungo concentrato sull’identità del pittore al quale attribuire l’originale imitato

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Le rappresentazioni di Alessandro Magno e, nella pagina accanto, di Dario III che figurano nel mosaico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

dal mosaico. In particolare, sono stati fatti i nomi di Elena di Alessandria, pittrice alla corte di Tolomeo Sotere in Egitto, e, piú insistentemente, di Filosseno di Eretria, attivo alla corte di Cassandro, salito al trono di Macedonia alla fine del IV secolo a.C. Di entrambi gli artisti si sa che furono autori di famosi dipinti ispirati alle gesta di Alessandro Magno: in particolare, alla prima veniva attribuita una riproduzione della battaglia di Isso, mentre del secondo si ricordava uno scontro tra il condottiero macedone e il re persiano Dario III. L’identificazione dell’evento rappresentato è quindi cruciale per individuare l’autore del modello. Paolo Moreno (1934-2021) ha approfondito un precedente suggerimento di Bernard Andreae, che escludeva l’attribuzione dell’originale a uno dei pittori ellenistici ricordati dalle fonti. La ricerca etnografica testimoniata dalle riproduzioni di vestiti e armi e lo scoperto intento storico della rappresentazione d’insieme – celebrativo piú per Alessandro in sé che non per i suoi fedeli compagni – sarebbero pertanto dovuti alla mano di un artista vicino agli eventi che riproduceva: forse un testimone oculare (se non della battaglia, almeno dei luoghi e dei protagonisti). L’unica possibilità è in questo caso Apelle, uno dei maggiori pittori dell’antichità greca, artista di corte di Alessandro assieme all’altrettanto famoso scultore Lisippo. Allo stile a un tempo classico e innovatore di Apelle si deve quindi la realizzazione del grandioso e dettagliato quadro storico, una vera e propria megalografia, in cui si è calcolato che siano coinvolte piú di cinquanta figure e venti cavalli, tra protagonisti e comparse. D’altro canto è assai probabile, come ha sostenuto Fausto Zevi, che le opere di analogo soggetto degli altri pittori ellenistici siano state fortemente ispirate da questo primo capolavoro, riproducendolo e aggiornandolo in funzione del gusto e delle necessità di propaganda dei vari successori di Alessandro Magno. Ancora a Paolo Moreno si deve l’accurato studio condotto per identificare l’evento storico


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Mosaico di Alessandro (già «Gran Musaico») • Definizione Riproduzione musiva di un originale pittorico greco • Cronologia Fine del II secolo a.C. (da un originale del tardo IV secolo a.C.) • Luogo di ritrovamento Pompei, Casa del Fauno • Luogo di conservazione Napoli, Museo Archeologico Nazionale (inv. 10020) • Identikit Capolavoro in quadricromia di pittura e mosaico

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MOSAICO DI ALESSANDRO

rappresentato, che non è la battaglia di Isso, come spesso si ripete: si tratta, invece, della battaglia di Gaugamela, l’ultimo e decisivo scontro con il quale, nel 331 a.C., Alessandro Magno, ormai penetrato nel cuore dell’impero persiano, affrontò e sconfisse le forze del Gran Re, superiori nel numero, ma non sufficientemente ben organizzate. Ne sono prova le lunghe lance di tipo macedone, le sarisse, brandite dai soldati persiani: un’innovazione voluta da Dario III proprio a Gaugamela, nel disperato tentativo di sconfiggere la falange macedone con le sue stesse armi. Emblematico è anche l’albero secco che spicca sullo sfondo della scena, quale unica notazione ambientale; in esso, infatti, si può riconoscere il platano solitario che marcava il luogo dell’antica battaglia, come annotò piú di mille anni dopo un testimone di eccezione: Marco Polo. Nella piana di Gaugamela (località nella pianura di Erbil, in Assiria, corrispondente all’odierno Tell Gomel, n.d.r.), Alessandro Magno, forte di poco piú di 47 000 uomini, si scontrò contro circa 235 000 effettivi dell’esercito persiano, dotati di armi pesanti e carri da guerra, in una battaglia epica, destinata a decidere le sorti dell’intera spedizione. L’inferiorità numerica fu compensata dalla maggiore efficienza e manovrabilità delle forze greche, che consentirono al condottiero macedone di aprire una breccia nelle difese nemiche e affondare direttamente verso la postazione di comando del Gran Re, presidiata dalla sua guardia scelta.

Sortita vincente L’audace e spericolata mossa di Alessandro, accompagnato dai piú fedeli compagni d’arme (i cosiddetti hetairoi), ottenne l’effetto sperato di sorprendere e spaventare il nemico, gettando nella confusione le schiere persiane. Gli avversari piú coraggiosi diedero la vita per impedire al Macedone di raggiungere Dario e, all’ultimo istante, il conducente del carro del sovrano si volse in fuga per evitare lo scontro fatale. Il mosaico pompeiano riproduce esattamente l’istante in cui il pesante carro

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reale ha ormai completato l’inversione e si appresta a travolgere i soldati stessi di Dario III, nel tentativo estremo di sfuggire alla carica di Alessandro e dei suoi uomini. Protagonisti assoluti del momento drammatico sono proprio i due condottieri, le cui fattezze spiccano come isolate in mezzo alla moltitudine di corpi e armi che pervade ogni dove in una quantità di dettagli accurati, resi però confusi dall’insieme caotico della battaglia. Alessandro irrompe da destra, affiancato da uno scudiero a piedi (di cui non resta che parte del volto) e seguito da un drappello di valorosi, purtroppo in larga parte perduti nelle lacune della metà sinistra del mosaico. Priva dell’elmo, la testa del figlio di Filippo II testimonia della ricercatezza del ritratto, giovane e distaccato, con un accenno di barba e i capelli ondeggianti al vento. I dettagli della corazza sono riportati minuziosamente, dalle cinghie degli spallacci alla testa di Gorgone al centro del petto. La sua lancia, abbassata nella carica, passa da parte a parte un eroico avversario, che gli si è gettato di fronte, con sprezzo della vita, per salvare il proprio re. E proprio verso il suo nobile salvatore Dario protende la mano, assistendo impotente al sacrificio; né tenta di contrattaccare col proprio arco, perché la sua faretra è ormai vuota. Accanto al carro un altro difensore volge freneticamente il proprio cavallo, per seguire e proteggere il re nella fuga, mentre il grande carro è ormai quasi completamente volto indietro e investe i guerrieri caduti. Se ne contano tre, uno dei quali merita maggiore

Pompei. Turisti in visita alla Casa del Fauno, di fronte alla riproduzione del Mosaico di Alessandro.


attenzione: esattamente al di sotto di Dario, infatti, un nobile persiano caduto, con la veste ricamata, osserva se stesso nella superficie lucida di uno scudo, al quale appoggia la mano destra negli ultimi istanti prima di essere travolto. Lo sguardo fermo e malinconico non corrisponde a quanto ci aspetteremmo da un uomo che contempla la propria fine, come invece è ben rappresentato dall’arciere investito dai cavalli poco piú a destra. Si direbbe piuttosto che rispecchi, in qualche modo, il gorgoneion che abbiamo osservato al centro della corazza di Alessandro (e anche nel mito la Medusa vide la propria morte riflessa in uno scudo). In proposito, ancora Paolo Moreno ha ricordato la notizia che Apelle dipinse se stesso in un proprio quadro e ha proposto, convincentemente, che il riflesso dell’ignoto persiano non sia altri che il viso del pittore, riprodotto assieme alla propria mano, con un suggestivo espediente scenico, che al tempo stesso assolveva l’artista da possibili accuse di vanità: il suo volto, infatti, veniva attribuito a un nemico morente, in un riflesso distorto al modo della Gorgone del mito.

Spostamenti e copie

Particolare del viso del soldato persiano morente che si riflette nello scudo, interpretato come un autoritratto del pittore Apelle.

Il gran Mosaico di Alessandro fa oggi bella mostra di sé sulla parete di una sala del Museo Archeologico Nazionale di Napoli dedicata alla Casa del Fauno: una posizione che forse snatura la sua funzione di pavimento, ma che per noi ripristina l’originale collocazione verticale del modello, certamente dipinto su una tavola. Una riproduzione della scena, con

integrazioni delle parti perdute, è stata recentemente esposta a fianco dell’originale, per permettere a tutti di apprezzare la complessità dell’opera. Nell’esedra della casa pompeiana è stata invece installata una replica dettagliata del mosaico, con colori piú tenui, che restituisce ai visitatori l’effetto di sorpresa che ebbero gli scopritori nell’ambiente originario. Tuttavia, è stato osservato che, in realtà, il pavimento musivo non era stato costruito per l’esedra in cui venne ritrovato, ma vi era stato trasportato nell’antichità, adattandone le dimensioni, da un’altra e diversa collocazione. Ne fanno fede i numerosi punti in cui la scena è stata danneggiata e ricostruita con le stesse tessere originali, ma senza rispettarne il disegno: ciò è avvenuto, per esempio, presso il guerriero caduto che si specchia nello scudo e nel settore centrale del mosaico (presumibilmente tagliato in due parti per facilitarne il trasporto). Cosí si spiegano errori vistosi come due lance che non continuano al di là della testa di un guerriero, il cui volto è a sua volta deformato fino a essere irriconoscibile, oppure la presenza di una gamba priva di proprietario e perfino di uno zoccolo equino che si direbbe mozzato, a terra di fronte al guerriero trafitto da Alessandro. Fortunatamente, però, tali riparazioni, a volte maldestre o frettolose, non impediscono di cogliere la grandiosità della visione di insieme, che immortala l’ultima eroica battaglia con cui Alessandro sconfiggeva il piú grande dei barbari d’Oriente e inaugurava una nuova era.

PER SAPERNE DI PIÚ • Paolo Moreno, Apelle. La battaglia di Alessandro, Skira, Milano 2000 • Fausto Zevi, Il mosaico di Alessandro, Alessandro e i Romani: qualche appunto, in Ultra terminum vagari. Scritti in onore di Carl Nylander, Quasar, Roma 1996; pp. 387-397. • Fausto Zevi, Pompei, Casa del Fauno, in Studi sull’Italia dei Sanniti, Electa, Milano 2000; pp. 118-137

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VENERE LANDOLINA

La statua di Afrodite nota come Venere Landolina. Prima metà del II sec. d.C. (da un originale greco del II sec. a.C.). Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi». Nella pagina accanto particolare della Venere di Sandro Botticelli, rilettura del motivo della Venere «pudica» che già aveva ispirato la Venere Landolina. Olio su tavola, 1460. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.

SPLENDIDA

PUDICIZIA ECCO LA VENERE LANDOLINA DI SIRACUSA: UNA DEA CHE NASCE DALLE ACQUE E SVELA CON GESTO PUDICO LA PROPRIA SENSUALITÀ. CARO ALLA SCULTURA DI ETÀ ELLENISTICA, IL TEMA FU ISPIRATO DA UN CAPOLAVORO DI PRASSITELE, CHE PER PRIMO OSÒ RITRARRE NUDA LA DIVINA CREATURA

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N

ei Sapienti a banchetto, opera erudita della prima metà del III secolo d.C., lo scrittore greco Ateneo narrò un aneddoto piccante che, a suo dire, sarebbe avvenuto in tempi remoti nella città di Siracusa. Due sorelle che vivevano in campagna si misero a competere per chi di loro avesse il piú bel posteriore: non trovando (ovviamente) un accordo, decisero maliziosamente di chiamare a giudice un giovane di città che si trovava a passare di là. Questi accettò di buon grado e decretò la vittoria della maggiore. In seguito, tornando a casa, il ragazzo confidò di essersi innamorato della ragazza vincitrice al fratello minore, che volle anch’egli conoscere le ragazze e fu preso da passione per la piú giovane. L’anziano padre dei due, che era molto ricco, cercò di convincere i figli a cercare mogli piú altolocate; ma, non riuscendovi, acconsentí alle nozze. Per questo motivo le ragazze, in segno di riconoscenza alla dea dell’amore, fecero costruire un tempio ad Afrodite Callipige, ovvero «dal bel posteriore».

all’opera nell’antico quartiere siracusano di Acradina, sotto il controllo del Regio Custode alle antichità per la Val Demone e la Val di Noto, il nobile archeologo Saverio Landolina (1743-1814). Qui, nella zona degli Orti Buonavia (presso l’odierno Ospedale Civile), il 7 gennaio fu ritrovata la preziosa statua di Venere tra i resti di un’antica costruzione, esattamente un mese dopo il rinvenimento, a breve distanza, di un’altra scultura di marmo, raffigurante Esculapio. Le scoperte fecero presto notizia e, come spesso avveniva all’epoca, attirarono

Un mito di fondazione L’aneddoto non ha alcuna verosimiglianza storica, ma al di là dei particolari piccanti, ha l’aspetto di un mito di fondazione (aition) del santuario siracusano. Con ogni probabilità, il riferimento al «posteriore» della dea è stato ispirato dalla statua di culto ospitata nel tempio. La sorte ha voluto che gli scavi del teatro greco di Siracusa restituissero il frammento di un rilievo marmoreo che illustra in modo sorprendente la trama del racconto di Ateneo: vi si vedono due ragazze che si tengono per mano di fronte a una terza figura perduta; quella piú a destra, vista di tre quarti da dietro, mostra le proprie grazie abbassando la veste fino alle gambe (vedi foto a p. 114). E non è sfuggito agli studiosi che questa particolare figura non è altro che una riproduzione in miniatura, e da una prospettiva insolita, della celebre Venere Landolina: la statua piú famosa del Museo «Paolo Orsi» di Siracusa. Nei primi giorni del 1804 gli scavatori erano

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VENERE LANDOLINA

l’attenzione non solo di viaggiatori ed eruditi in tutta la Sicilia, ma anche quella di figure politiche di spicco, come il vicerè di Sicilia, principe di Cutò, il quale pretendeva l’immediato trasporto a Palermo della statua. Con ammirevole coerenza professionale, in grande anticipo sull’archeologia moderna, Landolina resistette alle pressioni governative e denunciò il pericolo di abusi e scavi clandestini da parte della popolazione locale, a causa dell’interesse destato dai nuovi ritrovamenti. Per evitare che la statua venisse requisita, inoltre, segnalò alla Segreteria della Casa Reale il pericolo che le statue potessero essere danneggiate da un frettoloso trasporto in condizioni precarie. Allo stesso tempo, l’infaticabile Custode si adoperò per istituire a Siracusa un museo nel quale raccogliere le antichità provenienti da tutto il territorio, sotto la sua giurisdizione.

Frammento di un rilievo marmoreo trovato nel teatro greco di Siracusa che rappresenta il racconto di Ateneo: due ragazze si tengono per mano di fronte a una terza figura, perduta; quella piú a destra, vista di tre quarti da dietro, mostra le proprie grazie abbassando la veste fino alle gambe. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».

Dopo averla scoperta, Landolina dovette battersi strenuamente per impedire il trasferimento della Venere

Cinque anni piú tardi, nonostante le forti resistenze della nobiltà locale, che temeva l’esproprio delle collezioni private e l’interruzione degli scavi non autorizzati, Landolina riuscí nel proprio intento, grazie alla munificenza del vescovo di Siracusa, Filippo Maria Trigona, che mise a disposizione gli ambienti del Seminario vescovile. Nasceva cosí il Museo Patrio di Siracusa, antenato del Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi», nella cui collezione la Venere Landolina (cosí chiamata in onore del suo scopritore) ha da sempre occupato il posto d’onore. Ricavata da un unico blocco di marmo pario, la statua è, in realtà, una copia romana di altissima qualità, che si ritiene sia stata ricavata tramite l’osservazione diretta dell’originale, presumibilmente conservato a Siracusa. Nonostante la mancanza della testa e di buona parte del braccio destro, la scultura conserva una potente presenza scenica, che ne giustifica la fama. In ogni caso è possibile avere una chiara idea della posa originaria grazie ad altre copie dello stesso soggetto, di minor qualità, conservate ad Atene e a Karlsruhe.

La sfrontatezza di uno scultore Afrodite è ritratta nel momento della propria nascita dalla spuma del mare, mentre con gesto pudico porta la destra al seno e solleva un drappo a coprire il pube. Si tratta di una delle numerose varianti della cosiddetta dea Anadiomene, letteralmente «che sorge [dalle acque]», come prova il tozzo delfino guizzante scolpito sul fianco sinistro della statua. Il soggetto, caro all’arte ellenistica, si ispirava alla famosa Afrodite Cnidia di Prassitele, scultore ateniese dell’avanzato IV secolo a.C., il quale per primo osò rappresentare la nudità di una dea. L’uso dei contrasti di luce, che mette in risalto la pelle vellutata di Afrodite grazie alla lavorazione morbida della superficie, è evidente specialmente nella visione frontale in cui la veste gonfiata dal vento incornicia le gambe in uno splendido colpo d’occhio. Questi elementi innovativi, in uno schema comune dell’arte ellenistica, permettono di attribuire la

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Due vedute della Venere Landolina; alla seconda, a destra, si deve l’epiteto di Callipige, «dal bel posteriore», assegnato all’immagine di Afrodite.

CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Venere Landolina • Definizione Copia romana di una scultura greca ellenistica • Cronologia Prima metà del II sec. d.C. (da un originale del II sec. a.C.) • Luogo di ritrovamento Siracusa, area dell’Ospedale Civile • Luogo di conservazione Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» (inv. 694) • Identikit Prima apparizione della sensuale dea dell’Amore

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VENERE LANDOLINA

scultura originale da cui è tratta la copia siracusana alla scuola rodia, che, qualche decennio piú tardi, produsse anche la ben piú famosa Venere di Milo. La visione posteriore, alla quale si deve l’epiteto della dea e probabilmente l’origine del racconto di Ateneo, era con ogni probabilità secondaria nella collocazione templare dell’originale. Cionondimeno, si può ritenere che essa fosse apprezzata nella copia, grazie alla possibilità di camminare attorno alla statua, come consente anche l’attuale allestimento museale. Il soggetto della «Venere pudica» rimase a lungo in voga presso i Romani, che consideravano le statue della dea nuda particolarmente adatte ad ambientazioni acquatiche, come fontane e ninfei. Come si è detto, capostipite della serie fu la statua scolpita da Prassitele per il tempio di Afrodite a Cnido, intorno al 350-330 a.C. Lo scultore mise in scena il bagno della dea, sorpresa nel momento in cui si è liberata dell’ultimo indumento e si appresta a scendere in una vasca, a cui allude il grande contenitore per l’acqua sul quale sono appoggiate le vesti. L’ardita rappresentazione, appena mitigata dal gesto di pudore con cui Afrodite copre il pube, corrisponde alla nuova visione ellenistica degli dèi: non piú figure trascendenti alle quali si affida la salvezza della comunità, ma protettori personali in rapporto con gli individui. La nudità della dea e l’ordinarietà del suo bagno ne fanno una figura piú vicina alla vita quotidiana dei fedeli di quanto non fosse nell’età classica.

Un modello di successo Il II secolo a.C. vede un vero e proprio «boom» di esperimenti sulla scia dell’opera prassitelica, dal tipo naturalistico e un po’ irrigidito della Venere Capitolina, caratterizzata da una ricca acconciatura, alla snella e acerba Venere di Cirene, restituita alla Libia pochi anni fa, alla quale si ispira la piú tarda e severa Venere dell’Esquilino. Nel secolo seguente si aggiunge l’aspetto leggiadro e sognante dell’Afrodite Medici, il cui originale è conservato agli Uffizi di Firenze e che suscitò

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La statua di Afrodite Anadiomene rinvenuta a Cirene nel 1913. Copia di età imperiale di un originale ellenistico del II sec. a.C. La scultura è stata restituita alla Libia nel 2008.


Ancora una variante della statua di Afrodite scolpita da Prassitele: è la Venere Esquilina, trovata negli Horti Lamiani nel 1874. Prima età imperiale. Roma, Musei Capitolini.

l’interesse degli artisti neoclassici nell’epoca napoleonica. Si differenzia dalle altre, invece, l’Afrodite accovacciata, opera dello scultore bitinio Doidalsas, dalle forme piene e aggraziate, che si immagina al bagno sotto una sorgente d’acqua corrente. Comune a tutte queste sculture, come anche alla già citata Venere di Milo, è l’indugiare sulle forme del nudo femminile, che conferisce dignità divina al corpo della donna, contribuendo a rivoluzionare la rappresentazione umana nell’arte. In questo panorama, la Venere Landolina ha un posto a sé, per la sapiente fusione di forme morbide e panneggi in chiaroscuro, che ha fatto parlare di tendenze barocche dell’ambiente artistico di produzione. Non stupisce a questo punto che la statua siracusana abbia attirato l’attenzione di un visitatore d’eccezione come Guy de Maupassant, il quale, in Viaggio in Sicilia, dedica una commossa pagina di alta letteratura alla seducente vitalità della dea: «Bella, proprio come l’avevo immaginata» commenta lo scrittore dopo l’«incontro» con la statua, nel 1885. «Non è la donna vista dal poeta, la donna idealizzata, la donna divina o maestosa, come la Venere di Milo, è la donna cosí com’è, cosí come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere». La vibrante fisicità della scultura continua ad affascinare i viaggiatori e contribuisce a farne un irrinunciabile elemento dell’identità del museo siracusano. E questo si deve, è bene ricordarlo, alla lungimiranza di Saverio Landolina, al quale giustamente spetta l’onore di aver dato nome alla statua.

PER SAPERNE DI PIÚ • Santino A. Cugno, Il collezionismo archeologico siracusano tra XVIII e XIX secolo e la nascita del primo Museo Civico, in Studi Acrensi 4, 2013; pp. 57-72. • Antonio Giuliano, La Afrodite Callipige di Siracusa, in Archeologia Classica V, 1953; pp. 210-214

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STATUE DI MONT’E PRAMA

EROI IN PARATA IL NOME DI MONT’E PRAMA, CHE IN SARDO VUOL DIRE «COLLINA DELLE PALME», È DIVENUTO CELEBRE GRAZIE A UNA DELLE PIÚ IMPORTANTI SCOPERTE DEGLI ULTIMI DECENNI: QUELLA DELLE STATUE DI EPOCA NURAGICA CHE OGGI SI POSSONO AMMIRARE NEI MUSEI DI CAGLIARI E DI CABRAS. IL SITO DEL RITROVAMENTO È TORNATO A ESSERE OGGETTO DI SCAVI SISTEMATICI, CHE HANNO GETTATO NUOVA LUCE SUL CONTESTO NEL QUALE LE SPETTACOLARI SCULTURE VENNERO REALIZZATE

S

oprattutto, non chiamiamole «giganti»: a poco piú di quarant’anni dalla loro scoperta, le statue di Mont’e Prama vogliono scrollarsi di dosso l’etichetta con la quale, di fatto, sono divenute celebri ben oltre i confini della loro terra d’origine, la Sardegna. A farsi promotori di questa revisione sono, in realtà, gli archeologi che delle statue si occupano, sottolineando come le loro dimensioni siano senz’altro rispettabili (l’altezza media si aggira intorno ai 2 m), ma non colossali. Resta il fatto che, se normale è la taglia, eccezionale è l’esistenza stessa delle sculture, che, a oggi, costituiscono il primo esempio noto di statuaria nell’ambito

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del Mediterraneo occidentale, che precede, addirittura, la produzione dei pur arcaici kouroi greci. In oltre un trentennio di studi, scavi e restauri, è stato infatti accertato che le statue vennero realizzate durante la prima età del Ferro, tra il IX e l’VIII secolo a.C., nelle fasi finali della civiltà nuragica. L’avventura ebbe inizio nel 1974, quando un agricoltore di Cabras – il Comune dell’Oristanese nel cui territorio ricade il sito di Mont’e Prama (in sardo, la «Collina delle Palme») –, Sisinnio Poddi, arando, fu costretto a fermare il suo trattore, perché il mezzo aveva urtato contro quello che, sulle prime, sembrava


Sulle due pagine, in primo piano tre statue di pugilatori, da Mont’e Prama. IX-VIII sec. a.C. Cabras, Museo Civico «Giovanni Marongiu». Questi personaggi sono rappresentati secondo un canone ricorrente: indossano un gonnellino che termina a punta sul retro, hanno il braccio destro proteso e protetto da un guantone (in questo caso non conservato) e il sinistro è invece portato sopra la testa, a sostenere un grande scudo ricurvo. È probabile che le figure ritraessero atleti impegnati in prove di abilità e coraggio in occasione di giochi rituali. Sulle due pagine, in secondo piano la spiaggia di Is Arutas, località compresa nel territorio di Cabras e non lontana da Mont’e Prama.


STATUE DI MONT’E PRAMA

solo un grosso masso. Nel tentativo di rimuoverlo, si rese invece conto che di pietra si trattava, ma lavorata, e informò del ritrovamento le locali autorità di tutela. Questo primo ritrovamento, anche grazie ad alcuni recuperi effettuati dalla Guardia di Finanza, non rimase isolato, ma un primo intervento di scavo, volto ad accertare la consistenza dell’insediamento, venne eseguito solo alla fine del 1975.

arricchendo la documentazione della necropoli e, soprattutto, recuperando migliaia di nuovi frammenti scolpiti. Questi ultimi, oltre 5000, furono trovati in un grande cumulo, che sembrava costituire una vera e propria discarica (vedi box a p. 125). Dopo avere a lungo giaciuto ai piedi della Collina delle Palme, le statue, ma non solo – occorre, infatti, ricordare che le sculture di Mont’e Prama comprendono anche modelli di nuraghe e betili – trascorsero un nuovo forzato

Le prime indagini Si trattò di un sondaggio circoscritto e di breve durata, che fu tuttavia sufficiente ad accertare la presenza di varie sepolture e permise di postulare un collegamento tra le sculture e un contesto funerario. Ricerche piú approfondite vennero condotte tra il 1977 e il 1979, Nella pagina accanto la statua frammentaria raffigurante un guerriero, con corta tunica e corazza, e il suo scudo circolare, che veniva tenuto con la mano sinistra, mentre la destra impugnava la spada. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Si noti la particolare cura riposta nella resa della fascia che parte dalla vita e termina con una fitta frangia. Santa Teresa di Gallura

La Maddalena

CRONOLOGIA DELLA SARDEGNA ETÀ

PERIODO

NEOLITICO

ETÀ DEL RAME

ETÀ DEL BRONZO

CIVILTÀ NURAGICA

Olbia

Porto Torres

Sassari

ETÀ FENICIA

Alghero

Mar di Sardegna

Nuoro

ETÀ PUNICA

750 a.C.

5800 a.C.

Antico

4800 a.C.

4800 a.C.

Medio

4300 a.C.

4300 a.C.

Recente

4000 a.C.

4000 a.C.

Finale

3300 a.C.

3300 a.C.

Prima età del Rame

2900 a.C.

2900 a.C.

Seconda età del Rame

2300 a.C.

5800 a.C.

Antico

5800 a.C.

1700 a.C

Medio

1350 a.C.

1350 a.C.

Recente

1200 a.C.

1200 a.C.

Finale

930 a.C.

930 a.C.

Prima età del Ferro

730 a.C.

Tradizione nuragica ed età fenicia

510 a.C.

510 a.C.

238 a.C.

Mont’e Prama Cabras Oristano

Iglesias

Mar Tirreno

Cagliari Quartu Sant’Elena

Sant’Antioco

| 120 | GLI IMPERDIBILI |

ETÀ ROMANA

ALTO MEDIOEVO

238 a.C.

Età repubblicana

27 a.C.

27 a.C.

Età imperiale

476 d.C.

V sec. d.C.

VIII sec. d.C.


Le sculture che oggi possiamo ammirare a Cagliari e a Cabras sono frutto del complesso intervento di restauro condotto sugli oltre 5000 frammenti recuperati | GLI IMPERDIBILI | 121 |


STATUE DI MONT’E PRAMA

riposo nei depositi della Soprintendenza, fino a che, grazie alla creazione del Centro di Restauro a Li Punti (Sassari), non fu possibile tentare la ricomposizione di un puzzle che si presentava a dir poco impegnativo. L’intervento richiese quattro anni, dal 2007 al 2011, al termine dei quali si giunse all’assemblaggio di 28 statue, 12 modelli di nuraghe e 1 betilo. Un risultato straordinario, fatto conoscere

Uno dei modelli di nuraghe rinvenuti a Mont’e Prama e la sua ricostruzione grafica. Sebbene stilizzata, la rappresentazione corrisponde all’architettura reale dei nuraghi, come è stato provato dall’archeologia e dall’analisi dei crolli in cui si rinvengono i mensoloni e i conci di coronamento delle parti sommitali.

| 122 | GLI IMPERDIBILI |

grazie all’allestimento di un’esposizione che segnò l’inizio di una nuova stagione. Un paio d’anni piú tardi, nel 2014, venne infatti avviato un nuovo progetto di scavo sistematico del sito e, parallelamente, le sculture furono distribuite fra il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e il Museo Civico «Giovanni Marongiu» di Cabras, dove da allora possono essere ammirate. Il 22 marzo del 2014 venne poi inaugurata l’esposizione «Mont’e Prama, 1974-2014», un progetto che, nei due musei appena citati, vedeva inseriti – in un allestimento che presenta le medesime caratteristiche tecniche e grafiche in entrambe le sedi – i materiali restaurati, affiancati dai reperti piú significativi tra quelli restituiti dagli scavi.


In seguito, nel 2024, nel cinquantenario della scoperta, il Museo Civico «Giovanni Marongiu» di Cabras ha rinnovato l’allestimento degli spazi dedicati al sito di Mont’e Prama, nei quali sono riuniti otto esemplari delle statue e sei modelli di nuraghe.

Un possibile identikit Questa cronaca dei fatti piú salienti offre quindi lo spunto per riepilogare brevemente quanto finora acquisito circa la tipologia delle sculture: sono state infatti distinte tre classi di

personaggi, che, oltre ai già citati pugilatori e arcieri, comprendono i guerrieri. Si tratta, dunque, di personaggi maschili, che appaiono ritratti secondo canoni ben precisi e ricorrenti, come per esempio nella resa degli indumenti e degli accessori, o anche nella definizione delle posture. Queste ultime presentano significative affinità con i bronzetti nuragici, una somiglianza sottolineata anche dalla scelta, sia a Cagliari che a Cabras, di mettere a confronto le statue con quelli che sembrano i loro modelli in miniatura. Risulta piú difficile, allo stato attuale delle ricerche, ipotizzare chi fossero i personaggi raffigurati e quale fosse il ruolo assegnato alle sculture: infatti, come accennato, i materiali – sebbene prossimi alle tombe della necropoli – sono stati in larga parte recuperati all’interno di una discarica e, in ogni caso, a oggi non sono stati trovati casi in cui le statue o almeno parte di esse fossero ancora in situ. Fra i dati certi vi sono invece l’accuratezza della lavorazione, nonché – e si tratta in questo caso di osservazioni condotte in tempi recentissimi e tuttora in corso di verifica – l’adozione di elementi e misure canoniche, con il ricorso a veri e propri moduli.

Un confronto puntuale

N

el Museo Civico «Giovanni Marongiu» di Cabras si può vedere, fra le altre, questa statua di pugilatore, rinvenuta negli scavi condotti a Mont’e Prama nel 2014. La figura presenta significative affinità con il bronzetto nuragico, qui riprodotto, rinvenuto a Vulci, nella necropoli di Cavalupo, nella Tomba detta appunto dei Bronzetti sardi, databile alla metà del IX sec. a.C. e il cui corredo è oggi conservato nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. È possibile osservare la ricorrenza degli elementi tipici osservati nelle sculture di Mont’e Prama, soprattutto per ciò che riguarda il grande scudo ricurvo.

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STATUE DI MONT’E PRAMA

Gli scultori di Mont’e Prama avevano insomma saputo affinare tecniche assai evolute non soltanto per ciò che riguarda il trattamento del calcare impiegato per le loro opere, ma anche nella definizione delle dimensioni e delle proporzioni. E va detto che i supporti metallici messi a punto per l’esposizione delle statue consentono di apprezzare al meglio questa sapienza, soprattutto nei casi in cui si può girare intorno ai reperti, scoprendo quanto precisa e minuziosa fosse la resa dei particolari e del dorso delle figure. Pugilatori, arcieri e guerrieri mostrano dunque un vero e proprio codice identitario, al quale si aggiunge l’attribuzione di fattezze che dovevano realmente corrispondere alle diverse specializzazioni: i corpi dei pugilatori, per esempio, risultano piú tarchiati e tozzi, rispetto a quelli altrettanto muscolosi, ma piú slanciati, dei guerrieri e degli arcieri. Sia a Cabras che a Cagliari, inoltre, l’esperienza visiva può essere utilmente integrata dall’apparato multimediale che consente di scoprire tutti i segreti delle sculture con l’ausilio di una postazione touch screen e un monitor (vedi box a p. 127).

Non meno sorprendente risulta l’osservazione dei modelli di nuraghe. In un gioco simile al «com’era, com’è», i reperti di Mont’e Prama hanno infatti rivoluzionato l’iconografia che di queste strutture ci è stata tramandata dai loro resti. Poiché la ricerca archeologica ha dimostrato che le miniature sono repliche fedeli degli originali, dobbiamo infatti immaginare alte torri e pinnacoli, sormontati da coperture di forma conica, che sembrano quasi trasformare i nuraghi in castelli delle fiabe.

Strutture identitarie Un aspetto reso ancor piú eloquente dalle ricostruzioni grafiche e da alcuni plastici. Come nel caso delle statue, anche per i modelli è difficile stabilire con certezza quale fosse la loro funzione, ma sembra logico ipotizzare che potessero essere visti come rappresentazioni attraverso le quali si voleva esprimere l’identità e la compattezza delle comunità nuragiche, dal momento che di quelle genti costituivano il piú importante elemento distintivo. Non diversa è la situazione dei betili, monoliti di forma tronco-conica e di notevoli dimensioni, per i quali si può senz’altro immaginare un Il settore della necropoli di Mont’e Prama nel quale venne alla luce, negli scavi del 197779, una fila di tombe a pozzetto coperte da lastre quadrangolari. Sulla destra, coricato si riconosce anche un betilo. Nella pagina accanto, in basso la stessa area, cosí come si presenta oggi, dopo gli interventi di ripristino effettuati nell’ambito delle nuove ricerche.

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La fierezza perduta

La foto in alto, scattata nel corso degli scavi condotti nel 1979, offre un’idea eloquente delle condizioni nelle quali le sculture di Mont’e Prama si presentarono agli occhi degli archeologi: le statue e gli altri manufatti giacevano in pezzi, ammassati in un grande cumulo. Al termine di quelle indagini, furono recuperati oltre 5000 frammenti, grazie alla cui paziente ricomposizione, condotta fra il 2007 e il 2011, è stato possibile ricavare le opere ora esposte a Cagliari e a Cabras. A oggi, non si conoscono le circostanze in cui la distruzione ebbe luogo, ma è possibile che l’intervento abbia avuto luogo all’indomani della rioccupazione del sito da parte dei Cartaginesi, nel IV secolo a.C. In questo caso, il gesto potrebbe essere visto come espressione della volontà di cancellare la memoria del passato nuragico delle comunità locali.

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SICILIA

In alto fotografia da drone del cantiere di scavo di Mont’e Prama. Al centro, in basso, sono ben riconoscibili le due strutture nuragiche esplorate negli ultimi anni, che comprendono una probabile sala adibita a riunioni (Edificio A), a cui si affianca un vano di servizio (Edificio B); sulla destra è invece leggibile la lunga fila di tombe coperte da lastre, allineate lungo la strada sepolcrale. In basso i resti della struttura interpretata come sala per riunioni (Edificio A), cosí come si presentava al termine dello scavo.

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impiego ancora una volta legato alla sfera funeraria, ma senza per il momento poterne circoscrivere in termini piú dettagliati il ruolo.

Far «parlare» le statue Nell’insieme, sia a Cabras che a Cagliari, si percepisce, netta, la sensazione di essere al cospetto delle espressioni di una cultura che doveva aver elaborato un mondo ideologico e rituale assai articolato. Un universo nel quale le immagini scolpite nella pietra si facevano portatrici di un messaggio ben preciso e non rispondevano soltanto a istanze di natura estetica. Mont’e Prama, dunque, e, piú in generale, la civiltà nuragica non fanno altro che rinnovare la sfida che costituisce il motore primo della ricerca archeologica, che consiste nel cercare di far parlare testimonianze significative, ma solo in parte eloquenti, anche perché – come in questo caso – non affiancate da documenti scritti. Una sfida che ha visto impegnati gli archeologi


che sono tornati a operare negli ultimi anni nei terreni ai piedi della Collina delle Palme, di proprietà della Confraternita del Rosario. Le indagini hanno idealmente raccolto il testimone lasciato dai responsabili degli interventi condotti negli anni Settanta, riportando alla luce le aree allora esplorate. È stato quello il primo passo di uno scavo in estensione che ha considerevolmente arricchito la conoscenza del sito, con conferme importanti e altrettanto rilevanti novità. Il contesto piú significativo è quello della necropoli, la cui presenza era stata accertata fin dai primi sondaggi condotti nel 1975. Sono state individuate oltre 100 sepolture, che consistono in semplici tombe a pozzetto, scavate nel banco roccioso e coperte da cumuli di pietre oppure chiuse da lastre in arenaria di forma quadrangolare (1 x 1 m). I defunti vennero deposti al loro interno in posizione rannicchiata e, salvo pochi casi, senza alcun elemento di corredo. Fra le eccezioni, spicca una tomba indagata nel corso degli scavi condotti fra il 1977 e il 1979, da cui proviene una collanina che aveva tra i suoi i vaghi un sigillo in steatite invetriata a forma di scarabeo, di produzione egizia o levantina.

La gestione dello spazio Una delle peculiarità della necropoli è che la quasi totalità delle tombe esplorate ospitava defunti di sesso maschile e di età compresa fra i 16 e i 40 anni. Altrettanto interessante risulta la disposizione delle tombe: se nel caso di quelle a pozzetto sembra sfruttare lo spazio disponibile in maniera piuttosto casuale, per quelle dotate della lastra di copertura risponde invece a una sistemazione regolare, descrivendo una fila, in alcuni tratti duplice, che si allinea lungo la strada sepolcrale che attraversava l’area. Ed è stato anche osservato che, in corrispondenza del margine della via sul quale le tombe si affacciano, era stata scavata una canaletta, nella quale erano alloggiate altre lastre, che creavano una sorta di muro di contenimento. Nello scenario del sepolcreto, quale poteva dunque essere il posto assegnato

Le sculture senza segreti A supporto dell’esposizione delle sculture di Mont’e Prama, il CRS4 (Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna) ha realizzato un’installazione che permette di esplorare le statue e gli altri manufatti in ogni loro dettaglio. Dopo avere eseguito la scansione ad altissima risoluzione delle opere, l’équipe di Visual Computing del Centro ha elaborato un prodotto multimediale, navigabile grazie a un totem touch screen, che consente al pubblico la visualizzazione completa e particolareggiata a grandezza naturale delle statue e dei modelli di nuraghe. La foto qui accanto documenta appunto l’immagine di uno dei pugilatori ricavata dalla scansione laser.

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STATUE DI MONT’E PRAMA

CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Statue di Mont’e Prama • Definizione Statue in calcare arenaceo di figure maschili (pugilatori, arcieri, guerrieri) • Cronologia IX-VIII secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Necropoli di Mont’e Prama (Cabras) • Luogo di conservazione Cabras, Museo Civico «Giovanni Marongiu» Cagliari, Museo Archeologico Nazionale • Identikit Sculture che celebravano, probabilmente, personaggi di spicco della comunità, come giovani eroi o guerrieri

alle statue, ai betili e ai modelli di nuraghe? Un quesito cruciale, che potrebbe tuttavia rimanere insoluto. Le sculture provengono infatti da questa zona, ma, come detto, non sono state trovate in situ e, in una percentuale assai elevata, concentrate in un’area nella quale erano state intenzionalmente accumulate dopo essere state abbattute e rimosse dalla loro posizione originaria. Questa sorta di damnatio memoriae è un altro degli aspetti di maggior interesse e potrebbe forse essere riferita all’arrivo a Mont’e Prama dei Cartaginesi, nel IV secolo a.C. A quell’epoca, dopo un lungo abbandono, il sito viene infatti frequentato da genti puniche, la cui presenza è attestata dal ritrovamento di grandi quantità della ceramica di cui erano produttori. Ebbene, poiché gli studi finora condotti hanno dimostrato che Cartagine impose sulla Sardegna un dominio assai energico, non si può escludere che, desiderosi di affermare la loro supremazia culturale, i nuovi venuti avessero voluto cancellare il ricordo che le genti locali potevano conservare del proprio passato nuragico anche attraverso interventi come la distruzione delle statue di Mont’e Prama. Si tratta di un’ipotesi certamente suggestiva, che mostra però qualche limite ove si consideri che fra la messa in opera delle sculture e questa eventuale forma di iconoclastia erano trascorsi circa quattro secoli, nel corso dei quali, con ogni probabilità, le comunità indigene avevano perso la memoria dei loro antenati nuragici.

La sala delle riunioni Nell’area indagata, risalendo verso la collina, si conservano anche i resti di una grande struttura cerimoniale, con ogni probabilità una sala per riunioni. Si tratta di una costruzione a pianta circolare (denominata Edificio A), con un diametro esterno di 9 m e uno interno di 6, nel cui poderoso muro (1,5 m di spessore), sul lato sud, era stato aperto l’ingresso. Quest’ultimo venne in un secondo momento rimpiazzato da In alto ancora due statue di pugilatori, esposte nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.

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Il volto del pugilatore visibile, a destra, nella foto alla pagina precedente. Si possono notare la forma triangolare del viso, con occhi resi da cerchi concentrici e una linea sottile per la bocca. Tipici sono i tagli netti che caratterizzano la definizione delle orecchie e del naso.

una nuova porta, questa volta orientata a nordovest. A questa sala fu affiancata una seconda struttura (Edificio B), probabilmente avente funzioni di servizio, che alla prima era collegata per mezzo di un atrio. In epoca cartaginese ai due nuclei toccarono sorti diverse: l’edificio A venne totalmente rimaneggiato e trasformato in abitazione, mentre l’edificio B, la cui parte superiore era nel frattempo crollata, proprio per questo non venne toccato in quanto non si dovette rilevarne la presenza. Una circostanza che, oltre duemila anni piú tardi, ha offerto agli archeologi una situazione ideale: il vano, infatti, era stato perfettamente sigillato dal crollo e, una volta rimossi i detriti, si è presentato in condizioni eccellenti, con larga parte della pavimentazione ancora in situ e suppellettili varie, tra cui vasi in ceramica, un frammento di modello di nuraghe riutilizzato e

un cumulo di ciottoli marini bianchi, trovati come se fossero caduti da un sacco. Stefano Mammini

PER SAPERNE DI PIÚ • Marco Minoja, Alessandro Usai (a cura di), La pietra e gli eroi: le sculture restaurate di Mont’e Prama, guida all’esposizione, Sassari 2011 • Alessandro Bedini, Carlo Tronchetti, Giovanni Ugas, Raimondo Zucca, Giganti di pietra. Mont’e Prama. L’heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo, Fabula, Cagliari 2012 • Marco Minoja, Alessandro Usai (a cura di), Le sculture di Mont’e Prama. Contesto, scavi e materiali, Gangemi Editore, Roma 2014 • Emerenziana Usai, Raimondo Zucca, Mont’e Prama (Cabras) le tombe e le sculture, Carlo Delfino Editore, Sassari 2015

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MONOGRAFIE

n. 61 giugno/luglio 2024 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore: Daniele F. Maras è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Illustrazioni e immagini: Alamy Stock Photo: copertina – Shutterstock: pp. 6/7, 8-9 – Zde, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons: p. 7 – Doc. red.: pp. 14-41, 42 (basso), 43, 44-75, 76, 78-81, 86, 88, 92-105, 106 (basso), 107, 110-117, 121, 123 (destra), 124, 125 (alto), 126-127, 128; Studio Inklink, Firenze: p. 109 – da: Tazza Farnese, Museo Archeologico Nazionale di Napoli-5 Continents, Milano 2018: Luigi Spina: pp. 82-85, 89, 90-91 – Stefano Mammini: pp. 118-119, 122, 123 (sinistra), 125 (basso), 129 – Cippigraphix: cartine alle pp. 42, 77, 86/87, 106, 120. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: la Chimera di Arezzo, scultura in bronzo raffigurante la mitica belva, rinvenuta nella città toscana nel 1553. Produzione etrusca, primo quarto del IV sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

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