N. 62 - L'altra faccia della medaglia

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LA MONETA ANTICA

ARTE • PROPAGANDA • RELIGIONE

di Francesca Ceci

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

N°62 Agosto/Settembre 2024 Rivista Bimestrale

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA LA MONETA ANTICA

ARTE • PROPAGANDA • RELIGIONE di Francesca Ceci

Come antiche cartoline

6. INTRODUZIONE

74. COME SCAVARE UN RIPOSTIGLIO

18. UNA QUESTIONE D’IMMAGINE

78. STRENNE DI CAPODANNO

18. Il doppio volto della propaganda 22. Gli sguardi dell’impero 26. L’altra metà del potere 30. Quando i ritratti vengono al pettine

34. ISTANTANEE DA ROMA 34. Splendori capitolini 38. Monumenti e monetazione

82. TESTA O CROCE? 86. COME SI REALIZZA UNA MONETA 86. Dalla miniera alla zecca 90. Una «familia» molto numerosa 94. Tra l’incudine e il martello

42. A SPRON BATTUTO

98. UNA LUPA DAVVERO SPECIALE

46. DIVINITÀ E PERSONIFICAZIONI

102. UNA MONETAZIONE MITICA

46. Raffigurare gli dèi 50. Il pantheon in un tondello

102. Il pio Enea 106. Maialini e amori divini

54. TRA PAGANESIMO E CRISTIANESIMO

110. LE SABINE, LA MISTERIOSA TARPEA E LE ORIGINI DI ROMA

54. Un solo dio per il padrone del mondo 58. La croce e la vittoria

62. DA DOVE VENGONO TUTTI QUESTI SOLDI? 66. IL CONTO DI DIONISO 70. RIPOSTIGLI E TESORI

114. QUASI UN’ANTOLOGIA 118. ANIMALI DA TERRE LONTANE 122. MOSTRI E GIGANTI 126. UMANO, TROPPO UMANO...


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COME ANTICHE CARTOLINE LE MONETE NON ERANO SOLO UN MEZZO DI SCAMBIO, ESSENZIALE PER TUTTE LE TRANSAZIONI ECONOMICHE. ERANO ANCHE AMULETI, TESSERE DI RICONOSCIMENTO, DONO PER I DEFUNTI. OGGI, INVECE, SI RIVELANO FONTI DI INFORMAZIONI PREZIOSE PER RICOSTRUIRE USI, STORIE E CREDENZE DELLE CIVILTÀ DEL PASSATO

L

a numismatica antica e, in particolare, quella romana è un settore della ricerca archeologica che appassiona e accomuna storici, economisti, archeologi, storici dell’arte e schiere di cultori. Lo studio della monetazione, infatti, apre molteplici campi di indagine, tutti di fondamentale rilievo per la ricostruzione socio-economica del mondo antico, nonché dei fattori che di volta in volta determinarono e modificarono il valore del denaro. Ma accanto a temi di «alto profilo», la numismatica tocca anche un altro tipo di fenomeni minori, meno conosciuti, ma egualmente avvincenti, che danno un contributo importante alla comprensione profonda di una determinata società. Ed è proprio sugli aspetti secondari, sull’altra faccia della medaglia, che ci vogliamo soffermare, trattando dei particolari usi rivestiti dal denaro, attribuitigli dalla popolazione del mondo romano e svincolati dalla sua originaria natura di mezzo di scambio. La moneta divenne allora amuleto e oggetto magico, dono per i defunti, gioiello, tessera di riconoscimento. Tali usanze fanno luce su interessanti e poco note tradizioni popolari, diffuse in ogni strato sociale e a metà strada tra rito e superstizione; alcune di queste consuetudini, come si vedrà, perdurano ancora oggi mantenendo sempre la moneta come protagonista.

Strumenti di propaganda Inoltre la monetazione romana, caratterizzata da una straordinaria varietà di raffigurazioni, unica nel mondo antico e moderno, svolse anche una funzione che può definirsi propagandistica. La capillare penetrazione in tutti gli strati della società e negli angoli piú remoti dell’impero, ma anche al di fuori dei suoi confini, ne fece un mezzo formidabile per diffondere, attraverso le immagini, messaggi ideologici e programmatici prescelti dall’autorità preposta all’emissione. Infatti le iconografie monetali potevano Sulle due pagine denarii romani in argento battuti al tempo di vari imperatori fra il I e il III sec. d.C.

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rappresentare, in età repubblicana e poi in forma concettualmente diversa durante l’impero, la famiglia del magistrato monetario, oppure i protagonisti della vita politica, e ancora edifici pubblici e divinità. Ciò ha permesso di tramandare sino ai giorni nostri, come tante piccole cartoline dell’epoca, l’aspetto originario – seppure sintetizzato nel circoscritto campo monetale – di personaggi storici, di statue e monumenti ormai scomparsi. Cosí, per esempio, oggi possiamo ricostruire, sulla base della testimonianza numismatica, la statua colossale del dio Sole che sorgeva accanto all’Anfiteatro Flavio, o l’architettura del Circo Massimo, raffigurato durante il pieno svolgimento delle corse. Nei vari capitoli si può anche rilevare come i personaggi piú illustri della Roma repubblicana e imperiale abbiano acquistato una precisa fisionomia grazie ai ritratti apposti sulle monete, resi di sicura attribuzione dal nome riportato nella leggenda che corre intorno al tipo. Cesare, Bruto, Marco Antonio e Cleopatra, Augusto e Ottavia, cosí come gli imperatori con le loro mogli e figli sono effigiati entro il campo del conio, in un’immagine che esprime efficacemente e in pochi tratti carattere e personalità. Ed è stato proprio lo studio dei ritratti e delle leggende monetali effettuato dagli umanisti della metà del XV secolo a permettere a Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina, di riconoscere per primo nel cavaliere della statua equestre oggi sulla piazza del Campidoglio la raffigurazione di Marco Aurelio e non quella di Costantino, al quale era stata comunemente attribuita durante tutto il Medioevo.

Il pedaggio per l’Aldilà Un uso «non monetario» del denaro antico particolarmente affascinante è quello comunemente definito come «obolo di Caronte», che consiste nella deposizione di una moneta nella tomba, come parte del corredo del defunto. L’origine della moneta risale all’ultimo quarto del VII secolo a.C. e la sua prima attestazione in tombe si riscontra nel mondo greco nel pieno V secolo a.C.; ma è soprattutto in età romana che tale usanza conobbe un’ampia diffusione spaziale e cronologica, tanto da perdurare sporadicamente, come attestato dagli studi folclorici, anche in età contemporanea. Questa tradizione è stata interpretata sulla scorta delle fonti letterarie latine e greche in cui si menziona il pedaggio dovuto a Caronte, il traghettatore infernale, da parte delle anime per essere condotte nell’Aldilà. Il piú antico testo che ne fa menzione è un brano della commedia di Aristofane Le Rane (405 a.C.), in cui viene ironicamente ricordato il prezzo dovuto a Caronte in tempi di crisi economica: due pezzi, anziché il consueto e inflazionato obolo. Altrettanto importante è un passo di Callimaco, della prima metà del III secolo a.C., nel quale a proposito di una località greca considerata in diretta comunicazione con l’Ade, si dice che «in

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In alto tetradramma d’argento con le immagini di Antonio (al dritto) e di Cleopatra (al rovescio). 37-32 a.C. Il ritratto di Cleopatra è una delle migliori immagini della regina nella seconda parte del suo regno. Collezione Goudchaux. In basso rovescio di un denario d’argento di Emilio Lepido, con l’immagine della basilica Emilia, da lui fatta erigere. 65 a.C. Monete come questa sono documenti preziosi per la conoscenza dei monumenti.


Caronte e Psiche, olio su tela di John Roddam Spencer Stanhope. 1883. Collezione privata. L’artista immagina il traghettatore infernale che riscuote l’offerta della defunta, prendendo l’obolo dalla bocca.

questa sola città i morti non hanno la moneta per il traghetto, che agli altri la legge divina impone di portare nelle aride bocche»: oltre alla necessità del pedaggio, è qui riportata anche la posizione della moneta, da porre nella bocca.

Un’usanza diffusa, ma non sistematica Ancora molto tempo dopo, intorno alla metà del II secolo d.C., lo scrittore in lingua greca Luciano descrive, in una delle sue opere satiriche (de luctu, X) questa tradizione: «quando uno dei familiari muore, per prima cosa prendono un obolo e glielo mettono in bocca, per pagare la traversata al nocchiero, senza prima accertarsi quale moneta abbia corso nell’Aldilà». È suggestivo avvicinare a questo racconto la scena di compianto funebre raffigurata su di un’urna cineraria ritrovata nel sepolcro romano degli Statilii, già nel Museo delle Terme di Roma e purtroppo trafugata, nella quale un personaggio avvicina la mano al volto del defunto: sebbene si sia voluto riconoscere in quest’atto la deposizione di una moneta nella bocca, non è però assolutamente possibile affermarlo con certezza. Questo rituale, suffragato dai ritrovamenti archeologici, è stato oggetto di numerosi convegni e studi specifici, che hanno permesso di riconsiderare e puntualizzarne il senso, il cui significato non sembrerebbe esaurirsi nel solo senso di viatico da fornirsi a chi muore: infatti, se la moneta nella tomba fosse stata sentita come condizione imprescindibile per accedere all’Aldilà, quasi ogni sepoltura avrebbe dovuto restituirne una; studi statistici hanno invece dimostrato come nei sepolcreti romani la media complessiva delle tombe con obolo sia spesso inferiore al 20%. Il numero delle persone che praticava quest’usanza era quindi limitato: a conferma del fatto che non doveva trattarsi di un vero e proprio credo religioso, bensí un gesto a metà strada tra rito e superstizione. Come poc’anzi accennato, escludendo poche testimonianze di carattere letterario, le fonti antiche sono avare di notizie su questo argomento, mentre invece abbondano i ritrovamenti: è quindi il dato archeologico l’elemento «forte» su cui basarsi per meglio cogliere il significato attribuito alla «moneta per i morti». Esso è attestato in ogni

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tipologia sepolcrale, dalle tombe entro ricchi edifici funerari di famiglia, alle incinerazioni, alle semplici deposizioni cosiddette «alla cappuccina», alle catacombe. Fortunatamente le moderne metodologie d’indagine sono da tempo attente alla registrazione di ogni dato rilevabile al momento dello scavo, tra cui l’esatta ubicazione dei corredi e dunque anche della moneta. I dati restituiti dall’indagine archeologica dimostrano come questa non si trovi solo presso la bocca, ma preveda anzi un’ampia gamma di posizioni, sia rispetto al corpo che agli altri oggetti del corredo, con cui spesso è in stretto rapporto. Anche nel numero si sono osservate delle variabili: dal singolo esemplare sino a veri e propri gruzzoli, particolarmente diffusi in età tardo-antica.

Risarcire le vite spezzate I nominali piú usati a scopo funerario sono quelli in bronzo, e principalmente l’asse, mentre le monete d’argento, piuttosto rare, sono solitamente destinate alle sepolture di fanciulle, giovani e infanti, quasi a risarcire con un metallo piú prezioso la freschezza della vita spezzata. L’oro, pure attestato, è rarissimo nell’età imperiale, mentre monete in questo metallo si ritrovano nelle sepolture longobarde, per lo piú montate a gioiello.

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In alto particolare della decorazione di una lekythos (vaso greco di uso funerario) a fondo bianco con l’immagine della defunta che aspetta la barca di Caronte che si avvicina, da Atene. Metà del V sec. a.C. Providence, Rhode Island School of Design. La donna tiene in mano un recipiente con l’obolo dovuto alla divinità infernale. A destra, sulle due pagine teschio di epoca romana con una moneta (un dupondio di Antonino Pio, 140-144 d.C.) nella bocca. Valencia, Museu de Prehistòria. A sinistra urna cineraria, sul cui rilievo è raffigurata la giovane defunta, Iulia Eleutheris, sul letto funebre, con accanto i parenti in lutto e un officiante del culto, dal sepolcro degli Statilii. 200 d.C. Già Roma, Museo Nazionale Romano (l’urna è stata trafugata nel 1978).


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Le varie modalità di deposizione lasciano supporre l’assenza di una rigida codificazione per una consuetudine che lasciava ampio margine di scelta a coloro che la praticavano nell’accomiatarsi dal defunto, dotandolo di ciò che la tradizione popolare riteneva utile per compiere l’ultimo viaggio.

Monete e chiodi magici La valenza funeraria delle monete ritrovate nelle tombe, cosí come la loro trasformazione in monili e portafortuna, attesta i molteplici significati che il mezzo di scambio poteva assumere di volta in volta nel mondo romano, sia fra i vivi che tra i morti. La moneta era considerata, nella tradizione popolare, un oggetto carico di valenze apotropaiche, divenendo, a seconda delle circostanze, ornamento e amuleto. Questa sorta di potere magico attribuitole derivava dalla natura metallica e dalla forma circolare: infatti era diffusa credenza che fosse impossibile per gli spiriti maligni penetrare all’interno di manufatti con tali caratteristiche. Anche le figurazioni, spesso consistenti in immagini di divinità come Fortuna, Spes, Iside, Venere, ne aumentavano la carica protettiva. Plinio il Vecchio, in un passo della sua Naturalis historia (XXXV, 137), accenna a una moneta, un triente di bronzo, venerato dalla familia dei Servilii come un sacro manufatto al quale erano legati i fausti destini di questa gens. Le fonti letterarie latine testimoniano la valenza positiva attribuita a determinati nominali, principalmente l’asse emesso in età repubblicana e contraddistinto sul dritto dalla testa bifronte di Giano e sul rovescio dalla prua di una nave. Ovidio racconta dell’uso di scambiarsi determinate monete nel giorno di Capodanno e come fosse particolarmente ricercata la vecchia moneta enea, consunta dal tempo e dall’uso, in particolare quella con la testa di Giano, dio degli inizi e dei passaggi. Inoltre, le spose novelle erano solite offrire ai Lari un asse al momento del matrimonio, sottolineando anche con tale offerta il proprio passaggio nel ruolo di sposa. Il dio era inoltre preposto alla nascita, ovvero all’ingresso dell’uomo nella vita, e per estensione è forse possibile immaginare un suo legame anche con il momento della morte, intesa come il definitivo cambiamento di stato cui è soggetto l’essere umano: nelle tombe la moneta che ricorre con maggior frequenza è proprio l’asse, anche se solitamente quello d’età imperiale con il volto dell’imperatore. In occasione del Capodanno poi era diffusa consuetudine scambiarsi oggetti di buon augurio, tra cui monete e lucerne decorate con immagini particolari. Esiste una classe di lucerne romane d’età imperiale dette, dalle decorazioni che ne ornano il disco, lucerne di Capodanno. Esse riportano solitamente la personificazione della Fortuna o della Vittoria, accompagnate da oggetti e frasi d’augurio per l’anno a venire: «Che il nuovo anno sia a me (o a te) fausto e felice». Oltre al motto, vi erano raffigurati oggetti portafortuna come ghiande e pigne, simbolo di abbondanza e di eternità, e varie monete, tra cui l’asse con la testa di Giano, nonché denari e

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Asse con testa di Giano (al dritto, in alto) e prua di nave (al rovescio, a sinistra). Età repubblicana. A monete come questa, soprattutto per la presenza dell’immagine di Giano, dio degli inizi e dei passaggi, si attribuiva una valenza positiva.


quinari con due mani che si stringono, a volte con un caduceo. Come si è visto, la valenza beneaugurante attribuita alla moneta è documentata anche tra i vivi. Tornando al mondo dei morti e ai rinvenimenti funerari, è particolarmente interessante l’associazione, in alcuni corredi, di un vasetto di terracotta entro cui potevano essere inseriti, a seconda dei casi, una moneta, un chiodo e a volte anche una lucerna.

Un «oggetto di famiglia»?

Una lucerna decorata da un rilievo che raffigura la Fortuna, dalla tomba Rebato 41, nei dintorni di Este. Età imperiale. Este, Museo Nazionale Atestino. Si tratta di un tipico esempio delle cosiddette «lucerne di Capodanno», considerate oggetti portafortuna per la presenza di immagini e motti beneauguranti.

In un sepolcreto d’età imperiale nel suburbio di Roma, lungo la via Nomentana, è venuta in luce una sepoltura con un interessante corredo: sul petto del defunto era stato deposto un asse di fine I-II secolo d.C., mentre lungo il fianco aveva un’olletta a pareti sottili da cui fuoriuscivano un grosso chiodo e una lucerna della fine del I secolo d.C. Scavando in laboratorio il vasetto, sono stati ritrovati sul fondo un altro chiodo ritorto e un asse con testa di Giano della fine del III secolo a.C., quindi di almeno 300 anni piú antico rispetto l’altra moneta. Sebbene la circolazione di moneta repubblicana perduri sino a età traianea, quest’asse potrebbe forse essere stato un «oggetto di famiglia», una sorta di portafortuna lungamente conservato e donato al defunto come estremo saluto e viatico per l’Aldilà. L’associazione vasetto-chiodo-moneta-lucerna attesta chiaramente credenze legate alla superstizione popolare di cui però non abbiamo testimonianza letteraria, se non per la valenza talismanica attribuita ai metalli in generale e in particolare al chiodo e alla moneta. Ad avvalorare il possibile significato magico dell’associazione lucerna/moneta contribuisce il ritrovamento, presso piazza Euclide, a Roma, e poco lontano dalla via Flaminia, della fonte sacra alla divinità chiamata Anna Perenna. Verso la fine del III-inizi del IV secolo d.C. si dovette installare vicino alla fonte un artefice di sortilegi, la cui attività è testimoniata da figurine umane in cera racchiuse entro triplici barattolini di piombo, tavolette sempre in piombo per maledizioni, e numerose lucerne intonse e di colore chiaro il cui uso per incantamenti è conosciuto dalle fonti letterarie. Orbene, due di queste lucerne avevano al loro interno una moneta ciascuna, chiaro indizio di un rituale misterioso che caricava di qualità «magiche» l’associazione tra i due oggetti. Anche il chiodo di ferro può assumere valenze legate alla superstizione, ed è attestato con una certa frequenza in ambiti funerari sia greci che romani. Infatti quando si ritrovano in una tomba uno o due grossi chiodi di ferro, spesso ritorti, non sembra possibile considerarli come pertinenti a una cassa o a una barella funebre, che ne avrebbe richiesti un numero ben maggiore. Dunque, il chiodo singolo doveva svolgere un ruolo diverso da quello semplicemente fisico dell’inchiodare. In ambito religioso questo oggetto, metallico e appuntito, era l’attributo delle divinità Necessitas e Nemesis con il quale si fissava irrevocabilmente un evento. In campo funerario il chiodo doveva svolgere una duplice funzione protettiva nei confronti sia del morto che dei vivi. Innanzi tutto esso difendeva metaforicamente la sepoltura da eventuali profanatori; non era infatti rara, nel mondo romano, l’attività dei ladri di tombe, ricordata anche dalle fonti letterarie. Una tabula picta rinvenuta a Roma in un

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colombario della via Latina (CIL VI, 7191) recava inscritta la seguente maledizione, che ricorda un malocchio: Quicumque hinc clavos exemerit in oculos sibi figat («Chiunque strapperà di qui i chiodi, se li ficchi negli occhi»); in un sepolcreto di Vercelli un’urna funeraria era stata completamente circondata da chiodi, con il chiaro intento di proteggerla, spaventandoli, dagli antichi tombaroli. La deposizione di singoli chiodi ricorre anche nelle catacombe, dove sono stati ritrovati esemplari con iscritto il nome degli Arcangeli accompagnato dal segno della Croce. Inoltre il chiodo svolgeva anche (e soprattutto) la funzione primaria di assicurare simbolicamente i defunti alla loro nuova dimora, scongiurandone cosí un temuto ritorno nel mondo che avevano appena lasciato e a cui gli spiriti anelavano ritornare. Questo rituale è attestato in numerose aree sepolcrali del suburbio romano e ostiense, cosí come anche nelle necropoli di Ischia. Il teschio di un giovane atleta, cinto da una corona d’oro e provvisto dell’obolo per Caronte (una moneta in argento battuta al tempo dell’imperatore Tiberio), dalla necropoli di Latò pros Kamara (Haghios Nikolaos, Creta). I sec. d.C. Haghios Nikolaos, Museo Archeologico.

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Una moneta usata come obolo di Caronte, frammenti di una brocca in vetro, resti combusti di un manufatto in osso e chiodi rinvenuti nella necropoli di Sagalassos (Turchia). Età imperiale romana.

Il ritorno dei morti è un tema ampiamente diffuso tra le popolazioni antiche e moderne, che da sempre incute terrore per l’estraneità acquisita dal cadavere e per il sovvertimento che questo rientro causerebbe nel normale ordine delle cose. Per scongiurare tale evenienza, evidentemente sentita come possibile, venivano adottati vari accorgimenti, che miravano a legare, anche fisicamente, il defunto alla sua definitiva dimora.

Con una tavoletta sullo stomaco Nelle necropoli di età greca e romana di Pithecussa, l’antica Ischia, la relativa ricorrenza di chiodi all’interno delle tombe ha permesso di evidenziare il valore magico loro attribuito. In una sepoltura di età ellenistica (la n. 49), per esempio, alcuni chiodi erano sia fissati che sistemati sotto una tegola, mentre in una deposizione di età antonina (n. 110) il defunto aveva sullo stomaco una tavoletta di ferro con infisso un grosso chiodo di 12 cm e un altro chiodo piú piccolo accanto alla tibia: ciò è stato interpretato come rituali superstiziosi che miravano a scongiurare un ritorno dall’Aldilà. Un diverso espediente, connesso sempre a questo timore, fu attuato in un’altra tomba d’età romana (n. 104), dove sulle gambe del morto venne accatastato un cumulo di pietre, al fine di impedire al corpo di alzarsi e ritornare nel mondo dei vivi. Ancora un caso particolare è stato riscontrato nella necropoli d’età bassomedievale scavata a Castel San Pietro Terme (Bologna) e annessa a un edificio ecclesiastico: il defunto (n. 703) era stato immobilizzato al terreno con quattro chiodi all’altezza delle spalle e del costato, infissi per «bloccarlo» nella tomba. Ciò testimonia la persistenza, anche in contesti chiaramente cristiani, di credenze e rituali che non avevano nulla di religioso. Come si è visto, la deposizione della moneta nella tomba si inserisce in una complessa e ancora non meglio definita gamma di comportamenti adottati dai vivi al momento del commiato definitivo dal defunto e che potevano assumere significati diversi: resta ancora da chiarire il criterio per cui, all’interno di un ambito funerario omogeneo, alcuni defunti a differenza di altri vengano dotati di una moneta.

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FRA RELIGIONE E SUPERSTIZIONE S

egno di una credenza religiosa, d’una offerta, o piú probabilmente, di un gesto scaramantico e indipendente da una precisa fede ultraterrena, il dotare il defunto di una moneta è una tradizione che – relitto di una ritualità popolare a metà strada tra religione e superstizione – attraversa l’età tardo-antica e medievale, sino a giungere ai giorni nostri. Il progressivo diffondersi del cristianesimo delle origini in tutti gli strati della società romana non impedí il persistere di numerosi atti del mondo religioso pagano, soprattutto in ambito funerario, i quali risultavano talmente radicati da continuare a essere praticati, anche se reinterpretati alla luce del nuovo credo. Tra questi rientra la deposizione funeraria di una moneta, che non cessa di essere attestata in contesti chiaramente cristiani come le sepolture

intorno ed entro le chiese e le catacombe, nelle quali sono attestati cospicui gruzzoli monetari. Sempre nelle catacombe le monete sono state ritrovate anche infisse nella calce intorno alle tegole che richiudevano il loculo; in quest’ultimo caso, però, non sembra si tratti di corredo, bensí di una sorta di arredo esterno della tomba, a cui potrebbe forse affiancarsi la memoria della tradizione relativa al viatico per il defunto. La presenza o meno della moneta anche nelle tombe cristiane non è generalizzata, ma comunque attestata e legata pertanto a una scelta individuale – effettuata da chi si era occupato della sepoltura –, che accettava e riproponeva un gesto simbolico e/o superstizioso che proveniva direttamente dal mondo pagano. In età gota e poi longobarda i

In alto disegno di una sepoltura in cui il defunto era stato provvisto di un «gruzzolo» di monete (indicate dai cerchielli colorati). A sinistra Roma, Catacomba di Priscilla: la chiusura della lastra di un loculo, con monete inserite nella malta. Il diffondersi del cristianesimo non cancellò del tutto gli usi funerari pagani, come quello di inserire nella tomba una moneta per favorire il passaggio dell’anima nell’Aldilà.

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L’AVIDITÀ DI GUGLIELMO IL MALO L’uso di deporre monete nelle tombe continua nel Medioevo, testimoniato anche a livello folclorico. In un racconto popolare diffuso nell’Italia meridionale si parla tra l’altro della consuetudine di dotare personaggi abbienti di monete preziose, come in un episodio riferito al tempo della dominazione normanna in Sicilia. Un racconto siciliano narra come il normanno re di Sicilia Guglielmo I il Malo (1154-1166; qui accanto, in una stampa seicentesca), cosí ribattezzato per la ferocia con cui represse una sollevazione di baroni che mirava a deporlo, fece requisire nella sua avidità tutto il denaro in circolazione, sostituendolo con nominali in cuoio. Con astuzia, per vedere se veramente ogni moneta preziosa fosse stata consegnata, mise in vendita un magnifico cavallo bianco al prezzo di una moneta d’oro. Un giovane principe volle assolutamente acquistare l’animale pur non avendo piú denaro e a tal fine, dietro consiglio di un uomo anziano, si risolse ad aprire la tomba del padre, un uomo ricco e potente e che perciò era stato sepolto con una moneta d’oro in bocca. Acquistato il cavallo, il principe fu condotto alla presenza dell’irato re il quale, una volta saputo il fatto, intensificò la ricerca di monete in maniera ancor piú capillare. ritrovamenti funerari italiani dimostrano la persistenza di monete in metallo prezioso nelle sepolture di personaggi di rango, spesso montate a monile. Il re goto Teodorico emanò, tra il 507 e il 511 d.C., disposizioni che vietavano di seppellire con i defunti monete e altri preziosi, con il chiaro intento di impedirne una definitiva uscita dalla circolazione economica. Le monete

sono presenti anche nei sepolcreti longobardi, deposte in alcuni casi nelle mani o sul corpo del defunto, oppure forate e utilizzate come ciondolo. Sempre in ambito medievale è particolarmente interessante il caso della sepoltura (tomba 10) scavata all’Impruneta di Firenze presso la pieve di S. Maria: aperta la tomba, databile al XV secolo, si è visto che la defunta

aveva in mano un asse di età repubblicana tagliato a metà. Piú che della sopravvivenza di riti non cristiani, potrebbe, in via ipotetica, trattarsi dell’ultima citazione «colta» di una dotta amante dell’antichità classica che, possedendo una moneta romana e conoscendo la tradizione dell’obolo funerario, si fece seppellire secondo l’antica usanza.

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STORIE DI MONETE

UNA QUESTIONE D’IMMAGINE/1

IL DOPPIO VOLTO DELLA PROPAGANDA I POTENTI DELLA ROMA REPUBBLICANA INTUISCONO BEN PRESTO LO STRAORDINARIO POTENZIALE DELLE MONETE COME VEICOLO ATTRAVERSO IL QUALE CELEBRARE SE STESSI E LE PROPRIE IMPRESE. E LA DECISIONE DEL SENATO DI AUTORIZZARE GIULIO CESARE A RIPRODURRE LA PROPRIA EFFIGIE DÀ IL VIA A UNA TRADIZIONE CHE CARATTERIZZERÀ L’INTERA ETÀ IMPERIALE

U

no dei grandi temi della numismatica romana è quello dell’impiego o meno della moneta come strumento di propaganda politica. Questa problematica deriva dalla natura stessa della moneta: essa, infatti, in quanto mezzo di scambio, si propaga in maniera capillare, raggiungendo ogni strato sociale e luoghi anche molto distanti dai confini dello Stato che la emette (si pensi, per esempio, agli esemplari di età antonina ritrovati in Cina e a quelli piú genericamente imperiali attestati in India). Contemporaneamente, ovunque giunga, essa veicola le immagini che compaiono sulle sue facce. Nell’insieme, la

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monetazione romana è inoltre caratterizzata da una varietà tipologica eccezionale, peraltro estranea alle altre emissioni antiche, e incentrata su eventi, persone, divinità e monumenti legati a Roma; tali figurazioni conobbero una diffusione enorme tra genti e Paesi anche lontanissimi tra loro. È facile cosí comprendere come sia sorto il complesso confronto tra gli studiosi sull’utilizzo piú o meno ideologico e propagandistico dei tipi monetali a partire dal II secolo a.C., prescelti dapprima dai magistrati preposti alle coniazioni e in seguito dagli imperatori. La struttura politica della Roma repubblicana, qualificata nei suoi vari periodi dall’alterno prevalere di indirizzi politici legati a gruppi familiari eminenti, prevedeva che il gradino iniziale della carriera politica fosse costituito dalla magistratura del tresvirato monetale (tresviri monetales), istituiti nella prima metà del III secolo a.C. I primi denari in argento battuti da Roma – la cui cronologia, come la precedente, è anch’essa dibattuta, oscillando tra la prima metà e gli ultimi decenni del III secolo a.C. – sono contraddistinti sul dritto da una testa femminile elmata, la personificazione di Roma,

Denario in argento emesso dalla zecca di Roma certamente in circolazione a partire dal 211 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme, Medagliere. È uno dei primi esempi di propaganda affidata alle monete: la città celebra se stessa con due immagini di segno insieme religioso e guerriero, che la definiscono come potenza la cui aggressività bellica (Roma elmata, al dritto) è posta sotto la tutela degli dèi (i Dioscuri, al rovescio).


In alto denario in argento dei questori Lucio Calpurnio Piso e Quinto Servilio Cepio. 100 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme, Medagliere. L’iscrizione fa riferimento alle leggi frumentarie volute dal partito dei popolari. A destra aureo di Marco Antonio, emesso nel 43 a.C. da una zecca della Gallia Cisalpina. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme, Medagliere. Al dritto, il ritratto del triumviro e, al rovescio, quello di Lepido. In basso denario in argento di T. Carisius, emesso dalla zecca di Roma nel 46 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme, Medagliere. Al dritto la testa di Giunone Moneta e al rovescio gli strumenti usati per la coniazione.

e sul rovescio da due cavalieri con lancia in resta, i Dioscuri, i gemelli figli di Giove e Leda (nonché fratelli di Elena di Troia), divini protettori del popolo romano e identificati dalla stella sopra i loro cimieri. Si tratta di un’iconografia che potrebbe definirsi di tipo programmatico: la città celebra se stessa attraverso due immagini di segno insieme religioso e guerriero, che la definiscono come potenza la cui aggressività bellica (Roma elmata) è posta sotto la tutela degli dèi (Dioscuri al galoppo).

Emissioni ordinarie e straordinarie Dalla seconda metà del II secolo a.C., i magistrati monetari ebbero la facoltà di apporre raffigurazioni di carattere apologetico, celebranti i fasti passati delle loro famiglie, avi illustri – piú o meno reali –, episodi bellici, civili o mitici, divinità tutelari. Ciò sembra fare della tipologia un efficace mezzo di esaltazione della gens del monetiere, il cui potenziale doveva essere ben chiaro agli uomini politici ai quali era affidata la coniazione. Accanto alle emissioni della magistratura ordinaria vi erano poi quelle straordinarie, a nome di questori, edili, prefetti, consoli e generali, i quali avevano a loro volta facoltà di adottare le figurazioni che ritenevano piú consone. Come si vede, lo Stato lasciava ampia libertà riguardo alle immagini, rispettando le scelte dei monetieri; l’unico vincolo era la proibizione di ritrarre i viventi. Ciò non tolse comunque la possibilità di ricordare alcuni contemporanei e le loro opere: l’esempio piú famoso è offerto dal denario battuto da Lucio Calpurnio Piso e Quinto Servilio Cepio, questori nel 100 a.C.; i due sono schematicamente rappresentati

seduti su uno sgabello, il subsellium, tra due spighe di grano; i loro volti sono però solo abbozzati, privi di qualsiasi intento ritrattistico. La leggenda posta in esergo – ovvero la parte della moneta separata dal resto del campo da una linea – motiva questa emissione speciale, destinata ad fru(mentum) emu(ndum) ex s(enatus) c (onsulto): cioè coniata su decreto del Senato per un acquisto straordinario di frumento da distribuire al popolo. Una delle rarissime eccezioni al divieto di riprodurre effigi di viventi sui conî monetali è forse quella rappresentata dallo statere d’oro di Tito Quinzio Flaminino, battuto all’indomani della battaglia di Cinocefale, dove Flaminino sconfisse Filippo V di Macedonia (197 a.C.). Sul dritto compare un incisivo volto barbato in cui si è soliti riconoscere il generale vittorioso, mentre sul rovescio è apposta l’immagine di una Vittoria e la legenda T. Quinti, prudentemente assente nel dritto; si tratta di un esemplare estremamente raro, coniato su un piede ponderale greco e che dovette circolare poco, forse perché la sua diffusione fu subito sospesa dal Senato romano.

Personaggi reali e leggendari Intorno agli inizi del I secolo a.C. si moltiplicano sulle monete i tipi con personalità leggendarie o realmente vissute connesse in qualche modo alla famiglia del monetario: emblematica è la serie dei re di Roma (Tito Tazio, Numa Pompilio, Anco Marzio), oppure dei valorosi uomini della passata storia romana (Bruto primo console, emesso da Marco Giunio Bruto, il futuro cesaricida; Scipione L’Africano, emesso da

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STORIE DI MONETE

Cneo Cornelio Blasio nel 100 a.C. circa), raffigurati, soprattutto nel caso dei personaggi piú antichi, con tratti ideali. Tra le molteplici emissioni di fine età repubblicana sono particolarmente significative quelle di Marco Giunio Bruto, in quanto evidenziano un preciso programma politico, poi drammaticamente confermato dal corso della storia. Infatti, la forte tradizione antitirannica familiare e l’adesione all’ideale repubblicano di Bruto si manifestano nella scelta delle immagini da porre sui suoi denari: sul dritto compare la testa dell’omonimo avo Bruto, uno dei fautori del crollo della monarchia dei Tarquini a Roma e primo console della Repubblica (509 a.C.), mentre sul rovescio è riproposta la testa di Caio Servilio Ahala. Quest’ultimo, antenato per parte della madre Servilia, uccise il cavaliere Spurio Mellio, accusato di aspirare alla tirannia. La storia

personale e politica di Bruto si intrecciò con quella di Roma, sino a portarlo all’uccisione di Cesare, compiuta nella vana speranza di arginare quell’inarrestabile processo politico conclusosi con l’instaurarsi del principato augusteo. Denario con elefante di Q. Cecilio Metello Pio Scipio, al comando delle forze pompeiane nel Nord Africa (47-46 a.C.). In basso, a destra denario di Cn. Cornelio Blasio (112-111 a.C.) con supposto volto di Scipione Africano.

A sinistra busto in marmo di Scipione l’Africano. Età repubblicana. Firenze, Galleria degli Uffizi. Condottiero e uomo politico, Scipione guadagnò fama imperitura, e il soprannome, per essere riuscito a sconfiggere definitivamente Annibale, nemico storico di Roma.

Un fatto senza precedenti D’altronde, era stato proprio il Senato di Roma a tributare a Giulio Cesare, nel 45 a.C. circa, poco prima della sua morte, un onore riservato fino ad allora solo agli dèi e ai defunti eroicizzati, ovvero il diritto di apporre ufficialmente la propria effigie sulle monete. Si trattava di un fatto senza precedenti a Roma e direttamente derivato dal mondo ellenistico, dove era consuetudine che principi e re, anche insieme alle consorti, venissero ritratti sulle loro emissioni. Il passo successivo da fare, quello di considerare Cesare alla stregua di un re, era quindi breve. Comunque sia, tale concessione aprí ai principali protagonisti delle vicende di fine età repubblicana la possibilità di esibire il proprio volto sulle monete, tutti ben consci della ramificata capacità di diffusione di questo mezzo di scambio e del «potere delle immagini» che esso avrebbe veicolato ovunque avesse circolato. Grazie a ciò, sono giunte sino a noi le sembianze di uomini e donne protagonisti della complessa scena politica tardo-repubblicana, come appunto Cesare, Bruto, Gaio Ottavio, ovvero il futuro imperatore Augusto, Marco Antonio, la moglie Ottavia e l’amante Cleopatra, Lepido, Sesto Pompeo. Il convulso periodo che va dall’uccisione di Cesare nel 44 a.C. al definitivo affermarsi di Ottaviano Augusto nel 27 a.C. ha un preciso riscontro nell’iconografia monetale: i triumvirati, le alleanze, i matrimoni e finanche gli amori sono puntualmente riprodotti nel ristretto conio monetale, ora apertamente usato come strumento di


propaganda. Famoso è il denario con al dritto il ritratto di Bruto e al rovescio il pileus, il berretto che simboleggiava l’affrancamento dalla schiavitú, tra due pugnali, con la leggenda eid (ibus) mar (tiis), che inneggia appunto alle Idi di marzo, il giorno in cui il cesaricida, secondo il suo intento, affrancò Roma dalla schiavitú della tirannia. L’alleanza e il triumvirato tra Ottaviano, Marco Antonio e Lepido trova rispondenza in una serie di denari e aurei coniati da Antonio, con il suo ritratto sul dritto e alternativamente quello di Lepido e di Ottaviano sul rovescio. Contemporaneamente Ottaviano celebra la sua adozione da parte di Cesare, divinizzato nel 42 a.C. e divenuto Divus Iulius: sul dritto compaiono profili del giovane condottiero e sul rovescio o il ritratto idealizzato di Cesare, o il tempio dove era venerato. Il futuro Augusto diviene quindi, per estensione, figlio di un dio, ed è questo il messaggio propagato dalle monete per ogni dove. Ed è ancora una moneta a sintetizzarlo in maniera esemplare, come il denario coniato nel 38 a.C. con Cesare affrontato a Ottaviano sul dritto.

I resti del tempio del Divo Giulio nel Foro Romano. Il monumento fu eretto e dedicato da Augusto il 18 agosto del 29 a.C., sul lato orientale del Foro.

Esaltazione della coppia imperiale Sconfitto Bruto a Filippi nel 42 a.C., le intese politiche rotte e ricomposte trovano ancora una volta riscontro sulle monete: il matrimonio (40 a.C.) tra Marco Antonio e Ottavia, sorella di Augusto, avrebbe dovuto rinsaldare l’alleanza tra i due principali attori della scena politica. Numerose emissioni esaltano la coppia, raffigurata affrontata o insieme di profilo, come i sovrani ellenistici; una serie monetale, in particolare, presenta sul dritto le due teste affiancate di Marco Antonio e Ottaviano, con quella di Ottavia di fronte, rispecchiando emblematicamente il programma politico dei due protagonisti, i cui rapporti sono ufficialmente rinsaldati dal vincolo familiare. Un’altra bella moneta di Antonio del 36-35 a.C. è dedicata all’unione, apparentemente felice, con Ottavia: sul dritto i due sono romanticamente

Denario di Ottaviano con la raffigurazione del tempio dedicato in Roma a Giulio Cesare divinizzato. 37-33 a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico.

affrontati, mentre sul rovescio vengono comparati a Poseidone e Anfitrite, su un carro trainato da ippocampi. Poco dopo, questo delicato equilibrio politico-sentimentale venne a disfarsi con la relazione prima (41 a.C.) e il matrimonio egiziano poi (37 a.C.) tra Marco Antonio e Cleopatra, che creò nell’opinione pubblica grave scandalo a seguito del ripudio di Ottavia (32 a.C.) per una lasciva donna orientale, ancorché regina, la quale già con Cesare aveva costituito una presenza imbarazzante e pericolosa per Roma. La nuova unione era stata già celebrata su diversi denari emessi in Oriente da Antonio in occasione del trionfo sull’Armenia del 34 a.C., dove fondamentale fu l’apporto economico fornito dall’Egitto: sul dritto compare un incisivo ritratto del triumviro e la leggenda Armenia Devicta e, sul rovescio, l’amante Cleopatra, quasi «virilizzata» da una resa stilistica che cancella qualsiasi allusione al suo leggendario e irresistibile fascino, enfatizzato soprattutto in età moderna e contemporanea. E la presenza davanti al busto della regina di una prua allude chiaramente alle sue navi da guerra: piú che come amante, Cleopatra è effigiata in quanto valida alleata militare. Con la battaglia di Azio, nel 31 a.C., scomparsi Antonio e Cleopatra, si concluse la guerra civile in corso nell’Urbe; Ottaviano divenne in breve tempo l’assoluto signore di Roma, aprendo, anche per quanto riguarda la monetazione, un nuovo capitolo di storia.

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STORIE DI MONETE

UNA QUESTIONE D’IMMAGINE/2

GLI SGUARDI DELL’IMPERO L’AVVENTO AL POTERE DI OTTAVIANO AUGUSTO SANCISCE IL NUOVO RUOLO DELLA MONETA. CHE DA MEZZO INDISPENSABILE PER TRANSAZIONI GRANDI E PICCOLE DIVIENE UN FORMIDABILE STRUMENTO DI PROPAGANDA

«L

a moneta è un manufatto al tempo stesso di uso comune e di valore ufficiale; un oggetto popolarissimo, ma che rappresenta l’autorità suprema dello Stato dal quale è prodotto. La moneta ha un raggio d’azione internazionale (specialmente nell’immenso impero romano) entro il quale essa rappresenta il potere centrale, dal quale riceve e al quale fornisce la sua garanzia; e perché tale garanzia divenga efficace universalmente, la moneta deve essere facilmente riconosciuta, le sue figurazioni devono essere, cioè, facilmente comprensibili». Cosí si esprimeva, alla fine degli anni Sessanta del Novecento, Ranuccio Bianchi Bandinelli, introducendo il volume di Laura Breglia L’arte romana nelle monete dell’età imperiale (1968). Queste parole ben evidenziano il ruolo determinante svolto dall’iconografia monetale come mezzo di comunicazione diretta e immediata con il popolo e allo stesso tempo d’esaltazione del potere centrale; fondamentale è poi la ricerca storica su come la tipologia monetaria fosse recepita, nel mondo antico, da coloro che riconoscevano e utilizzavano quotidianamente l’«oggetto» moneta, contraddistinto stabilmente da raffigurazioni celebranti l’imperatore, i membri della sua famiglia e, complessivamente, il suo operato. Ampiamente dibattuto dalla critica moderna, accanto all’aspetto storicoeconomico proprio della monetazione,

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Aureo di Ottaviano, coniato per il VII consolato, e per celebrare la vittoria di Azio e la conquista dell’Egitto, con la scritta AEGYPT CAPTA sul verso della moneta. Con il principato di Augusto inizia la monetazione con le effigi degli imperatori, che ne diffonde l’immagine in tutto l’impero.

è poi l’innegabile valore artistico delle incisioni riprodotte sui conî, spesso redatte da veri e propri artisti della miniatura, capaci di creare, nel ristretto campo a disposizione, capolavori della ritrattistica e della figurazione storica di carattere ufficiale. L’effigie dei regnanti occupa, quasi senza soluzione di continuità per tutto l’impero, il lato della moneta detto convenzionalmente «dritto», raggiungendo in molteplici esemplari esiti di grande rilevanza artistica, direttamente derivati e confrontabili con la statuaria dell’epoca. Sono quindi numerosissimi i contributi scientifici, spesso anche discordanti, sul rapporto tra immagini sulle monete e la loro dipendenza da modelli scultorei e/o pittorici di formato maggiore, ai quali, con ogni probabilità, si ispiravano gli incisori. La monetazione romana di questo periodo rappresenta una eccezionale galleria di ritratti degli uomini e delle donne che ressero Roma per piú di quattrocento anni; né va dimenticato il fondamentale contributo offerto dalla numismatica all’identificazione delle statue dei singoli imperatori.

L’imperatore «fantasma» La capacità della numismatica di individuare i regnanti è esemplarmente testimoniata dal ritrovamento, in Gran Bretagna, di un tesoretto di oltre 5000 monete; una di queste è a nome di un poco noto imperatore ribelle di nome Domiziano che regnò in Gallia nell’anno 271 d.C., accennato dalle fonti e attestato solo da un’altra moneta sinora ritenuta falsa. La


moneta del tesoretto conferma definitivamente la consistenza storica di questo usurpatore, restituendone anche il ritratto. Ottaviano, che, per averne fatto largo uso durante il convulso periodo seguito alla morte di Cesare, ben conosceva la potenzialità della moneta nel propagare attraverso le figurazioni precisi messaggi ideologici, fu il primo a riportare su quasi ogni esemplare il proprio volto. Divenuto padrone assoluto di Roma nel 27 a.C. con la nomina ad Augusto conferitagli dal Senato, appose questo appellativo su tutte le sue emissioni, rendendolo parte integrante, da allora, della titolatura imperiale. Sotto il diretto controllo del principe dovette verosimilmente rientrare quello delle figurazioni da destinare alle monete in oro, argento e bronzo, sebbene sulle coniazioni in bronzo compaia, formalmente, la sigla S(enatus) C(onsulto), ovvero «per decreto del Senato».

L’arte dell’incisione Da allora in poi, la variegata tipologia del principato sarà accentrata, salvo alcune eccezioni iniziali, sull’esaltazione imperiale: al dritto domina la figura dell’imperatore, dei membri della sua famiglia nonché dei predecessori divinizzati, mentre il lato opposto, il «rovescio», è dedicato a divinità, personificazioni, eventi militari, politici ed evergetici connessi a

Il dritto di due denari di Nerone, coronato di alloro. 54-68 d.C. In basso ritratto in marmo di Nerone con la caratteristica leggera barba sulle guance, riprodotta anche sulle monete. XVII sec. (solo parte del volto è antica). Roma, Musei Capitolini.

Roma e ai principi; questa serie di immagini è resa dagli incisori delle zecche con stile e capacità sintetica tanto mirabili da raggiungere in molteplici esemplari esiti altissimi. Scomparsa con l’impero la possibilità di un confronto democratico tra fazioni politiche, la moneta, destinata a diffondersi in ogni località e a circolare, in particolar modo quella in metallo pregiato, oltre i confini romani, rappresenta uno strumento – oltre che di scambio – di celebrazione del principato, simbolizzando la potenza stessa di Roma.

Un reato severamente punito Il ritratto imperiale qualificava e garantiva al contempo la bontà del mezzo di scambio. La falsificazione monetale, infatti, era equiparata al reato di lesa maestà, considerandola – oltre che una frode allo Stato – principalmente un’offesa all’immagine stessa dell’imperatore; altrettanto punibile era rifiutare le monete con il profilo del principe. La contraffazione di esemplari d’oro e d’argento veniva duramente repressa con condanne che andavano dall’esilio alla pena di morte. Va infine sottolineata l’attenzione dedicata da ogni singolo imperatore appena salito al potere, cosí come quella degli usurpatori, all’emissione immediata di moneta con il proprio volto, effettuata con l’intento precipuo di affermare la propria sovranità; e con tale significato doveva essere percepita dal popolo. Che la moneta romana fosse considerata, in virtú delle immagini che la contraddistinguevano, un’emanazione diretta di chi governava, risalta anche nel noto passo del Vangelo di Matteo (22,21): a quanti gli chiedevano se fosse obbligo pagare i tributi imposti dai Romani, Gesú rispose mostrando la testa riportata sul lato di una delle monete in

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STORIE DI MONETE

circolazione alla sua epoca: «Reddite (...) quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo» («date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»). In questo senso l’immagine qualifica l’oggetto come proprietà di colui che rappresenta.

Sempre di profilo La tipologia della testa del principe mantiene nell’impostazione generale, almeno sino a tutto il III secolo d.C., caratteristiche di lunga durata, legate dapprima al naturalismo di tradizione ellenistico-romana, che perdura tra i dinasti giulio-claudii e si riscontra sino all’età adrianea; a questa corrente si affianca poi la formalizzazione, propriamente romana, del ritratto di tipo imperatorio, in cui il regnante è mostrato con elementi distintivi di tipo militare.

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Nel corso dei secoli, la resa dei busti, riprodotti sempre di profilo, almeno sino all’usurpatore Postumo (258-268 d.C.), subisce mutazioni e arricchimenti strettamente connessi all’evoluzione politica, militare e religiosa dell’impero, nonché agli specifici indirizzi di regno propri del singolo principe. Complessivamente, nelle effigi si riscontra una moderata idealizzazione, che non trascura in alcuni casi l’accenno all’età e ai tratti somatici: l’imperatore è il simbolo dello Stato, e lo incarna nelle sue funzioni civiche, religiose, militari. All’inizio del principato il busto risulta sempre nudo e la testa è anch’essa scoperta oppure porta, di regola, una corona d’alloro; una corona di raggi cinge per la prima volta il capo del Divus Augustus ed è indossata piú tardi da Caligola in alcuni esemplari emessi in Lidia. Da Nerone in poi, invece, la corona radiata indicherà il dupondio, cioè la moneta di bronzo di peso analogo all’asse, ma di valore nominale doppio. Nel corso dell’impero, con il progressivo svilimento del contenuto d’argento del denario, la testa con corona radiata contrassegnerà l’antoniniano, una moneta in lega introdotta nel 215 d.C. da Caracalla (il cui nome era Marco Aurelio Antonino) del valore ADRIANO nominale di un doppio denario. IMPERATORE Caratteristica del principe è il volto glabro – tranne la rada peluria sulle guance di Nerone – costante sino al regno di Traiano; Adriano (117-138 d.C.) introdusse la moda della barba, dovuta, secondo gli storiografi romani, alla volontà di nascondere alcuni difetti naturali della pelle del viso e forse anche alla predisposizione del

A destra medaglione aureo di Costantino I, 320 d.C., con mantello e corazza, il volto imberbe e la testa radiata. In basso, a sinistra ritratto dell’imperatore Adriano, che introdusse la moda della barba. 117-138 d.C. Ostia, Museo Archeologico Ostiense. In basso, a destra sesterzio di Adriano, barbato e con mantello. 135 d.C.


principe alla speculazione filosofica di matrice greca, i cui pensatori sembra rifuggissero le guance lisce. Comunque sia, tale novità incontrò largo favore tanto da venire adottata da quasi tutti gli imperatori sino a Costantino (306-337 d.C.), che volle ritornare – e con lui i suoi successori – al volto imberbe.

Nerone indossa la corazza Mentre la monetazione della prima età giulioclaudia presenta il solo busto del principe (testa, collo, inizio del torace), a partire da Nerone compare la corazza, chiaro riferimento all’aspetto militare del regnante. Questa tipologia si arricchisce, nel corso dei secoli, di altri elementi accessori, quali mantello, lancia e scettro, scudo ed elmo, resi con variabile complessità, fino a raggiungere, con l’inizio della crisi dell’impero e la sempre maggiore necessità di difesa dei suoi confini, l’iconografia forte ed energica dell’imperatore-soldato. Tipi specifici delle monete sono poi i busti multipli, appaiati o affrontati, come per esempio quelli di Nerone e Agrippina, oppure le complesse rappresentazioni della dinastia severiana, con Settimio Severo, Giulia Domna e i figli Geta e Caracalla riprodotti sulle due facce della moneta con l’evidente intento di legittimare la prevista successione dei figli al trono, diffondendone l’immagine attraverso tutti i mezzi a disposizione della propaganda imperiale. Sino al III secolo d.C. il ritratto individuale è complessivamente fedele all’individuo che rappresenta; da Diocleziano in poi muta la concezione stessa del sovrano, che diviene dominus et deus, direttamente legato alla divinità in un rapporto privilegiato. Con l’età

A destra aureo di Licinio, 250-325 d.C., già fortemente stilizzato. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. In basso, al centro ritratto di Diocleziano, da Nicomedia. 284-305 d.C. Istanbul, Museo Archeologico. In basso, a destra follis di Diocleziano, con corona di alloro; i tratti imperiali sono ormai piú stilizzati e il disegno appiattito e ieratico.

tetrarchica (285-305 d.C.), e poi con quella costantiniana, la tradizionale raffigurazione del principe cede rapidamente il campo a una iconografia che tende ad astrarre e immobilizzare l’immagine del sovrano, trasformandolo in un simbolo sconfinante nella sfera del divino. L’effigie imperiale si appiattisce, dando luogo a un tipo reso con un disegno composto attraverso linee quasi geometriche e con requisiti fissi: testa massiccia e appiattita, capelli e barba corta compattati tra loro, collo taurino. Spesso l’occhio è reso di prospetto, conferendo fissità ieratica allo sguardo. Tale processo di spersonalizzazione e idealizzazione dell’immagine imperiale perdura nella monetazione costantiniana: come già accennato, la barba scompare, la pettinatura si dispone come una sorta di casco ondulato cinto di un diadema perlato, l’occhio di prospetto si rivolge in alto, sbarrato, quasi in mistico colloquio con la divinità. Della persona reale, dell’uomo Costantino I, resta l’importante naso aquilino che ricorre nelle rappresentazioni plastiche dell’imperatore, celebrato dal panegiricista Eusebio di Cesarea come uomo di bellezza e fascino superiori.

DIOCLEZIANO IMPERATORE

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STORIE DI MONETE

UNA QUESTIONE D’IMMAGINE/3

L’ALTRA METÀ DEL POTERE LE GRANDI DONNE DELL’ANTICA ROMA SVOLSERO UN RUOLO SPESSO DETERMINANTE, ANCHE NEL GOVERNO DELL’IMPERO. LO DIMOSTRANO, A PARTIRE DALL’ETÀ DI TIBERIO, NUMEROSE EMISSIONI MONETALI

D

a Augusto alla fine dell’impero romano d’Occidente, il principato destinò alle donne un ruolo di eccezionale rilievo. Mogli, figlie, sorelle, ma anche nipoti e suocere, influenzarono profondamente gli atti dei principi regnanti e, in alcuni casi, gestirono direttamente il potere, condividendo la sorte o subendo tragicamente la volontà degli uomini ai quali furono accanto. Di tali figure, alcune si stagliano nella storia, come le donne della famiglia giulio-claudia tramandate sia da Tacito, sia da Svetonio, le cui Vite giungono sino a Domiziano. In seguito, tra il II e il V secolo d.C., Dione Cassio, le biografie dell’Historia Augusta e gli storiografi piú tardi illuminarono, spesso in maniera poco veritiera, alcune delle maggiori figure femminili dell’epoca. La letteratura offre quindi una testimonianza non sempre obiettiva e poco rimane delle reali fattezze di tali personaggi; i busti e le statue attribuibili con certezza a un determinato membro della famiglia del principe sono infatti assai scarsi. È ancora una volta la numismatica, quindi, la principale fonte iconografica per la ritrattistica imperiale, che celebra le sue donne quali Augustae viventi o Divae defunte. Anche gli effimeri imperatori che regnarono per periodi brevissimi vollero ricordare le proprie compagne sulle monete, come, per esempio, Didio Giuliano che, rimasto al potere per soli due mesi nel 193 d.C., trovò comunque il tempo di coniare a nome della moglie Manlia

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Scantilla e della figlia Didia Clara, altrimenti del tutto ignorate dalla storia. Cosí, anche delle sfortunate nobildonne esiliate o fatte uccidere da padri, mariti e fratelli, come Giulia, Agrippina, Ottavia, Lucilla, Crispina, Fausta, si conservano i delicati profili, giunti sino a noi attraverso le monete scampate alle programmatiche distruzioni che colpirono le loro immagini. Inoltre, l’onomastica imperiale riportata nella leggenda monetale, identificando senza dubbio un determinato personaggio, ha permesso di attribuire con buona sicurezza statue altrimenti anonime alle diverse regnanti, o, quanto meno, di assegnarle al periodo storico in cui vissero.

Il diritto all’immagine Il diritto di effigie sulla moneta, per tutta la durata dell’impero, fu riservato all’imperatore, ai membri della sua famiglia e ai Cesari, i figli o colleghi coinvolti nella successione. Tale privilegio si estese anche ai familiari defunti e divinizzati, connotati nei conî monetali dagli epiteti di Divus e Diva. Ma alle protagoniste della storia romana non fu riconosciuto subito l’onore di comparire sulle monete e quindi di veder apertamente veicolati la propria immagine e il proprio nome. Sebbene già alla fine dell’età repubblicana, i volti di Ottavia, sorella di Augusto e moglie fedele di Marco Antonio, e di Cleopatra, siano comparsi in numerosi tipi

A sinistra aureo di Magnia Urbica, moglie di Carino, imperatore che regnò per soli tre anni (282-285 d.C.). L’emissione è del 284 d.C. In basso dupondio raffigurante una giovane Livia, effigiata come Salus Augusta. 22 d.C. Nella pagina accanto, in basso il profilo di Livia in un ritratto in basanite che ne evidenzia la somiglianza con la moneta. 31 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.


AGRIPPINA Sesterzio con il profilo di Agrippina Maggiore, madre di Caligola, esaltata dal figlio in questa emissione che reca sul rovescio un carro (carpentum) trainato da due muli, in occasione del trasporto delle ceneri di lei a Roma.

chiaramente propagandistici battuti per lo piú in zecche orientali, all’inizio dell’impero, a Roma, l’immagine dell’imperatrice è presentata in maniera indiretta e anonima, probabilmente per non indisporre una aristocrazia senatoria che avrebbe altrimenti potuto cogliere in tale atto un’aborrita eco di monarchia orientale. Anche con Augusto, comunque, vi furono emissioni di zecche provinciali, come quelle di Pergamo, in cui sotto le spoglie di Afrodite e di Hera sono ritratti i volti di Giulia e di Livia, l’unica figlia e la moglie dell’imperatore. Infatti Livia, pure fedele e potente compagna, non apparve mai sulle monete battute a Roma sotto Augusto; fu il figlio Tiberio a concederle

LIVIA

questo onore. Nel 22-23 d.C., l’imperatrice, ormai ottantenne, impersonò con fattezze giovanili e idealizzate la Iustitia e la Pietas. Livia giovane è invece piú riconoscibile nella Salus, le cui sembianze riprendono quelle note attraverso la statuaria. Uno splendido ritratto postumo, vero cammeo monetale, è poi quello di Agrippina Maggiore, la madre di Caligola esiliata da Tiberio a Ventotene, dove morí. Assurto al massimo potere, Caligola volle celebrarla con una emissione di sesterzi che al dritto ne riproducono i nobili lineamenti, accompagnati dalla leggenda che la definisce come madre di imperatore. Sul rovescio è un carro riccamente istoriato trainato da due muli, il carpentum, riservato alle donne della famiglia imperiale, con la leggenda Memoriae Agrippinae, preposto al trionfale trasporto a Roma delle ceneri della genitrice.

Una bellezza mortificata Come già visto, le emissioni delle zecche provinciali, ben lontane da Roma ed eredi di monarchie ellenistiche in cui era usanza vedere raffigurata l’effigie della sovrana vivente, dimostrano il loro lealismo all’imperatore anche attraverso la raffigurazione delle mogli di Caligola, Claudio e Nerone; tra queste Messalina, terza moglie di Claudio, compare su monete greche ed egiziane. Accusata di cospirazione e uccisa, fu sottoposta alla damnatio memoriae, ovvero alla distruzione di tutte le sue immagini. Ancora una volta, sono le iconografie numismatiche a diradare la nebbia sulle fattezze di un personaggio dal nome leggendario, sebbene lo stile grossolano dell’incisore orientale non renda certamente giustizia alla sua bellezza. Ma ormai i tempi erano maturati: intorno alla metà del I secolo d.C. raffigurare una Augusta vivente sulle monete di Roma, nel centro stesso del potere, non era piú considerato un arrogante eccesso da monarca assoluto: la prima imperatrice a usufruire di tale onore fu Agrippina Minore, ultima moglie di Claudio e

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TUTTE LE STORIE DIDOMINAE MONETE DI ROMA Livia Giulia Antonia Minore Agrippina Maggiore Cesonia Valeria Messalina Agrippina Minore Ottavia Poppea Sabina Statilia Messalina Domitilla Giulia Domizia Longina Marciana Pompeia Plotina Matidia Vibia Sabina Anna Galeria

(58 a.C.-29 d.C. Moglie di Augusto) (39 a.C.-14 d.C. Figlia di Augusto) (36 a.C.-37 d.C. Madre di Claudio) (14 a.C.-33. d.C. Madre di Caligola) (I sec. d.C. 4a moglie di Caligola) (25 d.C. circa-48 d.C. Moglie di Claudio) (15-59 d.C. Sorella di Caligola, moglie di Claudio e madre di Nerone) (40-62 d.C. Figlia di Claudio e Messalina, moglie di Nerone) (31 d.C. circa-65 d.C. Moglie di Nerone) (3a moglie di Nerone) († prima del 69 d.C. Moglie di Vespasiano) († 91 d.C. Figlia di Tito e amante dello zio Domiziano) († 140 d.C. Moglie di Domiziano) (prima 53-114 d.C. Sorella di Traiano) († 122/129 d.C. Moglie di Traiano) († 119 d.C. Figlia di Marciana e madre di Sabina) († 136 d.C. Nipote di Traiano e moglie di Adriano) (105-141 d.C. Detta Maggiore,

madre di Nerone. Le iconografie che accompagnano le emissioni di Agrippina sono di grande significato non solo per la loro incisività e la finezza psicologica dell’esecuzione, ma anche perché sintetizzano efficacemente le varie tappe della vita di questa donna e del funesto rapporto che ebbe con il figlio. Sposa di Claudio, compare accanto a lui su d’un cistoforo (una moneta d’argento coniata in Asia Minore) di Efeso; rimasta vedova dopo aver fatto adottare il figlio, Agrippina accompagna onnipresente la monetazione – come la vita sentimentale e politica – del figlio giovinetto tra il 54 e il 55 d.C. I busti di madre e figlio si manifestano insieme sul dritto, appaiati o frontali, e l’iscrizione celebra l’Augusta quale madre dell’imperatore. Pochi anni dopo, nel 58, nell’ambito di un rapporto conflittuale radicalmente mutato, Agrippina fu fatta uccidere da Nerone a Baia.

Una presenza costante Con l’età flavia, tutte le donne della casa regnante compaiono regolarmente sulle monete; anche Domitilla, mai imperatrice perché già morta prima che il marito Domiziano ascendesse al trono, venne ricordata dal figlio Tito in tipi di consacrazione quale Diva.

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Anna Galeria

Domitia Lucilla Lucilla Bruzzia Crispina Manlia Scantilla Didia Clara Giulia Domna Plautilla Giulia Mesa Giulia Soemia Giulia Paola Aquilia Severa Giulia Mamea Orbiana Cecilia Paolina

Faustina moglie di Antonino Pio) († 175 d.C. Detta Minore, Faustina figlia di Antonino Pio e Faustina, moglie di Marco Aurelio) (II d.C. Madre di Marco Aurelio) (148-183 d.C. Figlia di Marco Aurelio e Faustina Minore, sorella di Commodo) († 183 d.C. Moglie di Commodo) (193 d.C. Moglie di Didio Giuliano) (193 d.C. Figlia di Didio Giuliano) († 217 d.C. Moglie di Settimio Severo, madre di Caracalla e Geta) († 211 d.C. Moglie di Caracalla) († 222/3 d.C. Sorella di Giulia Domna, nonna di Elagabalo) († 222/3 d.C. Sorella di Giulia Domna, madre di Elagabalo) († 220 d.C.Moglie di Elagabalo) († 221 d.C. Già Vestale, moglie di Elagabalo) († 235 d.C. Figlia di Giulia Maesa, madre di Severo Alessandro) († 225 d.C. Moglie di Severo Alessandro) (235-238 d.C. Moglie di Massimino il Trace)

Nel tempo le emissioni destinate alle principesse si fanno piú numerose, comprendendo anche le consanguinee, come nel caso di Marciana e Matidia, rispettivamente amate sorella e nipote di Traiano, onorate anch’esse come Auguste. Da Sabina in poi, le immagini femminili coniate divengono abbondanti, in particolare quelle dedicate alla Diva Faustina Maggiore e quelle ricchissime e varie di Faustina Minore. In questi ultimi casi, anche le monete confermano la riuscita di due unioni che le fonti letterarie ricordano come particolarmente felici e concordi. Faustina junior, in particolare, fu sempre accanto al marito seguendolo in ogni campagna bellica e ricevendo per ciò l’epiteto onorifico di Mater Castrorum, «madre degli accampamenti». E le voci di sue presunte lascive frequentazioni furono probabilmente dettate dall’impossibilità di concepire, per il Romano dell’epoca, che da un sovrano di somma saggezza ed equilibrio come Marco Aurelio fosse potuta scaturire una progenie degenerata quale fu Commodo. Anche per le principesse dei Severi, originari della Siria, un cospicuo numero di emissioni ci restituisce volitivi profili, a volte di fiera bellezza come quelli di Giulia Domna e Giulia Mamea,

Aureo di Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio: dalla fine del I sec. d.C. i ritratti su monete delle imperatrici divengono molto piú frequenti e sono la prova del rango degli onori a cui esse erano assurte. Parigi, Jean Vinchon Numismatique.


Tranquillina Octacilia Erennia Annia Etruscilla Cornelia Supera Egnazia Mariniana Giulia Cornelia Salonina Ulpia Severina Magnia Urbica Elena Teodora Galeria Valeria Flavia Massima Fausta Elia Flaccilla Galla Placidia Grata Onoria Licinia Eudossia

In basso aureo con il profilo di Giulia Domna, l’amata moglie di Settimio Severo in veste di Concordia, con la cornucopia al braccio sinistro e nella destra una statua della dea. A destra calco di un ritratto di Giulia Domna del II-III sec. d.C. Monaco, Glyptothek.

(238-244 d.C. Moglie di Gordiano III) (244-249 d.C. Moglie di Filippo l’Arabo) († 251 d.C. Moglie di Traiano Decio) (253 d.C. Moglie di Emiliano) († 254 d.C. Moglie di Valeriano?) (253-268 d.C. Moglie di Gallieno) (270-275 d.C. Moglie di Aureliano) (283-285 d.C. Moglie di Carino) (248 circa-328 d.C. Concubina di Costanzo Cloro, madre di Costantino I) († prima 337 d.C. Moglie di Costanzo Cloro) († 315 d.C. Figlia di Diocleziano e moglie di Galerio) (298-326 d.C. Moglie di Costantino I) († 388 d.C. Moglie di Teodosio I) (390-450 d.C. Madre di Valentiniano III) (417-454 d.C. Figlia di Galla Placidia) (422-462 d.C. Figlia di Teodosio II, moglie di Valentiniano III)

oppure quello piú duro di Giulia Maesa. Sulle monete di Giulia Domna, in particolare, compaiono per la prima volta i titoli onorifici di Mater Senatus, Mater Patriae e il crescente lunare sul dritto, a indicare il valore del dupondio e dell’antoniniano, il doppio denaro messo in circolazione dal figlio Caracalla. Degli imperatori del periodo dell’anarchia militare e della Tetrarchia restano i volti, altrimenti ignoti, delle loro consorti, come quelli di Paolina, Tranquillina, Octacilia Severa, Teodora. Tra queste si distingue il profilo elegante e intelligente di Magnia Urbica, moglie di Carino (283-285 d.C.), che non a caso fa incidere sul rovescio delle monete solo le immagini di Venere Vincitrice e Giunone Regina.

ultime donne che ricorrono sulle monete sono perlopiú immagini di eroine implacabili e drammatiche come Galla Placidia, la madre di Valentiniano III, o la bella e sfortunata Licinia Eudossia, moglie di Teodosio III. Eudossia, raffigurata con la fissità di un’icona, ebbe ucciso il marito; costretta a sposarne l’assassino, Massimo, secondo una tradizione tardiva e poco attendibile, in cerca di vendetta chiamò a Roma nel 455 d.C. i Vandali di Genserico che ne approfittarono per saccheggiare la città per ben quindici giorni e la tennero prigioniera in Africa insieme ai figli per sette anni. La ricchissima serie monetale delle Auguste d’Occidente si chiude quindi con un cupo dramma collettivo; un lungo cammino nell’immagine che, dai primi ritratti d’impronta naturalistica di tradizione giulio-claudia, è giunto, nell’arco di cinque secoli, a schemi iconografici contraddistinti da quella fissità ieratica, spersonalizzata e fastosamente atemporale, che fu poi tipica di Bisanzio.

L’agonia dell’impero Costantino dedicò emissioni alla madre Elena e alla moglie Fausta, poi fatta uccidere nel 326 d.C. a seguito di torbide vicende familiari. Tra la morte di Costantino e la caduta dell’impero romano d’Occidente corrono poco meno di 140 anni, anni convulsi e drammatici che segnarono definitivamente le sorti dell’Italia e in cui si avvicendarono al potere la dinastia costantiniana dei secondi Flavi, i Valentiniani e gli imperatori d’Occidente. Le

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STORIE DI MONETE

UNA QUESTIONE D’IMMAGINE/4

QUANDO I RITRATTI VENGONO AL PETTINE ELEMENTO SOLO IN APPARENZA SECONDARIO, L’ACCONCIATURA È ESPRESSIONE DELL’EPOCA IN CUI VIVONO LE DONNE DELLA CORTE IMPERIALE. CON CARATTERISTICHE COSÍ DEFINITE DA TRASFORMARSI IN VERI E PROPRI ELEMENTI IDENTIFICATIVI

I

ritratti delle imperatrici che compaiono sulle monete sono testimonianze preziose anche per il contributo che offrono alla storia del costume e della moda. Argomenti che possono sembrare frivoli e secondari, ma che, invece, occupano un posto di rilievo nello studio della società romana, della sua mentalità e di come essa percepisse il ruolo svolto dall’immagine esteriore con i suoi mutamenti. Gli abiti e le pettinature adottati dalla famiglia imperiale, infatti, venivano prontamente ripresi dalle classi sociali medio-alte, che amavano rappresentare sia la propria fedeltà ai regnanti che il proprio status sociale, anche

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In basso, a sinistra dritto di un aureo di Antonino Pio con il ritratto della figlia Faustina Minore (147-161 d.C.). In basso, a destra il ritratto di Lucilla su un aureo del padre, Marco Aurelio (164-169 d.C.).

attraverso l’adozione di determinati abbigliamenti e acconciature.

Certezze cronologiche Poiché è possibile datare con certezza le immagini delle imperatrici sulle monete, e, quindi, le vesti, le parures e il tipo di coiffure adottati, si è stabilita la cronologia dell’evolversi della ritrattistica femminile romana. I ritratti marmorei erano appannaggio per lo piú di donne di censo elevato, le quali amavano riproporsi secondo iconografie desunte dai modelli offerti, nel corso dei secoli, dalla famiglia imperiale. Le prime acconciature testimoniate sulle monete per donne viventi propongono pettinature semplici, dette «alla greca», già adottate da Ottavia e da Livia, rispettivamente sorella e moglie di Augusto: i capelli ondulati e bipartiti da una scriminatura centrale ricoprono le orecchie e scendono sul collo raccogliendosi in un basso nodo; a volte un diadema si innalza sulla fronte.


In età giulio-claudia, con Antonia Minore, e le due Agrippine, Messalina e Poppea, le pettinature si compongono di una scriminatura centrale che suddivide i lunghi capelli che scendono morbidamente ondulati ai lati del viso, terminando in una treccia a torciglione sulle spalle; boccoli di riccioli possono ornare i lati del volto. Nel periodo seguente le pettinature divennero piú elaborate, complesse e di diversa fattura, quasi «sculture» di capelli che lasciano ben trasparire il ruolo determinante svolto, nel loro allestimento, dall’ornatrix, la pettinatrice, che, insieme ai pettini, si serviva del calamistrium, una canna di ferro cava che, dopo essere stata riscaldata, serviva a realizzare i riccioli. Completavano l’opera fasce, diademi, fermacapelli e toupet. Questi ultimi erano realizzati con capelli veri: i piú richiesti erano quelli provenienti dall’India, neri e spessi, e dai Paesi germanici, quelli piú sottili e biondi.

Soluzioni assai complesse Dall’età flavia, e poi in quella adrianea, le acconciature raggiunsero una sorta di eclettismo, caratterizzato da allestimenti barocchi, realizzati con posticci a ripiani di riccioli sovrapposti in varie fogge e disposti a incorniciare la fronte, mentre i capelli venivano suddivisi in filari di trecce raccolte a crocchia, oppure terminanti in un’unica treccia sulla nuca. Questa tipica acconciatura si ritrova nei ritratti monetali di Giulia e Domizia, rispettivamente nipote/amante e moglie di Domiziano. Le donne della dinastia traianea, Matidia, Marciana, Plotina e Sabina, adottarono variazioni e arricchimenti su questo tema di partenza, coronando la fronte con alti diademi,

UN TRIONFO DI BOCCOLI

In alto,a sinistra busto di giovane dama, con ricchissima acconciatura a boccoli e treccine sulla nuca. Fine dell’età traianea-inizi dell’età adrianea. Roma, Musei Capitolini. A destra dama di età traianea raffigurata come Venere, ma acconciata alla moda del tempo. Seconda metà del I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto, in alto una dama romana con pettinatrici, sulla copertina di un volume dedicato alle imperatrici.

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STORIE DI MONETE

realizzando crocchie rigonfie disposte a spirale sulla testa, e incoronando il tutto tra boccoli e treccine. Tali complicate acconciature riscossero ampio successo, come dimostrano numerosi ritratti marmorei di dame che riproposero le imponenti acconciature in voga a corte, realizzate nel marmo con uno specifico uso del trapano. Sabina, moglie di Adriano, tornò a forme piú sobrie e classiche, abbandonando le fantasiose costruzioni di capelli a favore delle antiche forme «alla greca», composte con i propri capelli mossi, con scriminatura centrale, rialzati sulle tempie e raccolti in un torchon sulla nuca, il tutto trattenuto da un semplice nastro.

Pettinature piú sobrie Abbandonati i pesanti trafori dell’età precedente, che comunque conferivano un senso di artificiosità al volto e probabilmente dovevano essere anche piuttosto scomodi da portare, con l’età antonina le acconciature si fanno piú lineari ed eleganti: mentre Faustina Maggiore usa ancora il giro di trecce disposto sulla fronte e la crocchia sulla sommità della testa, la figlia Faustina Minore, Lucilla sua figlia e la bellissima nuora Crispina sono raffigurate dagli artisti del conio con ritratti che ne esaltano la finezza del viso, incorniciato entro una pettinatura di base – e con numerose variazioni – realizzata ondulando i capelli bipartiti sulle tempie e raccolti in un basso chignon sulla nuca. Con l’età dei Severi, la determinata stirpe femminile siriaca di Giulia Domna dirige per circa quarant’anni le vicende dell’impero: madri di imperatori, sorelle, zie e nonne portarono tutte una caratteristica pettinatura a cuffia di parrucca, formata da una massa di chiome

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ondulate e attorcigliate, piú o meno rigonfie bipartite al centro e raccolte sulla nuca in uno chignon, che nella resa piú grande è detto, dal gioco degli intrecci, «a tartaruga». Dall’età severiana sino alla caduta dell’impero d’Occidente, nel 476 d.C., le Auguste scelsero pettinature per lo piú prive di innovazioni, probabilmente utilizzando sempre la parrucca e portando la treccia sulla nuca, rialzandola sino al diadema sulla fronte, come Tranquillina, moglie di Gordiano III, e con lei Octacilia, Cornelia Supera e Salonina. Con Etruscilla, moglie di Traiano Decio, Severina di Aureliano e Magna Urbica, consorte di Carino, le cui monete restituiscono lo sguardo penetrante, si abbandona la parrucca per ritornare ai capelli bipartiti sulla fronte ornata di diadema, terminanti sempre con una treccia che dalla nuca arriva sino al sommo del capo.

Verso la spersonalizzazione Con l’avvento dei Costantinidi il ritratto perde progressivamente l’aderenza al modello reale, spersonalizzandosi a favore di un’immagine aulica e ripetitiva, che diviene tipica delle effigi imperiali sia maschili che femminili. Della donna piú importante nella vita di Costantino I, la madre Elena, trascurata concubina di Costanzo Cloro, venerata dal figlio e poi eletta santa, le monete ci restituiscono due tipi di immagine. La prima, di impronta nettamente aulica, cesellata su un medaglione d’oro del valore di due solidi elegantemente delineato, raffigura un busto abbigliato in maniera particolarmente sofisticata, con una fine tunica plissettata ricoperta da un manto e il collo ornato da un doppio giro di perle; il volto

A sinistra solido di Galla Placidia (425-429 d.C.), la bella figlia di Teodosio e madre di Valentiniano III, ricoperta di perle e di ori. V sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Nella pagina accanto in basso, a sinistra aureo di Giulia Domna (193-196 d.C.), l’autoritaria moglie di Settimio Severo. L’acconciatura caratteristica ha la scriminatura al centro e due bande di capelli rialzate a crocchia sulla nuca. Nella pagina accanto in basso, a destra aureo di Magna Urbica (282-285 d.C.), moglie di Carino. Già Nelson Bunker Hunt Collection.


– con lo sguardo rivolto verso l’alto, tipico dei ritratti costantiniani – è incorniciato da una semplice pettinatura in cui i capelli lisci formano un contorno a onde sulla fronte, per ridiscendere poi con un piccolo risvolto sulla nuca. La linearità dell’acconciatura è esaltata da un diadema gemmato e dal vezzo di un piccolo orecchino a goccia. Il secondo tipo di immagine, piú realistico, raffigura Elena in abito regale e con i capelli lisci semplicemente raccolti a crocchia sulla nuca.

Gemme e gioielli a profusione In seguito, le Auguste che segnano la fine del V secolo d.C. perdono completamente di identità personale a favore di una ripetitività iconica, con i capelli intrecciati e avvolti su loro stessi adornati di fastosi diademi e copricapi formati da perle, gemme, nastri, completati da orecchini, collane e ricchi panneggi, dove

l’acribia degli incisori rende distintamente la diversità dei tessuti sovrapposti e le gemme dei diademi indossati. Rilevante sul piano iconografico è il cambio di prospettiva riportato su un solido d’oro di Licinia Eudossia, moglie di Valentiniano III: per la prima volta l’imperatrice, caratterizzata dagli ampi occhi sbarrati, è raffigurata di fronte, in un’immagine che ne restituisce la maestà quasi irreale. L’abito è formato da tunica e manto, un triplice giro di grosse perle avvolge il collo; il volto, fisso, è incorniciato da un casco prezioso di lunghi filari di perle, sormontato da una corona, al centro della quale si erge la croce cristiana. Seppure priva di qualsiasi intento fisiognomico, la fastosa immagine sprigiona un fascino quasi magnetico, preludio di un’iconografia atemporale e sovraumana che troverà grande fortuna alla corte di Bisanzio.

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STORIE DI MONETE

ISTANTANEE DA ROMA/1

SPLENDORI CAPITOLINI PUR SCHEMATIZZATI E RIDOTTI NEL RISTRETTO CAMPO A DISPOSIZIONE, LE MONETE DOCUMENTANO I PIÚ RAPPRESENTATIVI EDIFICI DI ROMA

«R

oma (...) costruisce ponti, acquedotti, (...) archi di trionfo, innalza templi alla divinità (...) E la moneta ben si adatta a rendere nota, a propagare e diffondere la testimonianza di questa speciale attività in cui la presenza di Roma si fa segno tangibile e concreto. [La moneta costituisce] talora l’unica testimonianza superstite del monumento stesso, (...) e ci fornisce anche preziosi dettagli della costruzione»: cosí Laura Breglia (in Numismatica antica, 1964, p. 77) sintetizza efficacemente il valore assunto dalla numismatica antica nello studio di uno degli aspetti piú tipici della cultura romana, la costruzione dei monumenti, molti dei quali ancora caratterizzano e a volte sono il simbolo delle città moderne. I motivi iconografici destinati alle coniazioni

In alto, a sinistra denario di P. Licinio Nerva con scena di votazione nel Comizio. 113-112 a.C. In alto, a destra denario di A. Postumio Albino con i Dioscuri che abbeverano i cavalli alla Fons Iuturnae. 96 a.C. circa. In basso denario di L. Marcio Filippo con l’Acquedotto Marcio e la statua equestre dell’avo Q. Anco Marcio Re. 56 a.C.

emesse a Roma erano tutti prescelti con il fine di celebrare l’Urbe e ciò che essa rappresentava: in età repubblicana le tipologie erano collegate alla famiglia del magistrato preposto alle emissioni, poi, durante il principato, le immagini si riferirono al regnante, alle sue opere, e, piú in generale, alla potenza dell’impero. Questo preciso programma ideologico ben si coniugava alla raffigurazione di costruzioni e statue dislocate nella capitale e dotate di particolare valenza civile e religiosa. Il monumento domina isolato il rovescio della moneta, costituendone il tipo, tratteggiato come una sorta di conciso modello. Le occasioni che presiedevano a una determinata scelta erano fornite da occasioni contingenti, quali una edificazione o un restauro, oppure il richiamo a un particolare evento religioso o politico. Dato il ristretto campo a disposizione dell’incisore, la costruzione veniva delineata attraverso gli elementi architettonici salienti, spesso semplificati, e resi con l’uso di distorsioni prospettiche tendenti a proiettare sullo stesso piano visioni frontali e di scorcio. Rare, seppure presenti e di grande suggestione, le vedute a volo d’uccello, realizzate in età imperiale.

Conoscenza diretta del soggetto È molto probabile che per le sue creazioni l’incisore del conio si servisse di modellini e disegni del monumento prescelto, ferma

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restando la conoscenza autoptica degli edifici per coloro che operavano nella zecca di Roma e che quindi vivevano nella città. Questa particolare tipologia rientra appieno nel carattere propagandistico della monetazione romana, intendendo con il termine, accanto all’accezione attuale, quella originaria del verbo latino propagare. Questo presenta, nei suoi valori semantici, anche quello di «perpetuare, diffondere, trasmettere, tramandare»: funzioni tutte puntualmente assolte dalla moneta. Essa infatti ha perpetuato e diffuso nei secoli le immagini che la contraddistinguono, tramandandole sino ai giorni nostri. Cosí, monumenti oggi completamente ignoti oppure conosciuti e localizzati solo sulla base delle fonti letterarie e scultoree, di piante antiche e di scarni ruderi, riemergono nel loro alzato dalle monete sulle quali, seppur vincolati dallo spazio circolare del tondello, dovevano comunque essere facilmente riconoscibili. Sin dalla fine del XV secolo, la documentazione numismatica è divenuta cosí una fonte figurativa di primaria importanza per gli studi sulla ricostruzione della topografia e l’architettura di Roma antica.

Una resa «teatrale» I monetieri e i magistrati d’età repubblicana iniziarono, intorno alla seconda metà del II secolo a.C., ad apporre sui conî alcune costruzioni della capitale legate per vari motivi a membri della propria famiglia: si poteva trattare di statue equestri e su colonna raffiguranti avi benemeriti, oppure di edifici innalzati, restaurati o comunque riferibili alle glorie avite. Ancora, si effigiavano in una resa «teatrale», che volutamente non teneva conto delle proporzioni reali, monumento e statua insieme, anche quando essi non si trovavano nello stesso luogo, come accade nel denario di L. Marcio Filippo. Questa moneta raffigura un tratto dell’acquedotto dell’Aqua Marcia sovrastato dalla statua equestre dell’avo Q. Anco Marcio Re, che nel 144 a.C. restaurò e completò la rete idrica romana, ricevendo in

In alto particolare del plastico di Roma arcaica, con il colle del Campidoglio e il tempio di Giove Capitolino. Roma, Museo della Civiltà Romana. A destra il rovescio del denario di Marco Volteio, raffigurante il tempio di Giove Capitolino, con il fulmine all’interno del frontone, e la decorazione del frontone con acroteri stilizzati. 78 a.C.

IL TEMPIO DI GIOVE segno di gratitudine dal Senato l’onore di avere una sua statua in Campidoglio. Tra gli edifici sacri di Roma che compaiono sulle monete repubblicane emerge la raffigurazione del massimo tempio civico, quello di Giove Capitolino eretto sul Campidoglio dalla dinastia dei Tarquini e inaugurato nel primo anno della repubblica, il 509 a.C. Il tempio bruciò piú volte nel corso della sua storia, e fu sempre ricostruito; ne restano oggi i possenti resti del grande basamento. Le monete che lo delineano sono di grandissima importanza, in quanto ne restituiscono la fronte altrimenti quasi sconosciuta, nota solo – per l’età imperiale – dal rilievo marmoreo del 176 d.C. conservato ai Musei Capitolini con Marco Aurelio sacrificante davanti al tempio, tetrastilo di ordine corinzio e con una ricca decorazione frontonale. In età repubblicana il tempio capitolino fu scelto come tipo dei denari di M. Volteio e di Petillio Capitolino, i quali presentano l’edificio in due diverse fasi costruttive, esemplificate da importanti varianti riguardo il numero di colonne sulla fronte e il programma decorativo della copertura. Il denario di Volteio, del 78/74 a.C. e con la testa

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STORIE DI MONETE

di Giove sul dritto, prospetta un edificio a quattro colonne tuscaniche, inquadranti tre porte socchiuse che immettono alle celle di culto. Sul frontone troneggia il fulmine, attributo del padre degli dèi, mentre lungo la cornice del timpano si dispone una serie di acroteri stilizzati. Il tipo celebrava l’inizio della ricostruzione del tempio in seguito all’incendio divampato nell’83 a.C. nel corso della guerra civile tra Mario e Silla. Nell’esemplare di Petillio, coniato poco meno di quarant’anni dopo e con l’aquila di Giove sul dritto, il tempio è esastilo di ordine tuscanico, con oggetti decorativi appesi tra gli intercolumni; il frontone è occupato dall’aquila e il timpano è arricchito da due acroteri laterali a protome leonina e, al centro, da una statua. La scelta dell’immagine va forse ricollegata a una qualche carica attribuita alla gens Petilia inerente il tempio stesso. Sul Campidoglio si trovavano poi molti altri sacelli, statue e templi, tra cui quello antichissimo dedicato a Giove Feretrio, fondato secondo la

Dall’alto il tempio rotondo di Vesta nel Foro Romano e l’aureo di Vespasiano con il tempio rotondo tetrastilo, con statua di Vesta al centro e, ai lati, altre due statue.

tradizione da Romolo e nel quale soltanto altri due Romani ebbero l’onore di dedicare al padre degli dèi le spoglie nemiche catturate in battaglia: uno fu A. Cornelio Cnosso, che uccise in battaglia il re dei Veienti Tolumnio nella seconda metà del V secolo a.C., e l’altro M. Claudio Marcello, trionfatore dei Galli Boi e Insubri nel 222 a.C., nonché conquistatore di Siracusa nel 208 a.C. Un discendente di Claudio Marcello, il magistrato monetario presumibilmente denominato P. Cornelio Lentulo Marcellino, volle ricordare le imprese del glorioso avo attraverso le proprie monete, raffigurandone la testa sul dritto, e sul rovescio la sua persona recante un trofeo che sale le scale di un tempio tetrastilo, identificato appunto con quello di Giove Feretrio.

La piazza del Foro Della piazza del Foro, il cuore della vita pubblica romana, danno conto vari denari che riproducono alcuni tra i principali edifici civici e religiosi che vi sorgevano: la Basilica Emilia, il Comizio, i Rostri, il puteal degli Scriboni, la fonte di Giuturna, il tempio di Vesta. Il puteal era un recinto marmoreo, realizzato su decreto del Senato da un certo Scribonio Libo, che delimitava il punto – identificato durante scavi effettuati nel 1950 – colpito da un fulmine e perciò consacrato a Giove, mentre il complesso dedicato alla ninfa

IL TEMPIO DI VESTA

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EDIFICI E MAGISTRATI DI ROMA SULLE MONETE DI ETÀ REPUBBLICANA Colonna di Minucio fuori Porta Trigemina Arco di M. Emilio Lepido (ubicazione ignota) Comizio (Foro Romano) Fonte di Giuturna e Dioscuri (Foro Romano) Tempio di Giove Capitolino (Campidoglio) Tempio di Giove Libertas (Aventino) Basilica Emilia (Foro Romano) Puteal Scribonianum (Foro Romano) Villa Publica (Campo Marzio) Tempio di Vesta (Foro Romano) Acquedotto Marcio con statua equestre Tempio di Giove Feretrio (Campidoglio) Rostri del Foro Romano Sacello di Venere Cloacina (Foro Romano) Tempio di Nettuno (Campo Marzio) Tempio di Giove Capitolino (Campidoglio)

Giuturna era connesso alla miracolosa apparizione dei Dioscuri a fianco dei Romani contro i Latini durante la battaglia del lago Regillo nel 496 a.C. L’area sacra era formata da una sorgente curativa, un’edicola, un altare e un pozzo. Un denario di A. Postumio Albino raffigura Castore e Polluce con i cavalli che si abbeverano alla fonte, situata tra la casa delle Vestali e il tempio dei Castori.

Per il culto di Vesta Un tempio che ricorre regolarmente nella monetazione per la sua speciale valenza religiosa è quello di Vesta, raffigurato per la prima volta su un denario di Quinto Cassio Longino. L’immagine, oltre a celebrare il sacro luogo di culto circolare nel Foro, si riferisce a un caso giudiziario del 113 a.C. presieduto da L. Cassio Longino Ravilla, avo del monetiere, incaricato di esaminare un’accusa di incestum riguardante alcune vergini vestali e che si concluse con diverse condanne. Il tempio, esastilo, riporta al centro la sella curule destinata al giudice; ai lati vi è l’urna per il voto in cui venivano inserite le tavolette con le lettere A e C, iniziali di Absolvo e Comdamno. Con quest’ultime i giurati esprimevano il proprio giudizio in forma anonima, secondo quanto promulgato dalla Lex Cassia Tabellaria introdotta da un altro avo del monetiere, L. Cassio Longino, e che sanciva il principio del voto segreto in tutti i giudizi popolari, con l’eccezione di quelli per alto tradimento. Presso la Basilica Emilia e sovrastante

C. Minucio Augurino M. Emilio Lepido P. Licinio Nerva, A. Postumio Albino M. Volteio C. Egnazio Massimo M. Emilio Lepido P. Emilio Lepido e L. Scribonio Libo P. Fonteio Capito Q. Cassio Longino L. Marcio Filippo P. Cornelio Lentulo Marcellino Lollio Palicano L. Mussidio Longo G. Domizio Enobarbo Petillio Capitolino

Denario d’argento di Emilio Lepido, con la facciata della Basilica Emilia nel Foro Romano. 65 a.C. Presso la basilica si trovavano alcuni importanti monumenti di età repubblicana, che conosciamo attraverso le monete, come il sacello di Venere Cloacina di cui resta solo la base marmorea.

II metà del II secolo a.C. 114/113 a.C. tra il 112 e il 94 a.C. 96 a.C. 78/74 a.C. 75 a.C. 65/61 a.C. 62 a.C. circa 59/55 a.C. 55 a.C. 56 a.C. 50/38 a.C. 45 a.C. 42 a.C. 42/40 a.C. tra 41 e 37 a.C.

l’immissione della Cloaca Maxima nella piazza del Foro, si trovava un importante sacello circolare dedicato a Venere Cloacina, che la tradizione voleva innalzato nel 450 a.C. e di cui resta oggi soltanto la base marmorea di età imperiale. Grazie a un denario di L. Mussidio Longo è possibile ricostruire con sicurezza l’aspetto del tempietto d’età repubblicana, circondato da una balaustra traforata preceduta da una scala e identificato dal nome CLOACIN. All’interno si trovano due statue affrontate, raffiguranti entrambe, con buona probabilità, Venere: la figura di destra ha un rametto, forse di mirto, simbolo della dea e della purificazione (la cloaca rendeva infatti pura una zona precedentemente malsana), mentre quella di destra è armata, quale custode dei confini. Un passo di Plinio (Naturalis Historia, XV, 119) narra che, all’indomani dei combattimenti tra Romani e Sabini a seguito del famoso ratto, i re Romolo e Tito Tazio con i rispettivi popoli, raggiunta la pace, si purificarono con rami di mirto proprio in questo luogo. Passando al Campo Marzio, il settore sudorientale dell’area accoglieva un importante complesso civico, la Villa Publica, costituito da un parco con un fabbricato centrale e adibito, sin dal 435 a.C., a vari uffici e alle operazioni di censimento. L’alzato è noto dai denari battuti dal magistrato P. Fonteio Capito nel 58 a.C. circa, probabilmente in occasione di una ristrutturazione, formato da un piano inferiore ad arcate sorretto da colonne e da quello superiore porticato.

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STORIE DI MONETE

ISTANTANEE DA ROMA/2

MONUMENTI E MONETAZIONE PRIMA DI AUTORIZZARNE LA CIRCOLAZIONE, LE MONETE RAFFIGURANTI TEMPLI, PALAZZI E STRUTTURE PUBBLICHE VENIVANO RIGOROSAMENTE CONTROLLATE

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on l’avvento dell’impero, l’utilizzo di tipi monumentali sulle monete divenne prassi comune, quale eccellente mezzo di esaltazione delle opere pubbliche del principe: la costruzione di edifici che apportavano decoro e grandezza sempre maggiori alla Capitale, infatti, fu uno degli aspetti primari dell’azione politica e sociale di ogni regnante. Caio Ottavio, entrato nella vita politica all’indomani della morte di Cesare quale suo erede, fece un accorto uso propagandistico della monetazione nell’ambito delle lotte politiche che lo portarono a divenire Augusto imperatore. I denari da lui battuti esibirono sapientemente costruzioni e statue che lo esaltavano e ne affermavano la divina discendenza, in quanto adottato per testamento e depositario di colui che era divenuto il divus Iulius. Le sculture decretate dal Senato in onore di Ottaviano non sono giunte sino a noi, ma possiamo ricostruirne l’aspetto in base ad alcuni denari che le riproducono, come, per esempio, quelli contraddistinti dalla statua equestre di Augusto e quelli con la statua eroica sopra la colonna rostrata innalzata per celebrare la vittoria su Sesto Pompeo, entrambe situate presso i Rostra nel Foro Romano. Ed è ancora una moneta a rendere noto l’aspetto del tempio dedicato al divo Giulio nel Foro: con la divulgazione di tale immagine il futuro imperatore ribadiva la legittimità del proprio potere, procedente

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A destra statua celebrativa di Augusto innalzata nel teatro romano di Orange (Francia) nel I sec. d.C. In basso aureo di Claudio con la raffigurazione dei Castra Praetoria. 41-46 d.C.


addirittura da un dio. Da questo momento in poi, le rappresentazioni monumentali acquisirono un ruolo rilievante e duraturo nell’iconografia monetale, anche se gli imperatori di Roma le utilizzarono differentemente nell’ambito del sistema di glorificazione del proprio operato.

L’immagine ufficiale dell’Urbe Comunque venisse adoperato, il linguaggio figurato della moneta celebrava l’opera edilizia che riportava, anche senza l’ausilio di una leggenda che poteva o meno essere intesa dalla popolazione. Esso diveniva poi di immediata comprensione nel momento in cui riproduceva architetture note a tutti i Romani, diffondendo in ogni contrada immagini della Capitale. Cosí, anche gli abitanti delle province piú remote e addirittura popolazioni estranee al dominio romano potevano avere nozione di alcune tra le costruzioni piú significative di Roma e apprenderne, anche se delineate nel piccolo spazio del tondello, la reale magnificenza. Simili immagini, infatti, proprio per l’intrinseco valore celebrativo di immediata percezione, dovevano sottostare, cosí come le altre iconografie monetali, a una scrupolosa revisione da parte dell’autorità

IL CULTO DEL PRINCEPS

Qui sopra denario di Augusto con l’arco detto Partico eretto in suo onore nel Foro, sormontato da una quadriga che egli stesso conduce. 18-16 a.C. In alto Giovan Battista Agretti, Pianta dell’antica città di Roma con i suoi boschi sacri e i principali edifizii restituiti nella loro integrità (prima metà del XIX sec.), in cui sono utilizzati i «rovesci di antiche medaglie nelle quali sono rappresentati i piú celebri edifizii della città». A sinistra denario di Ottaviano con l’immagine del tempio innalzato in onore del Divo Giulio. 36 a.C.

emittente, che ne garantiva l’aderenza al modello vero – a volte ideale ed estremamente sintetizzato – prima di autorizzarne la diffusione. Nel I e II secolo d.C. questi tipi conobbero ampio successo, riducendosi progressivamente nel corso del III e scomparendo infine con l’età costantiniana. Va comunque tenuto presente che l’identificazione esatta di molte strutture, in particolare di tutti quei templi che sorgevano numerosi nella città, risulta a volte difficile allo studioso moderno, nel caso in cui manchi un’esplicita leggenda monetale riferita alla raffigurazione. Dopo le rare emissioni di genere architettonico battute sotto Tiberio e Caligola, comparve con Claudio un’immagine di particolare pregnanza che esemplifica il caso felice per cui di una costruzione di Roma antica, i Castra Praetoria, ovvero la caserma dei pretoriani, si hanno contemporaneamente i possenti ruderi, l’immagine sulle monete e una testimonianza storica.

La caserma dei pretoriani Claudio effigiò il Castro Pretorio su denari e aurei subito dopo la sua nomina, avvenuta nel 41, e sino al 46 d.C., proponendolo secondo una visione stilizzata ancorché prospettica: la solida caserma è formata da spesse murature, nelle quali si aprono due porte d’accesso; in secondo piano vi è un camminamento e il perimetro murario retrostante che inquadra il sacello con l’aquila legionaria e un pretoriano di guardia. L’iscrizione IMPER[ATORE] RECEPT[O] dichiara apertamente il ruolo

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IL FORO DI TRAIANO fondamentale svolto dai pretoriani nell’elezione di Claudio nell’avergli offerto ricetto, e lo stretto legame venutosi cosí a creare tra il regnante e i suoi soldati scelti. Le monete di Nerone, insieme a quelle traianee, evidenziano al meglio l’alta qualità artistica e tecnica raggiunta dagli incisori dei conî nella riproduzione di monumenti. Nerone concentrò queste emissioni negli ultimi anni del suo regno, tra il 64 e il 68 d.C., all’indomani della sua riforma monetaria e del terribile incendio che devastò gran parte di Roma. Questo evento dette al principe occasione di ricostruire la città secondo uno schema urbanistico regolare che comprendeva, insieme ai quartieri di abitazioni e al palazzo imperiale, archi onorari, templi, costruzioni pubbliche. Tra di esse risulta peculiare il Macellum Magnum, un grande mercato fatto erigere da Nerone al Celio, la cui fronte a due piani colonnati è accuratamente riprodotta su dupondi del 64-66 d.C. La leggenda MAC[ELLUM] AUG[USTI] lo qualifica come innalzato per munificenza del principe. Il porto di Ostia, poco lontano da Roma e strettamente connesso a essa attraverso il Tevere, svolse un ruolo rilevante nella

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In alto uno scorcio dei resti del Foro di Traiano, con il retrostante complesso dei mercati. A sinistra rovescio di un aureo di Traiano con l’ingresso monumentale del foro da lui fatto edificare: si vede il prospetto a sei colonne e il fornice centrale sormontato da un cocchio a sei cavalli, guidato dall’imperatore. 112-114 d.C.

riedificazione della città seguita all’incendio del 64 d.C. Iniziato da Claudio, fu probabilmente inaugurato da Nerone, che volle celebrare l’imponente struttura civica su alcuni sesterzi emessi tra il 64 e il 66 d.C. Questi costituiscono una delle piú riuscite figurazioni del genere sia per la soluzione compositiva, che adegua perfettamente al tondello le strutture portuali, sia nella visione a volo d’uccello di armoniosa raffinatezza e accurata resa stilistica, particolarmente evidente nell’acribia con cui sono delineate le imbarcazioni.

Vedute dall’alto e visioni prospettiche Il panorama dall’alto fu scelto anche per raffigurare l’Anfiteatro Flavio, denominato Colosseum a partire dall’VIII secolo per la vicina statua rappresentante Nerone-Sol, alta 35 metri, di cui oggi rimangono soltanto il luogo del basamento e l’immagine riprodotta su alcuni conî. Iniziato da Vespasiano, inaugurato da Tito nell’80 d.C. e completato da Domiziano, l’anfiteatro rappresenta la massima opera pubblica della dinastia flavia, destinato alla gloria di Roma come al piacere delle folle e orgogliosamente celebrato sulle monete coeve. Un sesterzio di Tito ne mostra, in una visione prospettica, i quattro ordini di arcate e uno spaccato dell’interno brulicante di spettatori. Un’altra complessa rappresentazione del Colosseo compare su un medaglione di Gordiano III del 243 d.C., in cui l’edificio è visto sempre dall’alto, pieno di spettatori e con l’arena dove è in corso un combattimento di fiere. Ai lati dell’anfiteatro si stagliano, a sinistra, la statua del Sol con la Meta Sudans, una fontana in mattoni demolita nel 1936 e di cui oggi resta solo il condotto sotterraneo, e a destra un piccolo tempio. Anche l’intensa attività edilizia del principato di Traiano trova specchio nelle sue monete. Le opere pubbliche traianee sono illustrate da circa dieci tipi che ci restituiscono, attraverso precisi dati conoscitivi, l’aspetto dei numerosi edifici innalzati o restaurati sotto il suo regno:


templi, ponti, acquedotti, archi, il Circo A sinistra sesterzio di Nerone con il Massimo, la Basilica Ulpia, il maestoso porto di Ostia, che ingresso al Foro Traiano, e infine la Colonna mostra due moli, istoriata, che contraddistingue alcune navi, una un’abbondantissima serie di emissioni. divinità marina e il Di grande utilità per la nostra percezione del faro sormontato da una statua. monumento è poi il conio dedicato al Circo 64-66 d.C. Massimo in occasione dell’ampliamento A destra sesterzio di promosso da Traiano, atto di liberalità che non Tito con l’Anfiteatro poteva mancare di accattivarsi il favore del Flavio. 80-81 d.C. popolo romano, particolarmente attratto dai In basso, a sinistra giochi cruenti come dalle corse. aureo di Traiano con la raffigurazione Sui sesterzi emessi tra il 103 e il 111 d.C. il della Colonna circo, di cui oggi restano l’area incavata e Traiana. alcune murature, è riproposto nella visione dal 112-114 d.C.; Palatino secondo una prospettiva schiacciata A destra un su piani sovrapposti: si notano il colonnato particolare dei rilievi della arcato e le murature perimetrali decorate da colonna stessa. sacelli e statue. Al centro si staglia la pista oblunga e la spina centrale con l’obelisco di Ramsete II, originariamente a Eliopolis, e le due mete laterali. Il Circo Massimo sarà rappresentato, sino al IV secolo d.C., su monete e medaglioni, tra cui quelli dei Severi, Gordiano III e Filippo I. Infine, un’iconografia monetale LA COLONNA tipica della dinastia ereditaria degli ISTORIATA Antonini è quella dedicata agli ustrina, cioè ai luoghi preposti alla cremazione dei regnanti defunti: la conclusione della cerimonia funeraria decretava la trasformazione del nobile trapassato in divus o diva.

dalle monete sulle quali appaiono con il curioso aspetto di «torte nuziali». Un esempio del genere è nella serie di consacrazione di Antonino Pio battuta dal figlio Marco Aurelio: da una base transennata si innalza una pira a quattro piani, il primo decorato con drappeggi e ghirlande, i due seguenti con strutture architettoniche e figurate, e l’ultimo sormontato da una quadriga condotta dall’imperatore. Gli esemplari qui proposti esemplificano soltanto una piccola parte del ricchissimo repertorio di iconografie architettoniche presente sulle monete di età imperiale; la loro varietà e la precisione con cui restituiscono l’aspetto degli edifici antichi ne hanno da sempre fatto uno strumento indispensabile per la conoscenza della topografia di Roma e dei suoi monumenti, proficuamente utilizzato già dagli umanisti studiosi di antiquaria cosí come dalla moderna ricerca archeologica.

Effimere, ma sontuose Queste sontuose costruzioni, in parte effimere, destinate per loro stessa natura a scomparire con il fuoco, sono note proprio

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STORIE DI MONETE

A SPRON BATTUTO RICORRENDO SPESSO AL MITICO PEGASO – IL DESTRIERO ALATO NATO DALL’UNIONE TRA IL DIO POSEIDONE E DA MEDUSA – GRECI E ROMANI INTRODUSSERO NELLA LORO ICONOGRAFIA MONETALE L’IMMAGINE DEL CAVALLO. UN SOGGETTO DESTINATO A GODERE DI UNA GRANDE E DURATURA FORTUNA

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a monetazione antica ha sempre riservato un ruolo privilegiato alle raffigurazioni di animali, presi a emblema della città che batteva moneta o di una determinata divinità. Basti pensare, tra i molti esempi possibili a partire dal VI secolo a.C. in poi, ai tonni sugli stateri di Cizico, alla foca simbolo di Focea, oppure ai famosissimi tetradrammi ateniesi, le «civette», che mostrano appunto l’uccello araldico di Atena, alle tartarughe tipiche degli stateri di Egina o al realistico polipo sui didrammi di Eretria. Mammiferi, volatili, pesci, insetti contraddistinguono dunque numerosissime emissioni greche, conoscendo piú tardi eguale fortuna nella tipologia adottata da Roma. A partire dalla fine del IV secolo a.C. comparvero sull’aes signatum – quadrilateri di rame figurati con funzione commerciale in uso già da almeno due secoli – immagini ispirate al mondo animale. Tra queste, ricorrono su dritto e rovescio l’elefante e la scrofa, probabili riferimenti alla vittoria riportata dai Romani contro Pirro a Maleventum del 275 a.C., e l’aquila su fulmine, simbolo di Giove, appaiata a Pegaso. Il mitico cavallo alato, nato dall’unione fra il dio Poseidone e la gorgone Medusa, e compagno inseparabile di Bellerofonte, fu dapprima accolto nell’Olimpo associato al tuono e alla folgore di Zeus, e infine trasformato dagli dèi in una costellazione. È significativo che un essere mitologico sia stato scelto da Roma per contraddistinguere le sue prime forme di scambio: il cavallo si connota da subito come animale speciale, fedele compagno di dèi e uomini nelle loro imprese gloriose. Pegaso, utilizzato in

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precedenza come segno rappresentativo della monetazione di Corinto, personifica la forte valenza del cavallo in ogni civiltà complessa, quale simbolo di eccellenza aristocratica, capacità militare e attributo, sulle monete, di determinate divinità con caratteristiche guerriere, come Marte, Minerva o i Dioscuri, i divini gemelli, legati alla cavalleria e alla supremazia guerriera.

Per i commerci con la Magna Grecia L’unione Minerva o Marte/testa di cavallo si ritrova sulle monete d’argento dette romanocampane e destinate da Roma, tra l’ultimo ventennio del IV e i primi decenni del III secolo a.C. circa, ai rapporti commerciali con il mondo magno-greco. La protome equina completa di finimenti deriva da prototipi monetali siculo-punici; essa svolgeva anche un particolare ruolo religioso, ancorché macabro, nella festa dedicata a Marte il 15 ottobre, quando il cavallo vincitore (equus bellator) della corsa che si svolgeva nel Campo Marzio veniva sacrificato e la sua testa attaccata alla Torre Mamilia o al muro della Regia (Polibio, XII, 4). Il cavallo, quando deve significare potere e nobiltà, viene proposto per intero e libero, come nella didramma romanocampana con testa di Apollo, cavallo rampante e leggenda Roma. Figli di Giove e protettori degli equites, i Dioscuri segnarono, a partire dal III

In alto denario di Emilio Lepido, con statua di cavaliere. 61 a.C. In basso tetradramma di Atene con la civetta, animale sacro ad Atena e simbolo della città. 600-450 a.C.


secolo a.C., il rovescio dei denari repubblicani romani, sui quali, al dritto, compare la testa di Roma personificata. Accompagnati in qualche caso da un cagnolino, vengono mostrati al galoppo, con la lancia e i mantelli svolazzanti, mentre la loro divinità è resa esplicita dalla stella che corona l’elmo; al di sotto campeggia la leggenda Roma. In queste immagini la città si autorappresenta come potenza fondata sul valore bellico, sintetizzato nella figura dei due divini cavalieri. Contrariamente ad altri popoli europei e orientali, presso i Latini e i Romani l’allevamento equino non conosceva una significativa tradizione; probabilmente, si arrivò a selezionare animali provenienti da razze

indigene unite a quelle persiane e spagnole, e gli allevatori romani furono i primi a usare i registri genealogici, ottenendo cavalli robusti e agili, alti al garrese 1,50-1,60 m circa.

Solo per gli alti ufficiali

In alto un cigno su un tetradramma in argento di Clazomene (Ionia). IV sec. a.C. Parigi, Cabinet des Médailles.

Anche la cavalleria non ebbe una funzione di primo piano nell’esercito romano, che preferí fondare la propria forza sulla fanteria. Nell’organizzazione militare il cavallo era destinato agli alti ufficiali, ai legionari a cavallo, alle alae ausiliarie, alle cohortes equitates, alle operazioni di ricognizione e di collegamento, nonché al trasporto e traino. Era particolarmente apprezzato il cavallo partico, in quanto resistente, forte e nel contempo di struttura aggraziata, come il bell’esemplare proposto sui rarissimi aurei di Quinto Labieno Partico. Qui il destriero è bardato con i finimenti tipici della cavalleria leggera partica; sono ben evidenti l’imbrigliatura e la sella, dalla quale pendono due lunghi lembi di stoffa, che alcuni studiosi hanno voluto interpretare come staffe. Ma è noto che quest’ultime non vennero mai

IL MITICO PEGASO

In molte monete greche e romane appare l’immagine di Pegaso, mitico cavallo alato nato da Poseidone e Medusa e compagno di Bellerofonte, l’uccisore della Chimera. Qui sopra il gruppo in bronzo del «cavallo con fantino» dal Capo Artemisio (Grecia), di età ellenistica (Atene, Museo Nazionale Archeologico) e (a destra) il denario romano di Calpurnio Pisone che raffigura un gruppo simile, con il ragazzo che stringe nella mano un frustino (67 a.C.).

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STORIE DI MONETE

utilizzate dai Romani, che guidavano i cavalli attraverso le briglie, la pressione delle ginocchia e i colpi di tallone; naturalmente la mancanza di questo accessorio non permetteva una adeguata capacità di guida dell’animale in battaglia, quando almeno un braccio serviva per combattere. Per trovare un primo accenno letterario alle staffe si deve arrivare all’opera di tattica militare chiamata Strategikon, attribuita all’imperatore bizantino Maurizio (582-602 d.C.).

Muli, mule e carri da parata Insieme ai cavalli, sulla monetazione di età imperiale figurano anche i muli, quali animali da tiro. Utilizzati nell’esercito per trainare carri pesanti (mulus centuriatus), erano adibiti anche al servizio postale: una moneta in bronzo di Nerva effigia mule al pascolo con un carro a due ruote con le stanghe alzate. La leggenda ricorda la Veiculatione Italiae remissa, cioè l’abolizione, voluta dall’imperatore, della tassa pubblica sul servizio postale (cursus publicus). Le mule erano aggiogate altresí al carpentum, vettura a due ruote di particolare prestigio con bordo a cassone e copertura a volta. Questo tipo, nato come veicolo da viaggio, fu adibito al trasporto di donne di alto rango e di personalità dello Stato, divenendo infine un carro da parata. Tiberio, Caligola e Tito onorarono le rispettive madri, Livia, Agrippina Maggiore e Domitilla, raffigurando sulle proprie monete un carpentum con ricca decorazione loro dedicato.

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Rilievo romano raffigurante un carro da viaggio, inglobato nel muro della chiesa di Maria Saal a Klagenfurt (Austria). Qui sotto sesterzio di Nerva con le stanghe di un carro postale e due mule. 96-98 d.C. In basso sesterzio di Tiberio per Livia (22-23 d.C.), con l’immagine di un carpentum decorato e trainato da due mule.

Con il cavallo si poteva alludere anche a competizioni sportive: su un denario del 90 a.C. di L. Calpurnio Piso Frugi viene mostrato un fantino su cavallo con briglie lanciato al galoppo. L’immagine si riferisce ai Ludi Apollinari, giochi sacri in onore di Apollo, divenuti nel 211 a.C. permanenti in seguito alla proposta del pretore C. Calpurnio Piso; il tipo ricorda nell’impostazione il gruppo scultoreo in bronzo di età ellenistica ritrovato nel mare di Capo Artemisio e oggi esposto al Museo Nazionale Archeologico di Atene.

Un modello di grande successo Il monumento equestre, diffuso in tutto il mondo antico e moderno, trova ampio riscontro nell’iconografia monetale di età repubblicana e imperiale, che, almeno in parte, supplisce alla perdita pressoché totale della statuaria in bronzo coeva. La fortuna di questo tipo scultoreo si deve alle molteplici valenze insite nel rapporto privilegiato cavallo-cavaliere: a seconda dei casi, l’immagine può esaltare la posizione sociale eminente, le virtú belliche di un personaggio, il ruolo svolto da un uomo politico, l’imperatore quale governante assoluto. È da rilevare poi come tale iconografia assimilasse l’effigiato da un lato ai sovrani ellenistici e dall’altro ai Dioscuri, avvicinandolo, almeno nel linguaggio delle immagini, alla divinità. Le statue equestri erano innalzate in posizione enfatica nei luoghi pubblici e costituivano il massimo riconoscimento che lo Stato poteva concedere a un suo membro; quelle riprodotte sulle monete emesse a Roma si riferivano solitamente a originali situati in città e che dunque erano ben noti almeno ai Quiriti, i quali non avevano difficoltà a riconoscerli e localizzarli. Tra i numerosi esempi possibili, particolare interesse riveste il monumento ricordato su un denario di M. Emilio Lepido, il futuro triumviro, sul quale appare una statua dedicata a un suo avo: un giovinetto a cavallo che porta un trofeo. La leggenda ricorda, in forma abbreviata, M. LEPIDVS AN(norvm) XV PR(ogressus)


H(ostem) O(ccidit) C(ivem) S(ervavit). Divenuto poi console nel 187 a.C., il ragazzo aveva infatti salvato, nel corso della seconda guerra punica, un cittadino romano, uccidendo un nemico; in virtú di questa impresa, tanto piú eroica in quanto compiuta da un quindicenne, era stato onorato con una statua equestre nella città, diligentemente ricordata dal monetiere come motivo di vanto familiare.

Schemi convenzionali Lo schema classico del condottiero a cavallo è riproposto su di un aureo dell’80 a.C.: Silla su cavallo stante e mano alzata, vestito di toga e mantello. L’impostazione dell’immagine, che campeggia solitaria accompagnata dal nome, L. Silla, glorifica il dittatore quale detentore unico del potere. Anche per questa immagine esisteva un prototipo reale, una statua in bronzo dorato decretata dal Senato e collocata nel Foro davanti ai Rostri.

Medaglione in oro di Magnenzio (350 d.C.), con la città di Aquileia che si inchina all’imperatore. In basso particolare di un mosaico di Orfeo, raffigurante un cavallo. I sec. a.C.-I sec. d.C. Saint-Romain-enGal, Musée gallo-romain.

Ottaviano, prima di divenire imperatore, fu celebrato attraverso statue equestri, che provvide ad apporre sulle sue monete; con l’avvento del principato il regnante sarà il destinatario pressoché esclusivo di questo monumento, realizzato perlopiú secondo due schemi essenziali: cavaliere su cavallo rampante, di origine ellenistica, e cavaliere su cavallo stante in riposo o con zampa sollevata, di tradizione repubblicana. I momenti raffigurati sono diversi: l’arrivo o partenza dell’imperatore (adventus e profectio); trionfante sul barbaro atterrato; durante l’arringa, l’adlocutio; nella rivista militare, la decursio. Il messaggio che la moneta diffonde è sempre lo stesso: l’esaltazione dell’imperatore invitto e dominatore. Dalla seconda metà del III secolo d.C. in poi, la tipologia monetale subisce un generale mutamento, legato anche al progressivo affermarsi del cristianesimo, che porta, tra l’altro, a una palese separazione della figura imperiale da quella dell’uomo ordinario. Ciò condiziona l’iconografia equestre, che diviene piú complessa e lontana dalla riproposizione della statuaria reale, introducendo nel campo monetale messaggi ideologici molto sintetizzati e astratti, ma di forte impatto visivo. Ne è un esempio eclatante il medaglione d’oro di Costanzo I, con il Princeps a cavallo, in assetto bellicoso, su un vascello militare, mentre riceve la resa della città di Londra, simboleggiata dalla donna inchinata che lo accoglie. Nei medaglioni di Magnenzio, Costanzo II, Valentiniano I, l’imperatore viene assimilato alla divinità e definitivamente distaccato dalla comune umanità: il ricco abbigliamento, i paramenti con cui sono ornati i cavalli, la spersonalizzazione dei tratti somatici e il nimbo lo caratterizzano come un essere semidivino. Quest’ultima iconografia fu poi ripresa, con accentuata ieraticità, nelle raffigurazioni di vari santi-cavalieri, quali san Giorgio e san Martino.

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STORIE DI MONETE

DIVINITÀ E PERSONIFICAZIONI/1

RAFFIGURARE GLI DÈI QUELLO DELLE RAFFIGURAZIONI DIVINE FU, SOPRATTUTTO IN ETÀ IMPERIALE, UN REPERTORIO RICCHISSIMO. CHE AFFONDA LE SUE RADICI NELL’ICONOGRAFIA ELABORATA NELLA PRECEDENTE ETÀ REPUBBLICANA

I

l mondo romano, cosí come gran parte delle civiltà di età classica, attribuí alla religione un ruolo fondamentale quale elemento di coesione tra i cittadini, intendendola come insieme di cerimonie e di riti privati e pubblici la cui osservanza era a garanzia dell’unità statale. Trattandosi poi di una teologia non dogmatica e racchiusa in un pantheon circoscritto e definitivo, ma che, anzi,

LE PRIME MONETE

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A sinistra asse in bronzo emesso a Roma nel 335 a.C. Al dritto, Giano bifronte; al rovescio, prua di nave. Roma, Museo Nazionale Romano. Qui sotto testa di Giano bifronte, da Vulci. II sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

lasciava ampia possibilità a divinità esotiche di essere inserite nel novero degli dèi venerati e benigni verso Roma, ben si comprendono la ricchezza dei culti e la funzione sociale assegnata al rito nella prospettiva del potere, prima repubblicano e poi imperiale. Dunque il senso del sacro era sia interiore, come ricerca della trascendenza insita nell’uomo, sia formale e politico, tanto che cariche civili e religiose convivevano nell’organizzazione della pratica di governo, come dimostra il pontificato massimo. Quest’ultimo, infatti, influenzava notevolmente la legislazione civile, penale e costituzionale; in età imperiale la carica fu assunta direttamente dal principe, divenendo stabile elemento della titolatura nella formula abbreviata P(ontifex) M(aximus).

Il mondo divino visto dallo Stato L’iconografia monetale svolge un ruolo di primo piano nello studio della religione antica, sia per la ricchissima tipologia che la contraddistingue, sia per la ricostruzione del contesto politico di cui è il prodotto: la moneta, infatti, è un documento ufficiale promosso e diffuso dal governo e, come tale, rispecchia, in generale, la visione del mondo divino propugnata dallo Stato. La copiosa messe di divinità e personificazioni effigiate sulle monete e identificate con sicurezza dalle leggende che ne riportano il nome, costituisce un documento primario per ricostruire il pensiero religioso romano, ma non è certo completamente esaustivo, in quanto va suffragato dalle altre documentazioni e fonti antiche in nostro possesso, desunte dalla storiografia, dalla letteratura, dalla epigrafia e dai ritrovamenti archeologici. La varietà tipologica già riscontrata nella monetazione di età repubblicana è la radice della


successiva iconografia imperiale. Ma, mentre dapprima i personaggi autorizzati a battere moneta sono molteplici, a partire da Augusto il principe sarà la sola fonte da cui scaturiscono monete e iconografie. Le prime emissioni repubblicane d’argento, le cosiddette romano-campane, coniate in zecche dell’Italia meridionale tra l’ultimo ventennio del IV e primi decenni del III secolo a.C. circa e destinate ai rapporti commerciali con il mondo magnogreco, sono subito garantite da una figura divina. Su di esse compaiono, rese secondo canoni stilistici di impronta classica, le teste di Apollo, Minerva, Marte e Atena, mentre nella monetazione di bronzo coeva battuta a Roma e detta «della prua» per il tipo che ne caratterizza la serie, appaiono i profili di Giano, Giove, Minerva, Ercole, Mercurio e Bellona. Si tratta dunque di una tipologia connessa in gran parte alla sfera guerresca, propria di una società dominante e aggressiva come quella romana; sulla monetazione bronzea, poi, si affiancò agli dèi, che conferivano sacralità alla moneta, l’immagine della prua di nave, probabile riferimento a un evento bellico rilevante per Roma, seppure a tutt’oggi non identificato.

Gli interrogativi di Plutarco Le motivazioni ideologiche che furono alla base della selezione di questi tipi primitivi interessarono anche gli antichi, almeno gli spiriti piú curiosi. Plutarco, per esempio, al pari dello studioso moderno di iconografia e storia sociale, scrivendo sui costumi dei Romani nell’opera Moralia (41) si chiedeva: «Perché mai l’antica moneta recava su una faccia l’immagine di Giano bifronte e dall’altra la prua o la poppa della nave?». Purtroppo non ci sono pervenuti i protocolli, che molto probabilmente dovevano esistere vista l’ufficialità dell’«oggetto» moneta,

Didramma in argento emesso da una zecca romanocampana a nome di Roma. III sec. a.C. Al dritto, testa di Apollo; al rovescio, un cavallo. Roma, Museo Nazionale Romano. In basso disegno di una statua romana di Cerere, dea dell’abbondanza.

relativi ai criteri con cui venivano prescelte determinate iconografie. È comunque significativo che le prime emissioni di denari d’argento battuti a Roma non siano state contraddistinte dalle grandi divinità del pantheon greco-romano, come per esempio Giove e Giunone, bensí da personaggi mitici strettamente riferibili all’Urbe, ovvero la personificazione di Roma al dritto e dei Dioscuri al rovescio. Ciò dimostra che l’iconografia selezionata da chi era preposto alla coniazione, e che dunque agiva secondo canoni riconosciuti e fatti propri dallo Stato, seguiva criteri fondati principalmente sull’esaltazione di Roma. Si adottarono quindi immagini religiose che non dovevano necessariamente seguire la gerarchia dell’Olimpo, quanto piuttosto riferirsi a temi di ordine civico. Roma stessa, infatti, divenne divinità ed è appaiata ai Dioscuri, i mitici cavalieri che protessero la città in eventi bellici determinanti. I due, seppure figure secondarie del pantheon greco-romano, erano comunque figli di Giove e, in virtú della loro sacra origine, concessero il proprio favore al popolo romano garantendone la supremazia.

Mitologia di famiglia Verso la fine del secondo secolo della repubblica, i magistrati delegati alle emissioni dedicarono sempre piú spazio a tipi celebranti le glorie avite della propria gens di origine, servendosi di progenitori illustri, episodi bellici e mitici, nonché di

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STORIE DI MONETE

immagini di divinità; queste ultime sempre però strettamente connesse alla famiglia o al nome stesso del monetiere. Non erano dunque soltanto i grandi dèi in quanto tali a essere celebrati quale parte del patrimonio religioso di tutto il popolo romano, bensí personaggi, a volte anche marginali, prescelti per nobilitare un determinato gruppo gentilizio. L’intenzione era quella di sacralizzare la storia e le vicende politiche della famiglia di chi era autorizzato a battere moneta. Sono esemplari, a tal proposito, i denari di Quinto Pomponio Musa (66 a.C.), che compongono una vera e propria galleria statuaria, aperta da Apollo Musagete con Ercole Musarum, seguiti, una su ogni serie, da tutte e nove le Muse. Pomponio celebrò cosí il suo nome, attraverso l’assonanza con quello delle divinità. Un altro esempio di elevazione della propria gens attraverso la connessione a esseri divini è offerto dalle monete emesse nel 73-72 a.C. da Quinto Creperio Rocus, magistrato monetario proveniente da una famiglia che aveva interessi commerciali nella Grecia orientale, e che quindi appose tipi marittimi, come il busto e il delicato profilo di Anfitrite al dritto e Nettuno in biga di cavalli marini al rovescio. Complessa, dal punto di vista iconografico, è la raffigurazione adottata dal monetiere Manio Fonteio (85 a.C.) per i suoi denari. Sul dritto campeggia un’incisiva testa virile, identificata sia con Apollo che con Veiove, dio assimilabile a un Giove giovanile e infero, destinatario del sacrificio di una capra, mentre sul rovescio è un piccolo genio alato, un Eros/Cupido, che cavalca una capra, sovrastato da due berretti denominati pilei. L’interpretazione data dall’esegetica moderna a quest’ultima immagine, che ricorda nell’impostazione la piccola statuaria

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Nella pagina accanto, in alto busto di Marco Giunio Bruto, l’uccisore di Cesare, scultura in marmo di Michelangelo Buonarroti. 1539. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Nella pagina accanto, in basso bronzetto etrusco dal Foro Romano raffigurante un augure. VI sec. a.C. Roma, Museo del Foro. In basso denario di Marco Giunio Bruto. 54 a.C. Al dritto, testa di Libertas; al rovescio la moneta celebra l’avo Bruto, che scacciò i Tarquini da Roma, accompagnato da due littori e un araldo.

aneddotica di età ellenistica e testimoniata anche da altre fonti, è una dimostrazione della complessità e del grado di sintesi riscontrabile nei tipi di quest’epoca. Si tratta probabilmente, per il rovescio, di un’allusione a culti dionisiaci che prevedono la presenza di eroti cavalcanti pantere o capri, oppure, secondo altre interpretazioni, è un richiamo a Giove infante allattato dalla capra Amaltea. I sovrastanti pilei, i copricapi propri dei Dioscuri, riportano direttamente alla gens Fonteia, originaria di Tusculum, città nella quale il culto dei divini gemelli era particolarmente sentito.

Astrazioni personificate Accanto agli dèi compaiono poi le personificazioni, cioè le rappresentazioni figurative e umanizzate di realtà fisiche, come per esempio Roma o il fiume Tevere, e concetti astratti quale l’Onore, la Pietà, la Virtú, la Vittoria e tanti altri. Le personificazioni erano oggetto, al pari delle divinità, di un diffusissimo culto popolare e numerosi erano i luoghi sacri loro dedicati, insieme a simulacri, epigrafi, rappresentazioni figurative di vario genere. Per esse si delineò, poi, una specifica iconografia, determinata soprattutto dagli attributi che le


scacciò la dinastia dei Tarquini da Roma instaurando la repubblica.

Modelli statuari

contraddistinguono; la numismatica offre in questo caso un fondamentale contributo alla loro identificazione. Infatti le personificazioni, che appaiono dapprima sulle monete di età repubblicana e poi numerose in quelle di età imperiale, sono affiancate dalla leggenda che ne tramanda il nome, individuandole cosí senza possibilità di errore anche quando presentano gli stessi attributi, come per esempio la cornucopia, la bilancia o il timone, che accompagnano l’Abbondanza, la Fortuna o la Giustizia a seconda dei casi. Nei drammatici anni compresi tra l’età di Cesare e l’avvento dell’impero, le divinità riportate sulle monete – cosí come le altre tematiche figurative – furono legate strettamente alle vicende politiche dell’epoca e alla fazione del magistrato che le emetteva. Si vedano i denari battuti da Marco Giunio Bruto, il futuro tirannicida, nel 59/54 a.C. circa, che manifestano apertamente la sua devozione a tutti quei principi repubblicani insiti nella Libertas, impersonata come una fanciulla giovane, bella e adorna di gioielli, e che lo condurranno all’assassinio di Giulio Cesare. Sul rovescio compare un personaggio tra due littori e preceduto da un araldo: si tratta dell’avo Bruto primo console, colui che

Cesare adottò invece numerose immagini ispirate direttamente a Venere, capostipite mitica della gens Iulia, celebrata come Victrix dopo la battaglia di Farsalo, e diligentemente riportate su denari di M. Mettio battuti nel 44 a.C. La dea fu effigiata sia nella sola testa sul dritto, sia a figura intera, prendendo spunto, con buona probabilità, da modelli statuari voluti da Cesare stesso, come quello esposto nel tempio di Venere Genitrix nel 46 a.C. La guerra civile seguita all’uccisione di Cesare vide tra i suoi principali protagonisti Marco Antonio e Ottaviano, i quali, in una battaglia senza esclusione di colpi, si servirono anche della moneta per diffondere il proprio messaggio politico. Ottaviano, in particolare, fece sapiente uso del potere delle immagini insito nella monetazione, propugnando attraverso essa e altre forme di propaganda il suo programma ideologico, fortemente incentrato sull’adozione da parte di Cesare: ciò infatti lo avvicinava a un dio in quanto figlio dell’ormai divus Iulius. Egli emise, poco prima del 31 a.C., una doppia serie di denari, una contraddistinta dalla sua testa sul dritto e dalle figure intere di Venus, Victoria e Pax, e l’altra, all’inverso, dalla testa delle divinità e da raffigurazioni del triumviro a figura intera. Il messaggio che si voleva diffondere non aveva bisogno di ulteriore leggenda se non quella apposta: Cesar divi f(ilius). L’essenza stessa del discorso pronunziato da Ottaviano poco prima della battaglia di Azio, riportato da Dione Cassio (50, 24 e ss.), è efficacemente sintetizzata sulle monete: la divina ascendenza da Venere non poteva che garantire la vittoria del futuro Augusto sull’Egitto, e con essa la pace che avrebbe finalmente regnato a Roma.

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STORIE DI MONETE

DIVINITÀ E PERSONIFICAZIONI/2

IL PANTHEON IN UN TONDELLO NEL CORSO DELL’ETÀ IMPERIALE SI CONSOLIDA L’USO DELLE RAFFIGURAZIONI DI DÈI E PRINCIPI SULLE MONETE ROMANE. E SI FANNO ANCORA PIÚ FORTI LE MOTIVAZIONI POLITICHE CHE DETTANO LA SCELTA DELLE IMMAGINI

L

a monetazione greca e romana adottò, fin dai suoi esordi, l’immagine della divinità per contrassegnare le proprie emissioni: il dio eponimo o protettore della città garantiva, già con la sua sola effigie, la bontà della moneta, esaltando e rappresentando l’entità statale di cui era il simbolo. Si pensi, tra gli esempi piú noti, alla raffigurazione di Poseidone sugli stateri di Poseidonia (530-510 a.C.) o alla testa di Roma sui denari romani. Il rapporto tra il dritto e il rovescio della moneta ha formato, nel suo corso secolare, un sistema narrativo per immagini incentrato su quasi tutto il pantheon greco-romano: divinità, personificazioni e avvenimenti mitici. È facile comprendere, quindi, l’apporto fornito dalla iconografia numismatica alla ricostruzione della religiosità antica nella sicura identificazione degli dèi con i loro attributi. Come già illustrato, la monetazione di Roma repubblicana abbondò di immagini sacre e avvenimenti mitici – e quindi religiosi –, ai quali affiancò in seguito temi di ordine politico e militare ascritti alla gens del monetiere.

Diritto d’effigie Dopo la vittoria di Azio, Ottaviano, divenuto poi Augusto, rimase di fatto il padrone assoluto dello Stato, aprendo la strada al principato. Le profonde riforme istituzionali da lui avviate

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riguardarono anche l’intero sistema monetario, riorganizzato secondo nuovi rapporti tra i metalli e attraverso l’introduzione di vari nominali divisionali. Quanto al repertorio illustrativo, Augusto pose sotto diretto controllo imperiale la scelta dei tipi, anche se formalmente la monetazione in bronzo pareva rimanere di competenza del senato, come attesta la sigla SC presente di regola sui rovesci, la quale significava appunto Senatus Consulto: «Per deliberazione del Senato». La totale concentrazione del potere nelle mani di una sola persona accrebbe in maniera esponenziale il potenziale propagandistico insito nella moneta: l’imperatore e i membri della sua famiglia furono gli unici detentori del diritto di effigie, tramandando nei secoli per ogni dove il loro volto apposto sul dritto delle monete. Il patrimonio figurativo destinato al

Disegno di un sesterzio di Caligola con la Pietas sul dritto e, sul rovescio, l’imperatore che sacrifica davanti al tempio di Augusto. 37-38 d.C. La moneta aveva anche un potenziale propagandistico del programma politico e sociale del principe, del suo impegno pubblico e religioso, dell’attività bellica.


Statua di Augusto come Pontefice Massimo, dalla via Labicana. I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano. Augusto riformò la monetazione, delegando formalmente le emissioni in bronzo al Senato.

rovescio era invece eterogeneo, anche se sempre riferito, piú o meno direttamente, all’imperatore. Largo spazio fu riservato al programma politico e sociale del principe: momenti della sua attività pubblica, munifica, religiosa e bellica furono immortalati sulle monete in scene esemplari, realizzate da veri e propri maestri dell’incisione, i quali riuscirono a sintetizzare composizioni anche molto complesse nel ristretto campo a disposizione, raggiungendo in alcuni casi esiti di raro virtuosismo.

Una tutrice per il principe La piú ricca serie di figurazioni è comunque quella d’argomento cultuale: l’imperatore, infatti, quale Pontifex Maximus, incarnava la massima autorità religiosa garante della sicurezza dello Stato romano, il quale aveva tra i suoi elementi fondanti il corretto e regolare svolgimento del rito tributato alle divinità dall’intera compagine civica. Questo ruolo poneva il regnante in un rapporto privilegiato con gli dèi, facendone un interlocutore progressivamente assimilato alla sfera sovraumana e destinato, una volta defunto, all’eternità. Infatti, a partire dall’uccisione di Cesare, la morte del principe vedeva la sua trasformazione in divus e come tale era venerato, fatta salva l’eventualità in cui fosse incorso nella damnatio memoriae, tendente a cancellare il ricordo stesso della sua esistenza, come nel caso – tra i tanti – di Nerone, Caligola e Domiziano. L’imperatore, ancora, poteva scegliere una divinità e farne la sua comes, compagna e personale tutrice, a cui tributare un culto specifico. La familiarità tra imperatore e divinità è visivamente affermata in numerose emissioni in cui il principe compare insieme agli dèi, come per esempio su un medaglione di Antonino Pio emesso nel 153/154 d.C.: qui il

In alto sesterzio di Vespasiano, con la figura della Pax, che regge un ramo di ulivo in segno di pace. 71 d.C. Le personificazioni allegoriche sulle monete hanno tutte gli attributi che le distinguono. A destra statere di Poseidonia del 530-510 a.C. con il dio Poseidone, eponimo e protettore della città.

regnante, fulcro della rappresentazione, è seduto su seggio e viene incoronato dalla Vittoria, mentre Cerere gli porge un mazzo di spighe, simbolo di abbondanza. Il messaggio diffuso tramite questa scena è di immediata lettura: il principe vittorioso, in questo caso su Britanni e Mauri, assicura con il suo valore prosperità al popolo romano. Ancora, i regnanti possono essere raffigurati essi stessi quali divinità, come nell’aureo neroniano emesso nel 63/68 d.C., sul quale Nerone e Poppea, identificati dalla leggenda Augustus Augusta, impersonano con buona probabilità Sol e Concordia. Il distacco tra la comune umanità e l’imperatore fu poi ribadito anche nella stessa titolatura: Domiziano affiancò al titolo di Imperator quello di Dominus, passando cosí da «colui che è investito dell’imperio» al concetto di «padrone». Dall’età tetrarchica in poi, la sigla DN (Dominus Noster) venne riportata con diligenza sulle monete, mentre i ritratti persero progressivamente l’originario realismo naturalistico a favore di un’immagine del regnante quale emanazione diretta della divinità. Le figurazioni sulle monete, insieme alle leggende, sono quindi una testimonianza imprescindibile nella conoscenza della religione

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STORIE DI MONETE

d’età imperiale e della sua evoluzione, in quanto documento ufficiale promosso direttamente dal potere centrale.

Culti egiziani Le emissioni imperiali presentano in maniera pressoché completa l’intero pantheon grecoromano tradizionale, affiancando a esso divinità orientali, tra cui Cibele, Iside, Serapide, Sol. L’introduzione di un nuovo culto testimonia spesso la devozione personale del regnante per un dio esotico: si pensi, per esempio, a Iside, raffigurata, seppur raramente, su monete di Vespasiano, Adriano, e poi di Commodo e dei Severi. Questo culto di origine egiziana conobbe inizialmente una fiera opposizione da parte della religiosità ufficiale, tanto che sotto il regno di Tiberio a seguito di uno scandalo a sfondo sessuale (Flavio Giuseppe, Ant. Iud., XVIII, 74-78), il tempio fu distrutto e la statua di culto gettata nel Tevere. Pochi anni dopo, Caligola reintrodusse la divinità tra quelle ufficialmente venerate a Roma. Commodo, oltre a essere fervente devoto di Iside e Serapide, si autoidentificò in Ercole,

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facendosi rappresentare su statue e monete con gli attributi del dio; particolarmente eloquente è lo splendido medaglione del 192 d.C., sul quale un fine artista del conio incise al dritto la testa imperiale rivestita dalla leontea, tipico attributo dell’eroe, realizzando sul rovescio una mirabile visione di scorcio del possente e statuario nudo di Ercole, posto accanto alle spoglie del cinghiale caledonio e del leone nemeo. Qui l’identificazione dio-imperatore è ribadita dalla leggenda che denomina Commodo «Ercole Romano» e dal volto di Ercole, che riproduce i tratti del regnante.

L’imperatrice madre Il sincretismo tipico della religiosità di età severiana e la stessa assimilazione del principe al dio è ben esemplificato in un medaglione di Giulia Mamea, madre di Severo Alessandro, la quale esercitò una fortissima influenza sul regno del figlio, asceso al soglio imperiale, appena tredicenne, nel 222 d.C. e poi ucciso insieme a lei nel 235 d.C. durante una rivolta militare. Il medaglione emesso nel 228 d.C., nel pieno fulgore del

Efeso (Turchia). Rilievo con Nike alata che incorona. In basso solido aureo di Valentiniano III, con Vittoria alata che sorregge una croce gemmata. 425-426 d.C. Anche dopo il trionfo del cristianesimo, la Vittoria continuò a essere usata come simbolo del potere imperiale.


Disegni di monete in cui sono raffigurate le personificazioni di qualità e virtú. Dall’alto, moneta di Faustina Minore con la figura della Fecondità (161-176 d.C.); medaglione bronzeo di Diocleziano con la figura di Moneta al centro, Giove a sinistra ed Ercole con clava e globo a destra (284-305 d.C.).

regno, rappresenta l’ancor giovane e bella Giulia Mamea quale Dea Panthea, ovvero rivestita degli attributi di diverse divinità quali Vittoria (le ali), Iside (diadema a fior di loto), Diana-Luna (mezzaluna), Abbondanza (cornucopia) e Cerere (fiaccola con spighe). Sul rovescio, l’imperatrice madre è il fulcro di un divino simposio, seduta simile a Giunone con lo scettro, e circondata da tre divinità femminili che la omaggiano. Anche in questo caso il messaggio trasmesso dal medaglione, utilizzato come dono a personaggi di rango in occasioni speciali, acclama la reggente quale novella dea in cui confluiscono tutti gli attributi.

Un elemento secondario Non essendo giunti sino a noi documenti ufficiali, ci è impossibile risalire alle modalità che presiedevano alla scelta delle tematiche monetali; va comunque ribadito che l’assenza di un dio nella monetazione di un imperatore non significa affatto che il culto ufficiale di quel dio venisse in quell’epoca trascurato. Per esempio, Augusto non celebrò sulle monete Vesta, fondamento dell’unione civica, e Venere è assente nei conî da Tiberio a Nerone. La moneta era essenzialmente un mezzo di scambio garantito dallo Stato e il suo veicolare tramite le immagini l’ideologia ufficiale costituiva un elemento secondario, seppure di vasta portata, che si affiancava ad altri canali propagandistici utilizzati dal regime. Insieme a Giove, Giunone, Minerva, Marte, Ercole, Venere, Vesta, Cerere, le divinità che appaiono con piú frequenza sulle monete, un ruolo di grande rilievo è occupato dalle personificazioni allegoriche di entità astratte. Quest’ultime rispecchiano l’adozione, anche in ambito religioso, della mentalità pratica e concreta propriamente romana: si rivestono di immagine umana e si inseriscono nel culto ufficiale concetti di volta in volta allusivi all’esercizio del potere dei vari imperatori.

Le personificazioni possono suddividersi in criteri di contenuto che si rifanno per lo piú alle virtú del principe (Clementia, Pietas, Iustitia, Munificentia, Aequitas), a concetti di carattere astratto (come Spes, Libertas, Securitas, Pax, Aeternitas, Salus, Moneta) e alle personificazioni di città e province (Roma, Iudea). Anche la Fecunditas, insieme alla Spes Rei Publicae, accompagnate da uno o piú bambini, divengono divinità protettrici dell’impero, attraverso le quali le monarchie ereditarie come l’antonina e la severiana mirano a garantire la discendenza e quindi la stabilità del regno. Ogni personificazione ha poi determinati attributi che la rendono immediatamente riconoscibile anche in assenza di leggenda; per esempio, Pax regge, a partire dall’età augustea, un ramo di olivo, mentre Salus, simbolo della salute imperiale cosí come della salvezza dello Stato, tiene solitamente in mano una ciotola, porta lo scettro e nutre un serpente, simbolo del dio della medicina Esculapio, che si innalza da un’ara intorno alla quale è avviluppato. Sono frequenti i casi in cui differenti personificazioni sono qualificate dagli stessi oggetti: per esempio, sia Moneta che Iustitia sono contraddistinte dalla bilancia, simbolo d’equità nel giudizio e nel valore del metallo monetato, mentre Abundantia e Fortuna portano entrambe una cornucopia, segno di prosperità. A partire dall’età costantiniana e con il progressivo affermarsi del cristianesimo, le raffigurazioni monetali di divinità conobbero una netta contrazione, fino a scomparire del tutto, mentre le personificazioni furono svuotate dell’originario significato religioso pagano per divenire denominazioni simboliche evocative dell’immagine espressa sulla moneta. Solo Roma, la Vittoria e Costantinopoli continuarono a essere utilizzate sui conî quali simboli atemporali del potere imperiale, inserite in una nuova realtà politica e sociale ormai fondata sul trionfo del monoteismo cristiano.

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STORIE DI MONETE

TRA PAGANESIMO E CRISTIANESIMO/1

UN SOLO DIO PER IL PADRONE DEL MONDO LA CONVERSIONE RELIGIOSA DI COSTANTINO SEGNÒ L’INIZIO DI UNA NUOVA ERA. CON INTERESSANTI MUTAMENTI ANCHE NELLE FIGURAZIONI IN USO DA SECOLI SULLA MONETA ROMANA

L’

ufficiale conversione in senso cristiano dell’impero fu avviata da Costantino nel 313 d.C. con la promulgazione dell’editto di Milano che, riconoscendo il culto quale «religio licita», concedeva libertà di professione ai cristiani; l’epocale mutamento venne definitivamente sancito da Teodosio nel 380 con l’editto di Tessalonica, per il quale si stabiliva che la «sola religione dell’impero era quella che il divino apostolo san Pietro aveva trasmessa ai Romani». Ciò comportò una progressiva evoluzione dell’iconografia monetale verso

Medaglione in oro di Costantino. Zecca di Costantinopoli, 330 d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Al dritto, Costanzo II con corona di alloro; al rovescio, Costantino, Costanzo II e Costantino II incoronati.

forme espressive piú incentrate sulla nuova religione e la sua simbologia. Tale processo, inizialmente quasi impercettibile sotto il regno di Costantino, fu comunque inarrestabile, tanto che, già nel V secolo, la tipologia delle emissioni divenne del tutto aderente al solo culto ammesso dall’impero. A partire dal IV secolo d.C., infatti, si assistette a una graduale contrazione e poi all’esaurirsi delle classiche figurazioni utilizzate dalle varie zecche, determinando una standardizzazione del repertorio figurativo, sia per quanto riguarda i temi raffigurati sul rovescio, sia l’effigie sul dritto.

Diminuiscono gli dèi, non le personificazioni In questa fase – fatta eccezione per le emissioni della restaurazione pagana di Giuliano l’Apostata (361-363 d.C.) – il numero delle divinità riprodotte sulle monete si ridusse notevolmente (Giove, Marte, Sole, Ercole, Genio e alcuni dèi orientali), mentre continuarono a essere rappresentate le personificazioni, private però di qualunque allusione divina per diventare pura illustrazione di concetti attinenti l’impero (Pax, Fidelitas, Victoria, Securitas), e la figura dell’imperatore quale comandante

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militare vittorioso. Città e province, infine, furono celebrate sotto forma di volti o figure intere femminili in trono, come nel caso di Roma e Costantinopoli. Nel contempo, incominciarono lentamente a diffondersi nel campo monetale segni, prima quasi nascosti, poi sempre piú evidenti, che si rifacevano al patrimonio iconografico del cristianesimo. Primo tra tutti il Chrismon, il monogramma di Cristo composto dalle lettere greche X (chi) e P (rho) intrecciate, cosí come viene descritto da Lattanzio (De mortibus persecutorum, XLIV, 5) a proposito del sogno avuto da Costantino la notte prima della battaglia di Ponte Milvio. Il principe, avuta in visione la promessa della vittoria se avesse apposto il monogramma di Cristo sulle proprie insegne, «facit ut iussus est et transversa X littera summo capite circumflexo, Christum in scutis notat». In riferimento alla rivelazione e alla seguente sconfitta di Massenzio (312 d.C.), il monogramma, prima che professione di fede legata alla conversione di Costantino, divenne il simbolo salvifico, una sorta di emblema miracoloso denominato dal panegiricista Eusebio «coeleste signum Dei», capace di condurre alla vittoria sul nemico.

Sogni e simboli Il cristogramma appare per la prima volta, quasi celato tra i pennacchi dell’elmo di Costantino, su un raro medaglione d’argento emesso nel 315 dalla zecca di Ticinum, coniato dopo la battaglia di Ponte Milvio e destinato a circolare in quantità limitata quale dono imperiale offerto a personaggi di rilievo, probabilmente militari di alto rango. Qui il busto dell’imperatore è reso quasi frontalmente, con la testa cinta da un ricco elmo piumato e tempestato di gemme, sul quale si intravede un cerchiello con il monogramma di Cristo. Costantino indossa una elaborata armatura da parata, completa di scudo e scettro desinente in globo; lo affianca un cavallo dalla folta criniera.

In alto fronte di sarcofago con il monogramma costantiniano. Fine del IV-inizi del V sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Dopo l’adozione della religione cristiana da parte di Costantino, il monogramma di Cristo (la X e la P intrecciate) divenne simbolo di vittoria. In basso fregio di elmo in bronzo dorato, decorato con il chrismon. IV sec. d.C. Budapest, Museo Nazionale Ungherese.

Anche la composizione del rovescio è assai ricercata: al centro si staglia l’imperatore coronato dalla Vittoria e colto nel gesto dell’adlocutio, con il quale si dava avvio all’arringa ai soldati, probabile riferimento al discorso tenuto da Costantino al suo esercito prima della battaglia di Ponte Milvio. Il messaggio trasmesso dalle due immagini si inserisce perfettamente nel solco della tradizione romana, ribadita dalla presenza della Vittoria: il principe, però, arbitro della salvezza stessa della res publica, si fregia di un simbolo inedito e seminascosto, il monogramma portato sulla fronte dell’elmo, che diviene protezione effettiva e nel contempo metaforica. In questa fase il monogramma, piú che espressione religiosa di un credo interiore, è la manifestazione del favore accordato dal nuovo dio all’imperatore, un dio foriero di vittoria e che permette, attraverso una sua partecipazione indiretta, la risoluzione positiva di una battaglia decisiva. Infatti, quando poi il cristogramma venne aggiunto alle insegne

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STORIE DI MONETE

militari, lo fu, innanzitutto, in quanto segno magico, presagio di trionfi, come lo era stato per Costantino. Ciò ripropone, in sostanza, il tipico atteggiamento romano nei confronti del sacro, secondo il quale viene conferito a una determinata divinità – tradizionale o di nuova acquisizione – l’attributo che ne qualifica e definisce la sfera d’azione, inserendola nel novero degli dèi favorevoli a Roma. Altrettanto ricorrente è il valore dato al sogno di Costantino: questo è un omen, un presagio proveniente direttamente dal nume e dunque possessore di virtú salvifica in se stesso.

Quel principe dall’aria ieratica Anche la figura dell’imperatore incorse in un progressivo mutamento stilistico, peraltro già in atto e tendente a svincolarsi dai precedenti canoni realistici, sino a giungere a una fissità schematica, che lo allontana dai sudditi e, piú in generale, dalla comune umanità. Accanto alla consueta rappresentazione di profilo, piú conforme alla realtà fisionomica, si diffuse il ritratto di tre quarti adottato da Costantino, di origine costantinopolitana e utilizzato in Occidente dall’età di Arcadio. Come ben esemplificato nel medaglione di Ticinum, gli incisori dovettero basare la loro opera su un modello ormai «spersonalizzato» nei reali tratti del volto, aderente a un senso di impassibilità ieratica propria di un capo che è tale per diretto intervento divino: l’uomo passa in secondo piano rispetto alla maestà della funzione che è chiamato ad assolvere. La sacralizzazione dell’effigie imperiale rientra nell’ambito di esaltazione della persona del principe sempre presente nell’ideologia imperiale romana, come bene dimostra il titolo di Dominus et Deus già adottato da Domiziano e quello di Dominus Noster utilizzato da Diocleziano. Cosí, mentre il ritratto assunse caratteri ripetitivi e di difficile identificazione personale, i classici schemi iconografici del rovescio riferiti al regnante si modificarono secondo moduli che esaltavano, insieme alle vittorie imperiali, anche il predominio della religione cristiana.

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Particolarmente interessante è lo spostamento semantico attuato per il tipo dell’imperatore a cavallo che sopraffà un avversario: ora il barbaro si trasforma in una creatura mostruosa dal corpo di serpente e dalla testa umana, simulacro ambivalente del nemico umano e spirituale. La sola raffigurazione del serpente doveva bastare a richiamare, nella memoria dei contemporanei, un avversario reale e contingente: si veda per esempio il follis emesso dalla zecca di Costantinopoli nel 327 d.C., celebrante la vittoria su Licinio, antico amico e collega di Costantino e poi da lui fatto uccidere per motivi di ordine dinastico e religioso. Licinio è qui identificato nel serpente, trafitto da una insegna militare con tre medaglie in campo e sormontata dal cristogramma. Il labaro non riporta ancora inscritto il Chi-Ro, che sarà invece quasi sempre presente a partire dal 335 d.C.

Il rettile del diavolo Nell’immaginario cristiano il serpente, insieme al drago, divenne la consueta personificazione del male e del maligno: «Super aspidem et basiliscum ambulabis, leonem et draconem calpestabis» (Salmo CXI, versetto 13); tale iconografia ebbe ampia diffusione nella produzione artistica tardo-romana e poi medievale, sino a renderne protagonista la stessa figura del Cristo. Si veda, per esempio, la rilegatura in avorio della Bibbia di Lorsch, di età carolingia, nella quale il Cristo, in tunica e pallio e affiancato da due angeli, calpesta un leone e un dragone, con accanto un serpente e un basilisco. Un bell’esempio del tipo con imperatore che schiaccia un serpente si ritrova su un piú tardo solido d’oro emesso a Ravenna da Valentiniano III (425-455 d.C.), in cui il principe sovrasta con il piede una serpe dalla testa umana, identificata nell’usurpatore Giovanni.

Siliqua in argento. 315 d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Al dritto, Costantino con elmo piumato e chi-ro seminascosto; al rovescio, adlocutio ai soldati. In basso solido per il divo Costantino col capo velato e sulla quadriga. 337-340 d.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


Solido di Valentiniano, con l’immagine ieratica dell’imperatore sul dritto; sul rovescio si vede l’imperatore che schiaccia un serpente dalla testa umana, mentre tiene nella destra un’asta desinente in croce e nella sinistra il globo sormontato dalla Vittoria, insegne politiche e religiose. 425-455 d.C.

L’immagine, sintetizzata nel circoscritto campo della moneta, ben si adatta a illustrare quel momento della cerimonia trionfale ancora in uso durante l’Alto Medioevo, durante il quale l’imperatore poggiava realmente il piede sulla testa e la lancia sul collo del nemico atterrato, come descritto da Costantino Porfirogenito nella sua opera De Caerimoniis (2, 19) redatta nel 953 d.C. Il globo e la croce-lancia riproducevano gli oggetti sacri che dovevano far parte del corredo ufficiale utilizzato nelle apparizioni pubbliche dell’imperatore, inscenate come vere e proprie ierofanie. La figura del regnante sulle monete è infatti ulteriormente sacralizzata dalla presenza della lancia perlinata desinente in croce, dal labaro e dal globo crucifero, insegne insieme di potere politico e religioso sulle quali il principe si appoggia e confida, traendone la forza e la legittimazione divina che lo conduce alla vittoria.

La mano di Dio Di rilievo è il tipo introdotto dai figli di Costantino nelle numerose emissioni di consacrazione dedicate alla memoria divinizzata del padre: al dritto compare il volto di Costantino velato con la leggenda Divus Constantinvs Avg(vstvs) Pater Avgg(vstorvm), e, sul rovescio, privo di iscrizione,

l’imperatore su una quadriga che tende la mano alla manus Dei protesa verso di lui. Questa immagine è altamente significativa, in quanto prima forma parzialmente antropomorfa adottata in campo numismatico per raffigurare il dio dei cristiani. L’imperatore non è piú accolto, alla sua morte, nel novero delle divinità pagane, ma assurge in cielo, dal quale Dio gli tende benignamente la mano. Questo diretto rapporto Costantino/Dio, reso attraverso la mano celeste, era già stato esemplificato in un famoso medaglione d’oro battuto a Costantinopoli in onore di Costanzo II Cesare. Sul rovescio, illustrato dalla leggenda Gavdium Romanorum, compare Costantino affiancato da due figli; mentre questi ultimi sono coronati rispettivamente da un soldato e dalla Vittoria, secondo schemi tradizionali, il capo di Costantino è sormontato dalla manus Dei che gli porge direttamente dal cielo la corona d’alloro. In questo caso la funzione di compagna dell’imperatore rivestita solitamente dalla Vittoria è attribuita direttamente al Dio cristiano: l’assimilazione nel gesto tra una personificazione cara al vecchio pantheon pagano e l’unico nuovo dio preclude alla trasformazione della dea alata in uno dei soggetti piú diffusi e prediletti dall’iconografia cristiana, quello dell’angelo.

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STORIE DI MONETE

TRA PAGANESIMO E CRISTIANESIMO/2

LA CROCE E LA VITTORIA

LA CRISTIANIZZAZIONE DELL’ICONOGRAFIA MONETALE ROMANA PROGREDÍ LENTA, MA COSTANTE. ALLA FINE DI QUESTO PROCESSO, SOLO LA VITTORIA RIMASE NEL PATRIMONIO FIGURATIVO DELLA NUOVA RELIGIONE, IL CUI TRIONFO È SANCITO DALLA RAPPRESENTAZIONE DELLA CROCE

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a dea Vittoria, figura ed essenza stessa del potere, ha alle spalle una lunghissima e fortunata tradizione iconografica, quale immediato ed efficace simbolo della supremazia di Roma. La sua presenza sulle monete, connessa all’esaltazione dello Stato repubblicano prima e dell’impero poi, perdura anche in età tardoantica, a conferma delle profonde radici di tale immagine nella mentalità dell’epoca. La Vittoria, infatti, è l’unica personificazione, insieme a quelle di Costantinopoli e di Roma, che sopravvive al progressivo rarefarsi del ricco repertorio iconografico monetale in atto dalla tarda età costantiniana: la dea compare in Occidente sino alla caduta dell’impero, mentre in Oriente viene utilizzata sino alla metà del VII secolo. L’apparato statale imperiale postcostantiniano, in via di cristianizzazione, pose particolare cura nell’elaborare un patrimonio figurativo incentrato sulla nuova religione, premurandosi di creare tipi che non si discostassero in maniera repentina e traumatica da quei modelli secolari profondamente assimilati dal popolo, ancora in larga parte legato agli dèi tradizionali. Ciò valeva in maggior misura per la figura della Vittoria, da sempre associata all’Urbe. Non a caso l’ara della Vittoria, esposta quale

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nume tutelare del senato nella Curia di Roma da Augusto stesso, fu l’ultimo simulacro ufficiale del mos maiorum della Roma pagana a essere rimosso, malgrado la strenua difesa che ne fece Simmaco nel 384 d.C. davanti a Valentiniano II e a cui sant’Ambrogio si affrettò a controbattere, ben comprendendo la pericolosità delle argomentazioni addotte dal senatore, fondate sul significato che la dea aveva rivestito per secoli nel mondo pagano.

Il duplice valore di un simbolo Tale processo comportò anche una riconfigurazione delle tipologie destinate alle monete. Non si volle creare un nuovo tipo che incarnasse la Vittoria – concetto che comunque ben si confaceva sia all’esaltazione della nuova religione dominante, sia alla glorificazione del principe e dell’impero –, ma si preferí mantenere il modello antico, Statuetta di Vittoria alata su globo, bronzetto romano, da Costantina (Algeria). II sec. d.C. Costantina, Musée Cirta de Constantine. La Vittoria fu l’unica dea che mantenne a lungo la propria effigie sulle monete romane, come quella che meglio si adeguava alla nuova religione.


«cristianizzandolo» gradualmente, fino a ricoprirlo pudicamente di un ampio panneggio che ne nascondesse il busto nudo, e a dotarlo dell’attributo della Croce. Con i regnanti – e particolarmente le imperatrici – di fede cristiana la Vittoria tese quindi a sacralizzarsi nell’aspetto come nel concetto simboleggiato, sino a trasfigurarsi nella forma di un angelo. Per seguire il percorso che porta una divinità romana a divenire l’essere intermediario tra Dio e gli uomini, risulta utile considerare l’evoluzione della tipologia della Vittoria e delle sue varianti nell’iconografia monetale tra il V e gli inizi del VI secolo, conclusasi con la realizzazione della figura alata stante frontale.

Soluzioni diverse

Qui sopra rovescio di un solido di Eraclio I che reca la Croce con barre su ogni braccio, posta su alta scala. Coniato a Costantinopoli. 610-641 d.C. A destra, in alto rovescio di un aureo di Arcadio recante la Vittoria seduta, con il busto nudo, che inscrive uno scudo posato sul ginocchio. 400-404 d.C. L’analoga moneta della moglie Elia Eudoxia si diversifica solo per la tunica che riveste la Vittoria e per il segno di Cristo che la dea traccia sullo scudo.

Si confrontino, come esempio significativo, le monete di Arcadio e della moglie Elia Eudoxa, emesse tra il 400 e il 404, nelle quali la Vittoria è seduta su una corazza e inscrive uno scudo poggiato sul ginocchio: tali immagini consentono un’interessante comparazione tra due soluzioni iconografiche che, seppure eguali nell’impostazione, testimoniano un diverso atteggiamento dottrinario nel messaggio affidato alla figura. La posizione della divinità è la stessa, ma mentre con Arcadio il tipo è quello classico della dea a busto nudo che incide una data votiva (XX/XXX), nell’altra la dea è evidentemente cristianizzata sia nell’atteggiamento – il corpo non è piú nudo, bensí rivestito da un’ampia tunica –, sia nel segno che la dea appone sullo scudo, il monogramma di Cristo. Ed è proprio quest’ultimo ad annullare definitivamente la tradizionale componente pagana del tipo per farne invece un’emanazione e un attributo del dio cristiano, grazia suprema e legittimazione del potere dell’imperatore, tale per volontà divina.

Questa composizione, pur rimanendo familiare e comprensibile a coloro che fruivano della moneta, veicolava una concezione religiosa nuova, dove la vittoria è intimamente legata al Redentore. Furono soprattutto le donne imperiali a utilizzare questa figura, mentre gli imperatori continuano ad adottare quella tradizionale, svestita e celebrante i vota. Le tipologie prescelte dalle imperatrici fecero quindi da tramite a quei mutamenti di pensiero che necessitavano, agli occhi del cittadino romano, di una profonda assimilazione interiore. Ancora alla fine del V secolo, infatti, il console Basilio (480 d.C.) si fa rappresentare su di un dittico entro un’imago clipeata retta da una Vittoria frontale a seno scoperto trasportata da un’aquila.

La comparsa dell’angelo di Dio Con Giustino I (518-527 d.C.), mentre continua il tipo della Vittoria seduta di profilo inscrivente i vota su uno scudo e con il cristogramma a lato, si assiste alla comparsa sui solidi di una nuova figurazione che, partendo dallo schema iconografico della Vittoria e mutando la visione di profilo a favore di quella frontale, può definirsi propriamente un angelo. Sul dritto persiste il ritratto dell’imperatore in abito militare, sul rovescio appare un essere frontale con tunica e pallium, che tiene con la mano destra una lunga Croce desinente in

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UN VENERATO STRUMENTO DI MARTIRIO STORIE DI MONETE LA LEGGENDA DELLA VERA CROCE Fra le innumerevoli tradizioni legate alla Croce di Gesú spicca quella tramandata nella Legenda Aurea, redatta intorno al 1270 da Iacopo da Varazze (1228/1230-1298): narra le antichissime vicende che, tra leggenda e realtà storica, portarono alla Inventio Crucis, al ritrovamento della Vera Croce da parte di sant’Elena. Adamo, in punto di morte, ottenne dall’arcangelo Michele un ramoscello dell’Albero della Vita da collocarsi in bocca al momento della sepoltura, riscattandosi in tal modo dalla colpa originaria: nacque allora sulla tomba un albero, considerato sacro. Il re Salomone, volendo costruire il tempio di Gerusalemme, ordinò che si utilizzasse l’albero cresciuto sul sepolcro di Adamo: ma, miracolosamente, questo legno, troppo lungo o troppo corto a seconda dell’uso che se ne voleva fare, non trovava adeguata collocazione in alcuna parte dell’edificio, cosicché alla fine fu impiegato come passerella sull’acqua. Recatasi a visitare il re, la regina di Saba attraversò il ponticello ed ebbe una visione: da quel legno sarebbe stata ricavata la Croce destinata alla passione di Cristo. Salomone lo fece nascondere sottoterra, dove rimase per secoli fino a quando riaffiorò miracolosamente durante il processo di Gesú; e allora, come previsto, fu usato per fabbricare il terribile strumento di martirio usato solitamente dai Romani per le condanne a morte. Secoli dopo Elena, madre di Costantino (e futura santa), si recò a Gerusalemme alla ricerca della Croce apparsa in sogno al figlio Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio, che ritrovò fortunosamente: una volta identificato con certezza, il sacro legno venne diviso in tre parti, una venerata a Gerusalemme, una inviata a Costantinopoli e l’ultima conservata a Roma. Piú tardi, nel 614 d.C., Cosroe, re di Persia, durante il conflitto contro l’impero bizantino, si appropriò della reliquia conservata a Gerusalemme, che fu presa da uomini delle truppe guidate dal generale

cristogramma e globo crucigero nella sinistra; la leggenda celebra la Victoria Augustorum. La Vittoria, oltre al carattere di divinità pagana, deve ora rinunziare anche al genere femminile: sulle monete il seno è scomparso e l’abito è tipicamente maschile. Presumibilmente si intendeva cosí rappresentare l’arcangelo Michele – angelo militare per eccellenza, il cui culto si diffuse assai per tempo nel mondo cristiano –, foriero di trionfo, fatto questo che giustificava anche il persistere della leggenda tradizionale riferita alla vittoria dell’imperatore. Lo stretto rapporto

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Shahrbaraz e portata a Ctesifonte come trofeo di guerra. Infine, nel 628, l’imperatore Eraclio sconfisse definitivamente i Persiani e riconsegnò, in pellegrinaggio, la Vera Croce a Gerusalemme.


concettuale che viene a crearsi tra la Vittoria e l’angelo-San Michele è confermata anche dalla elezione di quest’ultimo a protettore dell’aula imperiale e dell’esercito, con una connessione evidente alle prerogative assegnate in precedenza alla Vittoria. L’ultima apparizione della Vittoria in quanto dea, e definita dalla leggenda come Virtus, è su una moneta d’argento di Eraclio (610641 d.C.), nella quale avanza con corona e palma; essa sarà quindi sostituita dal tipo della Croce potenziata, ovvero una croce con una barra posta alla fine di ogni braccio.

La scalinata al Calvario? A destra Giustino I, solido d’oro della zecca di Costantinopoli, 518-522 circa. Sul recto, il profilo dell’imperatore, sul rovescio la Vittoria, ormai divenuta un angelo, con tunica e pallium, che tiene con una mano una lunga Croce terminante in cristogramma e una palma nell’altra. Nella pagina accanto Elena e l’imperatore Eraclio con la Croce alle porte di Gerusalemme, particolare di una pala d’altare con la Storia della Santa Croce, realizzata da Miguel Jiménez e Martín Bernat per la chiesa parrocchiale di Blesa (Aragona, Spagna). 1485-87. Saragozza, Museo Provincial de Bellas Artes.

Da segno del supplicium servile la Croce si trasforma in simbolo del trionfo della nuova religione, attraverso una radicale mutazione culturale e dottrinale introdotta, nella monetazione bizantina, da Tiberio II Costantino (578-582 d.C.), che appone sul rovescio dei suoi solidi la Croce potenziata su di un’alta scalea. È possibile che l’imperatore intendesse raffigurare l’esemplare in oro fatto erigere da Teodosio II nel 420 d.C. sul monte Calvario, allora raggiungibile attraverso una scalinata; alcuni studi invece ritengono debba trattarsi della riproduzione della maestosa croce eretta da Costantino a Costantinopoli. Lo stesso monumento avrebbe poi ispirato l’attributo tenuto dalla Vittoria sulle monete emesse, sempre da Teodosio II, nel 421 d.C.: qui la grande Croce appare riccamente decorata e impreziosita da gemme e diviene protagonista, al pari della Vittoria, del rovescio, tanto che lo storico e santo Prospero di Aquitania (390-445 d.C. circa), nella sua Cronaca, ne parla come di una auream monetam cum signo crucis, nella quale il ruolo significante dell’immagine viene attribuito senz’altro alla Croce, esaltata dalla presenza della Vittoria, concreta e simbolica, del cristianesimo. Un paio di secoli piú tardi una serie di solidi d’oro emessi da Eraclio (613-625 d.C.) si ispirò

alla «Vera Croce» di Gesú riconsegnata a Gerusalemme nel 628 dall’imperatore dopo che ebbe sconfitto a Ninive i Persiani che l’avevano precedentemente trafugata (vedi box alla pagina precedente). Attraverso questi passaggi la cristianizzazione della iconografia monetale romana è ormai compiuta ed è ora il simbolo del martirio di Gesú a costituire il tipo principale del rovescio; soltanto la leggenda Victoria Augustorum, connessa al potere imperiale, perdurerà sino alla fine del VII secolo.

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STORIE DI MONETE

DA DOVE VENGONO TUTTI QUESTI SOLDI? LA GRANDE QUANTITÀ DI MONETE ROMANE PERVENUTECI RAPPRESENTA SOLTANTO UN RESIDUO DELL’EFFETTIVA MOLE DI EMISSIONI ANTICHE. EPPURE PERMETTE DI AVANZARE IPOTESI VEROSIMILI SU COME E PERCHÉ ESSE USCIRONO DALLA CIRCOLAZIONE DELLA LORO EPOCA PER DIVENIRE PARTE DI UN CONTESTO ARCHEOLOGICO

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e centinaia di migliaia di monete romane giunte sino ai giorni nostri e ritrovate sia negli scavi, sia in maniera fortuita costituiscono soltanto una minima parte della reale quantità di denaro che circolava nell’antichità; le stesse scoperte sono a loro volta condizionate dalla casualità delle sopravvivenze e dei reperimenti. Tuttavia, tale materiale costituisce, per alcuni periodi storici, l’unica fonte che permette di ricostruire, seppur in maniera parziale, alcuni aspetti determinanti dei meccanismi che regolavano l’economia antica, sia nell’ ambito urbano, sia in quello regionale. Le fonti letterarie, infatti, sono relativamente scarne sull’argomento, e il moderno dibattito sull’utilizzo effettivo della moneta come mezzo di scambio corrente da parte delle popolazioni

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In alto monete romane rinvenute nel Tevere. A sinistra salvadanaio in terracotta di età imperiale. Ptuj (Slovenia), Museo Archeologico.

dell’impero non è ancora giunto a conclusioni univoche e definitive. È evidente, quindi, come la conoscenza dei luoghi di rinvenimento dei materiali numismatici possa contribuire significativamente alla soluzione del problema, contestualizzando le scoperte nell’ambito dei luoghi d’origine e delle relazioni sociali che vi si svolgevano. L’ingente numero di monete perdute (e da noi trovate), per esempio in un mercato, lungo una strada o negli edifici soggetti a un grande afflusso di pubblico – come terme, teatri, circhi – e anche nei condotti fognari, attesta un uso del denaro assai diffuso in tutte le classi sociali. Tale impiego poteva poi anche convivere con forme residue di baratto tra merci di valore equivalente. Molto spesso i ritrovamenti consistono in monete correnti di piccolo taglio e valore limitato, corrispondenti alla quantità di


contante portata con sé quotidianamente dalle persone e formata generalmente da pezzi in bronzo: quadranti, assi, dupondi e sesterzi nella piena età imperiale, frazioni bronzee in età tardo-antica. La preponderante presenza di nominali di scarso valore è chiaro indice di un contesto sociale che fa uso consolidato e generale dello scambio monetario anche negli acquisti quotidiani. È evidente poi come le frazioni bronzee, una volta perse, venissero ricercate con minore attenzione rispetto ai pezzi di valore piú rilevante: azzardando un paragone con l’età contemporanea, è piú facile ritrovare a terra centesimi, piuttosto che esemplari da uno o due euro. Tali materiali consentono di rilevare, approssimativamente, quali erano le monete piú usate in determinati luoghi e ambiti cronologici; il confronto tra piú esemplari accomunati da simili provenienze contribuisce alla ricostruzione dei contesti di microeconomia quotidiana, scarsamente testimoniati dalle fonti letterarie. La quantità e la qualità delle monete provenienti invece da una casa privata o una villa può differenziarsi anche sensibilmente dall’esempio precedente; in questo caso è possibile trovare singole monete andate perdute, ripostigli che spesso fungevano da cassa privata, o ancora veri e propri salvadanai in terracotta e tesori nascosti in momenti critici, quali invasioni o eventi bellici.

Osti e banchieri a Pompei La conferma del generale impiego del denaro nelle compravendite effettuate dal popolo ci giunge anche dai graffiti iscritti sulle pareti degli edifici di Pompei. L’iscrizione su un muro ricorda la taverna di una locandiera di nome Hedone, che cosí pubblicizzava i suoi vini, adatti a ogni tipo di palato e di tasca: «Con un asse qui puoi bere; se ne paghi due, berrai del vino migliore; se poi ne pagherai quattro avrai del Falerno» (CIL, IV, 1679). Un’altra testimonianza proveniente da una casa privata attesta un momento di economia domestica: su una parete furono annotati nove giorni di conti quotidiani relativi al sostentamento di una

Affresco da Pompei, raffigurante la bottega di un fornaio. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La città vesuviana è una miniera di informazioni anche per ciò che riguarda la circolazione delle monete e il commercio della popolazione comune; anche le iscrizioni sui muri della città forniscono elementi importanti sui prezzi e sui conti familiari.

famiglia con alcuni schiavi, spesa corrispondente a poco meno di sei sesterzi giornalieri (CIL, IV, 5380). Ancora a Pompei sono state scoperte 154 tavolette cerate archiviate nella casa dell’argentarius, una sorta di moderno banchiere, Lucio Cecilio Giocondo, che registrano diligentemente pagamenti di media entità che il banchiere anticipò ai compratori in alcune vendite all’asta di terre, bestiame e schiavi. Accanto a queste ricevute vi erano anche quietanze di affitto ed esazioni di tasse dovute all’amministrazione della città. Come è facile dedurre, l’insieme di queste certificazioni rispecchia ancora una volta la complessità e la diffusione delle transazioni commerciali nella società romana. Ma quali sono le modalità di trasmissione attraverso cui il denaro è uscito dalla circolazione antica per pervenire sino a noi? I fattori antichi che portarono le monete a

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STORIE DI MONETE

divenire parte di un contesto stratigrafico si suddividono in deposizioni intenzionali, effettuate con la volontà di non recuperarle piú e generalmente connesse a eventi di tipo votivo e funerario; in occultamenti che si voleva temporanei, dettati da motivi di sicurezza, ma non piú ripresi per sopraggiunte circostanze negative; nelle perdite accidentali.

Tipologia dei ritrovamenti I ritrovamenti moderni possono poi ricondursi essenzialmente a due evenienze: le scoperte casuali e quelle effettuate nel corso di regolari scavi archeologici. Nella prima categoria si collocano i materiali provenienti da ricognizioni mirate nel territorio e da recuperi fortuiti, significativi se registrati da chi li effettua e messi a disposizione della comunità scientifica; a questi rinvenimenti si affiancano quelli degli scavatori clandestini, destinati al lucro e quindi estrapolati dagli originari ambiti di provenienza. Quest’ultimo caso, frequentissimo e particolarmente grave per la ricerca scientifica, annulla i dati relativi alla dislocazione dei pezzi, cancellando irrimediabilmente tutte le informazioni utili alla ricostruzione della circolazione monetaria antica e alla datazione di un contesto archeologico. Le monete di cui si ignora l’origine e che entrano a far parte di una collezione pubblica o di una raccolta privata mantengono solo il pur sempre rilevante valore intrinseco di documento storico, utilizzabile per redigere pubblicazioni, come per esempio i cataloghi numismatici dei musei, che costituiscono uno strumento di lavoro imprescindibile per le schedature e per stabilire datazioni e confronti tipologici.

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Le scoperte effettuate nel corso di scavi regolari permettono invece di risalire, mediante le stratigrafie, al rapporto tra il bene moneta, gli altri oggetti associati e il luogo in cui questi erano originariamente situati. Oltre al valore intrinseco dell’esemplare numismatico è cosí anche possibile risalire, attraverso confronti tra contesti simili per età e collocazione geografica, alle dinamiche sociali riguardanti, per esempio, le modalità di perdita o di tesaurizzazione da parte degli antichi, l’uso del denaro in occasioni sacre e funerarie, cosí come in pratiche scaramantiche e superstiziose, oppure la scelta di determinati nominali come gioielli – per quelli piú preziosi – o semplici portafortuna.

L’importanza del metodo I dati racchiusi dalla moneta e nel suo contesto di rinvenimento offrono quindi una grande quantità e qualità di informazioni utili a delineare la vita economica romana in un determinato momento storico. Dalla qualità e dalle metodologie utilizzate in uno scavo dipende la possibilità di ottenere maggiori o minori notizie attendibili: uno scavo nel quale viene setacciato tutto il terreno restituirà, con ogni probabilità, un maggior numero di monete e altri piccoli oggetti rispetto a un intervento effettuato prevalentemente con mezzi meccanici. È importante poi che ogni pezzo sia accompagnato da un cartellino o da una scheda che riporti i dati stratigrafici, e, nel

In alto, a sinistra rilievo funerario da Neumagen (Germania) con scena di pagamento tra uomini in costume locale. I-III sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

In alto affresco pompeiano con gruzzoli di denaro e strumenti scrittorii. I sec. d.C. In basso lucerna contenente alcune dracme ritrovata in un contesto funerario ateniese. 325-300 a.C. Nella pagina accanto, in basso erma di L. Cecilio Giocondo, un argentarius di Pompei, trovata nella casa omonima. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

caso di deposizioni funerarie, anche l’ubicazione esatta della moneta all’interno della tomba. Insieme a scheda, foto e disegno sarebbe opportuno registrare anche il nome di chi ha effettuato il ritrovamento, per verificare il livello di approfondimento piú o meno alto delle osservazioni riportate sul giornale di scavo. In generale, la presenza costante di un archeologo professionista evita poi quei danni ai quali vanno sovente soggette le monete, come la sottrazione del pezzo stesso (di piccole dimensioni e di facile nascondimento!) e la pericolosa quanto diffusa abitudine, dettata dalla curiosità, di grattarne con strumenti inidonei la superficie per vederne il disegno, pregiudicandone cosí la conservazione e la possibilità di lettura ottimale seguente alle operazioni di restauro.

strato antico, infatti, la documentazione numismatica costituisce esclusivamente un terminus ante quem non, cioè fornisce un termine prima del quale il contesto di cui essa fa parte non può essersi formato. Le monete trovate nel corso di scavi regolari e documentati posseggono quindi una «doppia» capacità datante: quella propria all’oggetto, definita dal periodo in cui è stato emesso ed evincibile da tipologia, peso e nominale, e quella relativa al momento della perdita o deposizione, che può essere anche molto piú recente, vista la capacità del denaro romano di circolare anche per secoli e la possibilità che potesse essere perduto o deposto anche molto tempo dopo la sua immissione sul mercato.

Capacità datante Il rapporto che si crea tra la datazione intrinseca della moneta e il momento in cui è entrata a far parte di un ambito archeologico è fondamentale per stabilire la cronologia di un determinato scavo, vista la lunga possibilità di circolazione del denaro. Nell’ambito di uno

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STORIE DI MONETE

IL CONTO DI DIONISO LE RAFFIGURAZIONI CONNESSE AL CULTO DIONISIACO COMPAIONO NELLA MONETAZIONE GRECA E IN QUELLA ROMANA. GRAFFITI E TESTI LETTERARI LATINI ATTESTANO INVECE IL COSTO DI VARI TIPI DI VINO, LA CUI QUALITÀ DIPENDEVA DALLE POSSIBILITÀ ECONOMICHE DI CHI LO BEVEVA

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l vino, elemento fondamentale del culto dionisiaco, trova ampia attestazione sulla monetazione greca: Dioniso, i satiri e i muli del suo corteggio, l’uva e i vasi che contenevano la sacra bevanda compaiono piú volte sulle monete emesse nella Grecia continentale, nelle isole e nelle fondazioni magno-greche. Già nel VI secolo a.C. gli stateri d’argento di alcune città elleniche riportarono raffinate composizioni dominate dal dio dell’ebbrezza affiancato da rigogliosi grappoli e pampini, come sulla bella moneta con un ignoto toponimo magnogreco di cui si conoscono soltanto le iniziali, Ser..., datata al 530-490 a.C. Nello stesso lasso di tempo, l’isola di Tenos, nelle Cicladi, usò come tipo per i suoi trioboli d’argento un grappolo d’uva carico di acini a tutto campo, mentre Nasso, che vide nascere l’amore tra il dio del vino e Arianna, non poteva non scegliere il kantharos, la coppa a due manici destinata alle libagioni, per contrassegnare le proprie monete. Un ricercato vigore impronta invece lo splendido statere d’oro battuto alla metà del IV secolo a.C. dalla colonia milesia di Panticapaeum, nel Ponto Eusino, dominato sul dritto dal volto ferino di Pan, eponimo della città, coronato da pampini d’uva.

L’ebbrezza, un viatico per l’essenza divina L’iconografia monetale romana dedicò invece minore spazio alla bevanda simbolo del simposio, che pure svolgeva una

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parte significativa nel rituale religioso come nei banchetti mondani. Dioniso, divenuto nella forma latina Bacco-Liber Pater, compare con una certa regolarità sulle emissioni repubblicane e solo sporadicamente su quelle imperiali. Il carattere orgiastico che contraddistingueva i cerimoniali dionisiaci, dove il rapimento dell’ebbrezza sfrenata costituiva un mezzo per avvicinarsi all’essenza divina, mal si accordava con il carattere austero della religiosità romana. La supposta portata eversiva del culto dionisiaco spinse l’autorità statale dapprima a vietarlo (186 a.C.) e in seguito a vincolare e porre sotto stretto controllo le celebrazioni, riorganizzate secondo modalità giudicate accettabili dal potere centrale.

Ai piedi dell’Aventino Alcune gentes repubblicane, comunque, riportarono sulla propria monetazione temi attinenti alla sfera dionisiaca, a riprova della

Tetradramma in argento battuto nella colonia greca di Naxos, in Sicilia. 460 a.C. Già Collezione Bunker Hunt. Al dritto, testa di Dioniso, al rovescio, sileno nudo seduto, che porta un kantharos alle labbra.


Tetradramma in argento battuto a Mende, in Macedonia, prima della conquista della città da parte di Atene, nel 423 a.C. Già Collezione Bunker Hunt. Al dritto, il dio Dioniso, adagiato su un mulo, regge nella mano destra un kantharos; al rovescio, riquadro incuso con leggenda MENDAION, e, all’interno, tralci di vite con foglie e grappoli.

DIONISO, IL MULO E IL KANTHAROS diffusione del culto anche tra gli strati eminenti della società romana. Si ricordino, tra le altre, le emissioni di L. Cassio Longino che, nel 78 a.C., batté denari con la testa di Liber e della compagna Libera su dritto e rovescio. Il tipo allude con buona probabilità al vetusto tempio innalzato nel 493 a.C. ai piedi dell’Aventino dall’avo Spurio Cassio, dedicato alla traide Cerere-Liber-Libera; esso divenne ben presto un centro di culto proprio della plebe nonché sede dell’archivio degli edili plebei. Anche la gens Vibia fece largo uso di iconografie dionisiache, come C. Vibio Pansa il quale, in assonanza al suo nome, raffigurò su dritto e rovescio di alcuni denari del 90-87 a.C. il volto di Pan e la maschera di un satiro, caratterizzati da una scarna linearità. C. Vibio Varo, invece, usò il campo dei suoi denari per celebrare sinteticamente gli oggetti sacri del culto: al dritto la giovane testa di Liber e, al rovescio, una pantera con le zampe su un altare inghirlandato, su cui poggiano il tirso (il sacro bastone terminante con un viluppo di foglie di edera o di vite a forma di pigna) e una maschera di Pan. In età imperiale il tema dionisiaco verrà solo sporadicamente trattato dagli imperatori e principalmente sui medaglioni. Questi pezzi, donati a personaggi dell’entourage del principe,

erano oggetto di una circolazione molto limitata ed elitaria, ed era quindi possibile raffigurarvi immagini che, per motivi di opportunità, non si confacevano all’enorme diffusione propria della monetazione regolare. Inoltre la loro grandezza lasciava ampio spazio alla realizzazione di scene anche piuttosto complesse, come quella raffigurante Bacco e Arianna con corteggio dionisiaco proposta su un medaglione di Antonino Pio.

Venduto a peso d’oro Se le tipologie legate al vino sono piuttosto limitate sulle monete romane, abbiamo invece piú ampie notizie riguardo al costo della bevanda, capillarmente prodotta e smerciata in tutto il bacino mediterraneo dominato dall’Urbe. Il suo commercio all’ingrosso permetteva di regola ampi guadagni, come ricorda Petronio (morto nel 66 d.C.) nel Satyricon (LXXVI), nel passo in cui Trimalcione racconta delle sue raggiunte ricchezze: «Decisi di dedicarmi al commercio. Per farla breve, feci costruire cinque navi, le riempii di vino, che allora si pagava a peso d’oro, e le mandai a Roma (...) Tutte le navi naufragarono.

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UMORISMO DA OSTERIA STORIE DI MONETE L’ISCRIZIONE DI LUCIO CALIDIO EROTICO E FANNIA VOLUTTATE Tra i «listini prezzi» di taverne e negozi giunti fino a noi, spicca, per la sua originalità, l’iscrizione rinvenuta presso Isernia e della quale si ha notizia sin dal 1600. Dopo numerose peripezie, il reperto è giunto a Parigi, al Museo del Louvre, che lo acquistò nel 1901 (CIL IX, 02689). Riprodotto su un cippo in pietra calcarea alto 95 cm, il testo, redatto in forma di dialogo spiritoso, accompagna, a mo’ di fumetto, l’immagine sottostante, composta da un mulo, un viandante e da un personaggio con lunga tunica, interpretato dagli studiosi sia come oste che come locandiera. L’iscrizione inizia come una consueta dedica di monumento funerario destinato a una coppia, per poi tramutarsi in un colloquio a battuta finale: L(ucius) Calidius Eroticus / sibi et Fanniae Voluptati v(ivus) f(ecit) / copo computemus habes vini | ? I (sextarium) pani(s) / a(sse) I pulmentar(ium) a(ssibus) II convenit puell(a) / a(ssibus) VIII et hoc convenit faenum / mulo a(ssibus) II iste mulus me ad factum / dabit («Lucio Calidio Erotico fece da vivo per sé e per Fannia Voluttate. Il viandante: “Facciamo il conto”. L’albergatore: “Hai un sestario (circa mezzo litro) di vino, un asse per il pane, due assi di companatico”. Il viandante: “Sta bene”. L’albergatore: “Otto assi per la fanciulla”. Il viandante: “E anche questo sta bene”. L’albergatore: “Due assi di fieno per il mulo”. Il viandante: “Questo mulo mi porterà alla rovina!”»). Il rilievo, del tutto originale nell’ambito del repertorio epigrafico romano, è stato orientativamente datato tra gli inizi dell’età augustea e il II secolo d.C. e ha dato luogo, nel corso dei secoli, a numerose e differenti interpretazioni, che ne hanno visto un’epigrafe funeraria forse di una coppia che

La stele di Isernia. I-II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Sul cippo compare lo scambio di battute tra Lucio Calidio Erotico e un albergatore. Il dialogo è stato interpretato come epigrafe funeraria o come parodia di una scena teatrale.

In un solo giorno Nettuno si era divorato 30 milioni di sesterzi». Ferma restando l’esagerazione dovuta alla natura satirica del testo, si pensi che Giulio Cesare aveva a suo tempo imposto alla Gallia intera un tributo annuo di 40 milioni di sesterzi! Le testimonianze dei prezzi al minuto esercitati nell’antica Roma sono alquanto limitate. Esse derivano soprattutto dai ritrovamenti di graffiti venuti alla luce a Pompei su tabernae, case, luoghi pubblici,

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gestiva un’osteria, una parodia di una scena teatrale, un gioco sui due nomi dei personaggi – entrambi connotati da una componente sessuale – l’insegna di una taverna. Comunque sia, il vivace dialogo riportato non fa che confermare i prezzi delle merci – compresa la compagnia della fanciulla – in vigore nella prima età imperiale. Il vino, di cui non è riportato il costo, viene comunque servito nella misura standard pari a mezzo litro circa. Sembra difficile riuscire a inserire questo testo in una distinta categoria epigrafica, ma sicuramente fu redatto per un committente dotato di senso dell’umorismo e che uno degli antichi commentatori del reperto, il padre Raffaele Garrucci (1812-1885), cosí, nel 1848, volle lapidariamente definire: «Calidio, largo e condiscendente di pagana pravità, ma avaro solo di pascere il suo giumento».


ai quali si affiancano alcuni brani letterari ed epigrafici di varia natura, tra cui il famoso editto promulgato da Diocleziano nel 301 d.C., con il quale vengono definiti i limiti massimi di spesa per merci e vettovaglie di maggior consumo. Fondamentali per stabilire il costo dei generi alimentari sono le iscrizioni ritrovate a Pompei, che offrono uno spaccato reale dei prezzi in vigore all’epoca della sua distruzione, nel 79 d.C. Si tratta di conti giornalieri redatti su muri e riguardano sia compere occasionali, sia annunci vari, sia liste della spesa di famiglia effettuata nel corso di uno o piú giorni.

A sinistra restituzione grafica della scena raffigurante Bacco e Arianna con corteggio dionisiaco proposta su un medaglione bronzeo di Antonino Pio. La realizzazione di immagini cosí complesse era resa possibile dalle dimensioni di simili supporti, maggiori di quelle delle normali monete. Al centro un grappolo d’uva al dritto di un triobolo d’argento dell’isola di Tenos (Cicladi). 510-490 a.C.

operavano nelle vie delle grandi città europee dell’evo medio e moderno. Questa sorta di richiami pubblicitari gridati nelle città erano talmente particolari e coloriti da dare vita, sin dal XV secolo, perfino a un genere letterario, composto proprio dalla raccolta delle «grida di strada», di cui è giunta testimonianza sino ai nostri giorni. Per esempio, a Parigi il Qualità diverse venditore di vino cosí allettava gli avventori: per schiavi e padroni «Vino bianco, vino chiaretto, vino vermiglio a L’acquisto del vino ricorre sempre, insieme al sei denari. Si trova all’insegna prezzo pagato e, a volte, alla dell’Acquario, in via dell’Arpa!», quantità; un graffito distingue LA CITTÀ DEL DIO DEI BOSCHI accompagnando quanto detto da anche il costo del vino destinato Il dritto di uno statere d’oro battuto alla un sorso di prova. allo schiavo e quello per il padrone, metà del IV sec. a.C. dalla colonia Come ricordato in precedenza, certo di migliore qualità (CIL IV, milesia di Panticapaeum, nel Ponto nel 301 d.C. Diocleziano tentò di 5380). Famosa è l’iscrizione Eusino, dominato dal volto ferino di Pan, eponimo della città, coronato da porre freno al costante aumento ritrovata sull’atrio della Casa pampini d’uva. Nell’antica religione dei prezzi emettendo l’Edictum dell’Orso (CIL IV, 1679), dove una greca, Pan, dio dei boschi – e, come de pretiis rerum venalium, una mano ignota, spinta da intenti tale, anche dei pastori e del bestiame –, sorta di calmiere che stabiliva il pubblicitari, vergò: Calos Hedone. era figlio di Zeus, o di Crono, o di un costo massimo di una merce o di Valeat qui legerit. Edonii dicit: pastore; la tradizione piú nota ne faceva una prestazione professionale. Il assibus hic bibitur; dipundium si un figlio del dio Ermete. prezzo ammontava a non oltre 30 diidiris miliora bibiis; quartus si denari al sestario (corrispondente diidiris vina Falirna bibiis («Dalla a poco piú di mezzo litro) per i vini bella Edone. Salute a chi legge! prelibati come il Falerno, il Edone dice: con un asse qui puoi Sorrentino e il Sabino, mentre bere; se ne paghi due, berrai del mezzo litro di vino comune non vino migliore; se poi ne pagherai poteva essere venduto a piú di quattro avrai del Falerno»). 8 denari. Come termine di Dunque, dalla bella Edone, che paragone, si pensi che eguale saluta urbanamente i lettori del misura di birra d’orzo costava suo annuncio, si potevano bere due denari, un bracciante vini adatti a ogni tipo di palato e agricolo guadagnava all’epoca di tasca. Questo annuncio ricorda tra i 25 e i 50 denari al giorno, da vicino, seppure attraverso un mentre un operaio specializzato salto cronologico millenario, quelli ne riceveva 60. tipici dei venditori ambulanti che

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STORIE DI MONETE

RIPOSTIGLI E TESORI GLI STUDIOSI UTILIZZANO DI FREQUENTE QUESTI DUE TERMINI, I QUALI, TALVOLTA CONFUSI TRA LORO, INDICANO IN EFFETTI DUE REALTÀ DIFFERENTI. CARATTERIZZATE ENTRAMBE, PERÒ, DALLA VOLONTÀ DI PRESERVARE I PROPRI BENI O DI OFFRIRLI IN VOTO A UNA DIVINITÀ

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l luogo in cui ignoti proprietari decidevano di celare somme di denaro – qualsiasi fosse il loro valore – solitamente con l’intenzione di recuperarle, presenta numerose varianti: in un edificio abitativo, privato o pubblico, sotto una trave o un mattone in muri e pavimenti, interrati presso luoghi facilmente identificabili, secondo la contingenza del momento. Le testimonianze archeologiche provano che, molto spesso, questi gruzzoli non furono piú recuperati. L’occultamento non dipendeva sempre da eventi traumatici, come incursioni, guerre, periodi di instabilità politico-sociali, ma anche da motivazioni personali, che dovevano rispondere a opportunità di sicurezza e segretezza percepite anche in ambienti familiari e durante periodi di pace. Numerosi sono i riferimenti letterari che ricordano questa usanza, come la commedia

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«della pentola» (Aulularia) di Plauto, nella quale alcune monete preziose, bene di famiglia, vengono stipate in un vaso dapprima sotterrato nel cortile di casa, poi presso un bosco sacro, per tornare infine in circolazione a favore dei giovani protagonisti della storia.

L’ammonimento di Matteo

Una incisione della fine dell’Ottocento con famiglie di «tombaroli» in azione a Corinto (da The Illustrated London News, 1887).

La pratica di nascondere i propri averi doveva essere diffusissima ed è testimoniata dalle migliaia di ritrovamenti moderni; l’usanza trova un’alta conferma anche in un passo del Vangelo di Matteo (6,19) riferito all’avidità dell’uomo: «Non accumulatevi tesori qui sulla terra, dove la tignola e il tarlo distruggono e ladri sfondano e rubano». Il rinvenimento di preziosi sepolti doveva essere ingente già nell’antichità, se i giureconsulti del III secolo d.C. miravano a definirne il concetto e regolarne il possesso: il giurista Paolo definisce un tesoro come «un antico deposito di valori monetali il cui ricordo si è perso, cosicché esso non ha piú proprietario». In seguito la legislazione romano-bizantina (Codex Theodosianus, X, 18, 1-3 e Codex Iustinianus, X, 15, 1) considerò in piú occasioni questo tipo di scoperte. Con Costantino (315 d.C.), la metà di ogni bene prezioso trovato doveva essere consegnato al fisco; Graziano e Teodosio (380 d.C.) sancirono quindi che il padrone del fondo nel quale era stato scavato un tesoro antico riceveva un quarto del suo valore. Piú tardi, alla fine del V secolo d.C., il proprietario otteneva di nuovo la metà di quanto ritornato alla luce. Anche oggi ciò che proviene da sottoterra è, almeno virtualmente, di proprietà dello Stato, che ne acquisisce parte del valore.


Con i termini convenzionali di «ripostiglio» o «gruzzolo» si intende il ritrovamento di monete poste a distanza ravvicinata, a volte entro contenitori come cassette lignee, vasi di metallo e terracotta, oppure in materiale deperibile come borsellini di pelle e di stoffa. I ripostigli monetali preziosi e/o con oggetti di valore sono denominati «tesori» o «tesoretti», a seconda del loro valore. Ripostigli e tesori erano celati intenzionalmente in luoghi considerati sicuri; eventi non sempre definibili, ma a volte deducibili analizzando il materiale trovato, portarono al loro abbandono, con buona probabilità dovuto alla morte o a qualsiasi altro motivo che ne impedí il recupero da parte del proprietario.

Gli argenti di Kaiseraugst... L’interramento poteva essere stato causato da fattori imprevisti nel corso dei quali era radunato e occultato quanto di piú prezioso si aveva immediatamente a disposizione. Si veda, come esempio eclatante, il ricchissimo tesoro ritrovato nel 1961 a Kaiseraugst, in Svizzera, composto da un magnifico e sofisticato corredo da tavola, una statuina di Venere, lingotti e 186 monete, tutto in argento. Lo studio del materiale numismatico è stato fondamentale per definire la data dell’interro, avvenuto tra il 350 e il 351 d.C., nell’ambito dei cruenti combattimenti tra Costante II e l’usurpatore Magnenzio, conclusisi con la morte di quest’ultimo. Una seconda classe di ritrovamenti è costituita dai depositi di risparmio, formati solitamente da monete selezionate e accumulate nel corso del tempo, fatto questo che può implicare anche la presenza di materiale poco consunto.

UN DONO PER DEMETRA? Nel 2003 una missione del Museo dell’Ermitage ha riportato alla luce a Myrmekion, sul Bosforo, un tesoro composto da 99 monete d’elettro di Cizico, databili tra il 500 e il 300 a.C. Erano state deposte in un vasetto di bronzo sepolto sotto il muro di un tempio probabilmente dedicato a Demetra. In alto il momento del ritrovamento e il vaso e le monete dopo il restauro.

La definizione cronologica di quanto trovato si basa, qualora non vi siano altri oggetti datanti, sulla moneta piú recente presente, che fornisce il terminus ante quem non, cioè la data prima della quale l’insieme non può essere stato interrato. I nominali che compongono un ripostiglio rispecchiano, di regola, la reale circolazione monetaria dell’epoca in cui esso venne celato; da ciò si può infatti ricavare il cosiddetto taglio del circolante, cioè una parte statisticamente affidabile delle monete in circolazione in un determinato luogo, in un preciso momento storico. Un tesoretto è in genere da intendersi come un deposito di oggetti preziosi e monete scelte, composto affrettatamente nell’incombenza di eventi critici oppure formatosi nel corso del tempo per accumuli successivi. In quest’ultimo caso la sua composizione può anche non rispondere alla circolazione monetaria in atto al momento della deposizione.

...e l’oro dei soldati Un altro genere di ritrovamenti è quello relativo a casse pubbliche, solitamente militari, consistenti a volte in vere e proprie fortune: si pensi al mitico tesoro trovato nel

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STORIE DI MONETE

1714 a Brescello, in Emilia, composto da almeno 80 000 aurei datati al 37-31 a.C. – corrispondenti a circa 6 quintali d’oro – appartenuti a un contingente militare in armi durante gli scontri tra Marco Antonio e Ottaviano. Purtroppo, solo pochissime monete si salvarono, finendo in collezione, mentre la maggior parte venne fusa per farne talleri!

Monete per Artemide Non mancano poi deposizioni di carattere sacro, come le monete inserite a scopo beneaugurante nelle fondamenta di edifici, sotto l’albero maestro di una nave o donate in un tempio come offerta alla divinità. Esempi di quest’ultimo tipo, spesso di ingente valore, provengono da tutto il mondo antico che utilizzava la circolazione monetaria: nel XIX secolo fu scoperto nel basamento del tempio di Artemide a Efeso, in Asia Minore, un deposito votivo contenente le piú antiche monete conosciute, foggiate in elettro (lega naturale di oro e argento), dalla forma globulare e recanti punzoni, striature e tipi vari. Questi esemplari furono emessi probabilmente intorno al 640 a.C., anche se la datazione non trova concordi tutti gli studiosi. Materiale numismatico di grande importanza è venuto dagli scavi condotti a Morgantina, in Sicilia, città che nel 211 a.C., durante le guerre tra Roma e Cartagine, aveva subíto una dura occupazione romana. Intorno alla metà del Novecento furono recuperate monete sparse in contesti di distruzione violenta e di ripostigli, sia in una casa privata che nel tempio dedicato a Demetra e Kore. Tra queste vi erano numerosi denari pertinenti alla prima fase di emissione del nominale. Lo studio delle associazioni dei materiali si è rivelato fondamentale per la ricostruzione cronologica legata alla creazione del denario romano, ancora fortemente dibattuta tra gli studiosi e oscillante tra il 269 a.C. e, appunto, il 211 a.C. Le monete potevano essere nascoste anche nelle aree funerarie. Non si tratta in questo

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caso della moneta destinata al defunto e racchiusa quindi nella tomba, bensí della scelta di una necropoli o di un edificio funerario come nascondiglio di denaro. Ancor oggi questi luoghi potrebbero considerarsi particolarmente sicuri, per le valenze religiose e superstiziose che dovrebbero allontanare eventuali curiosi da un’area riservata ai morti. Due fonti letterarie, coeve tra loro, ma ben lontane per argomento, come i Bella civilia (4, 73) dello storico Appiano (160 d.C.) e Le metamorfosi (o L’asino d’oro) del romanziere e filosofo Apuleio (155 d.C.), danno entrambe conferma dell’uso di sepolcri come ricettacolo di beni. Appiano ricorda che, durante un assedio, nel 42 a.C., gli abitanti di Rodi cercarono di riparare i propri averi mettendoli in buche, fontane e

Uno statere in elettro (lega naturale di oro e argento) con punzonature emesso a Samos. 600-550 a.C. circa. Atene, Museo Numismatico.


A destra il momento della scoperta del tesoro di Kaiseraugst, in Svizzera. In basso, sulle due pagine ricostruzione della cassa cosí come doveva presentarsi al momento della sua deposizione (da Il tesoro nascosto. Le argenterie imperiali di Kaiseraugst, Roma 1987).

anche tombe, mentre in Apuleio (4, 18, 21) una banda di ladri racconta dell’insolito covo escogitato per il loro bottino: «Ci dirigemmo verso le porte della città, dove avevamo adocchiato un sepolcreto fuori della strada in un luogo appartato. Scoperchiammo certi sarcofagi vecchi e tarlati dove erano alcuni cadaveri già polvere e cenere: ci sarebbero serviti come ripostiglio della preda futura». Questi anomali nascondigli erano difesi dall’atavico timore che incutevano i cadaveri; effettivamente, quando poi i banditi tornano a recuperare la refurtiva, la trovano intatta, vegliata dai «fideles mortui».

Una decisione repentina Tale uso sembra perdurare a lungo, come prova la scoperta effettuata in località Torrione ad Alife, in provincia di Caserta: si tratta di un’area funeraria in uso dall’età augustea sino forse al IX-X secolo d.C., contraddistinta da un poderoso mausoleo a tumulo. Nell’interro del basamento – causato probabilmente dalle distruzioni saracene e da eventi sismici – in un vasetto di terracotta furono nascoste ben 630 monete d’argento, databili tra il X e il XII secolo, e una crocetta

dello stesso metallo. Lo studio del materiale ha ascritto l’interramento a una circostanza repentina e drammatica, forse legata alla terza spedizione dei crociati in Terra Santa. Uno scavo effettuato a Roma, nella Tenuta Radicicoli (IV Municipio), ha portato alla luce un’olla di terracotta contenente 144 monete di bronzo, perlopiú di età antonina. Chi le celò optò per un piccolo sepolcreto suburbano, servito da vari assi stradali e probabilmente pertinente a un insediamento rustico limitrofo. L’anonimo vaso da cucina, peraltro mai usato, ripieno di monete e chiuso con il suo coperchio posto rovesciato, fu sepolto accanto ad altre olle in tutto simili a quelle destinate alle ceneri dei defunti. L’importo, privo di monete in metallo prezioso, è piuttosto scarso e ammonta a poco piú di un aureo; venne qui occultato da qualcuno che forse aveva dimestichezza con il luogo e che, pur possedendo poco denaro, giudicò opportuno nasconderlo nel sepolcreto, ritenuto a ragione un luogo talmente sicuro da preservarlo per circa 1800 anni.

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STORIE DI MONETE

COME SCAVARE UN RIPOSTIGLIO IL RITROVAMENTO DI UN CONTENITORE RIPIENO DI MONETE IN UN CONTESTO ARCHEOLOGICO RAPPRESENTA SOLTANTO L’INIZIO DI UN PROCESSO DI MICROSCAVO CHE SI SVOLGE NEL LABORATORIO DI RESTAURO

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a moderna ricerca storico-archeologica considera la moneta proveniente da scavi, dalla piccola frazione tardo-antica sino agli esemplari d’oro, alla stregua di ogni altro rinvenimento, quale parte del contesto stratigrafico di provenienza e in rapporto con il materiale di diverse classi a cui è associata. Le particolari caratteristiche del nominale antico – il lungo utilizzo, la possibilità di essere tesaurizzato, di circolare in estesi ambiti geografici e cronologici e addirittura di mutare funzione divenendo un gioiello o un amuleto – richiedono poi specifiche cautele metodologiche e lo studio da parte di un numismatico-archeologo. Non è infatti raro che una moneta trovata in uno scavo venga

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Affresco dai Praedia di Giulia Felice, a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Sul ripiano piú alto sono allineati, da sinistra, un gruzzolo di monete d’argento, una borsa di tela contenente del denaro e un secondo gruzzolo di monete d’oro; sul ripiano piú basso, strumenti per la scrittura.

superficialmente considerata come fondamentale elemento di datazione: ma essa, prescindendo dal suo valore intrinseco, data solamente se stessa, mentre acquista ulteriori valenze nel momento in cui diviene parte di un ambito archeologico e cronologico complesso. Quando viene scoperto un ripostiglio o un tesoretto monetale racchiuso entro un contenitore – sia esso di ceramica, metallo o, nei casi in cui l’ambiente nel quale fu deposto ne abbia consentito la conservazione, di materia deperibile (legno, stoffa, fibra vegetale) –, occorre applicare apposite metodologie, che preservino il piú possibile il ritrovamento. Per esempio, una cassettina di legno o una borsa di pelle fortunatamente mantenutesi,


devono essere prelevate da un restauratore presente sullo scavo, che operi seguendo tecniche finalizzate alla massima salvaguardia del reperto. Anche nel caso in cui si tratti di un vaso ceramico o metallico intero ma fratturato, l’intervento del restauratore sul campo ne garantisce l’integrità, cosí come quella del suo contenuto.

LE MILLE MONETE DI NEFTENBACH

Scavo in laboratorio Una volta giunti in laboratorio, per il contenitore e le monete al suo interno inizia una nuova fase di scavo, o meglio di microscavo. Infatti nella rimozione dei singoli pezzi è bene operare, laddove sia possibile, secondo la stessa metodologia stratigrafica adottata sul campo e non vuotando semplicemente il recipiente. Le informazioni che un tale procedimento può fornire sono potenzialmente molteplici e permettono di rilevare eventuali criteri di suddivisione adottati dagli antichi proprietari quando collocarono il proprio bene nel vaso. Anche oggi, infatti, chi ripone denaro può inserirlo alla rinfusa, per esempio entro un salvadanaio, oppure disporlo in un qualsiasi tipo di recipiente e impilarlo secondo il valore, il diametro, l’immagine che riporta o l’anno di emissione, o, ancora, creare gruppi che raggiungano ognuno una determinata cifra. Va poi considerata anche la possibilità di ritrovare, insieme alle monete, altri oggetti, a volte preziosi. Lo scavo stratigrafico delle monete, che prevede il loro posizionamento all’interno del contenitore e documenta i rapporti tra i singoli pezzi, permette quindi di verificare la (eventuale) successione con cui essi sono stati depositati. Tale procedimento, lungo e delicato, potrebbe a prima vista sembrare fin troppo impegnativo rispetto ai risultati ottenibili, ma pure il determinare come

Disegni del ripostiglio di Neftenbach (Cantone di Zurigo, Svizzera). A sinistra, sezione con la ricostruzione del vaso in bronzo, del suo contenuto e della posizione di occultamento; a destra, riproduzione grafica dello strato superficiale delle monete con evidenziati quattro rotoli. Si tratta, in tutto, di 1243 denari e antoniniani del III sec. d.C. In basso il tesoro monetale ritrovato durante gli scavi condotti dall’École Française di Roma nell’insediamento etrusco di Musarna (nei pressi di Viterbo), composto da 994 denari d’argento databili tra il III sec. a.C. e il 67/64 a.C. L’olla di terracotta, ricoperta con il fondo di un altro vaso, era stata nascosta nel pavimento di una bottega del mercato urbano.

potevano essere – o non essere – disposte le monete da conservare, aggiunge un ulteriore tassello alla ricostruzione della vita e del pensiero dell’epoca antica.

Pilette monetali Anche le fonti letterarie e iconografiche confermano diverse modalità adottate per facilitare il conteggio e la conservazione in deposito del denaro: le monete potevano essere suddivise in cestini, riposte entro sacchetti di stoffa o pelle dopo essere state avvolte in rotolini di di materiale vario quale fibre, pelle e tessuto; a loro volta i sacchetti, solitamente contenenti

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STORIE DI MONETE

cifre standard, erano collocati entro recipienti piú grandi. In alcuni casi l’importo deposto veniva registrato: un frammento di ceramica iscritta in greco (ostrakon) scoperto in Egitto riporta la quantità di denaro celato da un ignoto proprietario entro un’anfora e, ancora, un papiro greco documenta la composizione di un tesoro nascosto in un muro e trafugato dai ladri. I ritrovamenti archeologici attestano in numerosissimi casi la presenza di pilette monetali ordinate in disparati contenitori, ma non è sempre agevole, in fase di restauro, asportarle e documentarle adeguatamente nel caso in cui il recipiente sia integro e a collo stretto – come per esempio una brocca. In questi casi si procede all’apertura del contenitore, che verrà successivamente ricomposto, oppure si può approfittare di fratture già esistenti che possano agevolare l’intervento di scavo. Cosí è avvenuto a Trier, in Germania, dove nel corso di scavi edilizi è stato recuperato un vero e proprio tesoro monetale formato da piú di 2500 aurei, deposti entro un recipiente bronzeo spezzato. Le monete d’oro, databili tra il regno di Nerone e quello di Settimio Severo, con emissioni battute tra il 63 e il 196 d.C., sono state evidentemente accumulate nel corso del tempo e poi sepolte nella cantina di un’abitazione a insula, forse per porle al riparo durante il conflitto tra Settimio Severo e Clodio Albino, che interessò anche la regione germanica. L’edificio non subí distruzioni, ma l’ignoto proprietario non riuscí a recuperare il suo tesoro, che aveva accuratamente suddiviso in tanti rotolini sistemati dentro un contenitore richiuso da un

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Miniatura della Notitia Dignitatum, un documento compilato e illustrato consistente nell’elenco e nella descrizione delle cariche civili e militari dell’impero, redatto tra la fine del IV e gli inizi del V sec. d.C. In basso il ripostiglio ritrovato nel 1993 a Trier (Treviri, Germania), racchiuso entro un contenitore di bronzo e deposto intorno alla fine del III sec. d.C.

coperchio con manico. Sono ancora ben evidenti i rolli di aurei, avvolti in lembi di pelle oramai disfatti, ma di cui si è potuto cogliere traccia durante il restauro.

Tecnologie sofisticate Allo scopo di indagare preventivamente il contenuto dei recipienti ci si può avvalere di tecnologie sofisticate – come la tomografia, vari tipi di irraggiamenti, la restituzione grafica tridimensionale – che permettono di rilevare «in anteprima» e di documentare la composizione e la disposizione del materiale. Tali attrezzature tecniche, messe a disposizione di archeologi e restauratori da vari enti di ricerca, hanno permesso l’analisi di un ripostiglio proveniente dal IV Municipio del Comune di Roma, consistente in un’olla in terracotta richiusa da un tappo e ripiena di monete di bronzo perlopiú di età antonina. La restituzione tridimensionale ottenuta con la tomografia a raggi X ha cosí rivelato alcune pilette conservatesi nonostante la penetrazione della terra. Il microscavo ha poi confermato che l’impilamento non seguiva criteri di ordine cronologico, tipologico o di nominale e che le monete piú antiche e quelle piú recenti furono disposte casualmente, cosí come i diversi nominali. Vi sono poi gli esempi eclatanti e ben pubblicati delle scoperte effettuate a Neftenbach in Svizzera e a Rimigliano in Toscana, poco lontano da Populonia. Il primo consiste in un elegante vaso di bronzo riempito di monete d’argento e nascosto sotto il pavimento ligneo di una villa romana. L’antico proprietario ripose i suoi 1243 denari e antoniniani del III secolo d.C., il piú recente dei quali emesso sotto Postumo (258/260-268 d.C.), in una brocca fabbricata circa duecento anni prima, forse parte di un servizio da tavola conservatosi per generazioni. La tomografia a cui è stato sottoposto il vaso e lo scavo stratigrafico hanno evidenziato sia monete sparse, sia una serie di rotolini di dimensioni differenti, composti da monete di diverso valore,


impacchettate in lembi di stoffa. Nel vaso, ricoperto anch’esso da un pezzo di stoffa per preservarne il contenuto, erano stati inseriti rametti di graminacee e fieno che dovevano contribuire alla conservazione delle monete assorbendo l’umidità insita nel nascondiglio. Si sono cosí ricostruiti i procedimenti di tesaurizzazione e occultamento attuati dal proprietario; anche in questo caso gli eventi impedirono il recupero di un bene prezioso cosí accuratamente nascosto.

Un tesoro dal mare Le monete recuperate a Rimigliano provengono invece dal mare: un ignaro bagnante contemporaneo rinvenne sul bagnasciuga un grosso grumo metallico ricoperto dalla sabbia, che si rivelò essere un insieme di monete in lega d’argento da poco trafugate da un limitrofo relitto affondato e affrettatamente nascoste sulla spiaggia. Consegnato il «bottino» alle autorità, si è provveduto all’analisi scientifica e alla sua conservazione. Anche qui le condizioni del reperto hanno reso opportuno l’impiego di specifici procedimenti preliminari allo smontaggio del blocco di monete, tenendo conto dell’azione dell’acqua marina e della salsedine che per secoli avevano avvolto il reperto, causandone la trasformazione in un grosso grumo, ma preservando anche alcuni materiali organici altrimenti deperibili. Prima del restauro, servendosi di uno scanner a triangolazione, sono stati eseguiti il rilievo e la modellazione tridimensionale del blocco, in modo tale da poterne documentare la condizione al momento del ritrovamento. Si sono cosí contati circa 3500 antoniniani del III secolo d.C., originariamente suddivisi in pacchetti da dieci pezzi avvolti entro sacchetti di stoffa, di cui restano scarne tracce conservate dalla salsedine, e poi riposti, con buona probabilità, in un cesto di fibra vegetale adatto al trasporto via mare. Nei tre casi qui proposti – Roma, Svizzera, Toscana – si è potuto procedere a indagini preliminari interdisciplinari che hanno dato

Modello tridimensionale delle monete ritrovate a Rimigliano (provincia di Livorno). In basso due immagini, ottenute attraverso l’uso dei raggi gamma, del vaso in bronzo impiegato per nascondere le monete del ripostiglio di Neftenbach.

indicazioni fondamentali per la successiva rimozione manuale. Vanno comunque tenute presenti le difficoltà che tali procedure di ricerca comportano, soprattutto dal punto di vista economico, per via dei limitati budget solitamente a disposizione degli enti pubblici preposti alla tutela delle antichità, e della carenza di personale tecnico che possa impegnarsi per lungo tempo su un solo ritrovamento. È dunque sempre auspicabile la sinergia tra chi opera sul ritrovamento antico e chi dispone di moderne tecnologie con le quali svolgere delicate indagini strumentali, collaborazioni spesso effettuate per puro amore della scienza, ovvero gratuitamente.

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STORIE DI MONETE

STRENNE DI CAPODANNO L’AVVICINARSI DELL’ANNO NUOVO È SEGNATO DAL TRADIZIONALE SCAMBIO DI DONI. UN’USANZA CHE EVOCA UN’INTERESSANTE CARATTERISTICA DELLA MONETA ROMANA, IN QUESTE OCCASIONI SIMBOLO DI PROSPERITÀ E FORTUNA

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l sistema calendariale utilizzato dalla moderna società occidentale rappresenta una delle tante eredità culturali del mondo romano. L’attuale suddivisione del tempo in determinati giorni, mesi e anni è il risultato di un lungo e complesso percorso che la tradizione antica faceva risalire a Romolo, fondatore di Roma, a cui fecero seguito il riadattamento di Numa Pompilio e quindi la definitiva formulazione realizzata nel 46 a.C. da Giulio Cesare. Il calendario giuliano, redatto con l’apporto dell’astronomo alessandrino Sosigene, è tuttora in uso, corretto soltanto da un intervento di papa Gregorio XIII, il quale, nel 1582, per evitare alcuni slittamenti cronologici, abolí il giorno bisestile ogni 400 anni. Gennaio quale primo mese fu introdotto da

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In basso, a sinistra asse repubblicano con testa bifronte di Giano, da Pompei. 335 a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso, a destra il disegno della moneta. Essa era il dono tradizionale dell’inizio dell’anno: infatti gennaio, il mese di Giano, iniziava l’anno fin dal regno di Numa Pompilio.

Numa Pompilio, mentre nel precedente impianto romuleo, fortemente legato alla società contadina, tale requisito era proprio di marzo, inizio della primavera e del ciclo agrario connesso alla coltivazione dei campi. Il 1° gennaio incontrò molte difficoltà a essere considerato l’inizio dell’anno e soltanto a seguito della riforma giuliana divenne a tutti gli effetti il giorno di Capodanno: è infatti una tarda e isolata fonte letteraria, l’erudito ellenico del V-VI secolo d.C. Giovanni Lido, a definire le calende di gennaio come la festività piú sacra dell’anno (De magistratibus, IV, 3). Va comunque ricordato a questo proposito che, fin dal 153 a.C., ben prima del calendario voluto da Giulio Cesare, i consoli entravano in carica proprio il 1° gennaio.


In alto aureo di Vitellio del 69 d.C. con le mani che si stringono, simbolo della fedeltà dell’esercito all’imperatore. In basso rovescio di un asse coniato in età domizianea (81-96 d.C.), con l’immagine della Fortuna che regge una cornucopia e il timone. Padova, Musei Civici Eremitani.

rovescio) impresse sul nominale principale, l’asse, la testa bifronte di Giano, quale figurazione iniziale e beneaugurante per i conî dell’Urbe. Accanto alle offerte al dio, consistenti in focaccette e miele, era uso tra amici, parenti e persone legate anche da vincoli di clientela scambiarsi auguri, parole gentili e piccoli doni (strenarum commercium) quali dolci e rametti di alloro detti strenae (in italiano traducibile come «di buon presagio», «regalo di buon augurio»), perché colti l’inizio dell’anno in un boschetto situato a Roma, lungo la via Sacra presso le Carinae, e dedicato alla dea sabina Strenia, antica divinità equiparabile alla Salus romana.

Ingenuità di un poeta Nel corso dei secoli la parola «strenna» passò a indicare offerte augurali piú consistenti, come monete e oggetti preziosi destinati a personaggi di potere. Anche questa consuetudine è riportata da Ovidio nei Fasti, nel passo in cui chiede spiegazione riguardo allo scambio di denaro direttamente a Giano il

In alto mosaico pavimentale con riquadri raffiguranti i dodici mesi e le quattro stagioni, dalla Casa dei Mesi di Tisdro (città nei pressi dell’odierna El-Djem, Tunisia). Fine del III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.

Ovidio, autore tra i piú rappresentativi della poetica di età augustea, nei suoi Fasti (I, 185 ss.) descrive e spiega dettagliatamente i rituali connessi alle kalendae ianuariae, ponendo a Giano stesso precise domande su questa celebrazione, al contempo sacra e profana.

Il dio della porta L’offerta principale era infatti destinata proprio a Ianus, a cui era consacrato il mese in quanto divinità preposta ai momenti di passaggio – si ricordi che il termine latino ianua significa «porta, passaggio» – e a tutti gli inizi, compresi quello dell’anno. Non è quindi un caso che il primitivo sistema monetale romano in bronzo relativo alla «serie della prua» (cosiddetta dall’immagine di prua di nave ricorrente sul

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STORIE DI MONETE

Il mese di gennaio, particolare del mosaico della Casa dei Mesi (vedi alle pagine precedenti). Fine del III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico. Due personaggi si scambiano l’augurio di buon anno con un abbraccio.

quale, ridendo dell’ingenuità del poeta, risponde: «Oh quanto ti inganni sui tuoi tempi, se pensi che ricevere miele sia piú gradito che ricever monete! Già, regnando Saturno, ben pochi io vedevo a cui non stesse a cuore la dolcezza del guadagno; col tempo crebbe l’avidità del possedere, e ora è arrivata a tal punto che piú non potrebbe crescere». Come narra Svetonio (Augusto, 57), Augusto ufficializzò questo tradizionale omaggio al regnante: «Tutti gli ordini sociali per le calende di gennaio portavano anche in sua assenza strenne in Campidoglio: con questo denaro Augusto comprò preziosissime statue per gli dèi, che consacrava poi nei vari quartieri». Tiberio non amava l’uso e perciò a Capodanno lasciava Roma, facendo divieto di scambiarsi strenne durante gli altri giorni del mese.

La sfrontata avidità del principe Al contrario Caligola, lamentandosi (!) delle accresciute spese seguite alla nascita della figlia (Svetonio, Caligola, 42), pensò di risolvere

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i suoi immaginari problemi economici promulgando un editto nel quale comunicava che, all’inizio dell’anno, avrebbe accettato strenne generosamente donate dai suoi sudditi: alle calende di gennaio egli sarebbe rimasto nel vestibolo del palazzo imperiale, pronto a incassare le offerte che il popolo avrebbe dovuto devolvergli a piene mani. Claudio, non apprezzando la festa al pari di Tiberio, l’abolí, ma egualmente l’usanza, che prevedeva per i livelli sociali piú alti anche il dono di multipli monetari noti come medaglioni, perdurò a lungo nella corte imperiale. Ausonio, poeta latino del IV secolo d.C. legato all’imperatore Graziano, testimonia che, alla sua epoca, per le calende di gennaio venivano donate a palazzo monete d’oro risalenti addirittura a Filippo di Macedonia, e lo scambio prezioso perdurò sino al tempo di Teodosio e Arcadio. Dalla prima età imperiale lo scambio di doni preziosi a Capodanno tra semplici cittadini e le offerte ai vari potenti divenne dunque


un’usanza comune e radicata; per quanto riguarda le monete, oltre a quelle di valore intrinseco sempre molto gradite, erano regalati i nominali che presentavano immagini considerate di buon augurio.

L’unione delle mani

Lucerna di Capodanno. I sec. d.C. La Fortuna ha uno scudo su cui sono incisi motti di buon augurio ed è circondata da strenne augurali, tra cui si nota, a sinistra, l’asse con la testa di Giano. In basso un Vittoriato, moneta d’argento romana d’età repubblicana che trae il suo nome dalla raffigurazione della Vittoria che incorona un trofeo. Seconda metà del III sec. a.C.

Primo tra tutti l’antico asse repubblicano con Giano, che continuava a circolare anche all’epoca, poi i tipi con la Vittoria e la Fortuna, intrinsecamente cariche di fausti presagi, oppure quelli con le mani unite nella dextrarum iunctio, emblema di concordia sia nell’ambito privato che in quello politico e militare, a volte sormontate da un caduceo, simbolo di una importante intesa politica quale preludio di fortuna e ricchezza per tutto il popolo. Quest’ultimo tipo è attestato sia per le monete di età repubblicana che per quelle imperiali ed è strettamente legato agli accordi raggiunti o auspicati tra opposte fazioni politiche: si vedano per esempio alcuni denari del magistrato cesariano Iunio Bruto Albino, del 48 a.C., dove sul rovescio vi sono le due mani e il caduceo, probabile allusione alla propaganda voluta da Cesare incentrata sulla moderazione e riconciliazione durante la guerra civile che imperversava all’epoca. Anche alcune emissioni di Ottaviano battute nel 40/39 a.C. riportano i nomi del futuro imperatore e del rivale Marco Antonio intorno a due mani strette e un caduceo: questi quinari d’argento celebravano la pace di Brindisi, sancita alla fine del 40 a.C. dal matrimonio tra Marco Antonio e Ottavia. In età imperiale, invece, il tipo indicò principalmente la concordia e il patto di alleanza stretto tra l’imperatore e il suo esercito, quest’ultimo divenuto progressivamente arbitro delle elezioni imperiali. Già si è accennato a una particolare classe di lucerne a

volute, dette «di Capodanno» o «del nuovo anno», attestate nel mondo romano a partire dal I secolo d.C.: si tratta di una bella serie decorata sul disco con divinità foriere di successo, come la Fortuna e la Vittoria, intorno alle quali si dispongono le varie strenne donate all’inizio dell’anno. Questa testimonianza di cultura materiale è di particolare interesse in quanto, oltre alla gradevolezza della lucerna di per sé, dà testimonianza visiva di ciò che i Romani erano soliti scambiarsi in questa ricorrenza. Accanto a motti augurali tipo «che l’anno nuovo sia fausto e felice» iscritti dalla divinità su uno scudo, sono riprodotti ghiande e fichi, simbolo di prosperità, e alcune monete. Tra quest’ultime compaiono esemplari riproducenti ancora una volta la Fortuna e la Vittoria, poi la prisca moneta repubblicana, ovvero l’asse con la testa di Giano. Simili tipi iconografici potevano ricorrere anche su altre classi di materiali ancor piú preziosi, come testimoniano l’intaglio su cristallo di rocca conservato nei musei di Berlino e raffigurante una melagrana, un seme (?), una foglia, e tre monete, una con la testa di un imperatore identificato con Antonino Pio, un’altra con un tempio e l’ultima con la Vittoria. L’iscrizione lungo il bordo Annum novum faustum felicem felici imperatori qualifica senza ombra di dubbio il pezzo come raffinata strenna di Capodanno, in cui ritorna la presenza di monete augurali, anche se ormai prive dell’antico asse con la testa di Giove, di piú difficile reperimento dopo che Traiano aveva ritirato dalla circolazione corrente le monete piú antiche e rovinate. Il tradizionale scambio di doni legato all’inizio dell’anno con la ricorrente presenza del denaro inteso come oggetto portafortuna, conferma ancora una volta l’aspetto superstizioso attribuito dalla società romana alla moneta e alle sue immagini, che fece di determinati pezzi una sorta di talismano personale, capace di esercitare un’influenza favorevole sul suo possessore, dal semplice cittadino all’imperatore.

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STORIE DI MONETE

TESTA O CROCE? PERCHÉ, NEL SERVIRSI DI UNA MONETA PER SCOMMETTERE O DECIDERE CHI DOVRÀ INIZIARE UNA PARTITA, SI PRONUNCIA LA FATIDICA DOMANDA? LA RISPOSTA A QUESTO E A MOLTI ALTRI QUESITI VIENE DA UN PASSATO LONTANO

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l santo spagnolo e dottore della chiesa Isidoro di Siviglia (560 circa-636 d.C.) cosí definisce, nella sua opera Etymologiarum (XVI, 12), gli elementi che rendono una moneta tale: «Alla moneta si richiedono tre requisiti: il metallo, l’immagine e il peso. Se tra questi ne manca uno, non si può parlare di moneta». Con estrema semplicità l’erudito delinea i fattori essenziali che qualificano la moneta, intendendo con il termine «immagine» la necessità che essa sia emessa da un’autorità statale che ne garantisca, attraverso un segno riconoscibile, l’uso quale mezzo di scambio. Quando un esemplare antico giunge al numismatico, esso viene analizzato in tutte le componenti fisiche e tipologiche necessarie per la sua corretta datazione e interpretazione.

Metalli e leghe Il primo aspetto che si evince alla semplice osservazione autoptica è quello relativo al metallo. Questo è di immediata percezione nei casi in cui si tratti di oro, argento o rame, mentre diviene di più complessa determinazione in presenza di leghe bronzee, di residui di argentature superficiali, oppure di composti come l’oricalco, formato da rame misto a zinco e destinato in età imperiale ai

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sesterzi e dupondi. Per individuare con esattezza la composizione delle leghe sono necessarie attrezzature complesse e competenze tecniche specifiche, non richieste al numismatico ma accessorie alla completezza di un’indagine scientifica accurata. Un altro elemento facilmente distinguibile è il procedimento con cui la moneta è stata realizzata, tramite fusione o con la coniazione. Pronunciato spessore, disegno poco nitido, residui di metallo sul bordo (codoli) sono gli indizi più evidenti del metodo della fusione, adottata a Roma essenzialmente nella prima fase della monetazione in bronzo (aes grave) sino alla seconda metà del III secolo a.C. circa. La maggior parte delle monete romane sono quindi coniate, realizzate cioè battendo tra due conî un tondello liscio che riceve l’impronta incisa in incavo sulle matrici. Definiti il metallo e la tecnica, pesato il pezzo e distinta l’immagine, è possibile stabilire il valore della moneta e inserirla cosí nel sistema economico a cui appartiene. Può risultare utile, a coloro che sono interessati alla numismatica antica e in particolare a quella romana, ricordare le convenzioni terminologiche adottate dagli studiosi per definire le varie parti della moneta.

In alto triente di bronzo fuso con testa di cavallo e quattro globetti. Zecca di Roma, 275-270 a.C. Si noti il codolo di fusione in basso a sinistra. La presenza dei globetti esprime il valore della moneta: il triente, infatti, equivaleva a una terza parte dell’asse, cioè a 4 once. In basso calco di un rilievo con scena di pagamento dei tributi, da Noviomagus Treverorum (Neumagen, Germania). Fine del I-metà del II sec. d.C: Roma, Museo della Civiltà Romana.


DESCRIVERE UNA MONETA: ISTRUZIONI PER L’USO DRITTO

ROVESCIO BORDO PERLINATO

CAMPO

ESERGO LEGGENDA

Un sesterzio di Caligola. 37-38 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Al dritto, il volto dell’imperatore e leggenda C(aius) CAESAR AUG(ustus) GERMANICUS PONT(ifex) M(aximus) Tr(ibunicia) POT(estate); al rovescio, le tre sorelle dell’imperatore, raffigurate come divinità con i relativi attributi: Iulia Agrippina come Securitas, appoggiata a una colonnina, Iulia Drusilla come Concordia, e Iulia Livilla come Fortuna, con il timone nella destra. Sotto la linea di esergo S(enatus) C(onsulto).

TIPO

LINEA D’ESERGO

Essa consta essenzialmente in un tondello di metallo piú o meno regolare (tondo, globulare schiacciato, lenticolare, convesso o piano) di varie dimensioni e peso, la cui forma viene realizzata attraverso la fusione entro stampo. Il rapporto tra il peso e il contenuto metallico – quest’ultimo detto fino – determina il valore della moneta, garantito dall’autorità emittente attraverso l’immagine che la contraddistingue, denominata tipo, accompagnata o meno da una iscrizione, la leggenda.

Dritto e rovescio I lati del pezzo monetato sono indicati con i termini di dritto (D) e rovescio (R). Il dritto (in latino rectus) corrisponde generalmente alla figurazione considerata principale, quella cioè che meglio identifica lo Stato, l’autorità o il regnante sotto la cui autorità viene battuta la moneta; nella Roma imperiale il dritto è riservato quasi esclusivamente al profilo del principe e dei membri della sua famiglia. Il rovescio indica il lato opposto, contraddistinto da tipi variabili; la leggenda che lo accompagna si riferisce solitamente all’immagine oppure presenta parti della titolatura imperiale. La posizione delle immagini, a destra o a sinistra, è indicata rispetto a chi sta osservando la moneta; la leggenda, destrorsa, inizia in basso a sinistra.

La superficie dei due lati, chiamata campo monetale, oltre a essere occupata dal tipo e dall’eventuale leggenda, può presentare uno spazio inferiore, detto esergo, delimitato a volte da una linea, nel quale compare un’iscrizione che completa la leggenda. Infine, il diametro di una moneta prende il nome di modulo: monete dello stesso metallo, ma di diverso peso e diametro, emesse in un periodo di tempo da un’unica autorità, costituiscono una serie monetale composta da pezzi (nominali) di diverso valore, multipli e sottomultipli dell’unità posta alla base della serie. Le monete antiche presentano poi un aspetto esteriore differente anche in esemplari della stessa emissione, conferito loro dalla patina, cioè dal mutamento della colorazione originale del metallo causato dal contatto con la terra e relativi agenti chimici presenti nel luogo dove per secoli esse furono deposte prima di essere ritrovate. La patina manca nell’oro che, incorruttibile, non subisce gli attacchi di agenti esterni, mentre l’argento tende piú che altro a ossidarsi e incrostarsi; si riscontra invece nel rame, nel bronzo e in altre leghe, dove l’interreazione metallo-terreno conferisce alle monete tonalità e sfumature diverse che possono mettere in risalto il tipo, conferendo al pezzo quella bella velatura tipica del tempo passato. Nel momento in cui una moneta

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STORIE DI MONETE

giunge in laboratorio, vengono adottate appropriate tecniche di pulizia che non asportino, qualora presente, la patina antica, assicurando nel contempo la conservazione ottimale del pezzo.

Nome imperiale La leggenda fornisce dati fondamentali sull’epoca in cui i singoli nominali furono messi in circolazione: inizialmente a Roma comparve la sola denominazione della città o del popolo (Roma o Romano), poi i nomi dei magistrati preposti alle emissioni, con l’eventuale indicazione della loro carica. In età imperiale il principe e i membri della sua famiglia divennero gli unici personaggi viventi a godere del diritto di effigie sulle monete, attorniati dalla leggenda relativa all’onomastica personale e ai titoli ufficiali; non essendo sufficiente lo spazio di un tondello per trascrivere estesamente tutti questi dati, vennero adottate dagli incisori delle abbreviazioni, chiare ai Romani del tempo, ma a volte di non pronta comprensione per noi moderni. Comunque sia, le leggende apposte intorno ai volti e ai tipi dei rovesci forniscono eccezionali informazioni che danno conto della titolatura ufficiale e delle cariche rivestite di anno in anno dal

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Decusse in bronzo della serie «della prora». 215-211 a.C. Il decusse, in uso in età repubblicana, corrispondeva a 10 assi, valore indicato dal segno X (dieci), apposto sul dritto e sul rovescio dell’esemplare. In basso solido d’oro emesso da Grimoaldo III, duca di Benevento. 788-792 d.C.

regnante, permettendo cosí – con il concorso delle fonti storiche – la precisa datazione di pressoché ogni singola moneta. Di regola il nome proprio dell’imperatore è preceduto dal titolo – divenuto prenome – IMP (Imperator) e, generalmente, da CAES (Caesar), inteso come parte della denominazione individuale o destinato a indicare il successore designato; dal IV secolo d.C. si diffonde l’abbreviazione DN (Dominus Noster). Seguono il nome personale, a volte seguito da CAES, eventuali titoli aggiuntivi, relativi solitamente a vittorie conseguite in battaglia (cognomina ex virtute, come DAC per Dacicus, PART per Parthicus), che divengono parte integrante dell’onomastica del regnante.

La titolatura Le leggende riportano anche l’insieme delle cariche rivestite dall’imperatore nel momento in cui fu emessa la moneta, le quali, congiuntamente, permettevano l’esercizio dell’autorità assoluta nel pieno rispetto della tradizione giuridica romana. Queste consistono principalmente nella potestà tribunizia (TRIB POT o altre abbreviazioni per Tribunicia


Potestate), che conferiva inviolabilità all’imperatore ed era quindi rinnovata annualmente; seguivano il consolato (COS per Consul), che però poteva non avere cadenza annuale, le acclamazioni imperatorie (IMP per Imperator) effettuate dall’esercito, e la censura (CENS per Censor); l’insieme di queste funzioni, ricorrendo regolarmente e designate da un numero progressivo, permettono di datare con estrema esattezza la singola emissione monetale. Altre parti della titolatura consistono nel nome AUG (Augustus), che può essere integrato nell’onomastica del regnante, nell’appellativo Pater Patriae (PP) e nell’indicazione del pontificato (PM o PONT MAX per Pontifex Maximus). Quando erano coniate monete in onore di un imperatore o della consorte defunti, il loro nome era preceduto da DIVUS o DIVA. Frequente sul rovescio è la sigla SC (Senatus Consulto, «per decreto del Senato») posta nel campo ai lati del tipo e riferita al controllo formale esercitato dal senato romano sulla monetazione bronzea di età imperiale; in età augustea il campo del rovescio è a volte occupato dalla sola dicitura SC.

Monete recuperate negli scavi condotti negli anni Ottanta del Novecento a Ercolano, nell’area del porto. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Le monete si trovavano con ogni probabilità in un sacchetto, dal quale caddero nei concitati momenti del tentativo di fuga dall’eruzione. Si distinguono molto bene, dimostrando la resistenza del metallo nobile all’usura del tempo, due pezzi in oro con l’effigie di Vespasiano, imperatore dal 69 al 79 d.C.

È interessante notare come già nel mondo antico vi fosse l’esatta percezione delle due facce della moneta: il gioco detto «testa o croce», nel quale una moneta viene lanciata in aria per indovinare quale dei lati cadrà a terra o sulla mano aperta, era praticato fin dall’età romana con il nome di capita aut navia, derivatogli dai tipi raffigurati sugli antichi bronzi repubblicani della serie «della prora», contraddistinti al dritto dalla testa di una divinità e al rovescio dalla prora di una nave. Augusto, accanito giocatore e amante delle scommesse, si divertiva anche con questo passatempo, solitamente riservato ai bambini, ma considerato d’azzardo e vietato dalla legge per le forti perdite che poteva procurare quando praticato dagli adulti. Dalla fine del V secolo d.C. e nel corso della monetazione tardo-antica e medievale, mentre il dritto mantenne la figura di una immagine umana, solitamente l’imperatore o personaggi religiosi, la Croce cristiana divenne il tipo ricorrente sul rovescio; il gioco prese allora la denominazione che mantiene ancor oggi, sebbene tali figure siano scomparse da tempo dalla nostra monetazione.

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STORIE DI MONETE

del VI secolo a.C., la introdusse nella propria economia. Subito adottato dalla Grecia intorno al 580 a.C., il sistema fondato sullo scambio monetale si diffuse in tutto l’Occidente sino a Roma, che tuttavia lo fece proprio solo intorno alla seconda metà del IV secolo a.C. La realizzazione di quel piccolo tondello di metallo, piú o meno prezioso, contraddistinto sulle due facce da un’impronta riconosciuta dall’autorità statale che la emette e ne garantisce la valenza quale mezzo di scambio, ha alle spalle un percorso lunghissimo, che prevedeva la collaborazione di molteplici e ben distinte professionalità.

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Come una condanna a morte

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COME SI REALIZZA UNA MONETA/1

DALLA MINIERA ALLA ZECCA LA MONETA È L’ESITO FINALE DI UN LUNGO PERCORSO, FATTO DI TECNOLOGIE, SCHIAVI, ARTIGIANI E INCISORI. UNA CATENA OPERATIVA A PIÚ MANI, DUNQUE, DA CUI NASCE IL MEZZO DI SCAMBIO PIÚ DIFFUSO NEL MONDO ANTICO E MODERNO

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e fonti letterarie e i ritrovamenti archeologici concordano nell’attribuire l’invenzione della moneta all’intraprendenza dei Lidi, popolazione dell’Asia Minore che, tra la fine del VII e l’inizio Ricostruzione grafica della fabbricazione di tondelli: 1. fusione del metallo; 2. il metallo fuso viene versato nello stampo; 3. stacco dei tondelli con una tenaglia dopo il raffreddamento (disegni di Inventario s.r.l. /L. Cesari, D. Cotti, da Romanizzazione e moneta, catalogo della mostra allestita nel 2004 al Museo Civico Archeologico di Castelfranco Emilia, Modena).

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Innanzitutto, era necessario procurarsi la materia prima. L’origine stessa del termine metallo risale, come attestato in Omero, al verbo metallào («ricercare, indagare»), mentre il sostantivo métallon ne indica il luogo d’origine, cioè le miniere e le cave, il cui scavo è indicato dalla parola metalleia. L’attività estrattiva era una delle piú dure e prevedeva una condizione di lavoro del tutto disumana, svolta nel mondo greco e in quello romano da schiavi e condannati: una delle pene piú terribili che un tribunale romano poteva comminare, e che, di fatto, equivaleva a una lenta e amara condanna a morte, era la damnatio ad metalla, ovvero allo scavo forzato in cave e miniere. A partire dal II secolo d.C. si cominciò a ricorrere anche all’impiego di manodopera libera, come documentato da testimonianze epigrafiche relative alle miniere iberiche di Vipasca, in Lusitania. Naturalmente il metallo, e soprattutto l’argento, che fu l’elemento piú utilizzato nell’antichità per la realizzazione di monete, poteva anche provenire dalla fusione di oggetti preziosi, adottata nel caso di difficoltà di reperimento della materia prima in natura e particolarmente utile lí dove si necessitava di una rapida fonte di approvvigionamento. Lo storico greco Erodiano (vissuto tra la fine del II e il III secolo d.C.), nella sua Storia


dell’impero romano dopo Marco Aurelio (VII, 3,5) racconta come Massimino il Trace, imperatore tra il 235 e il 238 d.C., avendo urgente bisogno di denaro per le ingenti spese militari del suo breve regno, non esitò a requisire doni, offerte e statue che costituivano il tesoro di templi e gli ornamenti di edifici pubblici, destinandoli alla fusione e alla trasformazione in denaro sonante.

La scelta della materia prima Anche i bottini di guerra costituivano una sorta di miniera a cielo aperto, come l’oro proveniente dal sacco della Gallia conquistata da Giulio Cesare, trasformato subito in materiale per una prestigiosa serie aurea a suo nome, mentre sino ad allora l’oro era stato utilizzato soltanto da Tito Quinzio Flaminino vittorioso su Filippo V di Macedonia, da Silla e da Pompeo Magno. Una volta procurato il metallo puro, potevano essere realizzate leghe essenzialmente a base di rame, come quelle largamente impiegate nel mondo romano (bronzo e oricalco); in Grecia, infatti, si preferí sin dagl’inizi l’argento, anche se non mancano rari esperimenti di monetazione bimetallica nella Sicilia magno-greca del V secolo a.C., attestata da nominali di basso valore in bronzo ritrovati a Selinunte e Agrigento. Altre monete di bronzo fuso provengono dall’area del Mar Nero, prodotte nell’insolita forma di freccia e di delfino. L’economia monetale adottata dall’autorità statale doveva preventivamente avvalersi di un complesso processo di fabbricazione che contemplava officine specializzate, poste in luoghi sicuri, nelle quali operavano tecnici

adibiti alle varie fasi di lavorazione. La moneta poteva essere realizzata essenzialmente attraverso due procedimenti: la fusione e la coniazione. Mentre il mondo greco preferí subito creare un prodotto raffinato dal punto di vista tecnico ed estetico, coniando i suoi esemplari, Roma iniziò a battere moneta in proprio (escludendo quindi la serie detta «romano-campana») emettendo pezzi in bronzo fuso. Ben presto però, a partire dalla prima metà del III secolo a.C., tutti i nominali romani sia in bronzo che in argento, vennero realizzati tramite coniazione, abbandonando completamente l’obsoleta tecnica precedente, eccezion fatta per la fabbricazione

Stampi per fusione di tondelli in serie: matrice bivalve con accanto il relativo prodotto metallico di forma globulare o lenticolare (in alto); matrice aperta con sezione e prodotto metallico tronco-conico (in basso). In basso due monete in bronzo fuso a forma di delfino, dalla colonia greca di Olbia, sul Mar Nero (oggi in territorio ucraino). Fine del VI sec. a.C. Londra, The British Museum.

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STORIE DI MONETE

del tondello, cioè il dischetto metallico di peso e diametro standard sul quale era impressa l’impronta della moneta. Per ottenere pezzi di eguale valore, peso e dimensione era necessario predisporre stampi lisci in materiale refrattario, aperti o chiusi, nei quali versare il metallo fuso, che si disponeva, tramite canaletti di collegamento, entro ciascuna impronta. Una volta raffreddatasi la colata, si apriva lo stampo, se bivalve, oppure si estraeva direttamente quanto ottenuto. La forma risultante assomigliava a un tronco grezzo, da cui si dipartono canaletti ai quali erano attaccati i tondelli, poi rimossi con apposite tenaglie o scalpelli. A volte operazioni di stacco non accurate potevano lasciare sul bordo del tondello traccia del codolo di fusione, mentre solitamente questo veniva completamente rimosso da una limatura finale. Un’altra tecnica consisteva nella realizzazione di una barra metallica di diametro standard, dalla quale erano direttamente ricavati tondelli di medesimo spessore oppure, ancora, i tondelli potevano essere ritagliati con apposite cesoie da una sottile sfoglia metallica, tecnica

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Due conî in bronzo e alcune monete di età romana, da Sérignan (Francia). II sec. d.C. Saint-Germain-enLaye, Musée d’archéologie nationale. Il conio è una matrice che reca in negativo su uno dei lati il tipo o la leggenda da imprimere. In età antica era di bronzo o di rame, e, inserito in un manicotto, veniva battuto a mano (da cui il termine coniazione).

questa in voga soprattutto nella piena età medievale, quando le monete raggiunsero uno spessore notevolmente ridotto.

A colpi di seghetto Una serie di denari romani di età repubblicana presenta una particolare caratteristica tecnica adottata al momento della realizzazione del tondello, la quale dà il nome all’intero gruppo: si tratta dei denari «serrati» (dal latino serra, sega), ovvero contraddistinti sul bordo da tagli triangolari. A tal fine era utilizzato un seghetto affilato che incideva il bordo; questa incisione si dilatava al momento della coniazione, quando il tondello veniva battuto meccanicamente per ricevere l’impressione del conio, conferendo al bordo del denario un aspetto tipico a tacche triangolari. Si ignorano i motivi di questa scelta, forse esclusivamente stilistica, che ritroviamo occasionalmente nelle prime emissioni di denari e poi piú frequentemente tra il 118 e il 64 a.C., a opera degli stessi magistrati che contemporaneamente battevano esemplari «regolari». Qualunque sia stato il motivo dei


denari serrati, sappiamo dalla Germania di Tacito (55-120 d.C. circa) che le popolazioni di quella regione prediligevano alle monete contemporanee questi vecchi denari, insieme ai coevi raffiguranti al rovescio la biga («serratos bigosque»). Con la monetazione nacque anche la falsificazione, soprattutto quella in metallo prezioso, attestata dappertutto e repressa dalle autorità statali. Forse le genti germaniche di cui parla Tacito preferivano i denari piú antichi e le monete serrate, perché offrivano maggiori garanzie sull’effettiva quantità dell’argento contenuto in ogni pezzo: esiste infatti un’ulteriore e interessante categoria, quella dei cosiddetti denari «suberati», dal latino subaeratus («con il rame sotto»). Si tratta di una vera e propria contraffazione, consistente nel ricoprire un tondello di metallo vile con oro o argento per poi sottoporlo alla coniatura con i tipi solitamente destinati ai denari. Secondo alcuni

studiosi le tacche dei serrati avrebbero piú facilmente permesso il controllo dell’anima della moneta, ma ritrovamenti archeologici documentano anche l’esistenza di serrati suberati.

Falsi di Stato?

Denario serrato di Mn. Aquilio con soldato romano che solleva la personificazione della Sicilia. 71 a.C. In basso matrice per tondelli, da Cipro; a sinistra: barretta metallica utilizzata per il taglio dei tondelli, da Pella, Grecia. Età ellenistica. Atene, Museo Numismatico.

La moneta d’argento suberata è ampiamente diffusa in età repubblicana, soprattutto tra il II e il I secolo a.C. con un picco tra il 91-90 a.C., quando Roma attraversò un momento difficilissimo tra le guerre sociali e quelle civili; esemplari del genere compaiono anche nel corso della monetazione imperiale. È facile immaginare quanto rimarchevole fosse il guadagno proveniente da questi falsi; la moderna ricerca storica non ha però ancora identificato con sicurezza gli autori dei suberati. Potrebbe trattarsi di una deliberata decisione dell’autorità emittente per trarre guadagno o risparmiare sul metallo da monetare in frangenti storici critici, come parrebbe confermare la vicenda del pretore Mario Gratidiano, il quale, nell’84 a.C., promulgò una legge che autorizzava – segno che prima era vietata – la verifica della composizione del metallo monetato, legge salutata con entusiasmo dal popolo romano, ma prontamente annullata da Silla nell’82 a.C.; ben presto fu eliminato fisicamente anche l’incauto promulgatore. Accanto a questa ipotesi vi sono poi quelle che attribuiscono le emissioni suberate all’opera fraudolenta di addetti alla zecca, che in tal modo si sarebbero appropriati del metallo sottratto, o ancora, all’iniziativa criminosa di veri e propri falsari. Nell’età imperiale i contraffattori furono puniti con pene di vario grado, sino a quando, con Costantino, la falsificazione di moneta divenne un reato particolarmente grave, che in alcuni casi poteva equipararsi alla lesa maestà, con pene che contemplavano la deportazione, la confisca dei beni e la morte.

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STORIE DI MONETE

COME SI REALIZZA UNA MONETA/2

UNA «FAMILIA» MOLTO NUMEROSA RIGOROSAMENTE ORGANIZZATE, LE ZECCHE VEDONO ALL’OPERA UNA SQUADRA DI TECNICI E ARTISTI CHE TRASFORMA IL METALLO FUSO NEL PRINCIPALE MEZZO DI PAGAMENTO PROMOSSO DALL’AUTORITÀ STATALE

R

oma adottò la moneta quale emissione ufficiale dello Stato solo negli ultimi decenni del IV secolo a.C., ben piú tardi rispetto a quanto avvenne nel mondo greco-orientale dalla seconda metà del VII secolo a.C. Nella penisola italiana già battevano moneta le città della Magna Grecia e, nel V secolo a.C., se ne dotò anche l’Etruria. Quando Roma aderí al nuovo mezzo di scambio, poteva dunque avvalersi di un sistema di fabbricazione ampiamente sperimentato, fondato su officine efficienti, preposte a una produzione su vasta scala. Il termine italiano che definisce questi laboratori, «zecca», trae origine da una parola derivante dall’arabo medievale, sikka – il cui spettro semantico comprende i significati di «conio», «moneta», «strumento per coniare» –, giunta

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Ricostruzione grafica del tempio di Giunone Moneta, sull’acropoli di Segni. II sec. a.C. Posto a difesa della rocca dell’antica Signia, la denominazione dell’edificio sacro attesta l’epiteto «Moneta» come tipico delle divinità femminili tutelari delle acropoli cittadine.

probabilmente in Italia attraverso le officine arabo-normanne attive in Sicilia. Si sono quindi perdute nel linguaggio corrente le terminologie greche e romane, rispettivamente argyrokopeîon («il luogo dove si batte moneta») e officina moneta o piú semplicemente moneta.

Le oche di Giunone L’origine del nome latino è di particolare interesse e vale la pena di ripercorrerne la storia, avendo prodotto il nostro vocabolo «moneta», ampiamente usato al pari di «denaro». Presso la cima settentrionale del colle capitolino, l’Arx, si trovava un tempio dedicato a Giunone, qui venerata con l’epiteto di Moneta derivatole dal verbo monere (avvertire, ammonire). Ma quale avvertimenti aveva dato la grande dea ai Romani? Secondo Cicerone (Div. I, 101), in un momento storico indeterminato, una voce misteriosa si sarebbe levata dal tempio ammonendo i cittadini di effettuare una espiazione a seguito di un terremoto; Livio racconta invece (V, 47) che nel 390 a.C. il plebeo Marco Manlio Capitolino si era opposto vittoriosamente alla sortita notturna dei Galli sul Campidoglio, svegliato dal clamore delle oche sacre a Giunone che si trovavano nel recinto del suo tempio, clamore evidentemente ispirato ai pennuti dalla dea per avvertire del pericolo incombente.


Il culto di Giunone Moneta sembra comunque già attestato sul Campidoglio in età arcaica, come testimoniano terrecotte architettoniche databili tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C.; il nome «Moneta» è ritenuto tipico delle divinità femminili tutelari delle acropoli, come prova il tempio di Giunone Moneta posto a difesa della rocca laziale di Segni. È ancora Livio (VI, 20, 13 e VII, 28, 47) a tornare in piú occasioni sulla dislocazione del tempio, a proposito dell’ascesa e declino di Manlio Capitolino, il quale, poco dopo i fasti ottenuti sui Galli, fu condannato a morte nel 384 a.C. da quello stesso popolo che, dopo averlo osannato, lo accusò poi di cospirare contro la repubblica, avendo proposto l’abolizione dei debiti e la distribuzione di terre ai plebei. In questo passo lo storico situa l’abitazione del condannato «dove ora si trovano il tempio e la zecca di Moneta (officina Moneta)». Cosí con Moneta si arrivò a indicare sia il tempio di Giunone sul Campidoglio, sia la zecca, evidentemente localizzata nei suoi pressi, sia anche il prodotto dell’officina, le monete, come testimoniano passi di Cicerone (Filippiche 7, 1: «de Moneta consul», a proposito di Marco Antonio), Ovidio, Marziale e Plinio. Questa identità semantica, non ancora del tutto definita, ha indotto eruditi e lessicografi a cercarne l’origine affidandosi a esegesi anche piuttosto elucubrate, come quelle del santo vescovo Isidoro di Siviglia (560 circa-636 d.C.), il quale, nell’opera Etymologiarum (16, 18, 8), definisce Giunone come Moneta poiché la dea ammonisce da frodi nel metallo e nel peso delle monete;

Segni (Roma). Veduta della chiesa medievale di S. Pietro, sorta sui resti del tempio di Giunone Moneta, del quale si riconosce, in primo piano, una parte del basamento. In basso denario in argento di T. Carisius recante al dritto la testa di Giunone Moneta, 46 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme, Medagliere.

ancora, nell’XI secolo, la Suda (un lessico bizantino di autore ignoto) alla voce «Moneta» unisce in un sol luogo tempio e zecca. Scavi e resti architettonici sul Campidoglio hanno localizzato il tempio di Iuno Moneta sulla sommità dell’arce e sono ancora riconoscibili le sue mura in blocchi di tufo nei giardinetti tra il Tabularium e la scalinata che conduce al convento dell’Ara Coeli. Mancano invece sicure attestazioni delle officine della zecca repubblicana, di ancora incerta collocazione nell’area, e che alcuni studi tendono a identificare nei pressi dell’Ara Coeli, oppure in alcuni antichi ambienti affacciati sul Foro e poi inglobati nel Tabularium sillano (78 a.C.), la cui struttura e isolamento parrebbero garantire le condizioni di sicurezza richieste in tali edifici. Inoltre, poco lontano da qui, nel Foro Romano, vi era l’erario pubblico, allestito nel tempio di Saturno: una stretta scalinata coperta metteva probabilmente in comunicazione il colle capitolino con il luogo in cui era conservato il tesoro dello Stato, che si può immaginare strettamente connesso alla zecca. Vani del Tabularium posti di fronte ai resti del tempio di

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STORIE DI MONETE

Giunone Moneta potrebbero inoltre costituire un ampliamento dell’erario pubblico. L’officina sul Campidoglio fu in uso per tutta l’età repubblicana e dovette quindi risentire degli eventi catastrofici che periodicamente si verificarono sul colle, come l’incendio che lo devastò nell’80 d.C., distruggendo anche l’erario nel tempio di Saturno. Diocleziano trasferí allora la zecca nella Regio III, un settore originariamente occupato dalla Domus Aurea di Nerone e in seguito completamente trasformato dalla politica edilizia dei Flavi che lo vollero restituito alla città.

Sotto la basilica Di ciò danno notizia anche i Cataloghi Regionari, redatti nel IV secolo d.C. e giunti sino a noi, che elencano i principali fabbricati di Roma e la loro ubicazione. Nella lista, la zecca imperiale è localizzata a 400 m circa dall’Anfiteatro Flavio e retrostante il Ludus Magnus. Scavi archeologici, studi topografici e architettonici l’hanno riconosciuta in alcuni degli edifici sottostanti la basilica di S. Clemente: qui è stata ritrovata un’imponente costruzione contraddistinta da una particolare robustezza strutturale, che ben risponde alla condizione di sicurezza necessaria al luogo in cui una città come Roma doveva battere moneta. Il muro esterno, infatti, è realizzato in imponenti blocchi di tufo e nella parte riportata

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Roma, basilica di S. Clemente: una delle strutture sottostanti la chiesa che, per la poderosa costruzione e l’ubicazione, può essere interpretata come la zecca di Roma d’età imperiale. In basso Roma. Veduta del Tabularium (sul quale fu poi innalzato il Palazzo Senatorio) e delle colonne superstiti del tempio di Saturno. Entrambi gli edifici sono legati all’attività delle officine monetali e dell’erario dell’Urbe.

in luce dagli scavi mancano porte d’accesso. Il complesso, che subí diverse ristrutturazioni, rimase in uso sino al IV secolo, quando vi fu fondato il primitivo impianto della chiesa: si ignora dove allora venne trasferita la zecca. Ciò che ha contribuito a identificare con un elevato margine di sicurezza questo singolare luogo come officina monetale è il ritrovamento di un gruppo di iscrizioni negli immediati paraggi di S. Clemente, dedicate a varie divinità – Apollo, Ercole, Fortuna e Vittoria –, eseguite da funzionari e operai della Moneta e precisamente datate al 28 gennaio del 115 d.C., durante il regno di Traiano. La scoperta di queste dediche, avvenuta nel XV e nel XVI secolo, ha permesso di conoscere nomi e mansioni dei tecnici che qui prestavano la loro opera: partendo dai piú alti in grado, si è venuti a conoscenza di Felix e


Officina Monetae Aerarium Portico dorico Rampa interna

Albanus, liberti che svolgevano l’incarico di optio et exactor auri, argenti et aeris (sovraintendente e addetto al controllo dell’oro, dell’argento e del bronzo) e dello staff della Moneta Caesaris nostris, composto da schiavi e liberi ripartiti in signatores, suppostores, malliatores e officinatores.

Operai altamente specializzati Quali erano i compiti, anche molto specializzati, svolti da questi operai? I signatores, il cui nome deriva dal verbo signare (segnare, incidere, coniare), dovevano essere gli incisori dei conî, noti anche con il termine scalptores, tra i quali vi potevano essere veri e propri artisti della miniatura, capaci di rendere volti, statue e monumenti con estrema efficacia e accuratezza. È probabile che avessero a disposizione modelli, lenti e bulini che facilitavano il loro delicato incarico, sfociato in numerosi casi in capolavori dell’arte incisoria. I suppostores (da supponere, mettere sotto)

Planimetria dell’area centrale di Roma, con la zona del Campidoglio in evidenza. Con colori diversi sono distinte le strutture collegate alla produzione delle monete, secondo la ricostruzione proposta da Giovanni Ioppolo.

erano forse coloro che reggevano con le tenaglie i tondelli durante la coniazione, mentre i malliatores (da malleus, martello) sferravano con il martello il colpo che imprimeva il tipo sui conî nel tondello metallico. Gli officinatores erano infine operai generici destinati a compiti secondari. Il metallo veniva trasformato in tondelli in una specifica officina gestita dagli «appaltatori della fonderia monetaria» (conductores flaturae argentariae), che avevano al loro servizio i flaturarii, i fonditori che preparavano i tondelli, i probatores e gli aequatores, addetti alle leghe, alle dimensioni e al peso standard dei dischetti metallici, e la manovalanza ordinaria fornita dai mediastini (servi semplici). Vi erano poi i nummulari, dipendenti da un ufficio contabile, con funzioni di controllo della moneta prodotta e/o della lega nonché di cambiavalute. Il complesso delle maestranze, che doveva essere fidato, altamente specializzato e strutturato gerarchicamente, era chiamato familia monetaria o monetalis, come testimonia con dovizia la documentazione epigrafica. La familia era affidata ad alti funzionari imperiali di rango equestre che rivestivano la carica di procurator monetae (amministratore della zecca) e poi, a partire dal III secolo d.C., al procurator a rationibus o rationalis, incaricato dell’amministrazione dei beni imperiali e di notificare alle varie zecche la quantità di monete da produrre.

A destra frammento di un fregio architettonico raffigurante le oche sacre nel recinto del tempio di Giunone sul Campidoglio, che, secondo la tradizione, diedero l’allarme per l’arrivo dei Galli, dalla basilica del Foro di Ostia. II sec. a.C. Ostia, Museo Ostiense.

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STORIE DI MONETE

COME SI REALIZZA UNA MONETA/3

TRA L’INCUDINE E IL MARTELLO ATTRAVERSO UN’ATTIVITÀ MANUALE DI ESTREMA EFFICIENZA E PRECISIONE, GLI OPERAI SPECIALIZZATI DELLE ZECCHE PRODUCEVANO QUANTITÀ INGENTI DI MONETE. NON MANCANO, PERÒ, I CASI DI EMISSIONI IMPERFETTE, DOVUTE SOPRATTUTTO A TALUNI «INCIDENTI DI PERCORSO»

L’

enorme esigenza di denaro corrente per un impero come quello romano determinò la proliferazione, nel corso dei secoli, di officine autorizzate a battere moneta. L’ingente massa di metallo, prezioso e vile, a disposizione di coloro che gestivano e lavoravano nelle zecche, fisicamente isolati dal mondo esterno dalle possenti costruzioni in cui svolgevano la loro opera, rappresentava una tentazione per contraffazioni e furti, alla quale poteva essere difficile resistere. E proprio la zecca di Roma, con il suo impenetrabile edificio quasi «blindato», fu teatro di una cruenta vicenda, avvenuta nel 271 d.C., durante il regno di

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Aureliano. Le diverse fonti letterarie che ricordano l’episodio, tra cui l’Historia Augusta (Divus Aurelianus, XXXVIII, 2-3) e Aurelio Vittore (XXXV, 6), divergono in alcuni passi, per cui non è possibile stabilire con certezza i momenti e i moventi che portarono alla rivolta.

Le zecche sotto osservazione È però certo che Aureliano, una volta giunto al potere, si diede all’energica riorganizzazione del governo, ponendo sotto il proprio controllo anche le zecche, dove erano noti episodi relativi a falsificazioni di monete e/o appropriazioni indebite di metallo prezioso da parte delle maestranze. La prima a essere indagata fu la

Gli amorini al lavoro nel fregio della Casa dei Vettii, a Pompei. I sec. d.C. I due sulla destra battono moneta.


Riproduzione di un semisse di Paestum di Q. Laurea con bilancia e scena di coniazione. I sec. a.C.

zecca imperiale sul Celio, conosciuta per emettere all’epoca monete d’argento di scarso valore intrinseco e governata dal rationalis Felicissimo, altissimo funzionario di ordine equestre. L’azione riformatrice di Aureliano nei confronti dell’officina romana provocò la rivolta dei suoi addetti, i quali si asserragliarono nel suo munito interno, approfittando di un momento di debolezza dell’imperatore, appena insediato e impegnato in altre operazioni militari. Ma, come avviene spesso in questi casi, Aureliano mandò l’esercito a espugnare il fortilizio: l’operazione costò la vita a ben 7000 soldati, che soltanto a tal prezzo ebbero ragione dei rivoltosi. Considerato la mente della rivolta, Felicissimo venne giustiziato e con lui anche altri senatori accusati di aver cospirato contro il sovrano. Questo grave fatto, insieme all’alto numero di vittime (forse esagerato dalle fonti), induce ad adombrare come possibile causa della repressione non solo una pur possibile fraudolenza degli impiegati della zecca, ma anche il reato ben piú grave di lesa maestà, essendo stato proprio il Senato ad aver fatto battere, all’inizio del regno di Aureliano, una gran massa di monete con tipologie non gradite all’imperatore, perché ispirate al suo

predecessore, Claudio II il Gotico. Eliminati i senatori insubordinati e i loro complici, la zecca sul Celio fu chiusa e piú tardi, nel 274 d.C., Aureliano varò una serie di riforme radicali che ristrutturarono il sistema monetario allora in vigore, abolendo, tra l’altro, anche la distinzione di competenza tra emissioni imperiali e senatorie.

Dal tondello all’immagine Ma torniamo alla moneta come prodotto tecnologico, frutto dell’opera coordinata di diversi professionisti. Nelle pagine precedenti abbiamo visto come dal metallo fuso si realizzassero tondelli lisci di eguale peso, misura e metallo pertinenti a una determinata emissione e a distinti nominali. Separati i singoli pezzi, si doveva passare alla delicata fase della coniazione. Sebbene non vi siano testimonianze letterarie che ne descrivano specificamente il procedimento, è egualmente possibile ricostruirlo sulla base delle documentazioni iconografiche, epigrafiche e al fortunato ritrovamento di alcune attrezzature d’officina. Famoso è l’affresco che ornava un sofisticato ambiente della Casa dei Vettii a Pompei (63-79 d.C.) con la ricercata scena di amorini intenti al lavoro come monetieri, o, piú probabilmente, in veste di orafi.

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STORIE DI MONETE

Tra gli oggetti presenti nell’officina dovevano esservi, oltre ai tondelli, punzoni e forni vari, incudini, tenaglie e martelli, simboli per eccellenza della coniazione riprodotti sul famoso denario emesso dal monetiere T. Carisius nel 46 a.C. e su una stele marmorea di due liberti della gens Licinia, databile nella prima età augustea.

Strumenti di precisione Preliminare alla coniazione vera e propria era la preparazione dei conî, cioè degli stampi metallici a forma cilindrica o conica con un lato liscio per favorire la battitura e l’altro impresso con le immagini destinate alle monete. La qualità estetica di un pezzo dipendeva dall’abilità artistica dell’incisore, il quale, probabilmente, aveva a disposizione modelli ufficiali di varie grandezze che riproducevano l’immagine da realizzare come il profilo imperiale, figure di divinità, monumenti, oggetti simbolici; questi dovevano poi essere riportati in scala e adattati allo spazio disponibile sulle monete. Il tipo andava quindi inciso in negativo sul punzone, in modo tale

Ricostruzione delle attività svolte all’interno di una zecca con l’indicazione degli attrezzi necessari per le varie fasi della coniazione: 1. fornace per la fusione del metallo e il riscaldamento dei tondelli; 2. il metallo fuso è versato in stampi d’argilla con tondelli globulari; 3. tondelli pronti e incisore al lavoro; 4. tenaglie; 5. martello; 6. conio di martello; 7. conio d’incudine; 8. incudine.

da risultare in rilievo sulla moneta finita. L’incisore doveva servirsi di una strumentazione di precisione consistente in piccoli trapani, bulini, compassi e forse anche lenti, ottenute con vetri concavi o convessi; numerosi esemplari di monete e medaglioni dimostrano l’eccellenza raggiunta da questi maestri nella loro arte. Il conio – in latino chiamato forma, mentre il termine moderno deriva dal medievale cuneus con il quale si indicava lo stampo monetale – doveva essere eseguito su un metallo piú duro di quello del tondello, in modo tale da imprimersi sopra e da non spaccarsi sotto i colpi del martello durante la battitura. È probabile che i conî destinati a oro e argento fossero in bronzo, mentre quelli per il bronzo e altre leghe dovevano essere in ferro. Pochi sono gli esemplari giunti sino a noi, in quanto solitamente, terminata la produzione, rottisi o divenuti esausti per l’uso intenso, venivano o distrutti per porli al riparo da possibili furti, oppure dedicati a divinità, come quelli menzionati nel tesoro dell’opistodomo del Partenone e quelli riportati negli inventari del tempio di Apollo a Delo, databili rispettivamente nel IV e nel II secolo a.C.

L’importanza del calore I conî approntati per ogni moneta erano naturalmente due, uno per ogni faccia: quello convenzionalmente detto di «dritto» era incassato nell’incudine ed è perciò indicato anche come conio di incudine, mentre quello mobile, che veniva posizionato sull’altro lato del tondello, è chiamato di «rovescio» o di martello. Per ottenere un risultato ottimale era necessario tenere ben fermo il tondello e riscaldarlo preventivamente in modo tale da renderlo piú malleabile: tramite apposite tenaglie veniva prima posto sul fuoco e poi collocato sull’incudine. A questo punto, sistemato il tondello e i rispettivi conî, facendo attenzione a che questi ultimi non si spostassero, si procedeva alla battitura sferrando una poderosa martellata, che

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Ricostruzione grafica del procedimento di coniazione: il tondello di metallo, dopo essere stato riscaldato, viene collocato sull’incudine; su di esso si poggia il conio, la cui impronta si ottiene colpendolo con il martello; il pezzo ottenuto viene quindi rimosso con pinze e tenaglie, per essere poi rifinito.

necessitava di muscoli, braccio fermo e tiro preciso; la traumatica azione meccanica faceva sí che le due impronte in negativo dei conî si imprimessero nel tondello riscaldato, fissandovi in positivo i tipi previsti. A questo delicato lavoro partecipavano uno o due operai: nel primo caso un solo operaio inseriva il tondello nell’incassatura dell’incudine e poi batteva il conio con il martello, nel secondo, uno teneva il tondello fermo con le tenaglie e l’altro assestava la martellata. La buona riuscita delle emissioni dipendeva dalla professionalità degli addetti alla battitura; a volte però, per fretta o scarsa accuratezza, il processo di coniazione non riusciva perfettamente e dunque doveva ripetersi una seconda volta.

Punzone per la coniazione di tetradrammi in argento ateniesi, con l’immagine della civetta. VI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

specialmente sui denari repubblicani, esemplari con il dritto impresso sia in positivo che in negativo sulle due facce della moneta. Ciò avveniva quando la moneta rimaneva attaccata al conio di martello e l’operaio si dimenticava di toglierla, imprimendo in incavo l’immagine del dritto su un nuovo esemplare, cosí contraddistinto da due figure eguali. Fermo restando che la maggior parte della produzione antica si mantiene su standard qualitativi elevati, per eliminare gli inconvenienti tecnici connessi alla coniazione manuale bisognerà aspettare la fine del XVI secolo e gli inizi del successivo, quando l’esperienza tecnica maturata in secoli di emissioni porterà all’invenzione di prototipi meccanici destinati alla fabbricazione in serie su vastissima scala.

Incidenti di percorso Spesso si decideva di mettere in circolazione anche esemplari mal riusciti ma comunque identificabili. Molti di essi sono giunti sino a noi e abbiamo quindi una ricca serie di monete contraddistinte da varie imperfezioni, come il tipo decentrato, quando il conio di martello non è stato posizionato bene sul tondello; oppure monete con un tipico effetto «mosso» dell’immagine, dovuto allo slittamento del conio durante la battitura; ancora, doppie battiture causate dal ripetersi del colpo di martello dopo un primo colpo male assestato; infine si possono ritrovare,

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STORIE DI MONETE

UNA LUPA DAVVERO SPECIALE IL DIBATTITO SULLE ORIGINI DEL BRONZO CAPITOLINO TROVA UN IMPORTANTE ELEMENTO DI CONFRONTO NELLA DOCUMENTAZIONE MONETALE. CHE, ANCORA UNA VOLTA, RIBADISCE IL RUOLO CENTRALE DELLA NUMISMATICA COME FEDELE FONTE DEI MODELLI ICONOGRAFICI IN USO NEL MONDO ANTICO

È

stato detto che il problema dell’uomo contemporaneo non è quello di non credere piú a nulla, bensí quello di credere a tutto. E ancor meglio quando il «tutto» proposto si distacca da un ragionamento fondato su sperimentati criteri di correttezza scientifica e viene dato aprioristicamente per buono, in specie se affermato in maniera sensazionalistica e facilmente visibile su mezzi di comunicazione di massa, primi tra tutti televisione e quotidiani. Ecco cosí piramidi erette da civiltà extraterrestri, il ritrovamento della tomba di Gesú e dei suoi figli, scoperte di Vangeli negletti, origini dei nativi americani rintracciate nelle tribú israelitiche, codici misteriosi, Dante che scrive ispirato da stupefacenti, Templari magici, la platonica Atlantide identificata con i luoghi piú disparati in Africa, in Spagna, in Scozia, Scandinavia e, piú di recente, localizzata finanche in Sardegna. Fermo restando che queste operazioni di clamore mediatico hanno solitamente ben poco di scientifico e nascondono fini non sempre immediatamente percettibili, il loro impatto sulla «gente» è comunque forte, in particolar modo se si rivolgono a monumenti o temi celeberrimi. Sotto i riflettori si è trovata in anni recenti la Lupa Capitolina, il simbolo piú noto e l’immagine stessa dell’antica gloria romana,

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che da secoli fa bella mostra di sé in Campidoglio. Un eccellente intervento di restauro e la connessa proposta di datare l’opera bronzea in età carolingia hanno risvegliato l’attenzione sull’antico capolavoro, che a lungo ha «sonnecchiato», alquanto negletto dal dibattito scientifico.

Un animale arcaico Dato che finora la produzione scultorea in bronzo e marmo dell’VIII secolo non permette confronti assimilabili alla Lupa e che i procedimenti tecnologici con cui è stata realizzata l’opera sono compatibili con quelli in uso all’epoca in cui essa è tradizionalmente collocata, cioè il V secolo a.C., chi scrive considera la Lupa Capitolina – come la maggior parte degli studiosi – un capolavoro intriso di profonda sensibilità naturalistica

In alto, a sinistra la lupa con Romolo e Remo sul rovescio di un didramma romano-campano. 269-265 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo, Medagliere. In alto, a destra rovescio di un denario di Sesto P. Fostulo, con il ritrovamento di Romolo e Remo. 135-126 a.C.


creato intorno al 490-470 a.C. Soltanto al concludersi del XV secolo vi vennero aggiunti i gemelli, trasformando definitivamente la statua nel mitico animale che tanta parte ebbe nella fondazione di Roma.

Il mito delle origini Un interessante contributo alla ricostruzione dell’iconografia della lupa quale amorevole nutrice dei due divini gemelli, Romolo e Remo – che non possiamo identificare con certezza nel bronzo capitolino –, viene dalla numismatica. Infatti, fin dalle sue primissime emissioni romano-campane, Roma scelse il mito delle origini della città come tipo del rovescio, segno emblematico della nascita stessa dell’Urbe e della sua gloria, presente e futura. L’iconografia monetale, perdurata nel corso dell’età imperiale, riproponeva, sintetizzandoli nello spazio offerto dal tondello

Denario in argento di P. Satrienus. 77-74 a.C. Collezione privata. Qui la lupa non ha il consueto aspetto «materno», ma un atteggiamento aggressivo, espresso dalla zampa pronta all’attacco e le orecchie rivolte in avanti.

metallico, i monumenti che celebravano questo evento, diffusi per ogni dove a Roma – pensiamo solo a uno dei pannelli dell’Ara Pacis – e poi in tutto l’impero, di cui ci resta ampia testimonianza archeologica; Tito Livio (X, 23, 11) ricorda la presenza di un gruppo statuario composto dalla lupa e i gemelli presso il Fico Ruminale, collocato dagli edili Gneo e Quinto Ogulnio nel 269 a.C. Il sacro episodio è attestato anche su oggetti di tipo privato come sarcofagi, rilievi e vasi, prescelto per ribadire la romanità di chi lo adottava.

Il picchio e il pastore Lupa e gemelli appaiono piú volte sulle monete repubblicane d’argento, sia come tipo principale che associato alla prora del rovescio; anche i magistrati preposti alle emissioni lo riproposero sui propri denari. Cosí fece Sextus P. Fostulus, il quale, tra il 133 e il 126 a.C.,

La Lupa Capitolina. Il celebre bronzo etrusco si data al V sec. a.C. Roma, Musei Capitolini. I gemelli sono frutto di un’aggiunta rinascimentale, eseguita forse dal Pollaiolo, artista fiorentino attivo nella seconda metà del XV sec.

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STORIE DI MONETE

appose nel ristretto campo monetale tutti gli elementi salienti del ritrovamento dei gemelli: il fico, con il picchio sacro a Marte su un ramo, presso cui si arenò la cesta con i figli di Rea Silvia, la lupa con i bimbi attaccati alle mammelle e il pastore Faustolo che scopre la scena. Quest’ultimo prese con sé gli infanti facendoli allattare dalla moglie che aveva perso da poco un figlio. I genitori adottivi diedero i nomi di Romolo e Remo rifacendosi alla parola latina ruma, che in una sua accezione attestata da Varrone significa anche mammella, con evidente riferimento alla buona lupa che li aveva salvati da morte certa. Il monetiere Fostulus scelse questo tipo come omaggio a Roma, esaltando nel contempo l’origine della propria gens come discendente dal pastore Faustolo.

Non sempre «materna» A volte la lupa compare da sola e con le mammelle rigonfie, come in un denario di P. Satrienus del 77-74 a.C., sul quale l’animale non è raffigurato secondo la consueta iconografia «materna», bensí in una posa decisamente irruente, come dimostrano la zampa pronta all’attacco e le orecchie rivolte in avanti. Lo stesso atteggiamento feroce si ritrova in una emidramma di Argo del III secolo a.C., con un lupo aggressivo. In questo caso la

Follis di Costantino. 333-335 d.C. Roma, Medagliere Capitolino. Al dritto, la testa di Roma e la leggenda URBS; al rovescio, la lupa che allatta i gemelli; le due stelle sottolineano la sacralità della scena. In basso, a sinistra la lupa con i gemelli su un sesterzio di Antonino Pio. 138-161 d.C. In basso, a destra uno scudo della Repubblica di Siena con la lupa e i gemelli. XVI sec. Padova, Museo Bottacin.

lupa è inquadrabile come immagine araldica e totemica, che ribadisce la forza bellicosa di una città che mira alla conquista e alla vittoria. Facendo un salto geografico, vale forse la pena di ricordare alcune emissioni della Britannia celtica, come gli stateri d’oro battuti dagli Iceni nel 65-45 a.C. e contraddistinti sul dritto da una testa irriconoscibile, solitamente identificata come d’Apollo (o piuttosto Eracle con la leontea?) e, sul rovescio, da una lupa astratta e stravolta, resa essenzialmente con linee e pallini, uno dei quali, posto sotto il ventre, potrebbe alludere, presupponendo un modello romano, ai divini gemelli. Con l’età imperiale il tipo monetale della lupa compare piú volte a partire da Nerone, redatto secondo modelli di varia complessità, che vanno dalla consueta figurazione a scene piú complesse, nelle quali sono rappresentate la dea Roma, la prua di una nave, la grotta, i Dioscuri. Su un quadrante di Traiano la lupa ritorna solitaria, in una posa che sembra quasi pronta all’attacco. Una figurazione semplice ed elegante è adottata su un aureo di Adriano emesso nel 125-128 d.C., nel quale l’animale abbassa le gambe anteriori per meglio sfamare i floridi gemelli.

Emissioni coloniali Va poi menzionato il caso di alcune emissioni coloniali battute ad Alessandria di Troade, situata a 20 km circa dall’antica Troia, in Asia Minore, fondata nel 310 a.C. e poi rifondata da Augusto con il nome di Colonia Alexandria Augusta Troas. La città conobbe grande sviluppo in età romana, in quanto considerata patria di Enea, progenitore della gens Iulia e di Romolo e Remo, quindi di Roma stessa: è facile immaginare il risalto dato dalla colonia all’evento e ai miti di fondazione che la avvicinavano all’Urbe, celebrati anche sulla monetazione locale. Molti esemplari della piena età imperiale (II-III secolo), come l’emissione civica con la testa di Tyche sul dritto,

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riportano infatti sul rovescio la fiera che si rivolge ai bimbi con attento sguardo di madre. Nel 248 Filippo l’Arabo celebrò il millenario della fondazione di Roma usando come tipi del rovescio vari animali e poi la lupa con i gemelli; Massenzio l’affiancò ai Dioscuri, altri divini patroni di Roma, e, infine, Costantino, pur avendo trasferito la capitale dell’impero a Costantinopoli, fece battere molteplici esemplari con la testa di Roma al rovescio e la lupa al dritto, come sugli antichi denari repubblicani.

L’allattamento di Romolo e Remo su una banconota da 5 lire della Banca Romana del 1872.

Etelberto II dell’East Anglia e Offa di Mercia, conclusasi con la vittoria di quest’ultimo. Entrambi i contendenti evocarono nella loro monetazione, resa secondo i locali canoni stilistici, la lupa romana, con la quale intendevano avvalorare ciascuno la propria legittimità al trono conteso. In età moderna, dopo la collocazione del gruppo della Lupa Capitolina nel Palazzo dei Conservatori a Roma, l’immagine viene riprodotta innumerevoli volte; ed è solo in epoca contemporanea che finalmente compare su una moneta italiana proprio la Lupa del Campidoglio, fedelmente riprodotta sul rovescio delle banconote da cinquanta lire emesse negli anni Trenta e dichiarate fuori corso dal 1950.

Legittimare la sovranità Caduto l’impero romano, l’iconografia della lupa, diffusa da secoli per ogni dove e sicuramente parte integrante dell’immaginario collettivo dell’epoca, fu riproposta, nella prima metà del VI secolo, dai dominatori ostrogoti – Teodorico e Atalarico –, che la scelsero per i pezzi da 40 e 20 nummi. La diffusione delle monete costantiniane con Urbs Roma e la lupa fu capillare, e il tipo continuò a esercitare un gran fascino quale simbolo di nobiltà e grandezza imperiale, tanto che lo si ritrova su alcune rarissime monete d’argento anglosassoni battute alla fine dell’VIII secolo, durante la guerra tra Particolare di un gruppo scultoreo in marmo raffigurante la personificazione del Tevere, realizzato per il santuario di Iside a Roma. Metà del II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Sotto il braccio destro, che tiene una cornucopia, compare la lupa che allatta i gemelli.

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STORIE DI MONETE

UNA MONETAZIONE MITICA/1

IL PIO ENEA L’ICONOGRAFIA MONETALE ROMANA CELEBRA SOVENTE LE LEGGENDARIE ORIGINI DELL’URBE. UN TEMA CHE MONETIERI REPUBBLICANI E IMPERATORI RIPROPOSERO NELLE LORO EMISSIONI Piccolo gruppo in terracotta con l’episodio della fuga da Troia di Enea, Anchise e Ascanio, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L

a lupa di Romolo e Remo, che abbiamo già incontrato piú volte, non è l’unico momento del mito delle origini a comparire sulle monete dell’Urbe. Sono infatti numerosi gli episodi legati alla nascita di Roma raffigurati nel campo monetale sia in età repubblicana, sia in quella imperiale. Enea e le origini della gens Iulia, la fondazione della città, avvenimenti legati alla fase regia e regolarmente attestati dalla letteratura antica, costituivano un patrimonio mitico, storico e religioso che apparteneva a ogni cittadino romano, piú o meno colto. Tali narrazioni circolavano sotto molteplici forme, da quelle letterarie a quelle trasmesse oralmente e tramite il culto, alle fonti iconografiche quali sculture, dipinti e decorazioni su oggetti di uso comune. Anche la moneta, per la sua natura di mezzo di scambio, si prestava appieno alla propagazione e alla circolazione su vasta scala delle immagini che la contraddistinguono, contribuendo alla diffusione delle tradizioni romane in patria e nelle regioni piú remote.

La guerra di Troia Ma iniziamo da quell’avvenimento epico che ebbe tra le sue conseguenze anche la nascita della città che avrebbe dominato il mondo: la guerra di Troia, momento culminante dell’epos greco. Caduta con l’inganno, la città è ormai preda del fuoco: Enea, nobile eroe troiano che Omero vuole caro agli dèi per la sua pietas, lealtà e coraggio, nonché Lekythos (bottiglia per profumi) policroma a fondo bianco con Enea e Anchise. Attribuita al Pittore di Brygos, 480-470 a.C. Gela, Museo Archeologico Regionale. Enea, con lancia, elmo e scudo, guida gli incerti passi di Anchise tenendolo con la destra per il polso.

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A destra, in alto rovescio di un denaro emesso per Giulio Cesare: Enea porta Anchise e i Penati in salvo da Troia. 47 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen, Muenzkabinett. A destra, in basso riproduzione ottocentesca del rovescio di un sesterzio di Antonino Pio, 140-145 d.C.

figlio di Anchise e Venere, la abbandona con il vecchio padre in spalla, il figlioletto Ascanio, il Palladio e il simulacro degli dèi Penati, lasciandovi la moglie Creusa, scomparsa per volontà divina. L’episodio venne illustrato di frequente nell’arte greca e in quella romana: Enea compariva in un celebre quadro di Parrasio, e la sua fuga da Troia fu dipinta su numerosissimi vasi attici, come l’hydria Vivenzio di Klepphrades (480 a.C. circa) conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, poi negli affreschi e in mosaici, su lucerne, statuine, forse anche a destinazione religiosa, e addirittura su elmi di gladiatori.

Una scena ricorrente Sappiamo poi dagli storiografi che nel Foro di Augusto a Roma vi erano le statue in bronzo degli antenati della gens Iulia e dei re di Alba Longa; tra questi vi era il gruppo familiare di Enea, sotto il quale erano iscritti i suoi titoli nobiliari e le vicende occorsegli. La gens Iulia e quindi anche Augusto, adottato da Cesare, rivendicava la discendenza da Venere attraverso il figlio di Enea Ascanio, chiamato Iulo (Ilos), e considerava come proprio luogo d’origine Alba Longa. La scena si incontra con frequenza nei codici virgiliani; e le preziose miniature che illustrano il manoscritto attribuito al Elmo in bronzo di un gladiatore Trace con la scena dell’Ilioupersis (Distruzione di Troia, poema epico), da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

fiorentino Apollonio di Giovanni (1415/17-1465) mostrano i personaggi calati nella realtà dell’epoca, abbigliati con i fastosi costumi nobiliari medicei. In età moderna innumerevoli artisti, da Tintoretto a Tiepolo, trassero ispirazione dal gruppo di Enea: celeberrima è la statua di Gian Lorenzo Bernini, conservata nella Galleria Borghese di Roma, dal sinuoso andamento a spirale che contraddistingue le grandi opere scultoree dedicate dal maestro all’antichità classica.

Nel nome di Venere Ancor prima della codificazione virgiliana nell’Eneide in età augustea, le immagini del mitico progenitore, figlio di Venere, dovevano essere ben presenti nel contesto sociale repubblicano: fu Giulio Cesare a riprodurre per primo, nelle sue emissioni, il gruppo in fuga da Troia. Si tratta di un denario emesso intorno al 48-46 a.C., in occasione della sconfitta di Pompeo a Farsalo, ottenuta in nome di Venus Victrix: sul dritto campeggia la bella testa di Venere sorridente, mentre sul rovescio compare la «famiglia» della dea, ovvero il suo amore terreno Anchise – il quale, non va dimenticato, discendeva da Zeus – e il figlio Enea con il Palladium troiano. Il ristretto campo monetale non permise probabilmente di aggiungere il piccolo Ascanio-Iulo; ma la sua doveva essere una assenza-presenza, in quanto intimamente associato al padre in tutte le vicende successive alla fuga da Troia.

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STORIE DI MONETE

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A destra gruppo statuario di Enea, Anchise e Ascanio in fuga da Troia, opera giovanile di Gian Lorenzo Bernini, alla cui realizzazione partecipò forse anche il padre dell’artista, Pietro. 1618-1619. Roma, Galleria Borghese. Nella pagina accanto la pietas di Enea nella versione affrescata da Raffaello nella Stanza dell’Incendio di Borgo, una delle quattro che portano il nome dell’artista ed erano parte dell’appartamento del Palazzo Pontificio scelto da Giulio II della Rovere come propria residenza e utilizzato anche dai suoi successori. Raffaello eseguí questo ciclo pittorico tra il 1514 e il 1517.

Cesare si serví certo di un modello iconografico diffuso non solamente a Roma e attestato – sebbene relativo ad altri protagonisti – anche sulle monete della città di Katane (Catania), in Sicilia, battute intorno alla fine del III secolo a.C.

La pietas dei fratelli catanesi Queste ultime si ispiravano all’esempio di pietà filiale dato dai fratelli catanesi Amphinomus e Anapias, i quali, sulle orme di Enea, durante un’eruzione dell’Etna mentre tutti fuggivano badando a salvare solamente i propri beni, presero invece in spalla i loro vecchi genitori. Mentre la lava stava per travolgerli, gli dèi, commossi, fecero sí che il fiume di fuoco si dividesse in due lingue che risparmiarono la famigliola. Da ciò i giovani ricevettero il soprannome di Pius e divennero un vanto della città, tanto da essere immortalati sulle monete cittadine. Questo racconto-modello venne adottato a Roma dal monetiere Marcus Herennius e poi da Sesto Pompeo: il primo propose nel 108-91 a.C. sui suoi denari la testa della Pietas al dritto e, al rovescio, un muscoloso personaggio che, in corsa, ne porta un altro sulle spalle, secondo uno schema confrontabile con quello della moneta di Cesare. Sesto Pompeo, in occasione del comando della flotta romana conferitogli dal Senato nel 43-40 a.C., celebrò l’evento con una emissione che aveva al dritto il ritratto del padre e al rovescio Nettuno tra i due fratelli catanesi, sottolineando attraverso il noto esempio di pietà filiale il proprio attaccamento al defunto genitore. In età imperiale l’immagine fu ripresa da Antonino Pio, che, nell’ambito delle celebrazioni dell’anniversario per i 900 anni di Roma, emise monete e ricchi medaglioni con le immagini avite legate all’origine della città: accanto alla lupa non poteva mancare il pio Enea con padre e figlio, suggerito dalle immagini che in quel periodo dovevano sicuramente ricorrere per ogni dove nella città.

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STORIE DI MONETE

UNA MONETAZIONE MITICA/2

MAIALINI E AMORI DIVINI NEL 147 D.C. ANTONINO PIO CELEBRÒ I NOVECENTO ANNI DALLA FONDAZIONE DI ROMA CON LUDI E FESTEGGIAMENTI, DI CUI RESTA ECO NELLA DOCUMENTAZIONE NUMISMATICA DELL’EPOCA

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olendo sintetizzare l’elemento precipuo del lungo regno di Antonino Pio (138-161 d.C.), si può dire che esso fu tutto improntato al concetto di pietas, tanto verso la propria famiglia e le divinità, quanto nell’amministrazione della cosa pubblica e nell’interesse dei cittadini. A ciò si affiancò un radicato rispetto delle tradizioni religiose avite, accompagnato dalla tolleranza verso altre fedi, come l’ebraismo e il cristianesimo, che invece, nel corso dell’età imperiale, furono a piú riprese represse e perseguitate. A livello propagandistico, tale politica configurò il periodo come una nuova età dell’oro, trovando naturalmente espressione nell’iconografia monetaria, contraddistinta da una ricca tipologia dedicata pressoché a tutte le divinità e le personificazioni del pantheon romano, nonché a immagini legate ai miti delle

Lastra marmorea raffigurante l’arrivo di Enea e Ascanio sulle coste del Lazio e la scoperta della scrofa con i maialini. Metà del II sec. d.C. Londra, British Museum.

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origini dell’Urbe. Ricorrendo nel 147 d.C. i novecento anni dalla nascita di Roma, l’imperatore ne celebrò degnamente la grandezza anche sulle monete. Antonino Pio raffigurò a piú riprese la lupa con Romolo e Remo, analogamente al suo predecessore Adriano, e il gruppo di Enea in fuga da Troia. Quest’ultimo tema, che ritroviamo anche sugli aurei nel periodo tra il 140 e il 144 d.C., ben si adattava all’imperatore che, come Enea, era stato onorato nel 138 d.C. del titolo di Pius, divenuto parte integrante del suo nome. Antonino, infatti, si era dimostrato


sotto una fronda, allatta i suoi piccoli, mentre sui medaglioni la scena si fa piú complessa, data la maggiore disponibilità di spazio a disposizione dell’incisore. Va poi ricordato che su alcuni denari di Vespasiano già campeggiava sul rovescio una scrofa imponente, ma priva dei porcellini.

Due versioni del racconto

Particolare di un olio su tela del francese Claude Gellée (1600-1682), noto con lo pseudonimo di Le Lorrain, raffigurante l’arrivo della nave che porta Enea sulle coste del Lazio. 1675. Cambridge, Anglesey Abbey. L’artista immagina l’eroe troiano ritto a prua, con un mantello scarlatto sulle spalle. A destra due medaglioni bronzei di Antonino Pio: in alto, lo sbarco di Enea e Ascanio, la scrofa entro la grotta e il Tempio di Vesta e dei Penati; in basso, la scrofa con i maialini circondata dalle mura di Lavinio, con Enea che porta Anchise sulle spalle. 139-143 d.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

degno di tale appellativo verso gli dèi, il padre adottivo Adriano, e Marco Aurelio, che aveva riconosciuto come figlio. E come dalla stirpe di Enea era disceso Romolo, fondatore di Roma, in modo analogo la dinastia antonina poteva proporsi come rifondatrice dell’impero.

Il sacrificio della scrofa Su monete e medaglioni l’imperatore volle celebrare anche un momento altamente significativo dell’epos virgiliano, cioè il ritrovamento da parte di Enea e Ascanio-Iulo della scrofa che allatta i trenta maialini (Eneide, III, 389-393 e VIII, 42-47 e 81-84). Come è noto, il troiano Eleno, dotato di vaticinio, e il dio Tevere predissero a Enea che sul luogo dove avesse trovato una grande, candida scrofa con i suoi maialini, lí sarebbe sorta la sua Troia novella; nel giro di trent’anni, poi, Ascanio avrebbe fondato una città, chiamata Alba Longa in ricordo del colore dell’animale, di cui sarebbe stato re, originando la stirpe romana (e la gens Iulia). Sbarcati sulla riva laziale e avveratasi la predizione, sul luogo della futura Lavinium tutta la famigliola suina fu immediatamente sacrificata a Giunone. Su alcuni assi battuti da Antonino Pio tra il 140 e il 143 d.C. si staglia sul rovescio, quale pars pro toto, la materna scrofa che,

Tra il 139 e il 143 d.C. furono realizzati due noti medaglioni con diverse redazioni del racconto virgiliano: in uno, piú articolato, campeggiano al centro i suini, sovrastati da Enea con Anchise tra un tempio circolare e un altare, e, in basso, le mura di una città. Il molteplice registro narrativo ha dato luogo a diverse interpretazioni moderne, che vedono la scena come una composizione di tipo ciclico formata da tre momenti distinti nel tempo: in alto è accennata la fuga di Enea da Troia, al centro il ritrovamento dell’animale che doveva indicare la fine delle peregrinazioni dell’eroe giunto alla costa laziale, e, in basso, la cinta muraria che allude infine alla fondazione di una (o due?) città, o la Lavinio di Enea o l’Alba Longa di Ascanio. Una seconda chiave di lettura interpreta invece l’immagine unitariamente, vedendo nella scrofa il simulacro bronzeo eretto entro le mura di Lavinium, con Enea e Anchise che si recano nel tempietto rotondo della città per depositare la teca con i Penati portati da Troia.

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STORIE DI MONETE

Comunque sia, appare evidente l’origine pittorica del modello, che poteva sintetizzare in un unico spazio vicende occorse al protagonista in tempi differenti, secondo una convenzione illustrativa, attestata anche in età moderna, che non doveva per nulla confondere l’osservatore antico. Un secondo pezzo, piú ordinario, emesso tra il 140 e il 143 d.C., propone il momento dello

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Incisione settecentesca che riproduce l’affresco perduto dalla volta del corridoio «delle aquile» della Domus Aurea con Rea Silvia, Marte, il Tevere e un pastorello.

sbarco del Troiano e suo figlio sulla costa dove trovano la scrofa; in questo caso il linguaggio grafico è narrativo e convenzionale, vera e propria vignetta che esplicita il passo corrispondente dell’Eneide. Della scena circolavano nel mondo romano redazioni in materiali diversi destinate a decorare oggetti e monumenti, pubblici e privati; tra questi, un preciso confronto al tipo monetale è offerto,


per esempio, da una lastra marmorea, oggi al British Museum di Londra, che ripete esattamente il tipo del conio.

Un amore proibito L’Eneide virgiliana non fu l’unica opera a cui gli incisori di Antonino Pio attinsero per le monete celebranti Roma; i complessi e numerosi miti di fondazione attestati dalle fonti letterarie riguardavano altri eventi basilari, come quello scaturito dall’incontro amoroso tra Marte e Rea Silvia, che comportò la nascita di Romolo e Remo. La storia della vergine regale obbligata a farsi vestale è nota a tutti e vale solo accennarla, anche se, non va dimenticato, circolavano a Roma diverse versioni della sua vicenda. Rea Silvia, discendente da Enea da parte del padre Numitore, re di Alba, viene costretta a consacrarsi a Vesta dallo zio Amulio, usurpatore del trono, che sperava in tal modo di impedire una pericolosa discendenza reale legittima. Amata segretamente da Marte e scoperta incinta, venne dapprima condannata a morte, ma fu poi risparmiata e i due gemelli partoriti furono segretamente affidati alle acque del Tevere. La vicenda si concluse con la nascita di Roma. La rappresentazione del momento idilliaco dell’unione tra il dio e la vestale ottenne vivo successo da parte della committenza romana, e lo ritroviamo su affreschi, mosaici, sarcofagi, altari, gemme e monete. I conî antonini ripropongono l’ambiente silvestre con Rea Silvia semiaddormentata e discinta appoggiata a una pietra, mentre Marte, dopo averla scorta dall’alto, le vola incontro. È interessante notare come questa figurazione compaia anche sui medaglioni dedicati da Antonino Pio alla Diva Faustina, l’amata Gruppo marmoreo raffigurante la scrofa con i maialini, dal Viminale. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

In alto frammento di un sarcofago con un rilievo raffigurante Amulio e Rea Silvia al cospetto del Tevere, da Palazzo Mattei (Roma). III sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cortile Ottagono.

moglie defunta nel 140 d.C. circa. Tale iconografia doveva infatti rivestire una connotazione non solo amorosa e, per cosí dire, «patriottica», ma anche funeraria, dato che fu spesso prescelta per la decorazione di sarcofagi marmorei, seguendo una simbologia non immediatamente percettibile a noi moderni e che alcuni studi hanno riconnesso al rapporto Rea Silvia-Marte-eternità di Roma e da qui alla speranza di una vita eterna per i defunti. Piú complesso è il tipo adottato sulla moneta d’argento battuta da Massenzio tra il 308 e il 312 d.C., nella quale compare Marte affiancato da una fanciulla – interpretata anche come la personificazione di Roma o dell’Italia – e tra loro la lupa con i gemelli, efficace sintesi iconografica del mito delle origini, che mirava ad avallare altresí, tramite il richiamo alle tradizioni avite, la pretesa al trono imperiale di Massenzio, presto annientata dalla vittoria di Costantino al Ponte Milvio.

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STORIE DI MONETE

LE SABINE, LA MISTERIOSA TARPEA E LE ORIGINI DI ROMA GLI SCONTRI TRA LA CITTÀ DI ROMOLO E I VICINI SABINI, CONCLUSISI CON LA VITTORIA DELL’URBE, VIDERO SPESSO PROTAGONISTE LE DONNE, RICORDATE IN VARIE EMISSIONI DELLA FINE DEL I SECOLO A.C.

L’

epos omerico e poi quello virgiliano costituiscono un ciclo mitostorico comune, che avvicinava Greci e Romani riguardo la fondazione di Roma; esisteva poi un patrimonio leggendario propriamente romano, incentrato sulle vicende successive alla creazione della città da parte di Romolo. Queste narrazioni piú antiche, imperniate sul mito delle origini e tramandate da molteplici fonti letterarie, si concludono con la scomparsa-morte di Romolo e la sua trasformazione in divinità con il nome di Quirinus. Appena innalzata, Roma si manifestò come una potenza aggressiva e conscia della forza e spregiudicatezza della sua popolazione, prevalentemente maschile e spesso di incerta origine. La mancanza di donne, richieste alle popolazioni vicine e da queste non concesse, indusse Romolo a prendere con la forza ciò che riteneva necessario per completare la sua opera di fondatore. È Tito Livio a narrare nella sua Storia di Roma (I, 13) lo stratagemma ideato da Romolo per rifornire di donne la nuova città. Il condottiero convogliò in gran massa i popoli vicini, insieme alle rispettive famiglie, a Roma con la scusa di uno spettacolo solenne e, approfittando della loro buona fede e violata ogni sacra legge sull’ospitalità, ne fece rapire le donne, e in particolare le belle Sabine. La storia è nota, e la cronaca liviana nobilita il gesto abbietto, sottolineando che alle donne fu

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subito assegnata dignità di spose e condivisione dei beni. Ma i Sabini, sdegnati per l’affronto subito e intesi a riscattare il proprio onore, attaccarono Roma guidati dal loro re Tito Tazio; giunti allo scontro finale, le donne rapite, ormai stabilizzate nel loro ruolo di mogli e madri felici e implorando i contendenti di non versare il sangue dei parenti dei loro figli, riuscirono a porre fine alla guerra. Fece allora seguito un’alleanza, e Tazio fu associato al regno da Romolo, unendo cosí le due etnie. Nella ricca tipologia monetaria romana – e segnatamente repubblicana –, l’episodio del ratto fu scelto solo da un monetiere di evidente origine sabina, L. Titurius Sabinus, che, nell’89 a.C., effigiò sui propri denari la testa regale di Tito Tazio al dritto e, al rovescio, due soldati che rapiscono due donne. L’efficacia e il senso di movimento richiesto all’immagine, resa secondo il concetto della pars pro toto, sono affidati alle due coppie e all’atteggiamento delle fanciulle, trasportate di forza dagli uomini, mentre cercano di divincolarsi e le loro vesti svolazzano nell’impeto della fuga.

Il valore politico dell’emissione Con questa emissione il nostro magistrato, forse padre del Quinto Titurio Sabino che fu ufficiale sotto Giulio Cesare nella guerre galliche, intendeva celebrare la regia antichità della propria gens, la Tituria, come discendente diretta dal re sabino Tito Tazio


Le Sabine, olio su tela di JacquesLouis David. 1799. Parigi, Museo del Louvre. Al centro è la sabina Ersilia, che cerca di fermare lo scontro tra Romani e Sabini, e alla cui vista Romolo, che l’aveva sposata, sospende in aria la lancia.

riprodotto sul dritto, e la vetusta origine dal ceppo sabino. La scelta del tipo sul rovescio, pur riproponendo il momento del ratto e dunque un episodio di grave prevaricazione perpetrato da Roma, sottintendeva nello stesso tempo anche le benefiche conseguenze del misfatto, che apportò linfa vitale alla città e condusse all’alleanza e alla fusione tra Romani e Sabini. La scelta di ricordare tale episodio sulle monete aveva poi uno specifico significato anche sul piano politico, considerando la temperie storica che le vide immesse sul mercato nel corso della guerra sociale, combattuta tra il 91 e l’88 a.C. dai Romani contro alcune popolazioni italiche e conclusasi con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici.

Il denario di Titurius Sabinus, datato all’89 a.C., sembra infatti alludere al prodromo della pacificazione tra Romani e Italici, nell’ambito di alcuni provvedimenti – le leggi Iulia, Plautia Papiria e Pompeia – miranti a migliorare le condizioni di larga parte degli alleati italici. È facile quindi comprendere come il fatto brutale del ratto e la successiva alleanza ben si accordassero alle lotte ancora una volta in corso tra i Romani e quelle popolazioni che desideravano vedersi riconosciuta, insieme ai propri diritti sociali, la cittadinanza romana.

Fu vero tradimento? Un secondo episodio della guerra romanosabina riprodotto nelle monete è la vicenda di Tarpea o Tarpeia, scelto sempre da L. Titurius Sabinus e databile nello stesso anno

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IL RE E L’EROINA

Denario di L. Titurius Sabinus. 89 a.C. Al dritto, testa del re sabino Tito Tazio; al rovescio, l’uccisione di Tarpea. Dalla sua vicenda, e, in particolare, dalla sua sepoltura presso il Campidoglio prende nome la rupe dalla quale si facevano precipitare coloro che s’erano macchiati di tradimento.

dell’emissione precedente, e da un denario di un culto annuale. In seguito, essendo stata battuto, circa 70 anni dopo, dal monetiere P. votata quell’area del Campidoglio Petronius Turpilianus, del 19 a.C. circa, a nome all’edificazione del tempio di Giove, il sepolcro di Augusto. La giovane Tarpea, figlia di Spurio fu trasferito, mentre il nome Tarpea rimase Tarpeo, a cui Romolo aveva assegnato la come toponimo, indicando la rupe da cui custodia della roccaforte capitolina, bramando venivano precipitati i traditori. l’oro dei Sabini, propose ai nemici di farli La vicenda di Tarpea si è sempre prestata, da entrare di nascosto nella città, chiedendo come parte dell’esegesi moderna, a complesse prezzo del suo tradimento ciò che essi interpretazioni, basate essenzialmente portavano sulle braccia, intendendo i gioielli di sull’apparente incongruenza che vede una cui si fregiavano anche in battaglia. Aperta la traditrice della patria ricevere un culto, dare il porta del colle, Tarpea fu ripagata con la morte, suo nome a una località del piú sacro colle ottenendo ciò che essi portavano al braccio: romano ed essere riprodotta in un simulacro, non i preziosi, ma gli scudi, che le furono perduto, a cui sembrano alludere le fonti scagliati addosso sino a ucciderla. antiche. Le uniche iconografie di Tarpea giunte La letteratura latina ha tramandato varie sino a noi, consistono in un frammento di versioni della vicenda di Tarpea, vista a volte fregio dalla basilica Emilia di età augustea e dai come traditrice per bramosia dell’oro sabino richiesto come COME UNA DIVINITÀ prezzo del tradimento, oppure Moneta di P. Petronius Turpilianus, come fanciulla romantica che, battuta intorno al 19 a.C. sedotta dal re Tito Tazio, gli aprí Vi compare Tarpea scapigliata che emerge, l’accesso al Campidoglio venendo simile a una divinità ctonia e levando in alto le braccia, da una pila di scudi. ripagata con la morte, e ancora, La loro forma ricorda quella degli come eroina patriottica che, scudi sacri, detti ancilia, affidati al fingendosi traditrice, avrebbe in sodalizio sacerdotale dei Salii, la cui realtà cercato di disarmare i azione si svolgeva in alcune giornate Sabini, ma scoperto il suo trucco del mese di marzo e in ottobre. Il culto saliare di marzo consisteva in fu da questi uccisa, schiacciata una processione in vari luoghi della sotto i loro scudi. città e prevedeva anche che, vestiti di Comunque sia andata, la un costume guerresco e forniti dei tradizione ricorda una sua sacri scudi, i Salii eseguissero danze di sepoltura in un luogo ignoto guerra al canto di inni e di litanie. presso la rupe capitolina, oggetto

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IL FATIDICO RAPIMENTO

Rovescio del denario di Titurio Sabino: due Romani rapiscono due Sabine. 89 a.C. Tito Livio incluse l’episodio del «ratto» nella sua Storia di Roma. Eccone un brano: «Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo (...) scoppiò un tumulto e la gioventú romana, a un preciso segnale, si mise a correre all’impazzata per rapire le ragazze. Molte finivano nelle mani del primo in cui si imbattevano: quelle che spiccavano sulle altre per bellezza, destinate ai senatori piú insigni, venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel compito».

due conî monetali già ricordati. Il denario di L. Titurius Sabinus è contraddistinto dalla testa di Tito Tazio, re dei Sabini, e al rovescio da Tarpea, inginocchiata e con i capelli al vento, sulla quale incombono due uomini che le gettano addosso gli scudi; in alto campeggiano un crescente lunare e una stella. Sul dritto di alcuni esemplari compare la sigla «APV», da sciogliersi in argento publico («con argento pubblico»), che permette di riconoscere l’emissione come speciale, effettuata con il metallo prezioso prelevato dal pubblico tesoro in un momento critico che la datazione del pezzo all’89 a.C. identifica, ancora una volta, con gli eventi legati alla guerra sociale. Il tipo monetale, sebbene «violento» come quello del ratto delle Sabine, si rifaceva all’idea di un accordo e alla pace, risoluzione auspicata per lo stato di belligeranza con le genti italiche.

Scudi celesti La moneta di P. Petronius Turpilianus presenta un’immagine diversa, con Tarpeia scapigliata che emerge, simile a una divinità ctonia e levando in alto le braccia, da una pila di scudi. Questi ultimi, elemento pregnante della drammatica vicenda, presentano una forma alquanto arcaica ed evidente nei denari di Titurio Sabino, denominata «bilobata» o «a otto», che ricorda quella, antichissima, degli

scudi sacri detti ancilia. Durante il regno di Numa Pompilio, infatti, nel corso di una processione per scongiurare una pestilenza, cadde dal cielo uno scudo di questa foggia; gli aruspici asserirono allora che fino a quando Roma avesse posseduto lo scudo celeste, avrebbe regnato sul mondo. Numa, previdente, ne fece fare undici simili e ne affidò la custodia al collegio dei sacerdoti Salii, che li esibivano due volte all’anno, a marzo e a ottobre, in solenne cerimonia. Questi scudi, da annoverarsi tra i sacri oggetti di Roma, compaiono sulle monete in due occasioni: nelle emissioni del monetiere augusteo P. Stolo della gens Licinia, che li effigia insieme all’elmo indossato dai Salii, e negli assi di Antonino Pio, dove campeggiano insieme al loro nome. Tutto ciò che ricorre nell’iconografia di Tarpea presenta quindi un sapore di vetusta antichità e di tradizioni arcaiche, forse in parte già dimenticate dai Romani di età repubblicana; recenti studi hanno infatti voluto ravvisare nella figura di Tarpea quella di una importante divinità di remota origine greca, il cui culto arrivò a Roma stanziandosi sul colle capitolino; perduto nel corso dei secoli il suo originario contesto, la storiografia ne tramandò la vicenda in diverse redazioni, di cui resta attestazione iconografica pressoché esclusiva, come spesso accade, sui conî monetali.

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STORIE DI MONETE

QUASI UN’ANTOLOGIA LA MONETAZIONE REPUBBLICANA È RICCA DI IMMAGINI ISPIRATE DA IMPORTANTI EPISODI STORICI CONTEMPORANEI, TUTTI DILIGENTEMENTE SINTETIZZATI NEL PICCOLO CAMPO DEL TONDELLO

A

ccanto ai tipi monetali incentrati sulla storia mitica di Roma, percepita come avvenuta benché antichissima, molti denari repubblicani esaltano eventi reali e ben piú vicini ai tempi in cui le emissioni videro la luce. Non mancano infatti sui conî temi celebranti fatti e personaggi coevi, pur restando fermo il divieto di effigiare sulle monete il ritratto riconoscibile di uomini viventi, in vigore sino agli inizi del 44 a.C., quando Cesare ottenne dal Senato l’onore, mai concesso prima, di apporre il proprio volto sui denari. Gli episodi prescelti sono di regola pertinenti al magistrato che batteva moneta e si tratta di momenti significativi per la gens del monetiere, cosí come per la città e per la politica «estera» di Roma. E per rendere assolutamente identificabile ciò che veniva presentato – mantenendo quindi appieno l’intento celebrativo affidato all’immagine – veniva in ausilio l’iscrizione, senza la quale poteva

Statere detto «oro del giuramento». III sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico.

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In basso, sulle due pagine pittura parietale raffigurante un corteo composto da cavalieri e guerrieri, dalla tomba Weege 30 di Nola. Produzione osco-sannita, 330 a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. È stato osservato che armi e abiti coincidono con quelli descritti da Tito Livio a proposito dell’esercito sannita.

risultare assai arduo individuare il significato del soggetto riprodotto sulla moneta stessa.

L’oro del giuramento Oltre a tali tipologie, le monete potevano commemorare evenienze particolari e contingenti, usando a tal fine immagini stereotipate facilmente identificabili da parte dei fruitori dell’epoca. È questo il caso, per esempio, degli splendidi stateri noti come «oro del giuramento», i primi a essere coniati nel prezioso metallo, riferiti di norma alla serie modernamente denominata «romano-


campana», perché battuta a nome di Roma tra la fine del IV e l’ultimo quarto del III secolo a.C. in zecche dislocate perlopiú in Campania, secondo un sistema ponderale di tipo greco e con un repertorio stilistico complessivamente non romano. Lo statere presenta sul dritto una testa giovanile bifronte, forse riferibile ai Dioscuri, e, al rovescio, due soldati differentemente abbigliati, che puntano le spade su un porcellino sacrificale sorretto da un uomo, secondo l’antico rituale italico destinato a sancire un giuramento e a commemorare un trattato seguito a una vittoria, in questo caso romana, come esplica la leggenda ROMA in esergo. La preziosa rarità dello statere, la complessità dell’immagine alludente a un fatto realmente accaduto e il contesto cronologico inquadrabile nel III secolo a.C., hanno portato il moderno dibattito scientifico a interrogarsi sull’identificazione dell’evento storico

commemorato. Vari studi hanno dapprima voluto riconoscervi la celebrazione della vittoria romana a Sentinum (oggi Sassoferrato, nelle Marche), conseguita nel 295 a.C. nel corso della terza guerra sannitica su una coalizione di Italici e Galli Senoni, poi ratificata con un giuramento di fedeltà e immortalata, come in un dipinto commemorativo, in questa moneta d’oro emessa a nome di Roma nel 290 a.C.

Fatti reali o allusioni generiche? Interpretazioni successive vi hanno visto invece il richiamo alla fedeltà degli alleati italici all’Urbe durante la seconda guerra punica, datandolo poco prima della battaglia di Canne del 216 a.C., o ancora una generica allusione alle vittorie romane ottenute all’epoca nel Lazio e nella Campania e ai trattati che vi avevano fatto seguito. Come abbiamo piú volte ricordato, i magistrati monetari usarono in abbondanza temi mitici e storici esaltanti imprese familiari, tra cui anche provvedimenti giuridici che incontrarono largo favore popolare e percepiti come degni di essere commemorati, come l’elargizione del grano in momenti di penuria alimentare. Un denario di Tiberio Minucio Augurino datato al 134 a.C. riporta infatti, sul rovescio, una scena complessa, in cui risalta una colonna sormontata dalla statua di un uomo, affiancata da due spighe e da due personaggi che rendono onore al monumento. La leggenda e le testimonianze di Livio (IV, 16, 2-4) e Plinio (Naturalis historia, XVIII, 15 e XXXIV, 21) hanno permesso di riconoscere in questo tipo la bronzea columna Minucia, innalzata fuori la Porta Trigemina, tra l’Aventino e il Tevere, in onore dell’avo del monetiere, Lucio Minucio, prefetto dell’Annona nel 439 a.C. In un difficile frangente politico non privo di tumulti popolari e peggiorato anche da una carestia, costui provvide alla distribuzione di grano al modico prezzo di un asse al moggio. L’evento ebbe rilevanza tale che al magistrato fu dedicata una statua che lo ritraeva, posta su una colonna, ricordata ancora sulle monete del suo discendente a distanza di circa trecento anni.

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STORIE DI MONETE

GRANO PER TUTTI

A destra, in alto denario dei questori Piso e Cepio. 103-100 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano. A destra, in basso rovescio del denario di Tiberio Minucio Augurino raffigurante una colonna sormontata dalla statua di Lucio Minucio Augurino, con due spighe ai lati e due membri della gens Minucia. Zecca di Roma, 135 a.C. Qui sotto rilievo raffigurante un fascio di spighe. Età imperiale. Mérida, Museo Nacional de Arte Romano.

Resta nel campo delle largizioni granarie anche il famoso denario dei questori L. Calpurnio Piso e Q. Servilio Cepio, la prima moneta nella storia di Roma a riferirsi nell’immagine agli stessi magistrati preposti all’emissione. Il primo personaggio era competente per l’approvvigionamento urbano, mentre il secondo presiedeva tra l’altro l’erario statale. I due si trovarono associati in un momento di crisi del sistema di rifornimento dell’Urbe, ricordato anche dalle fonti letterarie, nel corso del quale il Senato autorizzò l’acquisto di un quantitativo supplementare di grano, sostenuto finanziariamente da riserve preziose

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prelevate dal pubblico erario. L’emissione fu battuta a Roma tra il 103 e il 100 a.C., in un momento di forti contrasti tra opposte fazioni politiche. I populares legati a Mario avevano infatti sostenuto alcune leggi frumentarie presentate da un proprio uomo di fiducia, Lucio Appuleio Saturnino, con l’intento di raccogliere il favore della plebe; l’oligarchia senatoria osteggiò fortemente tale progetto, promuovendo iniziative analoghe – come quella ricordata nella nostra emissione –, in una lotta senza esclusione di colpi, compreso il ricorso all’omicidio politico. Nei denari di Piso e Cepio il dritto è riservato alla testa di Saturno, nel cui tempio era conservato l’erario di Roma, mentre sul rovescio figurano i due questori – per inciso, del tutto irriconoscibili e quindi indicati solo

Nella pagina accanto, in alto veduta del Foro Romano. Al centro, le colonne superstiti del grandioso tempio di Saturno, la cui prima fondazione risale forse addirittura all’età regia. Al luogo di culto era collegato l’edificio che ospitava l’erario dell’Urbe. Nella pagina accanto, al centro aureo di Caius Caesar e del pretore Aulus Hirtius, con la testa di dea velata, forse Vesta, dai duri tratti virili. 46 a.C. La resa androgina della divinità era in realtà uno stratagemma, attuato per aggirare il divieto di riprodurre immagini riconoscibili di personaggi viventi. E che, in questo caso, si tratti di Giulio Cesare, è confermato dal rovescio della moneta, sul quale compaiono il lituus, la brocca e la scure, cioè i simboli dell’ufficio di augure e di pontifex, rivestiti dal dittatore.


con una figura-tipo – seduti sul subsellium e con due spighe ai lati. La leggenda Ad fru(mentum) emu(ndum) ex S(enato) C(onsulto) («per l’acquisto di frumento su deliberazione del Senato»), ben esplica il fine della emissione straordinaria e a chi andava il merito di averla decretata. A volte, però, bastava delineare un semplice profilo per esprimere un intero programma politico. Gli aurei battuti da Cesare e dal suo IL CORDOGLIO fedele pretore Aulo Irzio DEL TRIUMVIRO nel 46 a.C., costituiscono Denario fatto battere da Sepullius un esempio palese di Macer per Marco Antonio. Zecca aggiramento delle norme itinerante, 42 a.C. Al dritto, il ritratto del triumviro caratterizzato che impedivano di dalla corta barba, simbolo di lutto celebrare sulle monete il per la morte di Giulio Cesare. ritratto di un vivente. Già All’indomani delle Idi di marzo, fu soltanto l’idea che Marco Antonio a dare lettura dei qualcuno pensasse di legati che Cesare aveva disposto commettere tale alterigia a favore del popolo romano. era considerata una deliberata pretesa di onori divini, tipica dei passati monarchi abominati dall’ultima repubblica, pretesa di cui spesso fu accusato Cesare negli ultimi tempi della sua vita. I cesariani, nell’ambito della politica di esaltazione personale del loro condottiero, tentarono comunque di

eludere questo divieto su speciali – e circoscritte – emissioni in oro, battute in occasione degli splendidi festeggiamenti tributatigli quale trionfatore in Gallia, nel Ponto e in Africa. Il dritto di questi aurei reca infatti il consueto volto velato di una divinità femminile, probabilmente Vesta; ma su alcuni esemplari è possibile riconoscere, seppure celati sotto l’aspetto divino, i tratti marcati e virili di Cesare, cosí come allude al dittatore la corona d’alloro che spunta sulla fronte da sotto il velo che copre il capo.

Barba corta per il lutto Il sotterfugio non portò comunque fortuna a Cesare, che poco dopo la concessione del diritto di effigie dell’inizio del 44 a.C., fu ucciso alle Idi di marzo. Ma era stata aperta la strada a una nuova forma di propaganda politica chiara, immediata e ad ampio spettro. Sono cosí giunti sino a noi i profili, quasi fotografici, di tutti i maggiori protagonisti delle travagliate vicende politiche immediatamente precedenti il principato, i cui tratti corrispondono vigorosamente alle personalità che le fonti scritte ci hanno tramandato, in maniera piú o meno faziosa. Fra i tanti esempi possibili, troviamo Marco Antonio, il quale esprime il cordoglio e la sua furia vendicatrice per la morte di Cesare – nonostante le accuse rivoltegli dall’acerrimo nemico Cicerone, di aver anche lui partecipato all’omicidio – facendosi ritrarre sul dritto di un denario con la corta barba scomposta portata dai Romani durante il lutto di un proprio caro. In tal modo il triumviro manifestava, con il solo accenno di una rada peluria sul profilo volitivo, il proprio pensiero politico e ciò che ne sarebbe conseguito, diffondendo tale minaccioso messaggio anche attraverso quell’efficacissimo mezzo di propaganda politica che era divenuta allora la moneta.

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STORIE DI MONETE

ANIMALI DA I TERRE LONTANE INSIEME A MITI, LEGGENDE ED EVENTI STORICI, LE MONETE REPUBBLICANE CELEBRANO ANCHE EPISODI ISPIRATI A IMPORTANTI MOMENTI BELLICI E DIPLOMATICI, DESUNTI DALL’INARRESTABILE ASCESA DI ROMA E SIMBOLEGGIATI DA CREATURE ESOTICHE

Gruppo in terracotta raffigurante un elefante utilizzato come animale da combattimento, guidato da un Galata, da Myrina (antica città dell’Asia Minore, oggi in Turchia). 175-125 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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l linguaggio per immagini adottato sui denari della piena età repubblicana si fa particolarmente ricco a partire dalla seconda metà del II secolo a.C., quando i vari magistrati preposti alle emissioni appongono tipi legati all’esaltazione della propria gens. E se dapprima i riferimenti sono perlopiú connessi a un remoto tempo mitico e ad avi gloriosi, progressivamente trovano spazio figurazioni ispirate a reali eventi storici passati o fatti contingenti, spesso tratti dalla movimentata politica di espansione romana. Gli esempi sono molteplici e tutti particolarmente interessanti, perché documentati dalle fonti letterarie antiche e legati alla storia piú gloriosa di Roma. Si pensi, tra tante, alle monete dei Cecili Metelli, il cui famoso console Lucio riportò, nel 251 a.C., nel corso della prima guerra punica, una eclatante vittoria a Palermo battendo il cartaginese Asdrubale. Oltre a sconfiggere l’avversario, Lucio catturò anche decine di elefanti, che fece sfilare a Roma in un eccezionale corteo trionfale, che impressionò fortemente il popolo; da allora, l’elefante divenne l’animale simbolo della gens Caecilia Metella, piú volte riproposto nel corso dei secoli da membri della famiglia su denari battuti nel 127 e nell’82 a.C. Ancora nel 47/46 a.C. il magistrato Q. Caecilius Metellus Pius Scipio, adottato dai Metelli, noto come esoso governatore della Siria, partigiano pompeiano e infine suicida a Tarso nel 46 a.C., riporta quale emblema araldico sul rovescio dei propri denari un bell’elefante in cammino. Il pachiderma, modello di maestosità, forza e potenza bellica, era già apparso nella monetazione orientale dalla fine del IV secolo a.C. sulle emissioni di Seleuco I, per poi diffondersi nel mondo ellenistico, punico e infine romano. Anche Cesare, su denari del 49 a.C., usò un elefante che schiaccia un oggetto che sembra essere una tromba gallica detta carnyx, desinente a testa di serpente, allusione alle sue vittorie in Gallia tra il 58 e il 52 a.C. Tra le varie spiegazioni date alla scelta


CON IL PICCOLO AL SEGUITO

Elefante da combattimento dipinto su un piatto trovato a Capena (Roma). III sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. I cuccioli potevano forse far parte del branco portato sui campi di battaglia e, anzi, c’è chi ha ipotizzato che la loro eventuale uccisione avrebbe fatto inferocire e reso dunque piú temibili le madri.

iconografica del grande animale, vi è anche quella connessa al nome «Cesare», che un’etimologia già nota in antico faceva derivare dal berbero caesai, ovvero elefante.

Il cammello e il ramo d’olivo Ancora un quadrupede tipico di Paesi lontani si incontra sui denari battuti nel 58 a.C. dagli edili curuli M. Emilio Scauro e P. Plautio Hypsaeus, che costituiscono una programmatica celebrazione dei fasti dei due personaggi, ognuno dei quali si riserva una faccia della moneta. Il dritto, a nome di Scauro, riporta un cammello e un personaggio inginocchiato in costume orientale, che regge le redini e offre un ramo d’olivo. L’immagine si riferisce a una significativa vittoria riportata dal nostro edile in Arabia, durante le guerre di Pompeo in Oriente, quando, nel 62 a.C., sconfisse e sottomise il re Aretas di Nabatea, raffigurato come supplice verso il vincitore romano. Diligentemente, la leggenda riporta le generalità del magistrato e il nome del re sopraffatto, costretto poi a pagare un forte tributo a Roma. Scauro, imparentato con Silla, ottenne anche l’onore di un magnifico trionfo, tributatogli nel 59 a.C.; poco dopo, come edile curule, indisse con il collega Hypsaeus munifici giochi e batté questa moneta che celebrava il recente vanto bellico. Il collega di edilità Hypsaeus, anch’esso agli ordini di Pompeo tra il 65 e il 61 a.C., tralasciò, piú modestamente, di esaltare virtú guerriere personali per ricordare invece le glorie avite, rifacendosi addirittura alla conquista della città volsca di Privernum, per

In basso, a sinistra un elefante sul rovescio di un denario di Q. Metellus Pius Scipio. 47-46 a.C. In basso a destra rovescio di un denario battuto in Gallia per Giulio Cesare con un elefante che calpesta un oggetto (forse una carnyx, una tromba tipica dei Galli). 49 a.C.

opera dell’antenato C. Plautio Deciano Hypsaeus (Livio, VIII, 19 e 20), il quale ricevette l’onore del trionfo. La critica storica data tale evento nel 341 o nel 329 a.C.; comunque sia, la completa sottomissione di Privernum è riportata al 329 a.C., per opera dei consoli C. Plautius (omonimo o duplicazione dell’evento attribuito al console del 341 a.C.?) e L. Aemilius Mamercinus: a questa data risale anche la distruzione delle mura urbiche e l’esilio del senato locale. Un altro membro della gens Plautia, la stessa di Hypsaeus, si autocelebrò su proprie emissioni del 55 a.C. usando l’identico tipo del cammello con un Orientale inginocchiato già sfruttato da M. Emilio Scauro, ed evidentemente immagine simbolica della

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STORIE DI MONETE

propaganda pompeiana per rappresentare la sudditanza di personaggi e popolazioni orientali che si servivano di cammelli. Si tratta dell’edile curule A. Plautio, legato di Pompeo in Palestina, che vanta la sua vittoria su un incognito Bacchius Iudaeus.

Bacco giudeo La moderna storiografia si è a lungo interrogata sull’identificazione di questo personaggio, riconosciuto sia come un re minore di Giudea cosí chiamato oppure nel regnante Dionysios di Tripoli (Siria), o ancora, con migliore possibilità, come il re asmoneo di Giudea e Gran Sacerdote del Tempio Aristobulo il quale, nell’ambito di lotte interne alla famiglia reale alle quali prese parte anche Roma, fu sconfitto nel 63 a.C. ed esibito a Roma nel trionfo di Pompeo. Liberato da Cesare, che gli forní anche soldati per riprendere il regno affidato da Pompeo al fratello Ircano, morí poi avvelenato. Ancora un’ipotesi interpretativa ricorda come a Roma si ritenesse che nel Tempio di Gerusalemme fosse venerato Bacco: la In alto una veduta di Privernum (Priverno, Latina). In basso denario degli edili M. Aemilius Scaurus e P. Plautius Hypsaeus. Roma, 58 a.C. Al dritto, l’immagine di un cammello con un uomo inginocchiato che ne regge le redini e un ramo d’olivo legato con un nastro; al rovescio, Giove in quadriga.

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leggenda della moneta potrebbe quindi sciogliersi come «il sacerdote di Bacco giudeo», con riferimento al Gran Sacerdote. Va poi sottolineato come tale dicitura costituisca una delle prime menzioni del nome Iudaeus sulle monete precedenti la conquista di Gerusalemme e della Giudea operata da Tito nel 70 d.C. Temi iconografici romani legati a terre lontane riguardano anche l’Egitto tolemaico, ben prima delle vicende che ebbero Cleopatra per protagonista: siamo infatti alla fine del III secolo a.C., quando il piccolo Tolomeo V Epifane (210-180 a.C.), della dinastia dei Lagidi, fu nominato re a soli cinque anni. Il bambino fu un governante fantoccio nelle mani di tutori egiziani, e il suo regno fu turbato da gravi eventi bellici e dall’accordo di Filippo V di Macedonia con il re di Siria per spartirsi i possedimenti egiziani nell’Egeo. Sollecitata dai suoi alleati orientali, Roma intervenne allora nella regione nell’ambito della seconda guerra macedonica, quando nel 197

L’immagine di un ippopotamo, con la leggenda che celebra la conquista dell’Egitto (AEGYPTO CAPTA), sul rovescio di un aureo di Augusto. 27 a.C.


Il dritto e, in basso, il rovescio di un altro aureo augusteo che celebra la conquista dell’Egitto. La moneta venne battuta dalla zecca di Pergamo nel 27 a.C. Anche in questo caso, oltre alla leggenda, l’evento è simboleggiato dall’immagine del coccodrillo, esponente di spicco della fauna nilotica.

a.C. Tito Quinzio Flaminino sconfisse Filippo a Cinoscefale. In questo contesto Tolomeo V intrecciò stretti rapporti con l’Urbe, come ricorda il denario battuto nel 69 a.C. da M. Emilio Lepido per commemorare l’avo omonimo, coprotagonista di quegli antichi e celebri eventi. Quest’ultimo, infatti, fece parte nel 201 a.C. di una legazione presso i Tolomei, durante la quale fu insignito del titolo, probabilmente del tutto onorifico, di tutor regis (tutore del re), come diligentemente riporta la leggenda.

Un atto politico ben preciso L’immagine con il piccolo re incoronato da Lepido ripete uno schema iconografico usato nel mondo ellenistico, nel quale sono spesso protagoniste due divinità o un dio e un essere umano. In questo caso, invece, si tratta di una scena reale con due uomini, legata a un ben preciso atto politico, impiegata per sottolineare e sancire la riconoscenza di Roma per la politica filoromana lagide. La fine del libero regno dei

Tolomei sull’Egitto si data al 31 a.C., quando la flotta di Ottaviano si scontrò con quella di Marco Antonio e Cleopatra nelle acque di Azio; la vicenda storica e sentimentale di chi vi fu protagonista è entrata nella leggenda e non vale qui ricordarla. È invece interessante rilevare la scelta tipologica che la propaganda augustea prescelse per celebrare sulle monete l’importante vittoria sulla pericolosa regina, senza alludere minimamente alla figura di Antonio, cittadino romano, e dunque alle guerre civili. Fra i tanti soggetti possibili vennero preferiti ancora una volta animali forestieri, simbolici della terra appena definitivamente entrata nelle proprietà romane: un massiccio ippopotamo e un lungo coccodrillo che guarda in alto perplesso, quasi presago della sorte che aspetterà la sua terra. La leggenda, laconica ma efficace, non lascia spazio a interpretazioni: Aegypt capta, l’Egitto conquistato, mentre al dritto campeggia sempre l’aulico profilo di Augusto, il nuovo padrone del mondo.

DALLE ACQUE DI... PRAENESTE

Il pavimento di un edificio absidato prospiciente il foro dell’antica Praeneste (oggi Palestrina, Roma) era ornato da uno splendido mosaico policromo raffigurante un paesaggio egiziano durante l’inondazione del Nilo. È una delle attestazioni piú note del gusto egittizzante diffusosi a Roma dopo la conquista del Paese dei faraoni. Qui, in basso, a sinistra, è il particolare con il coccodrillo. Distaccata dalla sua sede originaria, l’opera, databile alla fine del II sec. a.C., è oggi al Museo Archeologico Nazionale di Palestrina.

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STORIE DI MONETE

MOSTRI E GIGANTI ACCANTO ALLE ICONOGRAFIE ISPIRATE ALLE GRANDI DIVINITÀ E AGLI EVENTI STORICI, LA MONETAZIONE ANTICA RIPRODUCE ESSERI FAVOLOSI E TERRIFICANTI, LA CUI PRESENZA È ATTESTATA SIN DALLE PIÚ ANTICHE FASI DELLE EMISSIONI GRECHE E PERDURA NELL’ETÀ IMPERIALE ROMANA

N

ei capitoli precedenti si è avuto modo di affrontare numerosi temi iconografici documentati dalla numismatica e riguardanti soprattutto la storia mitica romana, con qualche fugace incursione nello splendido repertorio di immagini prescelto dal mondo ellenico. Entrambe le monetazioni accordano un posto di rilievo alle divinità maggiori del pantheon, pur non mancando sporadiche attestazioni di Sulle due pagine particolare di un cratere attico a figure rosse con Talos morente sorretto dai Dioscuri e circondato dagli altri Argonauti. V sec. a.C. Ruvo di Puglia, Museo Archeologico Nazionale Jatta. In basso rovescio di uno statere di peso ridotto emesso dalla zecca di Taranto tra il 280 e il 272 a.C., sul quale compare l’immagine di un giovane su un delfino.

creature «di nicchia», contraddistinte da un aspetto insolito, mostruoso o terrifico. Queste partecipano, piú o meno marginalmente, alle vicende narrate dalla mitologia antica, a volte identificate da nomi propri, come per esempio il Minotauro, altre intese semplicemente come categoria, tipo i satiri. Tra gli esseri impressi sulle monete vi sono quelli assimilabili al regno animale, come il cavallo alato Pegaso (battute principalmente da Corinto), grifoni (Panticapeo), ippocampi (Siracusa, Taranto), fenici (Sisicia) e chimere (Sicione); alcune figure rientrano nelle ibridazioni uomo-animale come sfingi (Chio, Alessandria), sirene (Napoli), satiri (Naxos), divinità fluviali (Napoli, Gela), centauri (Roma), e altre ancora sono semplicemente mostri nefasti, come il Minotauro (Creta), la GorgoneMedusa (Neapolis in Macedonia, Populonia), Scilla (Roma), giganti anguipedi (Roma), e finanche un automa assimilabile a un fantascientifico e crudele robot ante litteram, denominato Talos (Phaestos a Creta; vedi box alla pagina accanto).

L’abbraccio mortale dell’automa Una variante del mito di Talos, attestata da Zenobio (II secolo d.C.) e dal lessico bizantino noto come Suida o Suda (X secolo circa), narra del pessimo rapporto che Talos aveva intessuto con la Sardegna: infatti, per impedire ai Sardi di giungere a Creta – oppure durante un suo nefasto soggiorno nell’isola dove ebbe modo di uccidere molti autoctoni –, egli era solito arroventare il proprio corpo e stringere i malcapitati in un bruciante abbraccio mortale,

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nel quale essi digrignavano i denti atteggiando la bocca a una sorta di spasmodico sorriso provocato dal dolore. Da qui deriverebbe l’espressione «riso sardonio» o «sardonico», attestata già in Omero (Odissea, XX, 301), per indicare un amaro sorriso serrato. Questa è però soltanto una delle interpretazioni possibili del detto, considerato che altri autori antichi lo motivano diversamente.

Greci e Romani furono attratti da questo singolare repertorio figurativo fantastico, insolito e originale, che, agli occhi degli incisori di maggiore caratura, poteva risultare allettante anche sul piano della pura resa artistica. Fermo restando che non si trattava di ideare ex novo soggetti complessi, ma di ispirarsi e riproporre sui conii modelli già utilizzati nella statuaria, nella decorazione ceramica, nella glittica, nell’oreficeria e sicuramente anche nella pittura; alcuni esseri come sfingi, grifi e sirene, erano poi da tempo parte integrante del repertorio decorativo di matrice orientalizzante, notoriamente attratto dalle

L’UOMO DI BRONZO

L’immagine in basso mostra il rovescio di un didramma in argento della città cretese di Phaestos, databile al 300-270 a.C., con leggenda TALOS. Vi è raffigurato Talos, qui alato, mentre sta per laciare un sasso che tiene nella mano alzata. Talos era un automa in bronzo costruito da Efesto o da Dedalo e donato a Minosse, re di Creta, affinché potesse efficacemente vigilare sul suo regno. Ogni giorno il mostro percorreva l’isola per tre volte, impedendo agli stranieri non autorizzati di approdarvi e ai Cretesi di allontanarsene senza il permesso regale. Se necessario, usava come armi grosse pietre, che scagliava a grandi distanze. Se poi doveva combattere, era solito arroventare il proprio corpo stritolando terribilmente e sino alla morte chi gli si opponeva. Sebbene metallico e invulnerabile, in lui scorreva sangue attraverso un’unica vena che dal collo arrivava sino ai piedi, racchiusa in una piccola membrana presso il malleolo, l’unico punto in cui poteva essere ferito. Quando gli Argonauti vollero sbarcare a Creta per rifornirsi d’acqua, Talos cominciò a scaraventare i suoi macigni verso la nave; allora Giasone fece ricorso agli incantesimi di Medea, la quale riuscí con un artificio a stordire il mostro somministrandogli una pozione magica. L’uomo di bronzo cadde, e si tagliò proprio lí dove era indifeso oppure, secondo un’altra versione, fu colpito al piede da una freccia lanciata dagli Argonauti: comunque sia andata, Talos non poté rimarginare la ferita e lentamente morí dissanguato.

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STORIE DI MONETE

creature favolose. Tali personaggi e gli accadimenti che li riguardavano dovevano certo essere familiari al pubblico antico, da sempre edotto sui miti e i racconti leggendari tramandati di generazione in generazione.

Un toro benefico Partendo dal mondo greco, dopo una fase iniziale in cui le monete sono contraddistinte essenzialmente da simboli, animali e volti di dèi, appaiono come tipi interessanti strani esseri simboleggianti la città emittente. Si vedano per esempio i nominali in argento sui quali venne effigiato il toro androprosopo (dal greco anér, uomo e prosopon, volto), o androcefalo, cioè con la faccia umana, tema che conobbe molto successo soprattutto nella monetazione sicula e magno-greca, specialmente in quella partenopea. Tale figurazione deriva dall’antropomorfizzazione del maggiore fiume della Grecia, l’Acheloo (attuale Aspropotamos), che nasce dai monti settentrionali del Paese e sfocia nello Ionio. L’importanza del fiume – e delle acque in genere – fece sí che esso fosse divinizzato e

In alto pendente etrusco in oro raffigurante la testa di Acheloo, con un corno ripiegato. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra rovescio di un didramma in argento di Gela, con il toro a testa umana che simboleggia il fiume omonimo. 480-470 a.C.

considerato il maggiore nume fluviale, figlio di Oceano e Teti; per rendere figurativamente la potenza vivificatrice delle sue acque, fu dotato di un volto umano, corna e corpo taurino, simbolo quest’ultimo di forza e vigore

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generatore. Padre di fiumi e ninfe, Acheloo è protagonista di varie vicende mitiche, la piú nota delle quali rientra nel ciclo narrativo dedicato a Ercole; il fiume, infatti, si trovò a competere con l’eroe per la conquista di Deianira, che entrambi volevano sposare. Seguí una dura lotta, durante la quale Acheloo si trasformò dapprima in un toro, poi in un serpente e poi ancora in un toro, ma stavolta dal volto umano; Ercole riuscí a strappare un corno al dio che, dichiaratosi sconfitto, rinunciò alla bella e si fece restituire il maltolto dal muscoloso semidio, al quale diede in cambio un corno della capra Amaltea. Dalle stille di sangue della ferita infertagli nacquero poi, secondo una tradizione del mito, le Acheloides, ovvero le Sirene, e quindi anche Partenope, eponima della città PartenopeNeapolis. Quest’ultima, infatti, sin dalle sue prime emissioni in argento, scelse come emblema della città la bella testa della sirena Partenope al dritto e Acheloo a corpo intero al rovescio, tipi che perdureranno in tutta la produzione napoletana dal V al III secolo a.C. Il maggiore esito artistico di questa serie si

In alto tetradramma in argento di Catania. Metà del V sec. a.C. Al dritto, toro androprosopo; al rovescio, Nike. In basso particolare della decorazione di un cratere attico raffigurante Ercole in lotta con Acheloo. 450 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

ritrova nei didrammi battuti agli inizi del IV secolo a.C., nei quali la sirena è dotata di un delicato profilo, una morbida acconciatura ed è ornata da sontuosi gioielli, mentre Acheloo, in tutta la sua possente muscolatura, è coronato da una Nike-Vittoria che lo sovrasta in volo. Il tipo del toro androcefalo fu quindi scelto per simboleggiare anche sulle monete la feracità delle terre bagnate dai fiumi e la potenza generatrice dell’acqua che, quale toro in irruente corsa, tende a fuoriuscire dai propri argini. Di grande risalto è l’incisività dei tetradrammi battuti dalla colonia rodio-cretese di Gela, che elesse a suo simbolo la personificazione del corso d’acqua che aveva dato il nome stesso all’abitato greco. Il fiume è reso con il busto o il corpo intero di un toro al galoppo dal nobile volto umano, incorniciato da una importante barba; la raffinata resa stilistica degli abili incisori gelesi del VI e V secolo a.C., contraddistinta da un morbido plasticismo e da un uso sapiente della linea, ha saputo creare uno dei capolavori della numismatica siceliota antica.

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STORIE DI MONETE

UMANO, TROPPO UMANO... DALLA DRAMMATICA VICENDA DI TESEO E IL MINOTAURO A QUELLA DEL RATTO DI EUROPA, LA FIGURA DEL TORO È PROTAGONISTA DI FAMOSI RACCONTI MITOLOGICI. LA CUI FORTUNA È CONFERMATA DALLE IMMAGINI RIPRODOTTE SU MONETE ANTICHE, MA ANCHE MODERNE

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el capitolo precedente abbiamo concluso il nostro excursus sulle creature fantastiche attestate dalla numismatica con un bel toro a testa umana, il benefico Acheloo, prototipo della forza generatrice delle acque, il cui solo capo bastava a simboleggiare abbondanza, tanto da essere estremamente diffuso in forma di amuleto. Riprendiamo qui il discorso ancora con un essere tauriforme, marcato, al contrario del dio dei fiumi, da testa taurina e corpo umano. Si tratta, come è facile immaginare, del Minotauro, l’infelice e sanguinario abitante del Labirinto di Creta. Gruppo bronzeo con Teseo che atterra il Minotauro, da Afrodisia (Turchia), II sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen.

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In basso moneta ateniese in bronzo con Atena (D) e Teseo e il Minotauro (R). Metà del II sec. d.C. circa.

DEDALO, PASIFAE E LA VENDETTA DIVINA LA VERGOGNA DI MINOSSE Minosse, figlio di Zeus ed Europa, per divenire re di Creta dovette dimostrare ai fratelli che a lui era accordato particolare favore dagli dèi. A tal fine, pregò Poseidone di inviargli un toro meraviglioso, che poi avrebbe sacrificato al dio del mare. Immediatamente uscí dalla schiuma delle acque un animale possente e splendido: ciò assicurò il trono a Minosse, che però non provvide a immolare il toro al dio, venendo meno


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

Il soggetto del Minotauro, incolpevolmente mostruoso e ucciso senza quasi potersi difendere, trovò larga fortuna nel mondo greco, etrusco e romano, ripetutamente immortalato su vasi, gemme, pitture, mosaici e gruppi statuari; essere ibrido e sfortunato, rinchiuso nel corpo di un uomo coronato dalla testa e dal sentire di un bovino, dovette comunque ispirare negli artisti antichi che lo ritrassero anche un senso di vaga pietà. Infatti, in alcune decorazioni su vasi greci, sui quali compare sin dagli inizi del VII secolo a.C., ma poi anche nelle redazioni su vari materiali databili in età romana, la creatura, rappresentata sovente nel momento in cui viene sopraffatta dall’eroe Teseo, appare piú terrorizzata che terrorizzante, quasi inerme e impreparata ad affrontare il primo e unico uomo che gli si contrappone.

Un inventore geniale In alto il Minotauro in un disegno a carboncino di Pablo Picasso. 1933. Parigi, Musée Picasso. A destra rovescio di uno statere cretese in bronzo con l’immagine del labirinto, da Cnosso. 280 a.C. Londra, British Museum.

alla promessa, ma lo immise nelle sue mandrie. Come è noto, gli dèi olimpici risultano sempre molto vendicativi contro chi non rispetta i voti. Perciò la moglie del re, Pasifae, figlia del Sole, fu presa da irrefrenabile amore contro natura per la bestia, riuscendo a soddisfare la sua passione solo entrando in una giumenta lignea costruita appositamente da Dedalo, il geniale inventore alla corte di Creta, e posta alla mercé del toro divino.

Tra il V e il IV secolo a.C. Creta celebrò sulle proprie emissioni i principali miti dell’isola, che si rifacevano alla gloriosa epoca in cui regnava Minosse, di stirpe divina e vissuto tre generazioni prima della guerra di Troia. All’epoca la civiltà minoica di Creta, ricca e potente, vantava meraviglie architettoniche, inventori geniali

Dall’insano connubio nacque allora un bimbetto a testa taurina chiamato Minotauro (toro di Minosse) oppure Asterio, che venne amorevolmente allevato dalla madre. Minosse, vergognandosi per ovvi motivi del fatto, e probabilmente non osando uccidere la creatura che era comunque nipote del Sole, la fece rinchiudere in un palazzo a forma di inespugnabile labirinto opportunamente ideato da Dedalo, e lí

il mostro crebbe abbandonato a se stesso, nutrito soltanto di carne umana. Le vittime venivano solitamente fornite dalla città di Atene, che era costretta a inviare, a intervalli annuali (da una volta all’anno oppure ogni tre o nove anni), sette giovani e sette fanciulle. L’eroe attico Teseo, giunto a Creta per mettere fine a questo tributo di sangue, uccise il Minotauro con l’aiuto della figlia del re, Arianna, e fuggí con lei dall’isola.

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STORIE DI MONETE

come Dedalo ed esseri disumani che la facevano temere in tutto il mondo ellenico, come il sanguinario automa Talos, e, appunto, il Minotauro. Entrambi trovano posto nelle coniazioni del V-III secolo a.C., accanto al famoso labirinto dedalico, motivo iconografico di grande successo per i molteplici significati attribuibili, e che, attraverso il mondo antico e il Medioevo, continua ancor oggi a essere utilizzato nei piú svariati contesti, spirituali, filosofici, magici, architettonici e di puro diletto. Tra la fine del V e il IV secolo a.C.

circa Cnosso effigiò sui propri stateri gli eroi indigeni ancorché negativi – almeno per i nemici di Creta – e la meraviglia architettonica, il palazzo labirintico, associato sui conî al suo abitante, ad Atena, Hera, Apollo e anche a Europa rapita dal toro; la resa schematica dell’edificio, che va da forme quadrangolari a fascia o circolari, dovette ispirarsi evidentemente ad altri generi di raffigurazioni pittoriche o a un palazzo reale all’epoca ancora esistente a Festo o a Cnosso, o di cui almeno si conservava memoria.

In alto statere in argento di Cnosso recante il Minotauro e un labirinto stilizzato. 425-350 a.C. Creta, Museo Archeologico di Heraklion.

Re di Atene ed eroe nazionale

Gruppo in terracotta raffigurante Europa sulla groppa del toro, da Tanagra. Secondo quarto del V sec. a.C. Lipari, Museo Archeologico Regionale Eoliano «L. Bernabò Brea».

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Ben piú tardi, anche Atene celebrò il mito di Teseo e del Minotauro, ma questa volta per esaltare l’eroe nazionale e re ateniese: si tratta di emissioni in bronzo della Grecia romana, databili al II secolo d.C., dove al dritto compare il profilo di Atena e al rovescio Teseo, che con una mazza atterra il mostro che cerca invano di ripararsi alzando un braccio. Questa iconografia si ispirava probabilmente a prototipi che dovevano trovarsi ad Atene; Pausania, nella sua Periegesi della Grecia redatta intorno alla seconda metà del II secolo d.C., racconta infatti di aver visto un gruppo simile sull’Acropoli. In piena età imperiale, la città ellenica per eccellenza ancora dedicava alcune sue monete, per benevola condiscendenza del potere romano, agli antichi protagonisti che l’avevano resa immortale. Vi è ancora un toro che compare sulle monete di Creta, e anche questa volta si tratta di un toro ibrido, sebbene l’apparenza sia completamente animale.


Legato alla storia piú antica e gloriosa dell’isola, il mito di Europa e il toro è parte del bagaglio culturale dell’Occidente (da cui deriva il nome stesso del Vecchio Continente) e la cui immagine campeggia altresí sulle odierne monete greche dell’Unione Europea.

Zeus e la principessa fenicia Anche questo romantico episodio degli amori terrestri di Zeus è ben noto: il dio, invaghitosi della bellissima principessa fenicia Europa, che giocava a palla con le compagne sulla spiaggia, si trasformò in uno splendido e mansueto toro candidissimo, che si distese ai piedi della giovane. Dapprima impaurita, pian piano la fanciulla si avvicinò al magnifico animale, lo accarezzò e poi si posò sulla sua groppa: allora il toro si lanciò al galoppo in mare, mentre le onde fremevano sotto gli zoccoli divini e le Nereidi e i Tritoni accompagnavano con tripudio l’insolita coppia. Giunti a Creta, avvenne l’amplesso semidivino, da cui nacquero Minosse, Radamante e Sarpedonte. Zeus la

In alto mosaico raffigurante il ratto di Europa da parte di Zeus trasformatosi in un toro, da Biblo. III sec. d.C. Beirut, Museo Nazionale. Qui sopra una delle molte rivisitazioni moderne del tema del ratto di Europa: la moneta dell’Unione Europea emessa dalla Grecia del valore di 2 euro.

diede allora in moglie al re di Creta Asterio – il cui nome passò anche al Minotauro! –, che allevò i figli di Zeus come suoi; Minosse divenne re dell’isola, portandola al suo massimo fasto e potenza. L’amata da Zeus ricevette dal dio doni meravigliosi, tra cui anche il gigante di bronzo Talos, e, quando poi morí, Europa fu divinizzata, dando il suo nome al Continente di cui Creta faceva parte. Sia Cnosso che Gortina, altra città dell’isola, celebrarono Europa e Zeus con belle emissioni monetali con la scena del ratto. Questa iconografia si ritrova diffusamente nel mondo greco e romano, dove conobbe peculiare favore su decorazioni architettoniche, vasi, affreschi e mosaici. La sua fortuna perdurò in età moderna e contemporanea, continuando a essere riproposta per la sensuale vicenda amorosa, che permise a pittori quali per esempio il Veronese, Tiziano, Rembrandt e moltissimi altri di eseguire virtuosistiche e voluttuose variazioni sul tema di uno dei piú celebri amori di Zeus.

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