N. 59 - Roma, la vita quotidiana

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ROMA

LA VITA QUOTIDIANA

ROMA LA VITA QUOTIDIANA

• DOMUS E CASE POPOLARI • IL TEATRO • GLI SPETTACOLI GLADIATORI • LA NETTEZZA URBANA • L’EMERGENZA DEL FUOCO • LA PROSTITUZIONE • UN GIORNO ALLE TERME • MANGIARE E BERE IN TABERNA... Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC

MONOGRAFIE

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IN EDICOLA IL 22 FEBBRAIO 2024

N°59 Febbraio/Marzo 2024 Rivista Bimestrale

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ARCHEO MONOGRAFIE

€ 7,90



ROMA

LA VITA QUOTIDIANA testi di Luciano Frazzoni (L.F.), Mimmo Frassineti (M.F.), Giovanna Quattrocchi (G.Q.) e Romolo A. Staccioli (R.A.S.)

4. Presentazione 8. Civis Romanus Sum Le case e i palazzi

20. Insula dell’Ara Coeli. Ai piedi del Campidoglio 22. Vicus Caprarius. Cinema con vista 26. Domus Tiberiana. La prima reggia 28. Casa di Augusto. Qui visse il primo imperatore 31. Casa di Livia. Nelle stanze della First Lady 34. Case romane del Celio. Tutte case e chiesa 42. Domus di Palazzo Valentini. Un’accoppiata magnifica 48. L’illuminazione e il riscaldamento 50. Gli acquedotti. Acqua a volontà 52. L’arredamento 54. I luoghi del ristoro. Ci vediamo in taberna? 60. Bagni e latrine. L’igiene personale 62. Nettezza urbana. Un problema antico

68. Per Le Strade Di Roma Un giorno in città

80. Il trionfo. La vittoria fa spettacolo 85. Le terme. Un simbolo della romanità 90. Le Terme Stabiane di Pompei 98. Gli spettacoli. Folle da stadio 102. Circo Maximo Experience. Tutti al circo! 104. Aurighi e gladiatori. Eroi e divi delle arene 110. Gli attori. Su il sipario! 112. Le festività religiose. I giorni del rito 120. L’area sacra di largo Argentina. Quattro misteri nel Campo Marzio 122. Il servizio antincendi. Il fuoco: nemico pubblico numero uno 128. Cronologia


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oma riserva, dal punto di vista archeologico, continue sorprese e novità. Nel gennaio 2024 è stato (ri)aperto al pubblico di cittadini e turisti il Parco Archeologico del Celio, una straordinaria passeggiata in un’area che costituisce una cerniera di collegamento tra il Parco del Colosseo, il Circo Massimo e il colle del Celio nel lato del clivo di Scauro. Si tratta di uno spazio che, dagli inizi dell’Ottocento fu adibito a giardino pubblico con ampi viali alberati e addirittura con un punto di ristoro, la Casina del Salvi, e che, dopo alterne vicende, è tornato a essere fruibile. Ancora piú straordinaria è l’apertura, all’interno del Parco, del Museo della Forma urbis, nel quale, per la prima volta dopo quasi cento anni, si può ammirare, con un allestimento altamente suggestivo, la pianta marmorea di Roma antica realizzata al tempo di Settimio Severo, originariamente esposta in una delle aule del Tempio della Pace. Proprio la Forma urbis costituisce un eccezionale punto di partenza, con i suoi monumenti pubblici, ma, soprattutto, con le numerose insulae e domus private in essa riportate, per farsi un’idea dell’immagine della città antica, con i suoi intrichi di strade, scale, insulae, botteghe, edifici termali. Grazie al nuovo museo, il moderno visitatore può immaginare di passeggiare nei luoghi e nei monumenti della Roma imperiale, camminando direttamente sopra le lastre marmoree della Forma urbis, localizzando contemporaneamente le aree della città moderna. Fra reale e virtuale Partendo da simili suggestioni, questa Monografia propone un’immagine quanto mai esaustiva della vita quotidiana nella Roma imperiale, sia attraverso i suoi monumenti, sia attraverso le parole e le testimonianze degli autori antichi, primi tra tutti Marziale e Giovenale, puntuali fustigatori degli usi e costumi dei loro contemporanei. Pur non presentandosi come una guida archeologica, si vuole offrire comunque una veduta ragionata di alcuni luoghi reali della città, in una sorta di percorso – tra il reale e il virtuale – in grado di indurre il lettore a immergersi nella caotica vita dei Romani antichi, in una città caratterizzata da sontuosi edifici pubblici, ma anche da vicoli dove si affacciavano le affollate case d’affitto, con le tabernae, le terme, le lussuose residenze del ceto alto, cosí come i luoghi malfamati, i teatri e gli altri edifici di spettacolo.

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Sulle due pagine una veduta del Parco Archeologico del Celio. Sulla destra, la Casina del Salvi. Nella pagina accanto, in basso particolare dell’allestimento del Museo della Forma urbis con i frammenti identificati con la planimetria dell’Anfiteatro Flavio.



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Sulle due pagine le poderose sostruzioni della Domus Tiberiana, il primo palazzo imperiale edificato sul Palatino. A destra ricostruzione virtuale dei carceres (gli stalli di partenza dei carri) del Circo Massimo, realizzata per Circo Maximo Experience.

Grazie alle moderne tecnologie multimediali, in alcuni casi la visita ai luoghi reali diventa ancora piú immersiva, facendo rivivere in modo virtuale l’aspetto di importanti edifici: è il caso del Circo Massimo, il piú grande edificio per spettacoli del mondo, ora fruibile nel suo aspetto originario grazie alle ricostruzioni multimediali; cosí come avviene per le Terme di Caracalla o le Domus di Palazzo Valentini, dove l’allestimento permette di rivivere un quartiere della Roma imperiale attraverso un percorso all’interno di due lussuose residenze appartenute a importanti personaggi. Per camminare in una porzione del Campo Marzio vicino ad alcuni dei piú antichi edifici templari conservati a Roma, dove avvenivano le distribuzioni annonarie di grano al popolo romano, e dove Giulio Cesare cadde sotto i colpi dei congiurati, è inoltre da pochi mesi accessibile al pubblico l’area sacra di largo Argentina. Come si vede, Roma è un luogo dove le testimonianze monumentali stratificatesi nei secoli, sono sempre pronte a disvelarsi, come sfogliando le pagine di un libro, per farci conoscere la sua storia e la sua bellezza millenaria. Sono passati piú di ottanta anni dall’uscita di due volumi fondamentali per la conoscenza della vita quotidiana a Roma, Vita Romana di Ugo Enrico Paoli (1940) e La vita quotidiana a Roma di Jérôme Carcopino (1941), e molti progressi sono stati fatti nel campo dell’archeologia, sia attraverso nuove e continue scoperte (i cantieri per la realizzazione della linea della Metro C sono un’importante occasione per esplorare anche archeologicamente molte zone centrali della città), sia nel campo della metodologia della divulgazione scientifica. La conoscenza storica non è piú soltanto patrimonio esclusivo degli addetti ai lavori (archeologi, storici, topografi, epigrafisti, ecc.) ma è ormai, come giustamente deve essere, offerta a un pubblico quanto mai vasto e a differenti livelli. Con la presente monografia, pertanto, intendiamo offrire nella maniera piú chiara e stimolante, un’immagine non solo della vita di un civis romano, ma anche dello spazio urbano che lo circondava proponendo la descrizione di alcuni siti particolarmente significativi, alcuni prima sconosciuti o inaccessibili, ora finalmente visitabili. Luoghi antichi, ma ancora vivi, della Città Eterna. Buona lettura e…buona visita! Luciano Frazzoni

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LE CASE E I PALAZZI

CIVIS

ROMANUS SUM NEL MOMENTO DI MASSIMA ESPANSIONE DEL SUO IMPERO, ROMA ERA UNA VERA E PROPRIA METROPOLI, ABITATA DA UNA POPOLAZIONE CHE SUPERAVA DI GRAN LUNGA IL MILIONE DI UNITÀ

L’area del Campidoglio nel plastico ricostruttivo della Roma imperiale realizzato dall’architetto Italo Gismondi nel 1937. Roma, Museo della Civiltà Romana.

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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.

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LE CASE E I PALAZZI

I

l plastico ricostruttivo della Roma imperiale realizzato dall’architetto Italo Gismondi (1887-1974) nel 1937 – poi entrato a far parte delle collezioni del Museo della Civiltà Romana – ci offre l’immagine della città nel IV secolo, all’epoca della sua massima espansione. Da quanto riportato nei Cataloghi Regionari (vedi box a p. 14), sappiamo che a Roma, in quel periodo, si contavano circa 46 600 insulae e 1800 domus (vale a dire 1 domus privata ogni 26 insulae). Un patrimonio edilizio di cui oggi resta ben poco, a causa delle trasformazioni urbanistiche – soprattutto postunitarie – delle riutilizzazioni e delle sovrapposizioni che gli edifici privati e i monumenti pubblici dell’Urbe hanno conosciuto nel corso dei secoli. Le abitazioni private dei Romani si dividono essenzialmente in due categorie principali: le domus, cioè le case padronali tradizionali, nelle quali risiede il dominus, con la sua famiglia, e le insulae, gli isolati che comprendono le case popolari del tempo, a piú piani, generalmente Vi erano poi le grandi ville urbane e suburbane, con sontuosi giardini (horti), riservate all’imperatore e a pochi illustri personaggi.

Una città affollata È stato calcolato che la popolazione di Roma, tra l’epoca di Augusto e quella degli Antonini (I-II secolo d.C.), ammontava a oltre 1 000 000 di abitanti. Escludendo le aree pubbliche – sedi di basiliche, terme, circhi, teatri, magazzini – e alcune zone – quali l’Esquilino e il Pincio – nelle quali si trovavano le lussuose residenze di importanti personaggi (come gli Horti Sallustiani e gli Horti di Mecenate), il Campo Marzio – occupato da templi, portici, tombe monumentali e precluso alle abitazioni private – e il Palatino – residenza esclusiva dell’imperatore –, questa moltitudine aveva poco spazio per vivere. Da qui l’esigenza, come dice anche Vitruvio (De Architectura, II, 8, 43) di sviluppare in altezza le strutture a uso abitativo. Per ciò che riguarda la domus, a Roma l’esempio piú significativo è la Casa di Livia sul (segue a p. 14)

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Ricostruzione grafica di un banchetto, ambientato nella Casa di Lucius Ceius Secundus a Pompei.


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Praticità ed eleganza R

icostruzione della Casa Sannitica di Ercolano, databile al II sec. a.C. L’ingresso ha le pareti affrescate in I stile, con riquadri che imitano marmi policromi. L’atrio ha l’impluvium rivestito in marmo, e le pareti con affreschi in IV stile. Intorno si aprivano i vari ambienti, tra cui alcuni cubicoli (stanze da letto), e di fronte il tablino, la stanza di rappresentanza. Una scala conduceva al piano superiore, dove si trovano gli ambienti di soggiorno e altri cubicoli.

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un modello di successo

Ricostruzione di una domus ad atrio del Palatino. Questo genere di dimore, tipicamente romane, in cui gli ambienti si dispongono appunto intorno a un atrio scoperto e con un piccolo giardino sul retro, comincia a comparire intorno alla seconda metà del VI sec. a.C.


a imitazione del marmo

Ricostruzione di un cubicolo della Casa del Centauro di Pompei, ornato con affreschi di I stile, che imitano marmi policromi.

una tecnologia molto diffusa Sezione ricostruttiva di case ercolanesi: le due unità abitative sono in questo caso separate da tramezzi in legno. Quest’ultimo era ampiamente utilizzato in edilizia.

In basso l’atrio della Casa del Fauno a Pompei. II a.C.-I sec. d.C. Estesa su una superficie di quasi 3000 mq, la residenza prende nome dalla statuetta bronzea del Fauno posta al centro dell’impluvio, ed è forse la piú maestosa delle abitazioni pompeiane.

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LE CASE E I PALAZZI

Palatino (vedi alle pp. 31-33). In origine, la domus italica è costituita da un atrio scoperto, intorno al quale si dispongono i vari ambienti, e da un piccolo giardino nella parte retrostante (come, per esempio, nella Casa del Chirurgo di Pompei). Al centro dell’atrio si trova una vasca in cui, dal tetto displuviato, si raccoglie l’acqua piovana, che alimenta le cisterne dell’abitazione. Il giardino viene in seguito sostituito dal peristilio, un portico circondato da colonne e intorno al quale si dispongono vani di diversa grandezza. Gli ambienti principali della casa romana sono il tablino – stanza di rappresentanza nella quale il dominus riceve i suoi clientes, ai cui lati sono due ambienti (alae) di vario uso –, il triclinio – dove si mangia –, e i cubicula, piccole stanze da letto. Mancano in genere piani superiori e, se vi sono, si limitano ad alcuni ambienti al primo piano. Questi ultimi, in epoca arcaica, erano utilizzati per mangiare e furono perciò detti caenacula. La caratteristica di abitazioni come queste è l’essere rivolte verso l’interno, mancando finestre sui muri perimetrali che danno sulla strada (al massimo vi possono essere piccole aperture in alto); la luce proviene dall’atrio e dal peristilio. Tutto il contrario avveniva invece nei grandi palazzi a piú piani, rivolti verso l’esterno e nei quali la privacy era pressoché inesistente, e anzi regnava la piú grande promiscuità (Marziale racconta che le finestre erano cosí vicine che ci si poteva dare la mano con il proprio vicino di casa). Anche i pochi ambienti in cui si articolavano le abitazioni, spesso poco piú che stamberghe, avevano destinazioni plurime, secondo i bisogni degli occupanti. Il solo elemento comune tra le domus e le

Sulle due pagine il quadro d’unione delle 46 tavole che compongono la Forma Urbis Romae, l’opera sulla topografia dell’antica Roma realizzata da Rodolfo Lanciani fra il 1893 e il 1901.

I Cataloghi Regionari Per Cataloghi Regionari si intendono due redazioni diverse di un originario catalogo delle 14 regioni della Roma augustea. Riportano informazioni dettagliate per ciascuna area, tra cui l’elenco dei monumenti, dei quartieri (vici) e delle abitazioni (domus e insulae). La datazione delle due edizioni è incerta, ma riferibile all’età costantiniana sulla base dei monumenti menzionati nel testo.

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XIV


Nuovi Quartieri

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1 VIII

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Augusto dispose una nuova suddivisione di Roma in quattordici regioni. Queste grandi circoscrizioni erano a loro volta organizzate in vici, i cui nomi indicavano allo stesso tempo i quartieri e la relativa strada principale. I. Porta Capena II. Caelimontium III. Isis et Serapis IV. Templum Pacis V. Esquiliae VI. Alta Semita VII. Via Lata VIII. Forum Romanum IX. Circus Flaminius X. Palatium XI. Circus Maximus XII. Piscina Publica XIII. Aventinus XIV. Transtiberim

IV

3

III

X 4 II

XI I

XII XIII

Domus e Insulae

1 Insula dell’Ara Coeli 2 Area archeologica del Vicus Caprarius 3 Casa di Augusto e Casa di Livia 4 Case romane del Celio 5 Domus di Palazzo Valentini

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LE CASE E I PALAZZI

Abitazioni esclusive...

sorsero a Roma in epoca tardo-repubblicana nelle aree esterne alle Mura Serviane, comprese tra l’Esquilino, il Viminale e il Pincio e ben servite dai tratti terminali delle condotte d’acqua che giungevano in città, cosí da poter disporre di un approvvigionamento idrico notevole, indispensabile, peraltro, per l’irrigazione dei giardini. Tra i complessi piú importanti, possiamo ricordare gli horti di Mecenate, gli Horti Lamiani e gli Horti Liciniani sull’Esquilino (questi ultimi pertinenti la residenza dell’imperatore Gallieno, di cui rimane il grande edificio noto come Tempio di Minerva Medica, in realtà forse un ninfeo monumentale), gli Horti Sallustiani tra Quirinale e Viminale e quelli Luculliani sul Pincio. Gli Horti Sallustiani, cosí chiamati perché appartenuti allo storico Sallustio (86-35 a.C.), che qui abitò negli ultimi nove anni di vita, occupavano una vasta area tra il Quirinale e il Pincio all’interno della VI Regione (Alta Semita). Poco dopo la morte del celebre erudito, entrarono a far parte del demanio imperiale, trasformandosi in una delle dimore preferite dai principi. I fasti del complesso si spensero all’indomani dell’invasione dei Goti di Alarico (410 d.C.), che entrarono a Roma proprio dalla vicina Porta Salaria. Della splendida residenza è oggi visibile solo un grandioso edificio al centro dell’attuale piazza Sallustio, il cosiddetto ninfeo. L’edificio risale all’età adrianea, con rifacimenti nel III secolo d.C. Da questa grande villa urbana provengono famose sculture, tra cui il Galata Morente, il Galata Suicida e il Trono Ludovisi, originale greco del V secolo a.C.

Gli horti consistevano in lussuose residenze composte da ville, edifici e padiglioni, spesso collegati tra loro da portici, all’interno di vaste aree adibite a parco, appartenenti a personaggi illustri e che, tra l’età di Augusto e quella di Nerone, passarono nelle proprietà imperiali. Ispirate alle residenze di lusso ellenistiche, simili ville

In origine, il termine insula designava la casa che, essendo separata dalle altre da uno spazio libero di due piedi e mezzo (ambitus), veniva ad assomigliare a un’isola. Successivamente il vocabolo compare anche nelle fonti, sempre contrapposto alla domus,

A sinistra l’area degli Horti Sallustiani in un particolare della Urbis Romae sciographia ex antiquis monumentis accuratiss[ime] delineata, veduta topografica di Roma antica disegnata da Étienne Dupérac nel 1574. In basso il cosiddetto vaso Borghese, cratere in marmo pentelico realizzato da un’officina neoattica come ornamento da giardino. I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

insulae, si può forse individuare nella presenza di botteghe a carattere commerciale (tabernae) al pianterreno, che non avevano alcuna comunicazione con la domus, ma ne sfruttavano parte dello spazio perimetrale, e che, nelle insulae, occupavano spesso anche il mezzanino, usato come abitazione e magazzino dai suoi gestori.

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...e case popolari


per indicare un’unica proprietà immobiliare su piú livelli, che può essere venduta o affittata. Se questo è il significato del termine nel I secolo d.C., esso risulta ancor meglio definito, dal punto di vista giuridico, nei testi confluiti nel Digesto (una raccolta di leggi risalente all’epoca di Giustiniano, cioè al VI secolo d.C.), nel quale l’insula è un complesso immobiliare di una certa dimensione, appartenente in genere a un unico proprietario, diviso in parti minori con vario uso (abitativo, commerciale), alienabile, affittabile e trasmissibile per eredità.

Con il nome del proprietario Dalle fonti sappiamo che le insulae comprendevano infatti caenacula (gli appartamenti ai piani superiori), tabernae, habitationes. Spesso tali immobili prendevano il nome del proprietario: oltre all’insula di Felicula, a Roma conosciamo l’insula Bolaniana presso l’Isola Tiberina, le Calamiana, Eucarpiana e Vitaliana sull’Esquilino, la Sertoriana nella Regione VIII, la Cuminiana sul Celio, mentre alcune iscrizioni di Pompei citano le insulae Alatiana e Arriana Polliana. La superficie media di un’insula poteva aggirarsi intorno ai 200-240 mq per piano, in genere composti da tre-cinque ambienti ciascuno. Il termine insularius poteva indicare sia colui che riscuoteva l’affitto (exactor ad insula), sia il responsabile dell’immobile per conto del proprietario, un po’ come il moderno amministratore di condominio (praepositus insulae). Si trattava, in ogni caso, di personale dipendente dai proprietari degli immobili, tra i quali erano anche personaggi illustri e membri della famiglia imperiale. Cicerone, per esempio, ricavava un reddito di 80 000

Statua di Niobide morente. 440-430 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. Originale greco in marmo, la scultura apparteneva in origine al gruppo frontonale del tempio di Apollo Daphnephoros a Eretria, che fu trasferito a Roma dal generale Gaio Sosio e posto a decorazione del tempio di Apollo Sosiano. Venne successivamente collocata negli Horti Sallustiani, forse come parte di un complesso decorativo.

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LE CASE E I PALAZZI

sesterzi all’anno dall’affitto di alcune insulae di sua proprietà. Né mancavano gli speculatori, come Crasso con la sua schiera di schiavi, architetti e ingegneri, che acquistavano a un prezzo irrisorio edifici distrutti dagli incendi per poi ricostruirli e affittarli a prezzo maggiorato.

Le disavventure di un bue Le prime abitazioni a piú piani risalgono probabilmente già al IV secolo a.C., quando si creò l’esigenza di ospitare l’aumentata popolazione di Roma, stretta all’interno delle Mura Serviane. Nel secolo successivo le insulae a tre piani dovevano essere assai diffuse, tanto che lo storico Tito Livio, narrando alcuni fatti prodigiosi verificatisi all’indomani dell’offensiva di Annibale dell’inverno 218-217 a.C., cita l’episodio di un bue fuggito dal Foro Boario e che, salito fino al terzo piano di un palazzo e spaventato dal chiasso provocato da chi vi abitava, si gettò nel vuoto. All’epoca di Cicerone (I secolo a.C.), Roma presenta abitazioni talmente elevate in altezza da sembrare una città sospesa in aria (De lege agraria, II, 96) e in età augustea, la situazione sembra essere cosí grave, a causa dei frequenti crolli degli edifici, da spingere l’imperatore a imporre ai costruttori un’altezza massima di 70 piedi (pari a 21 m circa). Con Traiano, l’altezza massima consentita delle facciate delle case viene addirittura ridotta a 60 piedi (18 m). Ciononostante, i costruttori aggirarono il provvedimento, costruendo i piani piú alti in posizione piú arretrata rispetto alla strada. Le fonti ricordano che già alla fine del II secolo d.C., sotto il principato di Settimio Severo (193-211), a Roma era stato costruito un edificio di dimensioni eccezionali, l’insula Felicles, la cui fama aveva attraversato l’impero, tanto da essere ricordato da Tertulliano (Adversus Valentinianos, 7); l’imponente palazzo, un vero e proprio grattacielo dell’antichità – che i Cataloghi Regionari localizzano nella IX Regione, chiamata Circo Flaminio –, era ancora in piedi nel IV secolo, essendo citato tra le meraviglie della città insieme al Pantheon e alla Colonna Aurelia.

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Ostia Antica, Roma. Uno scorcio della via dei Balconi, che fiancheggia l’insula della cosiddetta Casa di Diana. La buona conservazione di quest’area ha permesso di osservare direttamente l’aspetto di un quartiere urbano del II sec. d.C.

A parte questo caso limite, insulae a cinque o sei piani dovevano essere molto diffuse già al tempo degli Antonini. Dopo altri provvedimenti, severi quanto inutili, nel 368 d.C. il prefetto Vezio Pretestato fece demolire tutti i balconi delle case, dichiarandoli calamità pubblica a causa dei continui crolli. I poeti Marziale e Giovenale ci hanno tramandato altrettante immagini di come si viveva in questi condomini. Marziale alloggiava al terzo piano di una casa presso il Quirinale, in contrada del Pero (ad pirum), ma doveva reputarsi fortunato rispetto ad altri inquilini, appollaiati molto piú in alto. Piú drammatico, ma probabilmente esagerato, è il quadro che ci fornisce Giovenale, a proposito dei pericoli che gli abitanti di questi palazzi correvano quotidianamente, sia a causa dei crolli che dei frequenti incendi: «A Preneste, cosí fresca, a Bolsena, tra le colline boscose, nella tranquilla Gabi o sulla rocca degradante di Tivoli, chi ha paura che gli cada addosso la casa? Noi invece vogliamo abitare in una città sostenuta da travicelli sottili come flauti, perché l’amministratore non sa porre altro rimedio alle mura cadenti, e quando ha tappato la fenditura di una vecchia crepa, ci dice di dormire tranquilli con quella minaccia pendente sulla testa. È meglio vivere dove non c’è pericolo di incendi e la notte si può dormire


senza terrore. Già Ucalegonte (il vicino di Enea, la cui casa l’eroe troiano vede bruciare durante l’incendio di Troia) chiede che portino acqua, e intanto mette in salvo le sue poche cose: già il terzo piano è in fiamme; tu non te ne sei accorto, perché mentre dai piani bassi tutti sono già in tumulto, chi ha solo le tegole per proteggersi dalla pioggia, stando lassú dove le colombelle depositano l’uovo, per ultimo finirà arrostito».

Alloggi a dir poco spartani La maggior parte delle insulae era in genere destinata alla popolazione piú povera, che vi viveva ammassata in piccole stanze buie, prive di riscaldamento e di qualsiasi comfort. A volte, però, i piani piú bassi, piú luminosi e arieggiati, potevano ospitare anche appartamenti di lusso, affittati a caro prezzo, come nel caso dell’amico di Cicerone, M. Caelius Rufus, che abitava in aediculae (appartamenti) facenti parte di un’insula, e per le quali pagava 10 000 sesterzi. Ma come erano strutturate queste abitazioni? Il modello architettonico piú diffuso di insula prevede un edificio di tre o piú piani, con un portico sulla facciata, su cui si aprono ambienti a carattere commerciale (tabernae, thermopolia, balnea), e un cortile interno.

Ricostruzione grafica ipotetica dell’aspetto complessivo dell’insula della Casa di Diana a Ostia Antica, e immagina un momento di vita quotidiana al suo interno.

Le botteghe possono essere utilizzate dai negozianti anche come abitazione, in ambienti posti sul retro o sui soppalchi lignei del mezzanino (contignatio). Nelle insulae dei quartieri piú malfamati, come la Subura (corrispondente all’odierno rione Monti), potevano trovarsi anche veri e propri lupanari, o tabernae, in cui, oltre a mangiare e bere, si poteva usufruire di altri servizi offerti dalle ostesse nel retrobottega. Ai piani superiori (caenacula) si accedeva tramite scale in muratura ripide, strette e buie; gli appartamenti – privi di cucina, servizi, riscaldamento e impianti idrici – potevano essere costituiti da due, tre o quattro ambienti, che prendevano luce dalle finestre disposte sulla facciata, dove sono anche balconi. Ma nei palazzi piú poveri, si poteva trovare da dormire nei sottoscala o negli angusti ambienti sottotetto. I canoni d’affitto erano molto alti, pertanto gli inquilini spesso erano costretti a subaffittare il poco spazio a loro disposizione. L.F.

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Ai piedi del campidoglio L’ insula dell’Ara Coeli venne scoperta nel 1926, quando, per isolare il Campidoglio, fu demolito un intero quartiere, compresi alcuni edifici medievali che l’avevano inglobata (tra cui la casa di Giulio Romano e la settecentesca chiesa di S. Rita, poi ricostruita nelle vicinanze). Del complesso si conservano quattro piani e i resti di altri due: si tratta del migliore esempio conservato a Roma di questo tipo di strutture residenziali e, insieme a quelli scavati a Ostia, esso ha permesso di conoscerne dettagliatamente la struttura. Il piano terreno e il primo si trovano oggi a circa 9 m dal piano stradale. Realizzato nel II secolo d.C., il fabbricato presenta una facciata in laterizi, mentre la parte retrostante, che poggia direttamente sulla roccia tagliata del Campidoglio, è in opera

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reticolata, pertinente probabilmente a un’opera di sistemazione del colle capitolino risalente al I secolo d.C. La facciata prospettava su un cortile, di cui si conservano parte di due lati, ed era costituita da un portico con cinque tabernae. Nel soprastante mezzanino – pavimentato a mosaico in bianco e nero –, si aprono finestrelle arcuate; qui vivevano

probabilmente i gestori delle tabernae, che vi accedevano per scale in legno o in muratura. I piani superiori sono disposti in maniera diversa; al secondo piano, vi sono due unità abitative di tre stanze ciascuna, con finestre quadrate sulla facciata e soffitto voltato a botte; alcuni ambienti presentano aperture che danno su piccole stanze scavate nella roccia, risalenti probabilmente al


In alto uno scorcio di resti dell’insula dell’Ara Coeli ripresa da via del Teatro di Marcello. L’edificio si trova oggi in un angolo delimitato dal fianco dell’Altare della Patria e dalla scalinata della chiesa di S. Maria in Aracoeli. II sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto l’area del Campidoglio in una stampa settecentesca; sulla sinistra, ai piedi della gradinata, si vede l’edificio che all’epoca copriva l’insula dell’Ara Coeli. Nella pagina accanto, in basso la lunetta affrescata della chiesa di S. Biagio de Mercato. XII sec.

Medioevo. Il terzo piano è diviso in quattro parti, le prime tre con tre stanze e ingresso, la quarta con un solo stanzone trapezoidale; il quarto piano, diviso come il terzo, presenta solo il muro di fondo e alcuni tramezzi divisori, oltre ai resti di un campanile romanico e un’abside con affreschi trecenteschi, pertinenti alla chiesa

di S. Biagio de Mercato (XI secolo), poi trasformata in quella di S. Rita. Tutti gli ambienti sono coperti con volte a botte. Secondo alcuni calcoli, vi abitavano circa 380 persone. Come si vede, si tratta di un edificio imponente, realizzato senza curarsi piú di tanto dei provvedimenti imperiali

sull’altezza massima dei palazzi; se non altro, in questo caso, il costruttore deve essere stato abbastanza onesto nella scelta dei materiali, considerando che, a distanza di duemila anni, l’insula è ancora in piedi (anche se, già nel III secolo, dovette subire un dissesto, al quale si rimediò rinforzando le strutture). L.F.

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LE CASE E I PALAZZI Vicus Caprarius

Cinema con vista

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Romani e i turisti che ogni giorno percorrono le stradine del rione Trevi che improvvisamente s’aprono sul monumentale scenario dell’omonima fontana, non immaginano nemmeno che sotto i loro piedi, a quasi 10 m di profondità, si conservano i resti di un intero «quartiere» dell’antica Roma: quello che s’estendeva nella zona pianeggiante del Campo Marzio orientale, compresa tra le pendici del Quirinale, la valle del Tritone (un tempo attraversata dal fiumicello della Amnis Petronia) e la via Lata, il tratto urbano della Flaminia (corrispondente all’odierna via del Corso). Sino alla fine della repubblica, quella zona – entrata «ufficialmente» a far parte della città al tempo di Augusto, dando vita alla Regione VII – era stata priva di costruzioni, mentre lungo la via Flaminia e la piú antica Salaria (Salaria vetus), che l’attraversava tutta, s’allineavano, come al solito, le tombe. Essendo poi in gran parte finita nella proprietà di Agrippa, fu lo stesso potente genero dell’imperatore a iniziarne l’urbanizzazione, in concomitanza con la realizzazione dell’Acquedotto Vergine, le cui arcuazioni la percorrevano a partire dalle

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disposizioni urbanistiche ed edilizie emanate dallo stesso Nerone subito dopo l’incendio. Delle caratteristiche del «quartiere» e dell’aspetto dei suoi caseggiati, ci si può fare un’idea a Ostia Antica, in particolare nell’area a nord del decumano, fra il Teatro e il Foro, dove si trova, tra le altre, la cosiddetta Casa di Diana. Ma molto si sarebbe potuto vedere, direttamente, se fossero stati conservati i resti scoperti (e distrutti) agli inizi degli anni Novanta dell’Ottocento nell’area in cui sorgeva il Palazzo Piombino, demolito e poi sostituito da quello dell’Istituto dei Beni Stabili, meglio noto come Galleria Colonna.

Finestre e lunghi balconi

In queste pagine due immagini dell’area archeologica del Vicus Caprarius, i cui scavi hanno fatto emergere le vestigia di un grande complesso abitativo di età neroniana, che nei secoli successivi fu prima ristrutturato e quindi trasformato in abitazione signorile.

pendici del Pincio. Furono allora costruiti alcuni edifici pubblici, come la «stazione» della Prima Coorte dei Vigili e il Catabulum, la «sede centrale» del servizio postale (nel settore oggi compreso tra le chiese di S. Marcello e dei Ss. Apostoli), mentre la sorella di Agrippa, Vipsania Polla, faceva erigere un grande portico (Porticus Vipsania) diventato presto famoso per la carta geografica del mondo (Orbis pictus) che vi fu dipinta su una parete. La realizzazione di un vero e proprio «quartiere» urbano dovette però iniziare dopo che l’incendio neroniano del 64 d.C. aveva devastato la città, per continuare, soprattutto nel Il secolo, con la costruzione di grandi caseggiati a piú piani per abitazioni intensive. Anzi, è assai probabile che sia stata questa una delle zone privilegiate per l’edificazione di quella «città nuova» (Nova Urbs), programmata con le

Si trattava di un’ampia porzione del «quartiere», con un impianto viario ortogonale di strade larghe 6/7 m, orientate sulla via Lata, nel quale erano inseriti isolati rettangolari occupati da abitazioni intensive a piú piani, con portici a pilastri e botteghe al pianterreno, cortili interni e facciate con molte finestre e lunghi balconi. Perduto quello che avrebbe potuto costituire uno degli «angoli» piú importanti e suggestivi della Roma archeologica, ed essendo stati distrutti altri, seppur assai meno cospicui, resti ritrovati nel 1955, durante la costruzione del sottopassaggio pedonale di largo Chigi, è andato, per fortuna, diversamente con le scoperte effettuate piú di recente. La prima è avvenuta tra il 1969 e il 1973, in seguito alla ristrutturazione di un edificio situato tra via in Arcione e via dei Maroniti. I resti riportati alla luce, e convenientemente sistemati, appartenevano a tre nuclei di costruzioni, databili tra il Il e il IV secolo d.C., disposti lungo due strade parallele alla via Lata e larghe tra i 6 e gli 8 m. Su una di esse s’allinea una fila di tabernae, della metà circa del III secolo, al di là delle quali corre un portico a pilastri. Sull’altro lato della stessa strada, una fontana rettangolare a grossi lastroni di

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LE CASE E I PALAZZI

pietra s’appoggia al muro perimetrale di un edificio, delimitato, sulla parte opposta, dall’altra strada, e caratterizzato da un’aula rettangolare allungata, anch’essa risalente al III secolo, ma con resti d’epoca anteriore. Una lunga e stretta vasca di fontana occupa buona parte di uno dei lati maggiori dell’aula che, nella seconda metà del IV secolo, fu arricchita con un’esedra, mentre ne venivano chiuse le ampie aperture originarie. Lungo la seconda strada, infine, si dispone il terzo nucleo di costruzioni formato da numerosi ambienti (uno dei quali, absidato) di una grande domus, databile tra la fine del lII secolo e l’inizio del IV, con qualche elemento superstite della seconda metà dello stesso secolo IV. Notevoli sono i resti (o le tracce) di pavimenti marmorei o a mosaico e dei rivestimenti, anch’essi marmorei, delle pareti. Nel «quartiere» a insediamento intensivo dunque, accanto ai caseggiati con gli appartamenti d’affitto, c’erano anche dimore signorili, magari come risultato d’interventi di ristrutturazione di edifici precedenti.

Lungo la via della Capra Certamente piú spettacolari e imponenti sono i resti tornati alla luce, tra il 1999 e il 2001, in via di San Vincenzo, in occasione della ristrutturazione del vecchio Cinema Trevi. La zona è quella che fiancheggiava l’antica Salaria, che in questo tratto, diventata urbana, prendeva il nome di vicus Caprarius («via della Capra»), per la presenza di un’edicola dedicata a Giunone Caprotina, dea della fecondità. Oggi, nella nuova sala cinematografica, una lunga parete vetrata consente di vedere l’area dello scavo, esteso per 350 mq, a una profondità massima di 9 m circa rispetto all’attuale piano stradale. Quelli riesumati sono i cospicui resti di un grande «caseggiato», formato da due edifici contigui e appoggiati l’uno all’altro, allineati sul vicus Caprarius, oggi continuato dalla

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A sinistra testa maschile in marmo bianco, forse raffigurante Alessandro Helios, rinvenuta nell’area archeologica del Vicus Caprarius. Prima metà del II sec. d.C. Sulle due pagine uno scorcio dell’edificio sud all’interno dell’area archeologica del Vicus Caprarius.

via di San Vincenzo. Il «caseggiato» aveva una pianta leggermente romboidale e un lato di 45 m e doveva estendersi su una superficie di oltre 2000 mq, circondato e delimitato da quattro strade (tutte individuate, anche sulla scorta di scoperte avvenute in passato): la situazione è pertanto in ogni senso simile a quella delle scoperte sotto la Galleria Colonna. Uno dei due edifici – i cui muri, in bella opera laterizia, sono conservati fino a un’altezza di quasi 9 m – era una vera e propria insula abitativa, con cortile centrale e almeno due piani sopra il pianterreno. Un bollo laterizio data l’edificio all’età neroniana e ne fa quindi uno dei piú antichi esempi di insulae trovati a Roma, ma, soprattutto, documenta l’inizio dell’urbanizzazione intensiva del «quartiere» immediatamente dopo l’incendio del 64. L’insula ebbe due ristrutturazioni nel corso del Il secolo quando, tra l’altro, un cortile secondario venne coperto con un solaio di legno (del quale restano alle pareti gli incassi per le travi di sostegno), fu rialzato il piano di calpestio e fu costruita una nuova scala, tra il primo e il secondo piano.


Nel IV secolo, invece, ci fu un’autentica trasformazione, con l‘impianto, anche in questo caso, come in quello di via in Arcione, di una domus signorile. Di questa sono stati individuati quattro ambienti connotati da un ricco apparato decorativo, che interessò anche la scala preesistente, i cui gradini, in laterizio, furono rivestiti con lastre di marmo bianco. In particolare, uno degli ambienti venne pavimentato con un mosaico a grandi tessere di marmi policromi, mentre in fondo a un corridoio fu creata una latrina, «mascherata» con un muro divisorio. Il cortile poi venne pavimentato con lastre di marmo di reimpiego e, sotto la scala, fu sistemata una vasca, alimentata da una conduttura di piombo trovata ancora in posto.

Un impianto a uso pubblico L’altro edificio del complesso – anch’esso d’età neroniana – sorgeva a una quota piú alta di circa 1 m, evidentemente condizionata dal terreno che saliva sulle pendici del Quirinale. Ne resta una sequenza di quattro vani, molto grandi, coperti da volte a botte, indifferenziati per forma e destinazione, che ne esclude un uso abitativo e fa pensare invece a una destinazione di carattere pubblico. Specialmente quando, in età adrianea, due degli ambienti (sui quali nel Medioevo si sovrappose un’abitazione) furono resi comunicanti e trasformati in un unico grande serbatoio idrico della capacità di 150 000 litri. L’assenza di depositi calcarei (altrimenti abituali negli impianti idraulici di Roma) e la presenza in zona dell’Acquedotto dell’Acqua Vergine, hanno fatto logicamente pensare a quell’acqua, che è pressoché priva di calcio. Il serbatoio potrebbe pertanto aver fatto parte di un castellum di distribuzione: uno dei diciotto che Frontino attribuisce all’acquedotto di quella che è oggi l’Acqua di Trevi. R.A.S.

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la prima reggia C olle che la tradizione legava alle origini di Roma, il Palatino divenne, in età repubblicana, il quartiere residenziale dell’aristocrazia cittadina, per poi accogliere, da Augusto in poi, i palazzi degli imperatori. Dopo che lo stesso Augusto vi aveva fatto realizzare la propria abitazione – che comprendeva anche la Casa di Livia –, sul versante nord-occidentale del colle sorse la Domus Tiberiana, un complesso grandioso, che si estendeva su una superficie di circa 4 ettari, affacciato sulla valle del Foro Romano. A dispetto del nome, le piú recenti indagini archeologiche hanno provato che l’avvio della sua costruzione si deve a Nerone, all’indomani del devastante incendio del 64 d.C. e dunque nello stesso periodo in cui il principe citaredo stava facendo realizzare la Domus Aurea. Il sito è oggi compreso nei confini del Parco archeologico del Colosseo, che, nel settembre del 2023, lo ha riaperto al pubblico, al termine di un intervento di restauro imposto dall’insorgere dei gravi problemi strutturali che avevano causato la chiusura della Domus. L’operazione non si è limitata al recupero e alla messa in sicurezza del monumento, ma è stata affiancata dalla realizzazione di un allestimento museale, battezzato Imago imperii, che si articola nei

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13 ambienti che si aprono lungo il percorso di visita e racconta la storia plurisecolare del palazzo. All’indomani della sua edificazione, la reggia subí ripetuti interventi di ampliamento e ristrutturazioni, i piú importanti dei quali si devono agli imperatori Domiziano (81-96 d.C.) e Adriano (117-138 d.C.). Dopo il disfacimento dell’impero, la Domus Tiberiana continuò a essere utilizzata fino al VII secolo, quando divenne sede pontificia con Giovanni VII (650-707). A partire dal X secolo, però, il palazzo fu completamente abbandonato e i suoi materiali depredati e usati per farne calce. L’oblio venne interrotto alla metà del Cinquecento, quando Alessandro Farnese avviò il progetto degli Horti Farnesiani. A destra il tratto terminale del clivo della Vittoria. In basso le poderose sostruzioni sul fronte settentrionale della Domus Tiberiana.

In età rinascimentale e per oltre un secolo questo settore del Palatino si trasformò cosí in luogo di svago nei giardini adorni di statue e fontane che si impostarono sui resti del palazzo imperiale. La storia archeologica della Domus Tiberiana ebbe inizio nella seconda metà dell’Ottocento. Prima di allora, infatti, gli sterri e gli scavi succedutisi fra il XV e il XVIII secolo, avevano per lo piú ignorato la parte alta del Palatino. Nel 1861 i Farnese vendettero il proprio fondo a Napoleone III, il quale incaricò l’architetto Pietro Rosa di eseguire scavi sistematici. Nel corso di un decennio di attività vennero scoperti, tra gli altri, gli ambienti della Domus Flavia, il clivo Palatino e le aree adiacenti, il Criptoportico «Neroniano», la


Dall’alto, a sinistra, in senso orario un’altra immagine del clivo della Vittoria; lastra in terracotta del tipo Campana proveniente dagli scavi relativi alle fasi precedenti la Domus Tiberiana; un limone negli affreschi della latrina detta «del Gladiatore»; la figura di un gladiatore affrescata nella latrina omonima.

Casa di Livia e, infine, il clivo della Vittoria, che dal 1865 fu sgombrato dall’imponente interro che lo ricopriva, portando alla luce gli ambienti su di esso affacciati. Iniziarono in questo periodo anche i restauri delle strutture sia del periodo dei Farnese che di età imperiale, in particolar modo degli ambienti voltati «lungo i due lati del clivo della Vittoria». Con l’Unità d’Italia e la vendita degli Horti Farnesiani da parte di Napoleone III al Governo italiano, cominciò una nuova fase di esplorazioni e di restauri, questi ultimi dettati dall’insorgere di problemi statici sul fronte settentrionale della Domus Tiberiana. Interventi che

non si rivelarono tuttavia risolutivi, tanto che, nel 1970, il monumento dovette essere chiuso al pubblico, quando furono identificati gravi problemi di dissesto e rischi di crollo. Una situazione che ha indotto l’avvio della complessa attività di restauro portata a termine nel 2023 e grazie alla quale una parte importante del palazzo imperiale è tornata a essere fruibile. Nel percorso di visita proposto da Imago imperii, il racconto della vita che si svolgeva nella Domus Tiberiana è stato sviluppato anche attraverso l’esposizione di un’ampia selezione dei reperti ceramici, in metallo e in vetro, della statuaria e delle decorazioni fittili messi in luce durante gli scavi degli ultimi decenni. Oggetti che hanno altresí permesso di documentare la ricchezza degli arredi degli spazi occupati dalle corti e, per esempio, la diffusione di culti misterici, da Dioniso a Mitra e agli egizi Iside e Serapide.

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LE CASE E I PALAZZI Casa di Augusto

Qui visse il primo imperatore

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ntorno al 42 a.C., Augusto stabilí la sua residenza sul Palatino, come fecero poi gli imperatori che gli succedettero. Qui già possedeva una casa – quella in cui era nato nel 63 a.C. –, ma si trovava sulle pendici nord-orientali del colle, che oggi affacciano sul Colosseo, lontana dai luoghi considerati piú simbolici. Ecco perché Augusto, che secondo Svetonio inizialmente abitò nel Foro Romano, presso la collina della Velia, si trasferí poi sul Palatino, in un’abitazione già appartenuta all’oratore Quinto Ortensio Ortalo, modesta, ma attigua alla capanna di Romolo e ai luoghi sacri della fondazione di Roma. Fu il primo tassello di una serie di acquisizioni immobiliari in un’area confinante con il Cermalo

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A destra le pitture che ornano lo Studiolo della Casa di Augusto. II stile, 30 a.C. circa. In basso statua di Augusto come pontefice massimo, da via Labicana. Fine del I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.


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LE CASE E I PALAZZI

A sinistra e in basso ancora due particolari delle raffinate pitture che ornano lo Studiolo di Augusto. L’ambiente che ha assunto questa denominazione era un cubicolo situato al piano superiore della Casa ed era il luogo prediletto dall’imperatore, che vi si ritirava quando non voleva essere disturbato, per dedicarsi al bricolage e alla lettura.

– il settore del Palatino in cui si conservano i resti delle capanne protostoriche – che le Scalae Caci, uno stretto sentiero, separano oggi dalla residenza imperiale. La Casa di Augusto è stata recentemente dotata di un nuovo tetto, che ripara dalle intemperie gli ambienti affrescati e ne permette la visita. Si possono cosí ammirare, grazie anche a una passerella che protegge i mosaici pavimentali, le pitture che decoravano biblioteche e sale di ricevimento, e la Stanza delle Prospettive. Maschere e festoni sono i temi decorativi delle stanze private, pavimentate a tessere bianche e nere. L’illuminazione degli ambienti tende al freddo nella parte ufficiale della casa, mentre è piú calda nella residenza privata. All’esterno, con vista sul Circo Massimo, si apre un giardino astratto e simbolico, dove un intreccio aereo di fili su cui si avvolgono tralci di Vinca minor vuole alludere alla presenza di acqua. M.F.

1. casa di livia

L’attribuzione alla consorte di Augusto è confermata dal marchio apposto su una fistula.

2. tempio di apollo

Inaugurato nel 29 a.C., vi si conservavano i Libri Sybillini.

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3. casa di augusto

Già proprietà dell’oratore Ortensio, l’imperatore vi si stabilí nel 42 a.C. circa.

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Casa di Livia

Nelle stanze della First Lady

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a Casa di Livia fu portata alla luce nel 1869 da Pietro Rosa su incarico di Napoleone III – per il quale già aveva diretto sul Palatino gli scavi negli Horti Farnesiani –, in un’area del colle che ospita importanti case private risalenti alla tarda repubblica. Una fistula plumbea – un condotto di piombo ora esposto nel tablino, recante l’iscrizione Iuliae Aug(ustae) – identificò la casa come appartenente a Livia Drusilla, la terza moglie di Augusto. La domus, in effetti, è prossima a quella, verso sud, del marito imperatore e adiacente, a nord, alla Domus Tiberiana. Alla Casa di Livia si accede da uno stretto corridoio in discesa, pavimentato con

La parete di destra del tablino centrale della Casa di Livia sul Palatino. Vi si conserva un affresco a soggetto mitologico raffigurante Mercurio in procinto di liberare Io, figlia del re di Argo amata da Giove, dalla custodia del gigante Argo. 30-20 a.C.

un mosaico bianco e nero, e subito si rimane colpiti dalla semplice monumentalità degli spazi – quattro ambienti voltati a botte, con i pavimenti a mosaico e le pareti affrescate –, che affacciano su un atrio quadrangolare: è assai diversa dalla casa del marito imperatore, i cui vani sono piú piccoli, numerosi e articolati.

Paesaggi sacri e nature morte Dei quattro ambienti tre sono sul lato di fondo, mentre, a destra dell’atrio, si apre il triclinio. Una scala porta al piano superiore, suddiviso in cubicoli e locali di servizio. Tutti gli affreschi si datano intorno al 30 a.C. e appartengono al II stile. Nel triclinio campeggiano su fondo rosso

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LE CASE E I PALAZZI

A sinistra un particolare della decorazione del triclinio, con colonne corinzie da cui pendono festoni di foglie, fiori e frutta.

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In alto, sulle due pagine veduta d’insieme del tablino e delle ali che lo affiancano, le cui pareti sono dipinte con festoni di frutta, scene di paesaggio e mitologiche.

riquadri con paesaggi sacri e nature morte di vasi di frutta. Sulla parete lunga di destra è raffigurato il betilo, una pietra oblunga nella quale si supponeva abitasse la divinità, in questo caso simulacro aniconico di Diana. Il tablino, quello centrale dei tre ambienti affiancati, è detto anche sala di Polifemo, ma l’affresco sulla parete di fondo che rappresenta il ciclope nell’atto di inseguire la ninfa Galatea fuggente su un cavallo marino è ormai quasi del tutto svanito. È leggibile invece, sulla parete di destra, incorniciata da un’architettura in prospettiva, la scena che

rappresenta Io, amata da Giove, mentre Mercurio è in procinto di liberarla dalla custodia di Argo. Sulla medesima parete è anche raffigurata una vivace scena cittadina. Degli altri due ambienti, quello a sinistra è ornato con figure fantastiche umane e animali, di un genere che l’architetto Vitruvio deprecava, in quanto le riteneva irreali e impossibili. In quello di destra si può ammirare una straordinaria decorazione a festoni vegetali, sopra la quale un fregio giallo mostra scene ambientate in Egitto: sfingi, cammelli e una statua di Iside. M.F.

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LE CASE E I PALAZZI Case romane del Celio

Tutte case e chiesa

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l Celio è uno dei colli romani meno conosciuti: pur situato tra il Colosseo, il Palatino e l’Aventino, è un luogo appartato. Per arrivarci, si deve imboccare la via di San Gregorio, a sinistra della via delle Terme di Caracalla, e, risalendola, si viene circondati da un’atmosfera raccolta. Sul Celio la presenza dei monumenti diviene una realtà percepibile, sembra che l’antico si respiri nell’aria, nel raccolto silenzio, nelle vie strette che ripercorrono i tracciati romani, nelle chiuse piazze sulle quali si affacciano i portici delle chiese medievali. Partendo dalla piazza di Porta Capena si sale, lasciando in alto, sulla destra, la maestosa facciata della chiesa di S. Gregorio, e ci si inoltra per il Clivo di Scauro, che conserva l’antico nome romano. Accanto alla chiesa stanno tre oratori, uno dei quali, quello di S. Barbara, si fonda su due tabernae romane appartenute a un edificio a piú piani del II-III secolo, che si affacciava sul vicus Trium Ararum. Di quest’ultimo rimangono solo le tracce, individuate dagli archeologi: esso proveniva da Porta Capena e, poco oltre, incrociava il Clivo di Scauro.

Una spettacolare fuga d’archi Salendo ancora, si incontra, a destra, la grande fronte laterizia di un edificio antico, mentre a sinistra vi è il fianco della basilica dei Ss. Giovanni e Paolo, la cui facciata guarda sulla piazza omonima, anch’essa rispondente a una piazza antica. Qui il Clivo è sormontato da una serie di archi medievali, che si appoggiano sul muro esterno della chiesa. Quest’ultimo altro non è che la facciata di una domus romana, ed è molto ben conservato perché utilizzato per l’edificio medievale; ne restano ben due piani, con 13 finestre al primo e 12 al secondo. Sulla piazza sono visibili i resti di un altro caseggiato in mattoni del III secolo, con botteghe al pianterreno. Sembra veramente di

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trovarsi in un quartiere abitativo della città antica. Oltre la piazza, il Clivo prende il nome di San Paolo della Croce e termina all’Arco di Dolabella, in realtà una porta delle Mura Serviane restaurata da Augusto nel 10 d.C., per la quale entrava in Roma la via Caelemontana (oggi via di Santo Stefano Rotondo). A nord della piazza dei Santi Giovanni e Paolo, sulla via Claudia, si affaccia il grande quadrato delle sostruzioni del Tempio del Divo Claudio, fatto costruire, nel 54 d.C., dalla vedova Agrippina, madre di Nerone, il quale lo trasformò poi in un monumentale ninfeo, affacciato sul lago artificiale della sua Domus Aurea. Il complesso delle domus romane, sulle quali fu costruita la basilica dei Ss. Giovanni e Paolo, è visitabile e la sua storia è un esempio affascinante di come ancora si conservi la Roma di 2000 anni fa. Sulle due pagine la Stanza detta «dell’Orante», la cui decorazione pittorica risale all’inizio del IV sec. d.C. Nella parte inferiore corre uno zoccolo che imita l’opus sectile, sormontato da un fregio floreale. L’ambiente prende nome dalla figura femminile a braccia levate (per la descrizione, vedi a p. 40).

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Parco Archeologico del Celio Museo della Forma urbis

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Case romane del Celio Vi

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LE CASE E I PALAZZI

L’abside della basilica dei Ss. Giovanni e Paolo.

La basilica dei Ss. Giovanni e Paolo La chiesa primitiva sorse agli inizi del V secolo sulla casa di due ufficiali della corte costantiniana, Giovanni e Paolo, martirizzati nel 362, e fu costruita (secondo un’antichissima tradizione) da Pammachio, figlio dell’ultimo proprietario delle case, il senatore Bizante; l’edificio sacro era ricordato fin dal 499 come titulus Pammachii, mentre l’intitolazione ai santi Giovanni e Paolo è frutto della sottoscrizione del sinodo del 595, nella quale è ricordato il titulus Sancti Johannis et Pauli. Della chiesa del V secolo si conservano l’abside,

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l’impianto a tre navate con due file di colonne, alcune poi inglobate in pilastri, i finestroni rettangolari con oculi ai lati della navata centrale. Nel corso dell’Alto Medioevo e oltre, infatti, la chiesa fu piú volte restaurata; nel X-XI secolo fu ricostruito anche il convento, sui resti del Tempio di Claudio. Il portico antistante venne rifatto nel XII secolo. La chiesa ebbe ancora nel corso dei secoli numerosi rifacimenti e aggiunte, fino a perdere il suo carattere originario di basilica paleocristiana, che gli fu restituito solo nei restauri degli anni Cinquanta.


In basso planimetria dell’area archeologica delle case romane del Celio: 1. a bside della basilica dei Ss. Giovanni e Paolo; 2. p ortico sul Clivo di Scauro; 3. d ecorazioni a finto marmo; 4. Stanza dei Geni; 5. S tanza dell’Orante; 6. S ala delle Menadi e del bue Api; 7. cella vinaria; 8. balneum; 9. confessio; 10. o ratorio medievale; 11. n infeo di Proserpina; 12. Antiquarium.

Sul Celio, nel I-II secolo d.C., a sud del grande Tempio di Claudio, vi era un quartiere residenziale con diversi edifici privati. Quelli sotto la basilica erano, in origine, tre diverse strutture (fase I): una domus a piú piani si trovava nella parte settentrionale (sotto la navata destra della chiesa) e altre due, i cui resti sono però piuttosto scarsi, erano adiacenti a essa. Il proprietario della casa a piú piani aveva fatto costruire, nel piano inferiore, un piccolo balneum privato, una terma di cui si conserva una sala con vasca e pavimento a suspensurae, le colonnine di mattoni che rialzavano il pavimento e consentivano la circolazione dell’aria calda. Nella prima metà del III secolo (fase II), nel settore meridionale dell’isolato (corrispondente alla navata sinistra della chiesa), fu costruito un nuovo edificio, che affacciava sul Clivo di Scauro, con un lungo porticato: su di esso si aprivano alcune botteghe, dietro le quali erano le relative retrobotteghe che davano su un

cortile interno e su un vicolo che divideva la casa dall’edificio settentrionale (ne rimane una parte del lastricato). La facciata che si apriva sul Clivo si è conservata per tutta la sua lunghezza, perché, come già detto, fu utilizzata come muro perimetrale della basilica. A essa si appoggiano gli archi medievali che in quel punto coprono il Clivo e qui è stato aperto l’attuale ingresso a tutto il complesso.

Nelle mani di un solo proprietario Tra la fine del III e gli inizi del IV secolo (fase III) le domus furono acquisite da un unico proprietario, che le trasformò in una grande casa signorile, unendo i vari edifici e inglobando anche il vicolo interno. Furono interrati i piani inferiori piú antichi (con il balneum) e il vicolo, con il portico interno, divenne un ninfeo al centro della casa, affrescato con una grande pittura di soggetto marino. Il portico di facciata sul Clivo venne diviso in vani comunicanti e le botteghe furono chiuse da murature.

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LE CASE E I PALAZZI

Siamo nel periodo (fase IV) in cui il cristianesimo si diffonde sempre piú nell’impero dopo l’editto di Costantino del 313, che riconosce libertà di culto alla nuova religione. Ma un nuovo pericolo per i cristiani nasce con l’imperatore del 360-363, Giuliano l’Apostata, il quale, pur cresciuto nella religione cristiana, ritorna nel 351 all’antico paganesimo e finisce per perseguitare i cristiani, dapprima precludendo loro l’accesso alle cariche pubbliche e l’insegnamento e, infine, nel suo ultimo anno di regno, autorizzando veri massacri. A questo torbido periodo un’antichissima tradizione fa risalire il martirio dei senatori Giovanni e Paolo, che si ritiene avvenuto nella casa stessa, dove, al tempo dell’ultimo proprietario, i corpi sarebbero stati sepolti. A essi si aggiunsero poi quelli dei martiri Crispo, Crispiniano e Benedetta. E al IV secolo si data il piccolo vano con affreschi di soggetto cristiano identificato come una confessio o una cappella, forse destinata al culto dall’ultimo proprietario che, secondo le fonti, è identificabile con il senatore Bizante, padre di Pammachio. Nei primi anni del V secolo (fase V) sull’area della domus viene edificata la prima chiesa titolare (vedi box a p. 36), forse proprio dallo Una lunetta della Stanza dei Geni, con figure di giovani nudi e alati – i Geni, appunto –, raccordate da ricche ghirlande cariche dei frutti e dei fiori della stagione estiva. Seconda metà del III sec. d.C.

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stesso Pammachio (fin dal 499 essa era ricordata come titulus Pammachii), a tre navate divise da colonne, con grossi muri di fondazione, per impiantare i quali furono in parte distrutte le murature delle domus precedenti. Tuttavia sembra che gli ambienti sotterranei fossero ancora praticabili almeno fino al VI-VII secolo, perché in un ambiente

Dalla scoperta agli scavi Le case del Celio furono scoperte, tra il 1887 e il 1901, dal padre passionista Germano di S. Stanislao. Nel tentativo di localizzare le spoglie dei martiri Giovanni e Paolo, egli si calò all’interno di uno dei sepolcri ricavati sotto il pavimento della chiesa e si trovò all’interno di una stanza affrescata. Certo di essere penetrato nella casa dei due santi e animato dal desiderio di recuperare le testimonianze del loro martirio, proseguí l’esplorazione per quattro anni, con l’apporto dell’archeologia dell’epoca, mettendo alla luce gran parte del complesso sistema di case sovrapposte. Altri scavi furono compiuti nel 1909, e fu allora che furono trovati il ninfeo con l’affresco di Proserpina e la cosiddetta confessio (la piccola stanza affrescata con una finestrina sul muro di fondo, riconosciuta come una fenestella confessionis), nonché il presunto luogo del martirio e della sepoltura dei due martiri, identificata in tre fosse sottostanti la piccola stanza affrescata. Gli ultimi scavi, condotti nel 1951, furono effettuati da Adriano Prandi, che diresse anche l’intervento di ripristino e restauro della facciata antica della basilica dei Ss. Giovanni e Paolo.


Il ninfeo di Proserpina, nel quale campeggia un grande affresco a soggetto marino in cui compaiono amorini pescatori, un giovane e due donne; quest’ultima scena è stata variamente interpretata: potrebbe trattarsi della raffigurazione di Venere marina o del ritorno di Proserpina dall’Ade, tra Bacco e Cerere, simbologia allusiva al ritorno della primavera. Seconda metà del III sec. d.C.

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LE CASE E I PALAZZI

furono trovate varie anfore, mentre un settore del portico fu usato, nell’Alto Medioevo (IX secolo) per installarvi un oratorio affrescato. La visita di questi ambienti ipogei, alquanto complessa sia perché comprende tre piani sovrapposti sia per le distinzioni tra le diverse fasi, è organizzata secondo un percorso guidato e dotato di pannelli esplicativi. Roma conserva molti ambienti abitativi di epoca romana al di sotto delle antiche chiese paleocristiane, legati alla venerazione dei martiri, ma il complesso del Celio, con le sale affrescate e decorate a riquadri, le ripide scale che portano al piano inferiore, gli anditi tortuosi, il ninfeo, il porticato interno, ha una suggestione particolare. Il percorso si conclude con l’Antiquarium, nel quale sono riuniti i materiali provenienti dagli scavi.

Scene di mare e di vendemmia

La memoria dei martiri Il termine titulus venne usato per le primitive chiese romane, seguito dal nome del santo o del martire a cui esse erano dedicate. Sembra che i primi cristiani si radunassero nelle case private che fungevano da chiese (domus ecclesiae, cioè luoghi di riunione, dal greco ecclesía, adunanza). Alcune chiese di Roma avrebbero preso il nome (titulus,

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intestazione) da quello dei primi proprietari, o dei cristiani che in quel luogo avevano subito il martirio. Tuttavia, permane l’incertezza sulla datazione dell’istituzione dei tituli: infatti, sebbene il Liber Pontificalis la faccia risalire al I secolo d.C., l’unica attestazione certa di tale istituzione è quella che risale al I Concilio romano, del 499.

Il restauro degli affreschi che decoravano le pareti delle domus ne ha messo in evidenza le tre fasi. Alla decorazione della casa della seconda metà del III secolo, che aveva riunito le tre precedenti, appartengono l’affresco del ninfeo con la scena marina, tradizionalmente detta «di Proserpina» per la donna seminuda sdraiata, che si accompagna a un giovane, e l’aula dei Geni, figure maschili che partecipano a scene di vendemmia, con amorini, uccelli e altri animali. Alla fine del III-inizi del IV secolo risalgono le decorazioni a finto marmo, i festoni di fiori, la sala delle Menadi e del bue Api, e l’aula dell’Orante, che si trovano nelle tre sale adiacenti a quella dei Geni, a ridosso del portico in facciata. Al IV secolo appartengono invece i dipinti di ispirazione cristiana della piccola confessio, presso la quale la tradizione vuole vedere la sepoltura dei martiri. Di epoca medievale sono invece gli affreschi dell’oratorio del Ss. Salvatore, ricavato nel IX secolo da un ambiente del portico e utilizzato fino al XII secolo. Gli affreschi sono opere di comuni decoratori: di fattura mediocre, privi di originalità e derivati da repertori di bottega, senza chiaroscuri o notazioni di paesaggio e di ambiente; le figure sono stereotipi senza


individualità; tuttavia, i colori chiari e brillanti hanno ripreso con il restauro l’originaria freschezza e rendono bene l’idea della decorazione di una casa borghese. L’affresco piú interessante è quello che si conserva nel ninfeo: mostra una qualità ben superiore agli altri e rientra in pieno nella tradizione della grande pittura romana.

Il gran finale Come già accennato, la visita del complesso delle case romane del Celio termina con l’Antiquarium, la cui origine risale ai primi scavi; fin dall’inizio, infatti, si era avvertita l’esigenza di un luogo nel quale conservare i frammenti e gli oggetti che emergevano dall’esplorazione. Il primo «museo» risale al 1936 e venne allestito nello stesso ambiente che ospita oggi la raccolta, vale a dire la cappella a croce greca sottostante a quella intitolata a san Paolo della Croce, nella basilica. I materiali esposti, databili tra il I e il VII secolo d.C., sono divisi tra età imperiale (III-IV secolo,

con frammenti architettonici, ceramica domestica, oggetti d’uso comune, anfore, frammenti di vetri) e altomedievale, con materiali provenienti dalla chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, tra il V e il XII secolo. Qui è visibile anche l’affresco con la crocifissione del Cristo vestito, staccato dalla cappella del IX secolo. G.Q.

In alto l’Antiquarium nel quale sono custoditi i reperti rinvenuti nel corso degli scavi condotti nell’area delle case.

Nella pagina accanto la pittura che dà nome alla Stanza dell’Orante (vedi alle pp. 34-35). Rappresenta una figura femminile di orante, vestita di una tunica ornata da una fascia purpurea e che volge le braccia verso il cielo, in un gesto di preghiera. A destra Cristo tra gli arcangeli e i Santi martiri, dipinto facente parte del ciclo cristologico dell’oratorio di S. Salvatore e distaccato negli anni Cinquanta del Novecento. IX sec. d.C. L’opera è ora esposta nell’Antiquarium.

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LE CASE E I PALAZZI

Domus di Palazzo Valentini

Un’accoppiata magnifica

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partire dal 2005 sono stati intrapresi scavi negli ambienti sotterranei di Palazzo Valentini, oggi sede della Città Metropolitana di Roma Capitale (già Provincia di Roma) e della Prefettura, nell’ambito di un vasto progetto di ristrutturazione e rifunzionalizzazione dell’immobile, che ha compreso anche il suo studio storico e architettonico. Le indagini archeologiche, unite a quelle effettuate nell’area di piazza Venezia e piazzale della Madonna di Loreto per la linea C della Metropolitana, e i dati degli scavi eseguiti da Giuseppe Gatti tra il 1902 e il 1933 sotto il Palazzo delle Assicurazioni Generali (dove sono emersi i resti di due insulae), hanno apportato

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nuove e importanti conoscenze per la topografia di Roma antica in quest’area, urbanizzata a partire dalla prima età imperiale e trasformata da area sepolcrale a commerciale, favorita in questo anche dal passaggio della via Flaminia (presso l’attuale piazza Venezia) e da

In alto, sulle due pagine restituzione virtuale dell’aula di rappresentanza della domus B di Palazzo Valentini, con pavimento in opus sectile organizzato in un motivo di quadrati disposti diagonalmente e pareti rivestite in marmi policromi.


A destra un settore dell’aula di rappresentanza della domus B, cosí come si presenta dopo l’intervento di scavo che lo ha riportato alla luce. Nella sala, la cui pianta è caratterizzata da due absidi contrapposte, il ricco padrone di casa, un senatore o un alto dignitario della corte imperiale, riceveva i suoi ospiti.

alcune arterie stradali secondarie. Tra la fine del I e la prima metà del II secolo d.C., l’area viene occupata da nuove costruzioni, facenti parte del progetto legato alla realizzazione del Foro di Traiano. In questa fase si realizza una grande platea di sostegno, che oblitera le strutture precedenti ed è forse pertinente a una zona aperta, a carattere pubblico, a sistemazione dell’area a nord del Foro di Traiano.

Mosaicisti di tradizione africana Dagli scavi sotto Palazzo Valentini sono emersi i resti di due distinte domus, definite A e B, che occuparono l’area a partire dall’epoca adrianea. La piú antica è la A, il cui primo impianto sembra collocabile intorno al 125 d.C., in base a un bollo laterizio rinvenuto in situ nelle murature. Di questa residenza si conservano due ambienti, riferibili a una profonda ristrutturazione effettuata nell’ambito del IV secolo; si tratta di un peristilio, il cortile porticato al centro della casa, pavimentato a mosaico a fasce bianche e nere, e di un piccolo

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LE CASE E I PALAZZI

A sinistra ipotesi ricostruttiva del vano scala, voltato a botte, che assicurava il raccordo fra il pianterreno e il primo piano. A destra pavimento a mosaico policromo del triclinio della domus A, con motivo di cerchi formati da cordoni campiti da raffigurazioni geometriche e vegetali; al centro è un kantharos tra tralci di vite, che allude ai banchetti che si svolgevano nella sala.

triclinio, ossia la sala da pranzo, con le pareti rivestite da intonaco a fasce colorate in verde e rosso su fondo bianco, e con un pavimento a mosaico policromo. Questo pavimento musivo, opera di maestranze che si rifanno a tradizioni africane, presenta una decorazione complessa,

costituita da cerchi creati da nastri che si intrecciano tra loro, al cui interno sono motivi geometrici (girandole, nastri intrecciati) e vegetali. Inoltre, in uno degli spazi di risulta a pianta ottagonale, è raffigurato un kantharos (tazza a due manici) tra tralci di vite, riferito al Assonometria del peristilio della domus A, con pavimento a fasce bianche e nere, e decorato, nel triclinio, da mosaico policromo (vedi foto alla pagina accanto); al centro, il muro di fondazione di Palazzo Valentini.

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vino che si beveva durante i banchetti che si svolgevano nella sala. Adiacente alla domus era un’area aperta, a carattere pubblico, da cui proviene un piccolo obelisco in granito rosa con geroglifici egittizzanti, di età tolemaica o protoimperiale. Intorno alla metà del II secolo d.C., quest’area aperta venne rialzata mediante la realizzazione di un basolato (ancora in parte visibile), probabilmente per creare uno slargo o una terrazza pubblica.

Ristrutturazioni «di lusso» Alla fine del II secolo il basolato venne interrato e lo spazio adibito a giardino privato di una nuova residenza, la domus B (negli strati di terra sono stati infatti rinvenuti anche vasi da fiori), dove doveva essere presente una vasca o una fontana. I bolli presenti nelle strutture murarie della casa sono infatti riferibili a un periodo compreso tra l’età di Commodo e quella di Settimio Severo. Come la precedente, anche questa domus venne completamente ristrutturata nella prima metà del IV secolo, assumendo l’aspetto di una residenza di lusso, come dimostrano i preziosi arredi, costituiti da pavimenti a mosaico e opus sectile, e le pareti

rivestite da crustae marmoree. Secondo una caratteristica delle ricche residenze tardo-antiche, venne realizzata una sala di rappresentanza con due absidi contrapposte, con pavimento in opus sectile con motivo di quadrati disposti diagonalmente, e pareti rivestite in marmi policromi. Qui il ricco padrone di casa, un senatore o un alto dignitario della corte imperiale, riceveva i suoi ospiti. Una scala a tre rampe con pianerottoli intermedi, rivestita di marmo, conduceva al piano superiore della residenza, i cui ambienti erano anch’essi pavimentati in marmo. È anche probabile che in questo momento (metà del IV secolo d.C.) le due domus fossero divenute un’unica residenza, dato che in questo punto i loro muri risultano contigui. Della domus B faceva parte anche un impianto termale di notevoli dimensioni, accessibile da un cortile porticato, collocato nel lato nord-ovest (al di sotto dell’accesso di Palazzo Valentini su piazza Santi Apostoli). Delle terme si conservano buona parte degli ambienti riscaldati, il calidarium, il laconicum e il tepidarium, con i sistemi di riscaldamento degli ambienti, formati da pavimenti rialzati su

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pilastrini di tufo e le pareti con tubi fittili nei quali circolava l’aria calda; nel praefurnium sono ancora conservate le guide in materiale refrattario in cui era alloggiata una caldaia nella quale l’acqua veniva scaldata con la legna accesa sotto (si conserva anche il carbone dell’ultimo fuoco acceso). Seguono poi gli ambienti dedicati al bagno freddo (frigidarium) formato da piú vasche rivestite di marmi e coperto da una volta forse a mosaico in pasta vitrea; attraverso un passaggio porticato con due colonne, di cui si conserva una delle basi, si accedeva allo spogliatoio (apodyterium), con pavimento e pareti rivestiti in marmo e una banchina anch’essa foderata di marmo. Sopra l’apodyterium si trovava un ambiente del secondo piano con un ricco pavimento in opus sectile di marmi pregiati, decorato a complessi motivi geometrici e databile alla prima metà del IV secolo: trovato crollato nell’ambiente sottostante, è stato parzialmente ricomposto e sistemato in una delle sale espositive. Il crollo del piano superiore avvenne probabilmente a causa di un incendio o di un terremoto, tra la fine del V e gli inizi del VI secolo d.C. A questo periodo va attribuito l’abbandono della domus B, mentre quello della domus A sarebbe avvenuto agli inizi del VII secolo. Un piccolo ambiente adiacente al frigidarium e al tepidarium, con una porta di accesso verso il

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lato ovest del complesso termale, sembra indicare che le terme potevano essere anche frequentate da utenti esterni a pagamento. In questo ambiente, molti secoli dopo, in epoca rinascimentale, venne ricavato un «butto» per gli scarichi delle cucine del palazzo, che ha restituito ceramiche con gli stemmi delle varie famiglie succedutesi nella proprietà dell’immobile (Zambeccari, Boncompagni e Bonelli). Il materiale rinvenuto al suo interno, ha fornito inoltre importanti notizie sulle abitudini alimentari e sul tenore di vita dell’alta nobiltà e dei cardinali della Roma tardo-cinquecentesca.

I nomi dei proprietari? Due tubature in piombo per la conduzione dell’acqua (fistulae) recanti i nomi di due personaggi, ritrovate agli inizi del secolo scorso nell’area esterna alle insulae sotto il Palazzo delle Assicurazioni Generali, potrebbero in via ipotetica riferirsi ai proprietari di una delle due domus di Palazzo Valentini. Si tratta di Flavius Asterius vir clarissimus, console nel 494 e possessore di un sedile nel Colosseo, poeta e uomo di lettere, e di un Laurentius vir clarissimus, personaggio non altrimenti conosciuto. Altra importante scoperta al di sotto di Palazzo Valentini, è quella avvenuta nel lato sud-ovest, dove sono state individuate imponenti

In alto l’allestimento delle sale espositive nella quale sono riuniti i reperti rinvenuti nel corso degli scavi delle domus.


In basso statua frammentaria con personaggio seduto su una catasta di armi, da identificare con Hercules invictus, probabilmente facente parte dell’arredo delle piccole terme. Fine del I-inizi del II sec. d.C.

strutture, riferibili con molta probabilità al tempio dedicato a Traiano e Plotina divinizzati, l’unico monumento fatto costruire da Adriano per onorare il suo predecessore, sul quale, come ricorda l’Historia Augusta e come riporta anche un’iscrizione ora ai Musei Vaticani, l’imperatore avrebbe consentito di apporre il proprio nome. Del tempio, collocato dai Cataloghi Regionari in prossimità della Colonna Traiana e facente parte del complesso del Foro di Traiano, si conosce l’aspetto da alcune monete di epoca traianea: si sarebbe trattato di un edificio periptero su alto podio con scalinata di accesso, con otto colonne sulla fronte. Alcune

colonne in granito grigio egiziano di notevoli dimensioni, pertinenti a questo edificio, sono state rinvenute in vari scavi nell’area a partire dal Cinquecento. L’allestimento di Palazzo Valentini comprende un percorso di visita multimediale in cui vengono ricostruiti mediante moderne tecnologie gli ambienti delle domus; inoltre, negli ambienti sotterranei del palazzo, comprendenti anche quelli adibiti nel 1939 a rifugio antiaereo, sono esposti i materiali archeologici piú significativi rinvenuti nel corso degli scavi, tra cui ceramiche, vetri e reperti marmorei facenti parte dell’arredo delle due ricche residenze. L.F.

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L’illuminazione e il riscaldamento L e strade romane non erano dotate di illuminazione pubblica e pertanto, per rischiarare il cammino, i piú ricchi mandavano avanti schiere di schiavi muniti di lampade e torce, mentre i piú poveri dovevano arrangiarsi con misere lucerne a olio. Lo stesso accadeva all’interno delle case, dove i sistemi di illuminazione erano costituiti da candele di cera o di sego, poste su alti candelabri in bronzo, da lanterne in bronzo con le pareti trasparenti in vetro o pergamena e, soprattutto, da lucerne a olio. Queste ultime, in bronzo o in terracotta, sono uno degli oggetti piú diffusi nel mondo romano. Si tratta di recipienti provvisti di un manico, un foro al centro nel quale

In alto lucerna in bronzo decorata con una protome a forma di testa di leone, da Pompei. I sec. d.C. Toronto, Royal Ontario Museum.

In basso schema del sistema di riscaldamento di un ambiente termale: 1. praefurnium; 2. hypocaustum; 3. suspensurae; 4. tubuli in terracotta.

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si versava l’olio, e un beccuccio all’estremità, dove si accendeva la fiammella sullo stoppino. I beccucci potevano essere singoli o multipli; tali lampade venivano collocate entro nicchie o appese, mediante catenelle, a candelabri ad alto fusto. Naturalmente, per illuminare un ambiente ne occorrevano molte, cosicché il loro utilizzo rendeva

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l’aria piena di fumo e di odore di olio bruciato. Prima dell’invenzione, alla fine della repubblica, del sistema a ipocausto – dovuto, a quanto sembra, a Sergio Orata –, le case venivano riscaldate per mezzo di bracieri, su cui si ponevano carboni ardenti (sconosciuto era l’uso dei camini). Questo sistema continuò a

Nella pagina accanto lanterna in bronzo con coperchio mobile (a sinistra) e braciere in bronzo (noto come Tripode dei Satiri, dalla casa di Giulia Felice), da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


essere utilizzato nelle insulae, con gravi rischi di incendi, mentre, soprattutto a partire dal I secolo d.C., il nuovo metodo trovò larga applicazione non solo negli impianti termali, ma anche nelle domus e nelle ville dei piú ricchi. Esso consiste nell’irradiare l’aria calda proveniente da un forno (praefurnium o hypocaustum), collocato secondo i principi di Varrone vicino alla cucina e ai bagni, in cui si accendeva la legna. Tramite appositi condotti, il calore si espandeva al di sotto dei pavimenti delle stanze, sospesi mediante pile (suspensurae) di mattoni disposti a distanze regolari, in modo da creare un’intercapedine al di sotto del pavimento. L’aria calda circolava anche nelle pareti, attraverso intercapedini realizzate con tegole o tubi in terracotta forati (tubuli). Oltre a far circolare l’aria calda, questo sistema era utilizzato anche per rifornire le vasche delle terme e i bagni privati di acqua calda (calidarium). L.F.

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LE CASE E I PALAZZI

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na delle opere piú imponenti realizzate dai Romani è la rete degli acquedotti, che portavano ogni giorno a Roma 1 miliardo di litri di acqua, e che alimentavano le numerose terme, le fontane pubbliche e le case private. Svetonio racconta che, al popolo che protestava per l’aumento del prezzo del vino, Augusto rispose che suo genero Agrippa aveva portato a Roma acqua sufficiente perché non avessero sete. Come si è visto, le ricche domus erano provviste di tutte le comodità e servizi, compresi

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impianti balneari e terme private; grazie alle tubature di piombo che portavano l’acqua, conosciamo spesso anche i nomi dei proprietari di queste dimore. L’uso privato dell’acqua veniva concesso direttamente dall’imperatore, era strettamente personale e cessava alla morte del concessionario. Tutt’altro discorso vale per le insulae, che non disponevano di impianti idraulici, pertanto l’acqua (utilizzata non solo per lavarsi, ma come scorta per spegnere gli incendi) doveva

essere presa con i catini alla fontana del cortile o a una delle tante fontane pubbliche, poste nei crocicchi e sulle strade principali. Sappiamo per esempio che sul Quirinale (Regio VI Alta Semita), dove abitava Marziale, ve ne erano ben 73, di cui una proprio vicino alla sua casa, che portava l’Acqua Marcia. Questa Regione aveva una grande disponibilità di acqua, che alimentava i numerosi bagni a gestione privata, non molto grandi, ma probabilmente lussuosi, stando sempre a


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Marziale; uno di essi si trovava proprio vicino alla casa del poeta, e apparteneva a un certo Stefano, probabilmente uno degli uccisori di Domiziano; un altro impianto, definito piccole terme (thermulae), appartenente a Etrusco, e trasformato, secondo un’ipotesi, nelle Terme di Costantino, viene descritto da Marziale per lo splendore dei suoi ambienti rivestiti da marmi pregiati. Invano però Marziale tentò di avere da Domiziano l’uso esclusivo dell’acqua in casa sua! L.F.

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Sulle due pagine un tratto dell’acquedotto Claudio nella Campagna romana: l’impianto derivava la propria acqua dall’alta valle dell’Aniene. A destra carta dei principali acquedotti di Roma.

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LE CASE E I PALAZZI

L’arredamento I n uno dei suoi componimenti, il poeta Marziale descrive il trasloco di un certo Vacerra, costretto a trasferirsi sotto un ponte perché non aveva pagato due anni di affitto. L’epigramma ci dà un’idea del misero arredamento di una casa d’affitto, costituito da pochi mobili: un lettuccio con tre piedi, un tavolino con due, una lanterna, una scodella di legno, un orinale, uno scaldino, una tazza (urceus) contenente avanzi di acciughe o garum (la salsa a base di pesce che non mancava mai sulle mense dei Romani), una vecchia marmitta. Anche nelle case piú abbienti l’arredamento era ridotto all’essenziale; spesso le stanze presentavano nicchie, mense e ripostigli per riporre vari oggetti; anche i letti e le tavole potevano essere in muratura, come si può constatare a Pompei. I pochi mobili erano in legno, bronzo o marmo, o anche in argento, con raffinate decorazioni. Il letto per dormire

Sulle due pagine un cubicolo della villa di Publio Fannio Sinistore, a Boscoreale, ricostruito nel Metropolitan Museum of Art di New York, che, con altri musei, acquisí le pitture del complesso. 50-40 a.C.

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A sinistra tavolo in bronzo con gambe terminanti a zampe di leone, dalla Casa di F. Rufo a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


(lectus cubicularius) era spesso molto semplice, con ornamenti plastici in bronzo o avorio, gambe tornite e due spalliere alle estremità; il materasso (torus), imbottito di paglia, lana o piume, poggiava su traversine in legno o fasce in cuoio o tessuto. Piú complessi erano i letti a tre posti sui quali si mangiava (lectus convivialis), disposti nel triclinio. Davanti a essi si ponevano un piccolo tavolino rotondo di servizio (mensa), in genere a tre gambe, e uno scaldavivande in

bronzo. Candelabri e lampadari su cui si appendevano lucerne in bronzo servivano per l’illuminazione, mentre tripodi in bronzo o argento sorreggevano bracieri e incensieri. Le sedie (sellae), con o senza spalliera, potevano essere anche pieghevoli, mentre abbiamo raffigurazioni di poltrone (cathedrae) in legno o vimini. Si utilizzavano anche sgabelli (scamna, subsellia) e panche in legno o marmo. I contenitori piú diffusi erano

cassepanche (cistae), armadi (armaria) e casseforti (arca) per custodire oggetti preziosi, denaro e documenti. Un arredo importante della casa era poi costituito da cuscini (pulvini), coperte (stamenta o stragula) e tappeti, posti sui letti, sulle sedie e sulle poltrone; tendaggi scorrevoli erano poi appesi nei punti di passaggio tra l’atrio, il tablino e le altre stanze di rappresentanza, privi di porte, mentre tende erano poste per riparare dal sole e dal freddo lungo il peristilio e nelle finestre. L.F.

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LE CASE E I PALAZZI

Ricostruzione di una scena di vita quotidiana nel Thermopolium della via della Casa di Diana a Ostia Antica. Nella doppia pagina successiva, l’ambiente come si presenta oggi.

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Ci vediamo in taberna? N elle insulae a piú piani, non vi erano cucine attrezzate per la cottura dei cibi: al massimo, si poteva disporre di un piccolo braciere per scaldare le vivande. Chi abitava in questi complessi, era perciò solito mangiare fuori casa o comprare cibo pronto da

portare via (un po’ come accade oggi con lo street food e il take away). In ogni angolo di strada si trovavano infatti tabernae vinariae, popinae, thermopolia e cauponae, cioè luoghi dove si poteva bere vino alla mescita o consumare cibi caldi velocemente.

Nelle ville e nelle domus dei ricchi, invece, la cucina era un locale con un focolare e un bancone in muratura sul quale veniva steso uno strato di brace. Qui le pentole di terracotta o di bronzo venivano poggiate direttamente oppure su un

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LE CASE E I PALAZZI

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treppiedi in ferro. Erano anche presenti forni per cuocere animali di grandi dimensioni o fornetti portatili in terracotta a forma di campana. I pasti della giornata erano costituiti dalla colazione (jentaculum), poco piú che uno spuntino, dal prandium e dalla cena. Il prandium veniva spesso consumato da soli, intorno a mezzogiorno, e consisteva in un pasto veloce molto frugale con pane e formaggio, cipolle, insalata, rape e legumi cotti, fichi. La cena iniziava nel primo pomeriggio e durava fino al tramonto o a notte inoltrata, e costituiva un momento fondamentale della vita sociale romana. Vi partecipavano gli uomini, sdraiati su triclini a tre posti, secondo l’uso greco adottato dagli Etruschi fin dal VII secolo a.C. (mentre le donne e i bambini, se presenti, erano sempre seduti), appartenenti a un gruppo sociale ben definito come la famiglia, la clientela, un collegio professionale o sacerdotale. Il banchetto era anche il modo per ostentare il lusso e la prodigalità del padrone di casa, in netta contrapposizione con la semplicità e frugalità del prandium. Si cominciava la cena con la gustatio, un antipasto leggero, in cui di rito era mangiare l’uovo (da qui l’espressione oraziana ab ovo usque ad mala – Satire, I, 3, 6-7 –, Interno del Thermopolium della via della Casa di Diana a Ostia antica (II-III sec. d.C.). Il locale si compone di due ambienti, in uno dei quali si trovavano il banco di mescita e uno scaffale, rivestiti in marmo; la pittura al centro rappresenta i beni offerti, ossia cibo, bevande e musica; l’altro ambiente era la cucina, dotata di un fornello in muratura. Ai lati degli ingressi, erano state apprestate panche in muratura per gli avventori.

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LE CASE E I PALAZZI

per indicare «dall’inizio alla fine [del banchetto]»). Seguiva poi la cena vera e propria, con varie portate (prima, secunda, tertia cena), infine le secundae mensae (equivalenti al moderno dessert), con piatti piccanti e secchi, in cui si beveva molto. Per meravigliare gli ospiti, si inventavano piatti a sorpresa, con cibi camuffati: un’oca con contorno di pesci e di uccelli poteva in realtà essere composta da carne di maiale, oppure si servivano

piatti con all’interno animali vivi, come il cinghiale cotto ripieno di tordi vivi della famosa cena di Trimalcione. L.F. In alto disegno che immagina una scena di vita quotidiana ambientata nella cucina della Casa dei Ceii, a Pompei. A destra affresco pompeiano con una vivace e realistica scena di banchetto. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Fragili come un guscio d’uovo

Ciotola contenente resti di uova, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Le uova venivano conservate in contenitori ceramici riempiti di argilla finissima, per evitare che potessero rompersi.


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L’igiene personale L e case private erano dotate di bagni per lavarsi e latrine, ubicati nelle vicinanze della cucina; le insulae erano invece prive di qualunque ambiente adibito a servizi; pertanto, per le esigenze corporali, soprattutto notturne, si usavano catini di bronzo o terracotta, che venivano regolarmente svuotati dalla finestra direttamente per strada, senza badare troppo a chi passava sotto, come racconta Giovenale. Di giorno, si poteva disporre di sistemi rudimentali, consistenti in vasi di terracotta o anfore a cui era stato segato il collo, presenti nelle strade (il liquido raccolto poteva poi essere usato come emolliente nelle lavanderie o fulloniche) e di latrine pubbliche (foricae), previo pagamento di una modesta somma. Esempi ben conservati di tali bagni pubblici si trovano soprattutto a Ostia Antica; si tratta di locali ai quali si accedeva da porte girevoli, divisi probabilmente tra servizi per gli uomini e per le donne, con sedili in marmo forati nella parte superiore e anteriore (sellae portusae), sotto cui era una canaletta di scolo per le acque sporche. Davanti vi era invece un’altra canaletta, nella quale scorreva acqua pulita e dove venivano immerse spugne immanicate per pulirsi. In questi luoghi la privacy non era contemplata, ma anzi si poteva conversare amabilmente con il vicino mentre si espletavano i propri bisogni; erano per questo spesso frequentate da noti scrocconi, che passavano da una all’altra nella speranza di ricevere un invito a pranzo, come il Vacerra descritto da Marziale. A Roma, come in altre città, latrine di grandi dimensioni si trovavano in prossimità di luoghi altamente frequentati, dunque nei pressi dei

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In alto, a destra ricostruzione della latrina situata alle spalle dei templi dell’area sacra di largo Argentina. A sinistra, sulle due pagine Ostia Antica. La latrina di via della Forica; tra le porte di ingresso vi è una fontana per le abluzioni.

fori, delle terme, dei teatri. Una di queste è infatti visibile presso l’Area Sacra di largo Argentina, compresa tra la parte posteriore del cosiddetto Tempio A e il portico del Teatro di Pompeo; un’altra latrina era collocata nell’esedra della Crypta Balbi, nel portico opposto al teatro. Presso il Gianicolo, in via Garibaldi, nell’area della XIV Regione augustea (Trans Tiberim) fu scoperta nel 1963, al di sotto di un muraglione antistante la chiesa di S. Pietro in Montorio, una latrina decorata da pitture con elementi fitomorfi e zoomorfi stilizzati entro riquadri rettangolari sulle pareti; i sedili dovevano essere in questo caso di legno, mancando tracce di incasso sul muro di fondo. L’ambiente faceva probabilmente

parte di un complesso abitativo di età traiano-adrianea, successivamente trasformato in latrina tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. Interessanti sono alcune incisioni tracciate con le dita sull’intonaco ancora fresco, raffiguranti animali, barche, figure umane, simboli osceni, e alcune iscrizioni di contenuto licenzioso, lasciate da chi ha eseguito i lavori di ristrutturazione e da occasionali frequentatori del luogo (come testimonia anche Marziale). Per le abluzioni quotidiane, le case dei piú abbienti disponevano di piccoli bagni privati, collocati in genere vicino alla cucina per sfruttarne il calore; in epoca repubblicana tali ambienti erano assai modesti, tanto che Scipione l’Africano, nella sua villa di Liternum, presso Capua, disponeva solo di un locale angusto, nel quale si lavava ogni giorno braccia e gambe dopo il lavoro nei campi, e dove faceva il bagno, ogni nove giorni (Seneca, Epistulae ad Lucilium, 86). In epoca tardo-repubblicana e imperiale, quasi tutte le domus e le ville disponevano di piccole terme private, con ambienti destinati al bagno caldo, a quello freddo e alla sauna. Le classi meno abbienti, i liberti e anche gli schiavi, potevano, almeno a partire dall’età imperiale, recarsi presso i bagni pubblici, che potevano essere di piccole o grandi dimensioni. I Cataloghi Regionari ci informano che a Roma, nel IV secolo, vi erano ben 856 balnea. Ciò significa che, oltre alle grandi terme imperiali – come quelle di Traiano, di Caracalla, di Diocleziano, di Costantino –, in città si trovavano bagni alla portata di tutti. Sopra uno di essi, situato al piano terra di un’insula, abitava Seneca (Epistulae ad Lucilium, 56). L.F.

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LE CASE E I PALAZZI Nettezza urbana

Un problema antico

Q

uale fosse nell’antica Roma – e se ci fosse – un sistema per lo smaltimento dei rifiuti, non c’è dato di sapere con certezza. Le fonti, estremamente scarse ed episodiche, forniscono soltanto notizie frammentarie: ci dicono, per esempio, genericamente, della competenza degli Edili sulla «manutenzione» delle strade e del suolo pubblico, dell’obbligo fatto ai proprietari d’immobili di tenere «in ordine» il proprio fronte-strada e, piú specificamente, di interventi viis purgandis, cioè di pulizia delle strade. Ci dicono perfino dell’esistenza di plostra stercoraria, cioè di carri per il trasporto delle immondizie (ai quali, tra l’altro, era permesso di circolare anche nelle prime dieci ore del giorno, quando il traffico veicolare era proibito all’interno della città). Ma non molto di piú. Tuttavia, mettendo insieme i pochi dati disponibili e una certa serie di inevitabili considerazioni a filo di logica, non pare azzardato pensare che un qualche servizio pubblico di nettezza urbana deve esserci stato. Magari parziale e settoriale, per esempio, all’interno delle singole regioni della città o anche nei loro «quartieri».

La riorganizzazione augustea A quel servizio – verosimilmente attuato con un sistema di appalti (e accompagnato dall’esistenza di punti di raccolta e di vere e proprie discariche pubbliche fuori della città) – debbono essere stati preposti, sotto la responsabilità e la sorveglianza degli Edili, funzionari che, nel periodo della tarda repubblica, erano quattro (quatuorviri viis in urbe purgandis) e che, a partire dalle riforme di Augusto e fino alla metà del III secolo d.C., dovettero essere ricompresi nei piú «generici» quatuorviri viarum curandarum.

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In alto mosaico con pavimento «non spazzato» (asàrotos òikos), da un originale di Soso di Pergamo (fine del III-inizi del II sec. a.C.). I sec. d.C. Roma, Musei Vaticani. Sulle due pagine un tratto della Cloaca maxima, il grande condotto fognario che, secondo la tradizione, sarebbe stato realizzato dai re Tarquini, nel VI sec. a.C.

Forse con maggior certezza si può aggiungere che, in ogni caso, il servizio non doveva essere affatto sufficiente. Basterebbero a dimostrarlo le iscrizioni commemorative del restauro e del ripristino di vecchi monumenti che parlano di «luoghi sordidi» (loci sordentes) o «sconciati dallo squallore delle immondizie» (sordium squalore foedati). E, a confermarlo, valgono le preoccupazioni e i tentativi messi in atto dai privati per difendersi dalla spazzatura e dal letame (animale e... umano), documentati da altre scritte piene di minacce e di maledizioni contro minctores e cacatores e chiunque lasciasse rifiuti in strada: stercus longe aufer ne malum habeas («Porta lontano la spazzatura se non vuoi che ti venga un male»). Le autorità, per parte loro, dovevano ricorrere a tutta una serie di divieti e proibizioni, compresa quella di

abbandonare carogne e cadaveri nelle strade, un’usanza, questa, tanto diffusa che Svetonio, nella Vita di Vespasiano (cap. V), racconta di un cane randagio penetrato nel triclinio del palazzo imperiale durante un banchetto che andò a deporre sotto la mensa una mano d’uomo (evidentemente staccata da un cadavere abbandonato).

Una categoria particolare Un genere particolare di abbandono – che tuttavia non fu mai sanzionato, fino a epoca molto tarda – era quello dei neonati illegittimi o, comunque, indesiderati. Ma non sappiamo con certezza se per la loro «esposizione» (come la pratica, piuttosto diffusa, era ufficialmente chiamata) si ricorresse alle «discariche». È però verosimile che gli «immondi letamai», come li chiama Giovenale, fossero anche a Roma – come ad Atene – i luoghi

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CAPITOLO

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Nella pagina accanto lo sbocco della Cloaca maxima nel Tevere in un acquerello di Ettore Roesler Franz (1845-1907). Collezione privata. In basso una delle botole che oggi consentono l’accesso alla Cloaca maxima. In origine, il collettore attraversava la città come un canale a cielo aperto.

preferiti in cui l’«esposto» veniva abbandonato rimanendo a disposizione di chiunque volesse prenderselo. A meno che non soccombesse prima per la fame e il freddo, o non finisse divorato dai cani randagi e dagli uccelli rapaci. Sembrerebbero confermare tutto ciò nomi «trasparenti» quali Stercorarius o, alla greca, Copron, che si leggono in iscrizioni funerarie relative a «trovatelli». Venivano invece eliminati direttamente, di solito mediante annegamento (come attesta Seneca) oppure per soffocamento, i nati prematuri o deformi e manifestamente menomati.

L’iniziativa privata Tornando agli interventi legislativi, numerosi e reiterati come furono, essi mostrano per ciò stesso e nel medesimo tempo, la realtà del problema e l’impossibilità di risolverlo. In definitiva, si deve dire che lo smaltimento dei rifiuti nell’antica Roma era in gran parte

lasciato all’iniziativa privata. Molto doveva essere eliminato attraverso le fogne, anche nel caso dei rifiuti solidi. Significativo, al riguardo, è il tentativo di sbarazzarsi per tale via del corpo dell’imperatore Elagabalo, messo in atto dai suoi uccisori e andato a vuoto per le dimensioni ridotte del chiusino trovato a portata di mano. Fortunatamente, il sistema fognario romano era di prim’ordine, anche se, in linea di massima, non contemplava allacciamenti con gli scarichi privati. Esso faceva capo alla celebre Cloaca maxima, la cui realizzazione era attribuita ai re Tarquini, nel corso del VI secolo a.C. Si trattava di un grande canale collettore (inizialmente a cielo aperto) che, partendo dalle estreme pendici del Quirinale, attraversava l’Argileto, la zona dei Fori imperiali e del Foro Romano, il Velabro e il Foro Boario, per finire nel Tevere, a valle del Ponte Emilio, presso l’attuale Ponte Palatino. Da questo, guardando ai piedi del muraglione del lungotevere, in riva

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LE CASE E I PALAZZI

sinistra, entro una grande arcata moderna, si riconosce lo sbocco dell’antico canale, nel rifacimento databile al II secolo a.C., formato da un arco a doppia ghiera di conci di tufo. Parlare di Cloaca maxima significa dunque parlare del Tevere. E, in realtà, era questo il principale – e naturale – smaltitore di rifiuti della città, dove, peraltro, ci si sbarazzava con disinvoltura – e anche pubblicamente – di ogni genere di cose (e di individui) indesiderabili. Emblematico era il rito delle Vestali che ogni anno, alle idi di giugno, dopo aver ripulito il Penus Vestae (il «ripostiglio» che nel Tempio di Vesta simboleggiava la «dispensa» di famiglia)

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per prepararlo ad accogliere i frutti del nuovo raccolto, si recavano in processione al fiume per gettarvi i purgamina, le immondizie raccolte, dopo essere passate attraverso la Porta stercoraria.

Testimoni eccellenti Un capitolo a parte era rappresentato dai rifiuti propriamente domestici: quelli prodotti in casa, compresi i «rifiuti» derivanti dalla mancanza, negli appartamenti d’affitto dei grandi caseggiati, dei piú elementari servizi igienici (che, nel migliore dei casi, potevano essere «al piano» o nel cortile, dove, in alternativa, poteva

In basso, sulle due pagine Roma. La sommità del Monte Testaccio: risulta evidente la composizione dell’altura, creata dall’accumulo, protrattosi per oltre due secoli e mezzo, dei frammenti delle anfore olearie.


A destra il Monte Testaccio nella pianta prospettica di Roma realizzata da Giovanni Maggi nel 1625.

trovarsi una sorta di «cisterna» coperta per la raccolta cumulativa, meta periodica di contadini in cerca di letame da usare come fertilizzante). Il modo usuale per disfarsi dei rifiuti di casa era quello di gettarli dalla finestra! Non doveva perciò esagerare Giovenale, quando invitava a considerare «quante volte vengono giú dalle finestre vasi crepati o rotti, e con che peso essi lasciano il segno sul selciato». E quando osservava: «Potresti passare per un negligente e per uno che non si preoccupa degli imprevisti, se vai fuori a cena senza aver fatto testamento, tanti saranno i pericoli di morte, in una notte, quante le finestre aperte sopra di te che passi. Spera perciò e fatti il miserevole augurio che quelle finestre s’accontentino di rovesciarti addosso solamente il contenuto dei loro catini». Tutto sommato, la situazione non era affatto allegra (ma la Roma del Settecento era letteralmente sommersa dalla spazzatura, che dalle strade arrivava fino nei cortili e negli androni delle case!). Nella Roma antica, tuttavia, c’era almeno un caso di servizio di smaltimento dei rifiuti adeguato ed efficiente, al punto da poter essere definito esemplare. Quello tuttora esemplificato da una gigantesca «discarica» – differenziata e specializzata – che ha finito col diventare un... monumento (oltreché una sorta di grande archivio pieno di dati ed elementi di conoscenza). Si tratta di quello che, con un nome solo apparentemente dispregiativo, viene forse ancora chiamato dai vecchi romani di oggi il Monte dei Cocci. Proprio come lo chiamavano gli antichi: Mons testaceus (donde il moderno «Testaccio»), derivato dal latino testa, che significa tanto l’anfora intera quanto un suo frammento, cioè un «coccio». Quel «monte», infatti – alto una quarantina di metri sul piano circostante ed esteso, con un perimetro grossomodo triangolare, su una superficie di 22 000 mq – è il risultato del progressivo e sistematico accumulo dei rottami delle anfore olearie che, a migliaia, arrivavano al vicino porto fluviale dell’Emporio. Una volta svuotate

dell’olio che contenevano, non potendo essere «riciclate», esse venivano portate a dorso di mulo, quattro per volta, nella discarica. Qui venivano frantumate e i «cocci» sistemati a formare una serie di «terrazzi» sovrapposti (e arretrati), sostenuti da sponde formate da file di anfore rovesciate e via via consolidati e sigillati da gettate di calce (che servivano anche per eliminare gli inconvenienti causati dalla fermentazione e dalla decomposizione dei residui oleosi). Cosí fino a dar vita, nel giro di poco meno di due secoli e mezzo – dall’epoca di Augusto al 230 circa d.C. –, a quel «monte» singolare che, essendo le anfore in gran parte di provenienza iberica e fabbricate con l’argilla della valle del Guadalquivir, si potrebbe definire «di terra andalusa». Quanto all’«archivio» che esso rappresenta per noi, basterà ricordare che le anfore recano ancora, variamente conservata, una sorta di «bolletta d’accompagno» dipinta: fonte preziosa di dati per la ricostruzione di un importante capitolo della storia economica dell’antica Roma. R.A.S.

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PER LE STRADE

DI ROMA FIN DALLE PRIME ORE DEL MATTINO, CENTINAIA DI MIGLIAIA DI PERSONE SI RIVERSAVANO NELLE VIE E NELLE PIAZZE: ERA QUESTO LO SPETTACOLO CHE, QUOTIDIANAMENTE, ANDAVA IN SCENA NELLA CAPITALE DELL’IMPERO Ricostruzione del Foro Romano agli inizi del III sec. d.C., visto da sud-est. Dal lato sinistro, si riconoscono il Tempio di Vesta, il Tempio dei Castori, la Basilica Giulia con l’Arco di Tiberio, al centro la Tribuna dei Rostri, dietro il Tempio di Saturno, il tempio di Vespasiano e Tito, il Tempio della Concordia e dietro il Tabularium; sulla destra, l’Arco di Settimio Severo, la statua equestre di Domiziano e probabilmente il Tempio del Divo Giulio.



UN GIORNO IN CITTÀ

S

e vivere nelle case d’affitto non doveva essere particolarmente confortevole – sprovviste com’erano di un’illuminazione adeguata, impianti di riscaldamento, approvvigionamento idrico e spazi per cucinare –, altrettanto problematica era la vita che si svolgeva nelle strade, dove il traffico e il caos erano all’ordine del giorno. Nella Roma delle origini era probabilmente consentito a chiunque di circolare per le strade con veicoli su ruote, ma già nel 396-395 a.C. soltanto le matrone potevano recarsi ai giochi e alle cerimonie religiose sul carro (pilentum) e usarlo nei giorni festivi. Nel 215 a.C. tale privilegio, forse a causa dell’aumento del traffico cittadino, fu abolito dalla lex Oppia, che vietava alle matrone romane l’uso della carrozza non solo in città, ma fino a un miglio da questa, tranne che in occasione di pubblici sacrifici. Il provvedimento venne in seguito abrogato dalla lex Valeria Fundana, promulgata nel 195 a.C., finché, al tempo di Giulio Cesare, si arrivò, con la lex Iulia Municipalis del 45 a.C., alla regolamentazione del traffico e a una normativa di polizia municipale.

Dall’alba alla decima ora Tale legge proibiva il transito dei carri nelle vie della città dal sorgere del sole fino alla decima ora, tranne che per il trasporto dei materiali da costruzione per templi o altre opere pubbliche, oppure per sgomberare materiali di demolizione (un’altra prova indiretta dei frequenti crolli degli edifici, le cui macerie dovevano essere rimosse e smaltite fuori città). Le sole eccezioni previste erano per le Vestali, il Rex Sacrorum, i Flamini in occasione di pubblici sacrifici, il carro del trionfatore, i carri da corsa in occasione delle gare nel circo e per i carri delle processioni. Inoltre, di giorno potevano circolare i veicoli entrati in città Replica di una pittura raffigurante due fanciulli che tirano un carro e altri quattro raccolti in cerchio, da Ostia. Roma, Museo della Civiltà Romana. Il significato della scena non è chiaro, ma si tratta probabilmente della preparazione di una funzione religiosa da parte di un’associazione giovanile.

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UN GIORNO IN CITTÀ

durante la notte e quelli adibiti al trasporto delle immondizie. Nel III-IV secolo alcuni imperatori autorizzarono i senatori, i legati e gli alti dignitari a circolare di giorno sui carri per le strade della città, che dunque, come vedremo, doveva assumere aspetti diversi nelle ore diurne e in quelle notturne. Durante il giorno, i Romani trascorrevano il proprio tempo prevalentemente per strada, dove era continuo il viavai di persone, venditori ambulanti, clientes che si recavano presso le

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case dei ricchi patroni per la salutatio matutina, nella speranza di ricevere un invito a pranzo o a cena, un regalo in denaro o la sportula (il cestino contenente il necessario per il pranzo, sostituito, intorno alla metà del I secolo d.C., da un assegno del valore di 6 sesterzi, una misera somma, di cui si lamenta il poeta Marziale), bancarelle che occupavano quasi tutto lo spazio delle strette strade. In questo frenetico andirivieni, doveva risultare difficile il transito dei veicoli e delle portantine,


poiché una turba di gente occupava le vie, tanto da portare a un provvedimento di sgombero da parte di Domiziano, la cui emanazione viene cosí ricordata dal solito Marziale: «Il venditore ambulante temerario tutta la città ci rubava, non vi era piú alcuna soglia, tanto erano ingombre. Tu, Germanico, hai ordinato di sgomberare i vicoli, e dove prima era un sentiero, ora è una via (...) Il barbiere, l’oste, il beccaio e il cuoco ora servono davanti alla loro soglia. Ora è Roma, prima era una grande taberna».

Un vociare ininterrotto

Un carro trainato da un mulo nel mosaico pavimentale del Piazzale delle Corporazioni di Ostia Antica, costruito sotto l’imperatore Claudio e ristrutturato nel II e III sec. d.C.

Ma il rumore delle attività giornaliere era continuo: sempre il povero Marziale lamenta infatti di non poter dormire di giorno, perché i maestri di scuola fanno lezione proprio sotto le sue finestre, si sente il martellare degli artigiani che fabbricano calderoni di bronzo, il gridare dei venditori ambulanti e il rumore delle monete proveniente dai banchetti dei cambiavalute, in continuazione risuonano le risate dei passanti, la voce del naufrago che racconta la sua storia, del piccolo ebreo che, istruito dalla madre, chiede l’elemosina frignando, del venditore di zolfanelli che insiste perché tu li compri, mentre di notte ferve l’attività dei fornai; un tormento, tanto che quando il poeta vuole riposare, preferisce ritirarsi nel suo piccolo podere di Nomento. Anche Seneca, che abitava in un appartamento sopra un impianto balneare, si lamenta con Lucilio in una famosa lettera, per il continuo schiamazzo (Ad Lucilium, 56): «Abito proprio sopra uno stabilimento balneare. Immaginati ogni sorta di clamore che mi risuona attorno; quando i campioni si allenano a sollevare i manubri di piombo, e si affaticano o fingono di affaticarsi, li sento gemere, e ogni volta che emettono il fiato trattenuto, sento i sibili del loro respiro affannato; quando qualcuno piú pigro si accontenta di una frizione, sento la mano che fa i massaggi sulle spalle, con un suono diverso secondo che si muova aperta o concava. Se poi sopraggiungono coloro che

giocano a palla e cominciano a contare i punti fatti, è finita. Aggiungi l’attaccabrighe o il ladro colto sul fatto, o quello cui piace sentire la propria voce mentre fa il bagno; poi il fracasso di quelli che saltano nella piscina. Oltre a questi, le cui voci sono normali, pensa al depilatore che, per farsi notare, parla in falsetto e non sta mai zitto se non quando depila le ascelle e costringe un altro a urlare in sua vece. Infine c’è il venditore di bibite con le sue varie esclamazioni, il salsicciaio, il pasticcere e tutti i garzoni delle bettole, ognuno dei quali per vendere la propria merce, ha una caratteristica inflessione della voce». E ancora: «Pongo tra le cose che mi strepitano intorno senza distrarmi i carri che passano di corsa, il falegname mio coinquilino e il fabbro della casa vicina, il commerciante di strumenti musicali che alla Meta Sudante prova trombette e flauti e non suona, ma strilla».

Al calar delle tenebre Ma se questo accadeva di giorno, a togliere il sonno erano soprattutto i carri che di notte incessantemente circolavano per i vicoli, tanto da far dire a Giovenale che a Roma potevano dormire soltanto i ricchi, poiché abitavano in luoghi isolati con grandi giardini (magnis opibus dormitur in Urbe), lontano dai rumori. In ossequio a quanto disposto dalla lex Iulia Municipalis, infatti, i carri con le merci e le mandrie di bestiame che giungevano a Roma di giorno, venivano parcheggiati fuori delle mura urbiche, in prossimità delle porte, in apposite aree di posteggio, ed entravano con i loro carichi di notte. Nei Cataloghi Regionari è menzionata un’area carruces (posteggio di carri da viaggio), situata probabilmente presso Porta Capena. Aree di sosta come questa – presso le quali si poteva anche affittare un carro con vetturino per essere trasportati fuori città – dovevano verosimilmente trovarsi in corrispondenza di tutte le porte della città. Da una dedica a Caracalla del 216 d.C., sappiamo anche dell’esistenza di appaltatori e impiegati di posteggi di cavalli delle vie Appia, Traiana e Annia con le loro diramazioni

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UN GIORNO IN CITTÀ

(mancipes et iunctores iumentarii viarum Appiae Traianae item Anniae cum ramulis). Se dunque la notte, per chi cercava di dormire nella sua misera stanza d’affitto, veniva spesso passata insonne per il continuo cigolio delle ruote ferrate dei carri, ancor peggio poteva andare a chi si fosse avventurato per le strade e i vicoli, per recarsi a cena da un amico. In questo caso si rischiava addirittura la vita e,

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prima di uscire, era meglio fare testamento! I pericoli erano tanti, rappresentati dalla tegola o da un vaso rotto che poteva caderti sulla testa da un’altezza vertiginosa, come dice Giovenale «Tante volte puoi morire, quante sono di notte le finestre aperte sulla strada per la quale tu passi»; e spesso bisogna augurarsi che, anziché un vaso, «le finestre si accontentino di versarti sulla testa il

Una delle scenette a soggetto erotico dipinte nel lupanare di Pompei.


contenuto dei loro catini». Le insulae erano infatti sprovviste di qualunque servizio igienico, pertanto ci si serviva di pitali che venivano svuotati direttamente sulla strada, senza badare troppo a chi passava sotto. Il problema era tanto sentito, che la legislazione prevedeva precise responsabilità per coloro che abitavano nel punto piú alto, da dove era stato gettato il liquido o era precipitato un vaso,

responsabilità che in alcuni casi ricadeva anche su eventuali subaffittuari. Le strade non erano illuminate e, «quando le case sono serrate e le taverne e le botteghe , chiuse con catenacci e catene, sono silenziose» (Giovenale, III, 303-304), diventavano il luogo ideale per agguati da parte di male intenzionati e di ubriachi molestatori; nel primo caso, il povero viandante poteva

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UN GIORNO IN CITTÀ

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Vino e pettegolezzi (o Nella bottega del vinaio), olio su tavola di Lawrence Alma Tadema. 1869. Londra, Guildhall Art Gallery.

finire accoltellato e spogliato dei suoi averi; nel secondo, preso a bastonate da un attaccabrighe che il troppo vino aveva reso pieno di rabbia verso il prossimo: il tutto, quando le squadre di vigili erano piú occupate a spengere o prevenire i frequenti incendi che a badare alla pubblica sicurezza. Tutto ciò non bastava però a fermare i frequentatori dei lupanari aperti dal pomeriggio fino a notte inoltrata; i quartieri nei quali si poteva avere sesso a pagamento erano quelli malfamati della Subura, del Velabro e del Circo Massimo, frequentati da piccoli artigiani, schiavi, immigrati e scaricatori di porto che lavoravano sulle banchine del Tevere. Probabilmente in uno di questi postriboli maleodoranti (spesso posti nel retrobottega o nel mezzanino delle osterie), si prostituiva di notte Messalina, la moglie dell’imperatore Claudio. Appena il marito cadeva addormentato – è ancora una volta Giovenale a raccontarlo –, la «Augusta meretrice» si recava in un lupanare in cui, travestita con una parrucca bionda e sotto lo pseudonimo di Licisca, soddisfaceva i numerosi clienti, facendosi pagare il giusto prezzo, per poi tornare nel letto imperiale, con le guance sporche, annerita dal fumo della lucerna, portandovi il lezzo del postribolo.

Ozio e negozio La giornata dei Romani si divideva in due parti essenziali: la mattina era dedicata agli affari (negotium), il pomeriggio al tempo libero (otium). Tuttavia, è bene sottolineare che il vero cittadino romano non lavorava (questo compito era svolto dagli schiavi o dai liberti che avevano piccole attività commerciali) e, semmai, si occupava di attività personali, dove interveniva per difendere i propri interessi. Le ore dedicate al sonno erano poche, anche perché i cubicula delle domus e le stanze anguste delle insulae non invogliavano certo a poltrire nel letto. Ci si alzava pertanto al primo

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UN GIORNO IN CITTÀ

sorgere del sole. La prima hora iniziava alle 4,27 durante il solstizio d’estate, alle 7,33 durante il solstizio d’inverno, e segnava l’inizio della giornata tipo, come ci è descritta ancora una volta da Marziale: «La prima e la seconda ora spossano i clienti; la terza fa lavorare gli avvocati rauchi; fino alla quinta ora Roma prolunga le sue varie occupazioni, la sesta apporterà riposo alla gente affaticata, la settima (mezzogiorno), ne segnerà la fine, l’ottava basterà fino alla nona per gli esercizi del corpo lucente d’olio, la nona impone di schiacciare sotto i piedi i cuscini accatastati». E ancora, a chi gli rimprovera di pubblicare un solo libro all’anno, il poeta descrive la sua giornata, che comincia prima che faccia giorno con il saluto ai suoi patroni; poi si reca come teste nel Tempio di Diana, dove venivano redatti e conservati testamenti, contratti di matrimonio, affrancamenti di schiavi; nel disbrigo degli affari arriva all’ora quinta, tra un colloquio con un console o un pretore e

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Qui sopra affresco con scena tratta dalla commedia di Menandro L’Invasata e della quale sono protagonisti alcuni musici ambulanti, da Stabia. 30-40 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


A sinistra rilievo raffigurante una pollivendola. Prima metà del III sec. d.C. Ostia, Antiquarium. Si noti, sulla destra, il tocco esotico conferito alla scena dall’immagine delle due scimmie sedute sul banco della venditrice. In basso frammento di sarcofago raffigurante un cambiavalute, da Roma. Roma, Museo Nazionale Romano.

l’ascolto dei versi di un poetastro; dopo l’ora decima si reca al bagno, a guadagnarsi i 100 quadranti della sportula. Dura vita di un poeta squattrinato come Marziale, ma non tanto diversa da quella di un qualunque membro della middle class dell’epoca. La prima attività era dunque la salutatio matutina, cioè la visita dei clienti al proprio patrono. Verso la seconda ora si andava al Foro o ai Comizi, mentre la terza segnava l’inizio delle udienze giudiziarie, a cui si poteva assistere, e si faceva colazione (jentaculum). Verso la sesta o settima ora si consumava il prandium, un pasto leggero e veloce, che segnava anche la fine di tutte le attività. Da questo momento le ore libere da dedicare allo svago e al divertimento erano molte. Per questo a Roma, come in tutte le città dell’impero, vi erano luoghi accessibili a tutti nei quali trascorrere il resto della giornata fino all’ora di cena, che iniziava tra la X e la XII ora (dopo le 17,00). Anche i lupanari aprivano alla nona ora, per permettere dedicarsi al ristoro del corpo presso le terme. L.F.

I Romani in cifre Riportiamo, qui di seguito, la consistenza (stimata e/o reale) della popolazione di Roma nel corso della sua storia: Epoca serviana (VI sec. a.C.) 30 000 unità Epoca delle guerre puniche (270 a.C.) 190 000 unità Epoca imperiale (II sec. d.C.) 1 200 000-1 700 000 unità Sacco di Roma e guerra gotica (V-VI sec. d.C.) da 650 000 a 100 000 unità

Età medievale (XI-XIII sec.) da 100 000 a 30 000 unità (epidemia di peste) Rinascimento (XV sec.) 40 000 unità Età moderna (XVII sec.) 100 000 unità Unità d’Italia (1870) 200 000 unità Oggi (dati ISTAT, settembre 2011) 2 777 979 unità, (è il Comune piú popoloso d’Italia)

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UN GIORNO IN CITTÀ Il trionfo

La vittoria fa spettacolo

T

recentoventi trionfi celebrati dal tempo di Romolo a quello di Vespasiano e ancora una quarantina nei secoli successivi, scandirono e rappresentarono nella storia dell’antica Roma altrettanti momenti di fastosa e corale autocelebrazione delle glorie militari e della potenza dell’Urbe. Istituzione tipicamente romana, il trionfo (triumphus, d’incerta etimologia) era, infatti, una sorta di grande liturgia con la quale l’intera cittadinanza esaltava se stessa, riconoscendosi e ammirandosi nel suo esercito vittorioso e nel suo comandante, che s’offriva a quell’ammirazione come portatore del favore divino concesso alla città da Giove, dio supremo dello Stato. Tutto ciò si compiva quando il Senato, con una sua delibera, o il popolo, con una legge votata in un apposito comizio, concedevano a un generale, protagonista di particolari imprese militari, il diritto di «trionfare». Cioè d’entrare festosamente in città alla testa dell’esercito – che solo in tale occasione poteva varcare in armi le mura urbane e il limite sacro del «pomerio» –, di sfilare lungo un determinato percorso tra due ali di folla acclamante e di rendere grazie a Giove, con un sacrificio solenne davanti al suo massimo tempio sul Campidoglio.

Le modalità della richiesta L’onore del trionfo, che in età imperiale fu riservato agli imperatori, era conferibile solo ai magistrati (consoli e pretori) forniti dell’imperium maius, cioè della facoltà d’iniziativa «esterna» e, in primo luogo, della condotta della guerra. Esso poteva essere richiesto, anche per interposta persona, direttamente dall’interessato, il quale però, per non perdere la possibilità di trionfare, doveva attendere l’esito della richiesta senza entrare in città, rimanendo nel Campo Marzio (che, fino all’età di Augusto, era fuori

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del perimetro urbano), ospite della Villa Pubblica, sede dei censori. La concessione poteva essere, naturalmente, contrastata per motivi politici e per le rivalità tra opposte fazioni e soggetta a ogni tipo d’interferenze, come sappiamo successe, per esempio, nel 168 a.C., allorché fu votata la legge per il trionfo di Lucio Emilio Paolo, vincitore del re Perseo di Macedonia. Avendo i cittadini della prima «tribú» espresso parere contrario, per vendicarsi dell’eccesso di disciplina imposta da Paolo ai soldati e dell’avarizia da lui mostrata nella ripartizione tra di essi del bottino di guerra, un ex console chiese e ottenne che la votazione venisse sospesa e ripetuta dopo che, come riferisce Plutarco, egli ebbe cosí parlato: «Tribuno, richiama al voto i cittadini. Io intanto scenderò dal palco, seguirò ognuno e prenderò nota dei malvagi e degli ingrati e di quelli che in guerra vogliono essere blanditi invece che comandati». Lo stesso Plutarco aggiunge che l’intervento ebbe ragione dell’opposizione e che tutte le «tribú» votarono poi per il trionfo. Invece del trionfo e, in ogni caso, per un successo di minore importanza, poteva essere conferita l’«ovazione» (ovatio), che veniva celebrata col sacrificio di una pecora (ovis, donde, forse, il nome). Data la sacralità della manifestazione e la sua caratteristica di «ripetizione», il percorso del corteo trionfale (pompa triumphalis) rimase invariato nei secoli e, benché Roma non cessasse d’ingrandirsi, continuò a svolgersi lungo quello che era stato il perimetro esterno della città di Romolo sul Palatino. Esso aveva inizio proprio dalla stessa Villa Pubblica (nei pressi dell’odierna piazza Venezia) dove il trionfatore aveva trascorso l’attesa, ed entrava in città varcando le mura repubblicane alla Porta Trionfale, ai piedi del Campidoglio. Superato il Foro Boario e il Velabro, si dirigeva al Circo Massimo, che

Disegno che ricostruisce un corteo trionfale lungo la via Sacra a Roma. Secondo la tradizione, il generale e l’esercito vittorioso erano preceduti dai prigionieri di guerra che sfilavano in catene davanti al popolo romano.


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attraversava in tutta la sua lunghezza, per poi piegare, tra il Palatino e il Celio, lungo la via Trionfale (l’attuale via di S. Gregorio). All’ulteriore angolo del Palatino, piegava ancora all’altezza della Meta Sudante e, scavalcata l’altura della Velia, scendeva al Foro per la via Sacra, donde saliva, imboccando il Clivo Capitolino, fino al Tempio di Giove. Lungo il percorso, strade, templi, case e palazzi erano fastosamente addobbati e una folla ininterrotta faceva ala al corteo, pronta a entusiasmarsi agli aspetti piú spettacolari di esso.

Da poche ore a piú giorni Fu cosí che, pur rimanendo intatte le valenze rituali e religiose e le connotazioni militari, la parte piú propriamente ostentatoria del trionfo finí col diventare quella piú importante, curata e attesa. Specie da quando, sul finire della repubblica, i trionfatori furono sempre piú spesso i grandi capifazione delle lotte civili, che approfittavano d’ogni occasione per richiamare l’attenzione su di sé. Allora, la celebrazione d’un trionfo che un tempo durava alcune ore, poteva protrarsi anche per piú giorni, uno almeno dei quali – come fu con Pompeo, nel 66 a.C. – interamente riservato alla sfilata delle spoglie dei vinti,

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del bottino di guerra e dei prigionieri, mentre altri giorni venivano occupati da esibizioni di gladiatori, rappresentazioni sceniche e pubblici banchetti. Di questi, sappiamo che Cesare, in occasione di uno dei suoi quattro trionfi celebrati tutti nello stesso mese del 46 a.C. (ma in giorni diversi e sempre con apparato e cerimonie differenti), ne fece imbandire per 66 000 convitati, con mense che andavano dal Foro al Campidoglio. Quanto alla composizione – e allo svolgimento – del corteo trionfale, anche in questo caso, le linee essenziali rimasero sempre le stesse, essendo le varianti solo di dettaglio e legate ai tempi e al carattere dei protagonisti. Ancora per Cesare (che, stando a quel che scrive Svetonio, una volta rischiò di essere sbalzato dal carro per la rottura dell’asse), sappiamo, per esempio, che giunse al Campidoglio alla luce di quaranta grandi candelabri sostenuti da altrettanti elefanti schierati sui due lati della strada! A proposito di elefanti, si può ricordare che il primo a esibirli in un corteo trionfale fu il console Lucio Cecilio Metello che, nel corso della prima guerra punica, sconfisse i Cartaginesi, nel 250 a.C., presso Palermo. Ad aprire il corteo erano i magistrati e i senatori che s’erano recati a incontrare il

Il plastico ricostruttivo di Roma in epoca costantiniana realizzato da Italo Gismondi. Roma, Museo della Civiltà. È evidenziata l’area interessata dalle processioni trionfali, che partivano dal Campo Marzio e attraverso la Porta Triumphalis entravano in città. La cerimonia si concludeva al Tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio.


trionfatore nella Villa Pubblica, e il primo «segmento» era destinato alla rievocazione delle imprese vittoriose e all’esibizione del bottino.Trasportate su apposite carrette o su portantine a mano (fercula), si susseguivano ogni genere di spoglie tolte al nemico (armi, insegne, costumi, opere d’arte, somme di danaro, ori e argenti), descritte e, se del caso, «quantificate», in speciali «tabelle» (tituli) che, insieme a pannelli dipinti e perfino a «quadri viventi», servivano anche a segnalare le battaglie vinte, le città conquistate, i popoli sottomessi, i nemici catturati. Su una di queste «tabelle», per il suo trionfo pontico, Cesare fece vergare la scritta divenuta celebre «Venni, vidi, vinsi», per indicare non le diverse fasi della campagna, come si faceva di solito, ma piuttosto la loro fulmineità. Particolarmente apprezzate in questa prima parte erano le prede inusitate e singolari, come gli animali esotici e sconosciuti quale fu la giraffa (chiamata alla greca «camelopardo») offerta, sempre da Cesare, alla vista dei suoi concittadini che ne ignoravano l’esistenza. Seguivano i prigionieri e gli eventuali ostaggi o piuttosto una loro rappresentanza scelta tra le persone di rango, spesso appositamente risparmiate per dare maggiore lustro al trionfo e soddisfazione al popolo. Pompeo ne fece sfilare 324, tutti d’alto lignaggio, ai quali peraltro concesse poi la libertà mentre una brutta fine fecero altre volte re e condottieri, quali Perseo e Giugurta, rispettivamente sovrani di Macedonia e di Numidia, e il capo dei Galli Vercingetorige.

Tori bianchi per il sacrificio Quando c’erano, venivano a questo punto anche i prigionieri romani liberati nel corso delle operazioni vittoriose, come fu per quelli che, catturati da Annibale, erano stati venduti schiavi in Grecia, che accompagnarono nel 196 a.C. il trionfo di Flaminino vincitore del re macedone Filippo

V. Seguiva la sfilata degli animali destinati, a centinaia, a cominciare dai bianchi tori, a essere immolati nel sacrificio, condotti dai vittimari e accompagnati dai sacerdoti. Quindi, preceduti da trombettieri e altri musici, venivano attori e mimi che con esibizioni anche buffonesche, sottolineavano particolari «momenti» di gloria oppure pregi e soprattutto difetti del trionfatore il quale seguiva subito dopo, scortato dai littori coi fasci ornati d’alloro. Egli stava in piedi sul carro trionfale – una biga o piú spesso una quadriga – tirato da cavalli bianchi affiancati, con indosso la toga picta, una speciale veste di porpora con foglie di palma dipinte e ricamate in oro, cinto il capo d’una corona d’alloro e con in mano un ramoscello, pure d’alloro, e accompagnato dagli ufficiali del suo «stato maggiore». Subito dopo venivano i soldati, in alta uniforme e in ordine di parata, che agitando rami d’alloro acclamavano al grido «Io triumpe» («Evviva! Trionfo!»). Era questo l’ultimo «segmento» del corteo che si configurava come eloquente espressione di forza e di disciplina, ma al tempo stesso anche di libertà e di sfrenatezza. I soldati infatti, con un’usanza d’antica origine rituale e di smitizzante sapore moralistico (nonché di ancestrale spirito ironico), alternavano inni e marce trionfali con cori e «commenti» scherzosi e salaci fino alla battuta feroce, con i quali mettevano alla berlina il loro capo sottolineandone difetti, vizi e manie. Celebri le «strofette» cantate dai soldati di Cesare che con chiara allusione alla propensione del condottiero verso le donne degli altri, urlavano a squarciagola: «Cittadini, mettete in salvo le vostre mogli perché vi portiamo un calvo dall’adulterio facile»! Oppure, con altrettanto esplicito riferimento alle avventure galanti dello stesso Cesare col re di Bitinia, Nicomede: «Cesare sottomise le Gallie, Nicomede Cesare; ora trionfa Cesare che sottomise le Gallie, ma non trionfa Nicomede che sottomise Cesare». R.A.S.

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Le terme

Un simbolo della romanità

A

lle terme fa capo uno degli aspetti piú caratteristici ed esclusivi della civiltà che prese nome da Roma. Esso ha, ovviamente, come punto di partenza e come referente di fondo il bagno, in particolare e secondo quanto suggerisce il nome stesso – che è greco –, il bagno caldo; e si traduce nell’enorme diffusione che nel mondo romano ebbero gli stabilimenti termali e nello straordinario favore che la pratica del bagno riscosse presso le popolazioni, d’ogni regione e d’ogni condizione, sottomesse da Roma. Assume tuttavia il suo significato piú profondo, completo e qualificante se lo si considera – come realmente fu – quale autentico fenomeno di costume, espressione di una particolare concezione di vita e modo stesso di vivere o, quanto meno, di vivere il tempo libero. Tutto ciò al livello di massa, da quando, messo alla portata di chiunque, il bagno fini con il trasformarsi in un’esigenza quotidiana e la frequentazione delle terme divenne una delle occupazioni fisse della giornata; forse la piú importante, certamente la piú piacevole.

Desiderio di «ricreazione»

Ricostruzione ideale del tepidarium delle Terme del Foro di Pompei realizzata per l’opera Le case ed i monumenti di Pompei di Fausto e Felice Niccolini, edita a Napoli, in quattro volumi, fra il 1854 e il 1896.

Tanto piú che essa andò presto al di là della pur fondamentale opportunità di soddisfare a buon mercato e nella maniera migliore la cura del corpo, e quindi di ritemprarsi e procurarsi insieme un delizioso benessere. Anche se questo era piú che sufficiente a motivare tanta universale e accesa passione, a fare delle terme il luogo preferito dai Romani per trascorrervi lunghe ore di ogni loro giornata contribuí la possibilità dì trovare in esse praticamente tutto ciò che potevano desiderare per la «ricreazione» non solo del corpo, ma anche dello spirito. E altro ancora... In aggiunta agli ambienti propriamente balneari (e alle palestre che ne erano parte integrante), i grandi complessi termali erano infatti dotati di portici e di giardini, di fontane e ninfei, di spazi

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attrezzati per i giochi e di luoghi per spettacoli, di auditori e biblioteche, di sale di soggiorno e di riposo, nonché di spacci di cibi e di bevande: quasi un compendio, com’è stato osservato, di tutto ciò che poteva rendere piacevole la vita. Tranne il circo e l’anfiteatro – che non erano però di tutti i giorni – non esisteva un altro centro d’attrazione piú forte, capace di coniugare – e sostituire – gli altri luoghi di riunione e di frequentazione della vita quotidiana e quindi di polarizzare l’interesse di ogni genere di persone.

Benessere fisico e relazioni sociali Alle terme, dunque, non s’andava soltanto per fare il bagno e compiere esercizi fisici, ma anche per passeggiare e per giocare, per mangiare e per bere, per assistere a spettacolì scenici e per ammirare opere d’arte, per ascoltare musica e conferenze, pubbliche letture e declamazioni poetiche. E anche per incontrare gli amici e conversare, per fare nuove conoscenze e cercare raccomandazioni e appoggi politici, per commentare i fatti del giorno e fare pettegolezzi, per scommettere sulle corse del circo e per trattare di affari. Le terme, dunque, finirono con il diventare polo di aggregazione, veicolo di diffusione della cultura, occasione di vita sociale in un ambiente che, per sua stessa natura, facilitava l’incontro, l’approccio, la confidenza, al di là di qualsiasi divisione, in un clima di sostanziale e «primordiale» parità. Il discorso vale prima di tutto per Roma e per i grandi stabilimenti termali che vi furono

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costruiti durante l’età imperiale: quelli la cui realizzazione entrò a far parte dei programmi politici di imperatori particolarmente attenti agli effetti, non soltanto propagandistici, della pratica delle elargizioni al popolo. Sicché delle terme – come degli spettacoli e delle distribuzioni gratuite di generi alimentari – essi fecero un autentico «servizio pubblico», costruendo stabilimenti sempre piú complessi e grandiosi, accuratamente attrezzati, riccamente arredati e adornati, aperti gratuitamente alle masse: vere e proprie «ville del popolo», come giustamente è stato detto, con un’espressione suggestiva ed efficace. Da Roma il fenomeno delle terme si diffuse largamente in Italia e in tutte le province dell’impero, assumendo, di fatto, un ruolo di unificazione del costume – e della concezione stessa della vita e qualificandosi presto come uno dei tratti piú caratterizzanti della romanizzazione. Ne fanno ancora fede gli innumerevoli resti di edifici termali – sempre fra i piú tipici e imponenti – disseminati in ogni angolo del mondo romano: nelle città prima di tutto, ma anche nei piccoli centri rurali e nei villaggi minerari, negli scali marittimi e fluviali, nelle ville e nelle fattorie, nelle stazioni di posta lungo le strade e presso i presidi militari, le caserme e i forti ai confini dell’impero. Anche fuori Roma la costruzione delle terme era spesso oggetto di precisi programmi «politici», sia da parte degli imperatori e del governo centrale sia da parte dei governi provinciali e delle amministrazioni municipali. Alla loro opera s’affiancavano quelle dei privati

A sinistra frammento del mosaico pavimentale che ornava in origine uno degli ambienti situati al piano superiore della Palestra Occidentale delle Terme di Caracalla, a Roma, uno dei piú grandiosi impianti del genere, esteso su una superficie di 140 000 mq circa. Nella pagina accanto ricostruzione ideale del frigidarium delle Terme Stabiane di Pompei, da Le case ed i monumenti di Pompei di Fausto e Felice Niccolini, Napoli 1854-1896.


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cittadini (magistrati, notabili, benestanti, «oriundi»), con interventi che potevano anche limitarsi al miglioramento delle attrezzature e dei servizi di impianti già esistenti, all’abbellimento degli ambienti, alla fornitura di legname per il riscaldamento, all’assunzione delle tasse d’ingresso, ecc. In ogni caso tali interventi procuravano prestigio e popolarità, agevolavano la carriera politica e favorivano le ambizioni, assicuravano fama e onori tra i contemporanei e memoria nei posteri. Tanta straordinaria «attenzione» e il ruolo sociale e politico giustificano e spiegano un altro aspetto che le terme indicano in maniera vistosa: quello di eccezionale documento dell’ingegno architettonico, della sapienza costruttiva e della perfezione tecnica del mondo romano. Nell’edificio termale, infatti, è possibile riconoscere il tipo piú perfetto e rappresentativo della grande architettura romana, il punto d’arrivo nel quale confluiscono e si ritrovano tutti gli elementi e le conquiste di un’esperienza secolare. In essa, al contempo, si materializza e si esalta quello spirito cosí tipicamente romano che in

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ogni costruzione inclina facilmente al senso di grandiosità e al gusto per il monumentale, senza tuttavia perdere di vista gli scopi essenzialmente pratici e funzionali. Ciò per non dire delle geniali intuizioni, delle razionali applicazioni e, in definitiva, dell’alto livello e del rigore sperimentale degli impianti tecnici: in particolare dei sistemi di riscaldamento, capaci di reggere il confronto con quelli dei nostri giorni.

Voci fuori dal coro Si potrebbe, a questo punto, concludere con un’ultima notazione relativa alla funzione civilizzatrice delle terme, pressoché unanimemente esaltata dai moderni, che hanno sempre sottolineato il concetto dell’igiene posto all’ordine del giorno e alla portata di tutti. C’è però anche da ricordare che invece, nell’antichità, pur di fronte a tanta fortuna, non mancarono le critiche e le voci contrarie. Cosí quella dell’austero Tacito, che arrivò a indicare nella diffusione della pratica del bagno una delle conseguenze nefaste della romanizzazione. Si tratta, generalmente, delle

In alto una ricostruzione ipotetica delle Terme di Agrippa in una stampa del 1585. Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». Costruito nel Campo Marzio, quello voluto dal genero di Augusto fu il primo impianto pubblico del genere attivo a Roma.


In basso la pianta delle Terme di Nerone (o Alessandrine), riportata da Rodolfo Lanciani nella Forma Urbis Romae. Costruito intorno al 60 d.C. e restaurato da Alessandro Severo nel III sec. d.C., il complesso è noto grazie ai disegni di Andrea Palladio e Antonio da Sangallo il Giovane.

riprovazioni dei moralisti che si rivolgevano agli aspetti obiettivamente negativi e che, a parte la promiscuità, avevano a che fare con gli incentivi offerti dalle pratiche balneari alla pigrizia, alla mollezza, all’ozio e alla perdita di tempo. Soprattutto s’inveiva contro gli abusi e le esagerazioni di chi non si contentava di un bagno completo al giorno, ma ne prendeva, uno dopo l’altro, fino a sette, otto (come sappiamo che faceva l’imperatore Commodo), ogni volta sottoponendosi ai vari passaggi delle pratiche canoniche, dalle estenuanti sudorazioni alle brusche immersioni nell’acqua fredda. Ciò, alla lunga, provocava danni alla salute e comunque debilitazione, fisica e psichica, per chiunque. Per non dire delle morti improvvise, causate dallo stress a cui veniva sottoposto il sistema cardiovascolare quando il bagno era ripetuto troppe volte nella stessa giornata, o perfino quando esso era prolungato

oltre misura. I medici avvertivano a chiare lettere dei pericoli ai quali si poteva andare incontro (e la frequenza dei loro richiami denota la frequenza degli abusi). Ciononostante, quella di fare il bagno senza troppo discernimento e senza ragionevoli limitazioni era per molti un’abitudine, che l’estrema facilità delle occasioni e la straordinaria abbondanza dei luoghi favorivano enormemente.

Il bagno fra le gioie della vita Ma si potrebbe anche parlare di una raffinata pratica per gaudenti, visto che in questi casi il bagno era perlopiú concepito quale puro piacere e, come tale, annoverato tra le gioie della vita e associato – in una sorta di trilogia della perfezione edonistica – ai piaceri procurati dal vino e dall’amore. Era, pertanto, come quelli nocivo (a non sapersi controllare), ma (segue a p. 92)


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Le Terme Stabiane di Pompei U n buon esempio di balneum della fine dell’età repubblicana ci è offerto, fuori di Roma, dalle cosiddette Terme Stabiane di Pompei. Sono le piú antiche tra quelle conosciute, essendo databili, nel loro impianto generale, al II secolo a.C. Divise in due settori, uno per gli uomini e l’altro per le donne, disposti su un unico asse longitudinale ai lati di una fornace comune, erano estese su una superficie di oltre 3500 mq, compreso l’ampio cortile, porticato su tre lati, che serviva da palestra e al quale era stata aggiunta, in un secondo tempo, una grande piscina con uno spogliatoio e altri ambienti, abbastanza vasti da poter essere usati per gli esercizi fisici al coperto. Il settore maschile, che era il piú ricco e completo, si sviluppava, dopo un vestibolo, con le tre sale «classiche»: l’apodyterium (o spogliatoio), munito di un bancone in muratura e di nicchie alle pareti in funzione di armadi; il tepidarium, con una piccola vasca da una parte; il calidarium, al cui interno la vasca dell’acqua calda occupava tutt’intorno uno dei lati corti, mentre l’altro, absidato, ospitava un bacino (labrum) per le abluzioni con acqua fredda. Un po’ appartata e direttamente accessibile dall’ingresso attraverso il vestibolo, una sala rotonda, coperta a cupola, era originariamente adibita a sudatorium, per i bagni di sudore. Essa fu trasformata, con l’aggiunta di una vasca circolare, in frigidarium, dopo che, in età augustea, come ulteriore «momento» della pratica idroterapeutica, era stato introdotto il bagno freddo volto a ritemprare il corpo dopo il rilassamento provocato dall’abbondante sudorazione e dal bagno caldo. R.A.S.

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1 In alto la planimetria delle Terme Stabiane: 1. ingresso principale; 2. palestra; 3. apodyterium; 4. frigidarium; 5. tepidarium; 6. calidarium; 7. settore femminile. In basso, sulle due pagine e nella pagina accanto ricostruzioni dei vari settori dello stesso impianto termale. Qui sotto veduta delle Terme Stabiane di Pompei, il complesso termale piú antico della città (II sec. a.C.), costruito su un impianto precedente (IV-III sec. a.C.), con restauri successivi.


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ugualmente delizioso ed attraente. Come sentenziava il celebre detto: Balnea vina venus corrumpunt corpora nostra sed vitam faciunt, ossia «I bagni, il vino e l’amore ci mandano in malora ma fanno bella la vita»!

I primi impianti I primi bagni pubblici furono aperti a Roma, a opera di imprenditori privati, tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. L’iniziativa s’ispirava a quanto era già stato fatto, sia pure sporadicamente, nel mondo greco, dal quale venne pure il nome di balnea (al singolare balneum o balineum, da balaneia, singolare balaneion) con il quale essi furono designati. Prima di allora, a soddisfare le piú elementari esigenze d’igiene personale erano le quotidiane abluzioni domestiche, che soltanto nelle case delle famiglie benestanti si potevano effettuare in un ambiente a esse espressamente riservato. Indicato col nome trasparente di lavatrina, esso era situato, per evidenti ragioni di prati­cità, nei pressi della cucina, dov’erano il fuoco e le riserve d’acqua. Ma si trattava di un ambiente piuttosto modesto, piccolo e angusto, spesso privo di finestre, dotato di una semplice «tinozza» o di un catino e di qualche secchio, con una panca di legno o uno sgabello. Appena un poco piú confortevoli in quello stesso tempo, nei primi decenni del II secolo a.C., dovevano essere i bagni pubblici; pochi ambienti, non molto spaziosi e male illuminati, semplicemente intonacati, appena stiepiditi mediante bracieri e muniti di piccole vasche, nelle quali veniva versata l’acqua riscaldata entro apposite caldaie su forni a legna. Tuttavia, poiché essi offrivano con modica spesa l’opportunità di prendere un bagno caldo ai molti che non potevano permetterselo in casa, ebbero fortuna e in poco tempo si moltiplicarono. Quindi, anche per ragioni di concorrenza, essi divennero sempre piú comodi, piú ampi e meglio articolati, dotati spesso di una sezione per le donne e, soprattutto, arricchiti e potenziati in modo da consentire, oltre al bagno caldo, bagni di

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Tutti alle terme! I Cataloghi Regionari ci informano che a Roma, nel IV secolo d.C., si contavano ben 856 balnea, cioè stabilimenti termali di varie dimensioni. La cifra ci dà un’idea dell’importanza primaria di questi luoghi nella vita quotidiana dei Romani. Le terme venivano spesso costruite da privati, magistrati, notabili, senatori, che le offrivano al popolo per conquistarsi fama, prestigio e favorire la loro carriera politica. In epoca imperiale, furono gli imperatori a realizzare grandi terme, sempre accessibili gratuitamente. Nel caso di terme e bagni privati invece, l’ingresso era comunque a modico prezzo. La gestione delle terme, sia che fossero di proprietà dello Stato, dell’imperatore o di privati, poteva essere diretta o appaltata a un amministratore (conductor), che pagava una somma al proprietario e riscuoteva la tariffa di accesso e le rendite delle botteghe e degli appartamenti che si trovavano nello stesso fabbricato. Nelle terme lavoravano numerosi operatori specializzati, secondo le varie attività che vi si svolgevano: i capsarii (guardarobieri), i fornaciarii (addetti al riscaldamento), l’unctor (addetto ai massaggi e alle unzioni), l’alipilus (addetto alla depilazione). L’ingresso per gli uomini e

le donne avveniva separatamente; nelle terme piú grandi gli ambienti erano infatti doppi, e le strutture rigidamente separate per i due sessi. Dove ciò non era possibile, gli ingressi avvenivano in orari diversi; ma poteva accadere anche che uomini e donne frequentassero insieme le terme, con grande scandalo dei moralisti come Tertulliano, che definisce adulterae le donne che partecipavano a bagni promiscui (Institutio oratoria, 5.9.14).


Questo portò a una serie di divieti, a partire da Adriano, che dispose la divisione dei bagni secondo i sessi. Gli orari di apertura erano dalle 10,00-11,00 circa del mattino (hora V) al tramonto (hora XI-XII, circa le 18,00, secondo la stagione). L’ingresso, quando non era gratuito, era comunque alla portata di tutte le tasche; Orazio e Marziale parlano di 1 quadrante (un quarto di asse), la piú piccola moneta bronzea in circolazione nel I secolo d.C. (con 1 asse e mezzo si

potevano acquistare un litro di vino e una pagnotta). Nell’editto dei prezzi di Diocleziano, si fissa la tariffa a 2 denari (anche questa la misura piú piccola di monete bronzee). È curioso notare che, mentre per i bambini, i soldati e i liberti l’ingresso era gratuito, le donne pagavano il doppio rispetto agli uomini (nella lex metalli Vipascensis, promulgata in epoca adrianea, si stabilisce mezzo asse per gli uomini e 1 asse per le donne). L.F.

In alto: il Tepidarium, olio su tavola di Lawrence Alma Tadema. 1881. Liverpool, Lady Lever Art Gallery.

sudore, tuffi in piscina e persino la possibiIità di fare ginnastica e giochi di movimento in un apposito spazio aperto adibito a palestra. Rispetto ai modelli greci, quest’ultima fu un’innovazione tipicamente romana; e l’associazione al bagno dell’esercizio fisico, in una prospettiva di cura globale del corpo, contribuí a convincere la maggior parte della popolazione a servirsi sempre piú dei bagni pubblici e a frequentarli con assiduità. Ciò specialmente da quando, per merito del medico Asclepiade di Prusa – venuto a Roma dall’Asia Minore al tempo di Pompeo –, la concezione stessa del bagno assunse una connotazione fondamentale di tipo salutare,

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UN GIORNO IN CITTÀ CAPITOLO

traducendosi in una vera e propria pratica terapeutica, alla quale s’attribuiva la capacità di espellere dal corpo i cattivi «umori» delle possibili malattie. Cosí, mentre già Plauto parla del bagno nelle sue commedie come di un fatto abituale della vita quotidiana nella Roma del II secolo a.C., nel secolo successivo gli stabilimenti balneari erano tanto diffusi da risultare in numero di 170 a un censimento fatto eseguire da Agrippa nel 33 a.C. Essi aumentarono poi a tal punto che, cento anni piú tardi, Plinio il Vecchio dichiarava di rinunciare a contarli. Intorno alla metà del IV secolo d.C. essi erano diventati quasi 1000.

Il salto di qualità Un momento particolarmente importante nella storia del bagno si ebbe tra la fine della repubblica e l’inizio dell’impero, per opera di Agrippa, il quale, con due particolari interventi, dette l’avvio a quello che si sarebbe rivelato un vero e proprio salto di qualità. Agrippa, infatti, dapprima nell’anno in cui fu edile – e quindi responsabile, fra l’altro, del controllo dei bagni – rese gratuito per tutti, con un atto di generosa e ben calcolata liberalità, l’accesso ai balnea della città, assumendo in proprio il pagamento forfettario delle relative tasse d’ingresso. Poi, tra il 25 e il 19 a.C., fece

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costruire nel Campo Marzio, vicino al Pantheon, il primo grande edificio balneare, aperto liberamente al popolo. Purtroppo, le Terme di Agrippa – come furono «ufficialmente» chiamate, prendendo il nome dal loro munifico costruttore – sono pressoché interamente scomparse e solo in piccola parte ci sono note da un frammento della pianta marmorea di Roma d’età severiana. A quel che sembra, oltre a distinguersi dagli stabilimenti balneari del tempo per le proporzioni, per la perfezione degli impianti e per la ricchezza dell’ornamentazione, potrebbero essere state caratterizzate da un accentramento attorno a una grande sala circolare, del diametro di 25 m circa (contro i poco piú di 6 della «rotonda» delle Terme Stabiane di Pompei; vedi box alle pp. 90-91), che è l’unica di cui restino ruderi apprezzabili, i quali, tuttavia, mostrano di essere un rifacimento del tempo di Settimio Severo. Qualche novità di rilievo le Terme di Agrippa dovevano pur presentarla, anche per giustificare il nome di thermae che per esse fu usato la prima volta, derivandolo ancora dal greco e in diretta connessione col concetto di «caldo». Potrebbe essersi trattato, secondo quanto ci dicono gli stessi antichi, dell’introduzione della speciale sala destinata al


Sulle due pagine ricostruzione grafica delle Terme di Traiano. Innalzate tra il 104 e il 109 d.C. sui resti della Domus Aurea dall’architetto Apollodoro di Damasco, sono il primo esempio di grandi terme imperiali, imitato poi da quelle di Caracalla e di Domiziano.

In basso incisione che ricostruisce il sistema di riscaldamento realizzato nelle Terme di Tito, dedicate nell’80 d.C. da Tito, sfruttando probabilmente le terme private della Domus Aurea di Nerone. 1886.

bagno d’aria calda, denominata laconicum (ossia, letteralmente, «spartano»). Il nome denuncia esplicitamente l’origine di quella pratica da Sparta, una città famosa per l’importanza che vi era attribuita alla cultura fisica; e per tale sala si potrebbe anche pensare alla «rotonda» della quale s’è appena detto. Una novità potrebbe altresí riconoscersi nell’approvvigionamento idrico, assicurato con grande dovizia da un acquedotto appositamente costruito. Non si deve infine

trascurare il fatto che, nell’ambito della sistemazione data da Agrippa alla zona del Campo Marzio in cui le terme furono costruite, queste vennero a giovarsi direttamente di un vasto parco o spazio «attrezzato» esteso attorno a un grande bacino d’acqua (stagnum), che poteva essere al tempo stesso lago e piscina natatoria a disposizione dei frequentatori dei bagni.

Una pratica non solo utilitaristica In ogni caso, le Terme di Agrippa segnarono l’inizio di un rapido processo di evoluzione e di progressivo arricchimento degli schemi planimetrici e spaziali e di perfezionamento delle caratteristiche costruttive e tecniche degli edifici balneari. Ciò portò alla nascita di una nuova categoria di tali edifici, che fu per l’appunto quella delle terme. Ancora prima, esse segnarono la definitiva affermazione dell’aspetto edonistico della pratica del bagno, accanto a quello piú strettamente utilitaristico. La conferma si trova nel passo di una delle lettere indirizzate da Seneca a Lucilio. Essa si riferisce ai balnea che continuavano a essere realizzati da impresari privati, osservando come, a ogni apertura di un nuovo stabilimento, tutti quelli precedenti, anche quelli che «al momento della loro inaugurazione

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conobbero una folla entusiasta», finissero per essere sistematicamente «ricacciati tra le anticaglie». Lo stesso Seneca ci dà un’idea di quello che dovevano essere i balnea del suo tempo (cioè della metà circa del I secolo d.C.), dal punto di vista delle esteriorità e dei comfort. Egli scrive, infatti, che ai suoi contemporanei uno stabilimento balneare apparirebbe estremamente povero e disdicevole «se alle pareti non risplendessero grandi specchi circolari; se il marmo alessandrino non si combinasse con incrostazioni di marmo numidico; se questi marmi non fossero adorni da ogni parte di artistici mosaici a vari disegni; se il soffitto non fosse di vetro; se il marmo di Taso, che un tempo si poteva ammirare (e neppure tanto spesso) solo nei templi, non circondasse le vasche in cui abbandoniamo il corpo estenuato dall’abbondante sudore; se l’acqua non sgorgasse da rubinetti d’argento». Questo in linea generale. Ma proprio al tempo di Seneca appartiene il nuovo splendido edificio termale fatto costruire da Nerone su un’area di 30 000 mq circa, ancora nel Campo Marzio, a poca distanza dalle Terme di Agrippa. In accordo con quanto evidenziato dal filosofo di Cordova, esso dovette colpire per la sua grandiosità e per lo sfarzo della decorazione, tanto che Marziale, facendone un accenno, si chiede: «Che cosa vi fu di peggiore di Nerone? E che cosa di migliore delle Terme di Nerone?». L’importanza dell‘edificio sta tuttavia soprattutto nell’essere stato – sull’esempio di quanto aveva fatto Agrippa, che peraltro agiva ancora da privato – il primo caso d’iniziativa pubblica nel campo delle costruzioni termali e di inserimento di queste nella politica «sociale» degli imperatori. O, piú esattamente, di coloro che ritennero di soddisfare le esigenze piú elementari e magari anche i capricci del popolo allo scopo di garantirsi fama e prestigio, ma prima di tutto consenso e tranquillità.

La prima costruzione e il restauro Costruite all’inizio degli anni Sessanta del I secolo d.C. (secondo alcuni, dopo il disastroso

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incendio di Roma del 64), le Terme di Nerone furono sottoposte due secoli dopo, per opera di Alessandro Severo, a un intervento di restauro del quale non conosciamo l’entità. Questo ci impedisce di valutare con esattezza le possibili novità dell’impianto neroniano rispetto al passato, o piuttosto di attribuire con certezza all’epoca di Nerone le novità che la pianta delle terme – quasi perfettamente conosciuta grazie ai disegni del Palladio e di Antonio da Sangallo il Giovane, convalidati da vari resti tuttora in situ – abbondantemente e con grande evidenza rivela. Tuttavia, nonostante il cambiamento ufficiale del nome (da thermae neronianae a thermae alexandrinae), che potrebbe indiziarne il rifacimento pressoché totale, e pur essendo i ruderi rimasti certamente databili al III secolo d.C., vari motivi inducono a ritenere che l’intervento di restauro non sia stato tale da alterare sostanzialmente la planimetria originaria dell’edificio, e dunque che le sue caratteristiche principali siano rimaste quelle del primo impianto. Sarebbe allora possibile attribuire alle Terme di Nerone un’altra importante «primizia » (e al loro ignoto architetto il merito relativo) e cioè l’«invenzione» del tipo divenuto poi canonico della grande terma imperiale. Tale tipo è caratterizzato da una planimetria coordinata su due assi incrociati ad angolo

In basso una delle esedre che ospitavano le biblioteche delle Terme di Traiano, sul Colle Oppio.


In alto resti delle Terme di Caracalla (o Antoniniane), costruite da Caracalla tra il 212 e il 216/7 d.C.

retto, con la sequenza degli ambienti essenziali lungo uno dei due assi e la duplicazione degli ambienti minori e complementari (comprese le palestre) in posizione simmetrica, ai lati di quelli principali, lungo l’altro asse. Si tratta di un insieme organicamente concepito e non piú semplicemente giustapposto, com’era ancora nelle Terme di Agrippa (risultato della perfetta fusione e della rielaborazione unitaria del bagno romano e del ginnasio greco).

Un nuovo elemento di raccordo Sarebbe altresí attribuibile alle stesse Terme di Nerone l’introduzione della grande aula di tipo «basilicale», collocata all’incrocio dei due assi in funzione di raccordo e di «cerniera» di tutto l’impianto. Il passo successivo fu l’inserimento dell’edificio balneare, cosí concepito e strutturato, all’interno di una vasta area aperta e delimitata sui quattro lati da un «recinto» formato di portici, ambienti e spazi variamente attrezzati con destinazioni diverse (anche se per molti aspetti complementari) da quelle propriamente balneari. La nascita di questo vero e proprio «sistema integrato» – nel quale tuttavia le due componenti rimanevano distinte e separate per non intralciare il complicato funzionamento dei bagni e per dare comunque a ognuna di esse I’«ambiente» adeguato – avvenne con le Terme di Traiano, costruite sul Colle Oppio e sui resti appositamente interrati della Domus Aurea di Nerone. Ciò dopo che le precedenti e vicine terme fatte costruire da Tito e inaugurate nell’80 d.C. – probabilmente in attuazione di un progetto già approntato nell’ambito della stessa Domus Aurea e forse almeno in parte già avviato a realizzazione al tempo di Nerone – avevano seguito il «modello» delle terme

neroniane del Campo Marzio: proprio la somiglianza tra i due complessi conforta nell’idea di escludere un vero e proprio rifacimento delle Terme di Nerone per mano di Alessandro Severo. Le Terme di Traiano, quasi certamente costruite dall’architetto Apollodoro di Damasco e inaugurate, come sappiamo da un documento preciso, il 22 giugno dell’anno 109 d.C., s’estendevano su una superficie di 110 000 mq circa e sono da noi abbastanza ben conosciute, grazie ai grandi ruderi superstiti e alle integrazioni che è possibile farne con i frammenti della pianta marmorea di Roma antica. Erano caratterizzate dall’edificio balneare realizzato nello schema fissato dalle Terme di Nerone, ma circondato su tre lati da un’ampia area aperta delimitata da un «recinto» che comprendeva esedre e sale minori e un grande emiciclo al centro del lato maggiore: esse furono perciò il primo vero esempio completo di quel tipo d’impianto al quale ci si riferisce quando si parla di grandi terme imperiali. Le Terme di Traiano, inoltre, presentano l’ulteriore novità costituita dalla migliore dislocazione dell’impianto rispetto ai punti cardinali, essendo orientate le sale calde verso sud-ovest (mentre negli esempi precedenti lo erano verso sud) allo scopo di sfruttare meglio e fino al tramonto i raggi del sole pomeridiano. Dopo le Terme di Traiano, i nuovi apporti furono soltanto nell’ordine delle varianti e dei perfezionamenti; questi soprattutto per quel che concerne il rapporto tra l’edificio dei bagni e lo spazio circostante. In tal senso, si può sottolineare il «distacco» dello stesso edificio dei bagni anche dal quarto lato del «recinto» attuato con le Terme di Caracalla, costruite fra il 212 e il 216/7 d.C., su una superficie di 140 000 mq circa (con l’edificio dei bagni che misura 220 x 114 m); e, infine, la sua collocazione giusto al centro dell’area aperta recintata con le Terme di Diocleziano (le piú grandi di tutte), costruite fra il 298 e il 306 d.C., su una superficie di quasi 150 000 mq (con l’edificio dei bagni di 250 x 180 m). R.A.S.

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UN GIORNO IN CITTÀ Gli spettacoli

Folle da stadio

T

ra i principali poli d’attrazione dell’antica Roma vi erano i luoghi di spettacolo, dove il popolo poteva sfogare le proprie passioni e i propri entusiasmi. Stiamo parlando naturalmente dell’anfiteatro e del circo, i piú apprezzati, e del teatro e dello stadio. Gli spettacoli del circo (ludi circenses) sono i piú antichi, risalendo al tempo dei primi re di Roma (la costruzione del primo Circo Massimo andrebbe attribuita a Tarquinio Prisco, se non addirittura a Romolo), e godettero sempre di grandissimo apprezzamento (notissima è l’espressione di Giovenale panem et circenses, riferita alle distribuzioni gratuite di grano e alle gare che si svolgevano nel circo, come mezzo di propaganda attraverso il quale gli imperatori puntavano a conquistare il favore della popolazione). I giochi consistevano nella corsa di carri trainati da due o quattro cavalli; le gare si svolgevano sulla distanza di sette giri, e prevedevano quattro equipaggi, contraddistinti da altrettanti colori, come raffigurano, per esempio, alcuni mosaici. La passione per queste gare diede vita a vere e proprie fazioni di «tifosi», che spesso venivano alle mani anche in modo violento.

Corse e combattimenti Le gare dei carri si svolgevano nel Circo Massimo (per il quale è stata stimata una capienza che oscilla tra i 250 000 e i 300 000 spettatori), ma la passione per tali competizioni era tale che gli imperatori si erano costruiti circhi a uso privato, come quello di Caligola e Nerone in Vaticano, o quello di Massenzio, sulla via Appia (che però, probabilmente, non entrò mai in funzione). Oltre alle corse dei carri, il circo poteva ospitare anche spettacoli di venationes, cioè cacce alle bestie feroci, in cui, con apposite scenografie, si ricostruivano i paesaggi in cui vivevano gli animali. La popolarità dei giochi circensi è testimoniata da un’infinità di oggetti che raffigurano questi spettacoli, che potevano durare diversi giorni,

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ed erano pubblicizzati con cartelli dipinti, presenti su tutti gli spazi pubblici, come risulta dai rinvenimenti di Pompei. Le venationes potevano svolgersi anche negli anfiteatri. Qui avevano luogo gli spettacoli piú sanguinosi, ai nostri occhi deprecabili (anche se già Seneca li ritiene spettacoli immorali e crudeli: Lettere a Lucilio, 7), ma che invece riscuotevano un enorme successo. Oltre alle venationes, nell’anfiteatro si rappresentavano esecuzioni sotto forma di spettacolo, in cui i condannati venivano sbranati dalle fiere (damnatio ad bestias), e, soprattutto, i giochi gladiatori (munera).

Rilievo funerario per un magistrato, responsabile dell’organizzazione delle corse delle quadrighe nel circo. II sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano.


Gli spettacoli occupavano l’intera giornata, secondo una successione ben precisa: la mattina si svolgevano le venationes (combattimenti con le fiere) e le esecuzioni dei condannati a morte (damnati ad bestias) nell’intervallo del pranzo le esecuzioni capitali e spettacoli di mimi e giocolieri, nel pomeriggio i combattimenti di gladiatori. Spesso gli spettatori portavano con sé anche cibi e bevande acquistate nelle bancarelle delle vicinanze, a meno che non fosse annunciata una distribuzione gratuita di pane o altre vettovaglie da parte dell’imperatore o del personaggio che aveva organizzato i giochi.

Agli spettacoli del circo e dell’anfiteatro assistevano tutte le classi sociali, a cominciare dall’imperatore e dalla sua corte, dai senatori e cavalieri, fino al popolino, costituendo cosí un’occasione unica in cui i cittadini venivano a diretto contatto con il principe, manifestandogli consenso o avversione. Se tali spettacoli erano tanto apprezzati «dal popolaccio piú vile di una vilissima casacca (degli aurighi)», come dice Plinio il Giovane, lo erano meno quelli senz’altro piú tranquilli e raffinati che si svolgevano nello stadio – fatto costruire da Domiziano – per farvi rivivere le gare sportive della tradizione greca, e quelli teatrali.

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UN GIORNO IN CITTÀ

un impianto grandioso Disegno ricostruttivo del Circo Massimo, situato nella valle tra l’Aventino e il Palatino. Secondo lo storico Dionigi di Alicarnasso, era lungo 621 m e largo 118 e poteva ospitare, in epoca augustea, 150 000 spettatori circa. In seguito, la capienza aumentò, fino a raggiungere, secondo le diverse stime le 250 000 o addirittura le 300 000 unità. I dodici carceres, i cancelli di partenza per i carri, si trovavano sul lato corto settentrionale (1); erano dotati di un meccanismo che ne permetteva l’apertura simultanea. Al centro del circo si trovava una lunga spina (2), nel tempo arricchita da statue, edicole e monumenti. Nel 10 a.C., vi fu posto l’obelisco di Ramesse II (3) proveniente da Heliopolis (ora in piazza del Popolo) e, nel IV sec. d.C., l’obelisco di Thutmosi III, da Tebe (ora in piazza S. Giovanni in Laterano). Al centro, erano collocate 7 uova in pietra (4) che servivano per contare i giri compiuti dalle quadrighe, a cui furono aggiunti da Agrippa 7 delfini di bronzo (5) con la stessa funzione. L’imperatore Claudio fece costruire alle estremità della spina, nel punto intorno a cui giravano i carri, le metae (elementi conici) in bronzo dorato (6). Sotto Augusto fu costruito,

sul lato lungo nord-orientale, contiguo al Palatino, il pulvinar (7), una zona sacra riservata agli dèi che presiedevano agli spettacoli. La facciata esterna aveva tre ordini: quello inferiore, di altezza doppia, era ad arcate (8). La cavea poggiava su strutture in muratura, che ospitavano i passaggi e le scale per raggiungere i diversi settori e gli ambienti di servizio interni. I sedili erano suddivisi orizzontalmente da praecinctiones in tre zone, ognuna corrispondente a un piano, e verticalmente in cunei (9). Al centro del lato curvo meridionale in antico si apriva una porta, sostituita con un arco trionfale da Lucio Stertinio nel 196 a.C., e dall’arco di Vespasiano e Tito nell’80-81 d.C. (10).

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8 Sebbene Roma disponesse di ben tre edifici teatrali – quello di Pompeo, quello di Marcello e quello di Balbo –, realizzati tra la fine della repubblica e l’inizio dell’età augustea, già nella metà del I secolo d.C. le commedie e le tragedie tradizionali vennero sostituite dal «mimo». Quest’ultimo consiste in una successione di scene tratte dall’antico repertorio della tragedia, in cui vengono esasperati i momenti piú truculenti e nel quale i

temi dominanti sono la morte, il mistero, la magia, l’amore infelice, o vengono ripresi canovacci della commedia, ridotti però a sceneggiate sboccate, interpretate in chiave buffonesca. Se i mimi (qui intesi come attori) goderono di fama e popolarità, come riportano alcune iscrizioni, provocarono anche il disprezzo di Giovenale, che scrive: «Quando penso che costoro (gli spettatori) perdono con insaziabile avidità il loro tempo in uno spettacolo vano, insulso, sempre uguale, godo un certo piacere dal non godere di quel piacere». Oltre che nei luoghi suddetti, si poteva passare il tempo dedicandosi a vari giochi, spesso legati a scommesse; molto diffusi erano i dadi, gli scacchi, la dama e il filetto, che si giocavano con pedine in osso disposte su scacchiere incise sui marciapiedi o sui gradini dei luoghi piú frequentati, come portici e basiliche o in altri edifici pubblici (vedi alle pp. 118-121). L.F.

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Tutti al circo! L a corsa delle quadrighe nel circo è una delle sequenze piú celebri del film Ben Hur (1959) e, da quando la pellicola uscí nelle sale, ha per molti rappresentato la ricostruzione piú fedele di come quegli spettacoli dovessero svolgersi. Spettacoli che furono sempre molto apprezzati e che, a Roma, avevano la loro sede nel Circo Massimo, il piú grande edificio del genere mai realizzato. La struttura, ai piedi del Palatino, costituisce una presenza tuttora ben riconoscibile nel paesaggio urbano, ma è difficile immaginarne l’aspetto originario, essendo andati distrutti gran parte degli elementi che la componevano. Una difficoltà aggirata dal progetto Circo Maximo Experience, una visita immersiva, in realtà aumentata e virtuale, grazie alla quale si può ripercorrere la storia del sito grazie alle ricostruzioni architettoniche e paesaggistiche di tutte le sue fasi storiche: dalla prima e semplice costruzione in legno, ai fasti dell’età imperiale, dal Medioevo fino ai primi decenni del Novecento. L’esperienza immersiva inizia con la presentazione della Valle Murcia, tra il colle Palatino e il colle Aventino. La valle è sempre stata luogo d’incontro e scambio, nonché sede di numerosi culti, tra i quali quelli dedicati alla dea Murcia, alla dea Cerere e al dio

Consus, celebrati con feste e gare equestri. In età règia, la valle subí alcune trasformazioni, soprattutto a opera degli ultimi re di Roma, i Tarquini, che allestirono l’intera area con le prime file di sedili in legno. Con lo sviluppo della città e la maggiore importanza acquisita dalle manifestazioni pubbliche, lo spazio delle corse si arricchí di elementi funzionali come i carceres, cioè gli stalli di partenza dei carri, e gli spalti che andarono gradualmente a espandersi, dando vita a quello che diventerà, in seguito, il piú imponente edificio di spettacoli mai costruito, il Circo Massimo. Il viaggio prosegue poi rivivendo le trasformazioni del Circo dal I secolo a.C. al I secolo d.C. Sia Giulio Cesare che Augusto, per la prima volta concepirono il Circo come struttura monumentale e separata dagli altri edifici della Valle, dando il via alla costruzione di un complesso unico nel suo genere. All’inizio del II secolo d.C., Traiano ricostruí l’edificio interamente in muratura e a questa fase appartengono le strutture ancora visibili. In età imperiale l’edificio raggiunse l’apice del suo splendore. Oltre alle corse dei carri, era possibile anche assistere ad altri tipi di spettacolo, come per esempio le battute di caccia con animali

A destra e in basso due immagini realizzate per Circo Maximo Experience, che propongono la ricostruzione virtuale del grande edificio per spettacoli. Nella pagina accanto, in basso uno scorcio del Circo Massimo, cosí come si presenta oggi. Sulla sinistra, la Torre della Moletta, struttura innalzata nel Medioevo a scopo difensivo.

esotici. Il Circo presentava su un lato i carceres, mentre gli altri tre lati costituivano la cavea, le gradinate. Gli spettatori prendevano posto in differenti settori in base alla classe sociale di appartenenza. Si può quindi ammirare l’imponente Arco di Tito, dedicato nell’81 d.C. dal Senato e dal Popolo romano all’imperatore Flavio per celebrare la conquista di Gerusalemme del 70 d.C. L’attraversamento dell’arco era parte fondamentale dei cortei trionfali in onore dei generali e degli imperatori vittoriosi. La processione aveva inizio dal


Campo Marzio, entrava in parata nel Circo Massimo e, passando poi sotto l’Arco, si dirigeva al tempio di Giove Capitolino, sul Campidoglio. Alto circa 20 m e a tre fornici, l’Arco era sormontato da una grande quadriga bronzea guidata dall’imperatore. La penultima tappa del viaggio è dedicata alle trasformazioni che interessarono l’area del Circo Massimo dal Medioevo alla prima

metà del Novecento. Le ultime gare si svolsero infatti nella prima metà del VI secolo d.C., poi l’area si riempí di sedimenti e, dall’VIII secolo, fu attraversata da diversi corsi d’acqua. Al XII secolo risale invece la costruzione della Torre della Moletta, edificio difensivo medievale. Nel Seicento, le pendici del colle Aventino furono poi occupate dal Cimitero degli Ebrei, i cui cipressi, ancor oggi, ne

indicano l’antica localizzazione. In seguito, nel 1854, la Compagnia Anglo-Romana dell’Illuminazione a Gas realizzò il primo impianto di produzione del gas per l’illuminazione pubblica. La fabbrica occupava circa due terzi dell’area. Nei primi decenni del Novecento, i Gazometri furono trasferiti e l’intera zona fu bonificata: tra il 1928 e il 1936 furono scavati, e in parte restaurati, alcuni settori dell’antico Circo, ma la presenza dell’acqua di falda non permise il completamento dell’opera. A partire dal 1936, l’area del Circo Massimo fu concessa al Partito Nazionale Fascista, che iniziò a utilizzarla come spazio espositivo, costruendovi imponenti padiglioni e realizzando anche un vero e proprio stabilimento balneare costituito da tre piscine. Nel 1940, con l’inizio della guerra, queste costruzioni furono smantellate. Nell’ultima tappa di visita, Un giorno al Circo, si assiste a una emozionante corsa di quadrighe tra urla di incitamento del pubblico e capovolgimenti di carri.

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Eroi e divi delle arene C he cosa ci faceva una matrona ornata di gioielli nella «caserma» dei gladiatori, a Pompei, il giorno dell’eruzione del Vesuvio? Il ritrovamento del suo scheletro in un ambiente del quadriportico del teatro ristrutturato, dopo il terremoto del 62 d.C., come ludus gladiatorio, ha fatto pensare a un convegno amoroso tra una signora di buona famiglia e un gladiatore, brutalmente interrotto dall’immane tragedia. Forse, e piú banalmente, la donna era solo una delle decine di persone i cui scheletri sono stati ritrovati nello stesso complesso e che, fuggendo verso la campagna e il mare, s’erano rifugiate nell’edificio in un momento di particolare violenza dell’eruzione, rimanendovi poi bloccate dalle esalazioni gassose e dalla pioggia di ceneri. L’idea di un estremo atto d’amore

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consumato nel momento stesso in cui la morte s’abbatteva improvvisa sui due amanti, non è però del tutto campata in aria. Qualcosa di simile a quello che, forse con troppa fantasia, è stato attribuito alla matrona pompeiana, pare fosse il «diversivo» che si concedeva ogni tanto la moglie di Marco Aurelio, Faustina la quale – secondo la Historia Augusta (Vita di M.A. XIX) e Cassio Dione – quando il marito era lontano da Roma, se ne andava a Gaeta dove frequentava marinai e gladiatori della locale «palestra». E dovette essere in occasione di una di quelle «trasferte» che, stando alle dicerie, l’Augusta concepí Commodo, il «figlio» degenere dell’imperatore filosofo, che, alle armi e alle imprese dei legionari, preferiva le armi e le gesta dei combattenti dell’arena, con i quali amava addirittura misurarsi.

Dicerie – e ipotesi – su matrone e imperatrici, restano tali. È però certo che i gladiatori di tutte le categorie (compresi i «cacciatori di belve» delle venationes) godevano di molta ammirazione da parte delle signore che frequentavano l’anfiteatro seguendo gli incontri assai meno interessate e attente agli aspetti tecnici dei combattimenti quanto alla prestanza fisica e ai successi dei loro eroi. Ne fanno fede le testimonianze letterarie ed epigrafiche e diversi graffiti ritrovati a Pompei, come quelli che esaltano piú volte le doti amorose del reziario Crescente e del trace Celado: l’uno acclamato come dominus et medicus puparum nocturnarum («signore e medico delle fanciulle nottambule»), l’altro, come suspirium et decus puellarum («struggimento e ammirazione delle ragazze»; ma, in


Particolare del mosaico cosiddetto «dei Gladiatori», con scena di combattimento, da Leptis Magna. I-II sec. d.C. Tripoli, Museo di Tripoli.

questi casi, si potrebbe anche pensare a una sorta di autopromozione sbruffona). Marziale però dedica un intero epigramma (V, 24) a un gladiatore di nome Ermes, osannato come cura laborque ludiarum, «tormento e spasimo delle spettatrici» (o ludiae, come esse venivano chiamate). Giovenale, dal canto suo, racconta d’un episodio che fece scandalo ai suoi tempi: quello della moglie di un senatore, Eppia, che, invaghitasi di un gladiatore di nome Sergio, lo seguí, con la sua «compagnia» fino in Egitto. «Dimentica della sua casa, del marito, della sorella, non ha tenuto conto della patria, la scellerata, ha abbandonato i figli piangenti (...) Benché cresciuta tra le piume e gli agi della casa paterna (...) non ha avuto paura del mare (...) con cuore indomito ha affrontato i flutti del Tirreno e quelli risuonanti

dello Ionio». Mentre, se fosse stata col marito – osserva argutamente il poeta –, invece d’andarsene su e giú per il ponte e pranzare coi marinai, le sarebbe venuto il mal di mare. «Ma poi, per quale bellezza bruciava, da quale giovinezza fu presa Eppia?», si domanda ancora il poeta. «Che cosa mai aveva visto per sopportare d’essere chiamata “la donna del gladiatore”? Gíà da un pezzo Sergetto aveva cominciato a radersi la barba biancheggiante, e a sperare nel congedo per il suo braccio rotto. Per di piú, aveva la faccia tutta sfregiata, una grossa gibbosità in mezzo al naso causatagli dall’attrito dell’elmo e un male fastidioso gli faceva lacrimare gli occhi». «Ma era un gladiatore» – è la conclusione – «e questo ne fa un Giacinto». Altri «eroi dell’arena», amati dal pubblico, maschile e femminile,

anche piú dei gladiatori, erano gli aurighi del circo. Quelli che, alla guida di bighe o quadrighe, si cimentavano in gare avvincenti ed eccitanti. Basti pensare che nelle corse era consentito tutto ciò che potesse nuocere gli avversari, compresi i... colpi bassi, e provocare il loro «naufragio», com’era detto, nel gergo circense, il ribaltamento del carro con la rovinosa caduta del suo conduttore. Quella del circo era un’autentica malattia. Tutti, a Roma, di ogni classe sociale, fino all’imperatore, avevano la propria «scuderia» (o «fazione»), scelta tra le quattro che, a seconda del loro colore, erano denominate albata e russata (Bianca e Rossa), prasina e veneta (Verde e Azzurra). Ognuna di esse era oggetto di un «tifo» sfrenato che, dalle discussioni e dalle scommesse, degenerava sovente in risse e

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UN GIORNO IN CITTÀ

scontri fisici, con tanto di morti e feriti. Gli aurighi, poi erano addirittura idolatrati e la lunga carriera consentiva loro, coi ripetuti successi, una duratura celebrità, accompagnata da lauti guadagni. Basti pensare a quelli di loro che potevano fregiarsi dell’appellativo di miliarii, avendo conseguito mille vittorie. Magari superandole, anche di gran lunga. Come nel caso di quel Diocle, un auriga lusitano della fazione russata, morto a quarantadue anni dopo aver esercitato la sua professione per ventiquattro, che, stando alla sua lunga epigrafe funeraria (datata al 146 d.C.), di gare ne vinse ben 1462 (mentre 861 volte arrivò secondo, e altre 576 terzo) accumulando una vera fortuna, visto che per ognuna delle sue vittorie riceveva fino a 15 000 sesterzi. E l’epigrafe puntigliosamente dichiara che in tutta la sua carriera, egli mise insieme la bella somma di 35 Elmo gladiatorio da parata, del tipo trace, dal Ludus Gladiatorius di Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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milioni di sesterzi (che, a un calcolo fatto negli anni Sessanta del secolo scorso, equivaleva a qualcosa come 14 miliardi di lire). Senza contare che ai premi ufficiali si deve aggiungere quello che arrivava «sotto banco»: prima di tutto i proventi delle scommesse che i fautores (ossia i «sostenitori» fanatici) praticavano con grande accanimento. Marziale scrive in proposito che un certo Scorpio, «dalle corse, si portava via saccate d’oro»! E Svetonio racconta che l’imperatore Caligola – «fan» sfegatato della fazione Verde (tanto da intrattenersi spesso a cena nelle sue scuderie) – insieme ad altri regali, donò all’auriga Eutico 2 milioni di sesterzi. Dello stesso Caligola, sempre Svetonio ricorda la passione smodata per il cavallo Incitatus, campione di un «divismo» che riguardava anche gli animali, specie i funales, i cavalli di sinistra che guidavano gli altri nel doppiaggio delle metae, frenando quel tanto che consentisse a tutti di girare a dovere e che, per rispondere meglio ai comandi dell’auriga, non erano attaccati al timone del carro ma, con una fune (donde il nome), direttamente agli altri. Perché Incitatus non venisse disturbato, alla vigilia di una gara, Caligola imponeva il silenzio al «vicinato», manu militari. Gli aveva fatto, inoltre, rivestire di marmo la stalla e fornire una mangiatoia di avorio; gli aveva regalato una gualdrappa di porpora e finimenti tempestati di gemme e, infine, una casa arredata e completa di servi affinché potesse ricevere degnamente le persone che egli invitava a visitarlo a suo nome. «Si diceva persino – conclude il biografo – che avesse in animo di nominarlo console!».

Nella pagina accanto particolare di un mosaico pavimentale raffigurante un auriga del circo, dalla villa romana di Baccano, al XVI miglio della via Cassia. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Il personaggio indossa una tunica (quadrigaria) di colore rosso che lo identifica perciò come appartenente alla fazione russata.

A proposito di testimonianze sulle passioni e il tifo per i divi del circo, assai significativa è la «maledizione» scagliata contro un auriga (di nome Eucherio), ritrovata su una tabella defixionis (dal verbo defigere, infiggo, scrivo sopra, fisso, dichiaro): una di quelle laminette di piombo indirizzate alle divinità infernali – e perciò calate, arrotolate, dentro una fossa, un pozzo o una sorgente, meglio se di acqua calda, ritenute in comunicazione diretta col mondo sotterraneo – contenenti formule e frasi di imprecazione e di «consacrazione» agli Inferi, a danno di nemici da colpire: «Esseri e numi santi, vi scongiuro di mettervi insieme nel mandare a buon fine questo incantesimo, legando, incantando, opponendovi, intralciando, unendovi per annientare, uccidere, fracassare l’auriga Eucherio e tutti i suoi cavalli, domani nel Circo di Roma. Che possa partire malamente, che vada lento nel suo percorso, che non riesca a sorpassare nessuno, né a girare bene, né a vincere premi. Se rimane ostinatamente a ruota con qualcuno, che non possa vincerlo; se sta dietro a qualcun altro, che non riesca a sorpassarlo, e che, invece, colto da un incidente, venga fermato e possa sfracellarsi. Cosí nelle corse del mattino e in quella del pomeriggio, venga ostacolato dalla vostra potenza. Ora, ora, subito, subito!». R.A.S.


Quando si dice auriga Il termine auriga indicava soprattutto il guidatore nei giochi circensi, e la sua attività era detta aurigatio; in seguito prevalse l’altro nome di agitator. Spesso al nome agitator segue quello della fazione a cui esso appartiene (per esempio, agitator factionis russatae, albae, venetae, prasinae, che erano le quattro piú importanti). Nell’età imperiale romana coloro che correvano nei circhi (aurigae, agitatores) indossavano un costume già in uso da secoli, che conosciamo esattamente attraverso numerosi mosaici, rilievi e statue e anche da due frammenti di papiri illustrati e dalle miniature dell’Iliade Ambrosiana. Il costume si componeva di una corta tunica con maniche lunghe (quadrigaria) che, secondo il colore delle fazioni (russata, albata, prasina, veneta) era rossa, bianca, verde o azzurra. Intorno al corpo gli aurighi portavano una fasciatura contro la rottura delle costole. Ginocchia e stinchi erano protetti da corregge di cuoio; sulla testa indossavano un berretto simile ai nostri fantini con visiera e piuma a lato. La carriera dell’auriga iniziava nella prima giovinezza e non durava oltre i quarant’anni.

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UN GIORNO IN CITTÀ

Il Teatro I

l teatro romano, a differenza di quello greco, non ha necessità di un pendio a cui appoggiare la cavea, anche se lo utilizza quando se ne presenta l’opportunità, ma distende le sue gradinate – divise in piú zone, dette maeniana – su sostruzioni semicircolari e radiali (1). All’esterno presenta una facciata ad arcuazioni a due o tre ordini (2), da cui il pubblico entrava, e che all’interno definiscono ambulacri semicircolari a varie altezze. La cavea è spesso coronata da una galleria coperta, la porticus in summa cavea (3). Lo spazio dell’orchestra, anziché circolare come in quello greco, è ridotto all’emiciclo verso la cavea (4); il palcoscenico – detto pulpitum (5) – non è molto alto rispetto al piano dell’orchestra (circa 1-l ,5 m), con la fronte articolata in nicchie e decorata con rilievi. La facciata della scena (scaenae frons), una struttura architettonica a due o piú piani coperta da una tettoia che facilitava la risonanza (6), è abitualmente coordinata come altezza alla cavea. È riccamente decorata con ordini architettonici sovrapposti: poteva essere rettilinea oppure articolata in nicchie, generalmente tre semicircolari o una centrale semicircolare e due rettangolari ai lati. Nelle nicchie si aprivano le tre porte dalle quali entravano gli attori, la centrale, detta valva (o porta) regia (7) e le due laterali, le valvae (portae) hospitales (8). Ai lati della scena vi erano piú ambienti, i cosiddetti parasceni (9) usati dagli attori e comunicanti con il palcoscenico e/o le aule con funzioni di foyer. Rispetto a quello greco, il teatro romano risulta essere un edificio chiuso, con grandi vantaggi sia per l’estetica che per l’acustica, dotato di un vero spazio interno, al quale manca soltanto una copertura stabile per essere uguale al nostro teatro moderno: poteva infatti essere coperto, ma solo provvisoriamente, con grandi teloni di seta o di lino, i cosiddetti velaria.

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Nella pagina accanto, in basso particolare di un festone a mosaico, recante una decorazione con maschera teatrale, foglie e frutta, dalla Casa del Fauno di Pompei. II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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UN GIORNO IN CITTÀ

Su il sipario! A nche gli attori occupavano un posto di rilievo tra i «divi» dell’antichità. Benché ascritti a una categoria sociale caratterizzata dalla infamia (la stessa che veniva attribuita a osti, biscazzieri, lenoni e prostitute) e che comportava, tra l’altro, l’esclusione da molti diritti propri degli uomini liberi, non mancavano quelli che per la loro bravura, riuscivano a guadagnare successo e popolarità, diventando i «beniamini» di un pubblico di

affezionati. I quali arrivavano a riunirsi in veri e propri «fan club», come oggi si direbbero. Almeno stando a un’iscrizione di Pompei (dove, peraltro, sono molte le scritte che nominano attori) che cita i «Paridiani», sostenitori dell’attore Paride, che andava per la maggiore. La condizione degli attori era molto migliorata durante l’età imperiale, quando gli spettacoli acquistarono progressivamente la valenza di servizio pubblico. Inoltre, l’abbandono della maschera tradizionale, per spettacoli che erano ormai quasi esclusivamente di mimo (e quindi molto legati alle espressioni del volto), consentendo il «riconoscimento» dell’attore, grazie all’individuazione della sua fisionomia, agevolava il diffondersi della sua popolarità. In particolare, presso il pubblico femminile, con le donne, sempre piú «in prima fila» negli spettacoli (sebbene fossero di solito relegate

nei piani alti delle gradinate), che al teatro correvano numerose, lasciandosi coinvolgere appieno nelle vicende rappresentate, immedesimandosi e «prendendo parte» all’azione scenica. «Quando Batillo danza lascivo la pantomima di Leda, Tuccia piú non frena la vescica – scrive Giovenale (VI, 63-66) – e Apula guaisce languida come suole durante l’amplesso, mentre Timele, la sempliciotta, impara». Ma il poeta incalza (71 e segg.): «Urbico muove il riso coi gesti di Autonoe, nella farsa atellana: Elia spasima per lui, ma non ha soldi». E questo significa che col danaro c’era chi non aveva difficoltà a far cadere quella sorta di cintura di castità che gli impresari imponevano agli attori perché non s’abbandonassero agli stravizi e non si guastassero la voce, «come qualcuna l’aveva rovinata a Crisogono; mentre Ipulla si gode l’attore tragico». E Giovenale insiste. Rivolto al suo immaginario

A sinistra particolare di un mosaico raffigurante una flautista, da Pompei. Opera firmata dal mosaicista Dioscuride di Samo, attivo nel II sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto particolare di un mosaico con scena a tema teatrale, raffigurante attori e maschere tragiche, da Hadrumetum, Tunisia. III sec. d.C. Susa, Museo Archeologico.

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interlocutore, gli chiede: «E che ti saresti aspettato? Che si fosse innamorata d’un Quintiliano?» (cioè di un letterato). Poi aggiunge: «Tu prendi moglie e quella rende padri Echione il citaredo, o Glifiro e Ambrosio, i flautisti!». Infine – e richiamando in causa anche i divi dell’arena – evoca la nobile dimora dove si festeggia per la nascita dell’erede che «dalla culla di tartaruga, ti mostrerà, o Lentulo, le fattezze dell’attore Eurialo o quelle di un gladiatore mirmillone». Anche per gli attori, successo e popolarità portavano con sé onori, retribuzioni e premi speciali. Tra i primi, potevano esserci la concessione di sacerdozi e cariche pubbliche e perfino la dedica di statue. Come toccò, a Tivoli (e in altre città), al mimo

Apoplausto, liberto di Marco Aurelio, che nella stessa Tivoli aveva vinto tre gare di recitazione venendo giudicato come «il migliore del suo tempo», mentre dall’imperatore fu nominato sacerdote di Apollo e Augustale e membro del consiglio municipale. Quanto alle retribuzioni, si trattava di somme in danaro, ma anche di corone, d’oro o d’argento, di oggetti di pregio, perfino di stoffe e vestiti d’alto costo. Una prerogativa del divismo degli attori fu la presenza, tra i protagonisti, delle donne (assenti, tranne rarissime eccezioni, tra i gladiatori e gli aurighi): un’autentica novità provocata dalla cessazione dell’uso della

maschera che, per le parti femminili, aveva imposto il ricorso alle donne. Le quali, quanto a reputazione, in omaggio alle consuetudini del teatro, erano considerate, piú o meno, come le meretrices. Tuttavia, ciò non impedí ad alcune di conseguire fama e popolarità e accumulare guadagni pari a quelli degli uomini. Ne sono riprova, ancora una volta, le iscrizioni sepolcrali, come quella della mima Bassilla (inizi del III secolo d.C.), la quale «ebbe sulle scene una fama che risuona lontano presso molte genti e numerose città» e «fu dotata di molteplici talenti, tanto nei drammi quanto nei cori, e spesso morí sugli altari del sacrificio (nella finzione scenica), ma mai come stavolta» (che è morta davvero!). R.A.S.

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UN GIORNO IN CITTÀ Le festività religiose

I giorni del rito

G

li antichi, non disponendo della domenica per riposarsi dal lavoro di tutti i giorni, «inventarono» le feste. Ossia, i giorni festivi – dies festi (o feriati) – dando a essi un appellativo derivato dal verbo ferior che, nel senso di «sospensione» e di «tregua», significa, per l’appunto, «astenersi dal lavoro» e, quindi, «riposare». Nel loro complesso quei giorni furono indicati col nome plurale di feriae. Come ancora facciamo noi con i giorni consacrati alle vacanze, mentre, al contrario, chiamiamo «feriali» proprio i giorni lavorativi, poiché in tal modo furono indicati dalla Chiesa i giorni della settimana, a eccezione del sabato e poi anche della domenica. Trattandosi di una società che, almeno alle origini, era fondamentalmente agricola (o agricolo-pastorale), per lavoro gli antichi intendevano soprattutto quello dei campi. I giorni di riposo furono pertanto strettamente legati alle esigenze della natura e alla necessità di rispettare i tempi da essa imposti. Donde, l’irregolarità nella successione delle feste e il loro addensarsi o diradarsi, e perfino il loro ripetersi o, piuttosto, il duplicarsi in stagioni diverse nel corso dello stesso anno. Ma anche la loro assenza, in periodi che non richiedevano sospensione da lavori di per sé scarsi o assai poco impegnativi: come avveniva, per esempio, nei mesi di settembre e novembre.

Riposo e riti propiziatori Non rimase tuttavia il solo riposo a giustificare i giorni festivi. Presto, infatti, si pensò bene di abbinare – in quegli stessi giorni – all’astensione dal lavoro il compimento di atti, di tipo magico-religioso, volti a fini propiziatori o di scongiuro, ai quali dedicare almeno una parte del tempo libero disponibile. Ognuno di quei giorni venne cosí dedicato – a seconda delle stagioni e dei mesi – a riti e cerimonie sacre, con preghiere, sacrifici e offerte (di animali, di primizie, di cibi, di vino) miranti ad assicurarsi, contro tutti gli inconvenienti e le

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Tavola a colori nella quale si immagina la processione rituale dei suovetaurilia, in cui un maiale, un montone e un toro. vengono condotti all’altare per essere sacrificati agli dèi.


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UN GIORNO IN CITTÀ

A sinistra uno dei riquadri di un grande mosaico pavimentale concepito come calendario agricolo, rinvenuto nel 1891 nei pressi di Saint Romain-en-Gal. III sec. d.C. SaintGemain-en-Laye, Musée d’archèologie nationale. Vi è raffigurata una scena di sacrificio al dio gallico Taranis (assimilato a Giove), associata all’estate. Nella pagina accanto particolare di un affresco raffigurante Cerere, che regge in mano una fiaccola dorata e un canestro di vimini. Dalla Casa dei Dioscuri a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

avversità, prima di tutto, la fertilità dei campi (ma anche del bestiame e, perché no, delle donne) e poi il buon esito dei lavori agricoli e delle singole loro fasi, dalla semina al raccolto all’immagazzinamento del prodotto. Di qui, lo stretto collegamento tra di loro di alcune feste, talora per omogeneità talora per opposizione, come quelle che, nel mese di giugno, davano luogo a un vero e proprio «ciclo cerealicolo», nel quale erano compresi i «momenti» della torrefazione del farro e della panificazione. Oppure, la duplicazione di altre, celebrate a coppie, «in parallelo», come quelle alla conclusione del raccolto, in agosto, e alla

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fine dell’anno agricolo, a dicembre, in onore delle due divinità «sotterranee», Consus e Ops, che presiedevano, rispettivamente, alla conservazione del raccolto nella dispensa domestica e alla preservazione della semina nel «grembo» della terra. Quando poi inconvenienti e avversità si fossero verificati e magari perdurassero, i riti e le cerimonie erano di carattere espiatorio e miravano al ristabilimento della situazione di normalità. In ognuna di queste occasioni, sacrifici, preghiere e offerte venivano indirizzate a singole divinità «specializzate», con poteri a volte molto determinati, a volte piuttosto


generali, che, con vari nomi e spesso di sesso incerto rappresentavano la natura nelle sue diverse manifestazioni e s’immaginavano preposte, come numi tutelari, a ogni momento e a ogni aspetto della vita dei campi. Fino a vere e proprie «personificazioni» di fenomeni o accadimenti. Non a caso, molte feste del calendario romano – verosimilmente le piú antiche – non portano il nome di un dio tra i grandi dell’Olimpo. Ma, per esempio, quello di Robigo (nelle feste dette Robigalia), che preservava i cereali dalla malattia chiamata

«ruggine». O quello di Anna Perenna, ritenuta garante del perpetuarsi del ciclo annuale. In altri casi, anziché rivolgersi a divinità o a «spiriti benefici», ci si adoperava per tenere lontani e rendere inoffensivi gli «spiriti maligni» e anche i morti (o le loro «larve» o lemures) considerati – e temuti – come portatori di malattie e pestilenze (anche del bestiame). Mentre, all’inizio (e alla fine) di qualcosa di particolarmente importante, si procedeva a riti speciali di purificazione. A cominciare da quelli dell’inizio dell’anno che, cadendo questo, in origine, nel mese di marzo, si svolgevano (e continuarono a svolgersi, anche quando il Capodanno fu spostato a gennaio) nel mese di febbraio: un mese il cui nome trasse origine dal verbo februare, «purificare» (donde februa, «le cose adibite a tale scopo», februata, «le cose purificate», e, per l’appunto, februarius, «il tempo dedicato ai riti di purificazione»).

La purificazione delle armi Tutto questo, per quel che riguarda l’ambiente agricolo. Ma, se si considera la caratteristica originaria che dei cives faceva un populus di contadini-soldati, è facile immaginare come ben presto si sia dato luogo anche a feste di tipo militare. Come la doppia festa dell’armilustrium, in primavera e in autunno (il 19 marzo e il 19 ottobre), all’apertura e alla chiusura della stagione di guerra, per la lustratio o «purificazione» delle armi prima e dopo il loro impiego. O quella, analoga, del tubilustrium, per la purificazione o sacralizzazione delle tubae, le trombe militari. Restando nello stesso ambito, erano giorni festivi, solenni, quelli durante i quali venivano celebrati i trionfi decretati ai comandanti vittoriosi. Ma, a poco a poco, ogni categoria di lavoratori, a cominciare dagli artigiani, ebbe il suo giorno festivo, dai flautisti ai panettieri ai pescatori, fino alle schiave e alle prostitute (rispettivamente col festum ancillarum, del 23 aprile e il festum meretricum, del 7 luglio). Singolare il caso relativo alla «corporazione» dei tibicines, i flautisti che, con l’accompagnamento musicale dei loro

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UN GIORNO IN CITTÀ

strumenti, rendevano valide le cerimonie sacre. In risposta a un loro «sciopero» di protesta per essere stati esclusi dal banchetto in onore di Giove, non si poté fare altro che ripristinare il loro diritto aggiungendo la facoltà di celebrare annualmente una propria festa di tre giorni. C’erano, infine, le feste anniversarie della dedica dei templi o dell’introduzione di nuovi culti (Castori, Apollo, Magna Mater, ecc.). Quelle che ricordavano importanti avvenimenti storici, come la festa del Regifugium, che, almeno secondo Ovidio, celebrava la fondazione della repubblica, dopo la cacciata e la fuga del re Tarquinio il Superbo. E, in età imperiale, quelle anniversarie (e plurianniversarie, come i decennalia e, piú

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raramente, i vicennalia) dell’ascesa al trono degli imperatori, di alcuni dei quali si celebrava come festivo anche il giorno della nascita.

Il primo calendario Gli antichi attribuirono al successore di Romolo, il re Numa Pompilio, il primo ordinamento di un calendario «feriale» o calendario delle festività ed è del tutto verosmile che ciò sia avvenuto nella prima metà del VII secolo a.C. quando doveva essersi già consolidato un complesso di ricorrenze e di rituali risalenti anche all’inizio dell’età del Ferro (se non alla fine dell’età del Bronzo). Il calendario, tuttavia, rimase a lungo una prerogativa del collegio dei Pontefici, che di esso era depositario e garante, e veniva


La festa dei Lupercali, olio su tela di Andrea Camassei. 1635 circa. Madrid, Museo del Prado. Fino al V sec. d.C., il 15 febbraio a Roma si celebrava questa festa di purificazione in onore di Luperco, antico dio latino, inizialmente identificato con il lupo sacro a Marte, poi considerato come epiteto di Fauno, e infine assimilato al greco Pan Liceo. Nel corso della cerimonia i sacerdoti del dio (detti luperci) sacrificavano animali e celebravano riti per propiziare la fecondità femminile.

«annunciato» oralmente anno per anno. Fino a che – con una legge del 304 a.C. – non si passò a una redazione scritta, codificata e pubblicata. Le feste, stabilizzate e ricorrenti, vennero allora distinte in due grandi categorie: feriae stativae, o feste fisse (contrassegnate nelle indicazioni calendariali con lettere «maiuscole»), da osservarsi per legge sempre alla medesima data, e feriae conceptivae (o indictivae), o feste mobili (contrassegnate con lettere piú piccole), da celebrarsi ogni anno nel giorno stabilito all’inizio dello stesso anno dai magistrati o dai sacerdoti che ne avevano competenza. Del tutto particolari furono le feriae imperativae, o feste «comandate», straordinarie e non destinate a ripetersi, come

quelle espiatoriae, indette in occasione di gravi calamità o di particolari difficoltà. Nate, tutte, come feste di un sol giorno, molte, con il tempo, finirono col prolungarsi per piú giorni, con «aggiunte» progressive. Come avvenne, per esempio, per i Saturnalia, di dicembre, che, alla fine delle operazioni della semina (satus), erano dedicati a Saturnus, il dio della mitica età dell’oro durante la quale si favoleggiava che gli uomini, per vivere, non avessero avuto bisogno di lavorare. Ma poi anche il dio che aveva insegnato agli uomini l’arte della coltivazione dei campi e l’uso della falce... Celebrati, in origine, il giorno 17, allorché vi furono comprese anche le feste degli Opalia, dei Divalia e dei Larentalia (in cui, con nomi diversi, veniva invocata la Terra Madre), i Saturnali si protrassero in seguito fino al 23: sette giorni che Catullo considerava «i piú belli dell’anno», dando a essi una definizione che si spiega con la particolare preminenza dell’aspetto ludico della festa e delle sue diverse «manifestazioni».

Canti, balli e bevute... generose A proposito della componente ludica, è da dire come, in un clima di «liberazione» da impegni gravosi e di generale rilassamento, essa sia stata fin dalle origini parte integrante di ogni festa accompagnando (se non addirittura precedendo, nel tempo) quella piú propriamente religiosa. Dapprima, nella forma piú semplice e «spontanea» dei canti e dei balli, ma anche delle bevute generose e dei lauti banchetti (diventati piú tardi le solenni epulae, con la partecipazione delle immagini delle divinità onorate, sedute su scranni o distese sui letti conviviali, rispettivamente nei sellisternia e nei lectisternia). Poi, con gli spettacoli che, dai «duetti» a contrasto e dalle farse improvvisate, ridanciane e sboccate, arrivarono a vere e proprie rappresentazioni teatrali, come i ludi scenici. Ai quali s’affiancarono presto i ludi circenses, le corse di cavalli e soprattutto di carri (bighe e quadrighe e un tempo anche trighe) per i quali, a Roma, fu «inventato» l’apposito spazio

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UN GIORNO IN CITTÀ

attrezzato del circo. Quindi i ludi gladiatori (o, piú propriamente, munera gladiatoria), i combattimenti dei gladiatori che, nati in Etruria, come parte delle cerimonie funebri (nella convinzione che il sangue versato servisse in qualche modo a rivitalizzare l’«anima» del defunto), finirono per diventare veri e propri «spettacoli». Cosí come lo divennero le venationes, le cacce alle belve, o la semplice esibizione di animali esotici e rari. Quella dei ludi arrivò a essere parte essenziale delle feste (e motivo del loro eventuale prolungamento). Ma, col tempo, perdute le originarie implicazioni religiose, diventarono manifestazioni fine a se stesse, conservando tuttavia le caratteristiche della «festa». Al punto da dare luogo a espressioni come ludos committere (accanto a dies festum edere) o ludos celebrare (accanto a dies festum agere), nel senso di «dare una festa» o «fare festa». Si trattò, in sostanza, di una progressiva «laicizzazione» delle feste – o della parte via via piú estesa e attraente di esse – in concomitanza col continuo evolversi dei costumi e della vita sociale, cominciato, del resto, fin dal momento del passaggio dalla società agricola a quella urbana. S’aggiunga la progressiva trasformazione della parte religiosa in una serie di freddi e stanchi «rituali di Stato» ripetuti per puro spirito di conservazione.

Anche per questo molte feste finirono addirittura per perdere l’esatto significato originario. E gli atti e le cerimonie venivano spesso compiuti senza piú sapere il perché (com’era, per esempio, nel caso della fragorosa risata che, durante i riti della festa dei Lupercali, dovevano fare i due giovani la cui fronte veniva toccata dai sacerdoti col sangue della capra appena sacrificata e poi asciugata con un panno di lana imbevuto di latte).

Formule incomprensibili Preghiere e invocazioni, poi, continuavano a essere espresse in una lingua arcaica diventata quasi un gergo incomprensibile ai piú. Come quello del famoso Carmen dei Fratres Arvales, l’inno rituale, risalente al V secolo a.C. e tramandato in un latino anteriore al fenomeno del rotacismo (il passaggio della s intervocalica alla r, come in aurora da ausosa), cantato (e ballato) da sacerdoti, col capo cinto d’una corona di spighe, il cui nome era chiaramente derivato da arva, i «campi coltivati». Già sul finire della repubblica, molti non sapevano in alcun modo spiegare gran parte di quello che facevano e dicevano (o che vedevano fare e dire). E con poco successo autori «antichisti» come Varrone, Verrio Flacco, Festo, tenteranno confuse interpretazioni e improbabili spiegazioni. A volte erano

Lapide con raffigurazione del Sol Invictus, di Diana e di Giove Dolicheno. II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

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lavoro, diventata «precetto», la domenica, dedicata al Signore (dies dominica) – molte le faceva proprie. Con opportuni adattamenti e non senza trovare difficoltà nel far cessare usanze e tradizioni secolari. Cosí, di fronte all’impossibilità di sopprimerle, specie le piú radicate e popolari, preferí «cristianizzarle».

Dal Sole al Salvatore

Miniatura raffigurante la processione dei notari di Perugia per la Candelora. XV sec. Perugia, Museo del Capitolo della Cattedrale di S. Lorenzo. Molte feste pagane furono «cristianizzate» dalla Chiesa, come nel caso dei Lupercali, «convertiti» nella Festa delle Candele da papa Gelasio I.

dimenticati persino i nomi – e le prerogative – delle divinità onorate e invocate. O, se si conservavano, lo erano solo per le rispettive festività oppure nelle superstizioni popolari. Ma si continuò ad andare avanti, per tutta l’età imperiale, quando l’indizione e la celebrazione delle feste diventarono anche parte della politica del consenso. Alla fine, è stato calcolato che i giorni dell’anno in vario modo e a vario titolo considerati festivi erano diventati oltre duecento! Mentre dal termine originario festus (già diventato sostantivo festum) erano derivati, oltre al femminile festa, l’aggettivo festivus (col significato di «piacevole» e «allegro») e, da ultimo, il sostantivo festivitas (col significato di «piacevolezza» e «giovialità»). Quasi tutte le feste sopravvissero fino alla fine del mondo antico, anche col cristianesimo ormai trionfante. Mentre la Chiesa – che nel corso del III secolo introdusse nella settimana, come giorno di riposo e di astensione dal

A cominciare da quella, sia pure tardiva del 24 dicembre, in cui si celebrava la «nascita del Sole» (dies natalis Solis), per ricordare la nascita del Salvatore. Mentre, il 19 marzo, giorno in cui si celebrava Minerva, protettrice degli artigiani – nell’anniversario della dedica del tempio a lei dedicato sull’Aventino –, fu scelto per festeggiare san Giuseppe. E le feriae Augusti che si celebravano in onore del divo Augusto agli inizi di agosto, diventavano, a metà mese, la festa dell’Assunta – il nostro Ferragosto – conservando, oltre alla denominazione, l’antico uso popolare delle scampagnate e delle... mance. Quanto alle abitudini, si può anche ricordare quella di portare alla benedizione di sant’Antonio animali e frutti della terra, in previsione della nuova stagione produttiva, il giorno della sua festa, il 17 gennaio, che era uno dei giorni possibili delle feriae sementivae, celebrate, al primo manifestarsi dei germogli, contro il pericolo delle gelate, in onore di Tellus, la Terra fertile. Si deve infine sottolineare come solo sullo scorcio del V secolo (cento anni dopo che Teodosio aveva messo fuori legge il culto pagano!) papa Gelasio riuscí a ottenere dal Senato l’abolizione della festa dei Lupercali. E come, peraltro, avesse deciso di mantenerne vivo il significato riferendolo alla «purificazione» di Maria Vergine (dopo il parto, secondo l’uso ebraico). E fu cosí che, all’inizio dello stesso mese di febbraio, nacque la «festa delle candele» (festum candelarum: la popolare «Candelora») caratterizzata dalla benedizione dei ceri, che i fedeli portavano poi in processione, intesi come simbolo del battesimo purificatore dalla macchia del peccato orginale. R.A.S.

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TEMPIO A

TEMPIO B

TEMPIO C

TEMPIO D

Quattro misteri nel Campo Marzio L’

area sacra di largo Argentina, uno dei siti archeologici piú importanti e significativi per ricostruire la storia di una parte della città di Roma, è stata dotata nel 2023 di un percorso di visita che, grazie agli interventi di restauro e al recupero di nuovi spazi, consente di leggere le fasi di vita del sito, dall’età repubblicana attraverso l’epoca imperiale e medievale, fino alla riscoperta avvenuta nel secolo scorso con le demolizioni degli anni Venti. L’area comprende un’ ampia piazza lastricata, situata nel Campo Marzio meridionale, su cui sorgono quattro templi indicati con le lettere A, B, C e D in mancanza di una loro identificazione certa. In origine, i quattro edifici erano indipendenti l’uno dall’altro, e solo con i successivi rifacimenti furono unificati, innalzando i livelli del piano di calpestio. Il primo edificio a essere costruito sull’originario piano di campagna fu il tempio C, risalente alla fine del IV-inizi del III secolo a.C.; successivamente vennero edificati il tempio A (intorno alla metà del III a.C.) e il piú grande tempio D, nel lato meridionale della piazza (inizi II a.C.). Davanti a essi erano aree sacrali sopraelevate con are. Probabilmente, dopo l’incendio che nel 111 a.C. distrusse gran parte della città, o secondo studi recenti, in seguito a una piena

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eccezionale del Tevere da collocare intorno al 130 a.C., che sigillò con uno strato limoso le fasi piú antiche dei templi A e C, tra cui un altare posto davanti al tempio C dedicato dal console del 180 a.C. Aulo Postumio Albino, ancora perfettamente conservato sotto il pavimento in tufo, tutta l’area davanti ai templi A e C venne rialzata di 1,40 m e pavimentata con lastre di tufo; vennero anche


parzialmente rifatti i podi. Lo spazio rimasto libero tra i templi A e C, non interessato dalla nuova pavimentazione di tufo, venne occupato alla fine del II secolo a.C. dal tempio B, l’unico a pianta circolare su alto podio preceduto da una scalinata, posto a un livello leggermente piú alto rispetto alla piazza lastricata. In questo periodo, l’area venne delimitata almeno su tre lati (della zona a sud del tempio D non si conosce molto); sui lati nord e ovest da portici a pilastri, su quello est da un muro a blocchi di tufo su cui si aprono alcuni ingressi. Questo complesso, che conferisce un aspetto unitario all’area, è identificato con la Porticus Minucia Vetus, realizzata dal console M. Minucius Rufus nel 107 a.C. dopo il suo trionfo sugli Scordisci, antica popolazione della Tracia (vedi piú avanti). Tra il 61 e il 55 a.C. venne costruito, nell’area a ovest dei quattro templi, il Teatro di Pompeo con i suoi portici. Di questi ultimi, nello spazio retrostante tra i templi B e C rimane Sulle due pagine, da sinistra una veduta aerea e immagini panoramiche dell’area sacra di largo Argentina con i resti dei quattro edifici templari; in alto, la testa della statua colossale di una divinità femminile, forse Feronia, e frammenti di decorazioni architettoniche.

ancora ben visibile un grande podio a blocchi di tufo, parte del basamento della Curia di Pompeo; si tratta di una grande sala posta nel lato est del grande complesso monumentale comprendente il teatro con il tempio di Venere Vincitrice, e un maestoso porticato. In questo ambiente, durante una seduta del senato (da qui il nome di Curia) alle Idi di Marzo del 44 a.C. (15 marzo) venne ucciso Giulio Cesare. Il portico nel lato nord, oltre il tempio A, è da identificare con l’Hecatostylum, ossia portico delle 100 colonne, noto anche come Porticus Lentulorum, che si addossa al portico pompeiano, del quale è di poco posteriore. Dopo il grande incendio che, nell’80 d.C., sotto Tito distrusse gran parte del Campo Marzio (episodio ricordato da Cassio Dione), importanti lavori di restauro e trasformazione in quest’area dell’Urbe vennero realizzati a opera di Domiziano. L’intera area sacra venne ulteriormente rialzata e pavimentata con lastre di travertino (si tratta del piano pavimentale tuttora visibile), venne rifatto il portico orientale e i templi in parte modificati. Gli spazi ancora vuoti tra questi vennero occupati da nuovi ambienti che unirono gli edifici sacri in un’unica grande struttura. La datazione di questi lavori di restauro al tempo di Domiziano è confermata da alcuni bolli su laterizi, appartenenti a questo periodo.

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UN GIORNO IN CITTÀ Il servizio antincendi

Il fuoco: nemico pubblico numero uno

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na breve via del rione Trastevere è intitolata alla VII Coorte, ma non celebra alcun reparto dell’antico esercito romano distintosi per una particolare impresa. Con quel nome essa ricorda, semplicemente, la «compagnia» di vigili del fuoco che nell’antichità aveva il compito di tenere sotto controllo la vasta regione transtiberina (e una di quelle vicine, forse l’XI). Piú precisamente, essa indica la caserma di quella «compagnia» – la settima del corpo – o meglio, la sede di un suo distaccamento o posto di guardia, i cui cospicui resti si trovano, a circa 8 m di profondità, su un lato della strada. La loro scoperta avvenne per caso, nel 1866, e l’identificazione fu possibile grazie alla presenza di una serie di graffiti incisi sull’intonaco di una parete in cui ricorreva il termine excubitorium, derivato dal verbo ex-cubare, cioè «dormire fuori» e quindi anche «vegliare, fare la guardia, vigilare».

L’edicola per il Genio Dall’ingresso moderno si scende in un grande atrio, un tempo pavimentato con un mosaico bianco e nero raffigurante tritoni e altri «mostri» marini (scomparso durante la seconda guerra mondiale), con al centro gli avanzi di una fontana esagonale, dai lati concavi, anch’essa gravemente menomata nel periodo bellico. Su un lato, al centro della parete laterizia, conservata per diversi metri fin sopra un piano di finestre, s’affaccia un vano con un prospetto a edicola formato da un arco inquadrato da due paraste e sormontato da un timpano, un tempo decorato, nel sottarco e alle pareti, con pitture ormai solo in minima parte riconoscibili (piccole architetture,

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L’incendio di Roma, olio su tela di Hubert Robert. 1771 circa. Le Havre, Musée d’art moderne André Malraux.

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UN GIORNO IN CITTÀ

animali, fogliami, amorini e le figure di Mercurio e di Marte): vi si può riconoscere l’edicola dedicata al Genio della caserma. Su un altro lato s’aprono invece due ambienti affiancati, da uno dei quali si diparte una lunga e stretta «galleria» a U, che termina in un vano della stessa larghezza. Sul lato di fronte all’edicola, infine, un ampio passaggio dà accesso ad altri ambienti, alcuni dei quali di servizio, ma quello che è stato possibile scavare è solo una parte della caserma che verso la fine del II secolo d.C. fu sistemata nel pianterreno di un edificio preesistente. I graffiti individuati sulle pareti dell’atrio erano un centinaio. Fortunatamente copiati prima che sparissero, sono talvolta datati e furono eseguiti negli anni tra il 215 e il 245 della nostra era. I brevi testi alludevano, ripetutamente, alle funzioni di sorveglianza contro gli incendi e, in particolare, a quelle che sembrano essere state le ronde notturne eseguite dai vigili, nel corso di turni di servizio mensili, alla luce delle torce: se in tal modo si deve interpretare la parola sebaciaria che ricorre nei graffiti, evidentemente derivata da sebum, il «sego», cioè la materia prima della quale le torce erano fatte. C’è però anche la possibilità di pensare a un vero e proprio servizio di illuminazione notturna delle strade (documentato, proprio per il periodo dei graffiti, come un’iniziativa presa dall’imperatore Caracalla) e quindi alla serale installazione di torce sulle pareti esterne degli edifici curata dalle squadre dei vigili in servizio antincendio.Una di queste torce potrebbe essere quella ritrovata nei pressi, in bronzo, formata da tre pezzi a incastro, con un alloggiamento per contenere il combustibile che alimentava il lucignolo e un foro posto obliquamente alla sommità. La sorveglianza contro gli incendi era in ogni caso la funzione specifica alla quale il corpo dei Vigili fu addetto fin dalla sua costituzione, al tempo e per opera di Augusto. Durante la repubblica, infatti, il servizio antincendi era affidato a poche centinaia di schiavi

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Pompa in bronzo, aspirante e premente, con augello direzionale, del tipo in dotazione ai vigili del fuoco romani. Madrid, Museo Archeologico.

posti alle dipendenze dei tresviri capitales, poi detti nocturni. Nel 6 d.C. Augusto istituí un vero e proprio corpo di vigiles, organizzato alla maniera militare, al comando di un apposito prefetto (praefectus vigilum). Si trattava di 7000 uomini, ripartiti in 7 coorti «miliarie», ciascuna agli ordini di un tribunus e articolata in centurie comandate da centuriones provenienti dai ranghi dell’esercito. I vigiles, invece, venivano reclutati direttamente, con una ferma di 16 anni, tra i liberti, e dopo 6 anni di servizio, in seguito ridotti a 3, era loro concessa la cittadinanza romana. Tuttavia, dal momento che molti, pur potendo passare – in quanto diventati «cittadini» – ad altri corpi di maggiore considerazione e dai compiti piú leggeri (come le coorti «urbane» o i pretoriani), restavano con i Vigili, dall’inizio del III secolo d.C. il reclutamento fu esteso anche tra i cittadini.

A ciascuno il suo compito Il corpo aveva funzioni generiche di vigilanza, che andavano dalla sorveglianza notturna al controllo degli stabilimenti balneari e dei magazzini dello Stato. Ma l’incombenza principale era quella di combattere contro gli incendi. Si trattava, insomma, prima di tutto, di veri e propri «pompieri», suddivisi in particolari specializzazioni e dotati di un apposito equipaggiamento. V’erano cosí gli esperti delle pompe, normali o a sifone (aquarii e sifonarii), quelli che combattevano le fiamme con i secchi (generalmente di sparto, e perciò detti popolarmente sparteoli o «secchiaroli») e con coperte di stracci (centonarii), quelli incaricati di stendere i «materassi» di salvataggio (emitularii, se il termine emitula indicava i materassi), quelli che con uncini, falci, picconi (uncinarii, falciarii, ecc.) provvedevano a rimuovere travi, intelaiature, murature leggere e quelli che manovravano a distanza con le baliste per demolire muri e tramezzi (ballistarii). Parte essenziale delle operazioni contro


Una veduta dell’excubitorium (posto di guardia dei vigili del fuoco) della VII Coorte. L’edificio sorgeva nella XIV Regione dell’Urbe, oggi corrispondente all’area di Trastevere.

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il fuoco era infatti la demolizione delle pareti interne e dei muri esterni per isolare le fiamme e impedire loro di propagarsi agli edifici vicini. Non mancavano i medici, in forza di quattro per coorte, coadiuvati da personale ausiliario.

Secchi, pelli e coperte Quanto all’attrezzatura, ne facevano parte le pompe (fatte con strisce di cuoio o di pelle o con piccoli tronchi cavi) e i sifoni (con pistoni che, manovrati con una manopola, aprivano e chiudevano valvole per aspirare l’acqua e lanciarla poi a pressione anche in alto), i secchi di sparto o di giunchi, accuratamente impeciati (vasa spartea o hamae), le grandi coperte (centones) e le pelli non conciate, imbevute d’acqua o di aceto per soffocare le fiamme che a una certa altezza venivano combattute anche con spugne imbevute d’aceto o di urina e issate su lunghe pertiche; e poi pale, zappe, picconi, asce, scale, ecc.

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Bocca di fontana in forma di protome leonina, da Ercolano. Bronzo. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le autorità facevano di tutto per convincere gli inquilini a tenere in casa secchi pieni d’acqua o di sabbia pronti per ogni evenienza. Ma l’acqua a Roma non mancava di certo e, all’occorrenza, non era difficile trovarla in una delle cento e cento fontane pubbliche. Per non parlare delle grandi «mostre» degli acquedotti, delle cisterne e delle decine e decine di stabilimenti balneari. Giulio Frontino osservava a ragione come l’acqua che con tanta abbondanza veniva portata a Roma dagli acquedotti doveva servire anche «alla sicurezza della città» (ad securitatem Urbis). Nonostante tutto, quella degli incendi fu per l’antica Roma un’autentica «piaga» e i cittadini dovevano vivere costantemente sotto l’incubo del fuoco. Lo denuncia chiaramente, tra gli altri, Giovenale quando scrive esasperato (III, 197 e segg.) del suo anelito a «vivere in un luogo dove non ci siano mai incendi e le notti trascorrano senza la paura di morire».


Mentre, a indicare il continuo stato di allerta dei Vigili, c’è il divertente episodio del Satyricon in cui lo stravagante Trimalcione, avendo pensato di inscenare una sorta di banchetto funebre per le proprie finte esequie, invita gli ospiti a comportarsi come se egli fosse morto davvero e uno stuolo di musici a intonare una celebre marcia funebre. Ma «il destino volle che tra i musici ci fosse l’assistente dell’impresario delle pompe funebri del quartiere il quale, per troppo zelo, si mise a suonare il suo strumento con tanta energia da svegliare il vicinato. E il trambusto fu tale che i vigili, convinti che la casa di Trimalcione andasse a fuoco, impugnate le scuri e abbattuta la porta, vi entrarono con i secchi pieni d’acqua gridando come forsennati».

Rilievi grafici di alcuni dei numerosi graffiti rinvenuti nell’excubitorium della VII coorte, databili tra il 215 e il 245 d.C..

Che poi a Roma gli incendi fossero tanti e tanto frequenti, si spiega pensando all’uso, in casa, del fuoco, piú che per la cucina, per l’illuminazione e, d’inverno, per il riscaldamento. E questo in appartamenti, quasi sempre angusti e sovraffollati, dove all’assenza di acqua corrente, faceva riscontro l’abbondanza di tende, tappeti, stuoie e legno largamente impiegato (con altri materiali leggeri e infiammabili, come le canne) per balconi, soppalchi, soffitti, tramezzi, sottotetti e soprelevazioni. Le vie strette e tortuose, i caseggiati a molti piani, la densità degli abitanti, le innumerevoli sistemazioni di fortuna e non di rado il vento (come quello, classico, di ponente), facevano il resto.

Un’organizzazione capillare Il corpo dei Vigili ebbe cosí sempre un bel da fare giovandosi, oltre tutto, della eccellente dislocazione delle sue coorti. Ognuna di esse, infatti, aveva sotto la sua sorveglianza due delle quattordici regioni in cui Augusto aveva suddiviso la città: in una regione si trovava la sede della coorte con la caserma principale, o «stazione» (statio), nell’altra un distaccamento o «corpo di guardia» (l’excubitorium), come quello del Trastevere, ossia nella Regione XIV. Tuttavia, nel Trastevere doveva trovarsi anche la sede della VII coorte, sicché se ne deve dedurre che l’excubitorium fosse (con un altro nome) la stessa cosa della statio, cioè la caserma principale, o che nelle regioni piú vaste (come appunto quella del Transtiberim), accanto alla caserma principale, ci fosse anche un corpo di guardia distaccato. Come quello che doveva trovarsi nella regione «gemella». Per il momento, non sappiamo come le cose stessero esattamente. Sappiamo però con certezza che il servizio di vigilanza doveva essere piuttosto gravoso, visto che uno dei vigili trasteverini, evidentemente al termine del suo turno, lasciò graffita sulla parete della sua caserma una vera e propria «invocazione d’aiuto»: lassus sum, successorem date, «Sono stanco, datemi il cambio»! R.A.S.

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Alba e tramonto... VIII-V secolo a.C.

IV secolo a.C

III secolo a.C

II secolo a.C.

I secolo a.C.

753 a.C. Fondazione di Roma

390 Sacco di Roma

298-290 Terza guerra sannitica

200-196 Seconda guerra macedonica

91-89 Guerra sociale

291 Fondazione della colonia di Venosa

192-189 Guerra siriaca

753-509 Monarchia 509 Nascita della repubblica

343-341 Prima guerra sannitica 340-338 Guerra latina e scioglimento della Lega latina

283 Fondazione della colonia di Senigallia

494 circa Battaglia del lago Regillo tra Romani e Latini

338 circa Fondazione della colonia di Ostia

282-272 Guerra tarantina

449-448 Guerra contro Equi, Volsci e Sabini

329 Fondazione della colonia di Terracina

268 Fondazione delle colonie di Rimini e Benevento

406-396 Conquista di Veio

326-304 Seconda guerra sannitica

Sulle due pagine una panoramica della città di Roma ripresa dalla sommità del Colle Palatino.

306 Trattato romanocartaginese. L’Italia è attribuita a Roma, la Sicilia a Cartagine

264-241 Prima guerra punica 241-227 Istituzione delle prime province di Sicilia e SardegnaCorsica 225-222 Sottomissione dei Galli Boi e Insubri; battaglie di Talamone e Casteggio 218-201 Seconda guerra punica 218 Fondazione delle colonie di Piacenza e Cremona 215-205 Prima guerra macedonica

189 Fondazione della colonia di Bologna 183 Fondazione delle colonie di Parma e Modena 181 Fondazione della colonia di Aquileia 177 Fondazione della colonia di Luni 172-167 Terza guerra macedonica

90-89 Concessione della cittadinanza romana ai Latini e agli alleati rimasti fedeli 83-82 Guerra civile 60 Primo triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso 58-51 Cesare conquista la Gallia 48 Dittatura di Cesare; Battaglia di Farsalo 44 Morte di Cesare

149-146 Terza guerra punica: distruzione di Cartagine e nascita della provincia romana «Africa»

43 Secondo triumvirato di Ottaviano, Antonio, Lepido; scontro di Modena

147 Istituzione della 42 Battaglia di Filippi provincia di Macedonia 41-40 Guerra 133 e 123-121 I Gracchi di Perugia tentano la riforma 31 Vittoria di Ottaviano agraria su Antonio ad Azio 120 Conquista della 27 Ottaviano riceve Gallia Narbonese che il titolo di Augusto diviene provincia romana 16-15 Norico e Rezia diventano province 102 Mario sconfigge i Teutoni e, l’anno successivo, i Cimbri A sinistra ricostruzione ideale della Casa di Marco Lucrezio Frontone a Pompei, realizzata per l’opera Le case ed i monumenti di Pompei di Fausto e Felice Niccolini. Napoli, 1854-1896.

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...di un impero millenario I secolo d.C.

II e III secolo d.C.

IV secolo d.C.

V secolo d.C.

14 d.C. Morte di Augusto

117-138 Adriano è imperatore

306-307 Terza tetrarchia

408-450 Teodosio Il è imperatore d’Oriente

14-37 Tiberio è imperatore

138-192 Dinastia degli Antonini

306-337 Costantino è imperatore

192-193 Pertinace è imperatore

308-311 Quarta tetrarchia

410 I Goti di Alarico saccheggiano Roma

37-41 Caligola è imperatore 41-54 Claudio è imperatore

452 Papa Leone Magno arresta la marcia di Attila su Roma

313 Editto di Tolleranza 54-68 Nerone è imperatore 68 Galba è imperatore 69 Nello stesso anno sono proclamati imperatori Otone, Vitellio e Vespasiano 69-79 Vespasiano è imperatore

193 Didio Giuliano è imperatore 193-235 Dinastia dei Severi

337 L’impero è diviso tra Costante (337-350), Costanzo Il (337-361) e Costantino Il (337-340)

455 I Vandali di Genserico saccheggiano Roma

235-284 Anarchia militare; sono eletti diversi imperatori

360-363 Giuliano l’Apostata è imperatore

284-305 Diocleziano è imperatore

363-364 Gioviano è imperatore

476 Deposizione di Romolo Augustolo ad opera di Odoacre. Fine dell’impero romano d’Occidente

364-392 Dinasta valentiniana 379-395 Teodosio I è imperatore 395 Morte di Teodosio e divisione dell’impero romano 79 Eruzione del Vesuvio e distruzione di Pompei 79-81 Tito è imperatore

293-305 Prima tetrarchia (Diocleziano, Galerio Massimiano, Costanzo Cloro)

81-96 Domiziano è imperatore

305-306 Seconda tetrarchia

90 Istituzione delle province di Germania Inferior e Germania Superior

Qui sopra Illustrazione artistica di E.G. Coquart che ipotizza la ricostruzione di alcuni monumenti della Roma antica, da sinistra: il Tempio di Venere e Roma, la statua colossale di Nerone, la Basilica Nova. 1863.

96-98 Nerva è imperatore 98-117 Traiano è imperatore

A destra particolare di un rilievo marmoreo con scena sacrificale, raffigurante un suonatore di flauto che annuncia l’arrivo dell’imperatore. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

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MONOGRAFIE

n. 59 febbraio/marzo 2024 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Luciano Frazzoni è archeologo. Giovanna Quattrocchi è giornalista. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 8/9, 13 (basso), 14/15, 16-17, 18/19, 20-21, 28, 34/35, 36-41, 48-49, 50/51, 52-53, 56/57, 58 (basso), 58/59, 60/61, 62-67, 70-83, 86, 88, 90 (centro), 92/93, 96-97, 104/105, 106, 110-113, 114, 116/117, 119, 124-129; Giorgio Albertini: pp. 108/109 – Cortesia Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 4-5, 7, 102-103, 120-121 – Shuttertsock: pp. 6/7 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 10/11, 12/13 (alto), 12/13 (basso), 19, 54/55, 58 (alto), 61, 68/69, 90 (alto e 90/91 basso), 91 (alto), 94-95, 98-101, 122/123; Album/Florilegius: pp. 84/85, 87; Electa: p. 107; Album/Oronoz: p. 108; Electa/Luigi Spina: p. 115; Album/Prisma: p. 118 – Mimmo Frassineti: pp. 22-25, 28/29, 30-33, 43, 44/45, 46-47 – Parco archeologico del Colosseo: Ufficio fotografico del Parco archeologico del Colosseo: p. 26 (sinistra); Stefano Castellani: pp. 26 (destra), 27 – da: Palazzo Valentini: l’area tra antichità ed età moderna, EDIART 2008: pp. 42/43, 44 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 22, 35, 42, 51. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: Le Terme di Caracalla, olio su tela di Lawrence Alma Tadema. 1899. Collezione privata.

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