Archeo Monografie n. 24, Aprile 2018

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MONOGRAFIE

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ARCHEO MONOGRAFIE

NI E I IG T R R O A E ’ L

L’ARTE DELLA Alla ricerca dei segni perduti di Massimo Vidale

N°24 Aprile 2018 Rivista Bimestrale

€ 7,90

L’ARTE DELLA PREISTORIA

PREISTORIA IN EDICOLA IL 17 MARZO 2018



L’ARTE DELLA

PREISTORIA di Massimo Vidale

6. Presentazione Un mondo di segni scomparsi 8. Introduzione Ragiono, dunque creo 12. Nella mente di Eva 33. Un atelier di moda paleolitico 40. L’arte parietale E l’uomo si fece pittore 50. La magia simpatica dell’abate Breuil 52. Grotta Chauvet Il serraglio delle meraviglie 58. La testardaggine premiata 62. Turismo, repliche e polemiche 66. Le tecniche Dare forma alle idee 68. Un sogno dentro a un sogno 75. Rettangoli, «tetti» e punti 78. Buoni «da pensare» o da mangiare? 80. Il teorico della tecnologia preistorica 84. Arte o scienza? 86. L’ultima arrivata 88. Ma incidevano anche alla luce del sole... 90. L’arte paleolitica in Italia 94. Veneri e arte mobiliare Veneri, ma non troppo 98. Una cornucopia paleolitica 104. È tedesca la Venere piú antica 108. Era d’agosto... 119. La rinascita dell’uomo-leone 127. I primi vasi del mondo


UN MONDO DI SEGNI SCOMPARSI

L’

arte fu davvero una creazione primordiale, contemporanea ai primi passi della nostra specie? Oppure rappresenta una forma tardiva di riproduzione della realtà, nata quando l’uomo aveva già ampiamente superato – ed efficacemente risolto – i mille ostacoli materiali alla propria quotidiana sopravvivenza? Ed è legittimo proiettare «intenzioni» artistiche, rituali, spirituali, comunicative – nell’accezione moderna dei termini – a contesti tanto lontani nel tempo come quelli preistorici? Nel tentativo, davvero arduo, di risolvere questi ed altri grandi interrogativi, gli archeologi e i paleontologi che studiano lo sviluppo della nostra specie devono addentrarsi in un mondo remoto, un mondo di segni scomparsi, o quasi. Quello di cui disponiamo sono tracce tanto rare e labili – considerate le enormi estensioni temporali in gioco – da lasciarci dubbiosi e perplessi. Inoltre, e particolarmente se ci riferiamo agli orizzonti piú arcaici, non sempre le categorie da indagare sono immediatamente accessibili alla razionalità odierna: perché, per esempio, i Neandertal di 180 000 anni fa penetrarono nei recessi piú oscuri di una cavità naturale della Francia sud-occidentale, la Grotta di Bruniquel, per spezzarne a centinaia le stalattiti e costruire con esse dei misteriosi recinti in pietra?

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Sopra il titolo Grotta de La Pasiega (Cantabria, Spagna). Particolare dei motivi dipinti in una delle gallerie e, nella foto in basso, il prelievo delle incrostazioni formatesi sulle pitture, che, analizzate con il metodo dell’Uranio-Torio, sarebbero databili fra i 50 000 e i 60 000 anni fa. Se confermata, tale data ribadirebbe le capacità artistiche dei Neandertaliani.


Sulle due pagine Grotta di Bruniquel (Francia sud-occidentale). Uno dei circoli realizzati nella cavità con stalagmiti intere o frammentarie. Le datazioni eseguite con il metodo dell’Uranio-Torio su alcuni campioni di calcite provano che la realizzazione delle strutture avvenne intorno ai 180 000 anni fa, e va dunque ascritta a genti neandertaliane.

Cosa avevano in mente le popolazioni tardo-neandertaliane europee che, al volgere del Paleolitico Medio, tagliavano ali e incidevano artigli di avvoltoi, falchi ed altri uccelli, per ricavarne pendenti e ornamenti di piume? Scoperte recentissime, inoltre (come quella avvenuta, durante la lavorazione di questa Monografia, in alcune grotte della Spagna; vedi nelle due foto piccole, sopra il titolo), cominciano a rivelarci un mondo che, sino a pochi mesi fa, sembrava impensabile: gli stessi cacciatori neandertaliani delle fasi centrali dell’ultima glaciazione, i quali, malgrado un aspetto notevolmente diverso, oggi possiamo annoverare tra i nostri progenitori, dipingevano nelle cavità delle grotte complesse figure astratte e profili ben riconoscibili di grandi animali, al pari dei ben piú celebrati artisti della fine del Paleolitico Superiore. Se, oggi, un’ampia gamma di applicazioni scientifiche notevolmente complesse assiste la ricerca archeologica – contribuendo a creare, se non certezze assolute, scenari «storici» che si fanno via via piú concreti – appare chiaro, al contempo, che gli studiosi dovranno procedere con una mente molto piú aperta di quanto non facessero in passato. Con la presente Monografia di «Archeo» accompagneremo il lettore lungo questo arduo, ma affascinante, percorso.

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INTRODUZIONE

RAGIONO, DUNQUE CREO

Per ricostruire la genesi delle prime forme di espressione artistica, occorre, innanzitutto, ripercorrere la storia della specie umana. Anche lo sviluppo della sensibilità estetica e della creatività si lega,infatti, al progressivo espandersi delle capacità intellettive della nostra mente

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quanto indietro nel tempo risale la mente umana, come la intendiamo oggi, e la sua capacità di abbracciare e modificare radicalmente il mondo materiale? Se oggi biologi evoluzionisti e geologi definiscono l’epoca nella quale viviamo «Antropocene» – ossia «età dell’Uomo» –, ciò è dovuto allo straordinario impatto tra pensiero e realtà materiale che avvenne nella preistoria, un processo ancora molto difficile da collocare nel tempo e nello spazio. L’archeologia preistorica si trova oggi alle prese con lo spinoso problema del sorgere delle facoltà cognitive che ci hanno portato alle tecnologie, alle identità e alle difficili scelte del mondo contemporaneo. Nel 1998, due filosofi statunitensi, Andy Clark e David. J. Chalmers (Washington University di St. Louis e University of Arizona, Tucson) pubblicarono un importante articolo, intitolato La mente estesa, che cosí esordiva: «Dove è che si ferma la mente, e inizia il resto del mondo?». Per i due studiosi, la mente umana non è limitata al suo contenitore biologico (il cervello, il cranio e la pelle, e i nostri apparati sensoriali), ma è riflessa ed estesa da tutto quanto ci circonda: in primo luogo, la nicchia delle persone a noi piú vicine, con le relazioni che esistono all’interno del gruppo e tra il gruppo e

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ognuno di noi; l’ambiente tecnologico circostante, che ha ereditato, nei successi come nei fallimenti, le esperienze delle generazioni passate, e continua a interagire con le capacità intellettive umane.

Andata e ritorno Questa realtà tecnica guida la nostra crescita e «immagazzina» in modo implicito una enorme quantità di informazioni sulle scelte tecniche umane. E infine, la nicchia ecologica che circonda l’intera comunità, definita dagli effetti delle trasformazioni, non sempre benigne, operate dall’economia e tecnologia dominanti. Queste nicchie concentriche, piú del singolo individuo, creano, epoca dopo epoca e interagendo le une con le altre, il cangiante mondo dell’uomo. «L’organismo umano – scrivono i due filosofi – è legato alla realtà esterna in uno scambio di andata e ritorno, creando un sistema accoppiato che può essere visto come un sistema cognitivo in se stesso (...) Tutte le componenti svolgono un ruolo di causa attiva, e se ne rimuoviamo una anche le altre ne risentiranno». Gli oggetti creati dall’uomo, che fanno parte del pacchetto di base che usiamo ogni giorno nelle nostre attività pratiche, sono a tutti gli effetti risorse cognitive, parte essenziale della nostra mente. Nell’usare e riporre un coltello in selce

Ricostruzione in 3D di un individuo femminile di Homo erectus, rappresentato con fattezze e proporzioni tipiche di un essere umano moderno. Le ricerche di paleontologia umana stanno confermando le notevoli capacità tecniche e di adattamento di Homo ergaster/ erectus, originariamente comparso in Africa e ben presto diffuso in ampie regioni del continente euroasiatico. Lo sviluppo di simili aspetti anatomici ebbe inizio almeno 2 milioni di anni fa, con l’aumento della statura e della capacità cranica e, per la donna, la comparsa di un bacino piú ampio.


scheggiata, un uomo preistorico non sarebbe stato costretto a ripercorrere la lunga catena dei processi di ricerca, acquisizione e scheggiatura del materiale, In basso et utem net né a porsi il problema di come di laut millenni facient et quam esperienza pratica avesserofugiae donato al officae coltello quella particolare forma, e la sua ruptatemqui conseque es efficiente funzionalità. Nella lama invite selce, sae quis deris infatti, tutte queste informazioni sono rehenis aspiciur racchiuse e ben conservate, proprio come sincte seque con le informazioni scritte sono nusam racchiuse fugit etnei qui volumi di una biblioteca. Sebernate tutto questo laborest, è ut ut aliquam plausibile, e se gli oggetti creati dallarentus magnim ullorepra tecnologia umana sono altrettanti serro dolum quis et indispensabili archivi della cognizione, volenimenis dolorib dovremmo forse dedurne che la rete ercillit fuga. internet, il piú grande manufatto mai Accationes creato dall’uomo, stia diventando reperiamla resmente sa conemolorum nis collettiva dell’enorme formicaio aliaepu danditatur dell’umanità intera? sequae volore.

Frammenti d’archivio

| Titolo box | Et volupta quundis velestiatem andi sam, con re dollupiti rem comnihic tem andame soluptame dipsam nessim inimusa peruptibus, qui diaerum faccum eicias et explistium solorum faccusd andempe raeceris susciis ex et lab inctenis cusape eum sitasit errovit ommod quid molore voluptium, que aut verum simped quias es aut lanti con conet aliquas estrum ercimus rest, sim asperci alignimagnis ea volorias que natum nos dolorep eriatemperci numqui occabo. Solupidebis volore coratio officia volore vendae sunt ex esed quunto il imust ad enihil maionseque doloritem hitam volore ea nim enturer rovitis vitiam, suntur? To dolupta platemp orepratis voluptae dolo excerfe risqui dolorro rporaeperem quam quam, tet es que qui sed qui delit dolestore cullitiumet quunt quos et erspereptat etusandes re maio. Nemquis suntint ad quae remolor simus, sus resti inime preius iderorerchil ipiti cullores et aut vera venda corerias qui ipsanihit que vendes aligenis dolupta volupic itendi alia quaest, volenim cus dis essumquis exeratu riosandae re sequas doluptas volecab ipsum aboris id ut perovit auda andanti nctur? Erunt es dit, sit qui restectius, od maionse quossimusam.

Sono considerazioni astratte e forse un po’ sfuggenti, ma che possono avere una grande rilevanza sullo studio della preistoria. In altre parole, e facendo un passo indietro, la mente non è una scatola nera nella quale sono meccanicamente riflessi, in modo tanto passivo quanto evanescente, frammenti del mondo esterno, ma qualcosa di inestricabilmente legato al mondo stesso. La conseguenza, in questa luce, è che i manufatti umani, con gli strati, i resti delle abitazioni, dei focolari e dei pasti, e in genere quanto resta degli accampamenti dei cacciatori, possono essere visti come altrettante schegge, o frammenti d’archivio, di una mente preistorica scomparsa ormai da centinaia di migliaia di anni. Ma accedere a questi file «corrotti», dove il pensiero e la coscienza umani sono codificati in forme rese inaccessibili da trasformazioni e obliterazioni millenarie, è tutt’altro che semplice. Forse anche per questo, nelle ultime decadi, gli studiosi dei fossili del genere Homo e dei

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INTRODUZIONE

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Homo habilis

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5 4 Profilo delle antiche coste durante l’era glaciale In alto planisfero sul quale è riportata l’espansione delle forme del genere Homo in Africa e nel Vecchio Mondo, con l’indicazione dei siti che hanno restituito ossa fossili riferibili a questa sorta di antica «diaspora»: 1. Olduvai Gorge (1 800 000 anni fa); 2. Herto Bouri (1 000 000 anni fa); 3. Buia (1 000 000 anni fa); 4. Swartkrans (1 000 000 anni fa); 5. Sterkfontein (1 800 000-1 500 000 anni fa); 6. Dmanisi (1 850 000 anni fa); Homo georgicus; 7. Ubeidiya (1 600 000 anni fa); 8. Geshe Brenot Ya’aqov (780 000 anni fa); 9. Riwat (1 900 000 anni fa); 10. Renzidong; Homo erectus; 11. Zhoukoudian (780 000-500 000 anni fa); Homo erectus; 12. Lantian (1 000 000-530 000 anni fa); Homo erectus; 13. Yuanmou (700 000-500 000 anni fa); Homo erectus; 14. Trinil (1 800 000 anni fa); Homo erectus; 15. Sangiran (1 600 000 anni fa); Homo erectus; 16. Mojokerto (1 800 000 anni fa); Homo erectus; 17. Sierra de Atapuerca (1 200 000-780 000 anni fa); Homo antecessor; 18. Ternifine (700 000 anni fa).

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A destra cranio del Ragazzo del Turkana o di Nariokotome attribuibile a Homo ergaster, rinvenuto a Nariokotome, presso il Lago Turkana (Kenya). 1,5 milioni di anni fa circa. Nairobi, Museo Nazionale del Kenya. Il giovane, venuto a morte in un’età compresa fra i 9 e 12 anni, aveva una capacità della scatola cranica anatomicamente quasi moderna.

nostri cugini e antenati, e ancor piú gli archeologi preistorici, si sono saldamente aggrappati all’idea che sia possibile, sulla base delle testimonianze archeologiche, riconoscere e datare con precisione l’emergere subitaneo di una «mente moderna» (che, guarda caso, sarebbe poi la nostra) dagli abissi temporali, in gran parte ignoti, dei due milioni di anni della nostra evoluzione biologica. In tempi recenti, questa mente moderna è stata idealmente collocata sullo sfondo di scenari archeologici disparati e sconnessi: tra questi

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Ricostruzione del Ragazzo del Turkana. Burgos, Museo de la Evolución Humana. L’alta statura di questi ominidi permetteva una maggiore dispersione del calore, fondamentale nell’ambiente caldo e arido della savana in cui vivevano.

figurano quello di una o piú recenti migrazioni al di fuori del continente africano di gruppi umani anatomicamente moderni (vedi box alle pp. 12-13), l’esplosione della grafia su oggetti portatili o sulle pareti delle grotte di circa 30 000 anni fa, oppure ancora l’avvento dell’agricoltura in età neolitica, il fattore scatenante dell’irreversibile trasformazione planetaria di cui l’industrializzazione è solamente un drammatico, rapidissimo epilogo. Credibili o meno che siano queste ricostruzioni, esse investono la questione del ritrovamento e

l’interpretazione di manufatti dotati di particolari caratteristiche formali o estetiche, i quali, svincolati dalle funzioni tecniche piú immediatamente legate alla sussistenza, sembrano essere stati soprattutto vettori di comunicazione e percezione simbolica. È questa una possibile traduzione dell’odierno concetto di «arte» nei mondi della preistoria: un ambito che abbraccia tanto l’abbellimento e l’ornamentazione del corpo, quanto la creazione di forme visive permanenti su oggetti esterni. Se pensiamo alla teoria della «mente estesa», l’emergere

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INTRODUZIONE

Nella mente di Eva

N

el 1987, sul palcoscenico degli studi sull’evoluzione dell’uomo, fece irruzione l’«Eva Nera» o «Eva mitocondriale»: un’antenata africana che, 150 000 o 100 000 anni fa, sarebbe improvvisamente migrata dall’Africa nord-orientale provvista di capacità cognitive notevolmente superiori a quelle delle forme umane contemporanee (discendenti remoti di Homo habilis/erectus, come Homo heidelbergensis o, successivamente, l’Uomo di Neandertal) per sostituirle completamente nello spazio di 1500 generazioni o poco piú. Il nome dell’antenata – il predecessore comune matrilineare piú recente di tutti noi – mescola, in modo oltremodo suggestivo, il nome della prima donna biblica con un termine desunto dalla genetica: il DNA mitocondriale, trasmesso, appunto, solo per via materna, senza ricombinarsi in forme nuove. Grazie a questa fonte di stabilità, l’età di questa Eva è

di oggetti o scenari artificiali, decorati senza motivazioni immediatamente pratiche, ma in modo vistoso, assume le vesti di una sistematica contaminazione tra il pensiero umano, le regole sociali dei gruppi e la realtà materiale circostante. Tutto ciò può e deve insegnarci moltissimo sul nostro passato. Ma prima di accedere ai consueti e in qualche modo rassicuranti scaffali dei repertori archeologici, dobbiamo soffermarci nell’anticamera, ancora vasta e piena di ombre, di una cruciale questione irrisolta: quella dell’origine del linguaggio umano.

Alle origini della comunicazione In che modo l’emergere dell’arte preistorica si lega a quello del linguaggio? In entrambi i casi, si tratta dell’affermazione di sistemi strutturati di simboli, materiali nel caso delle tecniche, dell’arte e dell’ornamentazione, sonori nell’altro. Entrambi presentano le fondamentali caratteristiche della memorizzazione, della comunicazione e della condivisione sociale di catene di azioni necessarie per la coesione del gruppo e per il miglioramento delle sue possibilità di sopravvivenza; debbono essere state, quindi, strettamente collegate.

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desunta grazie a «orologi molecolari», ossia a calcoli statistici di notevole complessità sulla frequenza di mutazioni casuali. Calcolando i tempi del cambiamento, la maggioranza dei genetisti ha collocato la «genesi» dell’antenata e l’inizio del suo viaggio attraverso l’Eurasia a un periodo compreso tra 150 000 e 130 000 anni fa. Questa teoria, detta delle «Origini recenti degli umani moderni» o anche dell’«Out of Africa», si oppone al punto di vista «multiregionalista» di quanti invece ipotizzano che Homo ergaster/erectus si sia spinto nel cuore del nostro continente, in flussi continui, nell’arco di quasi 2 milioni di anni, mentre gruppi di popolazioni euroasiatiche siano tornati nei territori africani con la stessa frequenza. Si tratterebbe quindi di un processo lungo e complesso, che difficilmente può essere evidenziato, allo stato attuale delle ricerche, dallo scarso novero dei resti fossili sinora

Molti corsi universitari di linguistica si aprono raccontando che nel 1866, al culmine del trionfo del positivismo europeo, l’appena fondata Società Linguistica di Parigi bandí dai suoi consessi qualsiasi discussione sull’origine del linguaggio umano; sette anni piú tardi, un’analoga decisione fu presa dalla «sorella» Società Filologica di Londra. In assenza di un qualsiasi riscontro materiale oggettivo, teorie, discussioni e polemiche dilagavano senza freni, ed evidentemente senza risultati razionali. A questo rifiuto – forse comprensibile, nel suo contesto, ma tanto piú significativo in quanto aveva avuto luogo solo sette anni dopo l’uscita di On the Origin of Species (1859) di Charles Darwin (1809-1882) – possiamo far risalire uno scollamento, gravido di conseguenze, tra i montanti interessi scientifici e le indagini storiche sull’uomo e il suo passato. Da allora, anche la ricerca del XX secolo manifestò un generale disinteresse per le origini del linguaggio, che solo dagli anni Settanta in poi ha recuperato credibilità. Ancora oggi siamo di fronte a interrogativi di enorme portata: il linguaggio è in qualche modo «criptato» nei nostri codici genetici oppure è frutto di continui e casuali processi di adattamento?


casualmente rinvenuti. A favore della prima teoria giocano la nostra abitudine a raccontare il passato tramite figure eminenti; la semplicità stessa dell’ipotesi; e l’indiscusso prestigio di cui oggi godono, nel mondo della ricerca, gli studi di genetica, grazie alla recente clamorosa ricostruzione del genoma – l’intera mappa genetica – di Homo sapiens. Inoltre, almeno nella cultura occidentale, gli inizi, soprattutto se facilmente riconosciuti, tendono a esercitare un fascino apparentemente irresistibile. I multiregionalisti obiettano che la prima spiegazione, oltre a divulgare popolarmente la falsa idea di un’unica progenitrice, invece di una popolazione, ha il sapore di una comoda scorciatoia, data l’esiguità dei dati a disposizione; ed evidenziano lo sfondo vagamente razzista di una spiegazione che, comunque, postula l’avvento di un essere superiore che avrebbe sottomesso o soppiantato tutti gli altri.

Ricreazione immaginaria della cosiddetta «Eva Nera» o «mitocondriale» secondo il modello di Lorenzo Possenti.

È mai esistito un proto-linguaggio universale, fatto di parole-suoni con sintassi rudimentale? La facoltà della parola si è evoluta gradualmente da forme di comunicazione che condividiamo con altri primati, o rappresenta un improvviso salto, o addirittura uno strappo evolutivo? Come si correla agli evidenti cambiamenti anatomici rivelati dai paleontologi? Perché i linguaggi si sono evoluti e diversificati nel tempo, e quali sono esattamente i motori del cambiamento presso società di cacciatori e raccoglitori? Addentriamoci in questa foresta di dubbi, e nulla ci apparirà scontato o semplice.

Suoni e significati Comunicare con suoni o parole implica un apparato fonatorio adatto all’emissione di suoni complessi, specifiche convenzioni nell’emissione e nella ricezione dei segnali, e un apparato uditivo ugualmente perfezionato. Quando un bambino, in un arco di tempo che va dai tre mesi ai tre anni d’età, si impadronisce delle potenzialità del linguaggio, deve imparare che certi suoni, in determinati contesti e intonazioni, possono indicare cose completamente diverse: per esempio, che

«cane» indica una creatura vivente, ma anche immagini statiche su carta, o altre in movimento su uno schermo – sia realistiche, sia schematiche e irreali, come quelle dei cartoni animati. Ma anche che, nel parlato colloquiale, la stessa parola possiede, in altri contesti culturali, il valore di insulto. Tutto ciò comporta la sovrapposizione, alle esperienze condivise del mondo reale, di un vasto reticolo di segnali astratti e corrispondenze del tutto virtuali, nella continua sperimentazione di innumerevoli e spesso contradditorie associazioni neurali. Secondo molti studiosi, infatti, l’apprendimento difettoso del linguaggio e l’incapacità di manipolare correttamente tali correlazioni sono altrettante concause di gravi malattie mentali, quale, per esempio, la schizofrenia. Se alcuni, come il linguista, filosofo e teorico della comunicazione Noam Chomsky, pensano che la capacità di imparare a parlare sia dovuta a schemi biologici innati ed ereditati dai progenitori, assenti nel mondo animale, altri, al contrario, considerano il linguaggio umano un adattamento funzionale compiuto da un apparato neurale che, come quello degli altri primati, non si era affatto

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INTRODUZIONE

A destra l’Uomo di Neandertal come venne immaginato e rappresentato sulla base dei resti umani scoperti in Francia, a La Chapelle-aux-Saints, nel 1908. Il disegno, che accentuava le presunte fattezze scimmiesche del nostro antenato, fu realizzato da Frantisek Kupka con la supervisione scientifica dell’antropologo francese Marcelin Boule, che era stato incaricato di studiare i materiali recuperati nel sito.

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In basso, sulle due pagine cartina con i principali siti dei Neandertal (Homo Neanderthalensis) e le direttrici della diffusione dell’Homo sapiens (indicate dalle frecce di colore arancione): 1. Neandertal; 2. Spy; 3. Blache-St.Vaast; 4. Arcy-sur-Cure; 5. Châtelperron; 6. St. Césaire; 7. La Quina; 8. Le Moustier; 9. La Ferrassie; 10. Combe Grenal; 11. La Chapelle-aux-Saints; 12. La Borde; 13. Régordou; 14. Gorham’s Cave; 15. Forbes’ Quarry; 16. Zafarraya; 17. Tata; 18. Krapina; 19. Vindija; 20. Saccopastore; 21. Monte Circeo (Grotta Guattari); 22. Kiik-Koba; 23. Dederiyeh; 24. Tabun; 25. Amud; 26. Zuttiyeh; 27. Kebara; 28. Shanidar; 29. Teshik Tash; 30. Denisova; 31. Okladnikov.

Qui sopra il frammento di cranio rinvenuto nella grotta di Feldhofer nel 1856 con altre ossa della specie umana che prese poi il nome di Homo neanderthalensis. Bonn, Rheinisches Landesmuseum. Nella pagina accanto in basso: cranio di Homo neanderthalensis scoperto nel 1961 ad Amud, Israele. 45 000 anni da oggi. L’individuo ha fattezze meno tozze e robuste di altri Neandertal europei, dai quali differisce soprattutto per quanto riguarda le arcate orbitali, il naso, la mascella e la parte posteriore del cranio. Caratteristiche che potrebbero essere derivate dall’adattamento ai climi piú caldi e asciutti della regione vicino-orientale.

evoluto in vista di simili funzioni. Insomma, i nostri antenati preistorici parlavano oppure no? Le ricerche piú recenti suggeriscono proprio di sí, e da epoche molto remote. La prova si troverebbe, strano a dirsi, sui denti: non perché le parole lascino segni sulla dentatura, bensí in virtú di un processo molto piú indiretto ma ugualmente rivelatore. C’è di mezzo la lateralizzazione, ossia il processo ancora piuttosto misterioso per cui, entro i primi 5-6 anni di sviluppo dell’individuo, si determina la localizzazione delle varie funzioni, principalmente nell’uno o nell’altro emisfero cerebrale.

Destrimani e mancini Nelle popolazioni moderne, il 90% circa degli individui è formato da destrimani (quelli che usano in preferenza la mano destra), mentre il 10% è mancino. Nei destrimani, il 96% ha spostato le funzioni relative al linguaggio nell’emisfero sinistro, mentre nei mancini le stesse funzioni, in larga maggioranza, sono migrate in quello destro. La correlazione tra lateralizzazione e uso del linguaggio è quindi accertata. Se riconoscessimo lo stesso modello di asimmetrie nei resti fossili umani, quindi, potremmo individuare – anche se indirettamente – la facoltà di parlare. E questo è proprio ciò che avviene: studiando le striature che gli uomini preistorici causavano ai propri incisivi nell’atto di tendere carne e fibre tra i denti e una delle mani, mentre l’altra tagliava con una scheggia affilata in selce proprio davanti alla bocca, gli antropologi hanno scoperto che l’80-90% dei Neandertaliani tagliava con la destra, e che il medesimo rapporto percentuale tra destrimani e mancini compare negli individui di cui sono stati trovati i resti nel sito di Atapuerca (Spagna), piú di trenta in tutto, che si datano in maggioranza a circa 500 000 anni fa e sono stati assegnati a una specie denominata Homo antecessor.

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INTRODUZIONE

Nuove ricerche stanno spostando il limite dei fenomeni di lateralizzazione, e quindi l’uso di linguaggi strutturati, sulla soglia del milione di anni fa: una profondità cronologica impressionante. Nessuna meraviglia, quindi, che la comunicazione simbolica oggettuale sia molto piú antica dell’emersione delle varie «menti moderne» sino a ora ipotizzate. Dato che, come vedremo, i primi manufatti chiaramente ornamentali da indossare sul corpo risalgono solo a 130 000-100 000 anni

ECCO PERCHÉ PARLIAMO UOMO

SCIMPANZÈ

Cavità nasale Rino faringe

Faringe

Lingua

Cavità nasale Rino faringe

Faringe

Laringe

Laringe

Corde vocali

Corde vocali

Lingua

Confronto tra l’apparato vocale umano e quello dello scimpanzè. Nell’uomo la laringe è posizionata piú in basso e consente l’emissione di una vasta gamma di suoni, ma impedisce di respirare e deglutire contemporaneamente, operazione che è invece possibile per la scimmia, che, però, può disporre di una gamma di suoni piú limitata. Nel caso dei Neandertal, alcuni studiosi hanno ipotizzato che non conoscessero l’uso della parola, ma tale teoria appare poco coerente con l’articolato modus vivendi della specie. AREA DI BROCA Trasformazione di concetti in segnali motori e parole

AREA DI WERNICKE Creazione di idee e concetti

A sinistra, dall’alto ricostruzioni ipotetiche dell’aspetto di un esemplare di Homo Neanderthalensis e di Homo Sapiens. Trento, MUSE.

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fa, dovremmo stupirci, al contrario, di una loro affermazione relativamente tardiva, e interrogarci sulla ragione del fenomeno.

Comunicare l’identità A che cosa servivano una collana di perline, un tatuaggio, un pigmento usato sul corpo? A comunicare ruoli, ranghi, dimensioni di spazialità e vari tipi di identità. Ancora oggi, i mendicanti religiosi dell’India segnalano con le diverse perle delle collane il circuito di pellegrinaggio tra templi e monasteri a cui sono devoti, e le popolazioni musulmane maneggiano costantemente i tasbeh (rosari) usati nella preghiera, esibendo in pubblico


Tutto ebbe inizio 2 milioni d’anni fa Cronologia Forme umane Evoluzione in anni dal Periodi archeologici delle industrie presente litiche

2 000 000

PALEOLITICO INFERIORE

Homo ergaster/erectus Prime amigdale in Africa e Asia in Africa

1 500 000

Homo antecessor Homo heidelbergensis in Europa

Amigdale in Africa, Europa e in parte dell’Asia

400 000

Conchiglia incisa a Trinil; prime perline ad Abbeville (?) Venere di Tan Tan (?)

Ocra in Africa e a Nizza (Francia)

350 000

Homo heidelbergensis/ Industrie dette neanderthalensis musteriane in Europa

Ossa animali decorate a Bilzingsleben

170 00080 000

PALEOLITICO MEDIO

Circoli di stalattiti, Grotta di Bruniquel Invenzione dei vestiti

150 000130 000 130 000 100 000 80 00070 000

Homo neanderthalensis in Europa

40 000

PALEOLITICO SUPERIORE

20 00018 000 18 00010 000 12 50011 500

Forme umane moderne in Eurasia e in Australia

Perline di conchiglia in Marocco, Tunisia, Sud Africa Perline di conchiglia a Skhul (Israele) Pigmenti colorati a Peche de l’Azé

Industrie su lama in Sri Lanka e in Sudafrica

50 00045 000

35 00020 000

Prime industrie su lama in Africa e in Medio Oriente

Forme umane moderne out of Africa (?) Homo neanderthalensis in Europa

60 000

40 000

Industrie ceramiche

Choppers e schegge

1 800 000

500 000

Ornamentazione e arte

Lastre di ocra incise a Blombos (Sudafrica) Cuppelle su lastra di roccia a La Ferrasie Contenitori in uova di struzzo decorate a Diepkloof (Sudafrica) Prime pitture in grotte spagnole Perline di uova di struzzo a Border Cave (Sudafrica), e a Mumba (Tanzania)

Industrie su lama in Europa

Prime pitture rupestri in Australia

Aurignaziano

Arte rupestre in Indonesia. Artigli e piume come ornamenti a Fumane (Italia). Bracciale in clorite levigato a Denisova (Russia)

Gravettiano

Esplosione dell’arte parietale e mobiliare in Europa e in Russia. Statuette delle Veneri. Vesti colorate con fibre ritorte e intrecciate (Georgia, Moravia, Francia)

Figurine ceramiche e fornaci in Moravia. Primi vasi ceramici in Cina meridionale

Grandi punte foliate in selce

Apogeo della pittura parietale in grotta

Microliti geometrici

Arte natufiana (Levante) Complessi megalitici di Göbekli Tepe (Turchia)

Ripetute invenzioni della ceramica dal Giappone alla Siberia e alle sponde dell’Adriatico

Solutreano Maddaleniano MESOLITICO

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CAPITOLO INTRODUZIONE

Il respiro e la corsa

«L

a corsa fu la prima arte avanzata del genere umano, il nostro originale atto di ispirata creatività. Molto prima che incidessimo figure sulle pareti delle grotte, o battessimo dei ritmi musicali su tronchi d’albero vuoti, perfezionavamo l’arte di combinare respiro, mente e muscoli in una fluida autopropulsione su terreni accidentati. E quando i nostri antenati finalmente tracciarono i loro primi disegni, quali furono? Un segmento rivolto verso il basso, delle saette che scendono in giú e a metà del disegno, fanno intravedere L’Uomo in Corsa» (Christopher McDougall, Born to Run, Mondadori, Milano 2014).

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l’appartenenza alla propria fede. In una società preistorica, perline e pendenti potevano esprimere condizioni di ogni genere, quali l’appartenenza a clan o tribú, una condizione matrimoniale, uno stato di lutto o cerimoniale. Esigenze simili non appaiono impellenti in gruppi di individui di dimensioni ridotte, dove comunicazione e divisione del lavoro potevano essere assolti da stretti rapporti di parentela, come dal sesso o genere, e dalle classi di età. L’ipotesi piú semplice, forse banale, è che l’ornamentazione corporea, al di là della vanità o della sua funzione di attrattiva sessuale, fosse esplosa quando le comunità di cacciatori e raccoglitori superarono limiti dimensionali


ben precisi, per incremento demografico o per agglomerazione pianificata. I piccoli oggetti, in altre parole, sarebbero serviti a comunicare e quindi a coordinare il ruolo e le funzioni di donne e uomini in posizioni cruciali all’interno di comunità allargate, vaste abbastanza da far sí che non tutti conoscessero tutti. Ornamenti e pitture, quindi, per limitare l’incertezza sociale, una condizione che, all’aumentare della consistenza demografica di un gruppo, cresce esponenzialmente. Eppure gli albori dell’ornamentazione e dell’arte, come vedremo, hanno forse radici ben piú antiche, e non facilmente spiegabili con simili elementari processi sociali.

Percorsi, strumenti e materie prime Per gli archeologi, gli stessi ornamenti nascondono invece informazioni importanti: pietre e conchiglie marine ci parlano della conoscenza di un territorio e di antichi percorsi di migrazione e scambio, le superfici raccontano dei trapani, delle pietre e degli altri materiali usati nella lavorazione. La consunzione dei fori testimonia indirettamente della presenza di cordicelle; queste ultime presuppongono corde, che, a loro volta, implicano la conoscenza di nodi. Da corde e nodi si passa anche a contenitori di fibre intrecciate, quindi a trappole e altri

strumenti per la cattura di animali terrestri e pesci... fino a giungere, almeno potenzialmente, alla tecnologia delle imbarcazioni. Quest’ultima, anche se ancora invisibile sul piano dei reperti, è data per certa sin da epoche straordinariamente antiche, dato che la diffusione di Homo erectus nell’arcipelago indonesiano implica necessariamente la capacità di attraversare bracci di mare aperto di notevole ampiezza.

DITELO CON LE CONCHIGLIE Datate tra i 540 000 e i 430 000 anni fa, queste conchiglie sono state rinvenute a Trinil, sull’isola di Giava, e testimoniano la presenza dell’Homo erectus nell’Arcipelago indonesiano. Si utilizzavano sia come strumenti per incidere, sia decorate con disegni geometrici. È evidente come la comunicazione simbolica attraverso ornamenti si fosse affermata come mezzo per stabilire ruoli e funzioni all’interno delle comunità.

Sulle due pagine pitture rupestri presso il Tassili n’Ajjer (Algeria). Le figure sono ritratte in corsa, probabilmente durante una battuta di caccia. La corsa e la marcia veloce furono uno strumento fondamentale, perfezionato nel corso dell’adattamento, delle prime bande di cacciatori.

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INTRODUZIONE

Tra i piú antichi, e rarissimi, manufatti non funzionali o rappresentativi si trovano oggetti che non sembrano direttamente ispirati dalle necessità di distinzione poc’anzi descritte. Il sito di Trinil, sull’isola di Giava (Indonesia), venne scavato alla fine dell’Ottocento e fu teatro delle scoperte epocali dei primi resti fossili di Homo erectus da parte del paleontologo olandese Eugène Dubois (1858-1940). Lo studioso vi aveva raccolto una considerevole quantità di valve fossili di un grande mollusco d’acqua dolce

UN’IMMAGINE BEN PRECISA? Due ossa incise ritrovate nel sito di Bilzingsleben in Turingia, Germania. Le frecce in sovrimpressione rendono visibile l’andamento delle striature, tutte parallele, facendo presumere l’intenzione, da parte dell’incisore, di riportare un’immagine ben precisa.

dall’altisonante nome scientifico di Pseudodon vondembuschianus trinilensis (vedi box a p. 19). Nel riesaminare la collezione delle valve riunita da Dubois, Josephine Joordens – biologa marina all’Università di Leiden – si è accorta che alcune erano state intenzionalmente forate dall’esterno, in prossimità del muscolo di chiusura; che altre erano fortemente usurate sul margine, come se fossero state utilizzate in qualità di raschiatoi e coltelli per tagliare; e che almeno una valva recava una linea a zig zag, tracciata con sicurezza sull’esterno del guscio. Databili tra i 540 000 e i 430 000 anni fa, rappresentano l’esempio piú antico sinora conosciuto di geometria umana.

Alla scoperta di un mondo nuovo Sarebbe facile banalizzare la scoperta, per esempio come il gesto annoiato di un momento d’ozio. Lo zig zag di Trinil, al contrario, ci parla di un atto creativo basato su un interesse astratto (la sovrapposizione di una linea spezzata e serie di angoli alla superficie puramente curva della conchiglia). In questo oggetto poco appariscente, e nella semplicità dell’azione, il ritmo dell’esecuzione del disegno sembra un primo, rivoluzionario passo umano in un mondo ancora altrimenti intatto; un mondo che, da allora in poi, sarebbe stato composto di significanti e significati. E non si tratta di un fatto isolato. Bilzingsleben, o meglio Fundplatz Bilzingsleben, «il luogo

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A sinistra la Venere di Tan Tan rinvenuta in Marocco nel 1999 e datata tra i 500 000 e i 300 000 anni fa. È ritenuta una delle prime rappresentazioni della figura umana.


della scoperta» dello stesso nome, è un campo di cacciatori paleolitici scavato in Turingia, Germania, risalente a 400 000 anni fa circa. Il deposito è protetto da una spessa formazione di travertino, che ha sigillato i materiali archeologici. Insieme ai resti di grandi capanne ovali, e a diversi fossili umani, il sito conteneva in abbondanza ossa di elefante, rinoceronte lanoso, uro, cervo, cavallo e altre specie, e piú di 140 000 manufatti in pietra scheggiata. Un frammento di tibia d’elefante reca gruppi di 7 e 14 linee incise parallele, tracciate nello stesso momento e con il medesimo strumento. Altre superfici ossee recano fasci radiali di segmenti disposti a ventaglio, come piccole figure quadrangolari e angolari.

«paleoarte») sembrerebbe avere origine dall’esternazione di caratteri, movimenti e processi psichici intrinsechi alla condizione e al corpo umano, quindi dell’individuo, e non nasce in funzione dei bisogni di una collettività allargata; e sembra aver completamente ignorato qualsiasi illustrazione del mondo animale. Al corpo umano potrebbe ricondurci, infine, anche la cosiddetta «Venere di Tan Tan», rinvenuta in un sito all’aria aperta, sui banchi del torrente Draa, in Marocco, insieme a

Oggetti-guida e movimenti

A destra la Venere di Berekhat Ram scoperta nel 1981 sulle alture del Golan, forse contemporanea a quella di Tan Tan, potrebbe essere un’ulteriore conferma dell’arte sviluppata dall’Homo erectus.

L’interpretazione del limitato ma sorprendente repertorio di incisioni di Bilzingsleben è stata a lungo oggetto di aspre polemiche. Se nulla può essere considerato certo nello studio di questa antichissima «arte» geometrica, è tuttavia plausibile che la grafica su osso si basasse su oggetti-guida lineari, simili a righelli, e su precisi movimenti ritmici; come ritmici sono non solo la scheggiatura e l’abrasione delle pietre, ma anche il cammino e la corsa – quest’ultima, certamente un’attività essenziale, sia per inseguire sia per fuggire – e, con essi, il respiro che alimenta la parola e la danza. Per avere un’idea dei paesaggi sonori e vocali che potevano accompagnare simili tipi di grafica preistorica, basta ascoltare registrazioni originali o recentemente ricreate dei canti di caccia degli Inuit (eschimesi dell’Alaska), basati su ritmi incalzanti e sulla tecnica del throat singing, o canto gutturale. La suddivisione dello spazio implica quella del tempo, e quest’ultima, rapportata alla corsa e al ritmo del canto, implica la narrazione di eventi passati, un’attività fondamentale nella trasmissione delle conoscenze. La prima arte, quindi (per alcuni

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INTRODUZIONE

strumenti litici databili fra i 500 000 e i 300 000 anni fa (vedi a p. 20). Si tratta di un piccolo ciottolo di quarzite, alto circa 6 e largo meno di 3 cm; potrebbe trattarsi di una curiosità naturale, di un semplice sasso arrotondato dall’erosione fluviale. Se non che, l’esame al microscopio dell’interno delle linee naturali che la percorrono, a giudizio degli esperti, sembra indicare l’intervento meccanico di uno strumento che, scandendone le parti, ne avrebbe accentuato l’aspetto umano. Potrebbe trattarsi della piú antica immagine femminile in pietra nota al mondo, ma la cautela, anche questa volta, è d’obbligo.

Il mistero delle amigdale L’ascia a mano, Hand axe in inglese, in italiano anche detta amigdala, dalla parola greca per «mandorla», è un oggetto fatto di selce – o di

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In alto il sito archeologico di Olorgesailie, sul fondo della Rift Valley a sud-ovest di Nairobi, in Kenya. Si tratta di un importante punto di riferimento per quel che riguarda il ritrovamento di utensili, in particolare le asce a mano, prodotti dall’uomo durante il Paleolitico Inferiore. Nella pagina accanto ricostruzione di un Uomo di Neandertal che scheggia un’amigdala.

altre pietre molto compatte a grana fine – scheggiato con abilità da ambo le facce, sino ad assumere una inconfondibile forma appuntita e simmetrica (di qui, l’accostamento alla mandorla). Oggetti di questo tipo furono prodotti in enormi quantità, prima in Africa e poi in Europa, almeno a partire da 1,8-1,6 milioni di anni fa sino alla fine del Paleolitico Inferiore, cioè intorno ai 300 000 anni fa. Le forme anatomiche umane che ne fecero uso furono, in ordine cronologico: Homo ergaster, Homo erectus e Homo heidelbergensis. Con l’Uomo di Neandertal e i tempi del Paleolitico Medio (300 000-40 000 anni fa circa) queste «mandorle» in selce si fecero meno frequenti e divennero piú piccole, sino a confondersi con un repertorio di strumenti scheggiati noto come «industrie musteriane». L’amigdala è lo strumento preistorico in pietra scheggiata piú affascinante e meglio noto al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti. Lo è almeno dal 1859, cioè da quando, nel primo vero «appuntamento mediatico» delle discipline preistoriche, il geologo, archeologo e antiquario francese Jacques Boucher de Crèvecœur de Perthes (1788-1868) disseppellí pubblicamente ad Abbeville (Francia), dai banchi della Somme, alcuni manufatti che giacevano insieme alle ossa di elefanti e rinoceronti, ormai estinti in loco. Tra gli astanti si trovavano anche esponenti del miglior mondo scientifico inglese: il geologo Joseph Prestwich (1812-1896) e l’archeologo John Evans (1823-1908), padre di Arthur, lo scavatore della Creta minoica. Nello stesso anno, Joseph Prestwich pubblicò un articolo in cui dava ragione a Boucher: le amigdale appartenevano alla stessa era dei grandi animali estinti della preistoria. Il riconoscimento da parte dell’accademia britannica delle teorie di un autodidatta francese di provincia non fu certo un passo indolore; eppure segnò l’inizio dell’archeologia dei depositi paleolitici europei. Ben presto, infatti, quando gli stessi strumenti in pietra cominciarono a emergere con frequenza sempre maggiore, insieme alle stesse ossa,


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INTRODUZIONE

in diversi altri Paesi del continente, l’evidenza divenne tanto straripante quanto innegabile. Boucher, in precedenza, era stato ignorato dalle élite scientifiche parigine. Oggi la storia gli riconosce un indubbio e lungimirante intuito, che gli aveva permesso di affermare il carattere «antidiluviano» dei reperti (vale a dire, che i depositi erano di età pleistocenica). Per una trentina d’anni, infatti, in qualità di funzionario della dogana di Abbeville, Boucher aveva frequentato le cave di ghiaia della Somme, nelle quali affioravano depositi preistorici che, a differenza di altri sepolti nelle grotte, erano stati rapidamente suggellati ed erano ottimamente conservati. Vale la pena di segnalare che uno di questi siti è il villaggio di Saint-Acheul, che però, a differenza di quanto spesso si legge, non ha dato nome all’Acheuleano, etichetta tecnica tuttora in uso per le industrie bifacciali del Paleolitico Inferiore, cioè con amigdale (questa denominazione deriva infatti da un quartiere della città di Amiens cosí chiamato, nel quale, nell’Ottocento, un medico con la passione per l’archeologia trovò numerosi strumenti in selce).

«Lingue di gatto» fatte in casa... Si deve ammettere che Boucher, come studioso, lasciava piuttosto a desiderare: fu il primo che, invece di approfondire la tipologia delle diverse pietre scheggiate e comprenderne i nessi tecnici, si fece affascinare e fuorviare dalle facili geometrie delle amigdale. Tanto da comprarne interi cesti e finendo con il riempire le sue collezioni di falsi confezionati dagli operai delle cave locali, i quali chiamavano le amigdale langues de chat, «lingue di gatto», e arrotondavano i propri magri salari ingannando l’antiquario. Da allora, il sospetto di falsificazioni aleggiò su piú d’una delle tappe della ricerca preistorica. Nel 1879, quando il nobile spagnolo don Marcelino Sanz de Sautuola (1831-1888) e sua figlia si accorsero che la volta della grotta di Altamira, presso Santander, brulicava di tori rossastri, le pitture – nonostante la scoperta

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In alto punta bifacciale, da Saint Acheul (Francia) sito eponimo dell’Acheuleano, cultura del Paleolitico Inferiore. Abbeville, Musee Boucher-DePerthes.

fosse stata riconosciuta da studiosi di chiara fama – furono a lungo giudicate false: alcuni accademici, infatti, sospettavano che si trattasse di un elaborato inganno, ordito da retrogradi clericali spagnoli in chiave antievoluzionista, al fine di gettare discredito sull’archeologia preistorica. Boucher considerava i suoi reperti, veri e falsi, come oggetti aventi una funzione simbolica, usati in speciali rituaIi e negli scambi commerciali; e la sua principale pubblicazione in merito (Les Antiquités Celtiques et Antédiluviennes) abbondava non soltanto dei


suoi disegni, a dir poco approssimativi, ma anche di teorie tanto poco fondate, che Charles Darwin, in seguito, senza troppi complimenti avrebbe definito quell’opera rubbish, «spazzatura». Ottant’anni piu tardi, nel 1940, la residenza di Boucher ad Abbeville, un vero e proprio museo archeologico fatto in casa, con la sua biblioteca, tutti gli archivi e la grande collezione originale di manufatti litici, fu distrutta dalle truppe di Erwin Rommel, durante l’avanzata delle forze naziste in Francia. Di fronte alla realtà della distruzione del suo piccolo paradiso, ci piace ricordare Boucher come un perfetto campione del romanticismo: spia al servizio di Napoleone, patrono delle

istituzioni di carità per i lavoratori e difensore della causa dell’educazione femminile, seduttore e brillante frequentatore di cene e salotti, abile ballerino e probabile temporaneo amante di una delle donne piú desiderate di tutti i tempi: Paolina Bonaparte. La mancata comprensione della funzione delle amigdale da parte di un «avvocato della preistoria» come Boucher de Perthes segna l’inizio di una serie di incomprensioni, fraintendimenti e interpretazioni a dir poco fantasiose che, come vedremo, ancora circondano di un alone di vaghezza questo fondamentale indicatore degli orizzonti piú arcaici dell’età paleolitica. Oggi l’amigdala è considerata l’espressione

In alto ritratto di Jacques Boucher de Crèvecoeur de Perthes, controverso studioso francese, al quale si devono numerosi ritrovamenti nell’area di Abbeville. In basso amigdala in selce ottenuta con la tecnica di scheggiatura detta Levallois (dal sito omonimo, non lontano da Parigi), risalente dunque al Paleolitico Medio. Abbeville, Musee Boucher-De-Perthes.

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INTRODUZIONE

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A destra il sito archeologico di Taforalt, regione di Oujda, Marocco. Nella pagina accanto ricostruzione di una nostra antenata preistorica. Mettmann, Neanderthal Museum. Sino a tempi recenti, simili ricostruzioni erano esclusivamente riservate alle popolazioni del Paleolitico Superiore; recenti sviluppi della ricerca suffragano invece l’idea che complicati ornamenti dello stesso genere fossero anche prodotti e usati dai Neandertaliani del Paleolitico Medio.

di una delle prime conquiste estetiche dell’uomo, grazie alle forme spesso «perfette» conferite alle pietre lavorate alla fine del processo di scheggiatura: ovale, triangolare, a goccia appuntita. Ciò è particolarmente vero per i manufatti dell’Acheuleano «evoluto», prodotti prima della soglia dei 300 000 anni fa, cioè prima della transizione piena al Paleolitico Medio. Ma furono davvero la geometria e l’estetica la preoccupazione principale degli antichi scheggiatori?

SIMILE A UNA COLLANA Conchiglie perforate e coperte di ocra, dalla Grotta dei Piccioni, presso Taforalt. 82 000 anni fa circa. Sono un esempio delle capacità simboliche dell’uomo del Paleolitico Medio: si tratta, infatti, di oggetti destinati a comporre un oggetto estetico, simile a una collana, e non riconducibili perciò a una dimensione utilitaristica.

Esternare il pensiero Le amigdale rappresentano la prima forma d’arte dell’umanità? Qualche caso lo farebbe supporre: per esempio, bifacciali nei quali lo scheggiatore era certamente cosciente di particolari venature concentriche della pietra, o dai quali affioravano interessanti conchiglie fossili. Nel 2013, cosí si è espressa Jill Cook, curatrice della sezione di preistoria

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del British Museum: «Gli strumenti in pietra scheggiata come le amigdale forniscono la prima evidenza di esseri umani dotati di un cervello capace di esternare il pensiero. I precedenti ciottoli scheggiati e le schegge informi erano risposte tecnologiche piú semplici, finalizzate a ottenere cibo a sufficienza, che a sua volta sosteneva il cervello, avido di calorie, nel suo sviluppo. Ma le amigdale vanno oltre. Le loro dimensioni, la regolarità e simmetria delle forme, la scelta del materiale suggeriscono che non si trattasse di oggetti meramente funzionali, ma che essi trasmettessero informazioni e messaggi di chi le faceva all’interno del gruppo, oggi intelleggibili dagli archeologi».

Una coincidenza significativa Alcuni neuroscienziati hanno monitorato l’attività cerebrale di un moderno fabbricante di questi oggetti, scoprendo che l’area del cervello coinvolta – la parte frontale – confina con quelle attivate dal linguaggio. Nell’antichità, queste pietre scheggiate erano accomunate a fossili e ad asce preistoriche in pietra, e considerate creazioni dei colpi di fulmine, oppure di una ipotetica vis plastica (una cieca «forza plasmante») innata nel ventre della natura, capace di creare forme regolari nella pietra, ma senza alcun significato. Oggi l’ipotesi di massima è che questi strumenti servissero a macellare le carcasse e a tagliare la carne. Tuttavia, chiunque abbia

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sperimentato manualmente la funzionalità della pietra scheggiata, ha potuto constatare che le schegge staccate dai blocchi per ottenere un’amigdala tagliano molto meglio dell’amigdala stessa, e che, per rompere le ossa, la rotondità di un semplice ciottolo funge meglio da percussore del margine tagliente dell’amigdala, che, nell’impatto, ferisce anche, sul retro, la mano del macellaio. C’è qualcosa, quindi, di poco «funzionale» e, anche per questo, le speculazioni sulla natura dello strumento preistorico continuano a fiorire. Sono state cosí avanzate diverse teorie, spesso poco credibili, che, come vedremo, la dicono lunga sui pregiudizi e la formazione culturale dei proponenti, piú che sul pozzo profondo e insondabile del passato (per usare un’espressione di Thomas Mann). All’indomani della seconda guerra mondiale, per esempio, il professore di archeologia

I COLORI DI BLOMBOS CAVE Le immagini in queste pagine sono riferibili alla Grotta di Blombos (Blombos Cave), in Sudafrica. Gli scavi hanno portato alla luce il primo «laboratorio per la fabbricazione dei colori» della storia, risalente a 75 000 anni fa circa. Le conchiglie trovate al suo interno, infatti, venivano utilizzate come contenitori di una miscela per realizzare pigmenti a base di ocra e quarzite, attestando cosí la comparsa di un interesse artistico nel Paleolitico Medio. Tuttavia, non sono ancora chiari gli utilizzi del prodotto ottenuto, ma la lunga lavorazione e il complesso procedimento, che comprendeva anche l’utilizzo di carbone e di liquidi, è stato ricostruito da Christopher Henshilwood, direttore delle ricerche. In particolare, in questa pagina, viene presentata la ricostruzione del «kit» per la realizzazione dei pigmenti, i cui elementi fondamentali erano la conchiglia, utilizzata come contenitore, e un osso di forma allungata per mescolare o distribuire la miscela.

Hallam L. Movius (1907-1987), dell’Università di Harvard, USA, prese un righello, si sedette davanti a una carta del mondo, e tracciò una lunga linea obliqua che, partendo

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dall’estremità settentrionale dell’Irlanda, si chiudeva sul delta del Gange, in India, proseguendo diritta verso alcune isole dell’Arcipelago indonesiano. A sud della linea si trovavano, secondo Movius, i mondi delle amigdale (Africa, Europa, India, Indonesia). A nord-est della stessa linea cadeva invece quello dei ciottoli scheggiati in modo approssimativo (i cosiddetti choppers) e delle schegge informali (Asia Centrale, Mongolia, Estremo Oriente). L’immaginaria linea di Movius cosí divideva il mondo degli intelligenti e dei creativi (noi occidentali, e, giocoforza, i nostri antenati africani, tutti dotati di amigdale) da quello dei poco brillanti retrogradi (gli Asiatici, privi dello stesso simmetrico strumento, e condannati a usare i tozzi choppers). Un’affermazione non priva di razzismo e che ignorava un dato essenziale: la linea retta (che, tra l’altro, non potrebbe essere tale, visti i ritrovamenti sempre piú frequenti di bifacciali nell’entroterra di Cina e Mongolia) divide probabilmente regioni nelle quali le rocce silicatiche ideali per la scheggiatura abbondano – e non è necessario sfruttarle all’estremo, creando, appunto, le forme a mandorla –, da

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quelle in cui le stesse pietre sono molto piú rare, e quindi vanno scheggiate all’estremo, assumendo forme piú regolari.

I fautori della continuità Negli anni Novanta, gruppi di archeologi preistorici e linguisti hanno ripreso l’idea, già traballante, di questa stessa distribuzione, rielaborandola nella «Teoria della continuità paleolitica». Si sosteneva che le parti del mondo in cui erano state fabbricate le amigdale coincidessero con le regioni in cui, molto tempo dopo, si affermarono le lingue del ceppo indoeuropeo. L’ipotesi si scontra con una realtà geografica non secondaria: un simile scenario, infatti, comprenderebbe anche l’Africa, continente nel quale le lingue indoeuropee cominciarono a diffondersi solo con l’introduzione dell’inglese. Inoltre, quanto sappiamo del comportamento linguistico moderno suggerisce il succedersi di continui e radicali cambiamenti (pensiamo alla sostituzione delle lingue iraniche da parte di quelle turche in Asia Centrale) piú che fenomeni di conservazione plurimillenaria. Altre recenti ipotesi sono indubbiamente piú creative. Negli anni Ottanta del secolo scorso,


«SCRIVERE» SULLE UOVA Gli scavi nel riparo di Diepkloof (Sudafrica). Il sito fu scoperto nel 1973 e ha restituito una ricca collezione di incisioni su gusci di uova di struzzo risalenti al Paleolitico Medio. Utilizzati all’epoca come piccoli contenitori, di cui possiamo osservare oggi solamente i frammenti, i gusci testimoniano la volontà di affermare, attraverso incisioni chiare e sistematiche, i legami all’interno della comunità. Il ritrovamento in grande numero di questi frammenti ha permesso di capire come le interazioni sociali fossero rappresentate da simboli specifici e di interrogarsi sul grado di sviluppo di una tradizione grafica.

per esempio, Eileen O’Brien ha proposto la teoria dei «Frisbee assassini»: le amigdale sarebbero state scheggiate appositamente come proiettili taglienti, capaci di ruotare in volo, da scagliare nel mucchio sulle mandrie di erbivori al pascolo... Ancor meno plausibile è l’ipotesi della «Selezione sessuale»: i maschi piú abili di Homo avrebbero scheggiato amigdale sempre piú regolari e sottili, senza alcuna utilità pratica, al solo scopo di impressionare le femmine che cosí avrebbero concesso volentieri i propri favori ai piú abili fabbricatori. Insomma, le amigdale sarebbero state per Homo quello che la variopinta coda è per il maschio del pavone. Dal canto loro, paleoantropologi e archeologi indiani hanno scoperto che le amigdale potevano servire come bastoni da scavo per estrarre radici e tuberi dal terreno.

Visioni di un mondo perduto Quando si lavora sui siti paleolitici dell’Africa Orientale, la visione di centinaia di strumenti ammassati in grandi concentrazioni non lascia indifferenti. Anche se molto probabilmente si

tratta di concentrazioni secondarie (cioè create da uno o due milioni di anni di erosione, spaccature di faglia, sollevamenti e cadute), vedere, per esempio, ossa di ippopotamo costellate di amigdale, chopper e altre schegge litiche lascia immaginare molto del mondo perduto del Paleolitico Inferiore. Un simpatico specialista israeliano di ecologia degli elefanti mi confidò una volta che, secondo lui, i cumuli di amigdale paleolitiche emersi sulla superficie dei siti erano shmok (parola yiddish che, tra altre qualità deteriori, indica una «montatura»): essi avrebbero costituito una sorta di oltraggio o sfregio al mondo naturale, un segno di appropriazione piú o meno analogo, per significato, ai graffiti oggi lasciati dai tagger sui cementi delle periferie urbane. Altri studiosi, piú di recente, hanno avanzato un’ipotesi totalmente diversa: chopper e amigdale non rappresenterebbero tanto lo strumento funzionale fabbricato intenzionalmente come utensile o arma da taglio, quanto ciò che restava della materia prima dopo il distacco, efficiente e seriale, di

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schegge sempre piú sottili e affilate per tagliare carne e altro. In gergo tecnico, l’amigdala sarebbe quindi solo il nucleo residuo delle operazioni di scheggiatura; i veri strumenti, usati per tagliare e scheggiare, sarebbero state le schegge. Dato che molti specialisti di preistoria, replicando il peccato originale di Boucher de Perthes, tendono a concentrare la propria attenzione su questi nuclei piú che sulle schegge – considerate prodotti non intenzionali –, il senso tecnico dell’intera questione continuerebbe a sfuggirci. L’ipotesi è suggestiva, poiché, in questa luce, il progressivo perfezionamento formale delle amigdale nell’enorme arco temporale del Paleolitico Inferiore non si spiegherebbe con un’innata vocazione al progresso, ma con la necessità di sfruttare al meglio la materia prima, staccandone schegge sempre piú sottili e taglienti, e di

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Ricostruzione di una coppia di Neandertaliani intenti alla fabbricazione di utensili che poteva avvenire anche attraverso l’utilizzo di schegge delle amigdale, suggerendo un utilizzo completamente diverso dello strumento. Selva di Cadore, Museo Vittorino Cazzetta.

trasportare e maneggiare nuclei sempre piú leggeri. Tale necessità ben si spiegherebbe, a sua volta, con l’accresciuta mobilità delle bande di cacciatori, al seguito delle migrazioni degli animali. Solo nel Paleolitico Medio, piccoli bifacciali sarebbero diventati strumenti veri e propri. Per verificare l’ipotesi, sarebbe necessario trovare aree di scheggiatura ben conservate, documentare bene le schegge e studiarne da un lato l’appartenenza al nucleo, dall’altro le caratteristiche dei margini di taglio, ricercandone le modificazioni indotte dall’uso. Purtroppo, le possibilità di trovare contesti del genere intatti, dopo un milione di anni, non sono frequenti. Mentre le piú arcaiche espressioni di grafica geometrica sembrano aver sovrapposto alla natura i ritmi dell’uomo, la successiva nascita dell’ornamentazione segna i tempi di una piú generale appropriazione di forme


Un atelier di moda paleolitico

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i almeno 100 000 anni di moda, alla prova dei fatti, non ci è rimasto quasi nulla. Se i raschiatoi in pietra scheggiata usati nella raschiatura del pellame risalgono ad almeno 700 000 anni fa, le prime prove dell’esistenza di fibre intrecciate e cordami risalgono a fasi arcaiche del Paleolitico Superiore. Pochi anni fa, la grotta di Dzudzuana, in Georgiam, ha restituito centinaia di frammenti di corde in lino colorate in nero, grigio, rosa e turchese, datate a 30 000 anni fa circa. Nella stessa grotta, la presenza di aghi, ma anche di peli animali, resti di pidocchi e persino di tarme ha fatto ipotizzare la presenza di un antico laboratorio di sartoria. Alla stessa età, del resto, appartiene un ampio repertorio europeo di aghi e punte in corno di cervo e osso, e persino bottoni e alamari fatti nelle stesse materie dure animali, che testimoniano una produzione di abiti e accessori già molto avanzata. Un gonnellino sfrangiato che sembra fatto di fibre ritorte e intrecciate è stato riconosciuto nella cosiddetta «Venere di Lespugue», trovata nei Pirenei francesi, risalente a 26 000-24 000 anni fa. Alla stessa età risalgono anche numerose impronte di fibra intrecciata impresse

In alto e a destra immagini al microscopio dei resti di fibre di lino rinvenuti nella grotta di Dzudzuana, in Georgia. 30 000 anni fa circa. Il loro ritrovamento ha suggerito che il sito fosse una sorta di laboratorio di sartoria. In basso utensili in osso e ornamenti provenienti dallo stesso sito.

nell’argilla e statuette femminili in terracotta recanti cinture o perizomi, trovate nei campi di cacciatori paleolitici di Dolní Vestonice e Pavlov, in Moravia. Nelle parole degli studiosi di questo aspetto della tecnologia paleolitica «i tessitori della Moravia del Paleolitico Superiore non solo fabbricavano diversi tipi di cordame, ma, cosa ancora piú importante, producevano anche cestame intrecciato, tessevano stoffa con fili semplici e attorti, accostabili a livelli di sofisticazione tecnica che sino a ora erano stati associati esclusivamente a età neolitiche molto successive».

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INTRODUZIONE

ed elementi naturali, che ben presto, soprattutto per quanto riguarda l’Europa, nelle fasi fredde del Paleolitico Superiore e dell’ultima glaciazione, furono letteralmente cuciti o legati alla persona. Forte di millenni di precedenti esperienze, l’uomo del Paleolitico Superiore era dotato di tecnologie efficienti e avanzate, non solo nella caccia ai grandi erbivori e altre creature, ma anche nella lavorazione dell’osso, dell’avorio e del legno, nell’uso del fuoco per cuocere, riscaldarsi e modificare fisicamente molti materiali diversi, come nella lavorazione di fibre, pelli e pellicce. Ciò vale soprattutto per la selce: i coltelli in selce del Solutreano, punte affilate e sottili a forma di foglia, lunghe fino a 35 cm, sono tra i piú perfetti strumenti in questo materiale mai creati dall’uomo.

Quando l’uomo imparò a vestirsi Ma a quando risale l’invenzione dei vestiti? In primo luogo, dobbiamo pensare al gelo delle ere glaciali. A quella piú recente – l’evento di Würm, superato dai Neandertal prima, e da Homo sapiens poi, tra 110 000 e 10 500 anni fa circa –, ma, soprattutto, alla precedente, la glaciazione di Riss: un tempo lunghissimo, da 300 000 a 130 000 anni fa circa, nel quale la sopravvivenza umana in Europa si deve esclusivamente alla forza fisica e all’ingegno tecnologico dei nostri antenati neandertaliani. Pelli e vesti sono anche uno straordinario mezzo di comunicazione ed espressione individuale, oltre che, almeno per molte epoche e genti, uno strumento di moderazione e regolazione dell’attività sessuale. Per scoprirlo, ci siamo dovuti rivolgere a un nostro sgradevole inquilino: i pidocchi. La specie Pediculus humanus vive in due distinte popolazioni, il pidocchio dei capelli e quello detto dei vestiti. Nel 2010, studiosi di varie università statunitensi, usando tecniche simili a quelle dell’«orologio molecolare» usato per datare l’Eva mitocondriale, stabilí che le due popolazioni di pidocchi, già provate dalla progressiva perdita di peli dei nostri antenati, si sarebbero separate quando pelli e vesti

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UN ANTICO CIONDOLO? Gli scavi condotti nella Cueva de los Aviones (Murcia, Spagna sud-orientale) hanno restituito, tra gli altri, alcuni esemplari di conchiglie con tracce di pigmento colorato, riferibili alla frequentazione del sito da parte dell’Uomo di Neandertal. La valva di Pecten qui riprodotta conserva tracce di un colorante rosso e i due fori suggeriscono che possa essere stata usata come pendente.

Nella pagina accanto in basso: disegno ricostruttivo di un cacciatore neandertaliano con il corpo parzialmente coperto da decorazioni, una pratica certamente in uso presso simili comunità.

divennero di uso comune. L’orologio genetico colloca questa innovazione tra i 170 000 e gli 80 000 anni fa circa. Per le epoche precedenti ci soccorrono, in parte, le perline piú antiche sinora rinvenute. Boucher de Perthes, nel suo libro, sostenne di aver trovato diverse perline tra amigdale e ossa di elefante, e recenti indagini di Robert Bednarik, investigatore di queste remote forme espressive, confermerebbero che si tratti di spugne fossili del Cretaceo della specie


Porosphaera globularis, effettivamente perforate e usurate da fili. Due pendenti perforati trovati nella Grotta di Repolust, presso Peggau (Steiermark, Austria), potrebbero risalire a ben 300 000 anni fa. Si torna poi, in proposito, in Africa, e precisamente al sito preistorico della Grotte des Pigeons a Taforalt (Marocco orientale). Qui furono rinvenuti 13 gusci di conchiglie del genere Nassarius, datati a 82 000 anni fa. Ognuno di essi presenta un foro passante per essere sospeso, e reca ben visibili tracce di ocra rossa sul dorso e nei pressi della perforazione, dove appaiono anche forti tracce di usura causate dallo scorrimento di un filo. Potrebbe trattarsi di cordini di cuoio, ma anche di fibre intrecciate. La conclusione è che le cordicelle usate per sospendere o applicare le conchiglie erano tinte di rosso, e forse, con esse, lo era il corpo umano, oppure il supporto piatto – diadema, corpetto o cintura – sul quale le perline erano state affisse. Tutto comunque indica che questi ornamenti fossero bene in vista. Un dato non facile da spiegare è che il genere Nassarius oggi non vive lungo la costa del Marocco; a giudicare dalla distribuzione moderna, l’area di rifornimento piú prossima al sito è una piccola isola della Tunisia, a quasi 1300 km di distanza. Ancora piú antiche sono le perline in conchiglia marina (sempre Nassarius) identificate tra i reperti del sito di Skhul, in Israele (datate tra 130 000 e 100 000 anni fa), mentre simili reperti nel sito di Oued Djebbana, in Algeria, possono risalire a un intervallo cronologico compreso tra 90 000 e 30 000 anni fa. Oued Djebbana si trova a quasi 200 km dalla costa lungo la quale le conchiglie potevano essere raccolte, a dimostrazione dell’efficienza degli scambi già in un’epoca remota. Alle perline in conchiglia della Grotte des Pigeons, di Skhul e Oued Djebbana vanno aggiunte 41 conchiglie trovate nella Grotta di Blombos, Sudafrica, che sono state datate approssimativamente a 80 000-75 000 anni fa.

Il frammento della volta rocciosa della Grotta di Fumane (Verona) su cui compare il cosiddetto «sciamano», dai livelli aurignaziani È il reperto piú famoso fra quelli restituiti dal sito – ossa animali e manufatti in selce – riferibili al periodo di passaggio fra l’Uomo di Neandertal e l’Homo sapiens, intorno ai 40 000 anni fa.

Quelle di Blombos, oltre al foro artificiale per la sospensione, hanno forti segni di usura non solo da filo, nel foro, ma anche da contatto con altre conchiglie cucite le une a lato delle altre. Blombos è ormai famosa nei manuali di archeologia preistorica anche a causa della scoperta di ben 8500 frammenti di ocra rossa, in gran parte abrasi per ricavarne pigmento, o consunti come «pastelli» da usare come applicatori di rosso sul corpo. Due blocchi di ocra di maggiori dimensioni erano stati accuratamente spianati per incidervi sulle superfici disegni geometrici, tra i quali una complessa combinazione di losanghe. Possiamo considerarla il primo quadro astratto della storia? «Oggi non siamo in grado di determinare con precisione il

Studiando i pidocchi, è stato possibile fissare l’epoca in cui l’uomo cominciò a vestirsi | ORIGINI DELL’ARTE | 35 |


INTRODUZIONE

significato dei disegni, perché i processi mentali della gente vissuta in epoche tanto antiche non sono direttamente accessibili solo attraverso i loro manufatti – si legge sul sito web dello scavo di Blombos. Si dibatte accesamente se questi disegni possano essere chiamati “arte” oppure no, e la giuria è ancora in riunione». Un’altra materia «nobile» di origine animale intensamente sfruttata in epoche remote è il guscio dell’uovo dello struzzo. Un uovo intatto, alto 15 e largo 13 cm pesa circa 1,4 kg, di cui 1 kg è costituito da proteine, equivalente a quasi una trentina di uova di gallina. Nella stagione della riproduzione (da aprile a settembre), una femmina depone una o due uova alla settimana, per circa 30 anni della sua vita. La caccia o raccolta delle uova, quindi, poteva rappresentare una importante risorsa alimentare per le popolazioni preistoriche. Il guscio svuotato, inoltre, forniva un contenitore solido, abbastanza leggero e maneggevole, oppure, se infranto, una materia prima per fabbricare perline. In un altro sito Sudafricano, il riparo di Diepkloof, sulle rive del fiume Verlorenvlei, sono venuti in luce piú di 300 frammenti di uova di struzzo vecchie di circa 60 000 anni, decorate all’esterno con bande riempite da segmenti verticali, o reticoli di linee ortogonali. Può trattarsi di contenitori usati per scambiare liquidi e bevande durante speciali cerimonie, oppure di semplici contenitori per acqua di uso quotidiano. Recentemente, nella Grotta di Denisova, nella regione siberiana degli Altai, sono state trovate perline discoidali dello stesso materiale, ben formate e perforate con punte molto sottili, datate tra 50 000 e 45 000 anni fa. Altri complessi di perle fatte con lo stesso materiale, e databili piú o meno allo stesso orizzonte cronologico, sono stati rinvenuti nella Border Cave (Sudafrica) e nel riparo di Mumba (Tanzania). Nella grotta di Denisova è stato trovato anche un ornamento davvero unico, il segmento di un bracciale in clorite semi-traslucida, perfettamente levigato e di colore verde scuro, datato a 40 000 anni fa.

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Sul frammento di bracciale vi sono resti di un foro eseguito con perforazione rotante. «L’uso di uno o piú tipi di trapano – afferma Anatoly Derevyanko, direttore dell’Istituto di Archeologia e Etnografia a Novosibirsk –, di uno strumento simile a una raspa, di processi di abrasione e levigatura mediante cuoio e pelli variamente trattate non erano mai stati ipotizzati per questa età paleolitica».

Sulla pelle dell’Uomo di Neandertal Stiamo assistendo, in questi anni, alla clamorosa riabilitazione dell’Uomo di Neandertal; tradizionalmente considerato una diversa specie di essere umano, inferiore per intelletto e per tecniche alle popolazioni anatomicamente moderne e inefficiente nella caccia e nella raccolta, oggi è considerato un saggio e mite antenato degli Europei. La ragione della svolta, anche in questo caso, sta nella scoperta, nei relativi genomi, di un certo numero di tratti comuni tra noi e loro, che postulano, per la prima volta, una prolungata (anche se parziale) mescolanza del patrimonio genetico. Se guardiamo ai dati archeologici, all’Uomo di Neandertal vengono oggi riconosciute le stesse capacità di caccia, raccolta, preparazione del cibo degli uomini moderni; ma anche invenzioni essenziali, come quella dell’estrazione del catrame di betulla e le prime colle a due componenti (ocra e resine vegetali), indispensabili per immanicare su legno le punte in pietra; un inventario di almeno quaranta tipi di strumenti in pietra diversa; la capacità di attraversare il mare aperto; e la produzione dei primi ornamenti e contenitori in pietra levigata. A Krapina (Croazia), sito scavato nel 1899 dal paleontologo e naturalista Dragutin Gorjanovic-Kramberg (1856-1936), recenti esami condotti con tecnologie avanzate su un ricco campione di ossa umane neandertaliane hanno rivelato che i frequentatori del luogo manipolavano intensamente le ossa dei loro antenati, tracciandovi segni che si spiegano solo con qualche interesse di tipo rappresentativo o rituale.

Disegno ricostruttivo di un Neandertaliano che «dipinge» in negativo la sagoma della propria mano sulla parete rocciosa di una grotta. Viene qui proposta la tecnica secondo la quale, fra i metodi effettivamente impiegati, ci sarebbe stato anche quello consistente nello spruzzare il colore con la bocca. Un’ipotesi suggestiva, ma che non gode del consenso unanime della comunità scientifica.


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INTRODUZIONE

È inoltre certo che i Neandertal seppellissero i morti in piccoli cimiteri, probabilmente con qualche strumento litico di corredo, e addirittura, come in una sepoltura del riparo di La Ferrassie, in Francia, sotto lastre decorate da cuppelle (incisioni emisferiche) ottenute tramite perforazione rotante. A ciò va aggiunta la conoscenza ormai approfondita di una prima gamma di terre colorate e pigmenti, in gran parte ottenute da ossidi e idrossidi di ferro: una conoscenza cumulativa nella quale non è improprio riconoscere un primo, inconsapevole passo verso la metallurgia delle epoche posteriori.

Gli «artisti» dell’ocra rossa Una svolta decisiva nello studio del piú che probabile «talento» artistico dei Neandertaliani è venuta dai risultati degli esami condotti sulle

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concrezioni di carbonato di calcio depositatesi su alcune pitture presenti all’interno di tre grotte spagnole (La Pasiega, Maltravieso e Doña Trinidad). Le analisi, condotte con il metodo dell’Uranio-Torio, hanno infatti dimostrato che le figure e i motivi geometrici vennero disegnati sulla roccia in una data anteriore ai 68 000 anni fa. La scoperta, al di là delle implicazioni che può portare nell’attribuzione di un ipotetico primato di «primi artisti della storia», offre una conferma implicita di quanto già da tempo ipotizzato e cioè che i Neandertaliani europei, e i loro contemporanei in Africa, utilizzassero varie materie coloranti naturali per dipingersi il corpo. Nella Grotta di Wonderwerk, in Sudafrica, tra i 400 000 e i 350 000 anni fa si estraeva e si trattava sistematicamente l’ocra, per ottenere pigmento rosso. Nel sito indicato con la sigla


Grotte di Moras, isola di Sulawesi, Indonesia. Impronte di mani sulla parete rocciosa del sito. 40 000 anni fa circa.

GnJh-03, nella Kapthurin Formation del Kenya, datato a 285 000 anni fa, sono stati estratti ben 5 kg del materiale. L’uso dell’ocra è stato osservato anche a Nizza, Francia, tra 400 000 e 20 000 anni fa, e a Hunsgi, nello Stato del Karnataka, in India, in depositi datati tra i 200 000 e i 150 000 anni fa. Ma le scoperte (o meglio le ri-scoperte) piú clamorose sono state compiute riesaminando il cold case del sito di Peche-de-l’Azé, già scavato nel XIX secolo e datato a 100 000 anni fa circa. Nessuno, in precedenza, a causa di inveterati pregiudizi, aveva fatto particolare caso a piú di 500 frammenti di sostanze coloranti (rossa ocra, e violaceo diossido di manganese), molti dei quali, essendo stati usati come pastelli, avevano superfici chiaramente strisciate da abrasione continua. Altrettanto parlante è l’evidenza dei depositi della grotta di Cioarei-Borosteni, nei Carpazi (Romania) dove, sul finire dell’era dei Neandertal, resti di ocra rossa e gialla sono stati rinvenuti entro vasetti alabastrini fatti intagliando e levigando le stalattiti della grotta stessa. In un’altra grotta, questa volta in territorio iberico, la Cueva de Los Aviones, depositi neandertaliani datati a circa 50 000 anni fa contenevano valve di conchiglia delle specie Acanthocardia e Glycymeris trovate a lato di masserelle di ocra gialla e rossa, mentre all’interno di un’ostrica rossa del genere Spondylus vi era la polvere di un minerale rosarossastro, la lepidocrocite, mescolata con polveri rosso-nerastre di ematite e pirite.

«Promosso» a pieni voti Con ogni probabilità, altri tipi di ornamentazione usati dai Neandertal, oltre ai colori, erano piume di uccelli, in particolare di grandi e vistosi rapaci come le aquile, una circostanza desunta dalle percentuali riscontrate nei resti scheletrici degli uccelli presenti sulle superfici di occupazione della grotta di Fumane, in Veneto (42 000 anni fa circa). Artigli e talloni degli stessi uccelli erano modificati dall’uomo per sospenderle come pendenti sia a Fumane, sia nei depositi

neadertaliani piú antichi della grotta di Krapina. Insomma, se la «mente moderna» consisteva nel fabbricare colori e dipingere il corpo, fabbricare ornamenti e indossarli, e in senso lato comunicare simbolicamente tramite disegni corporei e piccoli oggetti, non vi è dubbio che l’Uomo di Neandertal debba passare, insieme a Homo sapiens, questo difficile esame a pieni voti. Si noti che lo sviluppo di colori e pitture non fu una conquista esclusiva dei nostri progenitori europei. Circa un centinaio di grotte e ripari dipinti nei pressi di Moras, una città nei pressi della foresta tropicale dell’isola di Sulawesi (Arcipelago indonesiano), erano dipinte con impronte variopinte di mani, e immagini fortemente stilizzate di maiali selvatici e bufali nani. Oggi di questo patrimonio dipinto non rimane molto, ma le analisi isotopiche dell’uranio indicano che la maggior parte dei dipinti indonesiani ha 25 000 anni, e che una delle mani «stampate» con i metodi consueti risale a 40 000 anni fa circa. La raffigurazione di una femmina di babirussa (una specie di facocero asiatico) risulta avere l’età piú che rispettabile di 35 400 anni. Un quadro piuttosto simile è proponibile per l’Australia. L’arte rupestre australiana, in genere formata da dipinti in ripari sotto roccia, esposti all’azione degli agenti atmosferici, è stata in parte datata con il metodo del radiocarbonio, estraendo l’anidride carbonica dai veli di calcite naturali che sigillano, o sorreggono, ciò che resta delle superfici incise o dipinte. Dalle incisioni di Wharton Hill, nell’Australia meridionale, sono state ricavate date di ben 43 000 anni fa, che però non vengono accettate dall’intera comunità scientifica. Nel riparo di Carpenter’s Gap (Kimberley), in uno strato archeologico vecchio di 39 000 anni, è stato scoperto un frammento di roccia con una pittura di colore rosso. Sembra, quindi, che l’uomo abbia cominciato a dipingere pareti di rupi, ripari e grotte in diverse parti del mondo, piú o meno nello stesso arco di tempo.

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E L’UOMO SI FECE PITTORE

All’indomani delle prime scoperte sembrò a molti impossibile che opere cosí elaborate potessero essere state concepite e realizzate in epoca preistorica. Ben presto, invece, ci si convinse della loro autenticità e si cominciò a scrivere un nuovo ed emozionante capitolo della storia dell’arte di ogni tempo | ORIGINI DELL’ARTE | 40 |


TUTTO INDUGIA NELL’IMMAGINAZIONE

Montignac (Francia), Grotta di Lascaux. Pittura raffigurante un bisonte dal cui corpo, colpito da una zagaglia, sembrano fuoriuscire le interiora. L’animale sembra caricare il personaggio che gli è di fronte, il quale cade riverso all’indietro, e che viene indentificato con un «teriantropo», vale a dire con un essere per metà uomo e per metà animale, in questo caso per via della testa da uccello. Fa da contorno alla scena, sulla cui interpretazione è tuttora in corso un vivace dibattito, un secondo volatile, appollaiato su una pertica.

«Per raggiungere la piú remota camera di Lascaux, un uomo doveva forse spegnere la sua lampada, calarsi in un buco con una scala fatta di corda intrecciata, e poi riaccendere la fiammella nell’oscurità, se voleva dipingervi il rinoceronte lanoso, il mezzo cavallo, il bisonte furioso. Una lunga lancia trafigge l’animale, e le viscere fuoriescono dal fianco. Davanti ai suoi zoccoli giace l’unico uomo dipinto a Lascaux: prono, e ferito, cammuffato da una maschera di uccello. E sotto di lui, fino alla sua scoperta negli anni Sessanta giaceva una lampada a forma di cucchiaio scolpita in arenaria rossa (...) Sollevatela di nuovo, come si faceva nel passato, e, mentre procedete, gli animali emergeranno dal buio. Nulla rimane fermo. Le ombre si annidano nelle cavità; un barlume di luce versato su una pallida roccia sporgente ritorce uno zoccolo, o solleva una testa. Una forma si ritira, e un’altra emerge, e ogni cosa indugia nell’immaginazione.» (Jane Brox, Brilliant: The Evolution of Artificial Light, Boston 2010).

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L’ARTE PARIETALE

D

atabili all’incirca fra i 33 000 e i 10 000 anni fa, i complessi dipinti in grotta del Paleolitico Superiore dell’Europa occidentale rappresentano l’unica forma artistica umana praticata per ventimila anni della quale ci sia rimasta traccia materiale. Generazioni di studiosi hanno cercato di definirne l’evoluzione nel tempo, da punti di vista diversi e con risultati spesso controversi. Alcune delle grandi grotte rivestite internamente di incisioni e pitture, diffuse nella quasi totalità dalla Provenza ai Pirenei e alla costa atlantica di Spagna, erano note da secoli. Per esempio, la Grotta di Rouffignac, in Aquitania (Francia), detta anche «Grotta dei Cento mammut» era già stata segnalata nel 1575 da François de Belleforest (1530-1583), poeta e traduttore francese, e nel XIX secolo già costituiva un’attrazione turistica. Altre due, la Grotta

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Cosquer e la Grotta Chauvet, entrambe in Provenza, sono state scoperte, rispettivamente, solo nel 1985 e nel 1994. Le storie di come ciascuna delle numerose grotte a oggi conosciute sia stata rinvenuta sono sempre emozionanti, come può esserlo l’idea del penetrare in un angolo di mondo preistorico ancora intatto dopo decine di migliaia di anni. Quando ne fu svelata la presenza, gli spazi ipogei si trovavano letteralmente sospesi sulle ali del tempo, resi fragilissimi dalla ricchezza a volte incredibile di immagini, forme e colori che altrove erano scomparsi per sempre. Alcune storie, tra molte possibili, ci parlano di questi incontri indimenticabili, e possono esemplificare i sogni, le preoccupazioni, le difficili scelte e anche le controversie che simili scoperte inevitabilmente scatenano. La prima è decisamente una «storia di famiglia». Siamo nell’Ariège, in Francia, in

MontesquieuAvantès, Grotta del Tuc d’Audoubert. Due dei bisonti plasmati nell’argilla. 14 000 anni fa.


In alto l’ingresso della Grotta del Tuc d’Audoubert all’epoca della scoperta. In posa vi sono i giovani scopritori del sito, i fratelli Max, Jacques e Louis Bégouën, in compagnia del padre, il conte Henri Bégouën, dell’abate Breuil e di Émile Cartailhac.

una giornata di luglio del 1912. Il conte Henri Bégouën e i suoi tre figli, Max, Jacques e Louis, di 19, 17 e 16 anni decidono di risalire in barca il corso sotterraneo del torrente Volp dal luogo chiamato Tuc d’Audoubert, in cerca delle sue sorgenti. Navigano per una sessantina di metri e poi lasciano la barca e proseguono a piedi nell’acqua del torrente. Poco dopo, a un paio di metri d’altezza, trovano la bocca di un passaggio asciutto, che quasi immediatamente conduce a una sala immensa, coperta da stalattiti. Sulla parete di un passaggio laterale compaiono incisioni che raffigurano bisonti, cavalli e renne; ma anche nomi di precedenti visitatori, passati di lí tra il 1685 e il 1702. Rimane il dubbio, quindi, che le strane incisioni siano scherzi moderni. Risalgono quindi un altro passaggio verticale, stretto e a spirale, che immette in un lungo corridoio superiore, anch’esso recante le stesse incisioni.

L’inizio delle indagini Decidono poi di tornare indietro, per condividere una nuova eccitante esplorazione con Emile Cartailhac, un amico docente di preistoria all’Università di Tolosa. È l’inizio di una serie di indagini che si protraggono fino alla prima decade di ottobre, condotte dai tre fratelli Bégouën e da François Camel, figlio del cocchiere della famiglia. In ogni momento, con un’attenzione a dir poco scientifica, gli esploratori evitano ogni possibile danno alle

pareti incise, come ai pavimenti che calpestano. Si accorgono, infine, che il lungo corridoio superiore prosegue al di là di una cortina di stalattiti, e conduce, a un terzo livello delle cavità, verso ulteriori passaggi, e ad altre grandi sale. Qui incontrano resti di orsi delle caverne, ossa e peli, e tracce di profonde unghiate lasciate dai bestioni sulle pareti. Ai crani degli orsi sono stati estratti i canini, e nel fango sono rimaste impresse inconfondibili orme di piedi umani. Improvvisamente – siamo ormai a 600 m di distanza dall’ingresso e dalla luce del sole – nel buio baluginano forme mai viste: una coppia di grandi bisonti (lunghi una sessantina di centimetri) accuratamente plasmati di profilo nell’argilla. Intorno alle immagini, maschio e femmina, si trovano ancora le masse d’argilla, provenienti da un’altra sala del complesso sotterraneo, manipolate dagli artisti preistorici, e sul retro, nel pavimento, è tracciata la sagoma di un terzo bisonte. Travolti dall’emozione, i ragazzi tornano a casa, e la famiglia, l’indomani, manda all’amico professore di Tolosa il seguente messaggio, notevole per la sua scarna efficacia: «I Maddaleniani modellavano anche l’argilla. Cordialità. Bégouën». A piú di cent’anni dalla scoperta del Tuc d’Audoubert, i due grandi bisonti modellati in argilla cruda sono rimasti un unicum. Sono ancora perfettamente conservati, anche perché il sito fu subito protetto dagli scopritori, che insieme alle autorità scientifiche limitarono severamente l’accesso alla grotta. La seconda storia ha le tinte piú vive e controverse della cronaca attuale. Nel 1985, il sommozzatore professionista francese Henri Cosquer stava immergendosi nella baia di Triperie, presso Cap Morgiou, vicino a Cassis (Marsiglia). A 37 m di profondità riconobbe nella parete rocciosa della costa un accesso e vi entrò, con considerevole rischio, dato che dovette percorrere un buio corridoio sottomarino, lungo 160 m. Si ritrovò, alla fine, in un’ampia sala parzialmente vuota, di circa 50 m di diametro e coperta di numerose stalattiti. La documentò con alcune fotografie e tornò

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L’ARTE PARIETALE

10 000 anni fa

Arte preistorica: una cronologia Teyjat

Maddaleniano superiore

Maddaleniano medio 15 000 anni fa Font-de-Gaume, Niaux, Cap-Blanc, Altamira (fase piú recente)

Maddaleniano antico

20 000 anni fa Solutreano

Roc-de-Sers, Pech-Merle Lascaux

Tête-du-Lion, Altamira (fase piú antica)

25 000 anni fa Gravettiano

Cussac

Abri Labattut Cosquer, Gargas

30 000 anni fa

Chauvet-Pont-d’Arc, Cellier,

Aurignaziano

35 000 anni fa

La Grèze, La Ferrassie, Laussel

Parigi

Nantes

O ceano At lant ic o

Teyjat Cellier Font-de-Gaume Cussac

F RAN CIA Cap-Blanc

La Grèze Lascaux Bordeaux Cougnac

Altamira

TOG

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Chauvet-Pont-d’Arc Porto

Tête-du-Lion Niaux

Cosquer

S P A G N A Madrid

POR

Lisbona

Gargas

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Marsiglia Barcellona

Mar Mediterraneo

indietro. Solo in seguito, riguardando le immagini, Cosquer s’accorse dell’impronta di una mano con sole tre dita, che chiaramente spiccava su una parete. Tornato nella camera con alcuni colleghi, continuò l’esplorazione, accorgendosi questa volta di oltre 100 figure di animali e geometriche dipinte sulle pareti. Passarono altri cinque anni. Nel 1990 un paleontologo, Jean Courtin, visitò la grotta e studiò i dipinti, che furono preliminarmente datati ben 20 000 anni da oggi. Il fatto che risultassero dunque piú antichi di quelli di Lascaux, che hanno 13 000 anni, destò sospetti, anche perché le datazioni al radiocarbonio dei tratti neri, fatti con carbone vegetale, sembravano decisamente troppo antiche agli archeologi preistorici piú conservatori. Cosquer, con i suoi amici, fu


accusato di aver creato – o stupidamente ritoccato – le pitture: sarebbero quindi state falsi clamorosi, create da impostori per farsi pubblicità. La verità emerse con lentezza: nel 1998 divenne chiaro che le pitture avevano tracce di legno e pollini estinti nella zona dalla fine dell’ultima era glaciale, e, per di piú, che le immagini erano coperte da un sottile velo di calcite, depositatasi nel corso di millenni. I geomorfologi stabilirono che 27 000 anni fa la grotta si apriva su un pendio erosivo. Durante l’ultima glaciazione, il mare si trovava 8-9 km piú a sud, a causa del forte abbassamento del livello marino causato dall’avanzata dei ghiacci; allora l’imbocco della grotta sorgeva a circa 120 m s.l.m. Oggi sappiamo che la Grotta Cosquer, che giustamente porta il nome del calunniato scopritore, si data a un periodo compreso tra i

In alto replica della raffigurazione di una femmina di bisonte nella Sala dei Policromi della Grotta di Altamira. La pittura è databile a una fase antica del Maddaleniano, 15 000 anni fa circa. Santillana del Mar, Museo Nacional y Centro de Investigación de Altamira. Nella pagina accanto cartina con i piú importanti siti d’arte preistorica della reigione franco-cantabrica.

27 000 e i 19 000 anni or sono: piú antica, quindi, di quella di Lascaux ma, come vedremo, non la piú antica in assoluto.

Una scoperta «voluta» Anche la Grotta Chauvet, presso Vallon-Pontd’Arc nell’Ardèche (Francia) prende il nome dal suo scopritore, ma la sua scoperta non fu casuale. Il 18 dicembre 1994, lo speleologo e fotografo Jean-Marie Chauvet, insieme agli amici, Éliette Brunel e Christian Hillaire ne varcarono l’ingresso. Chauvet non era un novellino: aveva infatti sistematicamente esplorato la zona alla ricerca di grotte archeologiche, identificando piú di venti cavità con pitture, graffiti e reperti. Ma non si aspettava certo che le splendide immagini da lui scoperte avrebbero causato una vera e

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L’ARTE PARIETALE

propria rivoluzione negli studi su questo straordinario fenomeno figurativo (vedi oltre, alle pp. 52-61). Per parlare di tutto ciò, occorre fare un passo indietro, e considerare il modo in cui paleontologi e archeologi preistorici lo avevano originariamente inquadrato.

I quattro stili di Leroi-Gourhan Una prima classificazione era stata elaborata da Henri Breuil, padre fondatore dell’archeologia preistorica francese (vedi box alle pp. 60-61). In seguito, il grande archeologo francese Andrè Leroi-Gourhan (1911-1986; vedi box a p. 80), analizzando in una vita di lavoro le pitture parietali di tutti i siti preistorici a lui noti, aveva ulteriormente elaborato lo schema di Breuil, individuando come fasi evolutive della pittura paleolitica quattro stili principali, da I a IV, legati in uno sviluppo diacronico ben preciso ma che, secondo lo studioso, si susseguivano

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con transizioni a volte quasi impercettibili; oggi, piú di uno studioso, inoltre, ha pareri diversi sui limiti esatti di queste divisioni cronologiche. Il primo stile, il piú antico, collocato tra i 32 000 e i 25 000 anni fa, si sovrapponeva parzialmente all’età nota agli studiosi come Aurignaziano (dal sito di Aurignac, nell’Alta Garonna, n.d.r.). È esemplificato dai complessi grafici di La Ferrassie e Laussel, in Dordogna (Francia). Esso metteva in campo forme schematiche e convenzionali di animali incise, o piú raramente tracciate a contorni continui, isolate o accostate in file. Le figure animali, spesso incomplete (teste, parti anteriori e soprattutto le linee del dorso), erano accompagnate da simboli sessuali femminili o, piú raramente, maschili, segni elementari come cuppelle, segmenti e imitazioni di unghiate d’orso, il tutto a volte tracciato su grandi blocchi piuttosto che sulle pareti.

In alto e nella pagina accanto, in basso due immagini di alcune delle mani di cui si conservano le impronte nelle Grotte di Gargas, negli Alti Pirenei francesi. Come si può notare, in alcune impronte mancano i segni di una o due dita, circostanza che ha fatto pensare a mutilazioni rituali, ma che potrebbe anche testimoniare l’impronta di gesti ritualizzati, o addirittura di espressioni di un linguaggio gestuale.


Un inizio, quindi, che si riteneva abbastanza timido, soprattutto se considerato alla luce dei trionfi grafici delle epoche seguenti. L’età compresa fra l’Aurignaziano e il seguente Gravettiano (dal giacimento preistorico de La Gravette, nel Périgord, n.d.r.) è anche il periodo della creazione di molte delle statuette femminili battezzate «Veneri» (vedi oltre, il capitolo alle pp. 94-129). Nel secondo stile (tra i 25 000 e i 19 000 anni fa circa, periodo gravettiano) comparvero i primi cicli pittorici con animali raggruppati. I luoghi piú caratteristici di questo stile comprendono il riparo Labattut, a Sergeac, in Dordogna, le Grotte di Gargas, negli Alti Pirenei, l’abri o riparo detto del Poisson, nella Gorge d’Enfer, che prende nome da uno straordinario bassorilievo raffigurante un grande salmone (Dordogna). Le figure animali, sempre tracciate a contorni continui, ma sempre piú sicuri e fluidi, contenevano le prime coloriture interne. Corna e ramificazioni viste in profili perfetti, e teste piccole, criniere accentuate e ventri rigonfi distinguono gli animali di questo stile.

In alto una delle sale delle Grotte di Gargas in una litografia degli inizi dell’Ottocento. Il sito venne descritto per la prima volta nel 1575 da François de Belleforest.

Il terzo stile (tra i 19 000 e i 15 000 anni fa, nel cuore della Francia, ai margini del Massiccio Centrale, corrispondente al massimo dell’espansione glaciale, a cavallo fra il Solutreano – dal sito di Solutré, Saône-et-Loire, e al primo Maddaleniano, dal riparo sotto roccia denominato La Madeleine, in Dordogna) viene descritto da Leroi-Gourhan come un’evoluzione particolarmente graduale del precedente. Furono adottate forme e contorni sempre piú netti e definiti, riempiti in modo regolare e accurato mediante grandi macchie di colore. È lo stile delle grandi composizioni delle grotte di Lascaux, di Pech-Merle e Roc de Sers, in Francia. Vi si attribuisce anche l’inizio di un parallelo sistema grafico di segni geometrici complessi, di difficile interpretazione, e la comparsa di numerose impronte delle mani. L’ultimo e quarto stile cade approssimativamente tra i 15 000 e i 10 500 anni fa, nel pieno del Maddaleniano e verso la sua fine. Lo si ritrova nelle grotte di Altamira e di El Castillo in Spagna, e nelle grotte già note nella valle dell’Ardèche, come la Grotta Chabot. Il quarto stile rappresenterebbe l’apogeo estetico o il periodo classico del «fantastico rigoglio», come lo definiva lo studioso francese, dell’arte del Paleolitico. Si riconosce nelle composizioni una «grammatica» che, per qualche motivo, tende ad associare i bisonti ai cavalli, escludendo o includendo, a seconda dei

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casi, mammut e renne. I corpi animali sono tracciati con linee flessuose e dinamiche, campiti con stesure cromatiche bicrome o policrome, animate da sfumature e transizione, e con una nuova attenzione per le proporzioni delle parti anatomiche delle bestie. Senza alcun dubbio, fu una fase di realismo rappresentativo tanto inedita quanto temporanea; l’evoluzione grafica rifletterebbe la complessa transizione tra il realismo intellettuale (che dà cioè luogo a raffigurazioni puramente cognitive) degli inizi e il piú immediato realismo ottico delle immagini piú tarde. La fine del quarto stile sembra aver accompagnato un graduale abbandono dei complessi dipinti ipogei, e una parallela proliferazione, negli insediamenti, delle piccole opere su osso, avorio e lastrine in pietra fittamente coperte di sottili incisioni.

Un bestiario fantastico A questo punto è intervenuta la grotta scoperta 35 anni fa da Jean-Marie Chauvet nella valle dell’Ardèche. Conserva pitture e incisioni di diversi animali quali bisonti, mammut, gufi, rinoceronti, leoni, orsi, cervi, cavalli, iene, renne ed enormi felini, probabilmente leoni (anche i maschi sono rappresentati senza criniera). Si tratta di oltre 500 straordinarie opere, giunte a noi in perfetto stato di conservazione e di straordinaria vitalità. Datando al radiocarbonio i tratti delle figure tracciate a carbone, le focature lasciate dalle torce, e depositi bruciati al suolo, gli esperti, dopo ben 80 datazioni, collocano la frequentazione della grotta in due episodi, uno compreso tra i 35 000 e i 30 000 anni fa, e il successivo tra i 27 000 e i 26 000 anni fa. Le pitture risultano parzialmente coperte da successive incisioni del periodo gravettiano (il secondo stile di Leroi-Gourhan), per cui devono risalire ai limiti cronologici piú antichi dell’Aurignaziano, in cui tutti collocavano solo timidi inizi dell’arte parietale. Era infatti il periodo per il quale si poteva sostenere, come fece, per esempio, la studiosa francese Christiane Leroy-Prost, che «non esiste un’arte parietale aurignaziana ben sviluppata; si

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suppone soltanto la sua esistenza dalle placchette decorate o dai frammenti colorati che si ritengono caduti dalle pareti o dalle volte delle grotte e dei ripari». Insomma, le polverose corse dei possenti leoni dell’Ardèche hanno scompigliato il classico, ben costruito, ma fragile castello di carte degli studi stilistici, inaugurando al tempo stesso quella che l’archeologo Michel Lorblanchet, specializzatosi nelle ricerche sull’arte preistorica, ha battezzato «l’epoca post-stilistica». Come ha scritto l’archeologa Jenny Hogan, «Se le pitture della grotta Chauvet hanno 30 000 anni, si tratta del piú antico esempio esistente di arte umana, e le implicazioni per l’evoluzione della cultura sono immense». Senza rinnegare la ricostruzione evolutiva proposta da Leroi-Gourhan e altri specialisti, lo straordinario complesso di Vallon-Pont d’Arc rivela quindi che questa arte non si sviluppò gradualmente a partire da uno o piú sistemi di rappresentazione elementare e da rudimentali segni astratti, ma esplose di colpo, per ragioni ancora del tutto misteriose, agli inizi del

In basso Cap Morgiou (Marsiglia), Grotta Cosquer. Raffigurazione di un cavallo, l’animale maggiormente rappresentato nel sito, in pitture e incisioni. 18 500 anni fa circa. Dipinto in nero, il quadrupede è reso con contorni semplici, ma, al tempo stesso, alcuni dettagli sono resi con grande cura, come l’occhio e la criniera.


A destra Cap Morgiou (Marsiglia), Grotta Cosquer. Una serie di impronte di mani eseguite in negativo su un fondo nero, ricavato da carbone di legna polverizzato. 27 000 anni fa circa.

Paleolitico Superiore, in una sorta di piena maturità. Considerando che gli ultimi Neandertaliani vissero a Gibilterra fino a 30 000 anni fa circa, non è da escludere che alcuni di questi antenati abbiano addirittura visitato le piú antiche grotte dipinte della preistoria. La definizione di «santuario» o «cattedrale», spesso data a questi complessi ipogei dipinti, appare straordinariamente errata, ma anche, al tempo stesso, piuttosto calzante. Errata, se accettiamo che il termine definisca le grotte come antichi luoghi di culto, circostanza di cui non vi sono prove, e se contrastiamo l’oscurità e i cunicoli dei complessi con l’abbacinante, allucinato biancore delle svettanti guglie delle cattedrali gotiche. Queste parole ci appariranno invece calzanti se pensiamo alla lunghezza dei tempi necessari alla costruzione delle grandi chiese, che furono opere collettive prolungate nei secoli, come nei millenni forse durò la grande stagione delle pitture in grotta. E una

dimensione di profonda sacralità doveva comunque sussistere. A chi scrive, piace immaginare le grotte dipinte come enormi e remote «camere oscure», che dal ventre delle montagne catturavano lampi subitanei e forme di un mondo esterno brulicante di possenti vite animali, come mai piú sarebbe stato in seguito. Le forme animali ci apparirebbero come introiettate nel profondo dell’esperienza umana, con una forza emotiva oggi difficilmente immaginabile. Prima di porci la questione del significato o della funzione, come si ragiona oggi, di questi monumenti, seguiremo le tracce degli apparati tecnici usati per la loro realizzazione, e delle regole grafiche e strutturali degli aspetti compositivi delle pitture, aumentando il nostro debito nei confronti dell’opera dell’abate Breuil, di LeroiGourhan e degli altri grandi interpreti dell’arte paleolitica; ma addentrandoci, prima, nelle viscere della meravigliosa Grotta Chauvet.

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La magia simpatica dell’abate Breuil

È

impossibile ripercorrere la storia dell’arte preistorica e del suo studio senza ricordare Henri Édouard Prosper Breuil, detto abbé (abate) Breuil (1877-1961). Era un gesuita francese, che combinò per tutta la vita una profonda e sincera fede religiosa con un’altra vocazione, quella di archeologo, antropologo, etnologo e geologo.

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Con lo spirito aperto e internazionalista che spesso distingue i Gesuiti, Breuil passò la vita studiando l’arte preistorica lungo la Somme e in Dordogna, lavorando inoltre in Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda, Etiopia e Somalia. Fu anche in Cina, insieme a un altro famoso studioso gesuita profondamente interessato alla

preistoria e alle tematiche dell’evoluzione umana, Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Non sempre fu semplice, per lo studioso, coniugare il suo amore per la preistoria con la fede cattolica. Nel 1935, quando alcuni prelati chiesero a papa Pio XI (1857-1939) di condannare i religiosi che si occupavano di


A destra Grotta di Lascaux, 14 agosto 1961. Léon Laval, Marcel Ravidat, Jacques Marsal e l’abbé Breuil (primo da destra) all’ingresso del sito, ancora parzialmente ostruito. In basso Grotta di Lascaux, 28 ottobre 1940. L’abbé Breuil (a sinistra) e il conte Henri Bégouën esaminano alcune pitture.

preistoria, in quanto materia non conforme alla Bibbia, Breuil fu tra i firmatari di uno scritto che difendeva apertamente la compatibilità della disciplina con l’insegnamento religioso. E in seguito ebbe modo di discutere a lungo con lo stesso papa delle indagini delle scienze naturali in rapporto ai testi biblici. Dal 1910 Henri Breuil tenne la cattedra di etnologia preistorica a Parigi, e dal 1929 quella di archeologia al College de France. Tra i primi a visitare siti straordinari, come le grotte di Lascaux e il Tuc d’Audoubert, fu autore di oltre 800 pubblicazioni sulla preistoria umana. Breuil viene ricordato come il principale fautore della teoria della magia simpatica (cioè basata sulla somiglianza o analogia tra immagini e creature reali): ispirato da confronti con culture australiane viventi, il gesuita propose che le pitture fossero state create nel corso di cerimonie tese a favorire la moltiplicazione delle prede (grazie alla moltitudine

delle figure), per mezzo della raffigurazione delle bestie trafitte da proiettili e frecce. Le pitture, di conseguenza, sarebbero state opera di pittori «professionisti». Dal 1942 Breuil accolse ripetuti inviti ufficiali in Sudafrica, sino ad accettare, nelle ultime fasi della sua carriera, una cattedra alla Witwatersrand University (1944-1951). Qui la sua reputazione venne appannata dal fatto che i suoi studi sull’arte rupestre, sostenuti dall’allora governo razzista, furono tesi a dimostrare l’origine «bianca» dell’ispirazione artistica delle antiche pitture, negandone l’appartenenza agli antenati delle popolazioni indigene. Breuil giunse persino a proporre che alcune pitture di particolare bellezza fossero opera di «Egiziani», giunti in Namibia dopo un viaggio di migliaia di chilometri. Ciononostante, nessuno può negare che egli sia stato, e molto a lungo, la figura dominante e piú influente nella storia dell’interpretazione dell’arte parietale preistorica.

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L’ARTE PARIETALE

IL SERRAGLIO DELLE MERAVIGLIE Nel 1994, la scoperta della Grotta Chauvet, nell’altopiano francese dell’Ardèche, non ha soltanto arricchito il repertorio dell’arte preistorica, ma ha obbligato gli studiosi a rivedere la ricostruzione del fenomeno proposta fino a quel momento


Grotta Chauvet (Ardèche, Francia sud-orientale). Una parete sulla quale compaiono animali di varie specie, tra cui rinoceronti (a sinistra) e felini (a destra). Grazie alle datazioni al 14C, è stato possibile attribuire le pitture a genti di cultura aurignaziana, che le eseguirono 35 000 anni fa circa.

N

el dicembre del 1994 Jean-Marie Chauvet e due aiutanti rimossero le pietre di una frana, e liberarono l’accesso di una cavità inviolata (vedi box alle pp. 58-59) nella regione dell’Ardèche, nel Sud-Est della Francia, un altopiano calacareo nel quale si apre un numero quasi incalcolabile di grotte. Questa si snodava per una lunghezza totale di 400 m, attraversando due grandi sale principali disposte sullo stesso asse, con cavità minori ai lati, percorse da affascinanti colate di stalattiti e da stalagmiti. I pavimenti sono abbondantemente rivestiti di depositi calcarei, formatisi dopo l’abbandono delle cavità da

parte dell’uomo, e cosparsi di resti archeologici e di animali: crani e ossa di orsi delle caverne, e i crani di due lupi e uno stambecco. Sulle pareti si susseguono graffi e incisioni; a terra, impronte di piedi umani, tra le quali quelle di un bambino, e abbondanti impronte d’orso. Gli animali «padroni» dei pannelli dipinti di quella che oggi è nota come Grotta Chauvet sono leoni, mammut e rinoceronti. «Dalla documentazione archeologica, è chiaro che questi animali erano cacciati solo di rado; le immagini non sono certo semplici illustrazioni della vita quotidiana del Paleolitico» ha scritto Jean Clottes, uno dei piú autorevoli esperti di arte preistorica. Con gli orsi delle caverne, i


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grandi felini, mammut e rinoceronti rappresentano piú della metà di tutti gli animali raffigurati. Sulle pareti dipinte compaiono anche l’orso, la iena, il cavallo, il bisonte, lo stambecco, la renna, il daino, l’uro, la renna, il megacero (o cervo gigante), il bue muschiato e la civetta, accompagnati da composizioni di

punti rossi e profili di mani umane. Nei primi ambienti (la grande Sala Brunel, e le sue cavità secondarie), i disegni – soprattutto composizioni di punti rossi – sono tracciati in ocra rossa, mentre incisioni e disegni neri sono rari. Proseguendo verso l’interno, il rapporto si inverte: dominano i disegni neri, mentre si

In basso planimetria della Grotta Chauvet, con l’ubicazione delle pitture e delle incisioni piú importanti.

1 Pannello del bue muschiato

6. Pannello dei leoni e dei rinoceronti

Sala di Fondo

6 Sala del Cranio

Galleria del Megacero

1 2 Pannello del cavallo inciso

7 Sala Hillaire

7 Pannello dei cavalli e dei cervidi

2

Galleria dei Pannelli Rossi

3

8 4-5

9 Galleria del Cactus

3 Pannello della pantera

8 Fregio dei rinoceronti rossi

Sala Brunel

4 Segni rossi

5 Stalattite delle farfalle

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9 L’orso rosso


Inghilterra riducono i disegni rossi e ancor piú le vedono nel basso passaggio che Germania incisioni. Sul fondo della Sala Brunel conduce, nella stessa direzione, alla Parigi si apre la Galleria del Cactus, cosí cavità piú interna, detta Sala Hillaire. chiamata per la presenza di una Un focolare trovato sul posto è stato grande stalagmite che ricorda datato con il radiocarbonio a 30 000 appunto la forma della pianta anni fa circa; piú oltre, l’uomo del Francia Oceano desertica. Dal fondo, risalgono le Paleolitico ha lasciato sul posto Italia Atlantico sagome di mammut, leoni e orsi. tracce di vegetali (carboni, pollini e Grotta Chauvet I rinoceronti qui sono assenti, con impronte di pino, betulla, salice e l’eccezione della figura tracciata poco ginepro), cumuli di ossa animali e Corsica Mar prima dell’ingresso della Galleria, resti di selce scheggiata. Il ginepro è Spagna Mediterraneo definita Rhinocéros abrégé, un colonizzatore dei tratti boschivi letteralmente «il rinoceronte bruciati, e suggerisce che i dintorni In alto un compendiato», perché il profilo della testa della grotta avessero già subito l’impatto dell’animale appare tracciato rapidamente, con particolare della umano. Nella Sala Hillaire, lungo la parete sud, sala di fondo, con le un solo, semplicissimo tratto. scorrono per 6 m i disegni del Fregio del figure di felino. Grande Cavallo, nel quale a questo animale si Nella Grotta accompagnano bisonti e mammut. Quasi una «savana» sulla roccia Chauvet sono Le incisioni, che espongono il biancore della Ancora piú avanti si apre la Galleria dei attestate iene e pantere, mai sottostante parete argillosa e calcarea, Pannelli Rossi. Questo secondo passaggio è rappresentate risalgono a due periodi successivi. dominato visivamente dal grande fregio dei in altri siti Di qui si accede alla Sala del Cranio, cosí rinoceronti (giustapposti, per usare la dell’Ardèche. chiamata per il rinvenimento nel centro terminologia di André Leroi-Gourhan), dell’ambiente del cranio di una giovane orsa accompagnati dall’emersione della parte poggiato su un masso. Piú di 50 altri crani di anteriore del corpo di grandi leoni; altri settori orso, in questa sala, sembrano essere stati della parete contengono impronte di mani e intenzionalmente raccolti dall’uomo preistorico. altri segni tracciati in rosso. Sequenze di punti In vari punti della sala, tra pareti e stalattiti rossi, forse tracciati con il palmo della mano, si

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pendenti dalla volta, si susseguono, tracciate in nero o incise, immagini di mammut, teste di bisonti e cavalli, renne e cervi, uno splendido bue muschiato (un animale che ancora vive nei climi artici) e uno stambecco. Sulla parete destra, compaiono le sagome chiare, interamente raschiate sul fondo bruno della superficie originale della cavità, di alcuni mammut in sovrapposizione parziale, il piú grande dei quali misura 2,35 m di lunghezza. Piú oltre, sul lato nord, una incredibile sequenza di pannelli in cui compaiono il leone, il megacero, il rinoceronte – con una splendida coppia di esemplari affrontati –, il cavallo, l’orso, il bisonte, tutti tracciati in nero. La composizione, discontinua nelle cavità e nelle irregolarità della parete calcarea, tumultuosa nel suo affollamento, è stata creata in una complessa sequenza di sovrapposizione, evidentemente protrattasi nel tempo. Questa parete conduce alla Galleria del Megacero, un passaggio che ancora conserva resti in selce, tracce di fuoco e una punta di zagaglia scolpita in avorio. Vi figurano altri cavalli, un bisonte, un rinoceronte, uno stambecco, e la coppia cavallo-megacero in

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parziale sovrapposizione che ha dato al passaggio il suo nome. I disegni sembrano aver rispettato, senza alterarle, piú antiche unghiate d’orso. Procedendo, si incontrano alcune immagini di vulve, e quella di un felino che gira la testa indietro. Siamo quasi giunti al termine della grotta, la Sala di Fondo. In questa cavità terminale, si affacciano altri grandi felini e rinoceronti, un orso, un pannello di segni geometrici. La Sala di Fondo contiene anche il gruppo, davvero unico, denominato «La Venere e lo Stregone», del quale si parlerà piú avanti (vedi a p. 81).

Il crollo delle certezze Rendono bene l’importanza della scoperta della Grotta Chauvet alcune considerazioni formulate da Jean-Michel Geneste, archeologo preistorico francese che ha guidato l’équipe alla quale è stato affidato lo studio del sito, che, nel 2014, è stato inserito dall’UNESCO fra i beni del Patrimonio Mondiale dell’Umanità: «Quando sono entrato nella caverna per la prima volta, pochi giorni dopo il rinvenimento, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a una replica (segue a p. 61)


La grande stalattite della Sala di Fondo sulla quale si riconosce la parte inferiore di un corpo femminile, sormontata dalla testa di un bisonte: la composizione è stata ribattezzata «La Venere e lo Stregone», poiché la figura femminile è appunto affine alle Veneri aurignaziane e gravettiane (vedi alle pp. 94-129), mentre la testa del bovino potrebbe essere in realtà la maschera di un personaggio dedito a riti magici. Nella pagina accanto figure d’orso che sembrano comporre una «famiglia». All’epoca della realizzazione delle pitture, la grotta doveva essere utilizzata come tana da plantigradi appartenenti alla specie Ursus spelaeus, l’orso delle caverne.

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La testardaggine premiata

T

utto si può dire, ma non che il rinvenimento di uno degli antri preistorici piú straordinari al mondo sia stato un evento puramente casuale. Si tratta, piuttosto, del frutto della costanza, della testardaggine e della professionalità di tre amici uniti da una stessa grande passione: la speleologia. Quel giorno, il 18 dicembre 1994, Jean-Marie Chauvet (appena nominato responsabile-guardiano delle «grotte istoriate» dell’Ardèche), Eliette Brunel (corrispondente delle Antichità Preistoriche, organo che sostituiva allora la DRAC, Direzione generale affari culturali, della regione Rhône-Alpes), e Christian Hillaire (scopritore della Grotta delle Deux Ouvertures, dichiarata Monumento Storico), trascorrono il loro week end – come fanno quasi sempre quando il tempo lo permette – perlustrando gli angoli piú reconditi dell’altopiano dell’Ardèche, alla caccia di qualche piccolissima corrente d’aria dentro gli anfratti: indizio, generalmente, di un passaggio sotterraneo. Augurandosi un miracolo… I tre all’epoca hanno già al loro attivo numerose scoperte di cavità dipinte, alcune molto importanti. Benché conoscano ormai a memoria la zona chiamata «cirque d’Estre», Jean-Marie Chauvet insiste per tornarci. Vuole riannusare quel luogo di cui avevano passato al setaccio ogni angolo, compreso il

diverticolo destinato a sfociare – come sapranno fra poco – nella «Grotta Chauvet». Un anfratto conosciuto da tutti, in verità: persino dalle coppiette che trovano lí il modo di isolarsi. Ma quel giorno Jean-Marie minaccia di andarci da solo, se gli amici non hanno voglia di accompagnarlo. Giunti sul posto, i tre bruciano una spirale anti-zanzare davanti al condotto, come già avevano fatto in precedenza, ma senza successo. Questa volta, però, si accorgono che il In alto una grande figura di bisonte e, sulla sinistra, alcuni felini. A sinistra un settore della Grotta Chauvet nel quale si riconoscono un rinoceronte, un bisonte, visto di prospetto, e una coppia di felini. Nella pagina accanto due crani d’orso, uno dei quali fu intenzionalmente collocato su un masso, componendo una sorta di altare.


fumo si dirige verso l’esterno, che una leggera corrente d’aria filtra attraverso la ghiaia, e questo li induce ad avviare lo sgombero dei detriti. A turno iniziano a scavare uno stretto passaggio, allungando le braccia in avanti nell’asse del condotto, e tenendo la testa verso il basso, con la lampada frontale che si sposta continuamente di traverso. Sempre facendo la massima attenzione a ogni eventuale allargamento del budello, e sempre

sperando di mettere le mani sul sasso la cui rimozione aprirà un enorme spazio. Come per tutti gli speleologi, ci vogliono muscoli, cervello, passione, e anche un briciolo di follia. Poco a poco, la strettissima galleria prende forma. Dopo molte ore e sette metri di scavi, incessanti andirivieni per sgombrare il passaggio dalla terra, e innumerevoli contorsioni, è Eliette – la piú minuta – che riesce a calarsi in una svasatura che le permette di alzarsi in piedi. Cosí le si spalanca di fronte la visione dell’insperato! Un promontorio, con un grande vuoto davanti a sé, e, sotto, una grande sala. Un sito straordinario, nulla in comune con le grotte dei dintorni. L’eco rivela che la sala non può essere isolata. Dunque cominciano tutti e tre con cautela, togliendosi le scarpe per preservare il suolo e la sua calcite immacolata, a penetrare nell’antro in fila indiana. Intorno a loro il suolo ondulato, modellato a forma di catini ovoidali: altrettante tane per gli orsi che svernano nella caverna… Ma ancora una volta l’emozione piú forte tocca a Eliette: è lei a scorgere per prima due tratti in ocra rossa disegnati su una parete. Anche gli uomini erano passati di lí, ma non li avevano notati. A questo punto lo sguardo dei tre cambia immediatamente, si fa ancora piú attento, e le emozioni si susseguono. Qui appare un orso, piú lontano una iena accompagnata da una pantera: animali mai raffigurati nelle altre grotte dell’Ardéche precedentemente visitate. Ed ecco una sala con un cranio d’orso disposto su un sasso, come si trattasse d’un altare. Non lontano il disegno di una sagoma di bisonte, interamente coperta di macchie rosse. Appena tornati all’aria aperta, ormai a notte fonda, l’evidenza si manifesta improvvisamente ai tre amici: hanno scoperto uno spazio rimasto inviolato per decine di migliaia di anni. Pochi giorni dopo, il 29 dicembre, saranno loro a guidare in una visita indimenticabile tre personalità di primo piano: Jean Clottes, all’epoca consigliere scientifico del Ministero della Cultura per l’arte preistorica; Jean-Pierre Daugas, conservatore generale della DRAC della regione Rhône-Alpes; e Bernard Gély, responsabile per l’archeologia del dipartimento dell’Ardèche. Il resto è storia. Jean Clottes – molto emozionato – certificherà l’autenticità della magnifica caverna, che prenderà il nome del suo scopritore principale e sarà battezzata «Grotta Chauvet».

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Altre immagini di cavalli, che presentano una tecnica di realizzazione analoga. Entrambe le scene si trovano nel settore della grotta intitolato a Christian Hillaire, uno degli scopritori del sito.

della perfezione di Lascaux, considerata fino ad allora l’apogeo artistico della creatività preistorica. Ma tutte le certezze riguardo all’arte di quel periodo, il Paleolitico Superiore, sono andate in frantumi quando si è constatato che i capolavori immortalati sulle pareti della Grotta Chauvet sono piú antichi rispetto a quelli di Lascaux di una buona ventina di millenni, essendo stati dipinti 37 000 anni fa. In seguito, le indagini e gli studi su questo sito, nel quale tutto è rimasto perfettamente in loco fin dall’inizio, hanno modificato il nostro sguardo. Abbiamo imparato a vedere le cose secondo un’ottica diversa. Dall’inizio delle esplorazioni a oggi, la grotta ha fornito una grande ricchezza di dati archeologici: innanzitutto, una densità di riproduzioni parietali davvero eccezionale per varietà tematica, tecnica e stilistica; inoltre, al suolo, numerose vestigia di attività umane (carbone, focolai, oggetti litici, tracce umane e animali) meravigliosamente ben conservate. In questi anni abbiamo potuto riflettere e capire meglio in che modo vivessero i nostri diretti antenati Homo sapiens. Abbiamo piú informazioni su come gli uomini convivevano con gli animali: con gli orsi delle caverne, in particolare, ma anche con i lupi, frequentatori a loro volta della cavità sotterranea». La Grotta Chauvet ha dimostrato che le comunità aurignaziane a cui si devono le straordinarie creazioni artistiche scoperte nel sito possedevano una considerevole capacità di astrazione. Ma anche che padroneggiavano tecniche complesse, come quella dello sfumato e della prospettiva, in grado di dare volume alle rappresentazioni, e persino di raffigurare un autentico dinamismo. Una ulteriore prova della maestria degli artisti preistorici è il metodo messo a punto per creare il pigmento ottenuto dall’impasto del carbone di legno con il bianco dell’argilla presente sul calcare delle pareti. Si dipingeva con le dita e con le mani. Alcune grandi forme sono disegnate tramite centinaia di punti realizzati con ciocche di peli di animali, oppure spruzzando il colore con la bocca. Quest’ultimo metodo viene usato anche per la

rappresentazione «in negativo» delle numerose forme di mani, ottenuta colorando la parete intorno alla mano con tintura rossa o nera (mentre la rappresentazione «in positivo» si ottiene applicando sulla superficie rocciosa la mano intrisa di colore).

La strana coppia In questo regno della penombra, immerso nelle viscere della terra, si respira un’atmosfera densa di riferimenti sessuali. Cosí una coppia di leoni assorti nei preliminari dell’accoppiamento si confronta con un’altra, di concezione piú complessa, formata da un bisonte dalle braccia umane sovrapposto a un corpo di donna visto di fronte, con gambe e triangolo pubico e vulva, ma terminante con fattezze di leone. Un animale, quest’ultimo, che doveva affascinare le comunità aurignaziane, e con il quale i nostri antenati condividevano una preoccupazione fondamentale: l’accesso all’alimentazione carnea, ossia la predazione. Secondo l’antropologa Joëlle Robert-Lamblin, se ci si basa sulle analogie con i gruppi di cacciatori-raccoglitori-pescatori delle regioni artiche, le scene di caccia potrebbero essere un’identificazione allegorica dell’uomo cacciatore con il leone delle caverne, incarnazione della virilità, piú che una sorta di reportage naturalistico. La prova piú eclatante sarebbe la statuetta aurignaziana che raffigura un uomo (o una donna) con la testa di leone, ricavata dalla zanna di un mammut e ritrovata a Hohlenstein-Stadel in Germania nel 1939, oggi esposta al museo di Ulm (vedi box a p. 119). La Grotta Chauvet non è mai stata aperta al pubblico, per non innescare fenomeni di degrado simili a quelli che hanno portato alla chiusura della Grotta di Lascaux. Dal 2015, si può in compenso visitarne la replica fedele, in scala 1:1, battezzata «Caverne du Pont d’Arc», dal nome del maestoso arco naturale ritagliato nella roccia, formatosi almeno 500 000 anni fa, che domina l’Ardèche e che doveva dunque essere ben noto anche agli artefici delle pitture e delle incisioni della Grotta Chauvet (vedi box alle pp. 62-65).

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L’ARTE PARIETALE

Turismo, repliche e polemiche

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coperta nel 1940 e aperta al pubblico nel 1948, la Grotta di Lascaux fu chiusa alle visite nel 1963, quando ci si accorse che le pitture si stavano ricoprendo di una patina verde. Oltre all’alga responsabile del fenomeno, gli studiosi identificarono funghi e batteri che, anche grazie a complicate interazioni con gli insetti che vivevano nelle cavità, mettevano in pericolo la conservazione dei capolavori preistorici. Mentre il continuo flusso dei visitatori trascinava nella grotta il terreno esterno – il sito faceva allora registrare una media di 100 000 presenze l’anno, con picchi di 1800 persone al giorno nella stagione estiva –, le componenti organiche del respiro e del sudore incrementavano l’anidride carbonica, e gli impianti di illuminazione degli interni favorivano la crescita incontrollata di organismi fotosintetici. Nel 1983, per offrire un’alternativa

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alla cancellazione forzata di una delle tappe piú battute dai turisti che ogni anno affollavano e affollano il Périgord – che è uno dei dipartimenti francesi piú visitati – venne inaugurato il complesso denominato Lascaux II, consistente in una replica fedele della Sala dei Tori e del Diverticolo assiale. Il facsimile si trova a 200 m dall’originale e riproduce le sezioni della grotta

In alto la costruzione che ospita la replica della Grotta Chauvet, alla quale è stata conferita la forma dell’impronta di un orso. In basso la riproduzione della parete con figure di felini e rinoceronti.

nelle quali si concentra quasi il 90% delle pitture. Nel 2016 è stata quindi inaugurata una riproduzione integrale del sito, visitabile nel Centro Internazionale per l’Arte


parietale di Montignac, e denominata anche Lascaux IV. La lezione di Lascaux è stata in seguito applicata a tutti i maggiori complessi di pittura parietale paleolitica, e, in particolare, alle grotte di recente scoperta. Nel 2015 è stata aperta ai visitatori una replica visitabile degli ambienti dipinti della Grotta Chauvet. Situata a pochi chilometri dal sito originale, la ricostruzione occupa 3500 mq ed è il frutto di otto anni di lavoro, che ha compreso la realizzazione di scansioni digitali e modelli tridimensionali computerizzati, nonché la proiezione delle immagini digitali sulle superfici per guidare l’opera dei pittori che ricreavano le pitture. All’interno, gli impianti di climatizzazione simulano fedelmente l’ambiente reale delle grotte. Un’operazione analoga è stata compiuta anche in Spagna, per la Grotta di Altamira, la cui replica è

stata inaugurata nel 2001. La riproduzione impressiona per la sua fedeltà all’originale, ma anche per i dettagli tecnici dell’impresa. Basti pensare, per esempio, che In alto Caverne-duPont-d’Arc. Riproduzione di un’incisione raffigurante un gufo. A sinistra, in alto e in basso immagini del cantiere della Caverne-du-Pontd’Arc, il facsimile della Grotta Chauvet, inaugurato nel 2015.

l’équipe di oltre 40 persone che ha lavorato sulla copia si è servita, tra i molti materiali utilizzati, di circa 20 tonnellate di pietra calcarea, 50 kg di pigmenti naturali – ocra, ossido di ferro, carbone vegetale –, 7000 mc di poliuretano espanso, 300 kg di cera d’api, 10 tonnellate di resina di poliestere, 6000 mq di fibra di vetro, 2 tonnellate di silicone. Nel tentativo di rendere pressoché «perfetta» la replica della Grotta di Altamira, è stato deciso di ricrearne anche le condizioni ambientali: nella sezione del museo che ospita la copia, la temperatura è la stessa che si registra nella cavità naturale (18°), e si è cercato anche di riprodurre il medesimo tasso di umidità, nonché lo stesso tipo di sonorità che si possono udire tra i corridoi rocciosi nei quali s’avventurò Marcelino Sanz de Sautuola. Simili operazioni non hanno mancato di sollevare critiche da

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L’ARTE PARIETALE

Sulle due pagine la riproduzione delle pitture della Grotta di Lascaux nel Centro Internazionale per l’Arte parietale di Montignac (o Lascaux IV). A sinistra il tratto del Diverticolo assiale della Grotta di Lascaux nel quale compare l’immagine di un cavallo rovesciato.

parte di chi ha trovato discutibile l’idea di offrire al pubblico simulazioni delle opere originali. Come sanno i teorici del restauro, la questione è piú complessa. I templi estremo-orientali costruiti in legno, per esempio, possono

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risalire a molti secoli fa, ma nel corso della manutenzione le parti originali sono state costantemente ricostruite, sostituendone le componenti lignee; qualcosa di simile si è ripetuta, nei secoli, sui monumenti medievali di

Samarcanda in Uzbekistan, dove a essere state sistematicamente sostituite con altre identiche sono state le piastrelle azzurre delle coperture. In quesi casi, è stata privilegiata la forma delle creazioni artistiche, a scapito della sostanza materiale compromessa. Le repliche delle grotte francesi intervengono prima che i danni alle pareti divengano irreparabili, e permettono comunque di sperimentarne visivamente le forme.


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LE TECNICHE ESECUTIVE

DARE FORMA ALLE IDEE Come lavoravano e quali tecniche utilizzavano i «Michelangelo» della preistoria, per realizzare i propri capolavori? Colori ottenuti da minerali, piante o carboni, «pennelli» e «matite», lucerne con le quali rischiarare le grotte: lo strumentario degli artisti paleolitici era assai piú ricco di quanto si potrebbe immaginare | ORIGINI DELL’ARTE | 66 |


casi stupisce la collocazione remota e angusta delle superfici dipinte, evidentemente realizzate in posizioni tutt’altro che confortevoli. In qualche caso è stato ipotizzato l’uso di corde, oppure si è riscontrato l’uso di piattaforme e impalcature lignee. I pali sembrano aver lasciato impronte nel terreno, mentre dei ripiani restano piccole cavità scavate nelle pareti: i pittori legavano i supporti lignei con corde e vi salivano, per poter dipingere in alto. A Lascaux, gli indizi dell’esistenza di queste impalcature sono molteplici: diverse pareti mostrano infatti serie di buchi e sporgenze. Su queste basi e su quella del rinvenimento sul posto di frammenti di grossi rami di quercia, gli studiosi Brigitte e Gilles Delluc hanno ricostruito un modello di impalcatura formato da 14 travi. La lavorazione del legno sembra dimostrata anche dalla presenza nello stesso luogo di diversi tipi di strumenti in selce fortemente usurati dalla costruzione. Sempre a Lascaux venne trovato il frammento di una corda fatta di fibre vegetali ritorte: funi simili potevano essere state usate per legare le componenti lignee delle impalcature, ma anche, forse, per arrampicarsi per anfratti e passaggi scoscesi.

Lucerne e letti di carboni

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egli ambienti ipogei frequentati dall’uomo nel Paleolitico Superiore, non è sempre facile ricostruire con esattezza la posizione che i pittori assumevano durante la loro opera. Probabilmente, molti di loro dipinsero distesi, poggiando la schiena su superfici rocciose o a terra a limitata distanza dal piano delle loro opere, come fecero Cimabue e Michelangelo nel realizzare i propri capolavori sulle volte dipinte delle cattedrali. La modificazione in tempi recenti degli ambienti originari, causata da scavi antichi e dalla rimozione di strati e blocchi, rende talvolta difficile una ricostruzione attendibile. In alcuni

Illustrazione che immagina un momento della vita all’interno della Sala dei Tori della Grotta di Lascaux, durante la realizzazione delle pitture parietali. Due uomini sono intenti alla decorazione, altri li assistono illuminando con torce e preparando i pigmenti colorati.

I pittori dovevano inoltre illuminare l’interno di grotte e anfratti e a tal fine si munivano di lampade in pietra scavata e levigata, nelle quali bruciavano grassi vegetali o animali; oppure mantenevano accesi, nell’area in cui operavano, letti di carboni o torce, come suggeriscono gli aloni carboniosi e le strisce scure ancora visibili lungo le pareti rocciose. Alcune lucerne paleolitiche in pietra levigata sono decorate con figure animali e considerate come altrettanti capolavori artistici. La lampada della Mouthe, in Dordogna, sembra aver sfruttato, come combustibile, il grasso animale, mentre un’altra, trovata a Chaire-à-Calvin, conteneva braci di ginepro. Piú comuni erano lampade di fortuna, ricavate da blocchi naturalmente cavi. Esperimenti condotti in loco (segue a p. 71)

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LE TECNICHE ESECUTIVE

Un sogno dentro a un sogno E, da te ora separandomi, lascia che io ti dica che non sbagli se pensi che furono un sogno i miei giorni; e, tuttavia, se la speranza volò via in una notte o in un giorno, in una visione o in nient’altro, è forse per questo meno svanita? Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo non è che un sogno dentro un sogno? (Edgar Allan Poe, A dream within a dream, 1849)

«B

isogna che anche in Europa, finalmente, si imponga una verità (...): gli animali in tutti gli aspetti principali ed essenziali sono esattamente la stessa cosa che noi (...) la differenza risiede soltanto nel grado di intelligenza». E ancora: «Gli animali sono, assai piú di noi, soddisfatti per il semplice fatto di esistere; le piante lo sono interamente; gli uomini lo sono secondo il grado della loro stupidità». Cosí Arthur Schopenhauer (1788-1860), uno dei maggiori filosofi tedeschi, rintracciava negli animali

una «dedizione totale al presente»; la stessa qualità che un altro grande pensatore tedesco, Friedrich Nietzsche (1844-1900), riconosceva a un mondo animale sostanzialmente felice ed estatico, proprio perché esente da quella che egli considerava la In alto Montignac, Grotta di Lascaux. Uno scorcio della decorazione parietale della Sala dei Tori. In basso cartina complessiva della Grotta di Lascaux.

Condotto terminale

Diverticolo assiale

Sala dei Tori

Galleria di Mondmilch

Navata

Passaggio

Diverticolo dei Felini Vestibolo

Abside Pozzi

Sala insabbiata

Ingresso

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maledizione esistenziale della percezione della storia (i lettori dotati della pazienza necessaria potranno leggere, al proposito, la sua irruente opera Sull’utilità e il danno della storia, del 1874, per scoprire come il filosofo evidentemente ignorasse quanto possa essere emozionante e divertente l’archeologia...). Le immagini animali della grande arte paleolitica, in effetti, sono pervase, a volte quasi rigonfie, di un

travolgente fluido vitale, che da un lato si anima e si esaurisce nella figura in sé, dall’altro viene amplificato all’infinito nella moltiplicazione spaziale dei gruppi. La «dedizione totale al presente» sembra, in questo caso, essere stata quella che legava i giovani cacciatori alle bestie, e che portava i pittori ad attraversare lunghi passaggi oscuri e paurosi, e a inerpicarsi attraverso camini e sifoni spesso

Rappresentazioni di animali nell’arte parietale paleolitica Animali

Insieme franco-cantabrico

Grotta Cosquer (incisioni = 75%; pitture = 25%)

Grotta Chauvet (incisioni = 17%; pitture = 83%)

Cavalli 26,9% 38,7% 12% Bisonti 17,5% 7,5% 8,8% Uri 7,4% 1,1% 3,2% Stambecchi 11,8% 21,5% 3,2% Cervidi 14,4% 6,4% 0,5% Megaceri -- 2,1% 1,4% Bovidi, non determinati -- 4,3% -- Mammut 6,3% -- 15,7% Rinoceronti 0,8% -- 21,8% Renne 3,7% -- 4,6% Camosci -- 5,4% -Orsi 2% -- 5,6% Felini 1,9% 1,1% 17,1% Iene -- -- 0,5% Pinguini -- 3,2% -Foche -- 8,6% -Gufi o civette -- -- 0,5% Altri 7,2% -- 5,1%

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LE TECNICHE ESECUTIVE

inaccessibili, per trovare i tempi, gli spazi fisici e spirituali della manifestazione grafica. Al di là di simili suggestioni, perché dipingere le caverne? Le teorie sinora avanzate per spiegare la natura e possibilmente le funzioni di questo fenomeno oscillano, da sempre, tra due poli: quello della magia simpatica, ancora molto in voga grazie al carisma dell’opera dell’abbé Breuil (vedi box alle pp. 50-51), secondo il quale le immagini sarebbero state generate come legami soprannaturali tra figure e creature, per favorire fecondità e caccia; e varie teorie di ispirazione piú immediatamente funzionale, che postulano invece, o a latere, comportamenti utili alla riproduzione delle strutture sociali e quindi alla sussistenza della banda o della tribú dei cacciatori. Questo secondo filone interpretativo si concentra piuttosto sulla ricerca di regolarità spaziali nella posizione e nell’associazione delle figure delle diverse specie, nei percorsi di corridoi, svincoli e camere ipogee. L’ipotesi della magia simpatica è certamente rafforzata da figure nelle quali gli animali compaiono crivellati di proiettili, feriti o tempestati di colpi, condizione che costituisce l’argomento principale dell’interpretazione di Breuil. Bovidi colpiti da aste o col fianco perforato si trovano a Niaux, Pech-Merle e in altre grotte, e sagome di orsi letteralmente crivellati di ferite, che vomitano sangue, si vedono nella Grotta di Les Trois-Frères.

Poche cose, in realtà, possono essere date per scontate nello studio di questa arte animalistica, che noi siamo oggi costretti a guardare da punti di vista inevitabilmente parziali e soggettivi, basati sull’esperienza contemporanea di un mondo come il nostro, che nulla ha piú in comune con quello di 30 000 anni fa. Molti, infatti, giudicano l’impresa della comprensione poco meno che disperata: come nella poesia di Edgar Allan Poe citata all’inizio (vedi a p. 68), separati inesorabilmente da un passato tanto lontano, siamo, in un certo senso, costretti a sognare i sogni degli altri. Il dato piú evidente, comunque, è che le diverse specie animali, come mostrano i numeri della tabella che qui riportiamo, compaiono in percentuali fortemente variabili nelle diverse grotte. In generale, potremmo forse parlare di un’«arte del cavallo», dato che questa creatura, dipinta o incisa, è in assoluto la piú comune nell’intero repertorio a nostra disposizione. Seguono in ordine di popolarità stambecchi e bisonti, quindi i cervi e i mammut (o altri tipi di elefante). Vi sono poi grotte nelle quali animali relativamente meno comuni divengono rilevanti, come i mammut a Rouffignac, o i leoni e i rinoceronti nella Grotta Chauvet. Queste differenze devono aver avuto ragioni tanto ben precise quanto ancora ignote, e sulle quali sono stati versati fiumi di inchiostro.

In basso Montignac, Grotta di Lascaux. Ancora un’immagine delle pitture parietali, qui raffiguranti una mandria di cavalli. In evidenza, tracciata in bianco, la ricostruzione delle sagome delle pitture originali.

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abilmente sfruttate, inglobandole, per esempio, nei fianchi o nei ventri dilatati degli animali, dando vita cosí a effetti illusionistici; estese discontinuità orizzontali, a volte, suggerivano implicitamente le linee di fondo del terreno, in pratica l’unica concessione «paesaggistica» che gli artisti facevano ai propri beastscapes («paesaggi animalistici»). Da stalattiti o asperità della parete potevano manifestarsi le teste, le zampe o gli organi sessuali delle creature; il bordo di un blocco o una spaccatura naturale si trasformavano nel dorso o in un lato della testa di un erbivoro; ogni anomalia volumetrica, sottolineata o meno da incisione e colore, poteva capricciosamente alludere alla comparsa di una creatura vivente.

Sfruttando la luce radente

hanno dimostrato che semplici apparati come quelli producevano una luce fioca, ma costante, paragonabile a quella di una comune candela. Naturalmente, i pittori dovevano portare con sé anche tutto il necessario per riaccendere braci e lampade nel caso queste si spegnessero, o dovessero essere spente nel corso di passaggi particolarmente accidentati: pietre focaie, esche, trapani e tavolette da accensione in legno, a seconda dei casi; pena lo smarrirsi nel buio totale, dopo viaggi avventurosi tra camere, blocchi e passaggi che potevano estendersi anche per lunghezze considerevoli. Le immagini venivano spesso tracciate su fondi preparati, regolarizzati e lisciati prima di essere incisi, come nella volta di Altamira. I complessi di incisioni e bassorilievi in Dordogna e nello Charente (Francia) compaiono entro fasce rocciose interamente ribassate di 10 cm, e si snodano in alcuni casi per diversi metri. I contorni delle incisioni, a volte molto profondi, erano arrotondati verso l’interno dell’immagine, allargati e regolarizzati picchiettandoli con punte o picconi in selce. Le variazioni di volume delle pareti venivano

In alto Montignac, Grotta di Lascaux. Particolare della decorazione parietale raffigurante un cavallo nell’atto di saltare. L’artista preistorico ha sfruttato le variazioni di livello della superficie della parete inglobandole nella sagoma dell’animale.

I bassorilievi principali si trovano all’ingresso delle cavità, o comunque in punti dove la luce radente poteva evidenziarli; all’interno dei contorni, il colore veniva steso sia con tinte uniformi, sia con zone contrastanti, che in alcuni casi sembrano alludere a diverse chiazze di lucentezza del pelame; altri accorgimenti erano la graduale sfumatura verso l’esterno e l’ombreggiatura a tratteggio, combinate, come ad Altamira e Lascaux, con bicromie (rossoarancio e nero) di rara efficacia. In molti casi, per disegnare, si usavano semplicemente le dita umane, soprattutto per tracciare segni astratti su pareti e fondi d’argilla, oppure su tenere marne calcaree, che l’umidità ammorbidiva e rendeva plastiche in superficie. Direttamente con le mani sembrano essere state tracciate, secondo alcuni, le immagini di Lascaux, ed è stato dimostrato che le dita potevano anche svolgere la funzione di «gomme», rimuovendo con facilità alcuni tratti applicati in ocra. Le stesse mani umane fungevano da stencil, cioè da stampi, in positivo o negativo – in terminologia tecnica si direbbe «maschere normografiche» – per occupare tratti delle pareti. Nelle Grotte di Gargas (Alti Pirenei francesi) si contano centinaia di mani stampate in negativo. Il fatto che in alcune impronte manchino i segni

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LE TECNICHE ESECUTIVE CAPITOLO

di una o due dita ha fatto pensare a mutilazioni rituali, ma potrebbe anche trattarsi dell’impronta di gesti ritualizzati o, addirittura, di espressioni di un linguaggio gestuale. Alcuni, sulla base di particolari forme e limiti, hanno ipotizzato l’uso di stencil anche per tracciare chiazze e linee. Tra gli strumenti utilizzati troviamo punte e bulini in selce usati per incidere.

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Nella Grotta del Pigeonnier, a Saint-Front, presso Domme (Francia), un bulino in selce era ancora incastrato, fissato da una scheggia di calcite, nei solchi di contorno di una immagine. Una trentina degli strumenti in selce scheggiata a Lascaux (non solo bulini, ma anche lame, lamelle e schegge informi) mostrano all’estremità forti smussamenti, compatibili con l’ipotesi dell’uso nell’incisione dei contorni delle figure animali. Le selci con le punte usurate sono state trovate solo in corrispondenza con i tratti di parete decorati a incisione. Si usavano, inoltre, percussori per la martellatura leggera, come punte in selce opportunamente sagomate, ma anche in forma di piccoli ciottoli: nella realizzazione della Venere scolpita di Tursac, in Dordogna, è stata riconosciuta l’alternanza dei due

In alto Montignac, Grotta di Lascaux Ancora un’immagine della decorazione parietale, raffigurante un bovino. A sinistra oggetto in pietra utilizzato come lanterna, dalla Grotta di Gabillou (Sourzac, Francia)..


In alto e a destra primo piano di alcuni bulini in selce la cui estremità appuntita (nelle immagini, rivolta verso l’alto) era utilizzata per incidere, da La Madeleine. Londra, The British Museum.

strumenti. Per la realizzazione di bassorilievi piú impegnativi o di pannelli approntati in maggiori profondità, come quelli di Laussel o Cap Blanc, in Dordogna, furono usati picconi piú pesanti e massicci in selce, che hanno lasciato tracce ben riconoscibili di picchiettatura sulle superfici della roccia. Il pigmento principale era costituito da ocre di vario tenore (rosso, arancio, giallo) fornite da ossidi di ferro, come ematite, goethite e limonite. Un’altra fonte di rosso usata nel Sud della Francia erano la bauxite (ossido di alluminio) e la maghemite (un altro ossido di ferro). La calcite, il caolino, conchiglie macinate e altre fonti di carbonato di calcio potevano essere usate per il colore bianco. La pirolusite (biossido di manganese), come in epoche precedenti, forniva colori che variavano dal nero al violaceo; il carbone

vegetale, naturalmente, continuava a fornire i colori neri piú facilmente reperibili, insieme a ossidi di ferro dello stesso colore. Non sempre queste sostanze erano immediatamente reperibili nel territorio circostante le varie grotte; nel caso di Lascaux, per esempio, si è scritto che i coloranti venivano da un raggio medio di 30 km di distanza. Ciò implica l’esistenza di ben organizzate reti di scambio. I colori potevano essere applicati sotto forma di polvere, di poltiglie semiliquide e di paste spalmabili, nonché strofinando sul supporto «pastelli» di sostanze minerali (segue a p. 76)

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LE TECNICHE ESECUTIVE

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Rettangoli, «tetti» e punti

A

i non pochi interrogativi e dubbi suscitati dalle immagini di animali, la pittura parietale di età paleolitica aggiunge gli enigmi che scaturiscono dal vasto novero delle composizioni astratte, che non trovano immediati o univoci riferimenti nella realtà sensibile. Spesso si tratta di rettangoli suddivisi da partizioni ortogonali asimmetriche; altri sono semplici linee di punti, o combinazioni di linee curve. Numerosi sono i cosiddetti «tettiformi», disegni a terminazione superiore angolare, che potrebbero alludere a costruzioni simili a capanne. Altri sono ipoteticamente accostati a uccelli o a imbarcazioni; altri ancora, a costruzioni complesse, come reti o trappole. Simili figure e altri segni puramente geometrici, molto piú comuni nel mondo delle incisioni dell’arte mobiliare che sulle pareti delle grotte, continuano a costituire un enigma. Solo una piccola parte di queste grafie sembra comprensibile: sembra dimostrato che, almeno in età maddaleniana, i pittori marcassero accuratamente con linee di punti e segni astratti gli accessi a passaggi di particolare impegno, come potrebbero fare oggi gli speleologi. Simili espressioni stanno rivelandosi molto piú antiche di quanto sinora ipotizzato: una fascia di punti rossi nella Grotta di El Castillo è stata datata con il metodo degli isotopi dell’uranio tra i 36 000 e i 34 000 anni fa, mentre un’altra chiazza di colore rosso, nello stesso complesso, risalirebbe a 40 800 anni fa. A sinistra Puente Viesgo (Spagna), Grotta de El Castillo. Uno scorcio della parete della grotta, che presenta una decorazione con una fascia di punti rossi. 36 000-34 000 anni fa.

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LE TECNICHE ESECUTIVE

coloranti con le estremità appuntite come matite. «Matite» di questo tipo, con le superfici striate dall’uso, sono state trovate sotto ai dipinti a Lascaux e in molte altre grotte. Tuttavia, poiché gli esperimenti dimostrano che simili strumenti si consumano con grande rapidità (1 cm di matita per 15 di tratto), si è stabilito che potevano essere usati per tracciare contorni, piuttosto che per campire le aree interne. Gran parte della preparazione dei colori doveva seguire la ricetta della fabbricazione delle polveri. I blocchi di ocra e delle altre sostanze coloranti venivano raschiati con strumenti in selce per depurarli, frammentati e quindi finemente tritati con pestelli e macinelli su pietre concave. Negli inventari dei reperti nelle grotte principali compaiono sia lame e raschiatoi in pietra sporchi di ocra, sia quanto necessario alla macinazione. Si pensa che i pigmenti macinati fossero impastati e quindi cotti nei focolari, per aumentarne la finezza, quindi stemperati e decantati in acqua, per eliminarne i cristalli grossolani; e tale processo poteva essere ripetuto piú volte. Nel trattamento a fuoco, poiché l’ocra è sensibile a idratazione e deidratazione, il riscaldamento della goethite gialla a temperature superiori a 300 gradi fa sí che il giallo si trasformi prima in arancio, poi in rosso. Tracce di queste applicazioni sono state identificate a Arcy-sur-Cure (Yonne, Francia) come a Blombos, in Sudafrica (vedi box a p. 29). Sappiamo anche che i colori venivano portati sul luogo in apposite tazze. Se quelle in legno non si sono conservate, altre, scavate nella pietra, sono giunte sino a noi, come a Lascaux e a Villars, in Dordogna.

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Ad Altamira, i colori erano posati su vertebre di animali. Solo in qualche caso il ritrovamento di macchie di pigmento cadute in forma liquida ne testimonia con sicurezza la diluizione in acqua. Per stendere il colore, gli artisti preistorici usavano pennelli o spazzole ottenuti con bastoncini masticati all’estremità e forse crini animali legati alla base; oppure con tamponi di muschio. I dettagli piú fini potevano richiedere l’uso di piume. L’idea

MontesquieuAvantès, Grotta di Trois-Frères. La porzione di volta raffigurante il cosiddetto «stregone», una figura dal corpo di un cavallo, occhi di uccello, testa incorniciata da barba e sormontata da corna di cervo.


che i colori fossero soffiati in forma liquida con la bocca sulle pareti, in una sorta di aerografo corporeo, è stata spesso avanzata dagli studiosi; tuttavia, si sospetta che, almeno in molti casi, le bellissime sfumature visibili sui corpi degli animali siano accentuate dai veli di calcite iridescente formatisi millenni dopo la realizzazione delle figure.

Tra stalattiti e stregoni

In alto disegno dell’abate Breuil riproducente lo «stregone» della Grotta di Trois-Frères (vedi foto alla pagina accanto). A destra schema di alcune decorazioni parietali della Grotta di Trois-Frères. Sono raffigurati una renna, un bisonte e una figura antropomorfa con testa e coda bovine.

Abbandonando il mondo delle tecniche, forse minimalista ma ricco di informazioni affidabili, per quello dell’arte parietale, ci si addentra davvero in una terra incognita. L’arte del Paleolitico Superiore è quasi totalmente un’arte di figure animali viste di profilo, associate e combinate in varie maniere. Il 70% delle figure parietali oscilla in lunghezza tra i 25 e gli 80 cm, con spazi circostanti di respiro tra i 30 e i 40 cm. Si conoscono, tuttavia, immagini molto piú ampie, che sfiorano il gigantismo. I paesaggi non esistono; mancano rappresentazioni di rocce, acqua e astri, come rarissime sono le immagini di ispirazione vegetale. L’assenza di qualsiasi scena o accenno alle attività di raccolta di erbe, frutti e radici, che costituiva forse la principale attività economica del tempo, salta immediatamente all’occhio. (segue a p. 80)

Piú di una grotta ha restituito frammenti di utensili affini alle nostre «matite» | ORIGINI DELL’ARTE | 77 |


LE TECNICHE ESECUTIVE

Buoni «da pensare» o da mangiare?

L

a teoria della magia simpatica fu difesa strenuamente dal suo principale proponente, Henri Breuil. Quando gli venne fatto notare che esisteva una netta sproporzione quantitativa, se non un’inversione, tra la frequenza delle specie rappresentate sulle pareti delle grotte e quelle consumate negli insediamenti, circostanza che inficiava la teoria, l’abate obbiettò nella sua opera principale che la magia era probabilmente praticata nei confronti delle specie piú rare e difficili da catturare; non ve ne sarebbe stato bisogno, infatti, con le specie che in un certo luogo, o in un certo tempo abbondavano. Quando si scrisse che molte immagini rappresentano specie che ben poco interesse avevano nella dieta dei cacciatori, in primo luogo leoni e altri felini, Breuil rispose che in questo caso la magia era protesa all’uccisione dei predatori, per limitarne la concorrenza con l’uomo nella caccia agli erbivori. I dati che mettono a confronto, in due grotte, le percentuali relative di individui delle diverse specie abbattuti e consumati dai cacciatori con quelle delle immagini, parlano, in sé, piuttosto chiaro. Se a Lascaux i cavalli dipinti sono 60 volte piú frequenti di quelli «mangiati», a La Madeleine la relazione è la stessa, ma con una percentuale un po’ diversa: quelli raffigurati sono 10 volte piú abbondanti di quelli consumati. Continuando a confrontare i rispettivi repertori, guardiamo alle renne: a la Madeleine, quelle consumate sono oltre quattro volte

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piú numerose di quelle riprodotte, quando a Lascaux gli individui di questa specie probabilmente mangiati sono 90 volte piú rappresentati di quelli raffigurati. In entrambe le grotte, quindi, alla renna spetta un ruolo alimentare, e al cavallo quello di... modello pittorico. I cinghiali, come le renne, sono importanti nei resti di pasto di Lascaux, ma quasi assenti in entrambi i repertori. Per quanto le possibilità sollevate da Breuil non possano essere escluse – queste variazioni potrebbero effettivamente essere state causate da momentanee scarsità, in diverse località, del cavallo –, si deve anche tenere conto dell’espressione coniata dall’antropologo francese Claude LeviStrauss (1908-2009): gli animali buoni da mangiare non sempre coincidono con quelli che una cultura considera «buoni da pensare». I diversi tipi di interesse manifestati verso gli animali (alimentare e rappresentativo) potrebbero ben spiegarsi con


Confronto tra le percentuali di animali consumati e raffigurati La Madeleine Animali Cavalli Bovidi Stambecchi Cervi Caprioli Camosci Antilopi Elefanti Rinoceronti Renne Cinghiali Lepri Roditori Orsi Canidi Felini

Lascaux

% consumati % raffigurati % consumati % consumati 4,2% 43,1% 0,8% 59,5% 1,5% 11,8 -- 16,6% 0,02% 1,4% -- 6% -- 9% 1,5% 16,3% 0,01% -- 4,5% -0,2% 1,4% -- --- 3,5% -- --- 0,7% -- --- -- -- 0,2% 92% 21% 88,7% 0,2% -- 0,7% 4,5% -1,5% -- --- -0,4% -- -- -0,01% 0,7% -- 0,3% 0,2% 2,8% -- --- 4,2% -- 1%

processi e significati completamente diversi da quelli ipotizzati da Breuil. Nell’esempio sopra illustrato del cavallo, dipingere moltitudini di questo animale, invece di cacciarlo e mangiarlo (o perlomeno di mangiarlo in grotta), non potrebbe, per esempio, rappresentare una forma di rispetto, oppure il risultato di una proibizione rituale? Come si può intuire, molto ancora ci sfugge. Le spiegazioni del secondo ordine, quelle funzionali, hanno preso diverse direzioni, tutte ugualmente ipotetiche. Si è pensato, per esempio, che la diversa distribuzione delle varie specie in percorsi e camere diverse della stessa grotta corrispondesse a uno o piú percorsi rituali, che i giovani cacciatori, nel corso delle cerimonie di iniziazione, dovessero entrare in contatto, in sequenze variabili, con i diversi animali da cacciare. Qualcuno ha anche ipotizzato che la pittura in sé rappresentasse il fulcro di un’esperienza iniziatica: i giovani avrebbero dovuto penetrare a proprio rischio nei recessi oscuri della montagna e trovare il luogo e il modo di rappresentare l’animale, forse totemico, apparso loro in sogno. Questo spiegherebbe la coerenza stilistica delle immagini animali, dovuta all’addestramento specifico di ciascuno nel corso di un apprendimento

Nella pagina accanto, in alto bisonte che si lambisce, piccola scultura realizzata su un frammento di palco di renna, da La Madeleine. 13 000 anni fa. Les Eyzeies-deTayac, Musée National de Préhistoire. Nella pagina accanto, in basso Montignac, Grotta di Lascaux. Pitture raffiguranti due cervi, assieme a cavalli e altri animali.

ritualizzato, nei confronti della disomogeneità stilistica delle rappresentazioni maschili. Altri ancora hanno invece immaginato finalità piú immediatamente pratiche. Molte figure animali, come si è detto, sono dipinte senza le estremità inferiori delle zampe, cioè come esse appaiono se viste da una certa distanza, per esempio quando gli erbivori brucano l’erba. Una forma di realismo? Sulla stessa linea di ragionamento, nei casi (non frequenti) degli animali che compaiono nell’atto della defecazione, i disegni sono stati interpretati come possibili illustrazioni didattiche per i cacciatori in erba, che dovevano apprendere le tracce lasciate da ciascuna specie; e un significato analogo avrebbero le immagini in cui gli zoccoli degli erbivori sono invece enfatizzati e innaturalmente ritorti verso lo spettatore, come a palesare la forma esatta delle impronte. E oltre agli animali viventi, sono stati chiamati in causa quelli morti: uno studioso ha infatti notato che la prospettiva nella quale gli animali compaiono in molte composizioni, in particolare per il terzo stile di Leroi-Gourhan, privilegia teste innaturalmente ridotte e ventri dilatati: non potrebbe essere la prospettiva dalla quale un cacciatore fortunato osserva la preda abbattuta al suolo?

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LE TECNICHE ESECUTIVE

Il teorico della tecnologia preistorica

L

a carriera accademica di André Leroi-Gourhan (1911-1986) – archeologo, etnologo, antropologo e anche biologo francese – è stata a dir poco invidiabile. Ricercatore presso il CNRS, la piú prestigiosa istituzione di ricerca di Francia, fu vice-curatore del Museo Guimet di Arte asiatica di Parigi, tra il 1940 e il 1944. Partecipò alla resistenza contro i nazisti, prima di essere nominato docente a Lione, a Parigi (alla Sorbona) e al Collège de France (tra il 1969 e il 1982), dove succedette all’abate Breuil come professore di preistoria. Discusse tesi in russo e in cinese, studiò l’archeologia delle popolazioni del Pacifico settentrionale e persino la biomeccanica delle ossa dei vertebrati terrestri; e condusse importanti scavi di siti neolitici e paleolitici. Il piú celebre e impegnativo fu lo scavo dell’accampamento maddaleniano di Le Pincevent, nel dipartimento di Seine-et-Marne. Privilegiando scavi estensivi e quindi esponendo in ampiezza resti di capanne,

focolari e aree di attività, Leroi-Gourhan diede un impulso indelebile alle ricerche sulla preistoria. A lui si deve l’interesse che, dai suoi scavi in poi, gli archeologi avrebbero dato alle cosiddette chaînes opératoires (catene operative o sequenze operazionali): i processi tecnici che negli accampamenti preistorici collegavano l’arrivo delle materie prime (selce, ossa, avorio, pigmenti, altre pietre) alla realizzazione dei relativi prodotti finiti. Leroi-Gourhan nutriva per la tecnologia antica un interesse

È altrettanto facile notare come le rare figure umane – non piú di 200 in tutto, tra pitture parietali e arte «mobiliare» (dal francese mobilier, portatile) – siano estremamente variabili: con l’eccezione delle immagini femminili, pochissime mostrano il corpo, e i visi sono rappresentati spesso di profilo. Alcune figure sono schematiche, quasi rudimentali, mentre altre, soprattutto nelle incisioni e nelle piccole sculture in osso e avorio dell’arte mobiliare, raggiungono vette di naturalismo stupefacenti. In altre parole, mentre il programma figurativo prevedeva per gli animali influenti stereotipi e canoni formali ben stabiliti, sperimentati a lungo e in lento cambiamento nello spazio e nel tempo, le immagini umane,

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In alto André Leroi-Gourhan ripreso mentre osserva la parete di una grotta preistorica.

divorante: sfruttando la sua enorme cultura e un bagaglio di esperienze che non aveva confronti, riuscí a combinare l’etnologia delle popolazioni moderne con i dati archeologici sulle popolazioni preistoriche d’Europa. Nelle sue opere principali, L’Homme et la Matière (1943) e Le geste et la parole (1964; pubblicati entrambi anche in Italia), diede il via a una sociologia della tecnologia preistorica che continua ad arricchire e a stimolare le ricerche in campo paletnologico.

malgrado le eccellenti capacità cognitive e tecniche degli artisti, dipendevano da circostanze e attenzioni del tutto diverse.

Tratti incomprensibilmente mostruosi Particolare, per esempio, è il caso degli «stregoni» mascherati (i cosiddetti «teriantropi»), come il personaggio della Grotta di Les Trois-Frères che ha il capo coronato di ampie corna di cervide, orecchie levate e occhi sbarrati che hanno suggerito una «faccia da gufo» (vedi le immagini alle pp. 76-77). Il capo è rappresentato frontalmente, mentre il resto del corpo, congelato in un passo di danza, con i genitali e una coda animale bene in vista, è tracciato di profilo, e sembra coperto da


vistose bande di colore. Alcune di queste rare figure composite assumono a volte tratti incomprensibilmente mostruosi. In queste raffigurazioni, il fantastico – sia che si tratti di personaggi mascherati impegnati in danze evocative, sia della rappresentazione di esseri immaginari – trova il suo spazio narrativo ed emotivo. Nella camera piú remota della Grotta Chauvet, detta la Sala di Fondo, si trova lo straordinario gruppo detto «La Venere e lo Stregone» (vedi a p. 57). Una stalattite scende dal soffitto, alto quasi 7 m, e termina con una punta sospesa a 1 m circa dal suolo. La composizione illustra la parte inferiore di un corpo femminile, con la vulva interamente campita con nero carbone, in

In alto ricostruzione di un focolare, con la zona adibita al taglio della selce, dal sito preistorico di Pincevent, scavato da André Leroi-Gourhan nel 1964.

seguito segnata con un tratto verticale inciso; le gambe sono strette e convergono in basso, senza illustrare i piedi. Il triangolo nero del sesso si trova all’altezza dello spettatore, e sembra il centro d’osservazione del gruppo. Sullo spazio del torso si protende la testa di bisonte di un flessuoso «stregone», visto di profilo, che guarda a sinistra, mentre dalla stessa parte, oltre la stalattite, si protende nella stessa direzione la grande testa di una leonessa. Le proporzioni e la geometria del corpo femminile sono strettamente affini a quelle delle «Veneri» di età aurignaziana o gravettiana (32 000-20 000 anni fa circa) e testimoniano della grande antichità della composizione pittorica.

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LE TECNICHE ESECUTIVE

Pitture e incisioni lasciano pochissimo spazio alla narrazione di eventi complessi e illustrati nel loro svolgimento. Le figure di questo tipo, in pratica, si limitano ai rari casi detti dell’«uomo vinto», gettato a terra dall’orso, oppure caricato da un bisonte trafitto con lance che, sventrando la bestia, ne fanno riversare a terra gli intestini (come a Lascaux e Villars); oppure, ancora, trafitto da quelle che sembrano aste di lance o frecce (Pech-Merle e Cougnac). Che si tratti del ricordo di eventi reali, o di lacerti di narrazioni immaginarie o mitiche, non è dato sapere. In genere, gli animali vengono immaginati come immobili, ma non mancano figure chiaramente in movimento. È possibile che alcuni gruppi rappresentino il lento incedere di mandrie di erbivori al pascolo (come le composizioni di bisonti che si vedono ad Altamira e in altre grotte). Alcuni animali sono invece rappresentati in movimenti improvvisi, come quando un mammut alza orizzontalmente la proboscide, un cervo allunga il collo in un bramito, o un cavallo, udito un rumore, volge la testa all’indietro; i felini possono

delimitare il territorio con getti di urina. Sull’arte mobiliare in osso, cavalli sollevano il capo, pronti a scattare via al primo allarme. A Rouffignac, due mammut sembrano affrontarsi in un combattimento per la conquista delle femmine, a Lascaux due stambecchi si affrontano in modo simile, nella Grotta Chauvet sono i rinoceronti a scontrarsi. Altri animali sono ritratti in posizioni tanto dinamiche quanto insolite: sempre ad Altamira vi sono bisonti che si Particolare di un propulsore ricavato da un corno di renna sagomato in forma di cerbiatto che nella parte posteriore assume l’aspetto di un uccello, da Le Mas-d’Azil. Fase media del Maddaleniano, 11 000 anni fa circa. Le Mas-d’Azil, Musée de la Préhistoire.

Gli animali vengono spesso raffigurati in posizioni tanto dinamiche, quanto insolite: bisonti che si rotolano nella polvere, cavallini che s’impennano... | ORIGINI DELL’ARTE | 82 |


rotolano nella polvere con le zampe in aria, o sollevati per un istante nel galoppo; a Niaux un piccolo bisonte ferito ha le zampe ripiegate sotto il ventre; a Lascaux, si impenna un cavallino; a Pech-Merle, un uro sembra precipitare in un baratro, in un possibile momento di caccia. Sono fotogrammi isolati, nei quali la dimensione dell’aneddoto, del ricordo o della breve narrazione potrebbe momentaneamente prevalere su quella che, in generale, appare come un’attenzione in prevalenza metafisica.

In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.

Come lanterne magiche Affascinanti, infine, sono alcuni dischi o rondelle perforati in avorio, recanti animali: facendoli girare, era forse possibile creare l’impressione dinamica che trasmettono le nostre lanterne magiche. Uno di questi oggetti, noti come «taumatropi» (dalle parole greche per «meraviglia» e «girare, trasformarsi»), trovato nella Grotta del Mas d’Azil (Ariege, Occitania, Francia) è considerato un «taumatropio» nel quale su un lato si trova un giovane uro, sull’altro un individuo adulto della stessa specie. Linee oblique tracciate sullo sfondo, all’esterno dei due animali, nella rotazione del disco dovevano mescolarsi otticamente alle immagini, visualizzandone il dissolvimento e la trasformazione dell’uno nell’altro. Un altro possibile taumatropio è un volto inciso nell’avorio di mammut trovato a Dolní Vestonice: se visto da un lato, le labbra sembrano pendere verso il basso, in un’espressione di cruccio o dolore; dal profilo opposto, lo stesso volto sembra invece sorridere. Se questa era davvero il progetto dello scultore, ha dato adito a due interpretazioni opposte. Per alcuni si tratterebbe della rappresentazione fedele di una condizione patologica, una specie di paresi facciale, mentre altri considerano la figurina, appunto, un taumatropio: un personaggio da usare nella narrazione di una storia, da far sorridere, o piangere, variandone il punto di osservazione.

In alto dritto e rovescio di una rondella in osso perforata al centro, raffiguranti una femmina e un vitello

di uro, dalla grotta del Mas d’Azil (Francia). Saint-Germain-en-Laye, Musée d’Archéologie nationale.

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LE TECNICHE ESECUTIVE

Arte o scienza? «La piú importante scoperta fatta dagli scienziati è la scienza stessa. Per la sua importanza, questa scoperta può essere paragonata all’invenzione della pittura parietale su grotta e a quella della scrittura. Come queste precedenti creazioni umane, la scienza è il tentativo di controllare quanto ci circonda, penetrando nella realtà e comprendendola dall’interno. E come pittura e scrittura, la scienza ha determinato per l’uomo un passo in avanti dal quale non possiamo recedere. Non possiamo concepire un futuro senza la scienza». (Jacob Bronowski, L’ascesa dell’uomo, Milano 1976)

Montignac, Grotta di Lascaux. Particolare delle pitture della Sala dei Tori (parete destra), raffigurante due grandi tori, un cervo, un uro (sovrapposti alla sagoma del toro sulla sinistra) e una vacca di color ocra.

A

ndré Leroi-Gourhan ha proposto accurate e acute classificazioni dei modi in cui le immagini animali erano combinate nei singoli spazi disponibili, tra superfici piane, rilievi naturali e cavità. Lo studioso parla di immagini «giustapposte», cioè semplicemente accostate l’una all’altra con distanze variabili tra corpo e corpo, qualità riconosciuta come la forma di organizzazione piú comune nei vari insiemi paleolitici. Tuttavia, altrettanto importante era la sovrapposizione delle immagini, verificatasi nel corso del tempo – sia nell’arte mobiliare su lastrine, ossa e avorio, sia sulle pareti delle grotte –, che potrebbe risultare preziosa per ricostruire l’evoluzione stilistica. Nonostante gli sforzi, però, in molti casi non è risultato semplice stabilire le esatte relazioni stratigrafiche tra le varie fasi di incisione, né pare possibile stabilire con esattezza quanto tempo sia intercorso tra una fase e l’altra. Un altro tipo di sovrapposizione è il rimaneggiamento, vale a dire la modificazione della figura, o di parte di essa, per rinfrescarne gli attributi o modificarne radicalmente il soggetto. In alcuni rilievi scolpiti, infatti, cavalli furono rimodellati in bisonti, e viceversa. Piú comuni sono i casi di sovrapposizione intensiva o multipla, in cui lo spazio, a prescindere dalle sue reali dimensioni, appare tanto condensato dall’apporre gli animali gli uni sull’altro, come se ogni disegno pretendesse il massimo dello spazio possibile. A volte, soprattutto nell’arte mobiliare, la stessa figura veniva tracciata e ritracciata piú volte, in una sorta di ridondanza esasperata nella quale si faticano a riconoscere tracce preparatorie, disegno finale e modificazione successiva. In questi casi, per decodificare i singoli contorni si deve ricorrere all’uso del microscopio. La ripetizione dei contorni può essere cosí intensa e

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vibrante che, agli occhi di noi moderni, ricorda da vicino le ricerche della pittura futurista nell’inseguimento della raffigurazione del moto. In altri casi, la sovrapposizione intensiva dei contorni assumeva la forma particolare della copertura parziale simultanea, nella quale gruppi di immagini venivano appositamente delineate in modo parziale, per poi essere coperte da un’ultima figura in primo piano, in un accenno di rappresentazione prospettica. Tutto ciò può suggerire (ma non dimostrare) che ciascun disegno era concettualizzato in ragione di una sua propria definizione dello spazio, che l’atto della creazione della singola immagine, piú della composizione finale che ci poteva ragionevolmente attendere, fosse la momentanea preoccupazione del pittore. Ciò non vale, tuttavia, per il continuo anche se episodico studio di accorgimenti grafici che


tendevano, con vari mezzi, alla rappresentazione di due o piú immagini in prospettiva ottica. Questo tipo di attenzione era destinata a declinare rapidamente nei successivi millenni del Mesolitico, per risorgere in modo tanto indipendente quanto episodico solo a partire dagli ultimi 5000 anni. André Leroi-Gourhan utilizzò le sue sottili e ben argomentate classificazioni da un lato per sviluppare criticamente le precedenti tassonomie cronologiche dell’abate Breuil, dall’altro per tentarne una lettura «strutturale», ossia basata sulla costanza e sulle variazioni di schemi compositivi impliciti nelle grandi composizioni parietali. Ogni grotta preistorica (ne visitò personalmente una settantina) era da lui concepita come un insieme unitario; invece di applicare all’analisi le consuete teorie, Leroi-Gourhan studiò la disposizione degli animali nelle camere e

nei pannelli, in quanto proprio la spazialità, a suo parere, poteva rivelare precise organizzazioni latenti. Queste ultime, a loro volta, potevano illustrare simbologie e messaggi destinati a guidare la vita sociale dei cacciatori. Le sue interpretazioni finirono per enucleare una contrapposizione, nella composizione delle scene di gruppo, di un principio maschile, interpretato dalle immagini di cavallo, e un principio femminile illustrato da uri e bisonti. Le grandi composizioni principali sarebbero state circondate da altri animali, come attori secondari di scenari piú vasti, e da simbologie geometriche. La necessità di queste letture di vasta portata ha fatto sí che Leroi-Gourhan, nei suoi scritti sull’arte parietale, abbia sottovalutato le sovrapposizioni delle immagini nel corso del tempo, che complicavano oltremodo al sua prospettiva di indagine.

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LE TECNICHE ESECUTIVE

L’ultima arrivata

L

a Grotta di Cussac, presso Le Buisson-de-Cadouin, in Dordogna, non lontano da La Gravette, a Bayac (il sito eponimo del Gravettiano) è stata scoperta da uno speleologo dilettante, Marc Delluc, tra il settembre e l’ottobre del 2000. L’apertura era nota da tempo, ma Delluc, notando una brezza che spirava dalle pietre della frana che ne ostruiva la bocca, riuscí a rimuovere parte del crollo e penetrare in un primo corridoio d’accesso. La grotta è stata subito chiusa al pubblico, riservandola alla ricerca scientifica. Con uno sviluppo totale di circa 1600 m, la grotta contiene una successione di camere animate da stalattiti, drappi calcarei, pavimenti coperti da continue concrezioni di calcite. Su pareti e pavimenti, unghiate e impronte mostrano i segni della frequentazione della cavità da parte dell’orso delle caverne, tutti precedenti all’intervento umano. Vi si sono trovate non meno di 150 figure parietali, incise su pareti argillose con strumenti in pietra o con le dita. Sono distribuite in nove gruppi principali, collocati in prevalenza verso le regioni piú profonde della cavità. Le uniche figurazioni dipinte sono gruppi di punti rossi, che risalirebbero a 25 000 anni fa: si tratta di alcuni dei consueti protagonisti della figurazione parietale (cavalli, bisonti, uri, mammut, rinoceronti, stambecchi), ma anche di figure molto piú rare, come uccelli (forse oche) e di quattro profili femminili. Gli animali sono tracciati con mani sicure e sono di

grande qualità estetica. Intorno si notano gruppi di linee impresse con le dita, in forme apparentemente caotiche. Gli esperti hanno accostato le figure di Cussac a quelle gravettiane di Pech-Merle. Cussac è di importanza straordinaria, in quanto l’unica, tra le grotte paleolitiche francesi, a custodire una serie di deposizioni di ossa umane (quattro adulti e un giovane) risalenti allo stesso periodo in cui furono tracciate le figure. Le ossa giacciono scomposte e frammentate in cavità naturali parzialmente scavate dagli orsi, in gruppi superficiali, e sembrano prive di qualsiasi oggetto di corredo; la loro presenza viene comunque ritenuta l’esito di depositi intenzionali.

Sulle due pagine Grotta di Cussac. Incisioni raffiguranti un cavallo (in alto), un mammut (in basso) e una silhouette femminile (nella pagina accanto). Le immagini, soprattutto nel caso degli animali, colpiscono per la cura dei dettagli – la criniera del cavallo, il mantello lanoso del pachiderma – e l’efficacia con cui è stata resa l’idea del movimento.

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LE TECNICHE ESECUTIVE

Ma incidevano anche alla luce del sole...

U

na ulteriore rivoluzione nelle nostre idee sulla figurazione paleolitica scoppiò nel 1990, quando ci si rese improvvisamente conto che in due distinte regioni della Penisola Iberica, la valle del fiume Côa in Portogallo e Siega Verde in Spagna, migliaia di superfici rocciose di scisto create dall’erosione, e immerse in dimenticati paesaggi rurali, recavano immagini preistoriche animalistiche incise all’aperto lungo un arco di tempo che si estendeva dal periodo gravettiano, 24 000 anni fa, fino alla fine del Maddaleniano, intorno ai 10 000 anni fa. Nella sola valle del Côa, ben 7000 superfici incise sono state inventariate per una lunghezza complessiva di 17 km, e in un’area di 200 kmq circa. Come nelle grotte, le dimensioni degli animali, spesso fittamente sovrapposti, si aggirano mediamente sui 40-50 cm, mentre alcune figure raggiungono la lunghezza di 1,8 m. L’associazione delle immagini

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paleolitiche con le profonde e buie cavità dei monti dei Pirenei e della Francia meridionale era tanto radicata, nella bibliografia come negli insegnamenti di preistoria, che concepire l’esistenza di un vasto archivio di immagini tracciate e ancora visibili in pieno sole non fu affatto semplice. Si capí che, malgrado 25 000 anni di esposizione agli agenti atmosferici, solo la profondità delle incisioni originarie aveva preservato i contorni degli animali. Lo stile di molte incisioni era chiaramente lo stesso dei piú noti complessi ipogei. Vi si intravedono uri, cavalli, stambecchi, daini e pesci, e rarissime figure umane. Tutto ciò apre una serie di importanti interrogativi, alcuni dei quali piuttosto destabilizzanti. Le incisioni iberiche erano accompagnate da pigmenti colorati, oggi scomparsi? Chi può garantire che anche in altre regioni dell’Europa occidentale, nel Paleolitico Superiore, non si usasse dipingere

estensivamente anche all’aperto? E dato che non solo gli stili delle figure, ma anche le regole compositive dei grandi pannelli sembrano strettamente affini, sotto quale luce (è proprio il caso di dirlo) vanno considerate le ipotesi che oggi legano la pittura parietale in grotta a tortuose spedizioni iniziatiche nell’oscurità? Minacciate dal progetto della costruzione di una diga idroelettrica, oggi le incisioni paleolitiche della valle del Côa, grazie alla forte presa di posizione delle comunità locali, dell’intera opinione pubblica portoghese e dell’UNESCO, sono protette dai confini del Parque Arqueológico do Vale do Côa (PAVC). Sulle due pagine Vale do Côa, (Portogallo). Uno scorcio panoramico del Parque Arqueológico do Vale do Côa. Nella pagina accanto Vale do Côa, (Portogallo), Canada do Inferno. Un primo piano di una delle incisioni zoomorfe su pietra.


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LE TECNICHE ESECUTIVE

L’arte paleolitica in Italia

I

n Italia, l’arte parietale è nota in una decina di località (grotte del Caviglione ai Balzi Rossi, di Fumane in provincia di Verona, quella di Paglicci nel Gargano, la Grotta Romanelli nel Salento, il riparo Romito di Papasidero in Calabria, Cala Genovese a Levanzo, l’Addaura e Niscemi nei dintorni di Palermo). Forse nessuna raggiunge la clamorosa consistenza e visibilità dei complessi parietali dipinti francesi e spagnoli, ma le località sono molto suggestive, e in diversi casi compaiono importanti gruppi di

manufatti di arte mobiliare. Alcune di queste località sono musealizzate e visitabili, con percorsi guidati con metodi aggiornati (come per esempio la Grotta di Fumane presso Verona, o il Romito di Papasidero in provincia di Cosenza). A volte presso i siti piú famosi, come le grotte della Liguria, si trovano musei locali: il Museo Preistorico dei Balzi Rossi presso Ventimiglia, e il Museo Archeologico di Pegli vicino a Genova, dove sono ricostruite le sepolture paleolitiche delle Arene

In alto due pietre dipinte provenienti dal Riparo Dalmeri. Epigravettiano recente, 11 500-11 000 anni fa. Trento, MUSE. Sulla sinistra, un motivo schematico, forse interpretabile come la raffigurazione, estremamente stilizzata di una figura umana. Sulla destra, un motivo ramificato che potrebbe costituire una raffigurazione schematica di tipo vegetale. A sinistra Rignano Garganico (Foggia), Grotta Paglicci. Particolare della decorazione parietale, raffigurante un cavallo, tracciato in ocra rossa. Nella pagina accanto calco di un graffito paleolitico, dalla Grotta dell’Addaura (Palermo). Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». La scena mostra personaggi disposti in circolo, che danzano intorno a due figure a terra, e potrebbe evocare pratiche rituali oppure un sacrificio umano provocato dalle due stesse vittime, per autostrangolamento, come rivelano le corde che uniscono il collo ai glutei.

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LE TECNICHE ESECUTIVE

A sinistra diorama ricostruttivo della sepoltura della donna di Ostuni (sopra) e fotografia zenitale dello scavo archeologico del sito (sotto). 28 000 anni fa. In basso veduta di profilo e di fronte della cosiddetta Venere di Savignano. marmo serpentino. 35 000 anni fa. Roma, Museo delle Civiltà-Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini.

Candide. Nei musei archeologici dei centri principali si custodiscono in qualche caso blocchi asportati dalle località di scavo con importanti sepolture (come la «donna di Ostuni», custodita nel locale Museo di civiltà preclassiche della Murgia meridionale); ma anche calchi e riproduzioni di incisioni e pitture parietali di accesso meno agevole. La lista (certo parziale) che compare in queste pagine può dare un’idea della consistenza dei patrimoni figurativi di età paleolitica, disseminati dalle Alpi alla Sicilia.

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Alcune delle principali località Italiane con testimonianze artistiche di età paleolitica (date approssimative) Località

Data in anni dal presente

Manifestazione artistica

Fumane (Veneto)

44 000

Fumane (Veneto)

35 500

Unghie d’aquila usate come pendenti, probabile uso di penne di rapace come ornamentazione. Lastre distaccate dalle pareti con figure animali e umane tracciate in ocra, conchiglie marine. Diverse sepolture con abbondante ornamentazione (conchiglie, denti di cervo, vertebre di salmonidi, avorio di mammut), 15 statuette di Veneri in steatite, incisione rupestre raffigurante un cavallo.

Balzi Rossi, altre grotte tra 25 000 Ventimiglia e Mentone

Grotta di S. Maria di Agnano (Puglia)

27 00025 000

Savignano (Emilia Romagna)

25 000

Ornamentazione della «Donna di Ostuni», sepolta con feto di 31-33 settimane. Recava bracciali di conchiglie forate al polsi, un copricapo con molteplici conchiglie forate, strumenti in pietra. Venere scolpita in serpentino.

24 000

Ornamentazione del «Giovane Principe», rinvenuto su uno strato di ocra rossa con una rete di centinaia di conchiglie marine, monili di conchiglie, ossa, quattro bastoni perforati in corno di cervo e una lunga selce in mano.

Grotta Paglicci (Puglia)

24 00011 000

Impronte di mani e pitture parietali che mostrano due cavalli; incisioni su osso, ciottoli e lastre calcaree a soggetto animalistico e geometrico; graffiti su roccia.

Grotta del Romito, Papasidero (Calabria) Grotte di Parabita (Puglia)

23 000-10 000 Due grandi bovidi incisi su roccia.

20 000-15 000 Due Veneri in osso, sepolture con pendenti in dente di cervo, manufatti in pietra e osso con incisioni geometriche. Grotta Polesini (Lazio) 16 000-14 000 Numerose ossa decorate con sequenze di tacche, zig zag, fitti meandri; ossa e ciottoli con animali (cervidi, bovidi, lupo). Grotta del Cavallo (Puglia) 16 000-14 000 Blocchi e scaglie di calcare incisi con motivi geometrico-lineari e figure animali, una figura umana. Grotta Romanelli (Puglia) 16 000-14 000 Oggetti in osso e pietre con incisioni animalistiche (bovidi, daini, felini, cinghiali). Incisioni su roccia di equini e bovini. Grotta Niscemi (Sicilia) 15 000 Ossa e ciottoli graffiti con immagini animali. Riparo di Vado all’Arancio 15 000 (Toscana) Grotta Giovanna (Sicilia) 14 000-12 000 Lastra calcarea con bovide inciso, ciottoli con incisioni lineari. Riparo Tagliente (Veneto) 13 500-10 000 Ciottoli graffiti con bisonte e motivi geometrici, nuclei in selce e ossa con incisioni lineari. Grotta della Madonna 12 000-10 000 Ciottoli con linee, pettini e altri disegni geometrici di ocra rossa. (Lazio) Riparo Dalmeri (Trentino) 11 500-11 000 Centinaia di lastrine calcaree con animali, motivi vegetali e altri disegni dipinti in ocra rossa, pietre incise con disegni geometrici; conchiglie marine perforate e perline in pietra. Incisione con scena di gruppo (prigionieri torturati). Grotta dell’Addaura 10 000 (Sicilia) Incisioni su roccia con uri, cervi, cavallo, e figure umane; ciottoli incisi o Cala dei Genovesi, Levanzo 10 000 dipinti con animali e sequenze di tratti. (Sicilia, Egadi)

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LE VENERI E L’ARTE MOBILIARE LESPUGUE 26-24 000 anni fa circa. La Venere proveniente dal sito francese di Lespugue. Avorio, alt. 14,7 cm. Parigi, Muséum national d’Histoire naturelle.

BALZI ROSSI 25 000 anni fa circa. Una delle Veneri gravettiane recuperate nella grotta ligure dei Balzi Rossi (Ventimiglia). Steatite, alt. 4,7 cm. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’archéologie nationale.

VENERI, MA

NON TROPPO

Fatte di pietra, avorio, osso e perfino argilla, le statuette femminili battezzate con il nome della dea dell’amore sono diffuse dalla Siberia all’Europa. In apparenza rispondenti a un mero canone stilistico, rivelano, invece, particolarità e tratti del tutto personali. Ma qual era il loro vero significato? | ORIGINI DELL’ARTE | 94 |


TURSAC 25 000 anni fa circa. Attribuibile al Gravettiano, questa Venere proviene dal sito di Tursac (Dordogna, Francia). Calcite, alt. 8,1 cm. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’archéologie nationale.

BRASSEMPOUY 26-24 000 anni fa circa. Fu rinvenuta nel 1894 a Brassempouy dall’archeologo e paletnologo Édouard Piette. Avorio, alt. 3,65 cm. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’archéologie nationale.

V KOSTENKI 29-22 000 anni fa circa. Un esemplare di Venere dall’area eurasiatica, trovato a Kostenki (Russia). Pietra calcarea, alt. 11 cm. San Pietroburgo, Museo di Antropologia e di Etnografia.

engono comunemente dette «Veneri» le statuette paleolitiche che rappresentano personaggi, o, se vogliamo, corpi femminili, prodotte dagli artisti del Paleolitico Superiore fra i 30 000 e i 10 000 anni fa circa, vale a dire dagli albori del periodo gravettiano – forse – alla tarda età maddaleniana. Nella maggioranza dei casi sono state trovate in Europa, ma la loro presenza è ben segnalata in Siberia. L’Italia è l’unico Paese del Mediterraneo nel quale ne siano stati trovati vari esemplari. La piú antica a oggi nota è la cosiddetta «Venere di Hohle Fels», datata a 35 000 anni fa circa (vedi box alle pp. 104-107). Ricavata da un’unica zanna di mammut, e trovata alla profondità di 3 m dalla superficie della grotta omonima, la figurina appare singolarmente sgraziata e totalmente priva delle eleganti simmetrie formali degli esemplari dei millenni successivi, ma non per questo meno affascinante.

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Con l’eccezione delle creazioni in ceramica della Moravia, le Veneri vennero finemente intagliate in materiali non eccessivamente duri, come calcare, avorio e steatite. Nella maggior parte dei casi hanno testa piccola e priva di faccia, ma possono esibire complicate acconciature a treccine. Al contrario, un volto con tratti facciali espressi, la Venere in avorio di mammut trovata nella Grotte du Pape di Brassempouy, è inciso con un senso dei volumi tanto sviluppato che malgrado le ridotte dimensioni (3,65 cm), è universalmente considerato un piccolo capolavoro. Come altre sculture e pitture paleolitiche, la Venere di Brassempouy fu una importante fonte di ispirazione per l’arte moderna e il «primitivismo» del Novecento. Pablo Picasso, per esempio, era stato molto colpito dalla Venere trovata nella grotta di Rideaux presso

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Lespugue, nell’Alta Garonna (vedi a p. 94), e ne teneva repliche nel suo studio. Anche se i temi formali di fondo rimangono la visualizzazione e la scansione del corpo femminile in volumi compatti, geometricamente composti entro una ideale losanga, le Veneri sono molto piú variabili e ambigue, nella forma e nell’ispirazione, di quanto comunemente si pensi.

L’evocazione del parto Se alcune hanno corpo relativamente sottile, molte altre sono ispirate all’obesità, se non raffigurano direttamente donne incinte, in condizioni di post-parto, o addirittura partorienti. La statuetta in steatite verde nota come «l’ermafrodito», trovata con molte altre negli scavi ottocenteschi di otto grotte tra Mentone e Ventimiglia, serra le mani su una

In alto e nella pagina accanto, in alto Angles-surl’Anglin (Francia), Roc-aux-Sorciers. Due immagini delle pareti del riparo, occupato in varie fasi nel periodo maddaleniano (18 000-10 000 anni fa circa), sulle quali corrono, per oltre 50 m, sculture rupestri antropomorfe e zoomorfe.


In basso la statuetta in avorio trovata nel 1864, da Paul Hurault nel sito di Laugerie-Basse, presso Les Eyziesde-Tayac-Sireuil, e battezzata dallo scopritore Vénus impudique. Parigi, Muséum national d’Histoire naturelle.

protuberanza della regione pubica; prima considerata un pene, tale protuberanza viene oggi interpretata come la testa di un neonato che emerge nel corso del parto. I fianchi sono il punto piú largo del corpo, che, dalla vita in giú, si restringe, all’altezza dei piedi assenti, in una punta che bilancia visivamente la restrizione della testa. Questa terminazione ha suggerito che le statuette si reggessero su appositi supporti; ma forse erano semplicemente tenute in mano, o sospese sul corpo, come proverebbero alcuni piccoli esemplari con fori passanti per inserirvi una cordicella.

Molte figurine accentuano il ventre, i seni, i glutei e l’organo femminile, ma questa non è una regola. Alcune, in particolare gli esemplari siberiani, recano sul corpo disegni geometrici che suggeriscono tatuaggi. Il nome di «Veneri» fu involontariamente dato a questa classe di manufatti da Paul Hurault, ottavo marchese di Vibraye, nel 1864. Hurault, che scavava nel sito di Laugerie-Basse, presso Les Eyzies-de-Tayac-Sireuil in Dordogna, aveva battezzato un esemplare da lui trovato con il nome di Vénus impudique (nota anche come Venus Impudica e Vénus de Vibraye). (segue a p. 102)

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Una cornucopia paleolitica

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lle Veneri gravettiane vengono spesso accostate alcune immagini femminili, incise o scolpite a bassorilievo, che ne condividono alcuni caratteri stilistici. Il piú famoso è quello della «Venere con il corno» di Laussel, un rilievo alto 42 cm che compare su un blocco di 2 m nell’Abri di Laussel, presso Marquay, in Dordogna, sul fiume Beune, non distante dalla Grotta di Lascaux. Dai livelli gravettiani provengono altri blocchi che

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recano figure incise di vulve, e rilievi con lo stesso soggetto, su uno dei quali compare una Venere con testa quadrettata, frutto della stilizzazione della capigliatura. Anche in questo caso alla Venere mancavano i tratti del volto; i seni sono grossi e cadenti, i fianchi adiposi. La «sorella» della Venere con il corno ha seni voluminosi, ventre gonfio, un foro ombelicale profondo e con la mano sinistra impugna un oggetto non riconoscibile. L’intero complesso

sembra aver marcato un luogo strettamente legato alla condizione o rappresentazione femminile. E non si tratta di un caso unico nell’arte paleolitica: in un altro complesso di rilievi, nel riparo della Roc-aux-Sorciers (Francia centro-occidentale), le archeologhe Suzanne Cassou de Saint-Mathurin (1900-1991) e Dorothy Annie Elizabeth Garrod (1892-1968) portarono in luce un fregio di 18 m (ma in origine ancora piú lungo), con animali e


A destra la «Venere con il corno», dall’Abri di Laussel. Periodo gravettiano, 23 000 anni fa circa. Bordeaux, Musée d’Aquitaine. In basso Suzanne Cassou de Saint-Mathurin e Dorothy Annie Elizabeth Garrod esaminano un rilievo del Roc-aux-Sorciers.

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Angles-sur-l’Anglin, Roc-aux-Sorciers. Ancora una foto d’archivio che ritrae Dorothy Annie Elizabeth Garrod durante gli scavi nel riparo.

cinque immagini femminili ad altorilievo, che enfatizzano i genitali e le funzioni riproduttive, al punto che un archeologo e ginecologo francese le definí «un omaggio alla funzionalità femminile». Come altre opere a bassorilievo della tradizione paleolitica, la «Venere di Laussel», o parte di essa, era stata colorata con un pigmento rosso. Il suo parziale realismo – pur nelle stringenti convenzioni rappresentative di questo tipo di immagini – è alimentato dal piano scelto per la scultura, una zona nella quale la superficie della pietra è convessa, con l’area di maggiore sporgenza che corrisponde con il ventre. Il corpo è rappresentato frontalmente, mentre la testa (come al solito priva di caratteri facciali) di profilo. La Venere solleva con la mano destra un corno, percorso da una serie di tratti incisi, come se fosse un’opera di arte mobiliare. Sull’onda delle teorie di Alexander Marshack, le tacche sul corno, 13 in tutto, sono state interpretate come una rappresentazione dei 13 mesi lunari di 28 giorni ciascuno, ossia delle scadenze annuali del ciclo mestruale. La mano sinistra, appena accennata, è poggiata sul ventre. Il volto di profilo è rivolto verso la cavità del corno, il che lascia aperta la possibilità che la scena rappresenti l’atto del bere, o addirittura una vocalizzazione amplificata. L’immagine ricorda superficialmente – e, crediamo, casualmente – molte sculture di età ben piú recente, nelle quali figure allegoriche o divine innalzano cornucopie colme di frutta e altri simboli di fertilità e abbondanza.

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cosiddetta «Venere Ottentotta», una nativa africana che soffriva di una simile patologia. Allora, non pochi antropologi consideravano i Boscimani sudafricani come «la piú antica razza umana», e dato che gli stessi attributi corporei erano stati descritti presso queste popolazioni, le Veneri potevano fornire la prova della provenienza africana dei gruppi paleolitici europei. Per questo, quando la sventurata Venere Ottentotta morí, ebbe il discutibile onore di essere dissezionata dal grande naturalista Georges Cuvier (1769-1832).

Interpretazioni «femministe» Nel secolo successivo, il dibattito si sarebbe poi focalizzato sulle implicazioni di fertilità, riproduzione e potere religioso riassunti nell’uso, o meglio nell’abuso del termine di «Dea madre». Piú d’una studiosa ha parlato di matriarcato originario e proposto una serrata critica femminista alle dominanti teorie maschili Si trattava della prima immagine di questo genere mai dissepolta in uno scavo archeologico. Poiché era priva di braccia e testa, ma recava il sesso ben marcato, l’idea del nobile (al quale va riconosciuta una notevole dose di entusiasmo) fu quella di paragonare il reperto alla celebre Afrodite di Prassitele (Venus pudica), la quale invece si copriva il grembo. Gradualmente, il nome si estese poi a tutte le statuette dello stesso tipo. Il dibattito sul significato delle «Veneri» è stato intenso, ininterrotto e, tutto sommato, in larga misura infruttuoso. Ai tempi della scoperta si discusse vivamente sull’identità etnica (al tempo si diceva «razziale») delle donne rappresentate, soprattutto perché l’immaginario dei colonialisti europei era rimasto molto colpito dalle fotografie di donne africane con caratteristiche di steatopigia (condizione somatica consistente in uno sviluppo ipertrofico delle masse adipose di ventre, cosce e glutei). Aveva destato gran clamore, mezzo secolo prima, il tour europeo della

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A sinistra copertina del fumetto «Venere Nera» che racconta la storia di Saartjie Baartman, donna africana divenuta famosa come «Venere Ottentotta». In basso dischi levigati, ricavati da dentina, avorio e osso, e un anello in pietra, da una sepoltura maschile rinvenuta a Brno. 26 000 anni fa circa. Brno, Museo della Moravia.


sull’organizzazione delle società paleolitiche. Altri hanno considerato le figurine come modelli anatomicamente realistici per trattare, nella preistoria, di ostetricia e ginecologia; oppure le hanno chiamate in causa per discutere dello status delle donne, dei loro ruoli e della divisione del lavoro preistorico. Si è anche sostenuto che le statuette illustrassero una o piú particolari tappe nel ciclo vitale della donna, e la considerazione sociale che tale ciclo dettava alla comunità; senza escludere, peraltro, che si trattasse di pure e semplici raffigurazioni di impronta sessuale della «donna oggetto» (quasi fosse l’equivalente preistorico del paginone centrale di una rivista per soli uomini).

In Figurina basso et maschile utem net in lautavorio facient con ettesta quame fugiae braccia officae snodabili, ruptatemqui rinvenuta in una conseque sepoltura vite aesBrno sae (Repubblica quis deris Ceca) rehenis sopra uno aspiciur scheletro sinctemaschile. seque con Brno, nusam fugit Museo et qui della bernate laborest, Moravia. ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.

Una sola certezza In questa ridda di congetture, una delle poche certezze è il fatto che le Veneri non sono ritratti. Esistono infatti rappresentazioni facciali, maschili e femminili, che escono totalmente dalla convenzionalità, e nelle quali i tratti somatici degli individui sono resi con una eccezionale verosimiglianza. Le figurine maschili sono molto piú rare. In una sepoltura scavata nel perimetro dell’attuale Brno, in Moravia, Repubblica Ceca, fu scavata nel 1891 una sepoltura maschile collocata tra resti ossei di mammut e rinoceronte lanoso. La sepoltura conteneva piú di 600 conchiglie fossili di Dentalium, dalla caratteristica forma conica; dischi ottenuti da costole di rinoceronte, zanne di mammut e ciottoli; nonché un’asta lavorata ottenuta da un palco di renna, interpretata come una bacchetta di tamburo. Presso il cranio di questo «sciamano» paleolitico (il tamburo è lo strumento principale di divinazione degli sciamani siberiani contemporanei), (segue a p. 110)

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È tedesca la Venere piú antica

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ell’autunno del 2009, gli archeologi che stanno scavando nella Grotta di Hohle Fels (Germania sud-occidentale) recuperano sei piccoli frammenti di avorio. E non ci vuole molto per constatare che non si tratta di un ritrovamento di routine: uno dei frammenti ha le sembianze di un torso femminile e l’impressione

trova conferma nel momento in cui viene assemblato con gli altri. Ne viene fuori una figura dai tratti femminili fortemente accentuati: insomma, una Venere paleolitica. Il reperto proviene infatti dai livelli aurignaziani del sito e può essere datato ad almeno 35 000 anni fa. Tale datazione è l’elemento di maggiore interesse, in quanto

prova l’esistenza di simili raffigurazioni in un’epoca ben piú antica di quella fino a quel momento attestata. In precedenza, Hohle Fels aveva restituito numerosi oggetti in avorio, ma mai figure antropomorfe. La Venere, inoltre, si presentava in ottimo stato di conservazione e, sebbene ritrovata in frammenti, è stata quasi completamente ricomposta, risultando priva solo del braccio e della spalla sinistri. Come accennato, la Venere di Hohle Fels è stata recuperata in un livello che si trova alla base del Sulle due pagine la Venere di Hohle Fels fotografata da varie angolazioni. Il reperto proviene dai livelli aurignaziani del deposito stratigrafico e risale ad almeno 35 000 anni fa.


deposito ascrivibile alla fase aurignaziana, proprio al di sopra dei livelli di argille sterili che separano questa porzione del deposito dai sottostanti strati riferibili al Paleolitico Medio. All’indomani dello scavo, campioni di ossa e di carboni provenienti da questi livelli sono stati sottoposti all’esame del radiocarbonio nei laboratori di Oxford e hanno fornito date comprese fra i 40 000 e i 31 000 anni fa circa. La Venere di Hohle Fels associa caratteristiche che la rendono unica nel suo genere, a particolari che la accomunano a immagini analoghe riferibili a orizzonti cronologici piú recenti. L’esecuzione di sculture e intagli in avorio lascia numerose tracce delle tecniche di lavorazione

adottate e tale circostanza, che ricorre anche nel caso della statuina appena scoperta, facilita il confronto con molti degli esemplari a oggi noti. Dal punto di vista dell’organizzazione spaziale della figura, si nota che il suo asse verticale corre parallelo a quello

piú lungo della zanna di mammut scelta per la fabbricazione del manufatto. Analizzando la struttura dell’avorio, è stato possibile osservare che le gambe della figura sono orientate in direzione dell’estremità prossimale della zanna, mentre le spalle sono allineate con quella distale (con tali termini si intendono, rispettivamente, la parte piú vicina e quella piú lontana rispetto al centro dell’elemento anatomico in questione). Tra le parti mancanti della figura vi è la testa, mentre è ben visibile, leggermente decentrato, un anello – rifinito con estrema cura – al di sopra delle spalle: la sua presenza potrebbe essere indizio del fatto che la Venere fosse stata concepita come elemento ornamentale, che fosse stata cioè

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In alto il cantiere di scavo nella Grotta di Hohle Fels. Il sito è noto da oltre un secolo, e le prime ricerche vi furono condotte nel 1870. Negli ultimi anni, Nicholas Conard ha ripreso le esplorazioni, effettuando scoperte di grande rilevanza nel campo dell’arte, come testimonia il ritrovamento di numerose figurine già prima della Venere. Nella pagina accanto, in basso particolare del braccio destro della Venere di Hohle Fels, con numerose linee incise.

utilizzata come pendaglio di collana. Nel suo insieme, la corporatura della Venere è asimmetrica, con la spalla destra piú alta della sinistra: entrambe sono definite in maniera abbastanza sommaria, mentre altrettanto non si può dire dei seni, grandi e prominenti. Non meno accurata è la lavorazione delle braccia e delle mani, che si incrociano al di sopra dello stomaco e delle quali si possono distinguere le dita.

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Correttamente posizionato e ben distinguibile è anche l’ombelico. Fra le particolarità che risaltano maggiormente, vi sono le numerose linee orizzontali incise sull’addome della statuina, nello spazio compreso fra i seni e il pube. L’osservazione al microscopio ha rivelato che linee sono state incise con grande energia, servendosi di uno strumento in selce acuminato e tagliente. A giudizio di Nicholas Conard, l’archeologo al quale si

deve il ritrovamento, tali segni potrebbero essere interpretati come la stilizzazione di una veste indossata dalla Venere o comunque da una sorta di rivestimento. Come già suggerito dai seni, anche la resa delle natiche e dell’apparato genitale – entrambi molto accentuati e di grandi dimensioni – dimostra il desiderio di sottolineare in maniera quasi esagerata la connotazione femminile della figura.


Altre linee, meno marcate di quelle precedentemente descritte, coprono quasi l’intera superficie del manufatto, ma nessuna di esse ha restituito tracce della presenza di pigmento derivanti dalla colorazione (parziale o totale) della Venere. Dal punto di vista stilistico, la marcata accentuazione dei tratti che connotano sessualmente la figura e, al contempo, le ridotte dimensioni della testa e delle gambe avvicinano la Venere di Hohle Fels a varie raffigurazioni europee databili al Gravettiano, cioè fra i 27 000 e i 22 000 anni fa. In particolare, la resa delle mani evoca l’esemplare piú celebre di questa classe di manufatti, vale a dire la Venere di Willendorf (vedi box alle pp. 108-109). Quella di Hohle Fels sarebbe, comunque, la «capostipite» di questo genere di raffigurazioni, e la sua scoperta ha aperto un orizzonte del tutto nuovo nello studio dell’arte preistorica,

La valle del fiume Ach, nel Giura Svevo (Germania): sulla destra, il costone roccioso nel quale si apre l’ingresso della grotta di Hohle Fels. I primi scavi nel sito ebbero inizio nel 1870 e, nel 2008, si è avuto il ritrovamento della Venere.

in quanto non solo ha spostato all’indietro le lancette di un fenomeno che si credeva di almeno cinquemila anni posteriore, ma ha posto le

comunità aurignaziane in una luce nuova, che sembra smentire l’asserzione secondo la quale la «scoperta» della terza dimensione va attribuita alla successiva cultura gravettiana. È peraltro interessante osservare come uno dei confronti suggeriti dalla Venere sia quello con la Grotta di Fumane, nei Monti Lessini, dalla quale proviene un ciottolo che reca l’immagine – dipinta – di un personaggio interpretato come uno sciamano (vedi nel primo capitolo, a p. 35) . Nonostante l’evidente diversità delle testimonianze, il sito italiano è stato citato dallo stesso Conard poiché riferibile al medesimo orizzonte cronologico e culturale della Grotta di Hohle Fels, insieme alla quale potrebbe quindi essere considerato come uno dei contesti che funzionarono da incubatrici di alcune delle piú antiche espressioni artistiche a oggi note. Stefano Mammini

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Era d’agosto...

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gli inizi del Novecento, Willendorf, località che si trova nello Stato federale della Bassa Austria (Niederösterreich), sulla riva sinistra del Danubio, un’ottantina di km a ovest di Vienna, era nota da tempo come importante stazione preistorica. Grazie all’impegno dell’ingegner Ferdinand Bruns, vi erano stati infatti recuperati strumenti in selce e reperti faunistici, provenienti da aree nelle quali erano state individuate chiare testimonianze della presenza di gruppi umani, come per esempio alcuni focolari. Le scoperte erano state segnalate all’allora Naturhistorisches Hofmuseum e, in particolare, all’archeologo Josef Szombathy (1853-1943), responsabile della sezione di antropologia e preistoria. Szombathy aveva mostrato fin da subito grande interesse per quanto veniva recuperato e, nel 1885, si recò personalmente a Willendorf, per rendersi conto della situazione e dell’entità dei ritrovamenti. Negli anni successivi i recuperi di materiale archeologico e paleontologico si moltiplicarono, tanto che nel 1908, il Naturhistorisches Hofmuseum decise di intervenire, organizzando una campagna di scavo di sei settimane – dal 29 luglio al 7

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La statuetta in pietra calcarea nota come Venere di Willendorf. Cultura gravettiana, 25 000 anni fa circa. Vienna, Naturhistorisches Museum.


settembre –, diretta dallo stesso Szombathy. E fu lui, il 7 agosto, a notare una statuetta in pietra calcarea fra la terra che gli operai stavano smuovendo. Lo studioso si rese subito conto dell’importanza del reperto: si trattava infatti del primo ritrovamento di una figura umana lavorata riferibile all’età preistorica, e sarebbero dovuti passare quasi quindici anni prima che altre «veneri paleolitiche»

venissero portate alla luce. All’indomani della scoperta, si cominciò quindi a guardare al sito austriaco come a uno dei piú importanti giacimenti paleolitici dell’intera Europa centrale. Subito nota come Venere di Willendorf, la figurina, che misura poco piú di 11 cm, si trovava in uno strato formato da sedimenti di loess, e gli studi piú recenti – basati sull’osservazione delle stratigrafie portate alla luce nel

In alto Josef Szombathy, lo scopritore della Venere di Willendorf, osserva la sua «creatura». A sinistra, in alto uno schizzo di Szombathy, nel quale sono annotate le aree da lui indagate (in verde) e le vecchie demolizioni (in rosso). A sinistra, in basso Willendorf. L’area in cui, il 7 agosto 1908, venne rinvenuta la figurina femminile subito ribattezzata con il nome della dea dell’amore.

corso di nuovi interventi di scavo condotti nel sito –, confermandone l’attribuzione al Gravettiano, una delle principali culture del Paleolitico Superiore, ne hanno fissato la datazione intorno ai 25 000 anni da oggi. Dal punto di vista culturale, la Venere è dunque figlia del suo tempo: nel Gravettiano, infatti, sono attestate varie figurine femminili, provenienti da siti compresi in un’area molto vasta, che abbraccia l’intera Europa occidentale e si estende fino alla Siberia. Stefano Mammini

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vennero in luce frammenti di una sorta di burattino snodabile fatto in avorio di mammut: il torso con i capezzoli e l’indicazione del sesso, un braccio e un volto con arcate sopracciliari, naso e mento ben sagomati. All’altezza delle ascelle, il torso reca due cavità per l’articolazione, per mezzo di inserti, delle braccia. Le gambe, che dovevano essere anch’esse articolate, mancavano.

In basso Collana di elementi in avorio, con pendente centrale, rinvenuta in una sepoltura infantile, sul petto del defunto, da Mal’ta (Siberia). San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.

L’arte negli insediamenti L’arte «mobiliare» (dal francese mobilier, portatile) definisce l’insieme delle statuette, degli utensili e ornamenti in pietra, in calcare, in ceramica o in avorio, che si rinvengono negli accampamenti dei cacciatori del Paleolitico Superiore, databili fra i 30 000 e i 10 000 anni fa. Per chi ama gli inventari, si tratta di: perline, pendagli, rondelle, spilloni;

Sebbene piú rare, anche nell’arte mobiliare non mancano immagini di esseri ibridi, tra uomo e animale

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altri oggetti sagomati ritagliati da osso o corno di renna; lastrine di pietra o di osso con finissime incisioni geometriche di figure umane e animali; armi e utensili (punteruoli, propulsori per aste, arpioni e zagaglie, bastoni forati, spatole), il tutto spesso fittamente decorato con incisioni piane, figure intagliate a rilievo, in qualche caso anche a tutto tondo; statuette antropomorfe e animali in pietra, osso, corno, avorio, e in argilla cruda e cotta. Infine, esattamente come nelle pitture parietali, non mancano poche, ma straordinarie immagini di ibridi tra uomo e animale. «È possibile che tutte queste opere siano dettate da preoccupazioni d’ordine magico: si poteva credere che una zagaglia adorna di renne colpisse la selvaggina meglio di un’altra. Ma è anche verosimile che l’artista abbia lavorato solo per il piacere, che l’arte sia passata dalla vita religiosa in quella quotidiana, senza alcuna netta demarcazione»: cosí André Leroi-Gourhan parlava di quest’arte spesso miniaturistica, che sembra esplodere nelle fasi centrali e tarde del Paleolitico Superiore.

Vari gradi di accuratezza I manufatti venivano abbandonati nei residui della vita quotidiana degli accampamenti, ma a volte erano deposti con cura in pozzetti scavati ai margini delle aree di lavoro, come le zone di cottura del cibo, o le aree di scheggiatura della selce o dell’avorio di mammut. Le creature che vi figurano, rappresentate con vari gradi di accuratezza, e a volte con tratti quasi caricaturali, sono le stesse che campeggiano sulle pareti delle grotte, ma le persone che le fabbricavano, e che ne percepivano le fattezze, forse non erano le stesse. Lo strumentario necessario per queste industrie apparteneva al novero della quotidianità. Lamelle in selce, bulini (lame e

In alto dritto e rovescio di una placchetta in avorio, rinvenuta in una sepoltura infantile, da Mal’ta (Siberia). San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. La superficie è decorata su una faccia con spirali puntiformi e sull’altra con coppie di linee ondulate, interpretate come rappresentazioni di serpenti.

schegge modificate in punta per ricavarne angoli concavi, come gli strumenti d’acciaio oggi usati per incidere il legno e i metalli), raschiatoi per grattare, pietre abrasive per levigare erano usati ogni giorno per fabbricare semplici punteruoli e punte di proiettili. Sabbie e le stesse ceneri dei focolari potevano fungere da abrasivi per levigare. Un velo di polvere d’ocra (la terra ricca di ossidi di ferro usata per lavorare le pelli), se sparso sulle incisioni piú sottili, aveva il potere di visualizzare immediatamente, sulle superfici piane dell’osso e dell’avorio, intricate geometrie e fluide sagome di uomini e bestie. Tra i siti piú ricchi di questa straordinaria arte portatile vi sono quelli russi di Mal’ta, sul

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fiume Angara, a occidente del lago di Baikal, nell’attuale oblast (regione) di Irkutsk in Siberia, e il raggruppamento di Kostienki nell’oblast di Voronez, sempre in Russia, sulle rive del Don. Incise sui manufatti in avorio provenienti da questi siti, come in quelli della Moravia, corrono ripetizioni di segmenti paralleli, distese di angoli, linee ondulate e meandri curvilineari, sequenze continue di linee a zig zag, bande divise in metope riempite con puntini, motivi a scacchi, campiture di semilune e di reticoli di esagoni. Nei siti russi e siberiani, simili decorazioni si vedono anche sulle figurine femminili, il che ha suggerito la possibilità che queste geometrie puramente astratte fossero simbolicamente legate alla sfera femminile.

Mappe per i nomadi?

AVORIO A PROFUSIONE Restituzione grafica (a sinistra) e ricostruzione ipotetica di una sepoltura da Sungir (Russia), che conservava gli scheletri di un ragazzo e di una ragazza, deposti testa contro testa in mezzo a numerose lance o scettri in avorio. I defunti erano vestiti, verosimilmente, con pellicce, ricoperte di migliaia di perline in avorio e di alcune decorazioni. Vladimir, Museo Nazionale.

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Alcune composizioni che deviano in modo significativo dalle forme piú comuni di simmetria sono state identificate come «mappe geografiche», capaci di guidare le bande nomadi o seminomadi nei loro percorsi. Lo studio tecnico delle catene operative degli ornamenti in avorio, calcare e steatite permette ricostruzioni dettagliate delle sequenze produttive, che per gli oggetti piú piccoli, come pendenti e perline – in larga misura pensati come applique di ricche vesti –, avevano gli inconfondibili caratteri di una produzione seriale, o addirittura «proto-industriale». Quanto alla destinazione di queste industrie, molti ornamenti dovevano essere destinati ai defunti. Una delle sepolture paleolitiche scavate a Sungir, alla periferia della città di Vladimir, 190 km piú a est di Mosca, vecchia di 28 000 anni, conteneva quasi 3000 perline d’avorio e 25 bracciali dello stesso materiale, mentre il capo del defunto era ornato da una cuffia fatta di canini di volpe artica. Su questa tomba era poggiato un cranio femminile adagiato su un letto di ocra rossa. Nelle immediate vicinanze, allungati testa contro testa, giacevano i resti di un ragazzo e una ragazza. Lo scheletro del primo recava quasi 5000 perline di avorio; il defunto aveva


Restituzione grafica (a sinistra) e ricostruzione ipotetica di un’altra sepoltura, maschile, da Sungir (Russia). Gli abiti del defunto erano ricoperti di migliaia di perline di avorio. Vladimir, Museo Nazionale.

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inoltre uno spillone d’avorio nei capelli, e una cintura fatta di 250 canini di volpe. La stessa fossa conteneva anche una statuetta di mammut e una di cavallo, sempre in avorio; a lato dei due scheletri giacevano lunghe aste, forse «scettri», scolpiti nell’avorio di zanne. La ragazza indossava, come il suo compagno, un copricapo di perline (ben 5300), uno spillone e dischi lavorati a giorno, sempre in avorio.

«BASTONI DI COMANDO» In alto bastoni forati ricavati da palchi di corna con figure incise di pesci e di un cavallo (sopra) e di un cavallo al galoppo (sotto), da La Madeleine (Dordogna, Francia). Londra, The Brisith Museum. Qui sopra e qui sotto ricostruzioni grafiche di ipotesi formulate sull’impiego dei bastoni forati: potrebbe trattarsi di propulsori per armi inastate eiettabili oppure di utensili per la rifinitura della parte acuminata delle armi da caccia.

Personaggi di rango Sepolture di personaggi speciali come questi, che certamente occupavano posizioni molto visibili nella propria comunità, richiedevano il lavoro dedicato e paziente di persone particolarmente abili, specializzate nell’intaglio e nella perforazione degli ornamenti. I defunti di Sungir, come quelli di altre deposizioni coeve (in Italia pensiamo alle sepolture delle Arene Candide o a quella della «Donna di Ostuni», in Puglia), sono cosí carichi di ornamenti di materie prime animali che sembrano sprofondare in una soprannaturale comunione con le stesse realtà animali delle pareti delle grotte e dell’arte portatile. Gli studiosi hanno calcolato che per fabbricare i corredi funebri dei tre morti di Sungir furono necessarie almeno 9000 ore di lavoro. Che l’importanza del rango fosse dovuta ad

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ascrizione familiare, piuttosto che a particolari qualità degli individui, è dimostrato da sepolture relativamente ricche riservate a bambini, scoperte in altre località. Alcune società paleolitiche, quindi, erano già parzialmente gerarchizzate. Placche d’osso, zanne, frammenti di palco di renna, lastrine e ciottoli piatti calcarei mostrano frequentemente, incise a varie profondità o a


lieve rilievo, piccole figure animali, impregnate dello stesso stile e – particolarmente nei siti preistorici d’Occidente – degli stessi modi di disegnare della grande arte parietale. A volte gli animali vi sono tracciati velocemente, con una semplicità di linee e, allo stesso tempo, un’efficacia disarmante; in altri casi, le immagini potevano essere leggermente abbozzate prima dell’incisione. I supporti erano accuratamente preparati in vista del progetto grafico scelto. Alcune figure mostrano una competenza che poteva essere stata acquisita solo con anni di esperienza, e altre possono invece essere attribuite ai novizi. Tra gli oggetti piú splendidi dell’arte parietale del tardo Paleolitico Superiore vi sono i cosiddetti bastoni perforati intagliati in palco di renna, noti in Francia come bâtons de commandement («bastoni di comando»):

ANTICHI PREDATORI Statuette in avorio raffiguranti un grosso felino, decorato sul fianco con un motivo a diamante (qui sotto) e un leone delle caverne (in basso), dalla Grotta di Vogelherd. 40-30 anni fa. Tubinga, Museum der Universität.

decorati con particolare cura e intensità con figure animali a rilievo o anche a tutto tondo, sono stati considerati a lungo come scettri. In realtà, il loro uso è sconosciuto: forse servivano per raddrizzare le aste lignee, o potevano avere la stessa funzione dei propulsori per lance (chiamati atlatl nell’archeologia delle Americhe), figurati in modo altrettanto vistoso. La diffusione di simili arnesi, in qualche modo legati alla caccia, nei millenni del ritiro dei ghiacci, suggerisce che fossero utilizzati nei boschi di latifoglie e nelle zone circostanti, che iniziavano a proliferare oltre il fronte dei ghiacciai.

L’acqua e i bersagli Nel generale realismo delle rappresentazioni animali, non mancano segni convenzionali che possono aver svolto la funzione di ideogrammi. In qualche oggetto dell’arte portatile certe figure recano di fronte al muso, o su di esso, serie di tratti paralleli o divergenti, che per alcuni indicherebbero l’alito dell’animale: per esempio, fitte ripetizioni di tratti obliqui presso le narici di uno stambecco potrebbero indicarne l’annusamento dell’aria. Fitte campiture a punti indicano il pelo corto, segmenti verticali tracciati sui dorsi sembrano indicare ferite, gli ovali possono essere letti come «acqua». Altri segni sono stati interpretati come «bersagli» tesi a creare un legame psicologico tra l’osservatore e l’oggetto dei suoi desideri. Linee di punti si vedono a volte intorno alle figure animali, ma anche sulla testa della Venere di Dolní Vestonice (vedi oltre). I punti potrebbero riferirsi a precisi stati psichici: essere all’erta per gli erbivori, «pensieri» per le immagini umane. La ricerca preistorica francese conosceva da tempo una categoria di oggetti in osso databili al Paleolitico Superiore che recavano serie di fitte tacche incise. Venivano chiamati marque de chasse e qualcuno proponeva che

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fossero stati utilizzati per contare gli animali uccisi nelle battute di caccia. Nel 1961, il geologo belga Jean de Heinzelin de Braucourt (1920-1998), nel corso di scavi sulle sponde del Lago Eduardo (nella Rift Valley, al confine tra Repubblica Democratica del Congo e Uganda), stava mettendo in luce, nella località di Ishango, i resti di un villaggio preistorico di pescatori che risaliva a 11 000 anni fa. Tra gli oggetti si trovava un osso di babbuino interamente coperto da tre colonne di sottili incisioni parallele. Era il manico di uno strumento per incidere, dato che all’estremità recava infissa una scheggia di quarzo. Contando le serie di incisioni sulle tre colonne parallele, de Heinzelin giunse alla conclusione che le sequenze erano dovute a una sorta di attenzione proto-matematica. I segni, infatti, sembravano seguire «una forma di regolarità. I gruppi di tre e sei tacche sono molto ravvicinati. Dopo una spaziatura, compaiono gruppi di quattro e otto incisioni, anch’esse ravvicinate (...) dopo le quali, sempre dopo un’interruzione, viene il 10 seguito, immediatamente dopo, da due 5. Queste regolarità sembrano indicare che l’incisore conoscesse il concetto della duplicazione, tramite moltiplicazione per due. Anche se è sempre possibile che si tratti di coincidenze». Solo un anno piú tardi, nell’estate del 1962, Alexander Marshack (1918-2004), un giornalista televisivo americano, iniziò indipendentemente a percorrere la stessa pista. Aveva cominciato a collaborare con l’astrofisico Robert Jastrow, del Goddard Space Flight Center, alla scrittura di un nuovo libro. I due volevano collocare il programma spaziale americano sullo sfondo dell’evoluzione umana e della storia della scienza, anche attraverso la storia della matematica. Studiando per la prima volta i manufatti del Paleolitico, Marshack si imbatté in numerosi reperti in pietra, osso e avorio del repertorio di arte portatile del Paleolitico Superiore che, come l’osso di

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In basso l’osso di Ishango, un perone di babbuino che presenta sottili intagliature realizzate secondo una precisa sequenza e una scaglia tagliente di quarzo innestata su una delle estremità. 20 000-18 000 anni fa.

Ishango, erano interamente ricoperti di fittissime sequenze ordinate di sottili linee, tratti e punteggiature. Alcuni di questi manufatti appartenevano a oggetti dissepolti nel secolo precedente nella Francia meridionale, databili a piú di 30 000 anni fa. In precedenza, non vi si era prestata grande attenzione; tutti infatti discutevano delle pitture parietali o delle «Veneri» attribuite allo stesso periodo, e opere di questo genere erano considerate esempi di tracciature casuali o caotiche, semplicemente dettate dall’inattività e da un non meglio precisato impulso a decorare quasi ossessivamente gli spazi vuoti delle ossa e delle zanne di mammut. Non era difficile, del resto, immaginare le famiglie dei cacciatori imprigionati dalla furia di neve e ghiaccio per settimane o mesi nelle proprie abitazioni, intenti a «scribacchiare» per ore e ore (se cosí si può dire) su ciò che poteva essere inciso.

Tacche, punti e semilune Come de Heinzelin, Marshack cominciò a classificare, con l’aiuto di lenti e microscopi, la forma esatta, la profondità e la direzione di ogni segno, e quindi a contare, con tutta la pazienza del caso. Uno dei suoi primi studi si concentrò su una placca d’osso trovata nel sito dell’Abri (riparo) Blanchard, in Dordogna, datato, appunto, al periodo aurignaziano. La placca conteneva una sequenza di 69 punti circolari e a semiluna, che si svolgeva in una sorta di doppia spirale. Sui margini e sul retro della placca, altri insiemi di tacche e punti portavano il conto totale delle notazioni a 177. «Illuminato», è il caso di dire, da tale luce lunare, Marshack vi riconobbe le variazioni nel cielo del disco del nostro satellite, per un computo che abbracciava sei mesi, cioè un mezzo anno, o un ciclo di due stagioni. Il giornalista si chiese quali fossero, in questo caso, le relazioni dell’ipotetico «calendario lunare» con le immagini femminili, le vulve e gli animali che comparivano nelle altre grotte


terminava con una semiluna, e che ciascun sottogruppo minore esprimeva una fase lunare». Negli anni che seguirono, Marshack sviluppò le sue ipotesi, analizzando centinaia di reperti paleolitici e valutando anche l’esposizione di ripari e grotte al cielo stellato nelle varie stagioni: «I percorsi del sole attraverso la volta celeste nelle varie stagioni, come le fasi della luna e la posizione del sole sull’orizzonte nelle varie stagioni non variavano. Se una famiglia usava un riparo per alcuni anni, anche solo come temporanea residenza per i mesi invernali (...) la correlazione dell’angolo del sole con le stagioni del freddo piú pungente, i giorni piú brevi, la lontananza delle mandrie, prima del ritorno della stagione mite non potevano essere ignorati». della Dordogna. Ed è importante notare che il possibile significato astrale delle ossa incise sia emerso nel corso di una stretta collaborazione con un astrofisico. L’analisi di una piastra d’osso simile, proveniente dall’Abri Lartet, nella stessa regione e piú o meno coeva, corroborò la certezza di Marshack dell’essere nel giusto. «I risultati, dopo lunghi giorni d’analisi e di lavoro – scrisse l’autore nella sua pubblicazione piú importante, The roots of civilization, pubblicata nel 1991 – furono anche questa volta sorprendenti. Vi era una quasi perfetta sequenza e scansione delle fasi lunari – perfetta, con i limiti di un sistema di osservazione notazionale concepibili in un computo non aritmetico. I test indicano che ciascuna somma di linee, su entrambe le facce della placca, iniziava e

In alto e qui sopra un’immagine della placca d’osso rinvenuta nell’Abri Blanchard (Francia) e la sua rappresentazione grafica con schema esemplificativo dell’ipotesi, proposta da Alexander Marshack, che i segni sulla superficie rappresentino un calendario lunare. Periodo aurignaziano.

Ipotesi affascinanti ma controverse Il lavoro di Marshack è impressionante per la mole dell’analisi e della documentazione prodotta, e ha indubbiamente aperto finestre inaspettate e affascinanti, che sarebbe sciocco ignorare. Tuttavia, le sue conclusioni sono molto controverse. Archeologi e antropologi lo hanno accusato di aver trasformato le sue ricerche in una sorta di ossessione, con la quale ogni linea di tacche o punti poteva essere ricondotta in qualche modo a un calendario; e di ignorare sistematicamente, d’altra parte, i punti e i casi nei quali i conti non tornavano. Si è anche obiettato che le variazioni nella larghezza e forma dei punti potevano dipendere dalla graduale consunzione delle punte usate per incidere, piuttosto che dalle intenzioni

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In questa pagina diverse vedute di una statuetta in avorio raffigurante un bisonte, colorata con un pigmento ocra. Zaraysk, Museo statale di storia, architettura, arti e archeologia del Cremlino di Zaraysk. Le zampe furono rotte prima di seppellire la statuetta.

dell’incisore. Per molti, gli studi di Marshack e il suo audace viaggio intellettuale dal giornalismo all’archeologia del Paleolitico ha dimostrato come, dalla nostra limitata finestra di osservazione del passato, le categorie di «notazione numerica», «decorazione» e «arte» siano sovrapposte in modo quasi inestricabile. Il fatto che «i Maddaleniani modellavano anche l’argilla» era rimasto scolpito, nella mente collettiva degli archeologi, nelle forme dei grandi bisonti del Tuc d’Audoubert. Ma nessuno era preparato a quanto avrebbe scoperto, in alcune remote e nebbiose colline

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della Moravia, a poca distanza da Brno (allora in Cecoslovacchia), Karel Absolon (1877-1960), archeologo, paleontologo e speleologo, considerato un gigante degli studi preistorici del Paese centro-europeo. Negli anni dell’università, a Praga, si dedicò a importanti esplorazioni del complesso carsico moravo, nei pressi della Grotta di Punkva, spingendosi nel cosiddetto abisso di Mococha, una cavità profonda 138 m, prodotta dal crollo del tetto roccioso di un’immensa caverna. Absolon seguí il flusso sotterraneo del fiume Punkva, scoprendovi grandi caverne. Nel 1907 divenne curatore del Museo della Moravia a Brno e fu nominato professore di paleoantropologia a Praga nel 1926. Il suo nome è indissolubilmente legato alle importanti scoperte fatte nel sito di Dolní Vestonice (in tedesco, Unter-Wisternitz) una


La rinascita dell’uomo-leone

L

a casa dell’uomo-leone (Löwenmensch) era un profondo antro nella grotta di Stadel, presso Hohlenstein, sulla riva destra del fiume Lone, non lontano da Ulm, nella Germania sud-occidentale. Alla fine dell’agosto 1939, il professore di anatomia Robert Wetzel e il geologo Otto Völzing inscatolarono una massa indistinta di circa 200 frammenti di avorio di mammut recuperati dalla grotta che stavano scavando. L’idea era quella di riguardare con calma i frammenti in tempi migliori. Dopo la guerra, la scatola arrivò a Ulm, dove Joachim Hahn (1942-1997), studioso

tedesco specializzato nell’archeologia del Paleolitico Superiore, si accorse che molti frammenti combaciavano, e gradualmente si ricomponevano in una figura antropomorfa in piedi, alta 30 cm, scolpita in un segmento della parte terminale di una zanna di un giovane mammut. Nel laboratorio di restauro, la figura risorse, pezzo per pezzo, per circa vent’anni, fino a quando divenne chiaro che si trattava di una figura umana eretta con le braccia (o zampe) sui fianchi, e la testa di leone. Il rapporto proporzionale tra testa e corpo, nonché la forma degli arti posteriori, suffragano infatti l’impressione di un corpo umano, piuttosto che di quello di un felino eretto sulle zampe. Repliche sperimentali dell’opera indicano che la sua scultura, per mezzo di strumenti in pietra, può aver richiesto non meno di due mesi di lavoro. L’investimento in tempo e fatica suggerisce che l’uomo-leone avesse un significato particolare per il gruppo, ma che si trattasse di un simbolo favorevole di aggressione e forza, oppure della proprietà di un temuto sciamano, non si può sapere. Due immagini del «Löwenmensch» o «uomo-leone», statuetta in avorio rinvenuta nella grotta Hohlenstein-Stadel (Germania). Periodo aurignaziano. Ulm, Museo di Ulm.

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sperduta località dell’odierna Repubblica Ceca, nella Moravia meridionale, ai piedi del versante settentrionale dei monti Pavlovské. A partire dal 1924, Karel Absolon vi condusse ripetute campagne di scavo, scoprendo i resti di capanne di cacciatori del Paleolitico Superiore, databili, col metodo del radiocarbonio, fra i 30 000 e i 25 000 anni fa. Vennero in luce, tra vasti letti di ossa animali lasciati in posto e almeno due grandi capanne con focolari, migliaia di strumenti in pietra scheggiata e centinaia di statuette in terracotta di diverse specie di animali, tra cui orso, leone, mammut, rinoceronte, cavallo, renna, ghiottone, volpe; migliaia di frammenti piatti e di palline, sempre in terracotta; altre statuette, soprattutto femminili stilizzate, anch’esse modellate in terracotta o scolpite in avorio. Nel corso degli anni, a Dolní Vestonice furono rinvenute anche diverse sepolture: nel 1927 quella di un bambino, nel 1949 quella di una donna, e, nel 1986, una triplice sepoltura, datata a 26 000 anni fa circa, di tre individui maschili. Insieme al vicino sito di Pavlov, scavato nel 1952 dall’archeologo cecoslovacco Bohuslav Klima, nella località si sono contati, alla fine, piú di 10 000 oggetti in terracotta.

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Lo stile delle figurine animali (soprattutto i mammut, gli orsi e i leoni) mostrava un’innegabile affinità con i contorni delle immagini degli stessi animali, come esse comparivano nella grande arte parietale delle grotte dell’Occidente.

Una Venere in terracotta L’accampamento di Dolní Vestonice ha dunque provato la presenza di ceramica nel Paleolitico Superiore. Nel sito sono stati trovati i resti di non meno di due fornaci per la cottura degli oggetti, una delle quali ancora provvista della volta originale. Una fornace era stata scavata al centro di una capanna che sorgeva ai margini del campo e che, essendo circondata dai resti di centinaia di figurine frammentate e altri manufatti in terracotta, viene oggi identificata con la sede di un artigiano (o di un’artigiana) che forse aveva anche compiti sciamanici. Il manufatto piú celebre di Dolní Vestonice è però una figurina femminile di «Venere», alta 11 cm e larga poco piú di 4 alla vita. Fu trovata il 13 luglio del 1925 in uno strato di cenere, spaccata in due frammenti, accanto a uno degli impianti usati per cottura, insieme a centinaia di piccoli manufatti in terracotta.


Scultura in avorio raffigurante una coppia di renne che nuotano, ricavata intagliando una zanna di mammut, da Montastruc (Bruniquel, Francia). Periodo maddaleniano. Londra, The British Museum.

Lo stile è lo stesso di molte altre «Veneri» gravettiane scoperte in Francia, Italia e Germania: il volto assente, non caratterizzato; la forma complessiva del corpo, resa nettamente romboidale dall’espansione del bacino; i seni e i glutei sproporzionati, a rivelare un forte interesse per l’aspetto sessuale e riproduttivo del corpo femminile. Ma il materiale costitutivo della figurina – ceramica, appunto – era unico, e giunse come il famoso fulmine a ciel sereno. In Francia – la piú prestigiosa sede accademica di studio sul Paleolitico europeo –, infatti, nessuno aveva mai trovato immagini del genere, né aveva sospettato che la ceramica fosse stata inventata con un anticipo di oltre 20 000 anni rispetto alla comparsa della stessa tecnologia nelle terre del Vicino Oriente antico.

Quasi un’autocensura Possiamo immaginare l’imbarazzo di Absolon: l’evidenza era innegabile, ma l’archeologo era molto attento a non urtare opinioni e teorie dei suoi colleghi specialisti di preistoria, che incontrava regolarmente in occasione di congressi, in patria e altrove, e che gli garantivano il facile accesso a sedi di

pubblicazione internazionale. Scelse perciò di sminuire l’importanza della sua bellissima Venere e, pur senza disporre di prove scientifiche, scrisse che si trattava di una figurina cotta al sole, oppure a basse temperature, aggiungendo, forse per rendere la circostanza piú «magica», che l’argilla era stata impastata con grasso di mammut, e conteneva schegge d’avorio. Descritta in questi termini, la Venere di Dolní Vestonice viene ancora brevemente menzionata in molti manuali di preistoria, mettendo implicitamente in disparte la nozione della reale antichità dell’invenzione della ceramica. Alla metà degli anni Ottanta, un gruppo di studiosi cecoslovacchi e statunitensi, capitanati da Pamela Vandiver, della Smithsonian Institution, affrontò lo studio materiale della piccola scultura. Citiamo dal riassunto dell’importante articolo con il quale venne dato conto di quelle ricerche: «Composizione e mineralogia dei manufatti in ceramica sono gli stessi del suolo locale, il loess. È stato misurato un range di temperature di cottura variabile tra 500 a 800 gradi centigradi comparabile a quelli dei focolari e delle fornaci trovate nel sito (...) Le

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fratture mostrano i segni di shock termico, sebbene l’espansione termica del loess sia limitata. La fabbricazione, la cottura, e a volte l’esplosione intenzionale delle figurine sembra essere stata la funzione primaria delle ceramiche in questo accampamento, piuttosto che la creazione di oggetti portatili e permanenti». Di grasso d’elefante e schegge d’avorio, alla prova dei fatti, non vi era alcuna traccia. Dell’innovazione tecnica principale (fornaci e ceramica), fu data una possibile spiegazione magica: l’esplosione di centinaia di figurine animali in terracotta durante la cottura poteva essere stata intenzionale, per trarne pronostici e auspici favorevoli per la caccia (di qui, l’interpretazione sciamanica di questa attività, sulla linea delle interpretazioni originali dell’abate Breuil). L’attività archeologica di Karel Absolon non fu esente da critiche: il sito era stato indagato scavando profonde trincee esplorative, ampie, nella maggioranza dei casi, solo 2 m, ma molto profonde, che impedivano una visione allargata dell’accampamento preistorico. Inoltre

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Nella pagina accanto, a sinistra foto d’epoca che ritrae Karel Absolon (secondo, da destra) assieme ad alcuni collaboratori durante le indagini presso l’abisso di Machoca (Repubblica Ceca). 1921. In queste pagine la fronte, il retro e una visione superiore della Venere di Dolní Vestonice. Periodo gravettiano. Brno, Museo della Moravia.

l’archeologo aveva quasi sempre ignorato i complicati processi di formazione delle stratigrafie locali, il che lo portò a confondere livelli di occupazione di diversi periodi, né era solito stilare l’inventario dei reperti.

Titoli a effetto Un altro serio problema fu la gestione economica dei suoi costosissimi scavi, assai poco trasparente, e fu anche avanzato il sospetto che numerosi reperti provenienti dallo scavo fossero finiti in collezioni private, in patria e all’estero. Per i suoi articoli, Absolon scelse spesso titoli sensazionalistici, cosí da garantirsi una maggiore visibilità: «Una scoperta meravigliosa come quella della tomba di Tutankhamon»; «Una stupefacente Pompei paleolitica in Moravia»; «L’inizio di un safari al mammut, i cacciatori dell’antica età della pietra nell’Europa Centrale»... Scelta che gli inimicò molti colleghi. L’importanza dell’opera dello studioso ceco resta comunque indiscussa. In uno dei frequenti paradossi dell’archeologia, fino a che

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In alto ancora una foto d’epoca che mostra Karel Absolon (sulla sinistra) assieme ad un collega, davanti a un deposito di zanne di mammut. Nella pagina accanto Bohuslav Klima, responsabile degli scavi a Dolní Vestonice. 1986.

la Venere di Dolní Vestonice, anche per colpa del suo scopritore, è stata guidicata un’opera di scarsa rilevanza, si poteva vederla nel Museo di Brno. Oggi, che finalmente se ne intuisce lo straordinario significato, è stata sottratta alla visione pubblica, e viene mostrata solo in rare occasioni. Quanto a Karel Absolon, dopo aver vissuto con alterne fortune i tempi della gloria mediatica, dell’occupazione tedesca del suo Paese, la successiva liberazione e un graduale, forzoso allontanamento dalle scene preistoriche, riposa in una scenografica tomba nel cimitero storico della stessa Brno: è coronata dalla bocca di una grotta preistorica, con due zanne di mammut simbolicamente incrociate al suolo davanti all’ingresso.

Il tramonto dei cacciatori Con l’arretramento e lo scioglimento dei ghiacci dell’episodio di Würm (110 000-10 500 anni fa), iniziò a svanire un mondo basato interamente sull’ecologia delle regioni prospicienti i fronti nevosi. Il clima, dal Caucaso al complesso alpino, iniziò lentamente a farsi piú caldo e umido.

Le grandi mandrie di erbivori che avevano fornito universi ideologici e risorse alimentari ai cacciatori paleolitici, già messe alla prova da 30 000 anni di caccia intensiva e specializzata, si ritirarono verso nord ed est, mentre intere popolazioni e alcune specie animali si estinsero. Boschi di latifoglie presero gradualmente il posto di pendii di conifere, pozze periglaciali e steppe. L’uomo si adattò, trasformando le tecniche di caccia e allargando e diversificando il raggio delle sue attività di predazione e raccolta. Nel Vicino Oriente, nell’alta valle dell’Eufrate, e ben presto nel «corridoio levantino», che univa le pendici del Tauro alla Galilea, le ultime tribú territoriali di raccoglitori di grano selvatico e cacciatori di gazzelle gettarono i semi della sedentarizzazione dei villaggi e della rivoluzione agricola. Donne e uomini diminuirono gradualmente di statura, mentre le attività di raccolta e seminagione, affidate a donne, vecchi e bambini, come ai maschi adulti, creavano nuove idee di comunità e di pianificazione territoriale. Se, come è verosimile, la dipendenza dei gruppi dalla caccia comportava un generale predominio dei cacciatori maschi nelle gerarchie sociali, le nuove basi economiche contribuirono a riorganizzare radicalmente le società, e le donne possono aver segnato, nell’occasione, un punto a loro favore. L’arte abbandonò le grotte, e, con rare eccezioni, rifluí lentamente nella componente geometrica delle grandi tradizioni figurative precedenti, in un mondo di piccoli oggetti come ossa decorate e ciottoli dipinti o incisi a linee, meandri e punti. Della grande tradizione figurativa animalistica e del suo naturalismo rimanevano flebili tracce, come quelle osservate nell’arte della cultura natufiana del Vicino Oriente (dal sito eponimo di Wadi en-Natuf, in Palestina, n.d.r.). Almeno, questo era il quadro che gli archeologi preistorici avevano costruito per il Mesolitico (il periodo intercorso tra le fasi tarde del Paleolitico e l’inizio dell’agricoltura, in Europa protrattosi da 12 000 a 8000 anni fa circa).

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Con la scoperta di Göbekli Tepe e dei grandi complessi della valle di Urfa (Turchia), datati tra i 12 500 e gli 11 500 anni fa, il concetto di Mesolitico ha assunto significati completamente diversi. Nei circoli megalitici di Göbekli, altri animali, ora stilizzati in forme rigide, si stagliano isolati o in gruppi sulle

superfici di colossali pilastri a forma di «T» che si erigevano nell’ombra. Sulla testa di queste immagini compaiono gli stessi punti che Absolon per primo aveva visto sulla testa della Venere di Dolní Vestonice. Rarissime sono le figure femminili, le allusioni alla sessualità della donna, alle funzioni riproduttive, che invece riemergono con forza nell’arte del primo Neolitico del Vicino Oriente. Si è tentati di riconoscere in queste straordinarie costruzioni, dominate da rappresentazioni maschili e da inedite fusioni tra uomo e animali, l’ultimo «manifesto» del mondo ideologico delle bande dei cacciatori-raccoglitori del tardo Paleolitico, nel momento in cui tutto stava cambiando, e a ritmi accelerati: è nei momenti di maggiore crisi che si fanno sforzi inusitati per resistere al cambiamento. Ma questa è solo un’ipotesi, e, come si dice, soprattutto un’altra storia.

Verso un possibile epilogo Come scritto in precedenza, «in questa foresta di dubbi, nulla apparirà scontato o semplice». Questo excursus è iniziato mettendo a confronto due diverse prospettive sulla storia della mente umana dalla preistoria in poi: quella della mente estesa e quella di una pretesa «mente moderna». L’archeologia non può che trarre vantaggio dall’indagare i mille reticoli della mente estesa e le sue molteplici manifestazioni materiali, a volte del tutto inaspettate. Ma in che cosa

I PRIMI CERAMISTI? Figurine zoomorfe in ceramica, dall’alto: un orso, due teste leonine, un ghiottone, da Dolní Vestonice. Periodo gravettiano. Brno, Museo della Moravia. Al centro illustrazione artistica che ipotizza una ricostruzione dell’aspetto della capanna dove venivano realizzate le ceramiche di Dolní Vestonice.

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I primi vasi del mondo

A

ncora oggi è fortemente radicata l’idea che la ceramica sia stata inventata in età neolitica, vale a dire quando la stabilizzazione dei villaggi, resa possibile dall’agricoltura, comportò la necessità di avere a disposizione giare nelle quali immagazzinare i cereali. Le scoperte di Pavlov e Dolní Vestonice dimostravano che la ceramica, come principio e applicazione tecnica, risaliva a una età ben piú antica. Il successivo ritrovamento di altri manufatti in terracotta a Klisoura, in Grecia (30 000 anni fa), a Krems

«spina dorsale» dell’Eurasia: la grande distesa di steppe e pianure che dalle coste cinesi si spinge, senza soluzione di continuità, alle pianure ungheresi e ai confini orientali dell’Austria, dividendo il continente in due. Spetterebbe quindi alle bande nomadi dei cacciatori tardo-paleolitici, piuttosto che ai primi coltivatori del Vicino Oriente antico, la medaglia degli inventori di questa importante tecnologia; e, probabilmente, alle donne dei cacciatori. Malgrado il ritrovamento nei siti

In alto due vasi profondi in ceramica, dal sito di Hinamiyama (Giappone). Periodo Jomon Incipiente,11 000-7000 a.C. Tokyo, Tokyo National Museum.

Wachtberg, in Austria (25 000 anni fa), a Maininskaya, Siberia (16 500 anni fa), nella cavità di Vela Spila, in Croazia (16 000 anni fa) e in Giappone, dove figurine e vasi hanno un’età di almeno 13 000 anni, prova che quella della ceramica fu un’invenzione policentrica e ripetuta piú volte nel tempo. La direttrice della sua diffusione può essere stata la

moravi di Pavlov e Dolní Vestonice di centinaia di frammenti di terracotta piatti o concavi – che teoricamente potevano appartenere a contenitori di argilla cotta –, non erano venuti in luce vasi veri e propri. È bene sapere che la ricerca degli «oggetti piú antichi del mondo» è una sorta di competizione alla quale gli archeologi si dedicano

con piacere, ma durante la quale si viene spesso sconfessati. A oggi, i vasi piú antichi del mondo sono gruppi di frammenti di vasi di forma conica o cilindrica, rinvenuti in due grotte cinesi. Si tratta della grotta di Xiarendong, nella provincia dello Jangxi, e di quella di Yuchanyan, nella provincia dello Hunan, ai confini meridionali della Cina, datate tra i 20 000 e i 15 500 anni dalla nostra era. Le ceramiche sono state trovate nei resti di superfici abitative di cacciatori-raccoglitori intensivi di riso selvatico, prima dell’insorgere di qualsiasi forma di agricoltura. I vasi erano stati evidentemente creati come aiuto nelle attività di raccolta e preparazione di alimenti e bevande a base di riso e altri prodotti vegetali. L’invenzione di simili contenitori in terracotta, presso la cultura Jomon arcaica delle isole giapponesi, risale probabilmente a 16 000-15 000 anni fa, e le prime analisi suggeriscono che i vasi ceramici siano serviti a cucinare zuppe di pesce. Sia in Cina, sia in Giappone, sull’esterno dei vasi le prime decorazioni – la prima attenzione, se vogliamo, di tipo «artistico» – consiste in fitti motivi geometrici che ricordano da vicino la struttura delle fibre intrecciate dei cesti: il rivoluzionario medium della ceramica, insomma, non sappiamo se per essere piú facilmente accettato, si camuffava con le fattezze dei contenitori tradizionali, che erano in uso da decine di migliaia di anni.

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LE VENERI E L’ARTE MOBILIARE

consista esattamente tale mente moderna, ancora oggi non è dato sapere. Gli archeologi preistorici del passato – certamente i Gesuiti che abbiamo incontrato nel nostro breve viaggio nel Paleolitico –, ma anche lo stesso André Leroi-Gourhan, sottolineavano come punto discriminante dell’intelligenza umana la comparsa di un pensiero religioso, ricercandolo con difficoltà nel mondo preistorico dei cacciatori, sulla base di anacronistici confronti con mal conosciute popolazioni «primitive» del loro tempo. Oggi di religione si parla con molta maggior cautela. Tutti, in proposito, sembrano attendere le conclusioni degli scavi a Çatal Höyük e la parola dell’archeologo britannico Ian Hodder, che è tornato a esplorare il famosissimo tell della Cappadocia (Turchia),

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Göbekli Tepe (Turchia). Veduta degli scavi del circolo megalitico scoperto sul sito archeologico. Sullo sfondo, le luci della città di Urfa.

nel quale sono state trovate testimonianze ancora da decifrare, ma senza dubbio leggibili come espressioni figurative e simboliche di un arcaico sentimento religioso (VII millennio a.C). Nel frattempo, forse influenzati dal prodigioso incremento tecnologico della comunicazione globale, molti archeologi si rifugiano nell’idea che la mente moderna sia segnalata dalla comparsa di segni e simboli – siano essi i disegni colorati, le perline o le incisioni della «prima arte» – usati nelle società preistoriche come supporti mnemonici, come «unità di stoccaggio» oggettuali richieste da un crescente livello di comunicazione. Comune è anche l’idea di legare questo ipotetico salto di qualità alla diffusione, in Europa, degli umani anatomicamente


moderni (cioè noi). In realtà, seguendo questo criterio, come abbiamo visto, la traccia ci riporta all’indietro, ad antenati ben piú antichi; e per noi, come si è visto, è il linguaggio, nelle sue radici piú arcaiche, a segnalare la rottura piú rivoluzionaria nella manipolazione umana del mondo. Il nostro percorso suggerisce che forse non dovremmo attribuire alla nostra forma umana attuale alcuna «esplosione creatrice», né alcun «big bang culturale» legato alla produzione e alla condivisione di simboli visivi. Potremmo non essere noi i primi della classe. Perché le pitture dei Neandertal debbono valere meno dei disegni aurignaziani? Nessuno ha in tasca la bacchetta magica capace di illuminare oggettivamente passati tanto remoti, ma sembra piú probabile che l’incremento di comunicazione oggettuale e visiva del Paleolitico Superiore sia una questione di quantità e di fattori di conservazione, piú che di qualità. Nel frattempo, continuiamo a schierarci a fianco di Charles Darwin, il quale nell’Origine dell’uomo (opera pubblicata nell’ormai lontano 1871), con maggiore solidità scientifica e con grande senso della realtà, identificava la modernità, semplicemente, con la presenza di un senso morale. Come la intendeva il grande biologo, la moralità non era un valore astratto del quale

Ricostruzione ipotetica in cui si immagina il rito di deposizione dei morti all’ombra delle grandi stele scolpite, erette nei circoli megalitici di Göbekli Tepe.

PER SAPERNE DI PIÚ Le ormai «classiche» teorie di André Leroi-Gourhan sono ben esposte e illustrate nel libro I piú antichi artisti d’Europa. Introduzione all’arte parietale paleolitica, della collana «Le Orme dell’Uomo», Jaca Book (1983) che però al momento non è reperibile sul mercato. L’opera Preistoria. L’alba della mente umana (2011) di Colin Renfrew, pubblicata da Einaudi, è accessibile e consigliata per i ragionamenti dell’autore sugli aspetti cognitivi. Tra i testi piú tecnici, diretta da André Leroi-Gourhan e curata da Marcello Piperno è stata la pubblicazione dei due volumi del Dizionario di Preistoria, edito da Einaudi (1991). Importanti rimangono Introduzione al Paleolitico di Alberto Broglio (Laterza, 1997); dello stesso autore e di Janusz Kozlowski, Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Jaca Book, Milano (1986); il primo volume del Manuale di preistoria

autocompiacersi, e con il quale discriminare gli altri, ma la capacità umana di coordinarsi e collaborare nel nome dell’interesse superiore della protezione dei propri simili e della sopravvivenza del gruppo. Vi sono pochi dubbi che, da questo punto di vista, Homo sia moderno da almeno due milioni di anni: senza questa «preistorica modernità», non saremmo certamente qui. Cerchiamo dunque di restarci.

(1. Paleolitico e Mesolitico) di Daniela Cocchi Genik, Octavo, del 1994; il manuale universitario Paleoantropologia e preistoria. Origini, paleolitico, mesolitico, sempre della Jaca Book (1993). Piú recente, di Fabio Martini, è Archeologia del Paleolitico. Storia e cultura dei popoli cacciatori-raccoglitori, pubblicato da Carocci nel 2008. Aggiornamenti continui sulle scoperte compaiono sulla Rivista di Scienze Preistoriche (Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria o IIPP) e su Origini, altra rivista pubblicata dall’Università «Sapienza» di Roma. Nel 2012 sono usciti gli Atti della XLII Riunione Scientifica dello stesso IIPP sul tema L’arte preistorica in Italia, ospitati da un’altra prestigiosa rivista, Preistoria Alpina (Trento, MUSE). Il libro di Alexander Marshack, The Roots of Civilization, Moyer Bell Limited (1991) al momento si legge solo in lingua inglese.

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MONOGRAFIE

n. 24 aprile 2018 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 8/9, 18/19, 32, 35 (basso), 36-39, 64-65, 70, 88-89 – Doc. red.: pp. 6/7, 14, 16, 19-21, 27-31, 33, 34, 35 (alto), 43, 46-49, 52/53, 54, 55, 56-61, 63 (centro e basso), 68-69, 72, 74-77, 80, 84-87, 90 (basso), 91, 92, 94-101, 104-106, 107 (basso), 108-109, 116, 119-122, 125, 127-129 – da: Homo sapiens. La grande storia della diversità umana (catalogo della mostra), Codice edizioni, Torino-Azienda Speciale Palaexpo, Roma 2011: p. 13; De Agostini Libri-Novara 2011 e N4 Studio: cartine alle pp. 10/11, 14/15 – Alamy Stock Photo: pp. 10, 23, 26, 40/41 – Getty Images: Cristina Arias/Cover: p. 11; Sisse Brimberg & Cotton Coulson, Keenpress: p. 42; Jerôme Chatin/Gamma-Rapho: pp. 50-51; Sisse Brimberg/National Geographic: p. 71; Philippe Wojazer/AFP: pp. 72/73; Serge De Sazo/Gamma-Rapho: p. 78 (basso); Sovfoto/UIG: p. 124 – Stefano Mammini: pp. 22, 90 (alto) – DeA Picture Library: pp. 25 (alto), 66/67; G. Dagli Orti: pp. 24, 25 (basso), 81 – Caverne du Pont d’Arc: Patrick Aventurier: p. 62; SYCPA: p. 63 (alto) – da: Ice Age art. The arrival of the modern mind (catalogo della mostra), The British Museum Press, Londra 2013: pp. 73, 102 (basso), 103, 110-111, 114 (alto), 115, 118, 123, 126; Libor Balák: pp. disegni alle pp. 112-113; Stephen Crummy: disegni alle p. 114, 126 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée de la Préhistoire des Eyzies)/Franck Raux: p. 78 (alto); RMN-Grand Palais/Gérard Blot: p. 82; RMN-Grand Palais (Musée d’Archéologie nationale)/ Loïc Hamon: pp. 83, 117 (alto) – Landesamt für Denkmalpflege im Regierungspräsidium Stuttgart: H. Parow-Souchon: p. 107 (alto) –Cippigraphix: cartine alle pp. 44, 55 Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: Grotta di Lascaux (Montignac, Francia), Sala dei Tori. Particolare di una delle figure dipinte che danno nome a questa sezione del sito. Le pitture vengono datate alla cultura maddaleniana (Paleolitico Superiore), in un momento compreso fra i 17 000 e i 15 500 anni fa.

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