L’IMPERO ALLA CONQUISTA DEL MONDO
L’ARTIGLIERIA ROMANA: I SEGRETI DI UNA MICIDIALE MACCHINA DA GUERRA
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L’IMPERO
ALLA CONQUISTA DEL
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MONDO
N°26 Agosto/Settembre 2018 Rivista Bimestrale
ARCHEO MONOGRAFIE
LA M
AA M D A O N RACCHI RA R E U G
MONOGRAFIE
L’IMPERO ALLA CONQUISTA DEL
MONDO
L’ARTIGLIERIA ROMANA: I SEGRETI DI UNA MICIDIALE MACCHINA DA GUERRA di Flavio Russo, con contributi di Giovanni Brizzi, Filippo Donvito, Marco Di Branco e Andreas M. Steiner
6. Presentazione Al confine tra il bene e il male 8. Gli archetipi 8. Una rivoluzione venuta dall’Oriente 12. Kestrosphendone Quelle fionde molto «speciali» 18. Gastrafete La mossa del tiranno 25. Scorpioni e baliste Dalla Spagna con fragore 40. Balista di Hatra La piú potente di tutte 48. Innovazioni al tempo dell’impero 52. Cheiroballistra Quasi come un fucile 58. Variazioni d’autore 60. Armi di nuova generazione Perdendo s’impara 68. Onagro A colpi... d’asino 76. Armi sperimentali 77. Catapulta a molle di bronzo La catapulta di Ctesibio 84. Balista a molle d’aria Anche l’aria può uccidere 89. Catapulta a trazione Una tensione vincente 92. Teutoburgo Domani, nella battaglia... 108. Guerre partiche Uomini come macchine 118. Assedio di Gerusalemme Un’estate di fiamme e di sangue
ARTIGLIERIA
Rilievo raffigurante due frombolieri assiri impegnati in un assedio, da Ninive. 700-629 a.C. Londra, British Museum.
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AL CONFINE TRA IL BENE E IL MALE
A
ripercorrere il dipanarsi dell’evoluzione umana non è difficile constatare il ruolo basilare della guerra. Ed è altrettanto facile verificare come, oltre all’eliminazione del nemico di turno, la sua immutabile essenza consista nel reciproco scagliarsi contro quantità di energia crescenti, da distanze sempre maggiori. Si tratti del pugno inferto dal braccio, della piccola pietra scagliata dalla fionda pastorale o della sottile asticella di legno appuntita scoccata da un arco, di un vorticante boomerang o, ancora, della pallottola di piombo sparata dalla polvere pirica, la concezione non muta. Mutano, di volta in volta, l’entità della spinta, la distanza raggiunta, la massa del proiettile e, persino, la sua letalità: rimane però inalterato il criterio informatore dell’intera sequenza. Anche un vettore balistico con testata nucleare è pur sempre una quantità di energia – enorme nella fattispecie –, destinata a percuotere il contendente del momento, ovunque si trovi. Se millenni di avanzamento culturale non sono riusciti a superare tanta rudimentale contrapposizione polemologica, ma solo a renderla piú devastante, appare ovvio che proprio nell’evolversi delle armi si rintracci la storia della conoscenza e della tecnologia umana, nel bene e nel male, a partire dalle piú arcaiche, che, non a caso, hanno dato origine a una precisa disciplina d’indagine: l’oplologia (dal greco hoplon, l’armatura del fante greco, n.d.r.). Armi, senza dubbio, ma anche presupposto di tecnologia avanzata e stimolo frenetico per l’affinamento dell’indagine scientifica. Fra i dotti del Rinascimento, il matematico veneziano Giovanni Battista Benedetti (1530-1590) anticipò piú di chiunque altro la scienza moderna, tanto da poter essere oggi considerato come l’immediato predecessore di Galileo Galilei. Ma fu anche, e soprattutto, un artigliere, in quanto studioso della balistica. Lo stesso Galileo tradisce la frequentazione dell’Arsenale di Venezia quale stimolo per le sue ricerche teoriche. E come non osservare che il termine balistica deriva da balla, cioè da palla, non però da quella gigantesca sfera di pietra sparata dalle enormi bombarde medievali, ma da quella piú minuta e molto piú grezza tirata dalle baliste, nome anch’esso derivato dalla comune radice greca bàllein, scagliare il sasso! Studio di traiettorie e di gittate, si dirà, per meglio uccidere: certamente, ma anche studio della correlazione tra causa ed effetto, tra impulso e moto, tra energia e lavoro, tra macchina e fatica. Nell’antichità, il confine tra il male e il bene passò anche di qui...
Statua di balestriere facente parte dell’Esercito di Terracotta di Xi’an (Shaanxi, Cina), deposto nel grandioso mausoleo del primo imperatore cinese (Qin Shi Huangdi), al cui interno sono contenuti almeno 6000 guerrieri e resti di carri da battaglia. 221-210 a.C.
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GLI ARCHETIPI
UNA RIVOLUZIONE VENUTA DALL’ ORIENTE nell’evoluzione delle macchine ideate per scagliare proietti di varia dimensione e natura, la svolta decisiva fu la messa a punto di dispositivi che permettevano di controllare il momento del lancio. un’innovazione sperimentata per la prima volta nella lontana cina
N
é l’arco composito, né la fionda pastorale possono essere considerati come altrettanti archetipi delle due tipologie di artiglierie meccaniche, lancia-dardi, oxibole, e lancia-sassi, litobole, anche nel caso in cui siano munite entrambe di teniere (impugnatura). La vera novità
Particolare del dispositivo di sgancio della ricostruzione di uno scorpione romano di epoca imperiale.
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Ricostruzione grafica di una balestra cinese di epoca Han e, qui sotto, a destra, del suo dispositivo di sgancio.
In basso un dispositivo originale, in bronzo, e alcune punte dei dardi. 137-122 a.C. Guangzhou, Nan Yue Wang Gong Museum.
pacificamente, il tasto di un ascensore o di una lavatrice: in breve, di ogni macchina ad avviamento discrezionale.
Un segreto custodito gelosamente Per quanto è possibile appurare, il primo propulsore del genere – e che, senza dubbio, è anche il piú noto e ricorrente nella storia – fu la balestra, che, stando a un testo del XII secolo a.C., ebbe origine in Cina. Di notevole interesse risulta il dispositivo di scatto adottato sulla balestra dell’epoca Han (dinastia che resse l’impero cinese dal 206 a.C. al 220 d.C., n.d.r.) e gelosamente custodito dai suoi inventori. A oggi non si conoscono altre testimonianze
rivoluzionaria, infatti, non fu quel supporto, che può ritenersi piuttosto un ingegnoso accessorio, ma il dispositivo di sgancio, cioè il congegno che rende possibile attendere con l’arma carica il momento piú propizio per tirare, spostando semplicemente una leva o un ritegno, eliminando cosí ogni stress muscolare. Concettualmente, si tratta della stessa potenzialità del premere il grilletto di un’arma da fuoco, oppure il pulsante di lancio di un missile, o, piú
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GLI ARCHETIPI
Gian Lorenzo Bernini, David. 1623-1624. Roma, Galleria Borghese. Il giovane sovrano di Israele è ritratto mentre sta per abbattere Golia con un colpo della sua fionda.
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archeologiche o citazioni letterarie piú antiche ed è perciò ragionevole pensare che sia alle coeve civiltà asiatiche, sia a quelle europee la balestra fosse del tutto ignota. A Roma la sua presenza è documentata con certezza soltanto in epoca imperiale, quando l’arma è ormai da considerarsi il perfezionamento meccanico piú avanzato applicato a un’artiglieria elastica. La scelta di fissare all’estremità di un fusto-teniere un arco e di agganciare la sua corda a un arpione mobile consentí di attendere per il suo rilascio e, al contempo, di incrementare la rigidità dell’arco stesso e quindi il suo accumulo energetico, caricandosi tramite una apposita leva. Questo fu il prodromo della mutazione dell’arma, culminata a Siracusa negli ultimi anni del V secolo a.C., con l’invenzione della catapulta lancia-dardi. Sebbene la diffusione in Occidente della balestra vada collocata in età medievale e assegnata verosimilmente ai Mongoli, non si può escludere che già in epoca classica alcuni esemplari della segretissima balestra Han fossero giunti in Gallia, come sembra testimoniare un cippo funerario rinvenuto nel 1831 nella cripta della chiesa di Solignac-sur-Loire (Alta Loira, Francia), sul quale sono scolpite varie immagini, tra cui quelle di una balestra e di una faretra (oggi conservato nel Musée Crozatier di Le-Puy-en-Velay).
Come i pescatori Al pari dell’arco anche la fionda conobbe una variante dotata di teniere, volgarmente detta mazzafionda. Definita dai Romani fustibole, per molti aspetti miniaturizzava anticipandola di oltre un millennio il funzionamento del trabocco (o trabucco), macchina da guerra medievale simile a un grande onagro, destinato a lanciare pietre, cadaveri o proietti incendiari. In linea di massima, il fustibole consisteva in una fionda vincolata all’estremità di un bastone e si procedeva al lancio con un gesto analogo a quello di un odierno pescatore con la canna. Aumentando la lunghezza del braccio e della sua fionda grazie al bastone, la velocità angolare non mutava, ma cresceva
sensibilmente quella periferica, fin quasi a raddoppiare. Rispetto alla fionda tradizionale, l’accresciuta gittata, unitamente alla semplicità costruttiva, fecero del fustibole l’arma ideale per gli scontri navali. Che la fionda venisse fatta roteare a mano o tramite un bastone, cambiava soltanto la rispettiva gittata: poiché non era provvisto di alcun dispositivo di sgancio, il fustibole o la mazzafionda non potrebbero perciò essere classificati come altrettanti archetipi delle artiglierie litobole. Tuttavia, in epoca posteriore, si diffuse un’arma curiosa, che si deve ritenere derivata dal fustibole e che prese il nome, in greco, di kestrosphendone (vedi oltre, alle pp. 12-17).
In alto calco di un particolare del fregio della Colonna Traiana raffigurante guerrieri daci che lanciano palle di pietra con le fionde. Roma, Museo della Civiltà Romana.
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KESTROSPHENDONE
QUELLE FIONDE MOLTO «SPECIALI»
P
ochi anni fa, presso la cittadina abruzzese di Magliano dei Marsi, lungo la via Tiburtina Valeria – l’arteria piú importante che collegava Alba Fucens a Roma – i resti di un sepolcro monumentale sono stati attribuiti alla tomba apprestata per il re Perseo di Macedonia (212-165 a.C. circa).
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Sconfitto dal console Lucio Emilio Paolo nel 168 a.C., nella battaglia di Pidna, in Tessaglia, il sovrano era stato condotto prigioniero a Roma e quindi esiliato proprio ad Alba Fucens, dove morí pochi anni piú tardi, trovandovi, dunque, onorata sepoltura. La battaglia pose fine alla terza e ultima guerra macedonica per via della
Acquerello che ricostruisce un momento della battaglia di Pidna, combattuta nel 168 a.C. e vinta dal console romano Lucio Emilio Paolo contro Perseo, re di Macedonia.
disastrosa sconfitta subita dai Macedoni, ma fu vinta a caro prezzo dai Romani. In quello scontro risolutivo, infatti, tanto Livio (XLII, 65) che Polibio (XXVII, 11) evidenziano le forti perdite inflitte ai legionari da una nuova arma da lancio individuale, la kestrosphendone. Si trattava di un ibrido fra l’arco e la frombola, poiché del primo conservava la freccia, ma con la cuspide del giavellotto – in greco kestros, nome col quale i Romani la definirono brevemente – e del secondo la fionda, sempre in greco sphendone. In seguito dell’arma non si trova piú menzione e solo nel IV secolo ricompare qualcosa di simile, la plumbata, che
però non richiedeva alcun propulsore per il lancio. A differenza del kestros, oltre alla descrizione di Renato Flavio Vegezio, e dell’Anonimo del De rebus bellicis, ne sono stati rinvenuti numerosi esemplari, piú o meno mutili.
Un’arma micidiale Stando a Polibio, dunque, la kestrosphendone: «Era stata inventata durante la guerra contro Perseo. Aveva una cuspide di ferro lunga due palmi (pari a circa 15 cm), divisa in due parti uguali, un puntale e una gorbia. In questa si infilava un’asta di legno, lunga una spanna (23 cm circa) e spessa un dito (1,9 cm circa).
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KESTROSPHENDONE
A destra Magliano dei Marsi (L’Aquila). I resti del sepolcro attribuito a Perseo, lungo la via Tiburtina Valeria. Dopo la battaglia di Pidna il re macedone venne esiliato ad Alba Fucens, dove morí pochi anni piú tardi.
In prossimità del suo centro vi stavano fissate tre piccole alette di legno, molto corte. Le due corde della fionda erano di lunghezza diversa, e si collocava il dardo fra di esse per mezzo di una cintura, per liberarsi piú facilmente. Durante la rotazione, quando entrambe le corde erano tese, il dardo restava fermo, ma, al momento del lancio, una delle due corde si allentava e il dardo, violentemente espulso, partiva come una palla di piombo, e per l’energia del tiro, feriva profondamente chi incontrava nella sua corsa». Il racconto di Livio, a sua volta, cosí descrive la kestrosphendone: «Questa era un nuovo tipo di freccia inventata per questa guerra. Si trattava di un ferro di lancia lungo due palmi, montato su di un’asta di legno lunga un mezzo cubito (22,5 cm circa), e spessa un dito. Per conservare l’equilibrio era dotata di tre alette, come quelle che si mettono alle frecce: il dardo si poneva in mezzo a una fionda, che aveva due corregge di diversa lunghezza, mantenendolo in equilibrio nella maggiore
Qui sopra tetradramma in argento di Perseo di Macedonia, con l’effigie del sovrano al dritto. Zecca di Pella, 179-168 a.C.
delle due tasche della fionda; sfuggiva, quindi, per il movimento rotatorio impresso alla corda, e partiva come una palla». I due brani, per molti studiosi interdipendenti, concordano per un dardo lungo 38 cm circa, dei quali 23 per l’asta e circa 15 per la cuspide di ferro, alquanto piú lunga delle usuali, che non eccedevano la decina di cm. L’adozione della gorbia, una sorta di cono cavo in cui entrava l’asta che un ribattino passante bloccava, era una delle due modalità praticate per il fissaggio della cuspide, consistendo l’altra nell’infiggere nell’asta il lungo codolo terminale
la kestrosphendone Ricostruzione grafica del dardo di una kestrosphendone, un’arma da lancio utilizzata per la prima volta dall’esercito macedone nella battaglia di Pidna.
La cuspide del dardo (kestros) era in realtà una cuspide di giavellotto, quindi piú lunga e piú pesante con un alloggiamento per l’asta a gorbia, leggermente conico e spaccato per favorirne l’incastro.
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La gorbia bloccava l’asta in essa infilata mediante un ribattino, spesso di rame e quasi sempre passante, in rari casi solo penetrante. L’innesto doveva assicurare il perfetto allineamento tra la cuspide e l’asta e doveva risultare piú robusto che in un normale dardo per sopportare la sollecitazione laterale impressa dalla rotazione.
Gli impennaggi erano costituiti da tre alette sottili di legno, collocate in posizione piú avanzata rispetto alla coda dell’asta per meglio bilanciare la preponderanza della cuspide dell’arma durante il suo volo.
del puntale. La prima maniera risultava molto piú robusta, poiché non indeboliva l’asta con il foro longitudinale, ma, anzi, la rafforzava con quella sorta di collarino, ed era preferita per proietti di maggiore energia o, al contrario, di piccole dimensioni, incompatibili con il codolo. Le lunghezze medie del codolo, come della gorbia, possono reputarsi pari a quella del puntale, ovvero di circa 5-6 cm per le frecce, di 7-8 per i dardi di catapulta da un cubito.
Ipotesi e deduzioni Per la freccia in questione si ricavano 7,5 cm che, considerando la massa della punta, assicuravano una leggera preponderanza anteriore, ottimale per il corretto assetto di volo. L’asta, a sua volta, risulta di 19 cm, per una lunghezza complessiva di circa 30, compresi i 7,5 che, appuntiti, finivano nella gorbia. Circa le tre alette, fungenti da governali, sia Polibio che Livio le ricordano poste al centro, senza però precisare se dell’asta o dell’intera freccia. La razionalità porta a preferire la prima interpretazione, ritrovandosi altrimenti ad appena 4 cm dietro la cuspide, collocazione assurda per l’aerodinamica e il bilanciamento. Le alette, perciò, si sarebbero trovate a 10-12 cm dall’estremità posteriore dell’asta. Quanto al ribadirne la piccolezza, si deve immaginare relativa non alla loro lunghezza, ma alla larghezza, cioè a quanto esse fuoriuscivano dall’asta, che una serie di considerazioni porta a
La cuspide del dardo era inserita in un’apposita tasca di cuoio, fissata alla corda lunga C e alla breve corda di raccordo B. Questa, a sua volta, andava a unirsi alla corda corta A mediante una sorta di cappio, in cui era inserita la coda del dardo, che veniva perciò trascinato nella rotazione.
la tecnica di lancio
La corda lunga C, esattamente come nella fionda pastorale, era quella che, al momento del lancio, dopo la rotazione, veniva lasciata dal tiratore, facendo perciò aprire la fionda e partire il dardo per la sua tangente.
La corda corta A, diversamente dalla fionda, non terminava fissata alla tasca, ma a un anello o a un cappio nel quale si inseriva la coda del dardo fino all’impennaggio. Al momento del lancio, restava nella mano del tiratore, imprimendo cosí l’ultima spinta propulsiva.
In alto ricostruzione grafica di una kestrosphendone. A destra modalità di lancio del dardo della kestrosphendone.
La rotazione che la fionda impartiva al dardo serviva a imprimergli una sufficiente velocità iniziale, piú o meno analoga a quella impressa da un arco. Ma, a differenza di questo, non era fornita dalla cessione di energia potenziale elastica accumulata durante la messa in tensione precedente, ma dall’energia cinetica prodotta dalla velocità di rotazione.
C B
A
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KESTROSPHENDONE
stimare in un paio di cm, pari a quella delle penne delle tradizionali frecce. Il dettaglio, poi, che fossero di legno non deve ritenersi derivante da esigenze aerodinamiche, bensí meccaniche, di robustezza nel trasporto, evitando cosí la faretra. L’accorto dimensionamento della cuspide, metà al puntale e metà alla gorbia, la posizione delle alette e la lunghezza dell’asta, sembrano scaturire da una stringente condizione di equilibrio in fase di volo, indispensabile per il corretto assetto dopo il lancio per rotazione. Il peso complessivo è stato calcolato in circa 120 g, oltre il doppio delle frecce normali, peculiarità che sembra ricercata proprio con l’allungamento della cuspide.
Un’anomalia «logica» La fionda, che sarebbe piú esatto chiamare propulsore flessibile, ricordata da entrambi gli storici, doveva tale anomalia alla diversa connotazione del proietto. Come fosse realizzata non trova d’accordo tutti gli studiosi e l’ipotesi piú condivisa la vuole di un’unica correggia, ma spartita in tre segmenti. Il primo, A, la cui estremità restava nella mano, terminava con un piccolo cappio, o un anello, nel quale si infilava la coda della freccia. Il secondo, B, lungo poco meno della freccia, terminava a sua volta con una sorta di tassello di cuoio, contro il quale si sistemava la punta della freccia. Il terzo, C, infine, piú lungo del primo, terminava nella mano e si mollava per il lancio (vedi disegno a p. 15). Supponendo una correggia di 1 m e una rotazione di 5 giri al secondo, al momento dello sgancio la freccia avrebbe avuto una velocità di 30 m/sec. Per dedurne le prestazioni pratiche è interessante ricordare che frecce di circa 50 g scagliate dagli archi impattano, a 50 m/sec, a 150 m, mentre palle di piombo di 120 g scagliate dalle fionde, impattano, a 30 m/sec, a 120 m. È probabile, quindi, che fra questi due estremi vi fosse la potenzialità balistica del kestros. A prima vista, sembrerebbe un’arma
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tecnicamente scadente rispetto all’arco tradizionale, ma, per valutarla correttamente, occorre esaminarne, come per tutte le armi, il rapporto costo/beneficio, che ostenta a suo vantaggio varie peculiarità. Innanzitutto il costo, modestissimo e incomparabilmente minore di quello di un mediocre arco. Poi la validità, sintesi della leggerezza, resistenza e minimo ingombro. Infine la letalità degli impatti, per il suo maggior peso. Non sappiamo se l’arma nei secoli che seguirono conobbe ulteriori impieghi, ma, considerando che i Romani in genere disdegnavano le armi da lancio individuali, lasciandole ad appositi reparti ausiliari, si deve presumere che entrò in una lunga fase di quiescenza, dalla quale uscí,
la plumbata I resti di una plumbata (a destra) e la sua ricostruzione grafica (in basso).
La coda della plumbata era costituita da una breve asticciola di legno, necessaria soprattutto per sostenere l’impennaggio, indispensabile per stabilizzarne il volo in modo da percuotere il bersaglio sempre di punta.
La cuspide della plumbata era forgiata ad arpione, in modo da renderne difficoltosa e dolorosa l’estrazione, mettendo in tal modo fuori combattimento il colpito, anche quando non in pericolo di vita.
Nella pagina accanto, in alto cuspidi di giavellotti e dardi di catapulta, tutti con innesto sull’asta a gorbia. In basso, sulle due pagine cuspidi di ferro con innesto a codolo.
La massa centrale, generalmente di piombo, serviva ad accrescere l’energia cinetica residua al momento dell’impatto, quindi a incrementare la letalità dell’arma.
come accennato, col nome di plumbata. La plumbata era una freccia, con una lunga cuspide di ferro, in ciò simile alla precedente ma un po’ piú lunga, circa 50 cm, munita presso la sua estremità posteriore, poco prima dell’innesto con l’asta di legno, di un ingrosso di piombo fusiforme o sferico di varie dimensioni, non eccedente i 200-300 g.
Legionari valorosi L’arma acquistava cosí una discreta violenza d’impatto, pur essendo scagliata solo con la mano. Essendone stati ritrovati alcuni esemplari, ovviamente limitati alla sola parte metallica, con le descrizioni delle fonti è stata possibile una puntuale ricostruzione. Stando a Renato Vegezio Flavio di «dardi piombati, chiamati “martiobarboli” [erano armate] due legioni di seimila effettivi di stanza in Illiria (…) capaci di scagliarli con rara potenza e abilità. (…) Questi legionari portarono a termine con grande capacità tutte le guerre ingaggiate, tanto che Diocleziano e Massimiliano (…) a premio del loro valore disposero che avessero gli appellativi di Gioviani ed Ercoliani e avessero rango preminente su tutte le altre legioni (…) erano soliti portare all’interno degli scudi cinque
dardi piombati che, se lanciati con la dovuta efficacia, consentivano a essi di svolgere la funzione degli arcieri» (Lib I, XVII). A sua volta l’Anonimo del De rebus bellicis cosí la descriveva: «Questo tipo di proietto, che appare dotato di penne come la saetta, solitamente non viene scagliato né dall’impulso dell’arco, né da quello della ballista; lanciato invece dall’impeto e dalla forza della mano, piomba sul nemico a breve distanza (…) È fatto di legno lavorato a mo’ di saetta, su cui viene accuratamente conficcato un ferro forgiato a forma di spiedo; l’estremità cava [gorbia] di questo ferro sporge un po’ (…) Nella parte superiore di questo proietto sono fissate le penne per accrescerne la velocità, lasciando al di sopra delle stesse tanto spazio quanto basta alle dita di chi l’impugna». Da entrambe le descrizioni risulta evidente la somiglianza della plumbata con il kestros, lasciando propendere per una derivazione ottenuta tramite una ulteriore semplificazione. Abolita la fionda e appesantito il kestros con un pezzo di piombo, la plumbata veniva scagliata roteando il braccio teso, con una velocità prossima ai 20m/sec, provocando per la sua massa gravi lesioni nei colpiti, spesso mortali.
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GASTRAFETE
LA MOSSA DEL
TIRANNO
nel 397 a.c., l’assedio portato dai greci alla città punica di mozia, in sicilia, segnò il debutto del gastrafete. un’arma individuale che possiamo considerare alla stregua di una carabina ante litteram
S
econdo Diodoro Siculo, il tiranno Dionisio il Vecchio di Siracusa, pressato dalla incombente minaccia cartaginese, avviò, sul finire del V secolo a.C., un colossale programma di potenziamento militare, nel cui ambito oltre alla costruzione di armi convenzionali, profuse enormi quantità di denaro per realizzarne di avanzatissime e misteriose. Le memorie piú antiche sono al riguardo abbastanza concordi, facendo spesso riferimento a un enigmatico tipo di macchina da lancio, verosimilmente antiuomo e d’impiego individuale, ricordata con il curioso nome di gastraphetes, in greco «arco da pancia». Essa sembrerebbe costituita da un arco composito fissato a un fusto, a sua volta munito di arresti laterali, ma privo del verricello. Pertanto, a tendere la corda provvedeva un secondo elemento longitudinale, appena piú piccolo del fusto e che scorreva nello stesso tramite un incastro a coda di rondine, la slitta, sul cui dorso veniva ricavato un piccolo canale longitudinale, al termine del quale stava fissato un arpione comandato da una apposita leva. Sin dai primi esemplari, all’estremità posteriore del fusto dei gastrafeti, viene menzionata una staffa arcuata, con la concavità verso l’esterno.
La massima tensione
Veduta aerea di Mozia. L’antica città venne fondata e si sviluppò sull’isola di San Pantaleo, una delle quattro che punteggiano la laguna dello Stagnone di Marsala (Trapani).
Al momento di caricare l’arma, il tiratore la faceva aderire alla fascia muscolare gastrica – da cui, per inciso, il suo nome –, quindi collocava la punta della slitta, che fuoriusciva per circa 2/3 dal fusto, contro un ostacolo. Spingendo con il peso dell’intero corpo, ne provocava il rientro, trascinando, tramite l’arpione, la corda dell’arco, che veniva perciò portato alla massima tensione. Quando l’estremità anteriore della slitta e del fusto coincidevano, il caricamento si arrestava e l’arma era pronta al tiro. In ogni fase della sequenza, il bloccaggio veniva garantito da una doppia cremagliera laterale, nei cui denti giocava una coppia di nottolini d’arresto solidali alla slitta stessa. Molto probabilmente un listello di ferro fungeva da scatto del dispositivo: rimuovendolo, si consentiva alla
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GASTRAFETE
corda di liberarsi, sollevando con la sua trazione l’arpione, cosí da determinare il tiro dell’arma.
Un’innovazione decisiva Restando ancora al sistema di caricamento dei gastrafeti, appare verosimile che, dopo i primi positivi riscontri della loro efficacia, se ne costruirono rapidamente di sempre piú potenti, incrementandone l’arco, che perciò dovette richiedere un verricello di tipo navale per il caricamento. Si trattava, in pratica, di un tamburo, di legno, posizionato in coda al fusto fra due guance anch’esse di legno: un paio di leve, inserite nei suoi fori sfalsati e passanti ne consentivano la rotazione. Dette modifiche comportarono il notevole aumento di peso per l’arma, che, di conseguenza, richiese l’adozione di un cavalletto a tre piedi, una soluzione ancora presente sulle mitragliatrici moderne. Nel 397 a.C., gli esiti di quell’enorme sforzo scientifico e tecnologico debuttarono in
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occasione dell’assedio di Mozia, munita base navale punica. Dionisio assistette personalmente all’investimento delle sue fortificazioni, e quando la flotta cartaginese, accorsa per aiutare i Moziesi, accostò al litorale per sottoporlo al tiro degli arcieri, le artiglierie siracusane, a un preciso ordine del tiranno, aprirono il tiro contro le unità puniche. Le incaute e ignare navi, inquadrate da una precisa punteria, si trovarono cosí sottoposte a una micidiale scarica di dardi scagliati dalle catapulte, che trafissero molti marinai, ai quali l’eccessiva distanza impediva di replicare. Poco dopo, con le ciurme decimate, le navi dovettero velocemente allargarsi, riguadagnando il mare aperto e abbandonando Mozia al suo destino. A quel punto, modificato l’angolo di brandeggio, le medesime artiglierie presero a battere la sommità delle mura per eliminarne i difensori, e favorire l’accostamento delle torri ambulatorie.
3
I Greci riescono a portare 80 triremi al di là delle secche e poi navigano verso sud, in modo da bloccare i Cartaginesi all'altezza di Mozia
Secche 80 triremi e 120 quinqueremi greche arenate Necropoli Molo
2 Isola Grande
4 In alto Mozia. Veduta della Torre 3 e della Posterula Whitaker, facenti parte delle massicce strutture difensive di cui la città si era dotata. A destra le principali fasi dello scontro che si combatté a Mozia nel 397 a.C., e che vide impegnate, oltre alle forze moziesi di terra, la flotta greca e quella cartaginese.
Intrappolato, Dionisio utilizza macchine da lancio terrestri e piazzate a bordo delle navi per tenere le navi cartaginesi lontane dalle imbarcazioni greche arenate
Mozia
Trovandosi in netta inferiorità numerica (il nemico dispone di forze pari al doppio), la flotta cartaginese si ritira da Mozia
1 Imilcone guida una flotta salpata da Cartagine e composta da 100 navi con cui liberare Mozia dall'assedio.
I Cartaginesi appiccano il fuoco a tutti i mezzi di trasporto sbarcati dai Greci e poi navigano verso nord per intrappolarne la flotta a nord di Mozia
Mezzi di trasporto sbarcati dai Greci (forse in numero di 500). N NE NO
Area in cui sorse in seguito la città di Lilibeo.
E O SE SO
S
0
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1 Km
GASTRAFETE
piú dettagliate su quei grandi gastrafeti lancia-sassi e sulle loro caratteristiche generali. Quell’opera sulle macchine da guerra – che Bitone aveva voluto dedicare ad Attalo I, re di Pergamo fra il 241 e il 197 a.C. – venne riedita nel Seicento, senza conoscere ristampe successive.
Tre ingegneri a confronto
Costruire un arco avente oltre 3 m di corda implicava il superamento di innumerevoli difficoltà tecniche: improbo, se non impossibile, doveva essere il reperimento di un materiale che, con dimensioni del genere, fosse abbastanza elastico da accumulare molta energia, senza risultare tanto rigido da non potersi piegare. Non essendo ancora disponibile l’acciaio, appare ragionevole supporre che, per la loro costruzione, il criterio non si discostasse eccessivamente da quello dei tradizionali archi compositi riflessi. Non si può tuttavia escludere che, negli esemplari piú grandi, fosse ottenuto tramite l’assemblaggio di due metà simmetriche, fissate solidamente con apposite piastre di metallo, alla testa del fusto della macchina. Quella interna, sull’estradosso del nucleo di legno, era provvista di piastre cornee destinate a sopportare le sollecitazioni di compressione, mentre quella esterna aveva invece fili metallici destinati a sopportare gli sforzi di trazione. Il tutto, incollato e fasciato, offriva un’enorme resistenza alla flessione e, al contempo, una cospicua elasticità. A un piccolo trattato redatto intorno all’ultimo quarto del III secolo a.C. da un certo Bitone di Pergamo dobbiamo le notizie
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In alto ricostruzione virtuale di un gastrafete. In basso ricostruzione virtuale del gastrafete ideato da Carone (o Caria) di Magnesia.
Essa consiste in un catalogo posteriore di oltre un secolo rispetto alle armi descritte, che espone in maniera non del tutto coerente le diverse tipologie di congegni bellici, attribuendoli ai tre maggiori ingegneri del tempo: Carone (o Caria) di Magnesia, Zopiro di Taranto e Isidoro di Abido. Riportiamo qui di seguito le loro caratteristiche principali. Il gastrafete di Carone è una lancia-sassi di media potenza, capace di scagliare palle di pietra comprese fra i 1000 e i 1500 grammi. Poco sappiamo sul suo progettista, se non che fu allievo di Polido di Tessaglia e che prestò servizio sotto
non si discostava da quello d’impiego: quanto alla precisazione da montagna, deve probabilmente interpretarsi non come sopra, ma come dentro la montagna, ovvero, secondo l’uso napoletano, sottintenderebbe che la macchina era destinata alle grotte di tufo della stessa collina. In pratica, si sarebbe trattato dell’armamento apprestato per le casematte dell’acropoli di Cuma, la cui peculiarità sarebbe stata il facile assemblaggio.
Alessandro Magno, insieme al collega, amico ed ex compagno di studi, Diade. Il gastrafete di Isidoro di Abido fu senza dubbio la piú grande artiglieria a flessione di cui ci sia pervenuta notizia in maniera dettagliata, una lancia-sassi di enorme potenza e di ragguardevoli dimensioni. Il solo nucleo del fusto doveva raggiungere il peso di una ventina di quintali, dettaglio sufficiente a suggerirne l’imponenza. Risulta perciò assurdo presumere che disponesse di un affusto capace di garantirne il brandeggio: al massimo ne consentiva il solo basculamento. Quanto ai proietti, impiegava palle di pietra di circa 20 kg di peso. Stando alle scarse fonti di cui disponiamo, il gastrafete binato di Zopiro fu la sola macchina in grado di tirare due dardi per volta, affiancati e paralleli: un’antesignana artiglieria binata. Anche di Zopiro ci sono giunte scarse notizie biografiche: fu un meccanico della scuola pitagorica vissuto a Taranto al tempo di Archita, attivo quindi intorno alla metà del IV secolo a.C. A Zopiro viene attribuito anche un gastrafete «da montagna», anche se tale denominazione, attribuita in epoca moderna, suscita qualche perplessità: il suo inventore, infatti, lo progettò a poche centinaia di metri dal mare, per l’esattezza a Cuma. All’epoca il luogo di progettazione
In questa pagina ricostruzioni virtuali dei gastrafeti di Isidoro di Abido (in alto) e di Zopiro (a sinistra). A quest’ultimo viene attribuita anche una variante dell’arma denominata, in epoca moderna, «da montagna», utilizzata sull’acropoli di Cuma.
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GASTRAFETE
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DALLA SPAGNA CON FRAGORE
L
a propulsione delle macchine fin qui descritte venne ottenuta sfruttando la deformazione elastica per flessione di un arco. In fisica, si definiscono «elastico» il comportamento reversibile e «anelastico» (o «plastico»), quello contrario. Nel primo caso si manifesta in soli quattro modi: la flessione, quando una lamina di discreta lunghezza venga piegata; la compressione, quando un corpo sia schiacciato simultaneamente da due forze uguali e contrapposte; la trazione, quando invece venga tirato simultaneamente da due forze uguali e contrapposte; e, infine, la torsione, quando le sue estremità siano fatte ruotare inversamente. Tra le deformazioni suddette, la flessione, tramite la quale da millenni si scagliavano con l’arco le frecce, si confermò la piú idonea per la costruzione dei primi propulsori delle macchine da lancio, poiché alcuni materiali si dimostrarono capaci di mantenere abbastanza a lungo la loro elasticità.
Matasse al posto degli archi Una cinquantina d’anni piú tardi, forse presso la corte di Filippo II il Macedone (382-336 a.C.), i grossi archi furono sostituiti, da robuste matasse ritorte di corde nervine: la deformazione per torsione si rivelò talmente efficace da divenire, nel giro di pochi anni, l’unica adottata, sia in propulsori con due matasse verticali che con una singola orizzontale. Tutti gli eserciti del tempo se ne dotarono, compreso quello romano. In latino, ingegna era la denominazione specifica delle macchine da lancio, che, in seguito all’adozione dei propulsori a torsione nevrotoni, furono anche definite tormenta,
In alto ricostruzione virtuale ipotetica di una arcaica catapulta a torsione di fattura macedone utilizzata dai Sanniti nella seconda metà del IV sec. a.C. Nella pagina accanto il profilo di Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, su una moneta battuta al tempo del sovrano. 382-336 a.C. Tubinga, Schloss Hohentübingen, Museum Alte Kulturen.
da torcere. Si trattò di artiglierie a propulsione elastica, che le legioni ebbero in dotazione sin dal III secolo a.C. Intervennero, perciò, anche nell’assedio di Pompei, condotto da Silla nell’89 a.C. e durante il quale le fortificazioni perimetrali della città e i difensori furono battuti dalle baliste lancia-sassi e dalle catapulte lanciadardi, nel frattempo ribattezzate «scorpioni» dai legionari. Il tiro delle prime era finalizzato a schiantare le schermature lignee posticce delle merlature, per consegnare i difensori non piú defilati al tiro delle seconde, onde favorire l’assalto alle mura. Impattando sull’estradosso delle cortine, le grosse palle di pietra vi impressero profondi crateri, assurgendo cosí a fondamentale testimonianza operativa di siffatte macchine. Le testimonianze materiali di gran lunga piú
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SCORPIONI E BALISTE
significative sono, invece, due reperti, rinvenuti ambedue in Spagna, agli inizi del Novecento il primo, e pochi decenni or sono il secondo, sostanzialmente identico. Le loro caratteristiche confermarono, al di là di ogni ragionevole dubbio, quanto in precedenza delineato. Si tratta, in entrambi i casi, delle piastre di blindatura del telaio di due propulsori di eguale dimensione, in latino capitulum, impiegati su scorpioni romani di epoca repubblicana. Grazie al loro eccellente stato di conservazione, non fu difficile ricavarne, con precisione millimetrica, le misure delle tante parti e, di conseguenza, dei relativi gruppi. La stretta concordanza con le prescrizioni di Vitruvio dissolse ogni residuo dubbio in materia. Come le piú grandi baliste, le piú piccole catapulte, utilizzando il medesimo criterio dinamico, dovevano ostentare, sia pure nelle debite proporzioni rubricate dall’autore, la stessa configurazione. A quel punto, in base alle relative risultanze, risultò agevole tracciarne le fasi costruttive e, ripercorrendole meticolosamente, ricavarne modelli in grandezza naturale. Per i trattatisti dell’epoca, la progettazione di un pezzo di artiglieria elastica si avviava dalla determinazione del proietto che con esso si voleva scagliare: la lunghezza del dardo per le catapulte, il peso della palla per le baliste.
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Tramite due formule di calibrazione empiriche, dedotte da innumerevoli tiri e tramandateci da diversi autori, in base alle anzidette dimensioni si ricavava il diametro delle matasse elastiche che venne equiparato al diametro interno delle loro flange di bronzo d’ancoraggio – assunto come modulo –, ricordate col nome di modioli. Stando a Filone, la formula per le baliste era D=1.1 3√p, dove D è il diametro in dita della matassa, ciascuna pari a 19 mm, e p il peso in mine attiche della palla, ciascuna pari a 436,6 grammi. Analogamente, per gli scorpioni la formula era D=1/9L, dove D è il diametro delle matasse e L la lunghezza del dardo che si
Qui sopra schema grafico del comportamento plastico di un corpo sottoposto a flessione (a), torsione (b), trazione (c) e compressione (d).
Nella pagina accanto, in alto e in questa pagina esempi dei crateri impressi sulle mura di Pompei dalle palle scagliate durante l’assedio a cui Silla sottopose la città nell’89 a.C.
voleva scagliare. Premesse queste basilari puntualizzazioni, è interessante ricordarne le caratteristiche strutturali salienti.
Lo scorpione di Ampurias Agli inizi del 1912, nel corso di scavi condotti ad Ampurias (Catalogna, Spagna), sul sito dell’antica Emporiae, in quello che fu ritenuto un arsenale prossimo alla porta sud dell’antica Neapolis, venne alla luce una sorta di contenitore. Depositato con molta probabilità
nella prima metà del II secolo a.C., l’oggetto custodiva numerosi frammenti metallici che, a un esame piú attento, si rivelarono essere resti di proiettili e rottami vari di epoca repubblicana. Tuttavia, sul momento, i reperti furono archiviati come parti di carriaggi, pezzi di antichi veicoli militari, quasi certamente distrutti durante le operazioni di conquista della Spagna. La novità sopraggiunse due anni piú tardi, quando, in un articolo pubblicato sul Frankfurter Zeitung del 29 aprile 1914, quei
la spagna è stata teatro dei ritrovamenti che hanno contribuito in maniera decisiva alla ricostruzione degli scorpioni usati dai romani
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SCORPIONI E BALISTE
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malconci resti ferrosi furono presentati come probabili reliquie di uno scorpione romano. In breve la notizia si diffuse, fornendo per la prima volta una testimonianza attendibile sull’effettiva connotazione dell’artiglieria leggera delle legioni. In realtà, a essere state recuperate erano soltanto le piastre di ferro che rivestivano il capitulum di uno scorpione di media potenza, che già all’epoca era forse privo dei bracci. Volendo fare un paragone moderno, si era ritrovato quasi per intero il motore di un autoveicolo, ma non il veicolo stesso.
Una lavorazione estremamente accurata A ogni buon conto, per la prima volta fu possibile verificare in che modo le matasse elastiche fossero supportate e ritorte mediante i robusti modioli di bronzo. Per la precisione, il gruppo ne utilizzava ben quattro, identici fra loro, segno indubbio di una lavorazione seriale accurata e precisa. I fori di bloccaggio sono soltanto sei, distribuiti in due gruppi diametrali di tre; supponendone quattro sulla piastra di
In alto disegno della ricostruzione del capitulum di uno scorpione romano basata sui reperti rinvenuti ad Ampurias. Nella pagina accanto i frammenti di capitulum rinvenuti ad Ampurias, all’interno di una struttura interpretata come arsenale. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.
rotolamento sottostante, lo scatto minimo di registrazione della tensione era di 30°. L’ottimo stato di conservazione delle piastre di blindatura permise di verificare in modo puntuale le dimensioni del capitulum, ricavando la sua piena aderenza ai rapporti del modello canonico di cui Vitruvio aveva fornito le esatte proporzioni, assumendo come unità di misura il diametro interno dei modioli che le tendevano. Le piastre dei montanti erano doppie, applicate su entrambe le facce e tenute unite da numerosi chiodi passanti ribattuti. Non a caso, proprio i montanti costituivano l’elemento strutturale piú sollecitato dell’intero gruppo propulsore: su di essi si neutralizzavano, infatti, gli enormi sforzi di compressione provocati dalla torsione di una matassa di quasi 80 mm di diametro. Per avere un’idea, sia pur approssimata, della loro entità, è interessante ricordare che il limite di snervamento di una singola matassa del genere corrispondeva a quello di una corda con sezione pari alla sua metà, 25 cmq circa. Ora, poiché il limite di
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SCORPIONI E BALISTE
snervamento di una fune di canapa ammonta a 10 kg/mm circa – peraltro molto inferiore a quello di una di fibre cheratinose, capelli o tendini –, si raggiungono le 25 t, che divengono 50 per l’intero gruppo! Tale era l’entità del carico che quel telaio doveva sopportare, una sollecitazione impartita con un continuo e ravvicinato alternarsi di somministrazioni e rimozioni. Col tempo, i montanti avrebbero potuto perciò sfiancarsi, deformandosi al centro: serrandoli tra due guance di spessa lamiera, abbondantemente chiodata, se ne scongiurava anche il solo insorgere. Quanto alla funzione di blindatura delle altre piastre, essa trovava esplicita conferma nell’essere limitate al solo estradosso del capitulum volto verso il nemico. Il vistoso incavo semicircolare presente sui montanti dello scorpione di Ampurias, destinato a divenire la principale
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connotazione identificativa dell’intera tipologia successiva – anche quando gli scorpioni furono fatti di ferro –, scaturiva dalla necessità di evitare che i bracci urtassero al termine della loro corsa di rientro contro lo spigolo dei montanti per l’allungamento istantaneo della corda arciera, non altrimenti eliminabile. L’incavo, però, risolvendo quel problema, ne creava un altro: infatti, riducendo la sezione del montante, lo indeboliva, per cui fu indispensabile aumentarne anteriormente la larghezza al centro.
Le deduzioni di un ufficiale prussiano Il piú meticoloso studioso del reperto di Ampurias fu un ufficiale prussiano, Erwin Schramm (1856–1935), al quale dobbiamo, oltre al primo rilievo fotografico del reperto, la ricostruzione esegetica dell’arma.
Sulle due pagine la ricostruzione dello scorpione di Ampurias realizzata da Flavio Russo, sulla scorta dei reperti rinvenuti nella città iberica e delle dimensioni modulari tramandate da Vitruvio.
Il ragionamento adottato per configurare tutti gli elementi mancanti fu abbastanza semplice: se il capitulum rinvenuto corrispondeva ai canoni di Vitruvio, anche le restanti parti dovevano aderirvi. Disponendo, perciò, del modulo, bastava applicare le proporzioni tramandate per poterle tracciare con attendibilità. Il modello cosí ottenuto tradisce un’unica incertezza, imputabile paradossalmente alla professione del suo autore: la sospensione dell’arma sull’affusto avviene tramite una forcella, ma questa non può ruotare nel piano orizzontale. Il suo scorpione, pertanto, ripropone le caratteristiche di manovrabilità tipiche di un pezzo di artiglieria della fine dell’Ottoccento, che poteva basculare sui suoi orecchioni, ma non brandeggiare liberamente. In ciò si differenzia la ricostruzione che presentiamo in queste pagine, che adotta
un antesignano giunto cardanico, già delineato nei trattati ellenistici.
Lo scorpione di Caminreal Nella lunga campagna di scavi condotta tra il 1984 e il 1995 nel sito archeologico de La Caridad, presso Caminreal (Aragona, Spagna), tornò alla luce un secondo capitulum di una catapulta romana. Quasi identico al precedente, ma in condizioni di conservazione migliori, presentava ben distinta l’intera componentistica metallica, peraltro piú elaborata e variegata. Il sito in cui è stato rinvenuto – ubicato sul fiume Jiloca –, occupa una superficie complessiva di 12,5 ettari circa. Fra le strutture di maggior spicco che vi sono state individuate, si segnala una grande residenza, ribattezzata Casa di Likine, con un patio centrale a otto colonne, stanze
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SCORPIONI E BALISTE
capitulum, un propulsore privo di bracci. Il marchingegno era custodito all’interno della casa, presso il vano d’accesso di uno dei vari cubicoli, sul cui pavimento doveva essere stato scagliato.
Deformato, ma leggibile
pavimentate e mosaici che coprono poco meno di 1000 mq di superficie, datata agli inizi del II secolo a.C. e distrutta verosimilmente durante la guerra di Sertorio, tra l’80 e il 72 a.C. Tra i suoi resti affiorò una sorta di piccolo arsenale di materiale militare, un minuscolo deposito di armi e di pezzi di rispetto. In particolare, furono recuperati: 8 pila (plurale di pilum, giavellotto), 18 cuspidi di lancia, 2 terminali di lancia, un pugnale 2 spade, 10 ghiande di piombo per fionda, 2 umboni di scudo, 1 ornamento di elmo di bronzo, nonché una sella e un morso di cavallo. E, soprattutto, venne alla luce un intero
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Ricostruzione virtuale dello scorpione di Caminreal, basata sui materiali rinvenuti nel sito de La Calidad, all’interno di una residenza ribattezzata Casa di Likine dagli archeologi.
Si presentava in parte deformato per la violenza dell’urto, ma, ripulito dai detriti, rivelò di aver subito il danno quando le matasse e i relativi bracci si trovavano ancora in posizione. Dopo un accurato restauro, fu possibile vagliare e rilevare tutta la componentistica metallica con una tolleranza compresa fra i 2 e i 4 mm. Di conseguenza, le ricostruzioni virtuali che qui proponiamo sono in questo caso prive di qualsiasi approssimazione. Nessuna traccia si trovò dei bracci, dissoltisi forse completamente, come tutte le parti in legno, comprese fra le piastre. Tuttavia, in un cubicolo adiacente, furono recuperati due elementi conici di lamiera con un anello all’estremità, che dovevano aver fatto parte dei bracci dell’arma: un’anticipazione significativa, nel caso in cui tale intepretazione trovasse conferma, di quanto prescritto oltre due secoli dopo da Erone per la sua cheiroballistra. Pur coincidendo in sostanza con quello di Ampurias per concezione e dimensioni, il reperto de La Calidad presenta molteplici migliorie, prima fra tutte la piú precisa registrazione della precarica delle matasse. I suoi modioli, infatti, non ruotano piú sulle piastre di blindatura del telaio – peraltro eliminate in quanto superflue –, bensí su appositi anelli di ferro forati, con 12 buchi quadrati posizionati con precisione millimetrica ogni 30°, a cui doveva corrispondere uno dei quattro fori presenti sulla corona dei modioli, per l’inserimento dei perni d’arresto. Un’analoga cura traspare dalla conformazione delle sbarrette di supporto delle matasse, sagomate a forma di papillon completamente smussato, onde evitare
indica una curiosa peculiarità, peraltro mai riscontrata in altre fonti, né, meno che mai, archeologicamente: sarebbero stati ellittici! Assodato che un elemento del genere non può ruotare in nessun tipo di alloggiamento, è da credere che ovale sarebbe stata piuttosto la sezione del loro foro, una configurazione affatto priva di razionalità. Ogni matassa, infatti, era costituita da due funi contigue, ciascuna grosso modo cilindrica: è dunque logico che la sezione risultante fosse ellittica. Un modiolo siffatto sarebbe pertanto risultato ideale, poiché non avrebbe lasciato qualsiasi danneggiamento delle fibre. Tanta attenzione suggerisce potenze motrici decisamente maggiori di quelle del capitulum di Ampurias, e, di conseguenza, prestazioni balistiche superiori, pur mantenendo immutata la configurazione dell’arma.
La balista di Vitruvio Oltre alle dimensioni modulari dello scorpione, Vitruvio forní anche un dettagliato prontuario per la costruzione delle piú grandi baliste destinate al lancio di proietti eminentemente sferici. Di quelle macchine, forse per le maggiori dimensioni – che accrescevano il valore dei loro rottami –, forse per il minor numero relativo di esemplari costruiti, o forse per il sistematico riutilizzo delle loro parti metalliche, finora non si è trovato praticamente alcun frammento, a eccezione di un paio di modioli molto mal conservati. S’impone a questo punto un’osservazione introduttiva: il diametro delle matasse dei gruppi propulsori delle baliste inizia da cinque dita, pari a 100 mm circa. Per cui quello di quasi 80 mm degli scorpioni in precedenza esaminati deve ritenersi precipuo delle armi antiuomo. Inoltre, mentre per questi ultimi Vitruvio non fornisce alcuna indicazione sui modioli, per le baliste non solo li menziona, ma ne
In alto ricostruzione virtuale del capitulum dello scoprione di Caminreal. A destra ricostruzione virtuale dei modioli e delle relative piste dello scorpione di Caminreal.
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SCORPIONI E BALISTE
deleteri vuoti fra le fibre e il metallo. Vitruvio ribadisce che le baliste, pur condividendo con le catapulte la finalità, sono costruite secondo criteri informatori differenti e secondo diverse proporzioni, sempre però in funzione della massa che si intende scagliare. Implicito è il riferimento alla loro maggiore energia motrice, che obbliga all’adozione di vari dispositivi di demoltiplicazione per il caricamento. Per la prima volta, infatti, fa riferimento a paranchi composti da piú carrucole di rinvio, noti anche come taglie.
Meglio i capelli dei tendini Vitruvio entra subito nello specifico tecnico precisando che le matasse elastiche, siano di capelli femminili o di tendini bovini, sono costituite da funi. Il dato conferma che, prima d’essere montate tra le sbarrette, le fibre cheratinose venivano debitamente filate, esattamente come si procedeva da secoli con la lana, e quindi ritorte, applicando l’identica lavorazione impiegata per realizzare le corde. La preferenza accordata ai capelli femminili non dipendeva soltanto dalla loro maggiore lunghezza, ma dalla maggior cura con la quale venivano mantenuti, grazie a frequenti e abbondanti trattamenti a base di olio, che li rendevano piú flessibili e, al contempo, resistenti alla trazione. Circa il diametro dei fori, ovvero delle matasse a riposo, Vitruvio lo relaziona senza equivoci al peso del sasso che si vuole scagliare e alla potenza dell’arma. Quanto detto spiega indirettamente perché, pur potendosi adoperare proiettili di qualsiasi materia e forma, ci si avvalesse, quasi tassativamente, di sfere di pietra abbastanza regolari. Dalla determinazione geometrica dei proiettili dipendeva infatti la determinazione balistica della traiettoria, ma quelli sferici consentivano soprattutto un’agevole punteria. Esistendo un’assoluta
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Ricostruzione esplosa del capitulum della balista di Vitruvio.
corrispondenza biunivoca fra il loro diametro e il loro peso, bastava lanciare palle di identico ingombro per avere la certezza, a parità di caricamento, di una identica gittata della balista. Per un’arma la cui gittata massima implicava comunque traiettorie paraboliche non esistevano altre maniere di dirigere il tiro, se non rapportandolo al peso della stessa palla. La descrizione di Vitruvio, quand’anche poco chiara, lascia però intendere che il telaio del propulsore della balista non è piú costituito da due tavole orizzontali, ma da quattro pannelli, uno per ogni foro. La ragione di tale modifica va ricercata nella trazione esercitata dalle matasse, ormai talmente rilevante da non poter essere In alto ricostruzione virtuale delle piú diffuse tipologie di modioli romani. A sinistra ricostruzione virtuale della scudatura forntale della balista di Vitruvio.
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SCORPIONI E BALISTE
sostenuta da un singolo pezzo di legno. I dati forniti consentono di tracciare pannelli a contorno curvilineo, in prima approssimazione di forma romboidale. Una particolare cura è suggerita per il loro arrotondamento, bloccati in una sorta di incastellatura lignea, formata da listelli opportunamente sagomati e da corti tiranti, sempre di legno, incastrati fra loro e serrati con appositi cunei. In due fregi marmorei di epoca romana, oggi conservati agli Uffizi, si distinguono quelle che sembrano essere le scudature frontali di due grosse baliste, cosí ricostruite virtualmente. Stando alle proporzioni di Vitruvio, il fusto della balista, o scaletta, si otteneva con due assi parallele lunghe 19 moduli e distanziate di 1 modulo e un quarto, raccordate da traverse serrate con cunei. Il celebre trattatista latino precisa perfino la lunghezza del tiretto, ovvero slitta, che secondo lui
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In alto ricostruzione virtuale del fusto della balista di Vitruvio. La struttura, forse per evitarle qualsiasi successiva deformazione, era composta di due regoli paralleli tenuti insieme da numerose piccole traverse, serrate da tenoni, che davano all’insieme la forma di una scaletta, da cui il nome.
avrebbe dovuto misurare 11 moduli e mezzo, pari ai 2/5 del fusto: in realtà, ne rappresenta i 3/5, ma è impossibile stabilire se si tratti di un errore dell’autore o di chi, in seguito, ne ha trascritto l’opera. A ogni buon conto, il tiretto sagomato longitudinalmente nella sua parte inferiore a coda di rondine, deve scorrere nella mortasa del fusto inclinata di 1/4 di modulo per lato, pari a mezzo modulo, per uno spessore complessivo di 1/4. Fornendo le dimensioni delle componenti interne dell’arma, Vitruvio ce ne tramanda la struttura. Lungo l’intradosso dei due longheroni del fusto, ovvero i fianchi paralleli della scaletta, corrono altri due regoli minori a sezione trapezoidale, larghi 5/16 di modulo e spessi 3/16, costituendo cosí la mortasa. In essa si incastrava la parte inferiore della slitta a coda di rondine. Quanto al diametro, che deve
necessariamente riferirsi al tamburo del verricello, la prescrizione precisa che debba essere tale da non fargli eccedere la faccia superiore della slitta, in modo che la fune di caricamento possa correre quasi orizzontale: solo ai bordi sarà soprelevato, come un qualsiasi rocchetto. A rendere l’incastro tra la scaletta e il capitulum sufficientemente saldo da reggere alla trazione di caricamento provvedevano due altre assi disposte obliquamente tra le fiancate della scaletta e i regoli superiori del gruppo. Tali rinforzi, che compaiono in questo brano per la prima volta, si resero necessari proprio per neutralizzare la fortissima sollecitazione di caricamento che altrimenti avrebbe provocato la rotazione del gruppo verso la scaletta, portandola fuori squadro con gravi ripercussioni sulla precisione dell’arma. Quanto al suo affusto, dopo aver precisato che risulta costituito da due colonne affiancate, Vitruvio ne indica le dimensioni, senza però fissarne tassativamente l’altezza, dal momento che questa dovrà stabilirsi caso per caso. Una libertà che lascia supporre l’esigenza di adeguare le baliste alle fortificazioni già esistenti e alle loro feritoie o ai loro parapetti.
In basso ricostruzione virtuale dell’affusto della balista di Vitruvio. Il maggior peso della balista richiese un affusto vistosamente piú robusto e complesso, capace di resistere anche alle sollecitazioni del tiro in qualsiasi direzione avvenisse.
necessaria per scagliare dardi o palle – quindi dal diametro delle rispettive matasse –, le definizioni avrebbero dovuto essere piuttosto quelle di microtone (piccola tensione) e megatone (grande tensione). Tensione minore o maggiore, ma non certo giusta o inversa! Che cosa avrebbero infatti potuto avere di inverso rispetto agli scorpioni le grosse baliste capaci di scagliare pesanti sfere di pietra?
La configurazione palintona Sia pur lentamente, iniziò a farsi strada il dubbio che i Romani, in età imperiale, avessero elaborato un nuovo modello di artiglierie, forse mutuandolo dai piú avanzati prototipi greci. In particolare, traspariva un criterio informatore molto diverso circa il movimento dei bracci e, di conseguenza, un’inedita connotazione strutturale. Stando alle fonti, le macchine da lancio potevano dunque essere eutitone (tensione giusta), perlopiú catapulte lancia-dardi, e palintone (tensione inversa), sempre baliste lancia-sassi. Al di là della facile etimologia, se la suddivisione fosse stata dettata dalla maggiore o minore energia
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SCORPIONI E BALISTE
E, soprattutto, di inverso rispetto a che cosa? Dal punto di vista geometrico, i bracci di un gruppo propulsore tradizionale, a matasse centrali, possono essere equiparati ai due corni di un arco. La flessione di quest’ultimi, perciò, corrisponde alla rotazione dei precedenti la cui escursione, però, non può eccedere i 50°. Qualora, invece, le matasse fossero state periferiche, con un interasse appena superiore al doppio della lunghezza dei bracci, questi che a riposo stavano dinanzi ai fulcri, come i corni di un arco palintone, potevano ruotare tra le matasse fino a 160°. Nel primo caso l’insieme bracci-corda sarebbe passato da una configurazione a Δ (delta) in fase di riposo a una a V, con il vertice verso il tiratore in fase di lancio, un criterio rimasto immutato per oltre quattro secoli. Nel secondo caso, invece, bracci e corda sarebbero passati da una configurazione a Π (pi greco) a una a V, sempre con il vertice verso il tiratore. Nella seconda sequenza, la corda arciera percorreva uno spazio di gran lunga piú esteso, per cui oltre alla maggiore torsione impartita alle matasse si aveva anche un piú prolungato contatto con il proietto e, di conseguenza, una maggiore cessione energetica. Un esito simile a quanto avviene nelle armi a canna lunga rispetto a quelle a canna corta: la gittata perciò si sarebbe ampliata, non lontana forse dal raddoppio. Sebbene le fonti tacciano del tutto al riguardo, l’adozione della configurazione palintona sulle piú grosse baliste deve collocarsi in età repubblicana, l’unica capace di amplificare la potenza dei tiri. Del resto, il peso e l’ingombro laterale di quelle baliste non costituivano un limite insormontabile per chi disponeva di un’ottima e capillare rete stradale.
La velocità determina la violenza Quanto appena delineato comportò una cospicua alterazione delle baliste palintone, in particolare del loro propulsore, dal momento che l’interasse fra le sue matasse doveva eccedere la somma della lunghezza dei bracci. La violenza che macchine del genere furono in grado di sviluppare derivava dalla velocità
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iniziale delle loro palle di pietra e cosí Giuseppe Flavio ne rievocò gli effetti durante l’assedio di Gerusalemme: «La violenza delle baliste e delle catapulte abbatteva molti uomini con lo stesso colpo, e i proiettili sibilanti scagliati dall’ordigno sfondavano parapetti e scheggiavano gli spigoli delle torri. Non v’é schiera di combattenti cosí salda che non possa essere travolta fino all’ultima riga dalla violenza e dalla grossezza di tali proiettili. Si potrebbe avere un’idea della potenza dell’ordigno da ciò che accadde quella notte: infatti ad uno degli uomini che stavano sul muro attorno a Giuseppe un colpo staccò la testa facendola
In basso raffronto fra il movimento dei bracci di una balista palintona (sopra), e uno scorpione eutitone (sotto). Il concetto di dritto e rovescio si ritrova anche nel ben noto «manrovescio», schiaffo impartito col dorso della mano dopo una piú ampia, e quindi piú violenta, rotazione del braccio.
In alto elaborazione fotografica di alcuni crateri osservati sulle mura di Pompei, con l’indicazione delle dimensioni che hanno permesso di ricostruire le dimensioni delle palle che li hanno scavati e la velocità con cui le medesime palle furono scagliate dalle baliste utilizzate nell’89 a.C., in occasione dell’assedio di Silla.
cadere lontano tre stadi [500 m circa] (…) Piú pauroso degli ordigni era il rombo, piú spaventoso dei proiettili il fragore (…) tutte le legioni disponevano di magnifici congegni, ma specialmente la decima che aveva catapulte piú potenti e baliste piú grosse con le quali non solo respingevano le sortite, ma battevano anche i difensori sulle mura. Scagliavano pietre del peso di un talento e avevano una gittata di due stadi e piú; i loro colpi abbattevano non soltanto i primi a essere raggiunti ma anche quelli che stavano piú dietro per un largo tratto. I Giudei da principio schivavano i proiettili perché erano di pietra bianca. E perciò non soltanto erano preannunciati dai sibili, ma si scorgevano da lontano per la loro lucentezza. Le loro sentinelle collocate sulle torri, quando l’ordigno veniva scaricato e partiva il proiettile davano l’allarme gridando nella loro lingua: “Arriva il figlio!”. Subito quelli su cui stava per piombare si gettavano a terra e si sparpagliavano, di modo che il proiettile li sorvolava senza causare danni cadendo alle loro spalle» (Guerra giudaica, V, 6).
Sulle mura di Pompei Questo resoconto suggerisce, con una stima di massima, che durante l’assedio di Gerusalemme la palle raggiungessero velocità di poco inferiori ai 100m/s. Una conferma del dato deriva dall’analisi balistica dei già citati impatti impressi sulle mura di Pompei dalle baliste di Silla nell’89 a.C. Tra i tiri, infatti, molti
risultarono troppo bassi, per cui si conclusero contro l’estradosso delle cortine, scavando vistosi crateri. Arresasi la città e restaurate con uno strato di intonaco le mura, provvide il Vesuvio a sigillarle 168 anni dopo, fino alla loro riesumazione agli inizi del Novecento. Caduto l’intonaco ricomparvero i crateri impressi dalle palle di balista e qualche cuspide di dardo infissa nei conci tufacei. Applicando la formula di calibrazione di Filone, dai circa 140 mm del diametro dei crateri è stato possibile stimare quello delle matasse dell’arma in 182 mm, un valore che, assunto come modulo, ha consentito, in base alle proporzioni di Vitruvio, di dimensionare tutte le parti della balista. Dalla profondità dei crateri, 120 mm circa, è stato inoltre possibile calcolare anche la velocità iniziale delle palle, che si attesta intorno ai 100 m/s. Per circostanze estremamente propizie, quanto straordinarie, ci sono pervenuti i resti di una balista del genere, peraltro l’unica finora mai ritrovata, conservatasi al di sotto delle macerie delle fortificazioni di Hatra, nell’odierno Iraq (vedi oltre, alle pp. 40-47). In dettaglio comprendono tutte le piastre di blindatura, i modioli con le relative piste di rotolamento e cinque pulegge, componenti sempre di bronzo e un arpione di ferro, forse del dispositivo di scatto. I grandi modioli hanno un diametro interno di circa 162 mm ed esterno di circa 280 mm, di poco piú piccoli, perciò, di quelli calcolati a Pompei.
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BALISTA DI HATRA
LA PIÚ POTENTE DI TUTTE A sinistra particolare della ricostruzione virtuale della grande balista di Hatra. Nella pagina accanto il temenos di Hatra (oggi Al-Hadr, Iraq). La città, ben protetta da solide mura, resistette agli attacchi romani, respingendo gli assedi di Traiano nel 116/117 d.C., e, circa ottant’anni piú tardi, quelli di Settimio Severo, durante le campagne contro i Parti.
N
elle fonti antiche ricorre spesso la distinzione fra artiglieria a torsione «eutitona» e «palintona», differenziazione secondo la quale, stando a Erone (matematico, fisico e ingegnere greco, attivo nel I secolo d.C.), le prime erano adibite al solo lancio di dardi, mentre le seconde anche di pietre. Circa il significato esatto delle denominazioni possiamo solo avanzare deduzioni, suffragate però da recenti ritrovamenti. Alla base della distinzione vi è la diversa potenza di lancio ma non la diversa dimensione, poiché, in tal caso, sarebbero state baliste piccole e grandi, rispettivamente lancia-dardi e lancia-sassi per antonomasia. È quindi logico presumere che la diversa potenza non fosse dimensionale, ma funzionale, cioè conseguente al rendimento energetico ottimale della macchina in relazione alla massa del proietto. In altre parole, a parità di matasse di corda, il propulsore di un’artiglieria palintona forniva una spinta maggiore, consentendo perciò il lancio di proietti piú pesanti e con gittate piú ampie. Il che, implicitamente, significa la maggiore torsione delle matasse stesse, e il loro caricamento esasperato, fin quasi allo snervamento delle fibre.
Un comune principio di funzionamento Gli storici della tecnologia hanno ribadito che il principio di funzionamento delle catapulte e delle baliste è sempre il medesimo: bracci rotanti, inseriti in matasse di corde ritorte collocate in un robusto telaio, detto capitulum, fatti retrocedere con l’aiuto di verricelli. Ma se il principio è unico, a quale differenza si deve ascrivere un rendimento cosí diverso? La risposta può ravvisarsi solo nell’escursione tra la rotazione di caricamento normale di una matassa, e quella piú ampia, prossima al loro limite di snervamento. Strutturalmente, ne conseguiva un
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BALISTA DI HATRA
A sinistra planimetria della grande balista di Hatra, e, nella pagina accanto, la sua ricostruzione virtuale. Pur avendo rinvenuto solo le blindature del gruppo propulsore e i relativi grossi modioli delle matasse, grazie al loro ottimo stato di conservazione è stato possibile ricostruire al millimetro l’arma, integrandone le parti mancanti grazie alle dettagliate prescrizioni dei vari trattatisti coevi.
telaio molto piú largo nelle palintone, dovendo consentire ai due bracci di contro-ruotarvi all’interno, per cui, ridotta in formula, l’identificazione di un’arma palintona è la seguente: L < 2 x 6d, dove «L» è la larghezza del telaio, «d» il diametro della matassa, o del modiolo di bronzo di ancoraggio, e «6d» la lunghezza canonica del braccio.
Un esemplare eccezionalmente potente A Hatra (fortezza mesopotamica occupata brevemente dai Romani nel III secolo d.C.; oggi in Iraq), si rinvennero i resti di una balista romana che soddisfacevano la suddetta relazione: dopo averne verificato teoricamente la congruità e poi al poligono le prestazioni – grazie alla costruzione, su progetto di chi scrive, di un modello funzionante in scala 1/2 –, apparve subito evidente la straordinaria potenza dell’arma, di gran lunga superiore a quella delle baliste tradizionali. Questa, in breve, la vicenda: Ammiano Marcellino, parlando della campagna contro la Persia, ricorda che, nel 363, i Romani, condotti dall’imperatore Giuliano, dopo la sua
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Una delle sbarre di ferro intorno alle quali erano ancorate le matasse ritorte e che si andavano a incastrare nelle apposite sedi, ricavate in testa ai modioli. La cura con la quale venivano arrotondate scaturiva dalla necessità di evitare di danneggiare o tranciare le fibre delle matasse con spigoli vivi. Particolare di un modiolo parzialmente sezionato: ben evidenti gli ingrossi interni destinati a sopportare le fortissime sollecitazioni derivanti dalla torsione delle grandi matasse. La flangia alla base è a 16 fori, di cui 8 per i perni di bloccaggio, ulteriore conferma della enorme energia immagazzinata nel caricamento dell’arma, scaricata sull’intero telaio tramite la spessa piastra di rotolamento, raffigurata sotto sezionata.
uccisione, superato il Tigri con una marcia a tappe forzate, giunsero nei pressi dei ruderi abbandonati di Hatra, Al-Hadr. In base alle poche notizie disponibili, la città sembrerebbe essere stata fondata intorno al I secolo a.C., costituendo a lungo un centro pressoché autonomo del regno del deserto. Le sue mura furono irrobustite al profilarsi della minaccia romana,
Coda della slitta, al di sotto della quale è ricavato l’alloggiamento delle carrucole di rinvio del potente verricello di caricamento, del tipo pentaspaston. Per le rilevanti tensioni a cui era sottoposto, l’asse delle carrucole era inserito in una robusta staffa di ferro.
Una delle due leve che, inserite negli appositi fori praticati sull’asse del verricello, sfalsati fra loro di 90°, permettevano il caricamento dell’arma. Allo stesso asse era solidale una massiccia ruota ad arpioni, o saltaleone, con lunga leva di sganciamento destinata a impedire l’accidentale contro-rotazione del verricello.
La coda del fusto della grande balista di Hatra, con il suo verricello a 5 rinvii, organo dettagliatamente descritto da Vitruvio. I cinque cilindri di bronzo, con incavo centrale e asse di ferro, sono tra le componenti restituite dalla sabbia di Hatra.
Il massiccio piede della balista a due montanti controventati è stato ricostruito in base alle prescrizioni dei trattatisti coevi, in particolare di Vitruvio, in merito molto precisi. Nella fattispecie, però, per il rilevante sviluppo laterale del propulsore si è optato per un raddoppio dei montanti, dando cosí una maggiore stabilità all’arma, anche durante il suo brandeggio.
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BALISTA DI HATRA
che si manifestò con un primo attacco nel 117 d.C., del quale conosciamo ben poco.
Con l’aiuto di un ingegnere greco Abbiamo invece notizie piú dettagliate in merito all’attacco successivo, portato nel 199 e ascritto alla seconda guerra partica, quando fallirono due tentativi di Settimio Severo di conquistare Hatra. Stando a Cassio Dione, proprio per quella sconfitta l’imperatore organizzò una nuova spedizione contro la città, non prima però di aver accumulato in gran quantità vettovaglie e macchine d’assedio. La resistenza di Hatra gli sembrava una provocazione intollerabile, specialmente dopo che tutte le altre piazze circostanti si erano arrese. Un sostanziale aiuto gli provenne in quel frangente da un ingegnere greco, Prisco, da lui graziato per la sua notoria competenza nella costruzione di artiglierie. L’assedio fu impegnativo e cruento: particolarmente violenta, infatti, si dimostrò la reazione degli arcieri hatreni, capaci di eguagliare la gittata delle artiglierie romane, con una cadenza di tiro quasi doppia. Tanti A sinistra ritratto marmoreo di Settimio Severo. Età severiana (fine del II-inizi del III sec. d.C.). Roma, Musei Capitolini. L’imperatore assediò Hatra due volte, ma senza successo, con il pretesto di volerla punire per essersi schierata a favore di Pescennio Nigro, suo rivale nella lotta per la successione al potere.
legionari che circondavano l’imperatore finirono sotto i loro dardi, ma le perdite maggiori si ebbero quando scattò l’assalto alle mura, dopo l’apertura di una piccola breccia. Nugoli di proietti incendiari si abbatterono sulle macchine e sugli uomini, incenerendoli: solo le artiglierie di Prisco scamparono alle fiamme.
Fortificazioni poderose Alla fine, comunque, i Romani riuscirono a espugnare Hatra, ma non a tenerla a lungo, a onta della febbrile riqualificazione delle sue fortificazioni e del cospicuo potenziamento del relativo armamento balistico. Di quelle lontane opere è ancora oggi visibile l’intero circuito interno delle mura, un perfetto rettangolo di 8 km circa, con vistosi resti di grosse torri. Ciononostante, la città fu espugnata e saccheggiata nel 240, preludio del suo abbandono. I ruderi che i legionari di Giuliano videro da lontano celavano già nelle loro macerie i resti delle artiglierie, che tornarono alla luce intorno al 1971. In particolare, alla base della seconda torre, sulla sinistra della porta nord della città, rimuovendo sabbia e detriti, affiorarono diversi elementi in bronzo, di varia grandezza. Agevole identificarli tutti per la blindatura di una grande balista, la piú grande mai rinvenuta, forse posta sulla sommità della torre dalla quale fu scaraventata poco prima della conquista. Quelle lamiere, che in origine aderivano alla struttura lignea, ne tramandavano la
Repliche fedelissime Sulle due pagine, da sinistra a destra fasi della costruzione del modello della balista di Hatra a Saepinum. I modioli in bronzo e le relative piastre di rotazione, replicano gli originali rinvenuti a Hatra, ma ridotti a 1/2. La lavorazione al tornio, con la quale sono stati ottenuti, non è anacronistica, essendosi usato un utensile similare anche per gli originali. Le componenti in ferro, dopo la realizzazione moderna, sono state sottoposte a martellatura a caldo e a brunitura, procedure che le hanno rese simili alle antiche. Nella foto sono evidenti le piastre di rotazione dei modioli, completamente incastrate nelle traverse del telaio del propulsore. A destra matassa elastica di corde nervine ritorte, tra le due flangie di pre-carica, dette modioli, con il braccio inserito al centro.
configurazione, consentendone la ricostruzione virtuale. Nella fattispecie si trattava di piastre di bronzo lunghe ben 240 cm per un’altezza di 84 e una larghezza di 45, al netto delle protezioni angolari e dei modioli, con uno spessore di un paio di millimetri. Il telaio propriamente detto constava di quattro travi principali e diverse altre
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BALISTA DI HATRA
A sinistra la ricostruzione della balista palintona di Hatra, oggi conservata in una torre di Porta Terravecchia a Saepinum (Campobasso).
minori, incastrate e inchiodate fra loro, con gli otto spigoli esterni protetti e irrigiditi da cuffie angolari di bronzo. Nelle grandi piastre anteriori si distinguono due incavi centrali semicircolari, gli alloggiamenti tradizionali per il rientro dei bracci. All’interno del telaio, in corrispondenza del centro di una sua faccia maggiore sono state rinvenute massicce bandelle di ferro. Rappresentano i rinforzi del giunto del propulsore col fusto della balista.
Piastre di bronzo All’esterno, invece, quasi in adiacenza agli spigoli, fra le due coppie di travi complanari, erano incastrate piastre quadrate di bronzo. Ottenute per fusione, hanno il lato che oscilla fra i 29 e i 30,5 cm, e raggiungono uno spessore di oltre 6 mm: quattro buchi nei pressi degli angoli ne permettevano il fissaggio al telaio con perni di bronzo. Al centro delle stesse un ampio foro,
Sulle blindature laterali di bronzo sono ben visibili i due incavi semicircolari adottati per evitare che, nella corsa di ritorno, i bracci si danneggiassero urtandovi, poiché non si arrestavano subito nella posizione di riposo, ma per l’elasticità della corda arciera andavano un po’ oltre.
Dai resti delle blindature e delle cuffie laterali del telaio del propulsore si è potuta ricavare, con precisione millimetrica, la collocazione delle piastre di rotazione dei modioli e, per conseguenza, il loro esatto interasse, dettaglio che ha permesso la sicura identificazione della tipologia palintona dell’arma.
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i reperti archeologici hanno permesso di ricostruire la grande balista con la massima precisione
perfettamente circolare, del diametro di 21 cm circa, con un bordino sottostante di 3 cm circa, leggermente conico: a breve distanza dalla sua circonferenza, otto buchi rotondi di 1 cm circa, disposti in coppie distanziate di 90°. Nel grande foro si inseriva il collarino inferiore del modiolo, di diametro esterno appena minore e di analoga configurazione conica; nei buchi, invece, i perni di bloccaggio, i quali, per la potenza delle matasse, dovevano essere almeno quattro. I modioli, di cui solo tre ritrovati, sono interamente di bronzo e di peso rilevante. Il loro diametro esterno è di 28 cm, mentre quello interno è di 17,5 in sommità e di 16 alla base. Ciascun esemplare è alto 12,3 cm, con un’emergenza sulla piastra di 11,2. Lungo la loro massiccia corona sono praticati, con straordinaria precisione, ben 16 fori circolari del diametro di 1 cm, caratteristica che consentiva una registrazione minima di appena 22° 30’.
Rilievo raffigurante un personaggio maschile, da Hatra. II sec. d.C. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.
delle pulegge di un paranco a cinque rinvii, il pentaspaston descritto da Vitruvio, proprio per ridurre gli sforzi molto intensi. I preziosi reperti di Hatra sono oggi custoditi (?) nel Museo Archeologico di Mosul, in Iraq. Il modello funzionante, invece, è esposto nell’area archeologica di Saepinum (Campobasso), in una torre di Porta Terravecchia.
La forza delle matasse La presenza di tracce di ossido di ferro al loro interno testimonia l’impiego di perni di ferro per il bloccaggio al termine della precarica, ulteriore implicito riscontro della enorme potenza delle matasse: per averne un’idea, basti considerare che, stimando lo snervamento delle fibre a 10 kg/mmq, ogni matassa avrebbe fornito trazioni eccedenti le 100 t! Pertanto, le rispettive sbarrette di ancoraggio nei modioli – in pratica vere e proprie spranghe – sono lunghe 29 cm circa, spesse 3 e alte 2 circa. Grazie al loro ottimo stato di conservazione si è potuta verificare la concezione palintona dell’arma con la formula innanzi esposta. Essendo, infatti, il loro diametro pari a 17 cm, si hanno 2 x 6 x 17 = cm 204, meno dell’interesse fra le matasse di 210 cm, conferma che non può ritenersi una mera coincidenza. Insieme ai suddetti reperti, sono stati ritrovati anche altri piccoli frammenti metallici, tra cui 5 cilindretti di bronzo, con asse di ferro e leggermente incavato, lunghi 3,5 cm circa per quasi 4 di diametro. Si tratta
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CHEIROBALLISTRA
INNOVAZIONI AL TEMPO DELL’IMPERO ingegneri e tecnici dell’esercito romano sperimentano nuove versioni delle armi fino a quel momento utilizzate. in particolare, sviluppano con successo una variante «in miniatura» delle grandi baliste
I
ntorno al II secolo d.C., volendo incrementare le prestazioni della loro artiglieria leggera, i tecnici militari romani riuscirono ad adottare anche sui pezzi minori la configurazione palintona delle piú potenti baliste. Forse si avvalsero della consulenza del grande matematico e ingegnere Erone di Alessandria, forse ne copiarono i prototipi: di certo costruirono un’arma del tutto innovativa, nella quale il telaio del propulsore era costituito inferiormente da due barre dritte di ferro e superiormente da un’unica barra arcuata al centro, sempre di ferro forgiato. Alle loro estremità erano innestati i supporti delle matasse, una sorta di gabbia che con i precedenti lignei aveva in comune soltanto la concavità per il rientro del braccio. La dimensione delle barre fu ricavata sommando alla larghezza del fusto quella dei bracci, spesso in ferro, in modo di garantire la libera rotazione minima interna alle matasse di 120°. La stessa dimensione ebbe anche la corda arciera, fatta arretrare tramite il solito verricello munito di arpionismo d’arresto, assai piú massiccio per le accresciute energie in gioco. Il fusto dell’arma venne allungato sensibilmente poiché, crescendo l’angolo di rotazione dei bracci, ne conseguiva una corsa retrograda della slitta quasi doppia di quella delle tradizionali catapulte eutitone, completato in coda da un calciolo a forma di mezzaluna, finalizzato a favorire la punteria dell’arma.
Il manoscritto rivelatore La catapulta divenne cosí una piccola balista, una balista manesca o manuballista in latino e cheiroballistra in greco. Di un suo modello minimo possediamo la descrizione illustrata in un manoscritto del X secolo, ma verosimilmente copia di un trattato molto piú antico relativo alla cheiroballistra di Erone (vedi alle pp. 52-57). Quattro sono le copie del manoscritto, sparse in altrettante biblioteche europee, tutte redatte in greco e illustrate da grafici Incisione ottocentesca nella quale si immagina il matematico e scienziato greco Erone di Alessandria intento a illustrare uno dei suoi esperimenti.
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informazioni preziose sulla configurazione della nuova arma sono state tramandate dalla trascrizione medievale di un antico trattato dedicato alla cheiroballistra di erone
CHEIROBALLISTRA
In alto barra arcuata di una cheiroballistra. Qui sopra ricostruzione di un onagro di epoca imperiale. A destra disegni tecnici dell’elemento della cheiroballistra destinato all’alloggiamento delle matasse.
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colorati e siglati, in assonometria esplosa, tra le prime della storia. Una significativa novità è il fatto che i grafici siano corredati dalle loro misure reali e non piú modulari, indicazione implicita che l’arma non poteva essere né ulteriormente ridotta, né ingrandita!
Una somiglianza straordinaria A onta dell’identità delle copie il documento è stato a lungo reputato apocrifo, e continua a esserlo per piú d’uno degli autori che se ne sono occupati. La straordinaria somiglianza tra gli elementi in esso descritti e raffigurati e i rinvenimenti archeologici degli ultimi decenni sembrerebbero però smentire la ogni dubbio. Proprio da tale duplice vaglio emerge la connotazione di un’arma da lancio palintona, di medie e piccole dimensioni, ma capace di notevoli prestazioni. Ciò che piú stupisce dei menzionati codici, tuttavia, deriva dalle marginali discordanze tra il testo e i grafici. Questi, infatti, proprio dove se ne discostano risultano perfettamente aderenti ai recenti ritrovamenti: è pertanto probabile che l’amanuense, piú che a un disegno originale, forse per lui troppo astruso o troppo degradato, se in buona parte distrutto, si sia rifatto ad armi ancora esistenti, magari come rugginosi cimeli, o a qualche loro piú antica raffigurazione. Il che, implicitamente, accresce l’attendibilità del codice.
In questa pagina immagini della replica di una cheiroballistra e ricostruzione virtuale della parte dell’arma in cui è collocato il dispositivo per il suo caricamento.
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CHEIROBALLISTRA
QUASI COME UN FUCILE
E
rone di Alessandria descrisse un’eclissi lunare, la cui cronologia è stata fissata al marzo del 62 d.C.: se ne può perciò dedurre che lo scienziato fosse vissuto – almeno in parte – nel corso del I secolo. Del resto, le artiglierie da lui ideate presentano differenze sostanziali rispetto a quelle di Vitruvio, che non giustificano il silenzio del loquace autore, se fosse stato posteriore. È perciò lecito reputarlo l’ultimo perfezionatore delle baliste e delle catapulte, ideatore e costruttore di una tipologia intermedia, quasi interamente in ferro, che adottava il movimento palintone delle grandi baliste sulle piú piccole catapulte, trasformandole cosí in una sorta di balista manesca, in latino manuballista, cheiroballistra in greco. Tale modifica non fu meramente materiale, perché l’ampliamento del settore di rotazione dei bracci – che grazie a quella innovazione passò dai tradizionali 50° ai circa 120° – consentí quasi di raddoppiare la gittata utile, portandola a superare i 400 m, e riducendo, al contempo, gli ingombri e il peso dell’arma, che divenne perciò realmente campale e individuale.
dettagliato, si apre con la costruzione dei due regoli che formano il fusto, le sole componenti in legno dell’arma, il maggiore fisso e il minore scorrevole su di esso, mediante un incastro longitudinale a coda di rondine. Due sono gli incavi nel lato inferiore del primo,
Le prime assonometrie Fra le opere pervenuteci di Erone, vi è anche un breve trattato sulla cheiroballistra, che si conserva in quattro esemplari, il piú noto dei quali è il Codex Parisinus Inter Supplementa Greca 607, custodito presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, che contiene anche alcune raffigurazioni delle componenti dell’arma. Si tratta delle prime rappresentazioni in assonometria esplosa e, ancora per la prima volta, compaiono indicazioni dimensionali relative a unità di misura precise e non a un modulo arbitrario, il diametro della matassa elastica, come fino ad allora praticato. Il testo, redatto in greco ed estremamente
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La cheiroballistra di Erone fu la prima artiglieria elastica individuale a montare un gruppo motopropulsore interamente metallico, con le componenti statiche in ferro e le rotanti in bronzo. Il movimento adottato per i bracci è di tipo palintone, fino ad allora precipuo delle piú potenti baliste.
In alto i grafici originali del Codex Parisinus Inter Supplementa Greca 607: dal punto di vista tecnico, si tratta dei primi disegni in assonometria esplosa, con pedante proposizione di ogni singolo componente, anche quando simile agli altri analoghi. La colorazione non ha alcun significato tecnico e va attribuita all’estro dei copisti. Va ancora osservato che la rappresentazione delle parti in legno è meno puntuale di quelle in metallo, forse perché piú note e tradizionali. A sinistra nella ricostruzione della cheiroballistra una delle matasse elastiche non è stata raffigurata, per meglio evidenziare l’assemblaggio dei suoi supporti, detti kambestrion, con le barre d’accoppiamento superiore arcuata, detta kamarion, e quella inferiore binata, detta kamakion. La scelta di unire quei vari pezzi con incastri e non con saldature, lascia intuire l’esigenza di poterli facilmente smontare, sia per sostituirli se danneggiati, sia per custodirli se inoperosi.
Le sole parti in legno residue della cheiroballistra furono il fusto, con il sottostante bipede, e la slitta che in esso scorreva grazie a un incastro longitudinale a coda di rondine. A destra del fusto, ben visibile, una della due cremagliere, a denti di sega, per il bloccaggio di sicurezza della slitta.
Qui sopra i bracci della cheiroballistra, stando ai grafici del Codex Parisinus, sono conici, realizzati in legno, ma con l’anima in tondino di ferro terminante a uncino per l’aggancio della corda arciera. Verosimilmente erano registrabili in lunghezza e stabilizzati mediante un anello di bloccaggio, nonché rivestiti di lamiera di ferro per protezione.
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CHEIROBALLISTRA
Dall’alto in basso modiolo superiore di una matassa elastica; anello piano ad H, fungente da cuscinetto interposto fra il disco e il modiolo per la sua eventuale rotazione di precarica; disco superiore di un kambestrion, con l’alloggio laterale per il fermo dell’anello.
Ricostruzione virtuale di un kambestrion, privato del disco superiore per meglio evidenziarne le due coppie di staffe, applicate sui suoi montanti, le piú piccole per la barra superiore arcuata e le piú grandi per le barre inferiori binate.
In basso la parte inferiore dell’anello cuscinetto, col dente interno di fermo sul disco del kambestrion e gli otto fori per il bloccaggio del modiolo.
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Ricostruzione virtuale di una matassa elastica, completa di modioli e bracci, inserita in un kambestrion, e innestata alla barra d’accoppiamento binata inferiore. A mantenere l’insieme coeso provvedeva la forte trazione esercitata dalla corda arciera, per cui non occorrevano cunei di bloccaggio negli innesti.
sul canale di lancio mediante una sbarretta mobile, incastrata sotto la sua coda e sporgente lateralmente al fusto. Ruotandola con la mano, si liberava l’arpione, che subito si sollevava per la trazione della corda, la quale, liberatasi a sua volta, scagliava il dardo posto sul canale fra i rebbi. In sostanza, un dispositivo simile a una mezza molletta da bucato. Il congegno, necessariamente robusto, era fissato al regolo mobile con perni passanti che lo attraversavano per il suo intero spessore, mentre un altro perno analogo tratteneva la staffa di ancoraggio della fune di caricamento del verricello.
Nella parte posteriore del fusto, come nelle catapulte, era alloggiato il verricello di caricamento, reso piú che mai indispensabile dalle accresciute potenze in gioco, per la configurazione palintona dell’arma.
in corrispondenza delle sue estremità anteriore e posteriore, destinati, rispettivamente, a rendere complanare il dorso del regolo mobile col piano di rotazione dei bracci – per evitare deleteri strofinii della corda –, e a un bipede ripiegabile, affine a quello dei fucili mitragliatori, dal momento che non sarebbe stato possibile mantenere a lungo in punteria un’arma, sí individuale, ma che pesava una ventina di chilogrammi! La vistosa differenza di larghezza fra i regoli, lascerebbe ipotizzare due cremagliere a denti di sega per l’arresto di sicurezza del mobile, poste lungo i lati del fisso, poiché non è descritto, né compare sui grafici, alcun freno ad arpionismo. Sul regolo fisso era anche applicato, in coda, un elemento detto «a luna crescente», che quasi certamente doveva fungere da calciolo anatomico da spalla.Tirare con precisione, infatti, con un’arma elastica, ne richiedeva l’assoluta stabilità, per cui, dovendo azionare la leva di sgancio con la mano destra, occorreva tenerla ferma spingendola con la sinistra contro la spalla. A bloccare la corda provvedeva un arpione basculante a due rebbi, pressato
Arma da campo Il testo passa quindi a precisare la costruzione dei supporti per le matasse, detti kambestria: il termine è un’abbreviazione di capitula campestria, cioè motopropulsore campale, per distinguerlo da quelli piú grandi e pesanti, da fortezza. L’approntamento avveniva forgiando preliminarmente quattro piattine in ferro di circa 1,5 cm di spessore, per un paio di larghezza e una trentina di lunghezza, due delle quali sagomate con curvatura centrale. Una dritta e una sagomata, erano saldate a due spessi dischi, quasi circolari, anch’essi in ferro, con un grande foro tondo al centro, formando cosí una solida gabbia con le bucature perfettamente allineate. Sugli estradossi delle piattine, poi, si saldavano due staffe rettangolari, in alto le minori e in basso le maggiori. In esse andavano a inserirsi, rispettivamente, la forcella della barra d’accoppiamento ad arco e le estremità della barra binata di accoppiamento e di fissaggio, del gruppo motore col fusto. La piattina con la curvatura centrale era collocata verso la parte anteriore dell’arma, dovendo evitare che i bracci, tornando con violenza alla posizione di
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CHEIROBALLISTRA
riposo, per la sua configurazione palintona vi sbattessero a causa dell’inevitabile elasticità della corda arciera, danneggiandosi. Il manoscritto si sofferma sulle prescrizioni per i modioli e i relativi anelli di raccordo con i campestria, tutti in bronzo. Stando a Erone, infatti, tra i dischi in ferro dei campestria e i modioli di bronzo si dovevano interporre appositi anelli, anch’essi in bronzo e cavi su entrambe le facce, in sezione ad H, di modo che, al loro interno, alloggiassero da un lato i dischi dei campestria, dall’altro i modioli. In alto il kambestrion rinvenuto a Lione nel 1857, realizzato interamente in ferro battuto, peraltro in modo molto rozzo. Anche il relativo modiolo è in ferro battuto, e di scarsa precisione, dettaglio che testimonia la grande tolleranza dell’arma persino alle piú approssimate costruzioni.
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In basso ricostruzione virtuale della barra di accoppiamento superiore arcuata e inferiore binata. Le lunette, fissate al di sotto di queste ultime, non svolgono alcuna funzione di rinforzo meccanico, ma probabilmente proteggevano la parte inferiore delle matasse dallo strofinio sul terreno.
La precisione innanzitutto Ne suggerisce la realizzazione in bronzo l’indispensabile precisione, che si poteva ottenere soltanto per fusione e successiva alesatura: si trattava, in pratica, di cuscinetti piani, che avrebbero favorito la rotazione dei modioli al crescere della trazione della matassa, evitandone il grippaggio sulle asperità dei dischi in ferro battuto. Sul collarino dei modioli, inoltre, si creava l’alloggiamento per la barretta di ferro che sorreggeva la matassa elastica. Il testo continua con la costruzione del kamarion, vocabolo greco per «volta», la barra a forma di giogo che accoppiava superiormente, mediante innesti a forcella e cunei di bloccaggio, i due campestria. Grazie all’ampia apertura consentitagli dalla
forma arcuata, essa non riduceva il campo visivo del tiratore: di elementi del genere, fino a oggi, ne sono stati ritrovati e identificati tre, tutti con una perfetta aderenza ai grafici del trattato. A differenza dei modioli, scomparsi per il recupero del bronzo, le componenti in ferro sono andate distrutte a causa dell’ossidazione, pertanto, in ambo i casi, i reperti sono rarissimi. Oltre al kamarion, a unire fra loro i campestria, fissandoli al fusto, provvedeva una doppia barra inferiore, kamakion, vocabolo greco dal significato di «asta».
Nulla è lasciato al caso La descrizione si sofferma, inoltre, sulla struttura a doppia traversa del kamakion, destinata a infilare le sue opposte estremità nelle due staffe piú grandi dei campestria. In particolare, Erone indugia nel descrivere i distanziatori che giuntano saldamente le traverse, prescrivendo fori di fissaggio quadrangolari per quello centrale e rotondi per quelli laterali, definiti «tiranti». Un particolare curioso, infine, si coglie nei grafici a carico del kamakion, senza, però, alcun riscontro nel testo: sotto ogni barra appare un archetto, a essa unito da listelli, destinato forse a proteggerne le matasse quando l’arma era a terra. La pedante prescrizione testimonia la maestria dell’autore: il distanziatore centrale, infatti, non solo doveva accoppiare le due barre in maniera rigida, mantenendole perfettamente parallele fra loro e con le superfici superiori complanari, ma doveva pure assicurare ai supporti a esso saldati per l’innesto con il regolo inferiore, un’assoluta perpendicolarità, esiti che solo l’incastro quadrato garantiva. Quanto ai tiranti, servivano a evitare qualsiasi divaricazione fra le barre, per cui bastavano
Tre dei modioli ritrovati a Cremona nel 1887, lungo la via Postumia, e appartenenti a catapulte romane del I sec. d.C., ancora però di tipo tradizionale, come confermò la scudatura frontale, rinvenuta nella stessa circostanza.
piccoli tondini ribattuti in fori rotondi, piú facili da eseguire. È inoltre interessante osservare che la larghezza del distanziatore centrale, accresciuta dello spessore dei due supporti verticali di fissaggio al regolo piú lungo, corrisponde alla sua larghezza. I risalti dei supporti, perciò, penetravano interamente nel fusto senza provocare alcun intralcio al movimento della slitta. Non si tratta di una mera coincidenza, ma dell’ennesima conferma di come, nel dimensionamento dell’arma, anche il dettaglio piú insignificante fosse perfettamente definito. Ultimi componenti descritti sono due corpi conici, verosimilmente rivestimenti in lamiera dei bracci, lunghi 20 cm circa: gli stessi potevano perciò roteare in verso contrario senza urtarsi al di sotto della barra ad arco, larga 42 cm circa, possibilità che costituisce una conferma implicita della connotazione palintona dell’arma.
In caso di pioggia Piú complessa, se mai, è la spiegazione della loro struttura telescopica, con anima in quadrello di ferro e bloccaggio ad anello forzato. Appare plausibile attribuirla alla necessità di equiparare i bracci con assoluta precisione in fase di collaudo, dal momento che quando il regolo minore, al termine del caricamento, aveva raggiunto la posizione piú arretrata, la corda doveva trovarsi sul prolungamento dei bracci formando una V, con vertice nell’arpione, una configurazione ottimale per garantire una punteria accurata. Quanto al rivestimento in lamiera di ferro, o di bronzo, esso costituiva la protezione dei bracci di legno, fin troppo vulnerabili: di lí a breve anche per le matasse sarebbe stata escogitata una protezione integrale, affrancandole cosí dall’insidia della pioggia.
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ARMI DI NUOVA GENERAZIONE
VARIAZIONI D’AUTORE apollodoro di damasco, uno dei piú brillanti ingegni dell’antichità, dovette cimentarsi anche con le macchine da guerra. con ogni probabilità, infatti, si deve a lui una rielaborazione della cheiroballistra di cui troviamo traccia nel fregio della colonna traiana: una modifica che consentí l’utilizzo dell’arma anche nelle difficili condizioni climatiche delle regioni nordiche
C
on tutte le riserve del caso, che la cheiroballistra ideata da Erone di Alessandria avesse le caratteristiche che abbiamo appena descritto è provato dall’archeologia, ma, paradossalmente, non esiste invece alcuna fonte iconografica che possa confermarlo. Le immagini piú affini, cronologicamente e strutturalmente, sono quelle scolpite sulla Colonna Traiana, che però ci tramandano un’arma dalla fisionomia molto diversa, con due cilindri collocati al posto delle gabbie delle matasse, o kambestrion. Unico elemento comune fra le due versioni è la barra di accoppiamento superiore foggiata ad arco. Risulta dunque logico supporre che le artiglierie rappresentate sul fregio della Colonna Traiana siano state l’ultima generazione di scorpioni, forse elaborata dal grande architetto Apollodoro di Damasco (attivo nel II secolo d.C.), per renderle idonee a operare anche nei climi nordici, piovosi e inclementi, per cui i loro vistosi cilindri sarebbero le protezioni dell’arma contro le intemperie. La loro larga feritoia, indispensabile per la fuoriuscita dei bracci, indebolendone la resistenza, non gli consentiva di fungere anche da supporto per le matasse, per cui si deve ipotizzare al loro interno l’esistenza di una gabbia per le stesse munita dei relativi modioli.
Una soluzione ingegnosa Poiché non è raffigurata in alcun modo nei bassorilievi della Colonna, si deve ritenere che quella vistosa fessura venisse chiusa da un lembo mobile di pelle e, essendo scomparso il colore dal fregio, non possiamo stabilire che quei cilindri fossero fatti di ferro, nel qual caso avremmo ben poche speranze di
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Nella pagina accanto calchi del fregio elicoidale che orna la Colonna Traiana, inaugurata nel 113 d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nelle scene è possibile distinguere le varianti della cheiroballistra di Erone verosimilmente progettate da Apollodoro di Damasco e adottate con successo dai legionari dell’esercito imperiale. I rilievi costituiscono un vero e proprio racconto per immagini delle due guerre condotte da Traiano, nel 101-102 e nel 105-106 d.C, per la conquista della Dacia (l’odierna Romania).
rinvenirne qualche frammento. È di conseguenza possibile che alcune delle gabbie ritrovate fossero contenute in uno di quei cilindri. Nell’artiglieria di Traiano questi ultimi sarebbero stati, quindi, una intelligente variante rispetto al modello della cheiroballistra di Erone, tale da consentire all’arma di operare sotto la pioggia battente o le tormente di neve. Tuttavia, come da sempre accade nei congegni meccanici, anche modifiche marginali possono determinare vistose variazioni formali. Nel caso in questione, spicca la diversa configurazione della barra d’accoppiamento: il suo arco, infatti, è molto piú largo delle prescrizioni canoniche e dei reperti, una connotazione comune delle sue diverse immagini lungo la Colonna. Si tratta di un ampio arco a sesto ribassato formato da piú strati sovrapposti a T. Per contro, dalla scarsa altezza dei cilindri si ricavano matasse piú corte per braccetti interamente di ferro, con un notevole interasse; e risulta ben evidente il cappellotto, semisferico, che ne copriva le testate sopra i modioli.
I muli: un ausilio prezioso Come accennato, Traiano fece rappresentare quell’elaborata artiglieria leggera in tutte le sue possibili configurazioni, che possono in sostanza ridursi a tre. Una prima ne contempla l’installazione su di un sottaffusto ruotato, nella fattispecie un cassone di discreta capienza, nel quale è probabile pertanto che trovassero posto sia i pezzi di rispetto dell’arma, sia le sue munizioni. Al traino erano adibiti due muli e l’atteggiamento dei legionari suggerisce che l’arma potesse tirare anche in fase di spostamento. Le due ruote a raggi presentano un diametro considerevole, un’esigenza che non può essere imputata alle dimensioni del cassone – poiché anche il sottaffusto piú leggero ne monta di simili –, ma alla minore resistenza nel movimento fuori pista. Forse si volle in tal modo mantenere sufficientemente alto il pezzo per non ostacolargli il campo di tiro col dorso dei muli. L’affusto propriamente detto consiste nella classica colonna centrale con tre regoli controvento. Anche la seconda configurazione contempla l’installazione su di un cassone a due ruote, anch’esso trainato da una pariglia di muli. Il suo volume, però, è di gran lunga inferiore, forse perché questo mezzo veniva utilizzato esclusivamente per il trasporto delle munizioni. Anche in questo caso le raffigurazioni sottolineano la facoltà di tirare in movimento e comunque senza staccare gli animali dal giogo. Immutato è l’affusto. L’ultima configurazione è statica, da difesa: non a caso, l’arma compare spesso e in gran numero sulle mura, quasi a ricordare che ne fosse il complemento difensivo per antonomasia. La struttura dell’affusto, però, è sempre la medesima: colonna centrale e controventi, il tutto scaturente da un solido basamento poligonale.
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PERDENDO S’IMPARA
F
orse fu un caso, forse qualcosa di piú, poiché, anche ai Romani, non sfuggivano le ricorrenze simboliche: esattamente cento anni dopo la disfatta della selva di Teutoburgo (la battaglia del 9 d.C. in cui legioni del Reno comandate da Quintilio Varo furono annientate dalle tribú germaniche ribelli guidate da Arminio; vedi anche alle pp. 94-109), si progettò il monumento celebrativo piú vistoso della pur sterminata produzione imperiale, la Colonna Traiana. A essere esaltati sono l’esercito e il suo
Nella pagina accanto calco e restituzione grafica di due diverse scene del fregio della Colonna Traiana, in entrambe le quali si riconoscono catapulte ippotrainate con il loro caratteristico propulsore.
capo supremo: lungo le sue spire si avvicendano 150 «inquadrature», inerenti agli episodi salienti delle guerre daciche (condotte da Traiano nel 101-102 e nel 105-106 d.C.), sfondo adeguato per l’enfatizzazione delle piú avanzate capacità tecnico-scientifico-militari di una civiltà superiore, secondo i suggerimenti che poco prima Plinio il Giovane aveva riportato in una sua lettera (VIII, 4,2). Fra i tanti «fotogrammi», ne spiccano una decina, che hanno per soggetto un tipo di armamento balistico fino ad allora ignoto, o non divulgato cosí platealmente, destinato ad avere, da quel momento in poi, un ruolo basilare nell’esercito romano. Si tratta di pezzi di artiglieria lancia-dardi, all’epoca catapulte, riprodotti in tutti i diversi allestimenti: da fortezza, campale, ippotrainato leggero e ippotrainato pesante.
Una prassi innovativa, che sembra voler ribadire la ritrovata superiorità nel campo degli armamenti piú avanzati e, piú in generale, nell’intero comparto delle infrastrutture di supporto tattico, ottenuta con l’apporto dei massimi scienziati, fra i quali il già piú volte ricordato matematico, fisico e ingegnere greco Erone di Alessandria (attivo intorno al II secolo d.C.).
Il culmine di un’evoluzione La singolarità di quelle artiglierie, la vera nota distintiva rispetto alle precedenti, e di cui l’archeologia ci ha restituito alcuni resti dei congegni propulsori, sono i vistosi cilindri di protezione applicati alle loro matasse elastiche. L’adozione sembra, per molti aspetti, la fase conclusiva di una evoluzione tecnica già ravvisabile, oltre mezzo secolo prima, nei resti di una A sinistra ricostruzione del propulsore della catapulta di Ampurias (II sec. a.C.): si noti l’assenza di schermature dinnanzi alle matasse, che rendeva queste ultime praticamente inutilizzabili in caso di pioggia. In basso resti del propulsore della catapulta di Ampurias. II sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.
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catapulta della IV Legione Macedonica, rinvenuti a Cremona. A differenza dei propulsori piú antichi, infatti, in questo esemplare compare una protezione frontale posta dinanzi alle due matasse, in modo da ripararle dai frequenti scrosci d’acqua battente, piuttosto che da improbabili offese nemiche. La spiegazione va ricondotta alla igroscopicità delle fibre
Ricostruzione virtuale di un propulsore per catapulta della IV legione Macedonica. Rispetto ai precedenti, adotta la piastra frontale, che protegge, sia pur parzialmente, le matasse nervine, attenuando il problema dell’esposizione all’acqua.
nervine, che, se esposte alla pioggia, perdevano del tutto la loro elasticità, privando l’arma della necessaria energia, come avverrà con le artiglierie a fuoco quando si bagnava la polvere pirica!
Alle prese con la guerriglia Anche i pezzi in allestimento ippotrainato sembrano rispondere a un’esigenza fino ad allora inevasa, palesatasi nei combattimenti non convenzionali – leggasi guerriglia –, i cui fautori erano proprio i barbari in genere e i Germani in particolare. In breve, si tratta di catapulte identiche alle precedenti, ma
Gomito della matassa nervina Traversa superiore del propulsore
Fusto con pista a coda di rondine Piastra di blindatura laterale
Slitta corrente nel fusto
Piastra di blindatura frontale
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montate su di un sottaffusto a ruote trainato da una pariglia di muli o di cavalli, pronte a entrare in azione in qualsiasi momento, persino durante il trasporto, fornendo cosí una protezione tattica alle colonne in marcia. In una scena, infatti, si scorgono due legionari, nella fattispecie serventi al pezzo, intenti a porlo in punteria senza staccarne gli animali. Al riguardo, va precisato che, al di là della micidiale potenza di queste armi, ciò che piú terrorizzava i barbari era il non comprenderne il funzionamento, per cui vedersi cadere a fianco il commilitone con la corazza trapassata da parte a parte, nel piú assoluto silenzio, e senza neppure riuscire a scorgere chi lo aveva colpito, inficiava il loro abituale coraggio. Considerando che per i tre secoli precedenti, cioè sin quasi dall’invenzione dell’artiglieria elastica, non si dispone neppure di una sola immagine, tanta improvvisa e vistosa ridondanza di raffigurazioni non può ascriversi a un’improbabile resipiscenza o inversione di tendenza. Piú logico, semmai,
Piastra frontale del propulsore per catapulta della IV Legione Macedonica, da Cremona . I sec. d.C. Il reperto fu trovato alla fine dell’Ottocento nell’area che, secondo Tacito, fu teatro della battaglia combattuta nel 69 d.C. fra Vitellio e Vespasiano per la successione al trono imperiale.
attribuirla a un preciso disegno, al quale, del resto, l’intera Colonna appare subordinata. Il ribadire l’impiego, in ogni circostanza e in qualsiasi istante, di quelle artiglierie di nuova concezione, sia sotto la pioggia che lungo le marce, ignorando completamente le baliste, che pure dovettero svolgere ruoli basilari nei numerosi assedi delle guerre daciche, sembra la risposta a una richiesta assillante, da tempo inevasa. E, forse, proprio nel centenario di Teutoburgo è sottintesa quella domanda.
La lezione delle Forche Caudine Tutte le fonti militari romane ci tramandano i grandi rischi connessi con le fasi di trasferimento dei grandi eserciti legionari, crescenti col crescere dell’organico: manovra sempre paventata, soprattutto quando compiuta in territorio nemico e in stretti passaggi. L’agguato delle Forche Caudine del 321 a.C. fu l’incubo di tutti i duci romani e, per molti aspetti, quello di Teutoburgo lo rievoca. Non mancava, per tale evenienza, una precisa procedura: nel
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Ricostruzione virtuale della catapulta da fortezza di Traiano: sono ben evidenti i cilindri di protezione delle matasse.
Guance in ferro del verricello
57 a.C. Giulio Cesare collocò la cavalleria, gli arcieri e i frombolieri ausiliari in testa alla colonna, contando sul veloce movimento e sulle armi a lunga gittata per spezzare un improvviso assalto nemico, consentendo cosí alle legioni di assumere lo schieramento di combattimento.
Per agevolare i movimenti
Fusto della catapulta
Cilindro contenitore
Corda arciera
Controvento affusto
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La medesima disposizione venne adottata, nel 70 d.C., anche da Tito, in Samaria, con le forze ausiliarie in testa, seguite dai genieri per l’ottimizzazione della pista e poi dal grosso delle legioni. Intervento, quest’ultimo, basilare per adeguare al transito dei carri la pista, rimuovendone le ceppaie e le pietre piú grandi e consolidandone il fondo. Due esempi distanziati tra loro di oltre un secolo, sono una ragione sufficiente per presumere che anche Varo non dovette discostarsi da questo circospetto dispositivo, quale che fosse la sua competenza militare: qualcosa, però, mutò la marcia in ecatombe. Lo sfilamento di tre legioni, la XVII, la XVIII e la XIX, con le relative salmerie, armamenti e dotazioni, nonché con alcuni reparti ausiliari e molti civili al seguito, fra cui donne e bambini, per un totale non lontano dalle 30 000 unità, era già di per sé abnorme. Quello avviatosi agli inizi di settembre, sebbene impostato su sei file, si presentava come un mostruoso serpentone d’una trentina di chilometri, d’improba protezione anche su strada, in estate e senza alcun nemico. Per farsene una pallida idea, basti pensare che soltanto i carri destinati al trasporto delle tende di una sola legione ammontavano a una cinquantina, e a essi si dovevano aggiungere quelli delle salmerie, di numero maggiore, occorrendo per una sola settimana circa 700 q di grano e 40 di foraggio, oltre ancora a vari generi alimentari! Ma vi erano altri carri ancora per le attrezzature, per gli armamenti collettivi,
Ricostruzione virtuale del propulsore per catapulta da fortezza di Traiano: si notino la struttura in ferro del capitulum; il movimento inverso dei bracci di 160° invece dei soliti 50° (definito palintone), capace perciò di imprimere maggiori energie cinetiche di lancio; e, soprattutto, i cilindri contenitori per le matasse per renderle insensibili alla pioggia.
Barra d’accoppiamento superiore arcuata
Cuspide conica del cilindro di protezione Parte del cilindro con fori per i bracci
Barra d’accoppiamento inferiore duplicata
Staffa per incastro con il fusto
Modiolo di bronzo per precarica matasse
per le dotazioni, che fanno immaginare un totale – per legione – intorno ai 150, carriaggi non a caso definiti impedimenta. I cerchioni di ferro delle ruote romane erano relativamente stretti e, se nella buona stagione riuscivano ad avanzare sul terreno saldo sollevando solo nugoli di polvere, nella cattiva affondavano nel fango, obbligando uomini e animali a fatiche improbe per avanzamenti insignificanti.
Rivestimento in ferro del braccio
Una pioggia torrenziale E quando, nella fosca giornata del 9 settembre, l’interminabile convoglio fu ben addentro alla foresta, lungo una traccia stretta tra una formazione montuosa a destra e una palude a sinistra, si scatenò una pioggia torrenziale, non rara in quei paraggi e in quella stagione. La terra a malapena disboscata, impregnata d’acqua cedeva sotto le ruote dei carri che sprofondavano; il boato continuo dei tuoni,
Braccio in legno con incavo per l’anima
Anima registrabile in ferro del braccio
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Barra d’accoppiamento arcuata Fusto della catapulta
Sulla disfatta di teutoburgo pesarono le difficoltà nella movimentazione degli uomini e dei mezzi
Piattaforma ruotata
Anelli di traino ausiliario Cerchio in legno segmentato
Cerchione in ferro applicato a caldo
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la semioscurità del bosco, accresciuta dalle spesse nuvole e dalla pioggia battente, impedivano di scorgere alcunché a pochi passi di distanza e di percepire qualsiasi rumore, o silenzio, sospetto. Grida di conduttori, nitriti di cavalli, strepito di ordini, a cui all’improvviso si sovrapposero le urla dei Germani e dei civili atterriti.
cavalleria non si spiegò neppure, poiché le zampe degli animali sprofondavano nel fango. Ma il peggio fu che gli scudi, tre strati sovrapposti di legname e pelle, presero rapidamente a scollarsi, lasciando inermi i legionari ormai aggrediti da un nemico sfuggente. Con i carri impantanati, le armi inutilizzabili e l’oscurità crescente, la scena assunse connotazioni infernali: il peggior nemico, dopo la pioggia e le tenebre, fu la dimensione stessa della colonna, frammentata in piú segmenti impossibilitati a reagire in modo adeguato per l’angustia dei luoghi. Nella notte, si cercò di allestire il campo di tappa, magari usando anche i carri come protezione aggiuntiva: ma senza le artiglierie, che ne sancivano il rispetto, era solo un misero recinto di fango.
Una situazione disperata
Due ricostruzioni virtuali delle catapulte ippotrainate di Traiano su affusti in allestimento leggero (a sinistra) e pesante (in alto): il secondo, oltre alla funzione di piattaforma, svolgeva anche quella di deposito munizioni e pezzi di rispetto per una batteria di quattro pezzi. Per entrambi, si deve supporre l’adozione di una pariglia di cavalli o di muli. Va osservato che la collocazione della catapulta sui carriaggi era tale da consentire il tiro in qualsiasi momento, persino in moto, e in qualsiasi direzione, con un brandeggio di 360°.
In testa, gli arcieri e i frombolieri videro con raccapriccio che gli archi e le fionde resi molli dalla pioggia erano inservibili, come del resto l’artiglieria leggera, con le sue matasse inzuppate d’acqua: la difesa a distanza cessò del tutto, mentre quella della
Al mattino, la situazione apparve in tutta la sua terribile gravità, mentre la pioggia continuava implacabile a cadere torrenziale. Bruciati i carri per accelerare la fuoriuscita dalla foresta, si adottò un minimo ordine di battaglia, subito contrastato e compromesso dalla marea montante dei barbari. Lo scoraggiamento e la spossatezza accentuarono la strage: molti legionari stremati furono catturati, torturati e uccisi, accrescendo con le loro urla strazianti il terrore complessivo di quella seconda notte. All’indomani, quanti erano ancora in grado di farlo, tentarono di aprirsi un varco: i piú finirono annegati nelle paludi o trucidati dai Germani, alcuni si suicidarono, pochissimi scamparono al massacro. La terribile lezione sull’inadeguatezza delle armi e dei mezzi, negli anni seguenti, fu costantemente affrontata e progressivamente risolta, restituendo all’esercito la sua piena capacità operativa, in ogni luogo e in ogni contesto: fu questo forse il messaggio della Colonna Traiana.
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ONAGRO
A COLPI... D’ASINO Oltre a baliste e scorpioni, la gamma delle macchine da lancio comprendeva l’onagro, arma a cui i legionari assegnarono questo nome curioso per il sollevarsi della sua parte posteriore al momento del tiro, simile appunto allo scalciare di un asino
U
n oggetto lanciato verticalmente perde rapidamente di velocità, per l’attrazione di gravità, fino a fermarsi per poi ricadere, accelerando progressivamente per la medesima attrazione. Per la fisica, al momento dell’impatto sulla terra, dovrebbe avere la stessa velocità di quando l’ha lasciata, senza però tener conto della resistenza dell’aria. Questa, tuttavia, per oggetti piccoli e pesanti può, in prima approssimazione, essere trascurata, per cui la violenza degli impatti da ricaduta non è irrilevante, né la velocità notevolmente inferiore a quella di partenza. Descrivendo le artiglierie elastiche d’età classica, se ne è spesso ricordato il tiro utile, cioè non la distanza massima alla quale riuscivano a scagliare i loro
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In basso modello in scala di una catapulta romana. Saint-Germainen-Laye, Musée d’archéologie nationale.
proietti, ma quella oltre la quale gli impatti non producevano piú alcun effetto. In pratica, il limite superato il quale l’energia cinetica residua dei proietti, tendendo rapidamente a zero, non avrebbe inferto danni: un dardo non avrebbe trapassato una tunica e una palla non avrebbe tranciato una canna.
Quasi un bombardamento Disporre di un’arma capace di tirare con un notevole angolo di alzo, faceva sí che tanto piú in alto fosse riuscita a far ascendere il suo proietto, tanto piú violentemente lo avrebbe fatto impattare sul bersaglio, a scapito però della gittata. Una modalità di tiro, quindi, idonea a battere bersagli al di
In alto La catapulta, olio su tela di Edward John Poynter. 1868-1872. Newcastle-uponTyne, Laing Art Gallery. La macchina dipinta dall’artista è frutto di una ricostruzione decisamente fantasiosa, tanto che, per come è stata rappresentata, non avrebbe in realtà potuto effettuare alcun tiro.
là delle mura, in particolare abitazioni, come avverrà, a distanza di millenni, con i bombardamenti aerei. Considerando, poi, che le case, pur avendo solide mura verticali, erano coperte da leggeri impalcati lignei, una palla che vi piombava dall’alto li trapassava come fogli di carta, appiccandovi subito il fuoco se incendiaria. In estrema sintesi un’arma «terroristica», non essendo finalizzata a sopprimere fisicamente i difensori, ma ad abbatterli psicologicamente, massacrandone i congiunti, nonostante il loro eroico prodigarsi sulle mura. Scriveva al riguardo il trattatista Pietro Sardi che «questa macchina di Onagro, tirando essa pietre cosí pesanti sopra i tetti delle case della Città o Fortezza facendogli sfondare, con
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ONAGRO
l’ammazzare quegli che dentro si trovavano, donde impauriti erano forzati ad arrendersi» (L’artiglieria, Venezia, 1621).
Un solo grande braccio Di un’arma del genere si trova menzione già nel III secolo a.C., nella Sintassi Meccanica di Filone di Bisanzio, con la denominazione di monoancon, cioè un’artiglieria con un solo grande braccio, invece dei soliti piccoli due, con la precisazione che scagliava pietre di circa 26-32 kg. In seguito, di tale macchina si rintracciano solo confusi riferimenti fino alla metà del IV secolo, quando Ammiano Marcellino la descrisse dettagliatamente,
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A destra e nella pagina accanto, a sinistra fori da impatti balistici sull’estradosso delle mura settentrionali di Pompei. Il loro diametro è di molto inferiore a quello delle palle rinvenute nell’abitato.
attribuendole il nome di «onagro» (il termine deriva dal latino onagrus, che, a sua volta, è l’adattamento del greco ónagros, da ónos, asino+ agrós, campo; oggi, in ambito zoologico, indica una sottospecie dell’emione, un asino selvatico presente in una ristretta zona dell’Asia al confine tra Afghanistan, Iran e Turkmenistan e ormai rarissimo, n.d.r.). Dedurre dal quel lungo silenzio la perdita dell’arma è azzardato, poiché vige nell’ambito delle artiglierie un’ampia approssimazione denominativa: all’interno di Pompei, per esempio, sono state rinvenute numerose palle, notevolmente piú grandi di tutti i numerosi fori da impatto impressi sulle mura dai tiri delle baliste, lasciando propendere che fossero quelle scagliate nella città dagli onagri di Silla durante l’assedio dell’89 a.C.
Legno di quercia Questa la citazione esegetica della sua esposizione: «Lo scorpione che ora chiamano onagro, possiede la seguente configurazione. Due travi di legno di quercia, o in alternativa di leccio, vengono sagomati in maniera tale da sembrare sollevarsi con una lieve gobba; quindi vengono congiunti nella stessa maniera dell’attrezzo per segare e, praticati dei larghi fori in entrambe le travi, al loro interno vi si fanno passare delle robuste funi che raccordano la macchina e le impediscono di rompersi». Sulle due pagine L’assedio di Alesia, olio su tela di Henri-Paul Motte. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier. Nel dipinto sono raffigurate le macchine da guerra realizzate da Cesare per la campagna del 52 a.C., combattuta contro i Galli di Vercingetorige. Al centro, dentro la torre, alcuni legionari armano un onagro. In basso palle di pietra rinvenute a Pompei.
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ONAGRO
In alto un’antica sega a telaio, la cui conformazione risulta simile a quella del telaio di un onagro.
Le fonti non citano mai esplicitamente un telaio munito di rotelle ferrate per gli spostamenti, ma appare plausibile che gli onagri di maggiore dimensione ne disponessero, non fosse altro che per agevolare la punteria.
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L’onagro montava un’unica matassa elastica di notevole grandezza. Per determinarne il diametro, si deve supporre che si applicasse la medesima formula usata per dimensionare quello della coppia di matasse delle baliste, raddoppiandone il risultato.
Uno spesso cuscino di cuoio, riempito di paglia, fungeva da ammortizzatore-fine corsa per il braccio dell’onagro, evitando che si danneggiasse rapidamente.
Ricostruzione virtuale del paranco dell’onagro scomposto in tutti i suoi elementi, compresi la chiave di precaricamento della grande matassa e la leva di ferro di caricamento. Sono raffigurati anche i due assali delle rotelle.
La palla era collocata in una grande fionda, sospesa a tre catene, due delle quali fissate al braccio. La terza, invece, era trattenuta solo da un suo perno, per cui, durante il lancio, per effetto della centrifuga si sganciava liberando la palla.
La doppia corda di caricamento del paranco era vincolata superiormente a una piastra che conteneva il congegno di sgancio, simile a quello delle altre artiglierie, e inferiormente si avvolgeva su di un grosso cilindro di legno, in pochissime spire.
dopo la minuziosa descrizione tramandata da filone di bisanzio, l’onagro scompare dalle fonti: è poco probabile, tuttavia, che l’arma fosse caduta in disuso, soprattutto se ne consideriamo la sua micidiale efficienza Stretta appare la somiglianza fra il telaio dell’onagro e la sega da falegname, forse la sua probabile ispiratrice, ma per noi è ancora piú somigliante, fatte le debite proporzioni, a una trappola a scatto per topi, dove al posto della matassa vi è la molla elicoidale: «Dal centro di queste [funi] si innalza obliquamente un braccio di legno, dritto come un timone di carro, cosí
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ONAGRO
avvinto nella matassa di nervi da riuscire possibile sollevarlo o abbassarlo; alla sua estremità superiore sono fissati dei ganci di ferro, dai quali pende una fionda di corda o di ferro. Dalla parte opposta del braccio di legno viene collocato un grosso sacco realizzato con ruvidi tessuti caprini, imbottendolo di paglia sminuzzata, e quindi legato con forti nodi è posto [insieme all’arma] sopra un rialzo di zolle o su di un cumulo di mattoni. Infatti una tale massa posizionata sopra un muro compatto di pietre lo sconnette rapidamente e non per il suo peso ma per i suoi scuotimenti». Le sollecitazioni derivanti dalla reazione della macchina risultavano tanto poderose da richiedere una sottostante apposita piazzola di manovra: «Ingaggiato il combattimento, nella fionda è collocata una pietra sferica; quattro robusti giovani, disposti da entrambi i lati, fanno ruotare in senso inverso l’albero al quale sono fissate le funi che a loro volta trascinano all’indietro il braccio, fino a un assetto quasi orizzontale. A questo punto il direttore del tiro, dall’alto della sua posizione, agendo sulla maniglia che vincola l’intera arma, la sblocca con un forte colpo di mazzola: il braccio liberato dal ritegno scatta e dopo aver scagliato il sasso che fracasserà qualsiasi ostacolo, percuote il soffice sacco di tessuto caprino».
In otto per il caricamento Risulta chiara la sequenza descritta: per la manovra di un solo onagro occorrevano ben nove serventi, otto dei quali per il caricamento! L’aspetto del dispositivo meccanico utilizzato si può desumere da una coppia di reperti ritrovati a Pompei: forse facevano parte di una poderosa gru o forse di un’arma del genere, di certo, però, potevano fornire trazioni possenti, grazie ai fori ferrati, sfalsati di 90°, e all’ausilio di lunghe spranghe. «Ed è anche chiamato tormento poiché ogni sua prestazione avviene tramite la torsione; ma è chiamato pure scorpione perché nella parte posteriore ostenta una sorta di aculeo eretto; di recente, però, ha ricevuto il soprannome di onagro, o asino selvatico,
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perché quell’animale quando incalzato dai cacciatori scaglia sassi scalciando all’indietro, in maniera tanto violenta da fratturare persino il cranio e le ossa degli inseguitori». Ed esattamente come con gli asini selvatici, sostare incautamente dietro un onagro poteva risultare fatale. Guai a dimenticare la loro violenta reazione posteriore! Lo stesso Ammiano tramanda un grave incidente verificatosi per una distrazione del genere. Scriveva, infatti, che «un architetto, appartenente al nostro esercito (…) mentre se ne stava dietro la macchina (…) fu gettato a
In alto elemento di paranco trovato a Pompei e rimontato su di un ceppo di legno: i fori delle bandelle di ferro, nei quali agiva la leva di caricamento, sono sfalsati per evitare di indebolire il legno. Il paranco dell’onagro montava due elementi del genere.
In basso un altro elemento di paranco ritrovato a Pompei. Si tratta, probabilmente, del corrispondente del precedente, avendo il medesimo diametro e l’identica struttura: da notare, però, che i fori sulle bandelle si trovano tutti dalla stessa parte, forse per un errore nella fase di restauro o di riutilizzo.
terra con il petto schiacciato da una pietra che l’addetto, esitando, aveva collocato sulla sua fionda». Né bastava la semplice attenzione, poiché per la direzione del tiro, forse perché fortemente parabolico e non valutabile a vista, occorreva una rilevante competenza, tanto che proprio in tale attività debuttò il titolo di dottore, per l’esattezza doctor balistarum! Se l’impiego dell’onagro risultava complesso, la costruzione e la messa a punto, invece, erano piú semplici di quelle di una tradizionale balista: un elementare telaio rettangolare, un’unica matassa che non richiedeva registrazioni, e un grosso paranco in coda. Quanto alle dimensioni, è logico supporre che
derivassero dalle stesse regole modulari, per cui, stabilito il peso in dracme – P – del proietto che si intendeva scagliare, gli si relazionava il diametro in dita – D – della matassa necessaria, secondo la formula D=1x13√P. Gli ancoraggi della stessa non differiscono, se non per la maggiore grandezza, da quelli delle baliste. Si trattava perciò anche in questo caso di modioli e di piste di rotolamento, con fori per il bloccaggio a precarica completata. Identico è anche il congegno di sgancio. Inedita è invece la fionda, che si ritroverà immutata nei trabocchi, un vero dispositivo automatico di sgancio ottenuto vincolandola all’estremità del braccio con tre catene, due fissate stabilmente, la terza solo con un gancio.
Come una frustata Quando il braccio, trascinato dalla matassa, ruotava fulmineamente, a sua volta trascinava le tre catene che si proiettavano, per reazione centrifuga, come una enorme frustata. In prossimità dei 45° il gancio si liberava e la catena si staccava aprendo la fionda. La palla, non piú costretta, proseguiva la sua parabola verso il bersaglio che, considerando la direttrice, la portava a raggiungere un’altezza di un centinaio di metri, quota dalla quale iniziava la ricaduta. Anche il braccio proseguiva la sua rotazione, abbattendosi, dopo aver descritto un settore di circa 120°, su di un saccone di cuoio, riempito di paglia. Per reazione, allora, l’intera macchina sobbalzava, sollevando la sua parte posteriore. La mole e il conseguente peso dell’onagro ponevano seri problemi di trasporto: lo stesso Ammiano, per esperienza personale, ne testimonia l’enorme difficoltà, e non sappiamo se i Romani lo munirono mai di ruote. Esperimenti eseguiti con ricostruzioni accurate hanno provato che palle di pietra di 5 kg coprivano distanze anche superiori ai 400 m, lasciando motivatamente concludere che artiglierie siffatte, opportunamente dimensionate, potessero scagliare, a brevi distanze, palle enormi con effetti distruttivi micidiali, simili a quelli del mortaio.
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ARMI SPERIMENTALI
GUERRE DI CARTA la vasta e variegata gamma delle armi e macchine da lancio comprende anche alcuni «fantasmi»: ordigni menzionati dalle fonti, ma dei quali, a oggi, non si hanno testimonianze archeologiche o raffigurazioni. È il caso, per esempio, di una catapulta attribuita a ctesibio di alessandria e della quale ci resta unicamente la descrizione, peraltro minuziosa, tramandata da filone di bisanzio
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LA CATAPULTA DI CTESIBIO
S
tando alla tradizione, Ctesibio nacque ad Alessandria nel III secolo a.C., da un barbiere che aveva la sua bottega vicino alla Biblioteca. Dai dotti clienti del padre, cominciò ad acquisire conoscenze variegate, fino a divenire uno dei massimi ingegni della mitica istituzione tolemaica. Le sue ricerche riguardarono anche l’ambito militare, avendo elaborato una catapulta a molle di bronzo e una balista ad aria compressa. Ambedue sono tramandate da Filone di Bisanzio nel trattato sulle armi da lancio intitolato Belopoeica (7, 28-73, 20, qui nella traduzione dell’autore), suo allievo e successore, che ne consente la ricostruzione virtuale. Ecco l’esegesi della prima: «Pertanto furono approntate squame di bronzo per la catapulta da tre spanne, o almeno cosí definita. In particolare vennero ricavate da lamiere di bronzo e una volta finite misuravano 12 dita di lunghezza – pari a una spanna (23 cm circa) – 2 di larghezza (4 cm circa) – e 1/12 di spessore (forse 1/2, 9 mm circa)». L’esposizione riguarda una catapulta non convenzionale, corrispondente a una tradizionale da 3 spanne, in grado cioè di scagliare dardi di 70 cm, azionata da due matasse nervine del diametro di 80 mm. L’equiparazione permette di determinare le componenti, pur disponendo solo di quella delle foglie di bronzo delle molle, definite squame, lunghe 23 cm, larghe 4 cm e spesse circa 9 mm. La costruzione si avvia dalla loro preparazione, in modo da poterle sovrapporre come nella lorica squamata,
In alto ricostruzione virtuale della catapulta a molle di bronzo di Ctesibio, elaborata sulla scorta delle descrizioni tramandate da Filone di Bisanzio nel trattato Belopoeica. Nella pagina accanto incisione cinquecentesca che ritrae Ctesibio nel suo studio, circondato da strumenti e macchine di cui era considerato l’ideatore.
raddoppiandone perciò lo spessore, ferma restando la mobilità relativa di ciascuna. «Esse furono fuse del migliore rame rosso di cui si potesse disporre, accuratamente purificato e reiteratamente raffinato. In seguito in ciascuna mina di rame (436,2 g) furono fuse 3 dracme (3 x 4,36= 13,08 g) di stagno anch’esso minuziosamente purificato e raffinato piú volte».
L’importanza delle percentuali Per Ctesibio era fondamentale disporre di rame e stagno purissimi, rari allo stato naturale, essendo il titolo del bronzo da lui prescelto del 97% del primo e del 3% del secondo (quando si riteneva già puro il rame al 95%). La particolare lega è ancora usata per realizzare molle di bronzo, ma una lieve variazione percentuale dei due metalli ne annulla l’elasticità! «Poi quando le squame erano forgiate e sagomate, assumendo le giuste dimensioni, veniva loro impartita una leggera curvatura tramite una matrice di legno. Dopo di ciò, si
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CATAPULTA A MOLLE DI BRONZO
Planimetria della ricostruzione della catapulta a molle di bronzo. L’architettura dell’arma, a eccezione del suo propulsore funzionante per deformazione a flessione di lamine di bronzo, è praticamente identica alle coeve catapulte a torsione. I tre piedi dell’affusto sono stati immaginati irrigiditi da tondini di accoppiamento di ferro, posti in modo da formare un leggero e solido cavalletto facilmente ripiegabile e trasportabile, dettaglio suggerito implicitamente dallo stesso Filone. La slitta della catapulta, per l’esigenza di mantenere le molle di bronzo il piú vicino possibile e saldamente vincolate fra loro e per evitare eccessive sollecitazioni al fusto al quale erano fissate, era piú stretta delle tradizionali, forse per la soppressione dei riporti laterali.
Le piastre di supporto delle molle erano realizzate in lamiera di ferro di adeguato spessore, accuratamente levigate per ridurre al massimo gli attriti con le estremità metalliche dei bracci. In prossimità dell’innesto al fusto vi era l’alloggiamento per le balestre.
All’estremità delle piastre di supporto delle molle stavano fissati i perni di rotazione dei bracci. Questi, essendo il fulcro del propulsore sottoposto a un rilevante sforzo, richiedevano perciò un cospicuo diametro.
I bracci, a differenza delle normali catapulte, non potevano essere interamente di legno, quale che ne fosse stata la durezza e resistenza, troppo indeboliti dal grosso foro necessario per la rotazione intorno al perno. Si devono perciò supporre di bronzo, per la sua piú facile e precisa lavorabilità.
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Il caricamento dell’arma avveniva, come in tutte le tradizionali catapulte a torsione, tramite una corda fissata alla slitta e fatta avvolgere sul tamburo di un verricello, a sua volta fissato alla parte posteriore del fusto e munito di un cricco a ruota di non ritorno.
L’albero del verricello, come quelli delle chiavi di arresto, terminava con due teste munite di foro rettangolare passante, in cui si inserivano le leve di manovra, fra loro perpendicolari.
L’alloggiamento del verricello di caricamento era ottenuto mediante una coppia di assi di rinforzo, fissate lateralmente al fusto in maniera di aumentarne sensibilmente la robustezza.
Una leva di ferro, appena piú corta delle leve del verricello, fungente da becco, o dente complanare, di un cricco era fissata al fusto e impegnava i denti della ruota dentata, consentendone la rotazione nel solo verso del caricamento e bloccandola, invece, in caso di controrotazione per rottura accidentale delle leve o di abbandono dei serventi.
Le leve di caricamento si devono immaginare rastremate verso le estremità e piú spesse al centro, offrendo cosí una razionale resistenza agli sforzi e un piú agevole maneggio ai serventi.
martellavano, a freddo, ininterrottamente per molto tempo, in maniera da renderle di spessore uniforme, lisce lungo il bordo e perfettamente levigate sulle facce maggiori, avendo cura di farle combaciare precisamente alla matrice. Quindi si assemblavano a coppie, collocandone le facce concave a contrasto fra loro, limandone con cura i bordi e fissandole l’una all’altra con perni». Ogni molla è composta da una coppia di foglie arcuate tenute sovrapposte da graffe, con le concavità in opposizione, unite da perni passanti posti alle estremità delle foglie maestre: uguali, per tutte, dimensioni, spessore e curvatura. Per rendere quest’ultima uniforme si utilizzò una matrice di legno, una centina, alla quale si portarono
a combaciare le foglie a forza di martellate. Al termine del procedimento seguiva la levigatura di ciascuna, per eliminarne qualsiasi sbavatura o irregolarità lungo i bordi e sulle facce, dovendo scorrere sulla sottostante con il minore attrito possibile. La connotazione risultante anticipava quella della molla ellittica, a doppia balestra, usata nei calessi o nelle carrozze ferroviarie. «In questa maniera le squame attingevano una elevata forza propria. Dunque, mediante una fusione piú splendente e brillante, si eliminava dal bronzo ogni scoria per cui diventava piú saldo e compatto. Le squame venivano poi martellate a freddo per molto tempo, schiacciandone la superficie per incrementarne la durezza». Per Filone la fusione deve apparire piú
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CATAPULTA A MOLLE DI BRONZO
Le opposte semibalestre furono giuntate fra loro mediante un perno, passante e ribattuto, l’unico capace di assicurare una salda e duratura tenuta anche dopo innumerevoli cicli di schiacciamento e di espansione della molla.
Per evitare che le molle schiacciate durante il caricamento dell’arma, sollecitate da due opposte direzioni, finissero col divaricarsi compromettendone il funzionamento, divenne indispensabile vincolarle fra loro con un robusto raccordo, che permettesse però, il passaggio della slitta: forse un ferro a forma di Pi greco. I perni intorno ai quali ruotavano i bracci, dovevano disporre di un bloccaggio trasversale per impedirgli di sollevarsi fino a sfilarsi, danneggiando cosí gravemente l’arma. Il bloccaggio si deve immaginare del tipo montato sui mozzi per frustrare l’uscita delle ruote, in pratica un chiodo piegato.
Le piastre di supporto delle molle dovevano essere fissate al fusto dell’arma con il massimo della solidità, per cui se ne deve supporre l’aderenza anche all’interno del solco a coda di rondine, con un apposito incastro per non ostacolarne il movimento.
brillante del solito, dettaglio che per noi significa con temperatura superiore, unica garanzia della perfetta omogeneità del bronzo. La prolungata martellatura, poi, accresceva la durezza superficiale delle foglie, eliminandone la residua porosità.
A forma di foglia d’edera «Stando disposte con le rispettive concavità opposte, come accennato, la molla era collocata a fianco del calcagno terminale del braccio, il quale pertanto premeva contro le squame. Il braccio ruotava intorno a un perno di ferro, posto sulla faccia esterna di una staffa di ferro fissata con la sua estremità al telaio; la staffa supportava anche la molla per evitare che danneggiasse il telaio stesso. Un anello è posizionato contro la faccia del braccio e fissato a esso: attraverso un perno di ferro il braccio si muove, estendendosi dal suo alloggiamento sopra la staffa a forma di foglia d’edera».
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Ogni molla si incastrava in una staffa di ferro a foglia d’edera, cioè d’una piastra a tre lobi, sul maggiore dei quali sporgeva un perno. Inseritovi l’anello, fungeva da fulcro per il braccio, che, ruotando, schiacciava con il suo eccentrico terminale. «Allorquando il suddetto meccanismo era a punto, tirando indietro la corda arciera, il braccio logicamente ruotava intorno al perno di ferro e pressava la squama con il suo calcagno. Essendo questa pressata sulla sua convessità ed essendo vincolata con entrambe le estremità contro l’altra squama, si raddrizzava e raddrizzava pure l’altra squama che per metà aderiva alla staffa di ferro del telaio che la supportava. Cosí, caricando l’arma come si è descritto, le squame erano costrette a raddrizzarsi perché compresse insieme; ma nella fase di rilascio assumevano nuovamente la loro originale configurazione, impressogli dalla matrice di legno. Liberandosi perciò con
La staffa trilobata che, a detta di Filone, ricordava vagamente una foglia d’edera, suggeriva probabilmente quella connotazione essendo sagomata in modo di adattarsi meglio alla rotazione del braccio. Il perno, infatti, posto in corrispondenza della sua cuspide, gli consentiva un’escursione a forma di triangolo, tipica di tale foglia.
filone aggiunse alcune puntuali precisazioni, temendo di non essere creduto o, peggio, deriso
Nella pagina accanto ricostruzione virtuale delle molle a doppia balestra in posizione di utilizzo. Filone si sofferma a precisare che si sfilavano dalla loro sede con grande facilità, per essere riposte in un’apposita custodia. Il dettaglio sembra suggerire una cura per mantenerle a lungo in perfetta efficienza.
notevole forza spingevano il calcagno del braccio violentemente». Messo a punto il congegno, tirando la corda arciera, si ruotavano i bracci che, tramite l’eccentrico, schiacciavano le molle a doppia balestra. Queste finivano per deformarsi contro un’apposita piastra della staffa a edera e, quando ormai piatte, l’arma era carica, e una ruota ad arpioni la bloccava in sicurezza. Liberato il ritegno, le molle riassumevano istantaneamente la loro curvatura, spingendo con violenza i bracci che, tramite la corda, scagliavano il dardo. Filone sapeva che, descrivendo un’arma tanto diversa dalle tradizionali, sarebbe stato criticato e deriso, per cui volle fornire alcune basilari precisazioni, a partire dall’elasticità del bronzo, mai utilizzata prima. E, dunque, cosí scrive al riguardo: «Probabilmente quanto ricordato può
sembrarti incredibile come è accaduto a molti altri. Essi non ammettono la possibilità che le squame, schiacciate fortemente dalla pressione del calcagno del braccio, siano capaci una volta liberate di riassumere la loro originale curvatura, restando al contempo sempre elastiche. Una capacità del genere è propria del corno e di alcuni legni, che infatti vengono impiegati per la costruzione degli archi; ma il bronzo per quanto naturalmente saldo e di rilevante durezza, al pari del ferro, quando curvato con una determinata forza, continua in seguito a mantenere quella
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CATAPULTA A MOLLE DI BRONZO
curvatura e non può raddrizzarsi di nuovo. Si scusa pertanto il loro persistere nella medesima opinione, poiché non hanno approfondito con adeguati studi la materia. La lavorazione richiesta per realizzare le suddette squame si è appresa dalla produzione di lame spagnole e celtiche. Quand’essi volevano saggiare la loro eccellenza, afferravano l’elsa con la mano destra e l’estremità opposta con la sinistra; quindi collocandola orizzontalmente sopra la testa tiravano verso il basso fino a far toccare alle opposte estremità le spalle. Successivamente, essi la lasciavano andare via di scatto, aprendo di colpo le mani. Appena liberata la lama si raddrizzava di nuovo, riassumendo l’originale configurazione, senza restare minimamente curvata. Sebbene essi ripetessero ciò
Al di sotto delle due piastre porta molle, si deve immaginare un secondo raccordo a U, piú grande del superiore a Pi greco che, oltre a tenere unite le stesse, assolveva pure alla funzione di sospensione dell’arma su di un apposito perno. Questo a sua volta, fissato al cavalletto a tre piedi, ne permetteva un rapido brandeggio. La zampa del cavalletto a tre piedi, supponendo un’arma smontabile dalle allusioni di Filone, doveva essere incernierata nella parte superiore, esattamente come nei cavalletti delle diottre, a un blocco di legno esagonale, sorreggente il perno di brandeggio.
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Prospetto frontale della ricostruzione virtuale della catapulta a molle di bronzo. Se fosse stata provvista di scudatura frontale, con l’apertura centrale per la slitta, sarebbe risultata simile ai due pezzi raffigurati sulla nave del rilievo di Magonza, che non sembrano appartenere ad alcuna tipologia nota (vedi foto alla pagina accanto).
frequentemente, le lame restavano dritte. Per appurare le ragioni del perché ciò avvenga e di come sia possibile che quelle spade risultino tanto elastiche si sono compiute delle indagini. Dalle stesse si è scoperto per prima cosa che il ferro è eccezionalmente puro; in secondo luogo tanto magistralmente lavorato che dopo la tempra non rimane alcun difetto o deformità; il ferro [poi] risulta di una precisa tipologia non troppo dura né troppo flessibile, una giusta via di mezzo. Ciò premesso, [i pezzi] sono stati sottoposti a una lunga battitura a freddo, dalla quale ne deriva la resistenza. Vengono battuti con pesanti martelli o con poderosi colpi, e per la battitura violenta e perpendicolare assumono la forma [voluta], con penetrazioni profonde [delle modifiche],
Appare estremamente probabile che per preservare meglio i delicati snodi dell’arma, dinanzi alle piastre fosse posta una sorta di scudatura, una lamiera, che nella ricostruzione virtuale non compare per non nasconderne i dettagli. In tal caso questa avrebbe avuto una forma rettangolare con un piccolo vano sul bordo superiore per il passaggio della slitta. Dal momento che non si può immaginare alcun fine corsa per la divaricazione delle zampe del cavalletto, l’unica maniera per bloccarle simmetricamente e stabilmente consisteva nell’impiego di tondini di ferro con le estremità a squadro per entrare in appositi occhielli.
facendo ciò per incrementare la durezza (...). Pertanto si battano a freddo le squame da entrambe le facce rendendo le loro superfici molto piú dure; ciò non toglie che all’interno rimangano morbide, poiché (si tratta) di una battitura leggera incapace di penetrare in profondità. In definitiva saranno cosí composte di tre strati, due duri e uno al centro piú tenero. Il risultato conseguito sarà una maggiore resistenza [elasticità] come descritto in precedenza».
Resistente all’umidità e facile da smontare Completata l’esposizione circa la concretezza dell’elasticità della particolare lega di bronzo, Filone espone la riscontrata funzionalità dell’arma. «Adesso si esporrà una sintetica spiegazione circa la loro efficacia. Innanzitutto la costruzione di siffatte artiglierie si dimostra molto piú semplice delle altre dal momento che non hanno fori per le matasse, né modioli, né rinforzi di ferro. Inoltre si confermano di gran lunga piú resistenti e difficilmente danneggiabili rispetto alle altre poiché montano molle di bronzo e non di tendini. Ultimo, ma non per importanza, ostentano una gittata piú lunga e un impatto piú poderoso, prestazioni che permangono inalterate nel corso delle battaglie campali e navali non essendo soggette ad alcun deterioramento a causa delle precipitazioni atmosferiche. Niente piú di queste danneggia le matasse elastiche che quando si bagnano o si snervano non forniscono piú la loro tremenda energia. Non di rado, perciò, i motori vengono trattati con ogni precauzione e protetti con coperture per scongiurare qualsiasi degrado per i cambiamenti meteorologici. In simili circostanze il bronzo risulta impareggiabile poiché assolutamente immune a rotture e a degradi. Inoltre terminato l’impiego la molla a balestra può venire facilmente rimossa e
Bassorilievo raffigurante una nave da guerra priva di remi e con pezzi in batteria, del tipo della catapulta a molle di bronzo. Magonza, Museo della Navigazione Antica.
custodita nell’apposito contenitore. Parimenti anche i bracci possono essere agevolmente rimossi dopo averne sfilato i relativi perni: in tal modo in ogni dettaglio l’arma si dimostra semplice e rapida da assemblare, nonché comoda da trasportare in marcia. Il motore a molla di bronzo che si è costruito ha questa connotazione». Un’arma ideale, insomma, per impieghi navali e campali, dove l’umidità dominava: non siamo però in grado di stabilire se in realtà trovò mai impiego operativo, o non restò una mera curiosità, presto dimenticata. Le fonti letterarie sono piú taciturne che mai, e, tra quelle iconografiche, una soltanto sembrerebbe avallarne l’adozione: un bassorilievo custodito nel Museo della Navigazione Antica di Magonza mostra una nave da guerra, con sperone, ma senza remi, e con due catapulte poste in batteria, di forma ampiamente compatibile con quella descritta. Se l’interpretazione è corretta, potremmo concludere che l’arma trovò impiego sui pattugliatori fluviali, unità prive di remi perché spinte dalla corrente o perché alate controcorrente, e che dovevano tirare di fianco, tra le boscaglie delle sponde, in un ambiente perennemente ad alto tasso di umidità.
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BALISTA A MOLLE D’ARIA
ANCHE L’ARIA PUÒ UCCIDERE
D
opo la catapulta a molle di bronzo (vedi alle pagine precedenti), Filone di Bisanzio descrive anche un’originale balista che, pur non discostandosi da quelle tradizionali per architettura e leverismi, ne differiva per il suo propulsore, in quanto la torsione e il rilascio di matasse nervine erano sostituiti da compressione ed espansione dell’aria. Motore dell’arma, infatti, era una coppia di cilindri ciechi con i relativi stantuffi, ma – a differenza di qualsiasi arma pneumatica, concettualmente assimilabile a una cerbottana –, l’aria non fuoriusciva col proietto restando nei cilindri, ad alta pressione prima del tiro e a bassa dopo, sempre la stessa e nella stessa quantità, come la molla all’interno di un respingente ferroviario.
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Risulta perciò appropriata la definizione di «balista a molle d’aria» nel testo che la descrive in due sezioni: la prima relativa alla costruzione dei cilindri e degli stantuffi, la seconda all’efficacia del loro funzionamento, tale da consentire il lancio di una palla invece che di un leggero dardo. Cosí scrive dunque Filone, nel trattato Belopoeica: «Ora noi passeremo preliminarmente e sommariamente a esporre una breve spiegazione circa quella che si chiamò la catapulta a molle di aria, una balista, e successivamente ne approfondiremo in un’altra sezione il meccanismo. Questo congegno inventato sicuramente da Ctesibio, fu un’opera meccanica e fisica notevolissima. Egli osservò nelle cosiddette “esperienze
In alto incisione settecentesca che illustra l’espansione dell’aria per mezzo del calore, secondo le teorie illustrate da Ctesibio. Nella pagina accanto particolare della copia di un rilievo di sarcofago raffigurante un organo idraulico. Roma, Museo della Civiltà Romana. Simile doveva essere l’aspetto della balista ad aria compressa.
pneumatiche” (...) che l’aria è perfettamente elastica, potente e comprimibile soprattutto se chiusa in un robusto recipiente. Pertanto essa può essere compressa con forza e, viceversa, espandersi con forza fino alla capacità del recipiente. Essendo un ottimo esperto in questioni meccaniche, ritenne che con questa grande tensione e veemenza fosse possibile far muovere i bracci [di un’arma]».
Con il gergo dell’epoca Per Ctesibio l’aria è assolutamente elastica, in quanto può essere sottoposta infinite volte a compressione e a espansione. Il concetto è esposto col gergo dell’epoca, per cui il volume iniziale diviene la «capacità del recipiente» e l’espansione il «desiderio dello stato naturale». Un ciclo perfettamente reversibile elastico, se il contatto fra i cilindri e stantuffi fosse stato a tenuta di gas, vero problema tecnologico dell’arma che, in compenso, risultava efficace anche sotto l’acqua battente, a differenza delle artiglierie nervine, fortemente igroscopiche. «Pertanto costruí dei serbatoi di forma identica a un vaso per medicinali, prima di cera spessa poi vi gettò il bronzo fuso; esternamente martellò il bronzo perché fosse piú resistente alle rilevanti sollecitazioni; poi ne lavorò la parte interna al tornio, la regolarizzò mediante un regolo, la levigò con l’abrasivo e la lucidò»: inizia cosí la descrizione dei cilindri e dei relativi stantuffi, sulla cui connotazione tornerà piú avanti, e sul modo impiegato per costruirli, lasciando dedurre un diametro esterno dei secondi appena piú piccolo dell’interno dei primi. Poiché non si fa alcun accenno a bielle di sorta, gli stantuffi si devono immaginare identici ai cilindri, ma appena piú stretti e, stando a Filone, mentre questi ultimi si martellarono esternamente per esaltarne la resistenza, alesandoli poi col trapano, gli stantuffi furono solo torniti. Minime erano perciò le tolleranze, che rinvenimenti archeologici di pezzi siffatti hanno confermato dell’ordine di 0,1 mm, simili alle attuali. «In questo modo inseriti i cilindri di bronzo l’uno nell’altro potevano compenetrarsi con
BALISTA A MOLLE D’ARIA
forza e pressata contro la circonferenza [una guarnizione] divenivano loro stessi lisci e precisi. In tal modo il gioco fra cilindro e stantuffo era cosí perfetto che l’aria pur facendo forza non riusciva a trovare una via d’uscita, anche quando raggiungeva la massima pressione». Filone tralascia di ricordare, lo farà in seguito, la collocazione di una guarnizione sulla bocca del cilindro prima dell’inserimento dello stantuffo che, schiacciata da una flangia, vi aderiva saldamente, garantendo la perfetta tenuta dell’aria. Un’altra guarnizione stava applicata allo stantuffo, per consentirgli una compressione accurata, per cui entrambe cooperavano per frustrare fuoriuscite d’aria, ma in due distinti momenti: in fase statica, cioè una volta raggiunta la massima pressione e in fase dinamica, cioè durante la compressione, a conferma dell’assoluto isolamento dell’aria interna. Quanto al materiale impiegato per le guarnizioni si trattava verosimilmente di un sottile strato di adesivo semiplastico, quale, per esempio, la colla di pesce.
Per rassicurare gli scettici «Non meravigliatevi e non abbiate incertezze, sulla fattibilità manuale di quanto detto e sulla sua capacità di effettuarla, poiché una simile lavorazione richiedono pure i cilindri dell’organo e le trombe pneumatiche che lavorano nell’acqua, entrambi fatti in bronzo cosí come è stato ricordato per questi cilindri». Filone rassicura cosí gli scettici ricordando che quella procedura di costruzione costituiva
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In alto la pompa di Huelva Valverde. III-IV sec. d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. I due cilindri simmetrici di bronzo conservano al loro interno i relativi stantuffi e le valvole di non ritorno posizionate sul fondo. Tra gli stantuffi e i cilindri si constata una tolleranza di appena 0,1 mm, non dissimile dall’attuale fra gli analoghi componenti dei nostri motori termici. In basso contenitori di bronzo per farmaci, di precisa forma cilindrica.
ormai prassi corrente, tant’è che cilindri analoghi si usavano nell’organo ad acqua o nelle pompe idrauliche. «Ctesibio [ingegnere greco vissuto ad Alessandria nel III secolo a.C., maestro di Filone, n.d.r.] ci spiegò e dimostrò le naturali proprietà dell’aria vale a dire che essa aveva un movimento violento e veloce dipendente dalle caratteristiche del cilindro che la comprimeva. In particolare lui aveva reso levigato il cilindro e, con colla da carpentiere, aveva realizzato una bordatura protettiva sopra la sua bocca circolare». Compare cosí la guarnizione di bocca, cremosa, appena applicata e abbastanza elastica in seguito da aderire a una superficie metallica levigata e lubrificata. «Colpendo con una mazzola un apposito braccio fece entrare dentro lo stantuffo con una grandissima violenza. Fu possibile osservare lo stantuffo scendere continuamente ma, quando l’aria che era stata premuta all’interno fu compressa, essa esercitò sul braccio una spinta non minore della piú potente matassa elastica. Cessata la forza e liberato il braccio, lo stantuffo fu espulso con violenza dal cilindro. Successe però che venne fuori anche del fuoco dall’aria che aveva strofinato contro il cilindro nella velocità del suo moto». Il brano è illuminante e
Ricostruzione virtuale dei due cilindri, con i relativi stantuffi, usati da Ctesibio per comprimere l’aria, e dell’ipotetico dispositivo meccanico a cremagliera, necessario per effettuarne la manovra.
Sezione orizzontale della ricostruzione ipotetica della balista a molle d’aria vista dall’alto. La linea perpendicolare rossa indica l’asse della sezione trasversale.
Sezione orizzontale della balista al livello dell’ingranamento dei settori dentati sulla cremagliera. Lo stesso movimento poteva essere ottenuto anche con altri leverismi, ma questo è il piú semplice tanto che si usa nei comuni cavatappi.
Qui sopra sezione verticale longitudinale della balista a molle d’aria, da cui si evince la collocazione dei cilindri rispetto al fusto dell’arma. Le linee rosse indicano gli assi di sezione orizzontali.
prova la veridicità della testimonianza: facendo penetrare lo stantuffo nel cilindro, con poderosi colpi di mazzola assestati su di una leva, l’aria si comprimeva al suo interno, fin quando non cedeva ulteriormente. A quel punto esercitava sulla leva una trazione non inferiore a quella esercitata dalle matasse di tendini delle baliste piú potenti e, fatto fuoriuscire lo stantuffo, Ctesibio constatò, fenomeno per lui ignoto, la fuoriuscita di fiamme dal cilindro. Dalle parole di Filone si deduce che i cilindri dovessero avere una configurazione snella, con diametro di una decina di centimetri e corsa di una cinquantina: contenuto l’uno per poterlo costruire e lunga l’altra per raggiungere il volume necessario. Con tali dimensioni, quando lo stantuffo fosse penetrato fino a un pollice dal fondo, la pressione avrebbe toccato i 30 kg/cmq e la temperatura gli 800°, valori sufficienti a spiegare le fiamme. Tornando alla costruzione dei cilindri, Ctesibio «allestí due di siffatti involucri, nella maniera suddetta, e li costruí di forma identica a un A sinistra sezione verticale trasversale che mostra la collocazione dei bracci e dei relativi settori dentati per la movimentazione della cremagliera.
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BALISTA A MOLLE D’ARIA
Ricostruzione virtuale della balista a molle d’aria, privata di parte della corda arciera per evidenziare l’adozione del tradizionale dispositivo di scatto. I cilindri dell’aria sono fissati al fusto, in un apposito alloggiamento, con listelli di ferro e legature di corde.
e rilasciato l’uncino i gomiti indietreggiarono con grande potenza e la scagliarono realizzando un tiro molto soddisfacente».
Bracci corti e storti vaso per unguenti, trapanati e uniti alla base e li rinforzò congiungendoli intorno al fusto di legno con legami e cerchiandoli insieme con ceppi di ferro, e non mirò unicamente alla saldezza, ma anche all’estetica, al punto che il congegno sembrava un organo». I due cilindri vennero fusi su un’unica base, appena discosti fra loro e paralleli, e applicati al fusto di una normale balista: una disposizione confermata dal fatto che l’intera arma somiglia a un organo. Gli stantuffi ebbero in testa una sorta di gomito, cosí da poter azionare i bracci dell’arma. «E ancora alla base dei gomiti applicò degli zoccoli di ferro ricurvi congiunti agli stantuffi. I gomiti erano uguali a quelli che ruotano intorno alle già descritte molle di bronzo, sostenuti da una forcella di ferro. Quando lui ebbe costruite le parti menzionate vincolata attorno la corda e fissata alla slitta la tirò indietro alla maniera degli altri propulsori. Quando la corda fu tirata indietro i gomiti premettero la loro estremità contro gli stantuffi facendoli naturalmente rientrare e l’aria cominciò a comprimersi dentro il cilindro alla maniera che io ho detto e in una densità enormemente accresciuta fu premuta con il desiderio del suo naturale stato. Caricata la palla
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In alto, a destra spaccato schematico dell’acciarino ad aria compressa. Lo stantuffo sulla cui estremità anteriore sta l’esca, spinto violentemente nel cilindro vi arroventa l’aria interna accendendo cosí l’esca, che brucia rapidamente una volta estratta.
Filone ricorda i bracci dell’arma col termine anxon (letteralmente «gomito» e, per estensione, ogni leva arcuata) ed effettivamente quei bracci corti e storti, diversi dagli snelli e dritti delle baliste convenzionali, ricordavano un gomito. Per renderne piú saldo l’innesto sullo stantuffo, Ctesibio li muní di un giunto di ferro, che definí zoccolo. Nella ricostruzione virtuale, per facilitare la comprensione del movimento, essendo lunga la corsa dello stantuffo, se ne è immaginato un innesto a cremagliera. Va tuttavia precisato che quel risultato si poteva conseguire anche con i soliti leverismi, azionati dallo stesso verricello di caricamento, munito di arpionismi d’arresto che ne impedivano il rilascio accidentale. «Cosí come noi ti abbiamo spiegato il progetto della balista a molle d’aria e siamo stati scrupolosi, crediamo che sia auspicabile concludere il nostro trattato sulla costruzione delle artiglierie e passare a un’altra sezione dei meccanismi». Forse per la sua complessità, forse per l’improba manutenzione, forse per il costo eccessivo, non risulta che la balista a molle d’aria abbia avuto diffusione. Rimase un prototipo o, verosimilmente, se ne limitò la costruzione a pochissimi esemplari. In ambito scientifico, tuttavia, suscitò una vasta curiosità, che finí per trasformarla in una leggenda.
UNA TENSIONE VINCENTE
I
l piú volte menzionato Filone di Bisanzio inventò una catapulta a trazione, il cui funzionamento si basava su di un’unica sollecitazione, applicata alle corde di un singolo avvolgimento, disposto su vari strati. Prescindendo dalla minore influenza dell’umidità sulla tensione accumulabile ed erogabile con una simile disposizione, tale motore, grazie alla sua geometria piú compatta, poteva essere protetto piú facilmente in un contenitore quasi stagno. Sottolineava perciò al primo punto della sua lunga relazione: «La piú importante innovazione nel disegno è che le corde delle matasse non convergono, ma sono parallele, e questo, piú di tutto, produce la maggiore gittata». Filone evidenzia che la causa della maggiore perdita di rendimento delle catapulte a torsione derivava dalla sollecitazione non omogenea della corda delle loro matasse, poiché lo sforzo maggiore veniva scaricato sulle spire piú interne nelle quali stavano serrati i bracci. Sarebbe stato perciò possibile ottenere un considerevole incremento di potenza allargando le matasse e disponendo le spire lungo un unico strato, o in un paio.
viene azionata da una coppia di bobine piatte, distanziate da regoli di legno che poggiano su piastre di ferro. Tale disposizione, eliminando le forti differenze di tensione, evitava, di conseguenza, lo schiacciamento delle corde delle bobine, nonché i costosi modioli di bronzo e le sottostanti piste di rotolamento. Precisava inoltre il suo ideatore: «Mentre nel corso del prolungato utilizzo delle artiglierie si devono ricaricare piú volte le matasse a causa del loro allentamento (…) nella mia si può ottenere immediatamente una tensione ulteriore, non per mezzo di torsioni extra (che abbiamo dimostrato essere dannose), ma tesando verticalmente e insieme tutte le spire in modo corretto [battendo con la
Ricostruzione virtuale della catapulta a trazione ideata da Filone di Bisanzio e da lui descritta nel trattato Belopoeica.
Ricariche piú facili e veloci Per rendere piú comprensibile l’esposizione di Filone, abbiamo chiamato bobine le matasse elastiche del suo motore: la bobina, infatti, essendo un avvolgimento con le spire affiancate sullo stesso piano e in piú strati sovrapposti, coincide con la disposizione delle corde descritta dallo scienziato greco. Nella matassa, invece, le spire pur trovandosi strettamente compattate non sono complanari, né stratificate, ma ritorte. La catapulta di Filone
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CATAPULTA A TRAZIONE
mazzuola i due cunei contrapposti sottostanti ai due regoli di legno], lo stesso sistema con cui vennero tesate quando la macchina fu approntata. Ritengo, ancora di consentire alle bobine una lunga resistenza evitando di porle a riposo o di rimuoverle dai motori, preservandole perciò dalla necessità della lubrificazione e del bagno in olio; l’olio, infatti, nutre la corda nervina quando è a riposo». Filone ribadisce la rapidità e la facilità di caricamento della sua catapulta a trazione rispetto a quelle a torsione, sottolineando che il suo motore non obbliga a frequenti ricariche e a lunghe pause per la rigenerazione delle corde. E pur risultando molto minore il tormento delle fibre – essendo omogeneamente distribuito su ogni spira –, la resa balistica risultava equivalente alla corrispondente arma a torsione da 100 mm.
Un telaio modificato Fatta salva l’originalità del motore, per il resto occorreva che la struttura della stessa arma fosse «non meno solida delle tradizionali. Costruiamo il telaio, l’affusto, il fusto, il paranco, le leve, tutto come nelle tradizionali, ovvero come le vecchie, ma dobbiamo accrescere un poco le dimensioni del sistema di caricamento. Questo deve essere piú robusto, dal momento che tutto è ora piú potente e piú sollecitato». Purtroppo il disegno di Filone non ci è pervenuto, per cui dobbiamo ipotizzare che il suo motore utilizzasse un telaio modificato. Le assi superiori e inferiori sono infatti parallele e vengono racchiuse in due apposite scatole di legno modanate, facilmente rimovibili estraendo le chiavette. La coppia di vani fra i tre montanti del telaio del propulsore, dove sono alloggiate le spirali di corda, vengono schermate da una piastra antistante, con un unico piccolo foro centrale riservato al movimento della slitta e alla fuoriuscita dei dardi. Circa il costo, Filone precisava: «Questi
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motori sono ancora piú convenienti di quelli di vecchio tipo, per la maggiore gittata che è tutto». Ciò premesso, lo scienziato, esponendone le diverse componenti e le relative dimensioni esecutive – sostanzialmente analoghe alle tradizionali –, indugia sull’avvolgimento delle bobine. Dal momento che il numero delle loro spire non è determinato, ma dipende dalla lunghezza della corda, si deve presumere che sia la stessa delle matasse tradizionali di pari calibro. Il che, in definitiva, confermerebbe il criterio informatore al quale Filone ha subordinato il suo motore: sfruttare le deformazioni per uguale trazione di tutte le spire delle corde, senza aumentarne la lunghezza, né lo spessore, né la resistenza. Passa poi a descrivere i contenitori gemelli da applicare sopra e sotto le bobine. Interessante è il suo
In alto ricostruzione virtuale della catapulta di Filone, con la scatola di copertura sollevata e la piastra frontale parzialmente sezionata. Sono ben evidenti le due bobine piane e il criterio impiegato per la loro messa in tensione tramite l’azione di due cunei sotto una barra di ferro rivestita di legno.
riferimento alla somiglianza del motore dell’arma con un coevo telaio tessile. Per proteggerne le bobine, sempre igroscopiche, il motore finisce chiuso in due apposite scatole, che egli stesso descrive dettagliatamente. Ciascuna è di dimensione sufficiente a contenere completamente i tre montanti del propulsore, con i relativi incastri ed è ornata con una modanatura a doppia onda corrente tutto intorno.
Rappresentazione virtuale esplosa della catapulta di Filone in ogni sua componente. Sono ben evidenti le bobine piane di corde nervine, ciascuna lunga verosimilmente una trentina di metri, come nelle corrispondenti catapulte a torsione.
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ARTIGLIERIA
DOMANI, NELLA BATTAGLIA...
nel settembre del 9 d.c., la Foresta di Teutoburgo, nella Germania del Nord, fu teatro del massacro di tre legioni romane guidate dal generale Publio Quintilio Varo da parte di un’orda di guerrieri germanici. dopo avere esaminato le caratteristiche piú salienti dell’evento dal punto di vista bellico, torniamo a parlarne, non soltanto per analizzare i risvolti militari di quella disfatta, ma anche per ripercorrere la lettura che ne è stata data dagli storici. e per documentare i ritrovamenti archeologici che hanno gettato nuova luce sull’effettivo svolgersi di quella terribile vicenda di Andreas M. Steiner
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«N
el mezzo del campo le ossa biancheggianti, disperse e ammucchiate, a seconda che gli uomini fossero fuggiti o rimasti a porre resistenza. Giacevano vicino frammenti di frecce e arti di cavalli, insieme a teschi umani inchiodati su tronchi d’albero. Nei boschi vicini c’erano altari barbari, presso i quali avevano trucidato i tribuni e i centurioni dei primi ordini. I superstiti di questa strage, sfuggiti alla battaglia o alla prigionia,
raccontavano che in questo luogo morirono i legati, che in quello erano state rapite le aquile; segnalavano dove Varo venne ferito la prima volta e dove egli trovò la morte attraverso il colpo che si inferse con la sua infausta mano destra; e segnalavano il rialzo del terreno da cui Arminio aveva arringato il suo esercito, il numero delle forche per i prigionieri, le fosse per i vivi, e come, per superbia, egli si fosse fatto beffa delle insegne militari e delle aquile». La vivida descrizione riportata dallo storico
In alto la foresta di Teutoburgo (Germania, regione della Bassa Sassonia e Nord Reno-Westfalia), in settembre: in un paesaggio simile, nel fatidico giorno 9 di quel mese del 9 d.C., si combatté la battaglia fra Romani e Germani. A destra maschera in ferro ricoperta d’argento, già parte di un elmo cerimoniale romano, rinvenuta nel 1990 a Oberesch, presso l’altura di Kalkriese (Germania settentrionale) e divenuta il simbolo delle nuove indagini sulla battaglia.
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romano Publio Cornelio Tacito nei suoi Annales (opera in cui narra, appunto con disegno annalistico, le vicende dell’impero romano dagli ultimi anni di Augusto alla morte di Nerone) ci permette di immaginare lo sgomento di quei legionari che, guidati dal nuovo comandante dell’esercito romano, Germanico, si recarono sul luogo dove, pochi anni prima, erano stati trucidati i loro compagni in un combattimento durato quattro giorni e tre notti. Il sanguinoso evento, divenuto universalmente noto come la «Battaglia del Teutoburgo», segnò In alto veduta della foresta di Teutoburgo, tra le città di Osnabrück e Herford. A sinistra un figurante indossa gli abiti e l’armatura di un ausiliario dell’esercito romano in occasione di una rievocazione della battaglia. Nella pagina accanto l’«Hermannsdenkmal», il monumento ad Arminio, eretto nel 1875.
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una delle piú pesanti sconfitte mai subite dall’esercito di Roma (e i cui aspetti tecnici sono stati già esaminati alle pp. 60-67). Una sconfitta che si verificò nel settembre dell’anno 9 d.C. e di cui schiere di studiosi si sono impegnati a ricostruire l’esatta dinamica; a partire, almeno, dalla riscoperta, nel 1514, degli scritti di Tacito, che nella Germania di allora diede inizio a un vero e proprio culto tributato a quello che poi sarebbe diventato un «fondatore della patria», il cherusco Arminio, in onore del quale, nel 1875, venne eretto, tra i boschi presso la cittadina di Detmold, un monumento, il cosiddetto «Hermannsdenkmal». Già, perché il nome latino «Arminio» si trasformò, nella traduzione di un suo illustre ammiratore, Martin Lutero, in «Hermann»: letteralmente uomo (in tedesco «Mann») dell’esercito (in tedesco «Heer»). Per il padre della riforma protestante il nome altro non era che la restituzione del latino «dux belli».
Questioni ancora aperte Nel 2009 la Germania ha celebrato il bimillenario dell’evento con mostre e numerose pubblicazioni, affrontando l’argomento a partire da un triplice aspetto: quello dell’impero (il contesto storico e geopolitico che fa da sfondo alla disfatta, la Germania sotto la dominazione di Roma), del conflitto (come, perché e, soprattutto, dove si verificò il fatidico scontro?), del mito (quale fu l’esito, sul piano della storia successiva – soprattutto quella nazionale tedesca – della «memoria» venuta a costruirsi su fatti e personaggi?). Se il quadro storico, infatti, continua ad arricchirsi di nuove e sorprendenti scoperte (fra le piú recenti, spicca quella dei resti di una statua equestre rinvenuta a Waldgirmes), per la tragedia di Teutoburgo gli interrogativi, nonostante gli imponenti risultati delle ricerche archeologiche svoltesi negli ultimi decenni nel sito di (segue a p. 98)
Monumento all’unità tedesca Nel 1875 fu inaugurato, su un’altura nei boschi presso Detmold, il monumento raffigurante un gigantesco guerriero armato. Alta 57 m circa, la statua rappresenta Arminio/Hermann, fautore della sconfitta inflitta ai Romani e liberatore del popolo tedesco. Per lo studioso Hinrich Seeba, piú che le origini della storia tedesca, il monumento documenta la mania, tipica della fine del XIX secolo, per il mito dell’identità tedesca.
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BATTAGLIA DI TEUTOBURGO LE gentI GERMANICHE COINVOLTE NELLO SCONTRO CHERUSCI Tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. i Cherusci abitavano il territorio tra Elba e Weser. Furono prima alleati e poi nemici di Roma. La loro struttura sociale era incentrata sulla figura di un principe. Questi capi delle aristocrazie locali, tuttavia, erano spesso in conflitto tra loro. Alcuni di essi, come Segeste, suocero di Arminio, ebbero relazioni amichevoli con i Romani. Sottomessi da Druso (12-9 a.C.) e Tiberio (4 d.C.), nel 9 d.C., guidati da Arminio, fecero strage del contingente militare di Varo a Teutoburgo. Furono annientati da Germanico, tra il 15 e il 16 d.C. MARSI I Marsi occupavano i territori tra Reno, Ruhr e Lippe. Nel 9 d.C. si schierarono con i Cherusci di Arminio. Furono massacrati da Germanico, nel 14 d.C., che li colse di sorpresa, mentre celebravano le feste in onore della dea Tan. Nel 15 d.C. furono nuovamente sconfitti da Germanico, il quale, in quell’occasione, recuperò una delle aquile legionarie perdute a Teutoburgo. Cassio Dione menziona i Marsi a proposito del recupero di una seconda aquila, nel 41 d.C. BRUTTERI I Brutteri erano stanziati
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tra i fiumi Lippe ed Ems, a sud della foresta di Teutoburgo. Furono sconfitti da Druso nel 12 a.C. Nel 9 d.C. si allearono con Arminio, e contribuirono alla vittoria di Teutoburgo. Nel 15 d.C. le loro terre furono devastate dall’esercito di Germanico. Nel 69-70 presero parte alla rivolta dei Batavi. Furono in seguito assorbiti dai Franchi.
inizialmente stanziati lungo l’Elba e il Meno. Nel 9 a.C. vennero respinti nell’odierna Boemia da Druso (9 a.C.). Combatterono contro Cesare durante le guerre galliche, ma evitarono lo scontro con Tiberio (4-6 d.C.), stringendo un accordo di pace con Roma. Nel 9 d.C. rifiutarono la richiesta di
Arminio di schierarsi contro i Romani. Violenti scontri, invece, ebbero luogo sotto Domiziano (81-96 d.C.), Adriano (117-138 d.C.) e Marco Aurelio (161-180 d.C.). Alla metà del III secolo, ripresero le armi sotto la spinta di Vandali e Iutungi, stanziandosi in Baviera tra il V e il VI secolo d.C.
Grande Palude
Ritrovamenti archeologici
CATTI Stanziati tra i fiumi Fulda ed Eder, i Catti erano vicini e alleati dei Cherusci, con i quali erano uniti da saldi legami parentali. Furono, tra il I e il II secolo d.C., irriducibili avversari dei Romani.
Ritrovamenti archeologici
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ra di Kalkries Altu e Venne
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MARCOMANNI Compresi nel piú vasto gruppo degli Suebi, i Marcomanni erano
Wallenhorst
Molti Romani, disorientati dalla confusione della battaglia, fuggirono a Nord, ma trovarono la morte nella vicina palude Sentiero principale
uale corso)
o-Elba (att
Canale Ren
I Romani tentano un’ultima e disperata difesa, provando a trincerarsi in un campo di fortuna fatto di carriaggi Sentiero deviato dai Germani
Grande Palude La colonna romana, formata da 3 legioni (XVII, XVIII e XIX), 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliare (per un totale di circa 20 000 uomini), si allungava nella foresta di Teotoburgo per circa 3,5 km
o il terrapi i dietr eno man Ger 0 0 0 e n l l i a n s a e 7 lva m / Ger 00 50 000 7 / 0 500 7000/10 000 Germani nascosti nella selva
Terrapieno costruito dai Germani
Altura di Kalkriese
Mare Baltico Mare del Nord Tiberio (5 d.C.)
ANGLI
Druso (12 a.C.)
SASSONI CAUCI
Bentumersiel
Nimega
GERMANIA INFERIOR
Elb
SENONI
Porta Westfalica
(dall’11 a.C.)
SUEBI
Lippe
BRUTTERI
CHERUSCI
Xanten Oberaden MARSI SIGAMBRI CATTI Colonia TENCTERI Bonn Waldgirmes Francoforte
ERMUDURI Druso (10/9 a.C.)
ANIA GERM NA MAG
MARCOMANNI Tiberio (6 d.C.)
Saturnino (6 d.C.)
REGNO DI MAROBODUO
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Kalkriese Haltern USIPETI
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Treviri Magonza
Reims
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Nancy
Spira
Strasburgo
GERMANIA SUPERIOR
Basilea
Vindonissa
Tiberio (15 a.C.)
Kaiseraugst
io
nub
Da
Linz
Monaco AugsburgOberhausen
Vienna
Salisburgo
Berna Druso (15 a.C.)
Canuntum
Graz
Lione Aosta
Spostamento di truppe romane in età augustea Campi legionari Città romane Postazioni militari
Nimes
Città moderne
Mar Tirreno
Mare Adriatico Corsica
Roma | STORIA DELL’ARTIGLIERIA | 97 |
BATTAGLIA DI TEUTOBURGO
una denominazione recente La foresta di Teutoburgo, di cui in pochi oggi ricordano l’originario e antico nome di «Osning», è una catena di alture (raggiunge i 446 m) che si estende, in direzione est-ovest, attraversando il confine tra i länder della Bassa Sassonia e del Nord Reno-Westfalia. Sul margine settentrionale della foresta è posto il sito archeologico di Kalkriese, identificato con il luogo in cui si svolse il leggendario scontro tra legioni romane e guerrieri germanici. Anche se il nome «Teutoburgo», ripreso da Tacito (che parla di un saltus Teuteburgiensis), venne applicato a queste alture per la prima volta agli inizi del Seicento.
Kalkriese (vedi box a p. 100), sono ancora molti, troppi. Come capita spesso per gli accadimenti storici, dopo il fattaccio di quel settembre del 9 d.C. la mitopoiesi ha preso la rincorsa. E la storia, coadiuvata dalla ricerca archeologica, ha il compito di raggiungerla. A partire, naturalmente, dal riesame dei fatti, cosí come ci sono stati tramandati dalle fonti letterarie antiche, senza le quali della battaglia di Varo non sapremmo niente, salvo che per l’iscrizione di una stele funeraria rinvenuta a Xanten (e oggi conservata al Landesmuseum di Bonn), da cui risulta che il titolare della stele, Marcus Caelius, centurione della XVIII legione, cadde all’età di 53 anni e mezzo durante la «guerra variana» (cecidit bello Variano).
Testimoni indiretti Nessuno degli autori che hanno riferito della battaglia (tra cui Velleio Patercolo,Tacito, Floro, Cassio Dione) ne erano stati testimoni diretti, e il piú completo resoconto di cui disponiamo, quello di Cassio Dione, fu stilato duecento anni dopo l’accadimento. La testimonianza di Tacito, inoltre, altrettanto dettagliata, risale agli inizi del II secolo. Le diverse fonti, poi, difficilmente coincidono, al punto che la cronaca A sinistra applique in bronzo a forma di testa maschile rinvenuta grazie ai recenti scavi condotti a Kalkriese (Osnabrück, Germania). In basso ancora una veduta della foresta di Teutoburgo.
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l’equipaggiamento delle legioni La grande quantità di reperti rinvenuta nel corso degli ultimi anni nel sito di Kalkriese offre un quadro articolato e completo di quello che doveva essere l’armamentario di un militare dell’esercito romano in età tardo-augustea/ tiberiana. Numerose sono le armi, quali lance, giavellotti, spade e pugnali, frammenti di corazze e schinieri. Non mancano, inoltre, i finimenti per cavalli in ferro e bronzo dorato (qui accanto), ai quali si aggiungono preziosi elementi dell’abbigliamento personale (a destra, in basso).
dell’accadimento può essere riassunta solo nelle grandi linee: nei primi anni della nostra era, i Romani in Germania vivevano tempi duri. Mentre le terre a ovest del Reno erano «addomesticate», quelle a est, la Germania magna, rappresentavano una sfida continua, nonostante Roma vi abbia costruito accampamenti militari imponenti (come quelli e Oberaden e Haltern, lungo il fiume Lippe, quest’ultimo di 600 x 400 m, munito di cinquanta torri e un proprio porto fluviale) e vere e proprie città (come quella di Waldgirmes, nella valle del fiume Lahn, con un (segue a p. 102) Qui sotto punta di lancia in bronzo, tra le centinaia rinvenute, a partire dagli scavi iniziati nel 1988 nel sito di Kalkriese, identificato come il luogo in cui si svolse la battaglia di Teutoburgo.
nessuno degli autori che l’ha raccontata fu testimone diretto della battaglia | STORIA DELL’ARTIGLIERIA | 99 |
BATTAGLIA DI TEUTOBURGO Fosse comuni per sepolture improvvisate
L
a «storia» degli scavi di Kalkriese ha inizio con il rinvenimento fortuito di monete romane – nel 1987 – e di tre giavellotti – nel 1988 –, da parte di Tony Clunn, un maggiore in pensione dell’esercito inglese con la passione per l’archeologia. Con il coinvolgimento delle autorità competenti e il coordinamento dell’archeologo comunale, Wolfgang Schlüter, i rinvenimenti si sono susseguiti anche nel 1989, quando è stato deciso un intervento di scavo sistematico nella zona dell’Oberesch. Individuati i limiti dell’area di intervento, che si estendeva dai campi fino all’adiacente bosco, nel 1990, è stata identificata un’area, di 15 m di larghezza e 40 cm circa di altezza, che si distingueva per la differente colorazione del suolo: si trattava dei resti di un vallo, non piú visibile in superficie. Il vallo, infatti, era costruito con zolle di terra ed era affiancato, lungo il lato sud, da un fossato per il drenaggio delle acque. Grazie allo studio dei manufatti rinvenuti – monete romane ed equipaggiamento militare –, rimasti sepolti dal
crollo della struttura, è stato possibile datare il contesto all’età augustea. Nel 1990, inoltre, è stata portata alla luce la visiera di un elmo, appartenente a un cavaliere romano, che, originariamente, era ricoperta da un lamina d’argento. Sotto alla fortificazione e nei dintorni sono state individuate tracce di frequentazione pre- e protostorica: strumenti in pietra di epoca paleolitica, buchi di palo riferibili a strutture dell’età del Ferro destinate allo stoccaggio delle derrate. I depositi archeologici piú ricchi sono stati rinvenuti nei settori in cui le fortificazioni erano crollate già in antico. Spicca, tra i rinvenimenti, lo scheletro di un mulo con i resti dell’imbrigliatura. Sono stati portati alla luce anche frammenti ossei di cavalli e un amuleto, fissato alla bardatura. Nel 1994, a nord della struttura difensiva, è stata rinvenuta la prima – e la piú grande – delle fosse, all’interno delle quali erano stati deposti i resti di uomini e animali, che forse erano sepolture improvvisate e potrebbero corrispondere a quelle descritte da Tacito.
Due archeologi impegnati negli scavi condotti nella località di Kalkriese (Foresta di Teutoburgo). I reperti restituiti dalle indagini offrono significativi riscontri alle notizie tramandate dagli storici e, in particolare, al resoconto di Tacito, che costituisce la fonte piú importante per la ricostruzione del terribile evento di cui la zona fu teatro nel settembre del 9 d.C.
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Il viaggio di un macabro trofeo
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opo la vittoria di Arminio, la situazione politica e militare tra le popolazioni dislocate nella Germania Magna, nel vasto territorio compreso tra l’Elba, il Reno e la Boemia a meridione, era cambiata in maniera considerevole, ponendo la necessità di ridefinire alleanze e equilibri di potere tra le stesse popolazioni germaniche, e tra queste e i rappresentati di Roma. E, indubbiamente, la consegna della testa-trofeo di Varo al re dei Marcomanni, Maroboduo, assume il significato di un esplicito invito, da parte di Arminio, a coalizzarsi in una comune alleanza contro l’impero di Roma. Un progetto destinato a naufragare, forse proprio a causa della sfrenata ambizione di potere del giovane principe cherusco (il quale, all’età di 37 anni cadrà, a sua volta, vittima di un’imboscata tesagli dai propri parenti). Sullo sfondo di questo quadro storico assume un interesse particolare «l’itinerario» percorso dal macabro trofeo, dal luogo della battaglia (verosimilmente nell’area dell’odierna Kalkriese) alla lontana Boemia, all’epoca regno di Maroboduo, fino a Roma. Il re marcomanno, infatti, aveva restituito la testa ai famigliari di Varo e lo stesso Augusto aveva fatto sí che venisse deposta, con tutti gli onori, nella cripta di famiglia. Quello della testa di Varo fu un viaggio di oltre 2000 km che, per quanto arduo e pieno di incognite, presupponeva la presenza di una qualche rete viaria anche nella parte trans-renana della Germania. Una rete che, tenuta gelosamente nascosta al nemico romano, era verosimilmente conosciuta dalle sole popolazioni indigene che l’avevano allestita.
Arminio «Principe di Sassonia» in una raffigurazione di Burkhard Waldies del 1543. Il personaggio, raffigurato in «posa eroica», regge, nella mano destra, la testa mozzata di Varo.
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suo foro e le terme). L’allora governatore, Publio Quintilio Varo, si trovava con tre sue legioni nell’accampamento estivo, a est del Reno, sulla riva occidentale del fiume Weser, in pieno territorio cherusco.
Il consiglio del giovane Cherusco
In alto sovrapposizione grafica del campo di Oberaden al paesaggio attuale, che ne mostra la notevole estensione.
La via del ritorno a ovest, nell’accampamento invernale dove lo attendono le altre due legioni, doveva forse passare per la via militare che conduceva a Vetera, un campo nei pressi dell’odierna Xanten. Ma Varo viene avvicinato A destra pianta del campo legionario di Haltern, con l’indicazione delle strutture principali: 1. principia (quartieri amministrativi); 2. praetorium (residenza del comandante); 3. case dei tribuni; 4. fabrica (officine); 5. alloggi delle truppe; 6. valetudinarium (ospedale).
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da Arminio, figlio di un principe cherusco e a capo di una milizia di cavalieri ausiliari germanici a servizio di Roma. Per i suoi meriti militari, Arminio era stato insignito della cittadinanza romana. Nelle terre del Nord sarebbe scoppiata una rivolta tra alcune tribú locali, e il giovane Cherusco consiglia al governatore di cambiare itinerario. Varo esita, ma poi decide di seguire il nuovo percorso, preceduto da Arminio e dai suoi cavalieri. L’enorme corteo (si calcola fosse composto da tre legioni – la XVII, XVIII e XIX –,
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ROMA e germania: una cronologia 222 a.C. I Germani vengono menzionati per la prima volta nei Fasti Triumphales (l’elenco annuale dei trionfi effettuati dai magistrati di Roma). 113-101 a.C. Incursioni delle popolazioni dei Cimbri e dei Teutoni, attraverso il Norico, in Gallia e nei territori di Roma. 58-51 a.C. Giulio Cesare sottomette la Gallia. Nei suoi Commentarii de bello Gallico, il Reno viene considerato come confine etnico tra Galli e Germani. 58 a.C. Cesare combatte contro Ariovisto, re dei Suebi, e penetra nella valle dell’Alto Reno, ponendo fine alla minaccia sueba. 55 a.C. Cesare attraversa per la prima volta il Reno, che viene dichiarato frontiera del dominio di Roma.
25 a.C. Il governatore Marco Vinicio è il terzo condottiero romano ad attraversare il Reno. Azioni militari contro le tribú stanziate lungo la riva destra del Reno. 20-19 a.C. Secondo governatorato di Marco Vipsanio Agrippa in Gallia, che potenzia la rete viaria della provincia. 17 a.C. Costruzione di un ponte sulla Mosella: nasce l’insediamento urbano di Treviri. 16 a.C. La legio V, guidata dal governatore Marco Lollio viene sconfitta da guerrieri sigambri, usipeti e tencteri. Perdita dell’aquila legionaria che, però, sarà spontaneamente restituita.
49/48 a.C. Truppe ausiliare germaniche combattono nella guerra civile, sia dalla parte di Cesare sia da quella di Pompeo.
16-13 a.C. Augusto in Gallia: riordinamento dell’amministrazione e pianificazione di interventi militari in territorio germanico. Dislocamento di legioni e truppe ausiliarie lungo il Reno. La frontiera lungo il fiume viene fortificata attraverso la costruzione di campi militari (Nimega, Xanten, Moers, Neuss, Bonn, Magonza).
44/43 a.C. Fondazione delle colonie di Lugdunum/Lione, Augusta Raurica/Augst e forse anche Iulia Equestris/Nyon. Nasce cosí il primo insediamento romano sul Reno.
15 a.C. Druso e Tiberio sottomettono le tribú alpine, insieme a Raeti e Vindelici. Tiberio raggiunge le sorgenti del Danubio. Il Norico cade sotto il controllo indiretto di Roma.
39-38 a.C. Primo governatorato in Gallia di Marco Vipsanio Agrippa, il secondo condottiero romano ad attraversare il Reno.
12-9 a.C Nuove incursioni di Sigambri, Usipeti e Tencteri. Inizio delle campagne militari di Druso nei territori sulla riva destra del Reno. Druso sconfigge i Sigambri e gli Usipeti. Spedizione della flotta romana lungo la costa del Mare
53 a.C. Cesare attraversa il Reno per la seconda volta.
29 a.C. Insurrezioni di popolazioni della Gallia, sostenute dalla tribú dei Suebi.
del Nord e nei territori delle tribú dei Frisii e dei Cauci. Costruzione di postazioni militari nel territorio della Germania Magna. Druso muore nell’anno 9 a.C. dopo che, per la prima volta, un esercito romano ha raggiunto l’Elba. A Druso verrà conferito il titolo onorifico di «Germanicus». Tiberio assume il comando in Germania.
4-6 d.C. Tiberio riassume il comando in Germania. Battaglie contro Canninefati, Cattuari, Brutteri, Cherusci, Cauci e Longobardi. Incursioni coordinate di terra e mare raggiungono nuovamente il fiume Elba. Il progettato assedio del regno di Maroboduo viene abbandonato a causa dell’insurrezione della Pannonia (6-9 d.C.), domata da Tiberio.
9-7 a.C. Conclusione delle guerre germaniche sotto il comando di Tiberio. Segue il suo trionfo. Abbandono degli accampamenti militari oltrerenani di Oberaden, Rodgen e Dangstetten. Trasferimento delle genti sigambre nei territori a ovest del Basso Reno. In seguito nasceranno insediamenti militari lungo il fiume Lippe, a Haltern, Bad Nauheim e Vindonissa.
7-9 d.C. Publio Quintilio Varo viene inviato come governatore in Germania e intensifica la «provincializzazione» dei territori.
6 a.C. 2 d.C. Esilio di Tiberio a Rodi. Verso il 3/2 a.C. costruzione dell’insediamento urbano di Lahnau-Waldgirmes. 3 a.C.-1 d.C. Domizio Enobarbo diventa governatore dell’Illiria e, in seguito, della Germania. Dispone lo stanziamento degli Ermunduri nel territorio dei Marcomanni e, con le truppe attraversa per la prima (e unica) volta l’Elba. Lungo il Reno installa i famosi «ponti lunghi» (strade con il manto poggiato su una struttura prevalentemente lignea). Tenta, senza successo, di ricondurre nelle loro terre la popolazione dei Cherusci. 1/2-3/4 d.C. Marco Vinicio governatore in Germania. Nei territori germanici scoppia un «immensum bellum» (Gaio Velleio Patercolo).
9 d.C. Sconfitta dell’esercito romano guidato da Varo, nella «Foresta di Teutoburgo», a opera di tribú germaniche (Cherusci, Brutteri, Marsi e Catti), guidate da Arminio. Come conseguenza, vengono abbandonati tutti gli accampamenti militari nei territori a est del Reno. La temuta offensiva sulla frontiera stessa del Reno viene scongiurata, grazie alla difesa assicurata dalle truppe di Tiberio. 9-12 d.C. Tiberio, che ottiene il suo terzo mandato di comandante in capo, riordina l’assetto militare lungo il Reno. L’esercito viene aumentato a 8 legioni. Limitate incursioni nei territori germanici a est del Reno. 13-16 d.C. Germanico, figlio di Druso, diventa governatore della Gallia e comandante in capo dell’esercito renano. 14 d.C. Muore Augusto e Tiberio diventa princeps. Germanico reprime l’ammutinamento delle legioni renane. (segue a p. 104)
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14-16 d.C. Campagne militari contro Marsi, Brutteri, Usipeti e Tubanti di Germanico, che visita il luogo della sconfitta di Varo e guida il piú consistente esercito (8 legioni) mai mobilitato contro le tribú germaniche fino ai fiumi Ems e Weser. Battaglia nella piana di Idistaviso e di fronte al Vallo degli Angrivari. 16 d.C. Tiberio richiama Germanico: la fine dell’offensiva militare comporta la rinuncia de facto al controllo diretto delle terre germaniche a est del Reno. 17 d.C. Scioglimento del comando unitario dell’esercito renano e formazione dei distretti militarizzati della Germania inferiore e della Germania superiore. A Roma, trionfo di Germanico sulle «tribú fino all’Elba». 21 d.C. Le lotte intestine tra i nobili cherusci sfociano nell’assassinio di Arminio. 28 d.C. Insurrezione dei Frisii. Lucio Apronio, al comando dell’esercito della Germania inferiore, viene sconfitto. Ne consegue l’indebolimento dell’influenza di Roma nella Germania del Nord. 39-41 d.C. Campagna di Caligola oltre la frontiera del Reno. Publio Gabinio Secondo, comandante dell’esercito della Germania inferiore, ottiene una vittoria sui Cauci e, in quell’occasione, recupera l’ultima aquila legionaria perduta a Teutoburgo. 46/47 d.C. Completamento della via Claudia Augusta, l’arteria stradale che dall’Italia raggiunge Augusta Vindelicorum (oggi Augsburg), fondata nel 15
a.C. da Augusto e divenuta ben presto un importante centro commerciale. I Cauci, capeggiati da Gannasco, saccheggiano la costa settentrionale della Gallia. 50 d.C. Fondazione di Colonia Claudia Ara Agrippinensium (l’odierna Colonia) nel territorio dell’oppidum Ubiorum, per volere della moglie di Claudio, Agrippina Minore. 57/58 d.C. Scontri con la tribú degli Ampsivari. Un disastroso incendio devasta Colonia Claudia Ara Agrippinensium. 69-71 d.C. A Colonia Aulo Lucio Vitellio, governatore della
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Germania inferiore, è proclamato imperatore dall’esercito renano (2.1.69). Insurrezione dei Batavi nel Basso Reno con distruzioni in territorio romano. Proclamazione di un «regno gallico» a Colonia, da parte dei promotori Civilis, Tutor e Classicus. La rivolta viene sedata da Quinto Petilio Ceriale su incarico del nuovo imperatore Vespasiano. Riorganizzazione della frontiera renana e ricostruzione dei castra lungo il Reno e il Danubio. 74 d.C. Gneo Pinario Cornelio Clemente fa costruire una strada che collega il Reno e il Danubio, difesa da fortificazioni.
83-88 d.C. Domiziano muove contro i Catti e assume il nome onorario di «Germanico». L’istituzione della Germania superior e Germania inferior segna la rinuncia definitiva ai territori a est del Reno. 88-89 d.C. Ribellione contro Domiziano di Lucio Antonio Saturnino, governatore della Germania superiore. La rivolta viene rapidamente sedata e il numero delle legioni progressivamente ridotto, mentre viene potenziato il contingente militare lungo la frontiera danubiana. 98 d.C. Si pubblica la Germania di Tacito.
In alto e in basso due immagini delle rievocazioni storico-militari che si svolgono ogni anno nei pressi dell’area archeologica di Kalkriese e che ripropongono, con ricostruzioni puntuali di costumi e armamenti, gli scontri tra l’esercito romano e le popolazioni germaniche.
tre alae e sei coorti per complessivi 15/20 000 soldati, oltre a 4/5000 unità tra cavalli e animali da traino) si mette in moto. Le condizioni atmosferiche, riferisce Cassio Dione, sono pessime, il terreno impervio, reso oscuro dalla fitta selva, paludoso. Il corteo procede a stento. A un tratto, l’attacco sferrato dagli uomini di Arminio, che piombano sui soldati romani da ogni parte. Impossibilitati, data la struttura del terreno e la disposizione del corteo, a organizzarsi e serrare i ranghi, i Romani sono alla mercé dei loro carnefici.
Quattro giorni di combattimenti Eppure i combattimenti si svolgono lungo un periodo di quattro giorni, legionari contro guerrieri cherusci, ma anche contro cavalieri ausiliari di Roma passati,con l’occasione, al
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BATTAGLIA DI TEUTOBURGO
da tribuno fedele a nemico dell’impero Arminio, figlio del principe dei Cherusci Segimero, nacque nel 17 a.C. Giunse in giovane età a Roma, dove ricevette l’istruzione militare. Tra il 4 e il 6 d.C., durante la campagna militare di Tiberio, in Germania, comandava, in veste di tribuno, un’unità di Cherusci. Gli fu conferita la cittadinanza romana per merito ed entrò a far parte dell’ordine equestre. La sua disposizione d’animo nei confronti dei Romani mutò, quando Publio Quintilio Varo fu nominato pretore. Le ragioni di questo cambiamento non sono note, sebbene le fonti romane riportino, quali cause principali, i modi bruschi e brutali con i quali Varo aveva introdotto le leggi romane e imponeva il pagamento dei tributi. Arminio, soldato (romano) ben istruito e di grande carisma, radunò attorno a sé i Cherusci e altre popolazioni germaniche. In questo frangente fu appoggiato dal padre. Entrambi conoscevano bene il proconsole. Fu cosí che Varo, certo della loro lealtà, non diede retta all’avvertimento di Segeste, suocero di Arminio. La rivolta dei Cherusci, arruolati nelle fila dell’esercito romano, e con il supporto degli altri Germani, ebbe inizio. Arminio aveva preso in sposa, contro la volontà del padre, Thusnelda, figlia di Segeste,
all’epoca capo dei Cherusci. Segeste disapprovava l’atteggiamento antiromano di Arminio. Il conflitto tra genero e suocero si inasprí, nel momento in cui Segeste riuscí a riprendersi sua figlia, ormai incinta. Arminio pose l’assedio a Segeste, che chiamò in aiuto Germanico. Il generale romano venne incontro alla richiesta di aiuto, liberò Maroboduo e lo fece trasferire a Roma, prendendo Thusnelda in ostaggio. Tra il 15 e il 16 d.C. si scatenò il duro scontro, tra Germanico, con a fianco il fedele legato Cecina Severo, e Arminio, appoggiato dallo zio Inguiomero. Le fortune militari di Arminio, tuttavia, erano esaurite. La moglie e il figlioletto Tumelico non gli furono riconsegnati. Nel 17 d.C., quando Germanico fu richiamato a Roma, Thusnelda e suo figlio furono fatti sfilare pubblicamente nel corteo trionfale del generale. Nello stesso anno Arminio attaccò i Marcomanni, i leali alleati di Roma. Di lí a poco, nel 19 o nel 21 d.C., Arminio sarebbe stato ucciso da alcuni suoi parenti nella lotta per il potere che si era scatenata in seno alla tribú cherusca.
i romani furono profondamente colpiti dalla disfatta, primo fra tutti augusto
la triste parabola del principe tumelico Il figlio di Arminio e Thusnelda, nacque in cattività, probabilmente, nel 15 d.C. Fu costretto, insieme con la madre, a sfilare pubblicamente per le strade di Roma, come ostaggio, nel corteo trionfale di Germanico. Al nonno Segeste, che non si era mai ribellato ai Romani e che si era da subito schierato contro il genero Arminio, fu concesso di assistere alla sfilata dalla tribuna riservata agli ospiti. Tumelico, ostaggio politico fin dalla nascita, fu educato a Ravenna. Come ricorda lo storico Tacito, una triste sorte attendeva il principe germanico. Le fonti, che non riportano dettagli particolari sulla sua morte, fanno risalire al 47 d.C. la richiesta fatta pervenire a Roma, da parte dei Cherusci, di nominare re il nobile Italico, l’ultimo esponente ancora vivente della famiglia. La morte del principe, quindi, si dovrebbe poter collocare prima di quella data.
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In alto Thusnelda durante il trionfo di Germanico (particolare), dipinto di Peter Jannsen il Vecchio. 1870-73. Krefeld, Kunstmuseen, Kaiser Wilhelm. Museum. In questo dettaglio la donna è ritratta insieme al figlioletto Tumelico.
amori contrastati e alleanze politiche Thusnelda era figlia del nobile cherusco Segeste. Il padre, che l’aveva già promessa in sposa a un altro uomo, s’era opposto al matrimonio della figlia con Arminio, del quale non approvava i piani. Arminio rapí Thusnelda, con il consenso della fanciulla. Segeste riuscí a riprendere la figlia, che nel frattempo era rimasta incinta, ma, non potendo difendersi dagli attacchi del genero infuriato, chiamò in aiuto i Romani, che lo trassero in salvo, prendendo, però, in ostaggio Thusnelda, in quanto moglie di Arminio, e portandola a Roma. Nulla si sa della sorte della principessa germanica dopo questo evento. Si ritiene, tuttavia, che non le sia stato concesso di fare ritorno in Germania. A sinistra Arminio dà addio a Thusnelda, olio su tela di Johannes Gehrts. 1884. Detmold, Lippisches Landesmuseum. L’artista immagina il momento in cui il capo cherusco si congeda dalla moglie prima della battaglia di Teutoburgo. Si noti, al suo braccio destro, l’elmo alato, che nell’Ottocento divenne un attributo tipico nell’iconografia del personaggio.
nemico. Cassio Dione narra che, durante le prime due notti, Varo sia stato in grado di erigere un campo fortificato, ma invano.
La prostrazione di Augusto Il quarto giorno la disfatta è segnata, le tre legioni e le truppe ausiliarie quasi del tutto annientate. Varo si suicida insieme ai suoi ufficiali. Viene decapitato e la testa inviata a Maroboduo, principe dei Marcomanni e rivale di Arminio. Racconta Svetonio che, quando la notizia della disfatta giunse a Roma, Augusto sia caduto in una profonda prostrazione e abbia pronunciato la frase: «Quintili Vare, legiones redde!» («Quintilio Varo, rendimi le legioni»). Fin qui le fonti scritte. Ma torniamo all’archeologia. Prima che il sito archeologico di Kalkriese si imponesse – per la straordinaria quantità e qualità dei reperti rinvenuti – come «il» luogo storico della battaglia, di ipotesi circa la localizzazione della medesima se ne sono fatte piú di 700. E, benché Kalkriese si trovi effettivamente nel «Teuteburger Wald», va però anche ricordato che l’altura nei pressi della città di Osnabrück porta questo nome solo a partire dagli inizi del Seicento! Nessuna certezza, dunque, che corrisponda al saltus Teuteburgiensis di cui parla Tacito…
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UOMINI COME MACCHINE Naqsh-e Rustam (Iran). Rilievo raffigurante l’investitura di Ardashir I da parte di Ahura Mazda. III sec. a.C.
I grandi regni orientali e in particolare quelli dei Parti e dei Sasanidi furono una spina nel fianco dell’impero romano, sulle cui truppe ebbero la meglio in piú di un’occasione. Vittorie alle quali contribuirono tecniche di combattimento e strategie straordinariamente efficaci, primo fra tutti l’impiego degli arcieri a cavallo di Marco Di Branco e Filippo Donvito
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ARCIERI PARTI E SASANIDI
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e lungo le coste del Mediterraneo le miriadi di città-stato greche avevano imposto l’impiego standardizzato della fanteria pesante organizzata in blocchi compatti, o falangi, ben diversa era la situazione nell’Asia interna. Qui, le grandi pianure e le steppe che, passando per la Persia e l’Asia centrale, collegavano la Cina alla Mesopotamia, avevano favorito lo sviluppo della cavalleria. I principali propagatori di questa arma erano stati i popoli iranici, i quali, a cominciare dagli Sciti nel VII secolo a.C., avevano reso obsolete le divisioni di carri da combattimento dei grandi imperi civilizzati, Cina compresa. Non a caso, Alessandro Magno, nel preparare l’invasione dell’impero persiano, aveva per la prima volta affiancato a una formazione di fanteria pesante ellenica un grosso contingente di cavalleria.
Dopo la sua morte, i territori asiatici del vecchio impero persiano furono riuniti in un regno da uno dei suo generali, Seleuco Nicatore.
In basso tavola a colori che illustra l’evoluzione nel tempo dell’arciere a cavallo, elemento chiave dell’esercito dei Parti: 1. IV sec. a.C.; 2. II sec. a.C.; 3. III sec. d.C.
Cresce il malcontento Questi si rivelò un abile amministratore, rispettando le usanze e le tradizioni persiane; i suoi successori, tuttavia, trascurarono sempre piú la parte orientale dei propri domini, dove cresceva il malcontento delle aristocrazie iraniche e la pressione delle tribú scitiche dall’Asia centrale. Fra queste spiccavano i Dahae, che si aggiravano nelle steppe tra il Mar Caspio e il Lago d’Aral, e i Massageti, i cui territori si estendevano subito a nord dei primi. Intorno al 250 a.C., un signore della guerra
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Lago dell’Oxo (Lago di Aral)
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ALTRI TERRITORI ELLENISTICI
Signoria autonoma di Pergamo (240 a.C.)
Antigonidi di Macedonia
Regno attalide di Pergamo (188-133 a.C.)
Lega greca contro gli Antigonidi
Seleucidi di Siria
Conquiste dei Parti e data
Città greche libere
Tolomei d’Egitto
Conquiste del Regno greco-battriano e data
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Battaglie e date
69 Conquiste di Roma e date
all’indomani delle conquiste di arsace, l’ascesa dei parti si fece inarrestabile e, con la salita al trono di mitridate i, i loro domini comprendevano ormai un territorio immenso, dalla siria all’indo dahae di nome Arshak, latinizzato in Arsace, invase con i suoi cavalieri la satrapia seleucide della Partia (regione corrispondente all’attuale Khorasan, nell’Iran nord-orientale), proclamandosi re e fondando la dinastia arsacide, meglio nota come la casa regnante dei Parti. Nei decenni successivi, mentre l’impero seleucide si logorava in continue lotte con l’Egitto tolemaico per il possesso della Palestina, i Parti conquistarono progressivamente la supremazia sull’Iran orientale, facendo terra bruciata e ritirandosi momentaneamente nelle steppe in occasione di qualche fiacco e sporadico tentativo di riconquista seleucide. Quando poi i Seleucidi entrarono in conflitto con Roma all’inizio del II secolo a.C., perdendo il possesso dell’Anatolia, la spinta dei Parti sul fronte opposto divenne incontenibile.
In alto cartina che indica i diversi regni formatisi all’indomani dell’esperienza egemonizzante dell’impero di Alessandro Magno, tra i quali figura quello dei Parti.
Nel 140 a.C. erano già in Mesopotamia, e il loro re Mitridate I (195-138 a.C.) aveva assunto il titolo di «Re dei Re», un chiaro rimando alla monarchia achemenide, di cui probabilmente intendeva proporsi come vendicatore e restauratore agli occhi dei popoli orientali. Demetrio II (145-139 a.C.) e il fratello Antioco VII (138-129 a.C.) tentarono di ristabilire il controllo seleucide in Mesopotamia, ma furono entrambi sconfitti in battaglia, il primo cadendo prigioniero dei Parti, il secondo ucciso in combattimento vicino a Ecbatana.
Nasce la Via della Seta I successori di Mitridate I si trovarono cosí a regnare su un impero che andava dalla Siria all’Indo, spartendo con Roma e la Cina il dominio sul mondo civilizzato. La particolare posizione geografica assicurava inoltre
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ARCIERI PARTI E SASANIDI Una tragica sequenza di errori all’impero partico il controllo dei traffici commerciali tra est e ovest, la cosiddetta Via della Seta, aperta per la prima volta proprio durante il regno di Mitridate I. Una politica di rispetto e collaborazione con le minoranze, tra cui i coloni greco-macedoni abbandonati dai Seleucidi e gli Ebrei della Diaspora, assicurò ai Parti un ampio sostegno tra le masse popolari; mentre la suddivisione amministrativa dell’impero, molto decentrata, evitò, almeno in un primo momento, l’insorgere di spinte centrifughe e rivolte tra i satrapi e i piccoli dinasti locali. Ma per conquistare e difendere dei territori cosí vasti non era sufficiente il buon governo dei sovrani arsacidi. Era fondamentale la disponibilità di un esercito efficiente e in grado di confrontarsi con le formazioni piú temibili dell’epoca: la falange macedone prima, la legione romana poi. E qui i Parti proseguirono sulla strada del successo già imboccata dai loro antenati, gli Sciti, che avevano diffuso per la prima volta in Asia l’impiego dell’arciere a cavallo. Agli squadroni dei tiratori montati affiancarono i celebri catafratti, guerrieri rivestiti di ferro dalla testa ai piedi, che cavalcavano imponenti destrieri, altrettanto corazzati.
Un binomio vincente Il binomio che ne risultò ebbe un grandissimo successo, tanto da venire adottato da tutti i maggiori eserciti orientali fino all’introduzione delle armi da fuoco. La tattica era tanto semplice quanto efficiente. Gli arcieri a cavallo, girando in cerchio attorno al nemico o attirandolo in un’imboscata con fughe simulate, lo avrebbero logorato e decimato, riversandogli addosso nugoli di frecce. I catafratti, tenuti in riserva, sarebbero intervenuti solo alla fine, per spazzare via con la loro carica devastante quello che restava della formazione avversaria. L’armamento offensivo del catafratto era in parte il risultato delle precedenti sconfitte subite per mano dell’ottima cavalleria macedone, i famosi Compagni di Alessandro. Da questi, infatti, aveva adottato la lancia lunga, o xyston, prolungandola di un altro mezzo
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I
l cavaliere romano Marco Licinio Crasso (114 circa-53 a. C.) aveva accumulato una ricchezza senza precedenti, acquistando a prezzi stracciati le proprietà confiscate durante le proscrizioni sillane. In qualità di triumviro al fianco di Giulio Cesare e Pompeo, Crasso sognava una grande avventura militare, tale da equipararlo ai due colleghi, già celebri per le loro numerose vittorie e conquiste in terre straniere. A tale scopo si fece assegnare il governatorato della Siria, con la chiara intenzione di attaccare i Parti in Mesopotamia, dove era certo di racimolare, oltre alla gloria della vittoria, un cospicuo bottino, saccheggiando le ricche città carovaniere della regione. I Romani, che a quel tempo avevano ancora una conoscenza superficiale del mondo orientale, erano anche influenzati da un diffuso pregiudizio, secondo il quale i popoli orientali erano fiacchi e inadatti alla guerra. E cosí, alla testa di 50 000 uomini, fra cui sette legioni e 1000 cavalieri galli
inviatigli da Cesare, Crasso oltrepassò il Tigri nella tarda primavera del 53 a.C. Il suo primo errore fu quello di affidarsi al consiglio dell’infido Abgaro, un locale capotribú arabo, segretamente in lega con i Parti. Abgaro guidò i Romani in una marcia estenuante attraverso una pianura deserta e senz’acqua, e, quando finalmente le truppe arrivarono in prossimità di un pozzo, ecco che trovarono ad aspettarle la cavalleria partica schierata sulle alture circostanti. Si trattava di appena 9000 arcieri a cavallo e 1000 catafratti al comando del generale Surena, principe della Sakastene (oggi Sistan, Iran centro-orientale). Dopo aver disposto le truppe in una lunga fila con la cavalleria sulle ali, Crasso riformò l’intero schieramento in agmen quadratum, con la fanteria pesante schierata a formare un muro di scudi tutt’attorno alla cavalleria e alla fanteria leggera. Voleva cosí evitare una carica di sfondamento da parte dei catafratti. Surena inviò in risposta gli arcieri a cavallo intorno allo schieramento romano per tempestarlo con nugoli di frecce. I Romani, all’inizio, non ne furono troppo turbati, perché immaginavano che, prima o poi, i Parti avrebbero esaurito le frecce; ma dovettero purtroppo ricredersi, quando videro intere colonne di cammelli carichi di altre frecce, dai quali i Parti andavano a turno a rifornirsi. Tanto piú che la pioggia continua dei loro dardi aveva cominciato a mietere un certo numero di vittime tra i legionari, i quali, pur protetti dai loro grossi scudi ovali, erano sull’orlo del collasso morale. Allora Publio Crasso, il figlio del generale, tentò Armenia A Am Ami miida da
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A destra ritratto tradizionalmente identificato con Marco Licinio Crasso. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto testa di una statua in bronzo raffigurante un guerriero dell’esercito partico. I sec. d.C. Teheran, Museo Nazionale dell’Iran. In basso cartina della regione di Carre, località situata presso l’odierno villaggio turco di Haran.
una sortita con la cavalleria. Gli arcieri a cavallo si ritirarono davanti a lui, facendolo allontanare dallo schieramento principale. Perso contatto con il padre, Publio continuò fiducioso l’inseguimento, finché non si rese conto che gli arcieri a cavallo lo avevano guidato dritto in bocca ai catafratti. La cavalleria romana, in inferiorità per numero e armamento difensivo, venne fatta a pezzi. Publio si ritirò con un pugno di valorosi in cima a una collina, dove tentò un’ultima disperata resistenza. Alla fine si fece uccidere da un compagno per evitare di cadere in mano al nemico. I Parti tornarono esultanti a tormentare i legionari di Crasso, che apprese della triste fine del figlio non appena ne scorse la testa in cima alla picca di un catafratto. Il generale romano, ormai in preda alla disperazione e alla frustrazione al pari dei suoi soldati, sciolse il quadrato e attaccò i Parti in ordine sparso. Ma si rivelò l’ultimo dei suoi errori. Surena, che non aspettava altro, ordinò alla cavalleria corazzata di caricare le truppe romane, che, persa ogni coesione, furono travolte e sconfitte. Il calare delle tenebre offrí qualche possibilità di salvezza ai sopravvissuti, alcuni dei quali riuscirono a chiudersi nella vicina città di Carre. Non fu cosí per Crasso, sorpreso e ucciso in un’imboscata la mattina dopo. Dei quasi 50 000 uomini che erano partiti con lui, se ne salvarono appena 10 000. Le migliaia di prigionieri romani catturati dai Parti scomparvero nelle profondità dell’Asia.
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ARCIERI PARTI E SASANIDI
il Tigri e il Reno. Non solo, mentre la disfatta contro i Germani evidenzia ostacoli di natura geografica piú che politica, lo scontro con i Parti pone Roma di fronte a un vero impero rivale, che ne mette in discussione il predominio da poco acquisito in Oriente. Gli stessi Romani si resero conto di non aver piú di fronte una delle numerose tribú di barbari del Nord, bensí un regno che raccoglieva al suo interno la già secolare tradizione della Persia e quella millenaria della Mesopotamia. È emblematica una sentenza di Seneca, che nella sua semplicità legittima i popoli (iranici e non) dell’impero partico agli occhi dell’élite greco-romana: secondo il filosofo, infatti, «l’uomo è un genere, e ha proprie specie: Greci, Romani, Parti» (Epistolae LVIII, 12).
Innovazioni decisive
metro fino a un totale di 4, il massimo che un cavaliere poteva maneggiare con efficacia. Questa nuova lancia, soprannominata «pertica» (kontos) dai Greci, doveva essere impugnata con due mani, mentre il cavaliere, sprovvisto di staffe, rimaneva agganciato al dorso del cavallo grazie a una particolare sella provvista di quattro arcioni. Completavano l’armamento offensivo una spada lunga e dritta, piú una mazza o un’ascia. L’armatura del catafratto era composta da scaglie di metallo, cuoio indurito o osso cucite su una giacca imbottita, e da bande di ferro o bronzo tutt’intorno alle gambe e alle braccia. Gli elmi erano perlopiú conici o tondi, talvolta dotati di una celata a forma di maschera umana. I cavalli, di razza nisea, erano spesso protetti da gualdrappe di pelle non conciata e rivestite di scaglie alla stessa maniera dei corsetti indossati dai cavalieri. Insieme alla sconfitta nella selva di Teutoburgo (9 d.C.) per mano delle tribú germaniche guidate da Arminio, la battaglia di Carre segna l’arresto dell’espansione romana su due fiumi:
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Tavola ottocentesca di scuola inglese nella quale si immagina il momento in cui Marco Licinio Crasso, a Carre, cade nell’imboscata che gli sarà fatale.
Ciò detto, va comunque notata la brillante reazione romana subito dopo il trauma di Carre, che riuscí a riportare lo scontro su un piano di parità, se non, in certi casi, di netta superiorità. Come abbiamo visto, l’esercito partico risultava micidiale quando operava in pianura, dove aveva tutto lo spazio a disposizione per le evoluzioni della sua cavalleria; ma si rivelava invece ben piú goffo e inefficiente nei combattimenti su terreni accidentati o montagnosi, come erano molti campi di battaglia fra l’Armenia e la Transcaucasia. Inoltre i Parti, ancora legati all’antico retaggio dei nomadi delle steppe, erano incapaci di condurre operazioni d’assedio, un fattore che penalizzò la loro capacità offensiva. Dal canto loro, i Romani introdussero, nel corso dei primi due secoli dell’impero, alcune migliorie che gli permisero di affrontare con successo la cavalleria partica anche in uno scontro campale su un terreno a essa favorevole. Fra di esse, contano in particolare l’adozione da parte dei legionari della nuova lorica segmentata, piú resistente alle frecce perché fatta di piastre metalliche sovrapposte e non, come la vecchia lorica hamata, di anelli di ferro in cui il dardo si infilava dilatandoli fino alla rottura con la sua forza di penetrazione;
l’impiego massiccio di unità di frombolieri, che con i loro proiettili di piombo colpivano a una gittata superiore degli arcieri a cavallo ed erano in grado di perforare perfino la pesante armatura dei catafratti; e, infine, l’adozione di un parco di artiglieria mobile per ogni legione, composto da dieci onagri e cinquanta carroballistae, macchine montate su ruote che scagliavano dardi pesanti delle dimensioni di una lancia.
Guerre intestine Nel I secolo d.C. la monarchia partica cominciò a indebolirsi a causa di continue lotte dinastiche scoppiate all’interno della famiglia reale. La poligamia praticata dai re arsacidi generava un gran numero di eredi, sempre in lotta per la conquista del trono. Roma invece aveva assunto una costituzione imperiale con Augusto e, terminate le guerre civili, aveva stabilizzato le sue frontiere settentrionali sul Reno e sul Danubio. Ciò si traduceva in una maggiore disponibilità di truppe da destinare al
A sinistra statua loricata di Augusto come imperator, dalla villa di Livia a Prima Porta. I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nel particolare, il rilievo in cui Fraate IV, re dei Parti, restituisce le insegne romane sottratte a Crasso nel 50 a.C.
fronte orientale, dove era necessario risolvere anche la questione dell’Armenia, Stato cuscinetto tra le due superpotenze. I Romani passarono decisamente all’offensiva con Traiano, il quale conquistò e trasformò in provincia l’Armenia nel 114, e, l’anno successivo, occupò l’intera Mesopotamia fino al Golfo Persico. I Parti non opposero alcuna resistenza. Nel 161 tentarono di conquistare l’Armenia a loro volta, ma quattro anni dopo furono gravemente sconfitti a Dura Europos, sull’Eufrate, dalle legioni di Avidio Cassio – il miglior generale di Marco Aurelio. L’ultimo scontro di una certa rilevanza avvenne in
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ARCIERI PARTI E SASANIDI
occasione del regno dell’imperatore Settimio Severo e si risolse con un’altra vittoria per i Romani, che espugnarono e saccheggiarono la capitale partica, Ctesifonte, nel 197. L’ago della bilancia pendeva ormai dalla parte di Roma.
Una nuova minaccia Ma proprio quando la questione orientale sembrava risolta una volta per tutte, ecco rispuntare la minaccia, piú grave che mai. Nel 224 la dinastia partica venne rovesciata da Ardashir, sovrano del piccolo regno del Fars, l’antica Perside che un tempo aveva dato i natali a Ciro e Dario. Ardashir fondò quindi una
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nuova dinastia persiana, quella dei Sasanidi (da Sasan, il capostipite della famiglia), che, in pochi anni, si impadroní di Iran e Mesopotamia, e, in nome dell’antica eredità achemenide, contestò a Roma il dominio sul Vicino Oriente. Nel 230, il nuovo re di Persia attaccò i Romani in alta Mesopotamia, mentre la sua cavalleria compiva scorrerie in Siria e Cappadocia. L’anno successivo l’imperatore Alessandro Severo reagí con una massiccia controffensiva diretta contro la capitale sasanide Ctesifonte, ma venne duramente sconfitto in battaglia da Ardashir e costretto a ritirarsi dopo aver firmato una tregua.
Naqsh-i-Rustam, Iran. Uno dei rilievi che ornano le tombe monumentali dei sovrani persiani nel quale è raffigurato il trionfo di Shapur I, figlio e successore di Ardashir: di fronte a lui si riconoscono gli imperatori Filippo l’Arabo, che implora la pace, e Valeriano, in ginocchio, catturato dal re di Persia.
nuova Persia sasanide fosse un avversario ben piú agguerrito dell’impero partico, capace perfino di battere Roma piú di una volta. Alla morte di Shapur, gli imperatori romani passarono al contrattacco, cogliendo anche vittorie importanti, ma, alla fine, il confine fu riportato sull’originaria linea del fronte in alta Mesopotomia. Ormai i due grandi avversari si eguagliavano in potenza e, sebbene nei secoli successivi continuassero a scoppiare guerre a intermittenza lungo la frontiera, l’equilibrio era destinato a rimanere immutato.
Cavalleria corazzata
Shapur I (240-270), figlio e successore di Ardashir, continuò con successo la politica di aggressione contro Roma. Nel 244 sconfisse pesantemente l’imperatore Gordiano III nella battaglia di Misiche (combattuta nei pressi di Ctesifonte), mentre nove anni piú tardi distrusse un altro esercito romano a Barbalisso (100 km a sud-est di Aleppo) e, invasa la Siria, ne saccheggiò la capitale Antiochia. Ma il suo piú grande successo fu quello colto a Edessa (260), dove sbaragliò 70 000 Romani e catturò – fatto mai accaduto prima di allora – l’imperatore Valeriano in persona. Questa serie impressionante di vittorie dimostrò quanto la
Il rinnovato vigore con cui l’Iran sfidò Roma in Oriente era dovuto principalmente alle riforme politiche e militari che caratterizzarono la nascita e lo sviluppo dell’impero sasanide. A differenza dei Parti, i Persiani organizzarono lo Stato in maniera molto piú accentrata, imponendo il mazdeismo come religione ufficiale. L’esercito sasanide si distingueva per l’impiego sistematico della cavalleria corazzata, che cominciò a utilizzare anche armature di maglia, piú flessibili e leggere; l’introduzione di nuovi reparti, come gli elefanti da guerra; e, soprattutto, per lo sviluppo di una valida tecnica d’assedio. Quest’ultima modifica si rivelò di fondamentale importanza, perché sanò la grave lacuna che sempre aveva impedito ai Parti di condurre offensive su larga scala contro i numerosi centri fortificati della Siria romana. Al VI secolo risale, infine, la comparsa di una fanteria pesante in grado di affrontare con successo anche la storica controparte romana. Era reclutata fra i Dailamiti, un popolo iranico abitante i monti a sud del Mar Caspio. Questi fanti combattevano con un equipaggiamento che ricordava molto da vicino quello dei legionari, essendo dotati di grandi scudi ovali, una coppia di giavellotti pesanti, un’ascia o una daga corta per il combattimento ravvicinato. Fieri e rudi come qualsiasi altro popolo di montanari, i Dailamiti non furono mai conquistati dagli Arabi, e, in epoca islamica, divennero fra i mercenari meglio pagati e piú ricercati per le loro doti guerresche.
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UN’ESTATE DI SANGUE E DI
FIAMME
La distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani, guidati da Tito, 70 d.C., litografia colorata di Louis Haghe da un originale di David Roberts. 1851. Collezione privata.
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in una data che possiamo collocare fra il luglio e lâ&#x20AC;&#x2122;agosto del 70 d.c., dopo un assedio di mesi, le truppe romane guidate da tito espugnano gerusalemme. del drammatico epilogo della vicenda possediamo il dettagliato resoconto di giuseppe flavio, che assistette in prima persona agli eventi: una cronaca scandita da numerosi e puntuali riferimenti alle armi e alle macchine utilizzate dallâ&#x20AC;&#x2122;esercito imperiale di Giovanni Brizzi
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L’ASSEDIO DI GERUSALEMME
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assedio di Gerusalemme inizia nella primavera del 70, verso la fine del mese di Nisan (marzo/aprile), e si conclude nel mese di Ab (luglio/ agosto) dello stesso anno. La principale fonte sui lunghi mesi del conflitto è lo stesso Giuseppe Flavio (Guerra giudaica, in particolare i libri V e VI), che riporta la cronaca di un’impressionante sequenza di episodi di violenza, fanatismo e valore guerriero. Mentre Gerusalemme è accerchiata dagli accampamenti romani fatti erigere da Tito, all’interno della sua tripla cerchia muraria si consuma la feroce divisione tra gli schieramenti giudaici in lotta tra di loro. Questi, però, quando Tito suggerí loro di arrendersi, risposero gridando «di non aver paura della morte, che da persone non vili essi preferivano alla schiavitú (…) che avrebbero cercato di fare ai Romani tutto il male possibile finché avessero avuto un po’ di fiato (…) che a gente che stava per morire (…) non importava piú nulla della loro città, e che per il dio l’universo era un tempio piú bello di quello di Gerusalemme. Ma anche questo sarebbe stato salvato dal suo abitatore, (segue a p. 125)
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A destra pianta di Gerusalemme al tempo dell’assedio. In basso disegno ricostruttivo di Gerusalemme agli inizi del I sec. a.C., quando ancora non era munita della terza cinta muraria, fatta erigere da Erode Agrippa tra il 41 e il 44 d.C. (vedi nella pianta qui accanto). Si riconoscono alcune tra le principali opere di Erode il Grande (37-4 a.C.): il recinto sacro con il nuovo Tempio (A), la fortezza Antonia (B), le torri di Ippico, Fasaele e Mariamme (C) e il Palazzo di Erode (D).
Gerusalemme al tempo dell’assedio (in trasparenza l’attuale città vecchia cinta dalle mura di Solimano il Magnifico, XVI secolo)
1 LE TORRI DI IPPICO, FASAELE E MARIAMME
2 IL PALAZZO DI ERODE
A
3
1
2
3 LA FORTEZZA ANTONIA
4
4 LA TERZA CERCHIA MURARIA E LE TORRI DI FORTIFICAZIONE
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L’ASSEDIO DI GERUSALEMME Quella breccia verso il Tempio
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utte le legioni disponevano di magnifici congegni, ma specialmente la decima che aveva catapulte piú potenti e baliste piú grosse con le quali non solo respingevano le sortite, ma battevano anche i difensori sulle mura. Scagliavano pietre del peso di un talento e avevano una gittata di due stadi e piú; i loro colpi abbattevano non soltanto i primi a essere raggiunti ma anche quelli che stavano piú dietro per un largo tratto. I Giudei da principio schivavano i proiettili perché erano di pietra bianca». La vivida descrizione – tratta dal libro V della Guerra Giudaica dello storico romano di origine ebraica Giuseppe Flavio – degli armamenti dispiegati da Roma durante il drammatico assedio di Gerusalemme del 70 d.C. ha trovato, nell’estate del 2016, un’inattesa quanto sorprendente conferma archeologica. In un quartiere ottocentesco della città, noto come Russian Compound (caratterizzato dalla cattedrale della Santa Trinità, la chiesa russa ortodossa di Gerusalemme), scavi dell’Israel Antiquites Authority (la soprintendenza archeologica alle antichità di Israele) hanno rivelato i resti di una torre fortificata, facente
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In alto Gerusalemme. La cattedrale della Santa Trinità. In basso il cantiere di scavo aperto nel 2016 nel Russian Compound di Gerusalemme.
A sinistra palle di pietra scagliate contro le mura di Gerusalemme durante l’assedio del 70 d.C. Qui sotto punta di lancia romana. In basso, a destra un grande vaso per derrate affiorato nel corso dello scavo. In basso, a sinistra un’altra palla del tipo di quelle che colpirono le mura di Gerusalemme.
parte della cosiddetta terza cerchia muraria – la piú esterna, il cui tracciato è oggi ricoperto dai quartieri moderni – che cingeva la città nel I secolo d.C. (vedi pianta alle pp. 120-121). Sul lato ovest della torre, quello rivolto verso l’esterno, gli archeologi hanno scoperto una grande quantità di pietre da catapulta e da fionda, del tipo di quelle impiegate dalle legioni romane durante l’attacco alla città. Iniziata per volere di Erode Agrippa I (41-44 d.C.) e finalizzata a proteggere il nuovo quartiere della città (sorto a nord delle due cerchie murarie preesistenti), la costruzione delle terze mura venne in seguito interrotta – su decisione dello stesso Agrippa – per essere poi ripresa, una ventina d’anni piú tardi, dai ribelli giudaici in vista della rivolta contro Roma. Una descrizione dettagliata del suo tracciato ci è stata trasmessa da Giuseppe Flavio, secondo la quale il muro iniziava all’altezza delle Torre di Ippico (oggi all’interno della cosiddetta Cittadella di Davide) e da lí proseguiva verso la grande Torre di Psefino, per poi ripiegare verso est, in direzione del complesso oggi noto come Tombe dei Re. La scoperta nel Russian Compound, dunque, oltre a offrire una testimonianza eloquente dell’assedio, è, a oggi, l’unica prova archeologica dell’esistenza della terza cinta muraria, sul cui reale tracciato gli studiosi si sono interrogati sin dalle prime indagini storicoarcheologiche di Gerusalemme degli inizi del Novecento. Andreas M. Steiner
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L’ASSEDIO DI GERUSALEMME Le fortificazioni
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utta Gerusalemme era cinta di mura. Pur potendosi riconoscere tre diversi circuiti, questi, tuttavia, non formavano altrettante linee successive e sovrapposte, come sembra affermare Giuseppe, salvo forse che sul lato settentrionale, l’ultimo e piú pianeggiante, meno agevolmente difendibile. Lungo l’intero circuito, esteso per 33 stadi (pari a 6,5 km circa), le difese erano poi arricchite da numerose torri: quadrangolari e massicce, erano alte ciascuna 20 cubiti (9 m circa; 1 cubito= 44,45 cm, n.d.r.) e avevano in cima, raggiungibili grazie a scale a chiocciola, ambienti per abitazione e invasi per la raccolta dell’acqua piovana. Di queste torri Giuseppe ne conta 60 nella prima linea, 14 nella seconda e ben 90 nella terza. Dell’intero sistema gli elementi che piú sembrano aver colpito il nostro autore sono alcune torri di foggia speciale: quella, ottagonale, di Psefino, alta 70 cubiti; poi, a una certa distanza, le tre che Erode aveva dedicato alle persone a lui piú care. Quella di Ippico (che prendeva il nome da un amico del re), a pianta quadrata, era alta complessivamente, fino ai pinnacoli, ben 80 cubiti e aveva alla base una cisterna per la captazione dell’acqua, sormontata da due piani abitabili.
Vi era poi quella di Fasaele, dal nome del fratello del re, che Simone bar Giora scelse come proprio quartier generale: alta circa 90 cubiti, racchiudeva magnifici appartamenti e persino un bagno. La terza, dedicata a Mariamme, la piú amata delle In basso ricostruzione grafica delle tre torri fatte costruire da Erode il Grande, nel contesto della attuale Cittadella di Gerusalemme.
torre di fasaele
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torre di ippico
torre di mariamme
A sinistra la Cittadella di Gerusalemme. A destra testa di Tito. I sec. d.C. Monaco di Baviera, Gliptoteca. In basso tegola con il marchio della X legione Fretensis, che fu tra quelle impegnate nella guerra giudaica. I sec. d.C. Gerusalemme, Israel Museum.
mogli, era forse la meno difendibile, ma, fra tutte, la piú sontuosa e splendida. Immediatamente a sud delle tre torri di Ippico, Fasaele e Mariamme e a esse collegato da cunicoli sotterranei, stava il palazzo di Erode. Vasto e di impianto possente, su un podio lungo circa 750 cubiti (330 m) e largo circa 295 (130 m), l’edificio costituiva una vera e propria cittadella fortificata ed era circondato da un muro alto circa 30 cubiti, con torri disposte a intervalli regolari. Sull’altura opposta, nella zona centro-orientale, sorgeva poi il maestoso complesso del Tempio. Dopo aver orgogliosamente narrato le fasi della sua costruzione, Giuseppe descrive il ricchissimo e meraviglioso edificio (Guerra giudaica, V 184-237). Sotto il profilo poliorcetico, si trattava di una vera e propria immensa fortezza supplementare. Circondata da mura robuste e alte forse, a meridione, tra i 110 e i 125 cubiti dal fondovalle, la struttura era guardata da torri poste ai quattro angoli. Sul lato sud sorgeva la basilica, o «Portico reale»; ma tutta la spianata sulla cima dell’Ophel era circondata da un colonnato, i cui supporti culminavano in capitelli ricoperti d’oro. Ai portici esterni, in corrispondenza dell’angolo nordoccidentale, si addossava il muro della fortezza Antonia. Vero e proprio perno del sistema difensivo cittadino, creata da Erode in ricordo dell’amico triumviro, questa si innalzava da uno sperone roccioso alto 50 cubiti e completamente cinto da dirupi, la cui base era stata rivestita di lastre in pietra levigata per rendere difficile l’ascesa. Cinta da un muro, il suo corpo centrale, in forma di torre e alto ben 40 cubiti, aveva ai quattro angoli altrettante torri minori. Centro della Giudea e perno delle sue difese, base insostituibile al cui interno la ribellione poteva resistere e alimentarsi, la Città Santa era dunque costituita da una serie di fortezze l’una dentro l’altra ed era considerata inespugnabile.
che essi avevano come loro alleato, e perciò se la ridevano di ogni minaccia non seguita dai fatti (…) Queste le risposte che essi gridarono mescolandole con gli improperi» (Guerra giudaica, V, 458). Ma le cose andarono diversamente. Per ordine di Tito venne distrutta dalle fondamenta l’Antonia, l’imponente fortezza situata in corrispondenza dell’angolo nord-occidentale della spianata del Tempio. I genieri romani spianarono poi il terreno, tracciando una via per consentire un facile accesso all’esercito e agevolare la costruzione di nuove opere d’assedio.
L’avanzata delle macchine L’8 Loos (secondo il calendario macedonico, usato da Giuseppe Flavio, corrispondente al mese di Ab del calendario ebraico e, per noi, a un periodo di 30 giorni compresi tra luglio e agosto, n.d.r.) fu infine terminata, a opera di due legioni, la costruzione delle torri; e Tito fece avanzare le macchine contro l’esedra occidentale del Tempio esterno. Le elepoli entrarono in azione; ma neppure il piú potente degli arieti riuscí ad avere ragione di un muro spesso e robustissimo. I Romani tentarono allora di salire utilizzando le scale e molti riuscirono a raggiungere il tetto; ma qui li attendevano i Giudei. Poiché stimavano che perdere l’insegna fosse «un grave smacco, oltre che un disonore», i Romani avevano portato in alto con sé i loro vessilli, onde esser spinti a battersi allo stremo per difenderli; eppure, dopo aver rovesciato parte delle scale e ucciso alcuni dei nemici mentre salivano, i Giudei riuscirono ad annientare quanti avevano messo piede sul tetto, impadronendosi anche degli emblemi
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L’ASSEDIO DI GERUSALEMME
di reparto! Preoccupato per le perdite subite dai suoi, Tito ordinò allora di appiccare il fuoco alle porte del Tempio; e, mentre l’argento che le rivestiva fondeva al calore, le fiamme si propagarono a quanto restava dei portici, sicché l’incendio durò un giorno intero, il 9 di Loos, e tutta la notte successiva. Il giorno seguente, dopo avere inviato una parte dell’esercito a spegnere le fiamme spianando definitivamente il terreno verso le porte d’accesso, Tito riuní il suo stato maggiore: ne facevano parte Tiberio Giulio Alessandro, praefectus castrorum e braccio destro del principe, Sex. Vettuleno Ceriale, legato della V Macedonica; A. Larcio Lepido Sulpiciano, che aveva sostituito Traiano padre alla testa della X Fretensis; Tittio Frugi, che guidava la XV Apollinaris; Eternio Frontone al
comando delle vexillationes venute dall’Egitto e M. Antonio Giuliano, procuratore della Giudea. A questi personaggi, non menzionato da Giuseppe, va certamente aggiunto A. Cesennio Gallo, allora alla testa della XII Fulminata.
Consiglio di guerra
Disegno nel quale si immaginano le truppe romane che, dopo aver distrutto la fortezza Antonia, assaltano il Tempio e lo danno alle fiamme.
In questo importantissimo consiglio di guerra si discusse soprattutto sul destino da riservare al Tempio e i pareri erano discordi. Secondo Giuseppe, vi era chi riteneva che esso andasse comunque distrutto, «poiché i Giudei non avrebbero mai cessato di ribellarsi finché restava in piedi». Altri, piú moderati, sostenevano che lo si potesse anche risparmiare, purché i difensori lo evacuassero; «mentre se vi montavano sopra per continuare la resistenza bisognava incendiarlo: cosí infatti
Le forze in campo
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econdo le cifre fornite da Giuseppe, a Gerusalemme erano presenti tre diversi (e opposti) schieramenti: Simone bar Giora, alla testa del gruppo di gran lunga piú numeroso e potente, guidava 10 000 uomini (ridotti, apparentemente, alla metà di quelli che lo avevano seguito in precedenza), comandati da 50 ufficiali, a cui poteva però aggiungere i 5000 Idumei rimasti in città. Questi ultimi erano considerati guerrieri molto validi e spietati ed erano guidati da 10 capitani, i piú noti dei quali erano Giacomo ben Sosas e Simone ben Cathlas. Giovanni di Giscala, dal canto suo, capeggiava 6000 armati, in gran parte zeloti; il terzo gruppo, che riuniva forse i membri originari del movimento capeggiato da Eleazar, contava infine su 2400 uomini, asserragliati nei cortili del santuario. Quanto ai Romani, l’armata di Tito era probabilmente ancor piú forte e numerosa di quella guidata da Vespasiano per sottomettere la Galilea. Oltre alle tre legioni che già avevano servito sotto suo padre, Tito ne portò con sé una quarta: scelse la XII Fulminata, la stessa che era stata umiliata nella battaglia di Beth Horon (66 a.C.), perdendovi addirittura l’insegna. I vuoti lasciati dai reparti che Vespasiano aveva
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inviato in Occidente al seguito di Muciano furono poi colmati da truppe di stanza in Egitto – le legioni III Cyrenaica e XXII Deiotariana –, dalle quali Tito prelevò 2000 uomini, e dalle guarnigioni a guardia dell’Eufrate, che fornirono altre 3000 unità, verosimilmente legionari della IV Scythica, di base a Zeugma. Le truppe ausiliarie, infine, comprendevano un nutrito gruppo di reparti: Tacito parla di 20 coorti e 8 ali di cavalleria. A integrarle concorsero poi, al solito, le milizie fornite dai re alleati (tra cui Agrippa II), in numero ancora maggiore rispetto a quelle inviate in precedenza a Vespasiano. Al suo stato maggiore e al gruppo di collaboratori piú stretti Tito aggregò, infine, sia Tiberio Giulio Alessandro, come vero e proprio vicecomandante, sia Giuseppe Flavio, i cui consigli e la cui esperienza gli fornirono indicazioni preziose sulla condotta della guerra. Tito partí da Cesarea alla testa delle truppe ausiliarie e delle legioni XII e XV. La V Macedonica avrebbe dovuto raggiungerlo a Gerusalemme passando per Emmaus, mentre la X Fretensis sarebbe arrivata via Gerico. Le tre colonne in cui era diviso l’esercito avrebbero dovuto convergere su Gerusalemme da tre direzioni diverse, da nord, da sud-est e e da nord-ovest.
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L’ASSEDIO DI GERUSALEMME
non era piú un tempio, ma diventava una fortezza, e da quel momento la responsabilità sarebbe stata non dei Romani, ma di chi ve li costringeva». Tito infine, secondo Giuseppe, «sentenziò che neppure se i Giudei avessero preso posizione sul Tempio per continuare a resistergli egli si sarebbe sfogato contro le cose invece che contro gli uomini, né mai avrebbe dato alle fiamme un edificio cosí maestoso. La sua rovina sarebbe stata una perdita per i Romani cosí come la sua
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conservazione era di ornamento per l’impero». Sull’atteggiamento del principe e sulla sua responsabilità nella distruzione del Tempio molto si è discusso e si discute. Resta, tuttavia, incontrovertibile, un fatto: anche chi ammetteva che il Tempio potesse venir risparmiato, subordinava questa possibilità a una condizione che, però, appariva irrealistica da sempre; e cioè che i Giudei lo abbandonassero. Questi, infine, tentarono un ultimo, disperato attacco. Usciti in massa dalla porta orientale,
Trionfo di Tito e Vespasiano, olio su tavola di Giulio Romano. 1537 circa. Parigi, Museo del Louvre.
Questo secondo episodio decretò la fine del Tempio, condannato, secondo Giuseppe, a perire nel fuoco per volere di Dio: «Col volger degli evi tornò il giorno fatale, il dieci del mese di Loos [giugno/luglio], (…) quello stesso in cui già una volta esso era stato incendiato dal re dei Babilonesi». Nel respingere il secondo attacco, uno dei soldati, che pure stava spegnendo il fuoco nel piazzale interno, si gettò a inseguire i nemici; e scagliò lui stesso, attraverso una finestra, il primo tizzone «nelle stanze adiacenti (…), sul lato settentrionale» del santuario.
Un furore incontenibile
caricarono i Romani schierati a guardia del piazzale esterno. Malgrado fossero in formazione chiusa e opponessero un muro compatto di scudi, questi ultimi si trovarono ben presto a mal partito di fronte al numero e alla furia cieca e disperata degli assalitori; ma Tito, poiché la spianata del Tempio era vasta e piatta, fece intervenire la cavalleria scelta, che travolse i nemici. L’attacco dei Giudei fu reiterato; senza però che lo schieramento romano cedesse, nemmeno la seconda volta.
A salvare il Tempio non valsero né gli sforzi dei Giudei, subito accorsi a combattere le fiamme, né l’intervento di Tito in persona, che si precipitò alla testa del suo stato maggiore, ordinando di spegnere l’incendio. Ormai, cresciuta a dismisura la violenza dello scontro, gli ordini non erano piú ascoltati da uomini che, sentendo di aver finalmente in pugno la vittoria, erano in preda a un furore incontenibile e a una smodata brama di saccheggio. Invece di estinguere le fiamme, le alimentarono; e Tito, che pure era entrato nell’edificio insieme con i suoi ufficiali, fu costretto a uscirne dal dilagare del fuoco. Il Tempio era perduto e i corredi sacri del santuario, divenuti bottino di guerra, vennero portati a Roma e mostrati durante la celebrazione del trionfo di Tito e Vespasiano. Giuseppe Flavio, testimone oculare dell’evento, cosí lo descrive: «Il resto del bottino veniva trasportato alla rinfusa, ma fra tutto spiccavano gli oggetti presi nel tempio di Gerusalemme, una tavola d’oro del peso di molti talenti e un candelabro fatto ugualmente d’oro, ma di foggia diversa da quelli che noi usiamo. Vi era infatti al centro un’asta infissa in una base, da cui si dipartivano dei sottili bracci simili nella forma a un tridente e aventi ciascuno all’estremità una lampada; queste erano sette, dimostrando la venerazione dei giudei per quel numero. Veniva poi appresso, ultima delle prede, una copia della legge dei Giudei» (Guerra giudaica, VII 148-151).
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MONOGRAFIE
n. 26 agosto/settembre 2018 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Giovanni Brizzi è professore a contratto di storia romana all’Università di Bologna. Filippo Donvito è dottore in giurisprudenza, specialista in diritto romano. Marco Di Branco è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Andreas M. Steiner è direttore di «Archeo» e «Medioevo». Illustrazioni e immagini: Bridgeman Images: copertina (e p. 69) e p. 76 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 6-7, 9 (basso), 24, 48/49, 59, 60 (alto); Electa/Giuseppe Schiavinotto: p. 10; Leemage: p. 11 – Flavio Russo: pp. 8, 9 (alto e centro), 22-23, 25-27, 29-39, 50-51, 61, 89-91 – Cortesia «Sapienza» Università di Roma/Missione Archeologica a Mozia: pp. 18/19, 20/21 – Doc. red.: p. 28 – Da: Colonna Traiana. Corpus dei disegni 1981-2001, Edizioni Quasar, Roma 2001: p. 60 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée d’archéologie nationale)/Loïc Hamon: pp. 68/69 – Getty Images: Universal History Archive: p. 84 – Cortesia Israel Antiquities Authority: Yoli Shwartz pp. 124, 125 (alto, basso a sinisitra e a destra); Clara Amit: p. 125 (centro) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 21. Il restante corredo iconografico dell’opera è stato realizzato grazie alla documentazione redazionale della rivista «Archeo», e, in particolare, dai nn.: 332, ottobre 2012 (pp. 12-17); 301, marzo 2010 (pp. 40-47); 311, gennaio 2011 (pp. 52-57); 295, settembre 2009 (pp. 62-67, 92-107); 312, febbraio 2011 (pp. 70-75); 305, luglio 2010 (pp. 77-83); 306, agosto 2010 (pp. 85-88); Monografia 9, ottobre 2015 (pp. 108-117); 373, marzo 2016 (pp. 118-121, 124-129). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: La catapulta, olio su tela di Edward John Poynter. 1868-1872. Newcastle-upon-Tyne, Laing Art Gallery.
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