Archeo Monografie n. 27, Ottobre/Novembre 2018

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MONOGRAFIE

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LUOGHI, DÈI E MISTERI

LA RELIGIONE ETRUSCA

• Tutte le divinità dell’Etruria e come riconoscerle • La Disciplina Etrusca, una tradizione scomparsa? • Chi erano gli aruspici? • Sacerdoti, viscere e fulmini • I luoghi di culto • Le rivelazioni dell’archeologia di Daniele F. Maras

N°27 Ottobre/Novembre 2018 Rivista Bimestrale

RELIGIONE ETRUSCA € 7,90

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LA RELIGIONE DEGLI ETRUSCHI LUOGHI, DÈI E MISTERI di Daniele F. Maras

6. Introduzione Un popolo alla ricerca della volontà divina 16. Selvans A guardia del confine 22. Culsans La sentinella che vede tutto 28. Thanr Dalla nascita alla morte 34. Fufluns Ebbrezza e mistero 40. Cavtha La figlia del Sole 46. Calus Sfuggente e tenebroso 52. Guardiani dell’Oltretomba Quella porta fatale... 58. Hercle L’eroe universale 64. Thesan Gli amori dell’alba 70. Menerva Le armi e la ragione 76. Laran e Maris Scambio di nomi 82. Tinia Le folgori del dio supremo 88. Uni Dalla parte delle donne 92. Turan Quando l’amore è un tiranno 98. Suri Nero come l’Inferno 102. Artumes e Tiur Al chiaro di luna 108. Cel e Vei Sacre maternità 112. Turms e Nethuns Fra cielo e mare 118. Thufltha Misteriosa e venerata da tutti 124. Le divinità «minori» Comprimari illustri


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Un popolo

alla ricerca della

volontà divina PER LO STORICO ROMANO TITO LIVIO ERA «LA GENTE CHE PIÚ DI TUTTI SI DEDICAVA ALLA RELIGIONE». UN ASPETTO CHE TUTTORA CARATTERIZZA QUANTO CONOSCIAMO DELLA LORO ARTE E ARCHITETTURA. MA COME «FUNZIONAVA» LA DISCIPLINA RELIGIOSA DEGLI ETRUSCHI? E, AL DI LÀ DI RICHIAMI E SIMILITUDINI, QUAL È LA VERA IDENTITÀ DELLE DIVINITÀ CHE POPOLANO IL LORO MISTERIOSO PANTHEON?

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li autori classici fanno a gara nel presentare gli Etruschi come versati in questioni di religione e particolarmente esperti nell’interpretare la volontà degli dèi. Cosí, per esempio, Tito Livio li definiva «la gente che piú di tutte è dedita alle pratiche religiose» (Liv. 5.1.6), al punto da far dipendere decisioni politiche da circostanze rituali. Seneca osservava che «essi attribuiscono tutto alle divinità» (Sen. nat. q. 2.32.2) e credono che ogni fenomeno naturale abbia lo scopo di comunicare un loro messaggio. E il cristiano Arnobio arrivava addirittura a definire l’Etruria come la «madre delle superstizioni» (Arn. adv. gent. 7.26). Di fatto, però, tutti gli autori che insistono sulla speciale religiosità degli Etruschi scrivono in epoca romana imperiale, a partire dall’età augustea, quando la civiltà etrusca aveva da lungo tempo perso la propria indipendenza, venendo gradualmente assorbita nel mondo romano. È pertanto improbabile che queste notizie possano essere trasposte

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Perugia, Ipogeo dei Volumni. Particolare dell’urna funeraria di Arunte, raffigurante due demoni alati, dall’aspetto giovanile, che vigilano la porta di accesso all’Ade, dipinta al centro. II sec. a.C.


meccanicamente indietro nei secoli, all’epoca dell’Etruria indipendente, quando l’integrazione della religione nella vita quotidiana era un tratto comune di tutti i popoli italiani, ivi compresi i Latini. In verità, in epoca imperiale, tutto ciò che rimaneva della cultura etrusca erano le tradizioni familiari di alcune gentes di ordine equestre e senatorio, che facevano risalire la propria origine all’antica Etruria e ne rivendicavano la continuità culturale. Fulcro di tali rivendicazioni era la conservazione di vetuste pratiche religiose gentilizie e soprattutto il richiamo alla Disciplina Etrusca: un’antica tradizione nazionale specializzata nell’interpretazione della volontà divina e nel corretto comportamento rituale. Numerose fonti storiche ci informano che la Disciplina veniva tramandata di padre in figlio da tempo immemorabile e custodita da una casta di eruditi sacerdoti chiamati «aruspici», in grado di leggere il volere degli dèi nelle viscere degli animali sacrificati e nei fenomeni atmosferici, con particolare riguardo ai fulmini. Gli aruspici usavano mettere per iscritto la propria dottrina, al punto che, generazione dopo generazione, era stato raccolto un intero corpo di libri tecnici, parte dei quali venne tradotta in latino da specialisti come Aulus Caecina e Nigidius Figulus, contemporanei di Cicerone. Secondo una notizia tramandata dal grammatico latino Sesto Pompeo Festo (forse attivo nella Gallia Narbonense nel II secolo d.C., n.d.r.), questi scritti, la cui forma piú antica era attribuita al mitico Tagete – il figlio di Giove scaturito dal solco di un campo arato all’epoca dell’origine della civiltà etrusca –, contenevano prescrizioni dettagliate «sui riti da usare per fondare città, consacrare altari e templi, quale inviolabilità attribuire alle mura e quale diritto alle porte, come dividere il popolo in tribú, curie e centurie, come formare eserciti, ed ogni altra cosa relativa alla guerra e alla pace» (Fest. 358 L.). Cicerone aggiunge che esistevano libri specifici sulla divinazione aruspicina e fulgurale (Cic. div. 1.72.7) e, piú tardi, Cornelio Labeone testimonia che una parte dei testi conteneva indicazioni rituali per trasformare le anime dei defunti in divinità – i cosiddetti «di animales» – per mezzo di certi sacrifici (Serv., ad Aen., 3.168).

Scritti pericolosi e diabolici Di tutta questa letteratura specializzata, considerata pericolosa e diabolica dagli scrittori cristiani dei primi secoli della nostra era, quasi nulla è giunto fino a noi, al di là della notizia della sua esistenza. Fortunatamente, le fonti archeologiche ci consentono di indagare l’origine della fama imperitura della religione etrusca, a partire dai resti dei luoghi sacri e dei riti che gli Etruschi stessi compivano. Nell’epoca in cui i villaggi si fondevano tra loro a comporre le strutture protourbane tipiche dell’età villanoviana, pochi luoghi di culto possono essere individuati con certezza, a volte in corrispondenza di siti che in epoca storica avrebbero ospitato importanti santuari cittadini.

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In basso coperchio di un cinerario in terracotta la cui presa è modellata in forma di una coppia mistica, da Pontecagnano (Salerno). IX-VIII sec. a.C. Pontecagnano, Museo Archeologico Nazionale.


Carrello in bronzo (interpretato come porta-offerte o come incensiere), dalla tomba 2 della necropoli di Olmo Bello, a Bisenzio (Capodimonte, Viterbo). Fine dell’VIII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. La ricca decorazione plastica del manufatto presenta scene di guerra, di caccia e di aratura.

Piú diffuse, invece, sembrano essere state forme di religiosità domestica o legate a grotte e sorgenti. Un caso eccezionale è il ritrovamento di un deposito di oggetti di bronzo dall’elevato valore simbolico nell’importante sito sacroistituzionale della Civita di Tarquinia, dove furono sepolti una tromba-lituo, un grande scudo e un’ascia cerimoniale, evidentemente nell’ambito di un rituale pubblico che celebrava il potere politico e religioso alla fine dell’VIII secolo a.C. Altre testimonianze vengono invece da contesti funerari dello stesso periodo o di poco precedenti, in cui spicca la ricorrenza di figurine di divinità femminili, che a volte sembrano accogliere il defunto in una sorta di matrimonio mistico, come sul coperchio di un cinerario da Pontecagnano. La coppia mistica ritorna anche nella decorazione di un carrello cerimoniale di bronzo da Bisenzio, inserita in un insieme di gruppi celebrativi che esaltano le virtú dell’aristocrazia etrusca, includendo scene di famiglia, di caccia, di guerra e di aratura. Quest’ultima, in particolare, che ricorre pressoché identica sul coperchio di un altro cinerario da Bisenzio, allude al possesso della terra e alla tradizione agricola, ma anche, senza dubbio, al valore cerimoniale dell’aratro nei rituali di fondazione delle città. Non è un caso, infatti, che il mitico fondatore della civiltà etrusca, Tarconte, sia dipinto come un aratore, al quale il divino Tagete insegnò i fondamenti della Disciplina (Lyd. de ost. 2.6.B), e che lo stesso Romolo, secondo Plutarco, tracciò il solco rituale della fondazione di Roma in base alla prescrizione dei sacerdoti etruschi (Plut. Rom. 11).

Nomi etruschi o greci? L’avvento della scrittura permise di registrare le attività votive e tramandare fino a noi i nomi delle divinità venerate e a volte quelli dei devoti, consentendoci cosí di approfondire l’indagine su aspetti religiosi e sociali delle forme di culto. Le piú antiche attestazioni epigrafiche a questo riguardo risalgono alla seconda metà del VII secolo a.C., quando sono documentati il nome del dio Tina a Veio (piú tardi assimilato allo Zeus dei Greci), quello del «demone» femminile Vanth a Marsiliana d’Albegna e quelli delle divinità Achavisur e Ithavusva, appartenenti alla cerchia di Afrodite, a Casale Marittimo e a Narce. Significativamente, i primi nomi a comparire sono di origine genuinamente etrusca e, ancor piú significativamente, proprio a partire da questa fase si osserva l’inizio di un fenomeno di antropomorfizzazione delle divinità, che le porterà nel corso dei secoli ad assumere forme sempre piú ellenizzanti, sia nel culto che nell’iconografia. Si viene cosí a creare, nel tempo, un pantheon composito, che comprende divinità assimilate ai principali dèi greci aventi un nome etrusco (come Tina o Tinia, corrispondente a Zeus, Turan/Afrodite, Thesan/Eos, Cavatha/Persefone), un nome di origine italica (Uni/Era, Menerva/ Atena, Vei/Demetra, Fufluns/Dioniso, Nethuns/Poseidone), o addirittura un nome del tutto greco (Artumes/Artemide, Hercle/Eracle). A queste si aggiungono divinità prive di un corrispondente greco, che però trovano confronto con omologhe divinità latine (come Selvans/Silvanus,

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Culsans/Ianus, Thufltha/Fortuna). Un caso a parte è costituito da Apollo, che in Etruria ha un ruolo diverso e piú esteso che in Grecia, comprendendo la tutela sulla divinazione oracolare e sul mondo degli Inferi. Per questo motivo il dio etrusco ebbe molti nomi ed epiteti (tra i quali Suri, Rath e Manth), a cui si aggiunsero anche il greco Aplu (< Apollo) e il latino Veivis (< Veiovis). L’assimilazione formale alle divinità greche acquistava un significato funzionale soprattutto nel caso di santuari aperti alla frequentazione di stranieri, come nei porti di Pyrgi e Gravisca, rispettivamente posti nel territorio di Caere (Cerveteri) e Tarquinia. In luoghi come questi vennero introdotte anche forme di culto, iconografie mitologiche e attività religiose di tradizione greca, come per esempio i misteri demetriaci e quelli di Dioniso. Ciononostante, le divinità etrusche conservarono la propria natura originale nel culto, nella struttura del pantheon e nelle rappresentazioni mitologiche, per le quali gli Etruschi selezionarono sempre con attenzione le narrazioni piú adatte alla propria cultura e sensibilità religiosa.

Sacerdoti eruditi e indovini Sin dall’epoca arcaica, il luogo principale destinato al culto delle divinità fu il santuario, dotato di strutture per il compimento di sacrifici (altari) e il deposito di offerte votive (favissae; vedi il box alle pp. 12-13). Il ruolo dei sacerdoti in questo contesto è reso a volte evidente dalla preparazione di oggetti pre-consacrati (soprattutto vasi), donati in un secondo tempo dai fedeli, che a volte vi apponevano un’iscrizione aggiuntiva con il proprio nome. In verità, la documentazione archeologica offre poche informazioni sull’identità e attività dei sacerdoti etruschi, a partire dalla difficoltà di individuare le loro tombe in modo sicuro. Fanno eccezione i casi straordinari di un costume cerimoniale appartenente a una figura sacerdotale assimilabile ai Salii romani, rinvenuto a Veio in una tomba dell’VIII secolo a.C. (t. 1036 di Casale del Fosso), e di un sarcofago tarquiniese del III secolo a.C., oggi al British Museum, appartenente a una sacerdotessa iniziata ai misteri dionisiaci. In aggiunta, le iscrizioni consentono talvolta di riconoscere l’impiego di sacerdoti di origine straniera, come nel caso della lamina di Pyrgi in lingua fenicia, presumibilmente redatta da una sacerdotessa di Uni/Astarte, ovvero delle consacrazioni in greco a Era alla Vigna Parrocchiale di Caere. A parte queste poche attestazioni, però, il ruolo dei sacerdoti rimane piuttosto oscuro e a volte è lecito domandarsi se molti riti non venissero piuttosto celebrati da magistrati (come piú tardi a Roma) o dal pater familias. Fanno eccezione le figure sacerdotali addette a compiti di divinazione, per i quali conosciamo anche il nome originale etrusco: netsvis, corrispondente al latino haruspex, «aruspice». Grazie ad alcune statuette di epoca ellenistica, conosciamo il tipico abito cerimoniale di questa particolare casta di sacerdoti, caratterizzato da una sopravveste – presumibilmente di lana – fermata sul petto da una fibula e da un alto copricapo conico fermato con un laccio sotto il mento. Ulteriori attributi degli aruspici erano il bastone (che si credeva dotato del potere di portare a compimento la volontà degli dèi), il lituo (bastone ricurvo per l’osservazione dei fenomeni celesti) e il coltello sacrificale. Tra i loro compiti principali, infatti, si

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Nella pagina accanto, in alto specchio in bronzo inciso raffigurante un aruspice che esamina il fegato di un animale sacrificato per trarne auspici. Fine del V sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. L’iscrizione qualifica il personaggio come Calchas, ovvero il mitico indovino greco Calcante. In basso lituo in bronzo, da una tomba della necropoli di Cerveteri. VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.


contava la divinazione attraverso la consultazione delle viscere degli animali sacrificati e l’interpretazione del volo degli uccelli e dei fulmini. Non per nulla, una delle ultime iscrizioni etrusche è l’epitaffio bilingue dell’aruspice L. Cafatius di Pesaro, che proclama di essere netsvis trutnvt frontac, ovvero in latino haruspex fulguriator, «esperto di divinazione attraverso le viscere e i fulmini».

Il cosmo nelle viscere di una pecora

In basso coperchio di una situla in bronzo, dalla tomba 22 della necropoli di Olmo Bello, a Bisenzio (Capodimonte, Viterbo). Fine dell’VIII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Sul coperchio, le figurine scolpite danzano intorno a un animale incatenato, mentre sulla spalla del vaso vi sono scene di varie attività, fra cui l’aratura.

Un prezioso documento ci permette di conoscere il funzionamento di queste pratiche etrusche di divinazione. Si tratta del cosiddetto Fegato di Piacenza (I secolo a.C.): un modello dettagliato in bronzo del fegato di una pecora, la cui superficie interna è suddivisa in 22 caselle marcate con il nome di singole divinità. Grazie a questa sorta di mappa, macchie, patologie o deformità presenti sul fegato di una pecora sacrificale potevano essere interpretate come messaggi da parte di una specifica divinità. In aggiunta, un nastro suddiviso in 16 caselle circonda il modello del fegato, creando una corrispondenza con le sedici sedi celesti in cui gli Etruschi credevano che gli dèi risiedessero (Mart. Cap., nupt. Merc. et Phil., 1.45-61). Il microcosmo rappresentato dal fegato, dunque, corrispondeva al macrocosmo del cielo, nel quale segni divini – come fulmini e fenomeni atmosferici – potevano essere attribuiti al volere di ciascuna divinità in base alla loro provenienza e orientamento. Compito degli aruspici etruschi era riconoscere e interpretare il significato dei fenomeni osservati e riconoscervi il


| Pratiche votive e architettura sacra L’archeologia ha restituito importanti informazioni sui luoghi di culto degli Etruschi, con particolare riguardo ai resti delle pratiche rituali e, soprattutto, agli edifici e strutture di destinazione religiosa. Come per tutti i popoli dell’antichità, le offerte votive hanno lasciato le tracce archeologiche piú significative. Ma, anche se maggiore soddisfazione è offerta ai visitatori dei musei dai doni di oggetti piú o meno preziosi alle divinità (che a volte includevano vasi, gioielli e vere e proprie opere d’arte), le pratiche piú comuni erano il sacrificio di animali e l’offerta di cibi e bevande, di volta in volta versati nella terra (libagione), consumati in un pasto rituale (antecedente della comunione cristiana), ovvero bruciati (olocausto). Gli scavi dei santuari antichi restituiscono regolarmente i resti degli strumenti utilizzati per questi riti (soprattutto vasellame), ma anche resti di ossa e statuette votive in terracotta o metallo, che raffigurano di volta in volta le divinità, i devoti o gli animali sacrificati. In base ai contesti di ritrovamento di questi resti, di fatto si può dire che tutti e quattro gli elementi della natura erano utilizzati per entrare in contatto con gli dèi: dal fuoco dell’olocausto a fossi scavati nella terra (bothroi) e dal profumo di unguenti e incensi alle deposizioni nell’acqua di fiumi e di fonti. Lo strumento principale del sacrificio era l’altare, che pertanto era considerato l’elemento fondamentale di qualunque luogo sacro dell’antichità, in Etruria come altrove. Esistevano diversi tipi di altare in base alla loro specifica funzione, da semplici cumuli di pietre

grezze (o perfino zolle di terra) a tavole di pietra o addirittura di metallo prezioso (nessuna delle quali è sopravvissuta fino a noi). In aggiunta, gli Etruschi conoscevano un tipo particolare di altare, perforato verticalmente e connesso a un cunicolo nel terreno, che permetteva di inviare offerte liquide direttamente alle divinità ctonie. Considerando la grande attenzione che gli Etruschi dedicavano ai confini e alle suddivisioni dello spazio e del tempo, non sembrerà strano che presso di loro il recinto sacro (detto in greco tèmenos) fosse ritenuto, accanto all’altare, un elemento imprescindibile di un luogo sacro, sia che fosse realizzato in forma monumentale come a Santa Severa (l’antica Pyrgi), sia che fosse semplicemente marcato da cippi, a volte contrassegnati col nome delle divinità. Piú tardi, l’unità base altare-recinto si evolse in forme monumentali su podio soprelevato, il cui ricordo è ancora evidente nell’Ara Pacis realizzata a Roma in epoca augustea. Il tempio in quanto «casa» della divinità era invece considerato in Etruria un elemento secondario nell’organizzazione di un luogo sacro, specialmente nel caso di culti di campagna o legati a fenomeni naturali, come fonti e grotte. Ciononostante, la

segno della volontà degli dèi, sia nelle faccende pubbliche che in quelle private. Come si è già detto, però, gli aruspici erano anche persone erudite, che trascrivevano le proprie osservazioni in libri di prodigi e tramandarono per iscritto la tradizione della Disciplina Etrusca nei secoli, al punto di consentirne la sopravvivenza persino dopo la scomparsa della stessa lingua etrusca. È con evidente orgoglio, infatti, che il tarquiniese Laris Pulenas mostra il libro aruspicino (zich netsrac) di cui è autore sul coperchio del proprio sarcofago nel III secolo a.C. Al tempo in cui il filosofo romano Seneca dibatteva sulla natura dei fulmini, nel I secolo d.C., il nome degli Etruschi era ormai divenuto sinonimo di aruspici e i loro libri, tradotti in latino, circolavano negli ambienti religiosi di Roma. Non c’è da stupirsi, perciò, se ancora in età tardo-antica fu possibile al bizantino Johannes Lydus consultare e tradurre in greco il calendario brontoscopico di Nigidio Figulo, che conteneva indicazioni sull’interpretazione quotidiana dei fulmini nei diversi giorni dell’anno.

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In alto modellino fittile di tempio, da Vulci. I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Nella pagina accanto una delle lastre Campana (dal nome del suo primo proprietario, Giovan Pietro Campana) in terracotta policroma rafigurante un uomo davanti a un altare, da Cerveteri. Fine del VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.


documentazione di edifici di culto è antichissima, a partire da capanne non molto diverse dalle abitazioni coeve. Tuttavia, c’è sempre stata una tendenza a riservare all’uso sacro dei modelli antiquati di edificio abitativo, come capanne ovali quando le abitazioni avevano forme rettilinee; sacelli rettangolari (oikoi) quando le case erano a tre vani; templi a tre celle quando la casa si evolveva verso la forma della domus romana. Lo sviluppo degli edifici templari in Etruria non fu però lineare e vecchi modelli costruttivi rimanevano in funzione a fianco a nuove invenzioni e a forme importate dal mondo greco. Al semplice sacello originario furono aggiunti dapprima un’anticamera (pronao) e poi un podio (che la elevava al di sopra del terreno). Successivamente si aggiunsero due ale su entrambi i lati, a volte con una parte posteriore (pars postica), e infine colonne sulla fronte, raggiungendo cosí le proporzioni canoniche del cosiddetto «tempio tuscanico» ricordato da Vitruvio e imitato anche dal tempio di Giove Capitolino a Roma. Ma in Etruria si diffusero anche templi peripteri di tradizione greca, come il Tempio Grande di Vulci, e persino tipi misti o altre varianti, creando cosí un panorama variegato di edifici sacri, a volte accostati l’uno all’altro, come i templi A e B di Pyrgi, tuscanico il primo e periptero il secondo, in competizione reciproca per la maggiore monumentalità. Accanto a questi esempi maggiori, il semplice sacello alla maniera antica continuò a essere usato fino all’epoca romana, come nel caso dell’area Sud di

Bibliografia Ambros Josef Pfiffig, Religio Etrusca, Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, Graz 1975. Mario Torelli, La religione, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Scheiwiller, Milano 1986; pp. 157-237. Mauro Cristofani, Sul processo di antropomorfizzazione nel pantheon etrusco, in Miscellanea Etrusco-Italica I, CNR, Roma 1993; pp. 9-21. Dominique Briquel, Françoise Gaultier (a cura di), Les Étrusques, les plus religieux des hommes, Atti del Colloquio Internazionale (Parigi, 1992), La documentation française, Parigi 1997. Mario Torelli, La religione etrusca, in Gli Etruschi, catalogo della mostra (Venezia, 2000), Bompiani, Milano 2000; pp. 273-289. Nancy Thomson de Grummond, Erika Simon (a cura di), The Religion of the Etruscans, Austin 2006. Daniel F. Maras, Il dono votivo. Gli dei e il sacro nelle iscrizioni

Pyrgi, dedicata agli dèi ctoni Suri e Cavatha (assimilati ad Apollo infero e Persefone), ovvero nel santuario emporico di Gravisca, presso Tarquinia, dove il sacello di Turan (l’Afrodite etrusca) accoglieva persino una speciale dotazione per il culto di Adone, di origine vicino orientale.

etrusche di culto, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2009. L. Bouke van der Meer (a cura di), Material Aspects of Etruscan Religion, Atti del Colloquio Internazionale (Leiden, 2008), Peeters, Leuven-Paris-Walpole 2010. Petra Amann (a cura di), Kulte-Riten-religiöse Vorstellungen bei den Etruskern und ihr Verhältnis zu Politik und Gesellschaft, Atti del Colloquio Internazionale (Vienna, 2008), Verlag der österreichischen Akademie der Wissenschaften, Vienna 2012. Jean MacIntosh Turfa, Divining the Etruscan World. The Brontoscopic Calendar and Religious Practice, Cambridge University Press, Cambridge 2012. Adriano Maggiani, La religione, in Gilda Bartoloni (a cura di), Introduzione all’etruscologia, Hoepli, Milano 2012; pp. 395-418. Jean MacIntosh Turfa (a cura di), The Etruscan World, Routdledge, Londra-New York 2013. Daniele F. Maras, Religion, in Alessandro Naso (a cura di), Etruscology, Walter de Gruyter, Berlino-Boston 2017; pp. 277-316.

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ETRUSCHI: UNA CRONOLOGIA

X sec. a.C. Età del Bronzo Finale: prodromi della civiltà etrusca in diversi siti compresi nel territorio dell’Etruria. IX-VIll sec. a.C. Età del Ferro, detta in Etruria facies villanoviana. Formazione del popolo etrusco. Occupazioni dei siti, che poi diventeranno grandi metropoli. Stanziamenti etruschi nella Pianura Padana (Bologna), in Romagna (Verucchio), nelle Marche (Fermo), in Campania (Capua, Pontecagnano, Sala Consilina). Arte geometrica. Arrivo in Etruria di bronzisti centro-europei. Contatti tra i centri della costa tirrenica dell’Etruria e quelli della Sardegna. 775 a.C. circa Fondazione dell’emporio di Pithecusa da parte degli Eubei. 753 a.C. Fondazione di Roma da parte di Romolo. 750 a.C. circa Gli Eubei fondano la colonia di Cuma. Seconda metà dell’VIll sec. a.C. Arrivo in Etruria di vasi (da vino) e di ceramisti euboici, dei primi manufatti vicino-orientali e dell’ambra dalla regione baltica. Arrivo in Etruria dell’alfabeto, probabilmente dai centri euboici della Campania. Nascita di un ceto aristocratico, che sfrutta le risorse locali, in particolare le miniere metallifere.

Olimpia, Delfi, Dodona, Samo, Perachora, Atene-Acropoli. Fine dell’VIll-inizi del VI sec. a.C. Facies orientalizzante. Prima metà del VII sec. a.C. Arrivo in Etruria di ceramica corinzia e greco-orientale e di manufatti vicino-orientali e hallstattiani. Ceramica, oreficeria, bronzistica di stile orientalizzante. Inizio della produzione di buccheri. Prime case a pianta quadrangolare con fondazioni in pietra. Nascita della grande scultura e della grande pittura. Prime epigrafi, con indicazione di possesso o di dono. Seconda metà del VII sec. a.C. Inizio dell’esportazione di vino (e di contenitori da vino) e di profumi (e di vasi da profumo) dall’Etruria nel Mediterraneo. Primi bronzetti etruschi a figura umana. 615 a.C. Inizio del governo etrusco a Roma con l’ascesa al potere di Lucumone, che assume il nome di Lucio Tarquinio Prisco. 600 a.C. circa I Focei fondano la colonia di Marsiglia. Inizi del VI-inizi del V sec. a.C. Facies arcaica.

Ultimo quarto dell’VIll sec. a.C. Secondo le fonti, primi scontri tra Roma e Veio per il possesso delle saline alla foce del Tevere.

Prima metà del VI sec. a.C. Ceramica etrusco-corinzia. Primi templi etruschi. Prime tombe dipinte di Tarquinia. Fondazione del santuario emporico di Gravisca. Presenze etrusche in centri della Campania. Inizio dell’arrivo in Etruria della ceramica attica.

VIll-VI sec. a.C. Presenza di manufatti etruschi, in genere bronzi, nei santuari ellenici di

578-534 a.C. Regno di Servio Tullio a Roma e riforme «democratiche».

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Seconda metà del VI sec. a.C. Arrivo in Etruria di maestri (e manufatti) greco-orientali. Residenza principesca di Acquarossa. Fondazione del santuario emporico di Pyrgi. Templi etruschi tripartiti. Ceramica etrusca a figure nere. Produzione bronzistica etrusca. Graduale abbandono dei piccoli centri con conseguente processo di inurbamento. Espansione etrusca nella Pianura Padana e in Campania. Inizio del movimento commerciale del porto di Spina, che riceve e ridistribuisce ceramica attica nei centri padani di Marzabotto, Bologna, Mantova. 540 a.C. circa Battaglia del Mare Sardo e affermazione della talassocrazia etrusca. 534-509 a.C. Regno di Lucio Tarquinio il Superbo a Roma. 525 a.C. Vittoria di Aristodemo di Cuma su un esercito di Etruschi dell’Italia settentrionale, di Umbri, di Dauni e di altri «barbari». 509 a.C. Dedica del tempio di Giove Capitolino a Roma, per il quale avevano lavorato lo scultore Vulca di Veio e altri artefici etruschi. Espulsione di Lucio Tarquinio il Superbo da Roma e istituzione della repubblica. Arrivo a Roma di Lars Porsenna, re di Chiusi e di Volsinii, in aiuto di Tarquinio, ma con il chiaro intento di impossessarsi del potere. 504 a.C. Vittoria di Aristodemo di Cuma e dei Latini sull’esercito di Arrunte figlio di Lars Porsenna, ad Ariccia. Primo quarto del V sec. a.C. Tentativi (non

riusciti) degli Etruschi di occupare le Lipari. Inizi del V-IV sec. a.C. Facies classica. 480 a.C. Vittoria dei Siracusani sui Cartaginesi a Himera. 474 a.C. Vittoria navale dei Siracusani e Cumani sugli Etruschi a Cuma e dedica di bottini di guerra da parte di Ierone di Siracusa a Zeus a Olimpia. Inizio di una crisi delle città costiere. Potenziamento del movimento commerciale dei porti adriatici (Spina, Numana). 453 a.C. Incursione vittoriosa dei Siracusani nell’area mineraria dell’Etruria settentrionale: blocco dei porti delle metropoli meridionali (Caere, Tarquinia, Vulci) e potenziamento di quello di Populonia, in quanto legato all’attività metallurgica. Calo della produzione di ceramica attica dipinta per la chiusura dei mercati etruschi. Inizio di contatti diretti tra il mondo magno-greco e le città etrusche dell’interno, caratterizzate da un’economia agricola. 428 a.C. Guerra tra Roma e Veio e morte in battaglia del re veiente Lars Tolumnio. 426 a.C. Roma conquista Fidene e stipula una tregua con Veio. 415-413 a.C. Partecipazione degli Etruschi (tre navi) a fianco degli Ateniesi all’assedio (fallito) di Siracusa. 405-396 a.C. Guerra tra Roma e Veio, che si conclude con l’occupazione e la distruzione della città etrusca e l’annessione del suo territorio a quello di Roma.


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294 a.C. Volsinii, Perugia e Arezzo pattuiscono tregue con Roma. 293 a.C. Vittoria dei Romani sui Rosellani.

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308 a.C. Rinnovo della tregua quarantennale tra Roma e Tarquinia.

295 a.C. Battaglia di Sentino (presso l’odierna Sassoferrato) e vittoria dei Romani su Etruschi, Sanniti, Umbri e Galli.

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Massa Marittima

Populonia

Metà del IV sec. a.C. Rinascita delle grandi metropoli costiere e affermazione di una nuova aristocrazia terriera. Grandi tombe dipinte o scolpite a Caere, Tarquinia, Vulci. Ripopolamento della regione delle necropoli rupestri.

Fine del IV- II sec. a.C. Facies ellenistica. Arruolamento di Etruschi e Italici nell’esercito romano. Costruzione delle grandi strade consolari che attraversano l’Etruria (Aurelia, Clodia, Cassia, Amerina, Flaminia). Produzione di sarcofagi nell’Etruria meridionale e di urnette funerarie nell’Etruria settentrionale.

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Cortona Lago Trasimeno

358-351 a.C. Guerra tra Roma e Tarquinia, che si conclude con una tregua di quaranta anni.

302 a.C. Insurrezione popolare ad Arezzo e intervento di Roma a favore della classe aristocratica.

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384 a.C. Saccheggio dei santuari di Pyrgi.

Arezzo

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Siena

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Inizi del IV sec. a.C. Discesa dei Galli in Etruria, su istigazione di Arrunte di Chiusi, e sacco di Roma.

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Fiesole

280 a.C. Trionfo dei Romani sui Vulcenti e i Volsiniesi.

Cartaginesi presso il lago Trasimeno.

273 a.C. Fondazione della colonia di diritto latino a Cosa.

205 a.C. Contributo di Cerveteri, Populonia, Tarquinia, Volterra, Arezzo, Perugia, Chiusi e Roselle alla preparazione della spedizione con cui Publio Cornelio Scipione affronta Annibale a Zama.

264 a.C. Fondazione della colonia di diritto romano a Pyrgi. Intervento dei Romani a Velzna a favore degli aristocratici, distruzione della città e trasferimento degli abitanti superstiti sul lago di Bolsena (Volsinii Novi). Fondazione della colonia di Castrum Novum. 247 a.C. Fondazione della colonia di diritto romano ad Alsium. 241 a.C. Intervento dei Romani a Falerii, distruzione della città e trasferimento degli abitanti in pianura (Falerii Novi). 225 a.C. Vittoria dei Romani sui Galli a Talamone. 217 a.C. Battaglia tra Romani e

181 a.C. Fondazione della colonia di diritto romano a Gravisca. 90-88 a.C. Guerra sociale ed estensione del diritto di cittadinanza romana agli Italici abitanti a sud del Po (Lex Iulia de civitate). Affermazione del latino come lingua ufficiale in Italia. Fine delle culture italiche preromane. 83 a.C. Fondazione della colonia di diritto romano a Capua. 83-82 a.C. Campagne di Silla contro le città dell’Etruria settentrionale filomariane.

49-42 a.C. Estensione della cittadinanza romana ai popoli dell’Italia settentrionale. 41-40 a.C. Guerra tra Ottaviano e Antonio. Assedio di Perugia. I sec. a.C. Traduzione in latino dei libri etruschi di religione. Recupero di tradizioni etrusche nella Roma tardo-repubblicana. 7 a.C. circa Augusto divide amministrativamente l’Italia in undici regioni. Fine del I sec. a.C.-inizi del I sec. d.C. Verrio FIacco scrive i Rerum Etruscarum libri. 41-54 d.C. Impero di Claudio, autore dei Tyrrhenika. II-VI sec. d.C. Epigrafi latine che attestano i praetores e gli aediles Etruriae. Testimonianze letterarie e storiografiche sulla sopravvivenza degli aruspici etruschi.

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SELVANS

A guardia del confine

SELVANS

A sinistra statuetta bronzea di Selvans, dall’area del Foro Boario di Cortona. Metà del III sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. In alto, sulle due pagine Cortona. La Porta Ghibellina, o Bifora, edificata dagli Etruschi e poi inglobata nelle mura medievali. Qui, nell’Ottocento, furono rinvenute queste due statuette con dediche gemelle, raffiguranti Selvans (dio del confine) e Culsans (dio della porta). Le dediche invocavano la protezione dell’accesso alla città contro i pericoli provenienti dall’esterno.

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L

a tradizione giuridica etrusca prestava un’attenzione particolare al problema della divisione della terra e degli spazi pubblici e privati, attribuendo addirittura un valore religioso all’atto di tracciare il confine e alla sua funzione immutabile nei secoli. Esistevano appositi testi in cui la dottrina che disciplinava tali operazioni era descritta e codificata: un lungo brano in traduzione latina, tramandato fino a oggi in una raccolta di testi degli agrimensori romani (i cosiddetti Gromatici veteres), raccontava la rivelazione che la Ninfa Vegoia aveva concesso a un certo Arruns Veltymnus, consistente nella profezia di terribili calamità e disgrazie che avrebbero colpito chi avesse osato rimuovere le pietre di confine volute e consacrate dallo stesso Giove. Tale aspetto della «religiosità civile» etrusca rientrava in una caratteristica concezione del cosmo, secondo la quale ogni cosa e ogni essere vivente avevano un


A destra statuetta bronzea di Culsans, da Cortona. IV-III sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

proprio spazio e un proprio tempo predeterminato dal fato e dalla volontà degli dèi. Perfino la durata stessa della civiltà etrusca era stata stabilita dai sacerdoti in nove o dieci saecula, di durata variabile, e il passaggio dall’uno all’altro sarebbe stato segnalato da eventi prodigiosi: prima di morire, l’aruspice Vulcanio riconobbe l’inizio del decimo (e ultimo) saeculum in seguito all’avvistamento di una cometa, che comparve nel cielo all’epoca dei funerali di Giulio Cesare (44 a.C.).

Scegliere il luogo giusto La medesima tradizione stabiliva la posizione corretta delle città, dei templi e degli spazi pubblici: una traccia archeologica delle pratiche tecniche e religiose collegate con la divisione del terreno e la determinazione degli spazi è venuta alla luce in diversi contesti urbani, nei quali si sono potuti rintracciare alcuni cippi confinari posti all’incrocio degli assi stradali e/o i punti di osservazione (auguracula) per le tecniche di traguardo ottico e inaugurazione degli spazi (vedi box a p. 18), come per esempio a Marzabotto (Bologna), una città etrusca (ri)fondata in epoca storica (VI secolo a.C.). Appare evidente che un popolo dalla spiccata sensibilità religiosa come gli Etruschi non poteva non aver identificato

una specifica divinità a cui attribuire la tutela dei confini: in effetti tale ruolo era svolto dal dio Selvans. Infatti, nonostante la profezia di Vegoia attribuisse al sommo Giove l’autorità per disporre i termini e per punire i trasgressori delle regole confinarie, è Selvans che viene chiamato in causa nelle attestazioni epigrafiche votive relative a cippi terminali o alla tutela dei confini urbici. Le piú antiche testimonianze del culto del dio risalgono al V secolo a.C. e consistono nell’offerta di oggetti pregiati di bronzo, come un incensiere, e una paletta col manico a forma di figura femminile. Selvans si rivela quindi da subito un dio di particolare importanza, anche se mancano per ora attestazioni arcaiche della sua venerazione; per converso, in epoca recente – tra il IV e il II secolo a.C. –, il suo culto è uno dei piú diffusi nelle iscrizioni votive di dedica. La funzione di dio dei confini è documentata

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SELVANS

nel corso del IV secolo da una dedica di carattere ufficiale, sancita dall’intervento dell’amministrazione locale (tuthina), in cui Selvans riceve l’epiteto tularia, derivato dalla parola etrusca tular, appunto il «confine». Cippi confinari di luoghi di culto intestati a Selvans sono noti a Tarquinia nell’area della città (assieme con Apollo/Suri) e a Bolsena nel santuario del Pozzarello, dove l’epiteto sanchuneta evidenzia una connessione con il dio latino Sancus, garante del rispetto dei patti.

Dediche gemelle Di notevole interesse, inoltre, è stato il ritrovamento ottocentesco di un piccolo deposito votivo presso la Porta Ghibellina di Cortona, una delle porte urbiche dell’antica cinta muraria, nel quale erano state offerte due statuette con dediche gemelle da parte di una Velia Cvinti a Selvans (protettore del confine) e Culsans (dio della porta, corrispondente al latino Ianus). Con l’atto votivo si invocava la protezione degli dèi nei confronti del confinepomerio e dell’accesso alla città, contro i pericoli provenienti dall’esterno ed eventualmente contro le minacce di invasione. In altri casi la natura della dedica votiva sembra meno evidente, come per una statuetta chiusina, offerta a Selvans e ad Afrodite/ Turan, qualificata come

Groma e gromatici

Lo strumento principale nelle operazioni tecniche legate alla divisione degli spazi era la groma, utilizzata dagli agrimensori romani per traguardare e tracciare gli allineamenti ortogonali, necessari alla delimitazione spaziale di strade, città, templi e terreni. Il suo nome si fa derivare dal greco gnómon la forma intermedia etrusca *cruma. Qui sopra dipinto proveniente da Ostia del dio latino Silvanus, con a fianco un cane e con i suoi attributi caratteristici, il ramo d’albero e il falcetto. Ostia, Museo Archeologico. A destra ricostruzione di groma romana in legno e bronzo. Roma, Museo della Civiltà Romana.

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appartenente alla cerchia di Thanr, una dea della nascita e della morte: forse al dio dei confini si è voluta associare una dea dei momenti terminali della vita umana. E ancora un interessante e particolare tipo di venerazione è documentato da una statuetta di bronzo tarquiniese raffigurante un fanciullo, proveniente dal santuario già ricordato di Suri e Selvans: a essere consacrato alle due divinità non è l’oggetto, bensí il bambino che esso rappresenta, come risulta dall’iscrizione incisa sulla spalla a mo’ di didascalia: «[---]nas

Nella pagina accanto, a sinistra carta dell’Etruria propria, con, in evidenza, i siti in cui sono stati rinvenuti documenti epigrafici del culto di Selvans, venerato soprattutto nella regione interna e in particolar modo in area volsiniese, tra Orvieto e Bolsena. Nella pagina accanto, a destra bronzetto raffigurante il dio Selvans, al quale è stata offerta da una V(elia) Cvinti nel deposito votivo della Porta Ghibellina di Cortona. IV-III sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. La figura giovanile, nuda, con un berretto ricavato da una spoglia ferina e gli stivaletti di pelle, si addice a un eroe civilizzatore, piuttosto che a un abitatore dei boschi come il latino Silvanus. La mano sinistra, sollevata, sosteneva in origine un attributo oggi perduto, forse un bastone.


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(figlio) di Vel, sacro a Suri (e) al padre Selvans, figlio di una Thvethli». A dispetto del carattere del tutto etrusco della venerazione come dio dei confini, il nome del dio Selvans è di origine italica, probabilmente umbra, come altri nomi divini del pantheon etrusco. Non si hanno notizie del culto originario del dio italico, salvo un’asta bronzea a forma di tridente da Todi con l’abbreviazione selva(---), che potrebbe essere tanto umbra quanto etrusca; ben noto, invece, è il culto del dio omologo latino Silvanus, che ha però caratteristiche del tutto diverse. Il latino Silvanus è una divinità strettamente collegata con Faunus, al punto di farlo ritenere un nome alternativo dello stesso dio, utilizzato esclusivamente nel culto privato. Si tratta di una figura divina agreste, connessa con la natura selvaggia, con i boschi e preposta

Fidene Tivoli

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Preneste

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Albano Nemi

alla protezione degli animali; inoltre, le caratteristiche maschili e bestiali del culto di Silvanus, ne vietano il culto alle donne, come documentano, per esempio, Catone e sant’Agostino. Al contrario, Selvans è titolare di culti pubblici (da parte del tuthina di Bolsena), riceve dediche da donne (la già ricordata Velia Cvinti a Cortona, una Ramtha Uftavi nel Montefeltro e una Larthi Lethanei dall’Etruria meridionale), e la sua caratteristica di protettore dei confini privati e cittadini lo rende molto diverso dal dio selvatico della tradizione latina. Non sembra quindi possibile

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SELVANS

| Un osservatorio per gli eventi celesti La parola latina inauguratio indicava le pratiche tecniche e religiose – perlopiú derivanti dalla tradizione etrusca – attraverso le quali un sacerdote, chiamato augure, disponeva l’orientamento di un locus: uno spazio aperto o un edificio consacrato, di carattere pubblico o religioso. L’orientamento prendeva le mosse dai punti cardinali, attraverso l’osservazione astronomica, soprattutto del percorso del sole, e consentiva di scegliere l’esposizione e la forma piú adeguata per templi e altari, ma anche per strutture civili, come il comitium a Roma. Lo spazio inaugurato

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prendeva il nome di templum in terris e poteva essere utilizzato per osservare gli eventi celesti, come il passaggio degli uccelli (auspicium) o la caduta dei fulmini. Tale pratica era considerata indispensabile a garanzia della correttezza formale religiosa e del rispetto della volontà divina ed era un atto senza il quale un edificio non poteva essere considerato funzionante. Da ciò, semplificando, deriva il concetto moderno di «inaugurazione», che indica l’atto di nascita di una struttura o di un edificio, ma anche di ogni attività cominciata ex novo.


Marzabotto. L’acropoli della città etrusca, fondata nel VI sec. a.C. Qui è stato localizzato l’auguraculum, l’osservatorio rituale posto in posizione elevata e ai margini dell’area urbana, dal quale l’augure traeva gli auspici.

A sinistra cippo in pietra, rinvenuto a Firenze, in occasione di demolizioni eseguite alla fine dell’Ottocento. Firenze, Museo Archeologico. Vi è raffigurato un augure con lituo nella destra. Sullo sfondo riproduzione del Fegato di Piacenza, modellino bronzeo del fegato di pecora, suddiviso in sedici caselle, ciascuna col nome di una divinità etrusca. Il nome abbreviato di Selva(ns) è ripetuto due volte nella fascia esterna e in una casella interna della parte sinistra, meno favorevole.

riconoscere un’influenza latina nel culto del dio etrusco, mentre, al contrario, il prestigio culturale e religioso della tradizione etrusca ha consentito che alcune delle caratteristiche di Selvans fossero trasmesse a Silvanus, che Orazio definisce tutor finium, «protettore dei confini», e del quale il gromatico Dolabella ricorda che «per primo pose un cippo terminale sulla terra».

Con un ramo e un coltello Anche nell’iconografia Selvans ha un aspetto molto diverso dal barbuto e pastorale Silvanus, che a volte indossa una pelle di capra e spesso reca in mano un ramo di pino e un coltello da giardiniere. Fra tutte le statuette con iscrizione di dedica a Selvans, solo quella offerta del deposito votivo cortonese della Porta Ghibellina è una rappresentazione della divinità e consente di conoscerne l’aspetto, confermato da una serie di altre statuette prive di iscrizione. Si tratta di un personaggio giovanile, nudo, con ai piedi due stivaletti di pelle, al collo una collana rigida (torques) e sulla testa un copricapo ricavato dalla testa di un animale (forse un felino). La mano destra è appoggiata sull’anca, mentre la sinistra sollevata teneva originariamente un attributo oggi perduto, probabilmente un bastone ricurvo o un falcetto. Come si vede, l’aspetto della divinità non mostra affatto caratteristiche selvatiche e primitive da abitatore dei boschi; al contrario, la figura giovanile con stivali e spoglia ferina, che potrebbero alludere alla caccia, rende meglio

l’idea di un dio civilizzatore, che domina la natura selvaggia ed è responsabile dell’introduzione dell’uso di dividere la terra presso gli Etruschi. È merito di Angelo Brelich (1913-1977), il grande storico delle religioni del secolo passato, aver riscontrato la sovrapposizione tra Faunus e Silvanus nell’immaginario religioso latino: il primo identificato con un re delle origini, primo istitutore dei culti; il secondo rappresentato come una sorta di demone selvatico, con funzioni di protettore dell’agricoltura e dell’allevamento. «Il fatto singolare che una divinità abbia due nomi distinti, si spiega quando si osserva che Faunus ha templi e culto pubblico, mentre Silvanus non ne ha, e che d’altra parte a Silvanus sono dedicate centinaia di iscrizioni private e a Faunus neanche una; vuol dire che Silvanus era il nome che il dio assumeva nel culto privato, Faunus quello che lo contrassegnava nel culto pubblico». Al di là delle differenze, si può notare come tanto il dio latino (nella sua accezione di Faunus) quanto quello etrusco hanno un ruolo di «divinità delle origini», iniziatori e sistematori di alcuni aspetti religiosi, l’uno per quanto riguarda i culti delle divinità e l’altro per il tracciamento dei primi confini. Da questa funzione mitologica affine i due dèi hanno preso strade diverse nei rispettivi pantheon, dando origine alla coppia Faunus/Silvanus della religione romana e a Selvans, posto a tutela della sacralità dei confini in Etruria.

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CULSANS

La sentinella che vede tutto

CULSANS

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on tutti gli dèi d’Etruria hanno trovato un’analogia stringente con divinità greche omologhe, al punto da poterne condividere iconografia e caratteristiche del culto. In alcuni casi, però, gli adattamenti e le soluzioni adottate dagli Etruschi nel corso del tempo sono stati alla base di analoghe scelte della religione romana, meglio conosciuta, ovvero si pongono in parallelo a essa nel quadro della parziale autonomia delle tradizioni d’Italia. È il caso del dio etrusco Culsans, bifronte come il latino Ianus e preposto anch’esso alla tutela delle porte e dei passaggi. Infatti, una divinità dalle due facce, rivolta allo stesso tempo verso il passato e verso il futuro e in grado di vedere tutto – cosí come una porta costituisce una via d’accesso sia per l’interno che per l’esterno –, è del tutto estranea all’immaginario greco e va riferita a una comune tradizione etrusco-latina, senza che si possa per ora stabilire una precedenza tra le due componenti. L’immagine intera di Culsans è giunta fino a noi grazie a un’unica statuetta di bronzo del III secolo a.C., rinvenuta a Cortona, che costituisce una coppia con un altro simile raffigurante Selvans e a lui dedicato; le due figurette sono state offerte da una donna, Velia Cvinti, che, evidentemente, intendeva invocare la protezione delle due divinità preposte al controllo del confine e dell’accesso alla città, come conferma il luogo di ritrovamento dei due bronzetti, nei pressi della cosiddetta Porta Ghibellina (vedi anche il capitolo precedente, alle pp. 16-21). Il dio, di aspetto giovanile, è rappresentato

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nudo, con l’eccezione di un paio stivaletti «da cacciatore» e di un torques – una sorta di collana rigida – al collo.

Un copricapo speciale In testa porta un copricapo speciale, appiattito in alto e con una bordatura che copre la fronte e le orecchie delle due facce contrapposte, che la studiosa tedesca Erika Simon ha proposto di confrontare con il galerus dei sacerdoti romani, preparato con la pelle di un animale sacrificato. Come si è potuto osservare per Selvans, anche l’immagine di Culsans si distingue da quella del suo omologo latino Ianus per l’aspetto giovanile e imberbe, mentre la presenza di stivali potrebbe alludere alla mobilità del dio del passaggio, che esercita la sua tutela all’esterno del consorzio umano. Una caratteristica del tutto peculiare della raffigurazione è fornita invece dalla posizione delle mani, in parte simile a quella del bronzetto di Selvans, ma con alcune significative differenze. Per la destra protesa in avanti si è pensato alla presenza di un

A destra particolare di una statuetta bronzea del dio bifronte Culsans, da Cortona. IV-III sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

Nella pagina accanto Perugia. La Porta Marzia (III sec. a.C.), con i busti di Giove/Tinia e dei Dioscuri, inglobata nel XVI sec. nelle mura della Rocca Paolina.


attributo oggi perduto, come per esempio una chiave (accessorio tipico di Ianus), ma non si spiega la posizione dell’indice sollevato; ancora piú particolare è la posa della mano sinistra, appoggiata sul fianco solo con tre dita ben divaricate. Una suggestiva spiegazione del curioso

atteggiamento del dio è stata fornita alcuni anni fa da uno studio di Romolo Augusto Staccioli, che l’ha messa in relazione con due passi di Plinio e Macrobio, i quali ricordano come la statua di culto di Ianus sull’Argileto a Roma tenesse con le mani il conto del numero 365 (ovvero il numero dei giorni dell’anno solare).

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CULSANS

La notizia si riferisce alla cosiddetta pratica dell’indigitatio, che permetteva di far di conto segnando con le dita numeri anche molto elevati, attraverso posizioni convenzionali delle mani. È possibile perciò che la statuetta cortonese fosse una riproduzione della statua di culto romana o, piú probabilmente, che entrambe derivassero la propria iconografia da un modello comune. La diffusione dell’immagine di Culsans è confermata da altre raffigurazioni bifronti in alcune terrecotte votive che vedono il dio barbuto alla maniera romana, provenienti da Vulci – significativamente presso una delle porte urbiche – e da Tarquinia, e soprattutto da una serie di monete volterrane, nelle quali il dio porta il medesimo copricapo appiattito che abbiamo osservato nella statuetta cortonese.

Una divinità ctonia Dal punto di vista del culto, invece, il nome di Culsans ricorre per intero solo un’altra volta a Cortona, nel frammento di una defissione (ovvero una laminetta di metallo con formula di maledizione, in genere alle divinità funerarie), e in forma abbreviata (Cvl) su un altare forato di Bagnoregio, di un tipo destinato a offerte infere, e sul lobo di sinistra del Fegato di Piacenza, nella cosiddetta pars hostilis. Nell’insieme, quindi, la documentazione epigrafica sembra riferirsi a una divinità ctonia, potenzialmente minacciosa, dalle spiccate valenze infere, anche se in realtà l’unica porta che sembrerebbe essere stata sottratta alla tutela di Culsans è proprio quella degli Inferi, per la quale è noto un demone femminile «portiere», Culsu, che faceva parte di un gruppo di divinità guardiane minori, i *Kulsnuter (vedi il capitolo alle pp. 52-57). Come si può notare, tutte le figure divine che hanno a che fare con la «porta» derivano il proprio nome dalla base culs, che in etrusco ne era il nome comune (vedi, per esempio, il plurale cul cva nel testo della Mummia di Zagabria; una mummia egiziana avvolta con bende ricavate da un libro di lino sul quale si conserva la piú lunga iscrizione etrusca a oggi

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Nella pagina accanto, in basso, a sinistra Volterra. La Porta all’Arco (fine del IV sec. a.C.), inglobata nelle mura medievali. Sulla chiave di volta e sugli stipiti sono inserite tre teste di divinità poste a tutela dell’accesso alla città.

nota, n.d.r.), cosí come il nome del latino Ianus deriva direttamente dal termine ianua, con il medesimo significato. Per continuare il parallelismo, è interessante notare come presso i Romani esistesse anche una figura femminile dello stesso ambito cultuale, denominata Iana (o Ianaia). Allo stesso modo, anche a Tarquinia una lunga iscrizione funeraria nota come l’elogio di Laris Pulenas (riportata sul sarcofago del defunto al quale il documento va attribuito, n.d.r.; vedi foto a p. 27) ricorda un rituale – verosimilmente un sacrificio – offerto a una divinità il cui nome in genitivo, Culsl Leprnal, ne conferma il sesso femminile e una

| A tutela degli ingressi Al di là della funzione difensiva, una cinta muraria aveva anche valenze religiose, come sappiamo grazie alle tradizioni latine riguardo al pomerium e alla dottrina di fondazione delle città, nella quale gli Etruschi erano considerati maestri. Punto debole congenito delle mura erano le porte, per le quali era perciò naturale richiedere la protezione delle divinità, come insegnano i luoghi sacri piú o meno grandi e i depositi votivi spesso ritrovati in prossimità degli accessi alle città, ma anche alcune sistemazioni monumentali di epoca recente. A Volterra, la Porta all’Arco, che ancora oggi si apre nel tratto meridionale delle mura della città, costruite alla metà del IV secolo a.C., era posta sotto la tutela di tre divinità, le cui teste scolpite (oggi molto corrose) spiccano sulla parete esterna del fornice. Similmente, nella Porta Marzia di Perugia – una delle principali della città – il fregio che orna il coronamento della faccia esterna, ancora visibile nel restauro di Antonio da Sangallo, vede affacciarsi i busti di Giove/Tinia e dei Dioscuri, con i rispettivi cavalli. Anche le mura di Falerii Novi, dove i Romani deportarono gli abitanti di Civita Castellana nel 241 a.C., conservano porte ad arco di questo tipo e sebbene non ve ne siano esemplari conservati in posizione, anche a Orvieto è noto l’uso di conci d’arco con busti scolpiti, evidentemente destinati a ornare e proteggere le porte monumentali. Tutti gli esempi giunti fino a noi sono di epoca relativamente recente e costituiscono il documento di un uso costruttivo circoscritto nel tempo, ma l’idea di invocare la protezione divina sui confini delle città – e soprattutto sugli accessi – risale per le fonti già all’età di Romolo e oltre e fa parte del rapporto quotidiano con il sacro, che condizionava e indirizzava la vita delle persone piú di quanto non avvenga oggi.


caratterizzazione gentilizia. Un’ultima parola merita l’unico epiteto noto del dio Culsans, documentato dall’attestazione abbreviata del Fegato di Piacenza, che va probabilmente sciolta in Cul(sans) Alp(an).

«Puro» e «benevolo» Il secondo termine, noto in diverse iscrizioni di carattere votivo e coincidente con il nome di una divinità minore della cerchia di Turan/Afrodite, significa probabilmente «buono», sia nel senso di «puro», adatto per un’offerta agli dèi, sia nel senso di

In alto statuetta bronzea del dio Culsans, da Cortona. IV-III sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. La statuetta, con dedica gemella, è stata rinvenuta in coppia con il bronzetto di Selvans, nel deposito votivo della Porta Ghibellina a Cortona (vedi alle pp. 16-17). Il dio è rappresentato nudo, salvo il collare (torques) e gli stivali in pelle.

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CULSANS

«benevolo». In questo senso, l’epiteto ha probabilmente un valore eufemistico; si tratta cioè di una sorta di complimento utilizzato per rabbonire una divinità infera, potenzialmente pericolosa. Ancora una volta viene in aiuto la possibilità di confronto con il culto di Ianus, che nel Carmen Saliare – una raccolta di antichissimi testi sacri del collegio dei sacerdoti Salii a Roma –, come ha rilevato Giovanni Colonna, viene chiamato sia bonus che manus, due sinonimi del lessico religioso latino indicanti la «bontà». Qui sotto dritto di una moneta appartenente alle serie fuse di Volterra: si riconosce la testa bifronte del dio Culsans. III sec. a.C. Volterra, Museo Guarnacci. In basso rovescio di un asse in bronzo pesante (aes grave) con testa di Giano. Età repubblicana.

In alto testa in terracotta di divinità bifronte, da Vulci. III-II sec. a.C. Vulci, Museo Archeologico Nazionale. La testa proviene da un ricco deposito votivo, rinvenuto presso la Porta Nord della città, i cui materiali sono conservati in parte anche a Roma, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. L’immagine del dio riprende il tipo del Giano romano, caratterizzato dalla folta barba (forse derivante da tipi monetali), piuttosto che quello giovanile etrusco.

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Culsans, però, non è la sola figura divina bifronte conosciuta dalla tradizione etrusca, anche se è certamente l’unica nota a possedere due facce su uno stesso corpo.

Due fratelli per una sola sede Alla medesima esigenza iconografica di rappresentare la conoscenza di ciò che sta davanti e di ciò che sta dietro, come immagine di sapienza arcana e figura del potere della porta di passare da un luogo a un altro, risponde anche una coppia di figure divine associate – si direbbero due fratelli –, rappresentati fianco a fianco, l’uno di faccia e l’altro di spalle, su una lastra frontonale della serie Saulini (dal nome dell’omonima collezione) di Bolsena. I due dèi sono indicati come Thuluter da una didascalia – letteralmente «quelli che occupano una sola sede» –, e sembrano essere spettatori assieme a Cilens sullo sfondo di una scena mitologica. La dea Cilens è nota dal Fegato di Piacenza, dove occupa la sedicesima casella del nastro


Anche altri dèi etruschi hanno due volti, ma Culsans è il solo con due facce sullo stesso corpo esterno, corrispondente al punto piú settentrionale del circuito celeste etrusco, nel quale, secondo una tradizione riportata da Marziano Capella (scrittore latino originario di Cartagine e attivo nel V secolo d.C.; a lui si deve l’opera enciclopedica in nove libri De nuptiis Mercurii et Philologiae, n.d.r.), risiedeva Nocturnus, una divinità della notte. La sua presenza ha permesso a Giovanni Colonna di avanzare l’ipotiesi che gli dèi rappresentati sullo sfondo della scena riprodotta nelle terrecotte Saulini avessero lo scopo di inquadrare l’evento nella ripartizione del cielo, che per gli Etruschi aveva un significato particolare in relazione con la dottrina augurale. In tal caso, il riferimento alla

Sarcofago in nenfro di Laris Pulenas. Metà del III sec. a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale. Il defunto esibisce un rotulo, recante il suo elogium, con menzione delle cariche politiche e del sacrificio rivolto a Culsl Leprnal, divinità della «Porta Leprna».

sede settentrionale e il confronto con la sequenza ricordata da Marziano Capella permettono di confrontare i Thuluter con gli Ianitores terrestres menzionati dall’autore latino: una sorta di «portieri» a guardia del confine tra il cielo e la terra, che all’estremo Nord vedeva l’incontro tra le sedi infere e quelle celesti degli dèi. Se tale ipotesi coglie nel vero, la coppia di divinità che guardano in direzioni opposte ma occupano una stessa sede riproduce in una diversa iconografia il concetto del dio bifronte, e rappresenta un’originale innovazione etrusca per raccordare l’esigenza della narrazione per immagini a una difficile ed erudita costruzione teologica.

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THANR

THANR

Dalla nascita alla morte

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I

n assenza di fonti letterarie dirette, la possibilità di conoscere le divinità etrusche dipende in parte dalle loro raffigurazioni su monumenti e oggetti della vita quotidiana, ma anche e soprattutto dalle iscrizioni che ne menzionano il nome, sia in quanto didascalie delle rappresentazioni figurate, sia come testimonianze del culto e della religione votiva. Tuttavia, spesso, i dati provenienti da fonti di natura diversa sono discordanti e obbligano ad approfondire la ricerca per comprendere le caratteristiche delle divinità venerate. È il caso, per esempio, della dea Thanr, che compare piú volte nelle scene incise su specchi del IV e del III secolo a.C., sempre

In alto, sulle due pagine anfora a figure nere, di produzione ateniese, con la nascita di Atena, rinvenuta in ambito etrusco. VI sec, a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella scena, da destra a sinistra, sono raffigurati Era, con lo scettro in mano, Dioniso, Zeus con Atena, Nereide e Poseidone con il tridente. A destra specchio in bronzo proveniente da Arezzo. IV-III sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. Vi è raffigurata la nascita di Menrva/Atena, dalla testa di Tina/Zeus, dopo che Aethlans/Efesto, a destra nella scena, l’ha aperta con un colpo di scure, e con l’assistenza di Thanr e di Thalna.

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THANR

A sinistra invocazione alla dea Thanr, da un cippo funerario rinvenuto nel castello di S. Valentino, Perugia. III-II sec. d.C. In basso ex voto a Mater Matuta di produzione campana, con donna e infante. V-IV sec. a.C. Capua, Museo Campano.

identificabile grazie all’indicazione del suo nome, in scene di gineceo e soprattutto in relazione con bambini. Al contrario, le poche iscrizioni votive di età recente documentano la sua relazione con il mondo infero e con la religione funeraria. Una coppia di specchi, rispettivamente provenienti da Arezzo e da Palestrina, vedono Thanr raffigurata in funzione di dea-levatrice, nell’atto di favorire la nascita di Menrva (corrispondente alla greca Atena) dalla testa di Tinia (ovvero Zeus): nel primo caso essa aiuta la neonata divinità a uscire in armi dal capo di suo padre, mentre, nel secondo, si limita a fasciare la testa del malcapitato genitore. In entrambe le scene la dea è aiutata nella sua funzione da un’altra figura femminile, che una volta viene chiamata Thalna e un’altra Ethausva. Come avviene nella maggioranza dei casi, anche per questa scena mitologica l’iconografia adottata in Etruria risente dell’influenza di analoghe rappresentazioni greche; nella fattispecie, la coppia di divinità che interviene per aiutare le nascite corrisponde alle llizie (Eleithyiai) della tradizione ellenica.

Nomi variabili La differenza del nome della compagna di Thanr nei due casi, però, è un indice significativo di come i personaggi greci non potessero essere identificati in modo univoco agli occhi di un Etrusco, e, in realtà, anche la nostra dea non aveva la sicurezza di essere riconosciuta come llizia, se in un terzo specchio è Uni (corrispondente alla greca Era, moglie di Zeus) a presiedere alla nascita di Atena, e un altro ancora mostra Mean che aiuta Dioniso a venire al mondo. Al momento di attribuire un nome alle figure del mito greco rappresentate sugli specchi, gli incisori attingevano all’onomastica divina etrusca secondo la propria sensibilità (o quella del committente), operando a volte anche alcune forzature. Quindi, piuttosto che per stabilire identificazioni vere e proprie, gli studiosi possono oggi fare uso dei dati

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iconografici per determinare il carattere delle divinità e le loro funzioni. In questo senso, Thanr sembra essere una dea che può intervenire al momento della nascita, a tutela dei bambini e/o delle partorienti. Ancora da uno specchio inciso, questa volta proveniente da Orvieto, viene un’altra prova della connessione di Thanr con l’infanzia: in questo caso la dea accoglie un bambino dalle mani di Hercle (il greco Eracle), alla presenza della sua compagna Thalna. Il significato di questa scena mitologica è ancora piú oscuro, fatta salva la constatazione che in altre due occasioni è Menrva/Atena a compiere lo stesso gesto nei confronti del fanciullo Epiur, consegnatole da Hercle.

L’addio della sposa Di diversa natura è invece la testimonianza di una coppia di specchi di provenienza incerta, databili al IV secolo a.C., in cui la dea appare assieme ad altre divinità femninili della cerchia afroditica, in un contesto che è stato verosimilmente associato al saluto d’addio di

Scene da un gineceo

In alto restituzione grafica della faccia posteriore di uno specchio circolare in bronzo, inciso e iscritto, di origne incerta e oggi perduto. IV sec. a.C. Vi sono raffigurati il bacio e l’abbraccio tra le giovani Achuvizr e Alpanu, alla presenza di Thanr, che tiene in mano una colomba, e Zipanu, che solleva uno specchio. A sinistra restituzione grafica della faccia posteriore di un altro specchio in bronzo, inciso e iscritto. IV sec. a.C. Londra, British Museum. Questa volta l’abbraccio avviene tra Thanr e Alpnu, alla presenza di Sipna e Thalana, che tengono in mano rispettivamente un uovo e uno specchio. La scena è ambientata in un gineceo.

una sposa. La giovinetta Alp(a)nu abbraccia una figura materna, che nel primo caso è chiamata Thanr e nel secondo Achvizr; ma anche nel secondo caso la nostra dea è presente, dal momento che assiste alla scena, seduta in disparte, in vesti matronali. Se l’ipotesi d’interpretazione coglie nel vero, Thanr sembra avere nei confronti della deasposa Alpnu un ruolo di madre o di compagna piú anziana nel gineceo. Ancora una volta la figura divina dimostra di

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THANR

| Per sole donne Gli specchi di bronzo incisi costituiscono oggi una preziosa fonte di informazione per comprendere quale fosse l’immaginario mitologico dell’Etruria nel periodo compreso tra il V e il III secolo a.C. Sulla superficie non riflettente, infatti, la disponibilità di uno spazio circolare per la decorazione ha dato spunto agli artigiani per incidere molte e diverse scene, perlopiú tratte dal patrimonio iconografico greco adattato alle esigenze espressive etrusche. La presenza di didascalie, inoltre, fornisce la possibilità di attribuire un volto e delle fattezze a quelli che altrimenti resterebbero per noi semplici nomi. Al contempo, la destinazione degli specchi al cosiddetto mundus muliebris, ovvero il corredo femminile di prodotti e utensili per l’estetica, fa sí che la selezione di miti da rappresentare fosse limitata a quelli piú appropriati, come scene della cerchia afroditica, amori o conversazioni tra divinità, ecc. In molti casi, inoltre, l’assenza di fonti letterarie corrispondenti impedisce di cogliere le sfumature se non addirittura lo stesso significato delle raffigurazioni, per le quali ci si deve accontentare di riferimenti piú o meno evidenti alla mitologia dassica, che però possono a volte apparire imprecisi o persino fuorvianti. Il lavoro di analisi, confronto e approfondimento degli studiosi, tuttavia, permette continuamente di scoprire nuovi spunti di interpretazione e di apprendere qualcosa di piú sull’immaginario religioso e sulla società etrusca.

avere caratteristiche materne e protettive nei confronti di fanciulli e giovani, ma le difficoltà di comprensione delle scene figurate fanno rimpiangere la scomparsa di ogni testimonianza diretta della mitologia e dell’immaginario religioso etrusco. Fortunatamente, accanto alle iconografie degli specchi incisi, si può disporre anche di alcuni documenti epigrafici, che dimostrano l’esistenza di un culto della dea Thanr in diverse regioni d’Etruria. Ma, come si è accennato, le informazioni ricavabili dalle iscrizioni non sembrano accordarsi facilmente con quelle finora raccolte.

Padre e figlio Effettivamente, in un caso sembra possibile ipotizzare un atto di venerazione nei confronti di Thanr a tutela di un bambino, se cosí può essere interpretato un graffito tardo-arcaico molto lacunoso dall’abitato di Spina (presso la foce del Po), in cui sono menzionati un Vepe e Qui accanto e nella pagina accanto, in basso riproduzione della fronte e del retro di un bronzetto votivo proveniente dall’Etruria settentrionale. III-II sec. a.C. Raffigura un’offerente dai tratti stilizzati e sul dorso reca l’iscrizione mi thanrs, «io sono di Thanr». A sinistra specchio circolare in bronzo inciso, con una scena intima che coinvolge un uomo (Cruisie) e una donna (Talitha). V sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico.

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A destra la «Tegola (o tabula) capuana», lastra iscritta in terracotta, da Capua. Prima metà del V sec.a.C. Berlino, Staatliche Museen. Vi è riportato un calendario cerimoniale dove compare il nome della dea Thanr, associato ai riti prescritti per il mese di giugno.

un Vepele (al diminutivo), forse padre e figlio, vista l’identità del nome. Tuttavia, in altre occorrenze, il nome della dea sembra costantemente in relazione con l’ambito funerario. Su un cippo tombale perugino di epoca recente, trovato fuori del suo contesto originario presso il castello di San Valentino, la dea viene invocata quale garante dell’appartenenza del terreno (cehen cel) e del cippo (penthna?) a una tomba (thauru). Il lato B del «Piombo di Magliano» – un testo rituale del V secolo a.C. inciso su un disco di piombo (vedi foto a p. 47, nel capitolo dedicato a Cavtha) – riporta in apertura un’invocazione al dio degli Inferi, Calus, e alla sua compa­gna: il nome della signora dell’Ade viene taciuto, ma, per definirla, si usano un aggettivo eufemistico (mlach, «la buona (dea)») e uno «teonimico» (thanra, «appartenente alla cerchia di Thanr»). La dea trova posto anche nel calendario liturgico tardo-arcaico della «Tegola di Capua», caratterizzato da numerose valenze funerarie, nel quale sembra essere la titolare di un rituale da compiersi nel mese di giugno, che Mauro Cristofani (1941-1997) ha proposto di confrontare con i Matralia di Roma dell’11 giugno, dedicati a Mater Matuta.

All’inizio e alla fine della vita Come si può dunque giustificare la differenza tra la Thanr protettrice dell’infanzia e delle nascite raffigurata sugli specchi e la divinità con prerogative funerarie delle iscrizioni? In passato sono state proposte soluzioni diverse, come quella di considerare la distinzione come segno cronologico – piú antico l’aspetto infero, piú recente quello materno (Wilhelm Paul Corssen, 1820-1875) –, ovvero quella di confrontare la coppia Demetra-Proserpina, le «due dee» separate da Ade, che rapisce e sposa la figlia, causando l’ira della madre (Sophus Bugge, 1833-1907), oppure ancora di fare di Thanr una divinità dalla duplice natura (Ambros Pfiffig, 1910-1998).

L’ultima ipotesi sembra la piú adatta a quanto conosciamo della religione etrusca: una dea che interviene all’inizio e alla fine della vita potrebbe essere connessa con il fato degli individui, che si inaugura alla loro nascita e può considerarsi concluso solo al momento della loro morte. Da questo punto di vista, quindi, Thanr può essere accostata alle Moire della tradizione greca (come proponeva già Mario Torelli), anche se la divinità etrusca sembra avere un aspetto meno misterioso e terribile. Alla figura divina cosí ricostruita sembra adattarsi un’ultima attestazione epigrafica, graffita su una statuetta di bronzo probabilmente proveniente da Sarteano (Siena) e databile nella prima metà del IV secolo a.C. ll bronzetto è offerto da un certo Vel Sapu a Selvans e a Turan Thanra, ovvero un’Afrodite appartenente alla cerchia di Thanr. Appare suggestivo osservare come la dea che pare chiamata in causa nei due momenti terminali della vita umana (la nascita e la morte) sia associata al dio dei confini Selvans: non va dimenticato, infatti, che alla base della tradizione religiosa e della disciplina etrusca è posta la garanzia dell’ordine cosmico, fondato sulla precisa divisione dello spazio e del tempo nel mondo umano e in quello divino.

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FUFLUNS

Ebbrezza e mistero

N

FUFLUNS

A sinistra e nella pagina accanto due immagini di una statuetta bronzea raffigurante Fufluns nelle vesti del Dioniso greco, barbato e coronato da un diadema intrecciato, nonché riccamente vestito con chitone e mantello. 480 a.C. circa. Modena, Galleria Estense.

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ell’immaginario figurativo degli Etruschi è piuttosto precoce la comparsa di Dioniso, la cui iconografia fu accolta dal mondo greco di pari passo con l’importazione e con l’imitazione del vasellame decorato sul quale l’immagine del dio era spesso raffigurata. Tale rapida accoglienza deriva dalla stretta connessione della divinità con il consumo del vino, che dalla Grecia arriva in Etruria, con tutto il valore cerimoniale e sociale del simposio, carico di aspetti religiosi posti sotto la tutela di Dioniso e della sua cerchia. Il nome del dio etrusco, però, non è attestato prima del V secolo a.C., quando le iscrizioni votive che lo menzionano certificano la stretta identificazione del locale Fufluns con il greco Dioniso; non è facile, perciò, ricostruire le fasi piú antiche del culto della divinità e del suo accoglimento nel pantheon etrusco.

Dal fiore il nome Come per altre figure divine importanti, quali Selvans, Nethuns o Menerva, nel nome di Fufluns si riconosce una forma di derivazione italica, probabilmente umbro-sabina, che in origine doveva designare un dio della vegetazione: *Foflo-nos, dalla stessa base di flora e flos, il «fiore». L’unica testimonianza dell’originaria connessione del dio con il mondo italico viene da uno specchio inciso, da Orvieto, in cui Fufluns è posto in stretta associazione con Vesuna, una grande dea umbra della fertilità, ben nota da altre attestazioni. Il passaggio logico da una divinità fondamentalmente agricola al dio della vite e del vino è facilmente comprensibile, poiché


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FUFLUNS

A sinistra vasi di un corredo funerario, da Cerveteri. Fine del IV-inizi del lII sec. a.C. Cerveteri, Museo Nazionale Archeologico Cerite. Si tratta di un servizio da vino, comprendente uno stamnos (in alto a destra), quattro oinochoai con becco a cartoccio, una piccola olpe, una kylix, uno skyphos, tre diversi tipi di askos, tre coppette prive di anse e sette piattelli.

qualcosa di simile è capitato anche per il latino Liber e in parte per il greco Dioniso. La piú antica menzione etrusca di Fufluns in un contesto votivo viene dal santuario dell’area Sud di Pyrgi (il porto di Caere, i cui resti si trovano nell’area del Castello di Santa Severa, nel territorio del Comune di Santa Marinella, in provincia di Roma), dedicato a una coppia di divinità locali, Suri e Cavatha, identificate dai frequentatori greci del luogo sacro con Apollo e con la coppia Demetra-Kore.

Eroe e gran bevitore Un dio «ospite» dell’area sacra era però anche Eracle, invocato una volta con il suo nome etrusco, Hercle, e, in un’altra occasione, rappresentato durante una delle sue proverbiali bevute su un cratere attico a figure rosse dei primi decenni del V secolo a.C. L’iscrizione sotto il piede del vaso recita: mi fuflunusra,

| Quando diciamo «oinochoe»... Il consumo del vino fu introdotto in Etruria e nell’Italia antica per il tramite del mondo greco, nel quale già prima dell’epoca orientalizzante, aveva assunto caratteristiche cerimoniali e religiose dovute agli aspetti sociali del simposio, che si configurava come un momento di incontro per gli uomini di rango elevato. Il vasellame da mensa utilizzato per il vino, pertanto, di regola deriva da forme in uso presso i Greci, alle quali un’antica convenzione degli studi archeologici ha attribuito nomi greci noti dalle fonti classiche, che però non sempre corrispondono al reale linguaggio tecnico utilizzato dagli antichi, che a volte rimane per noi sconosciuto. Tra i principali elementi del servizio vascolare da vino, ricostruito in base ai gruppi di vasi ritrovati assieme nelle tombe, si contano: vasi contenitori, come l’anfora, dotata di collo e con anse verticali, o lo stamnos, con ampia spalla e anse orizzontali; vasi per miscelare acqua e vino, come i vari tipi di cratere, alto e con una larga imboccatura; vasi per attingere, come il kyathos, con un solo manico verticale; vasi per versare, comprendenti vari tipi di brocche, definite convenzionalmente oinochoe (letteralmente «versatoio per il vino») o olpe (ma sono noti anche

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altri nomi); coppe per bere di varia foggia, come la comune kylix, molto larga e piatta con due anse orizzontali, ovvero bicchieri a vasca profonda, come il kantharos, con alti manici verticali, o lo skyphos, con anse orizzontali vicine al bordo superiore. Tutti questi nomi, che caratterizzano i cartellini dei musei e a volte sono di difficile comprensione per i non addetti ai lavori, risalgono alla nomenclatura tradizionale degli ultimi due secoli e hanno assunto ormai un valore pratico convenzionale per l’identificazione degli oggetti. Per questo motivo, anche se alcune iscrizioni trovate sui vasi originali dimostrano che gli antichi Greci (e ovviamente gli Etruschi e i Latini) usavano spesso nomi diversi, con accezioni che talvolta contrastano con le classificazioni moderne, gli studiosi conservano il linguaggio tecnico internazionale ormai acquisito, al fine di evitare fraintendimenti.


ovvero «io (sono) il dionisiaco»; quale migliore definizione per un Eracle bevitore! Di poco piú recente è una serie di quattro diversi vasi attici a figure rosse ritrovati a Vulci, accomunati dalla presenza della stessa iscrizione di consacrazione (con poche varianti): fuflunsl pachies velclthi, «di Fufluns bacchico a Vulci» (vedi foto a p. 39). I quattro vasi sono recipienti per bere il vino (due kylikes, un rhyton a testa di mulo e un probabile kantharos; per l’uso di questo genere di recipienti, vedi box alla pagina precedente),e la qualifica «bacchica» del dio, che riporta al contesto dei misteri dionisiaci, ha permesso a Giovanni Colonna di riconoscere negli oggetti iscritti i cosiddetti symbola: una sorta di talismani consegnati agli iniziati dei misteri di Dioniso per proseguire il culto in privato, come ricorda un passo di Apuleio, e che eventualmente potevano seguire il devoto nella In alto le nozze fra Dioniso e Arianna, particolare di un cratere a figure rosse, da Falerii Veteres. IV sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A sinistra il manico del coperchio della Cista Ficoroni (un cofanetto portagioielli di produzione prenestina cosí chiamato dal nome del suo scopritore) formato dalle figure di Dioniso e di due satiri, da Palestrina. IV sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

tomba come è accaduto per almeno due dei vasi vulcenti, per assicurare la speranza di salvezza nell’Aldilà. La menzione esplicita della città di Vulci rimanda a un culto a carattere pubblico, mentre la loro datazione, dispersa nell’arco di circa cinquant’anni tra la metà e la fine del V secolo, dimostra la continuazione nel tempo del rituale misterico.

Una dura repressione Dopo queste attestazioni d’età classica, non si conoscono documenti epigrafici diretti del culto del dio (resta dubbio se il bollo Fuflunz su due piattelli di Todi non sia piuttosto da riferire a un nome gentilizio recente). Ciononostante, è assicurata la continuazione dei misteri dionisiaci in Etruria, fino ad arrivare alla dura repressione operata da Roma nel 186 a.C. (il cosiddetto senato consulto de Bacchanalibus), proprio per scongiurare la diffusione delle associazioni di iniziati che, propagandosi dall’Etruria e dalla Campania, rischiava, come ricorda Livio, di corrompere i giovani, con effetti destabilizzanti per lo Stato. Una conferma in tal senso da parte della documentazione etrusca viene da alcune

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FUFLUNS

iscrizioni funerarie, soprattutto dell’area tarquiniese, che ricordano l’esistenza di riti solari e bacchici (luthcva cathas pachanac) e di magistrature addette ai collegi di baccanti (maru pachathuras, ovvero marunuch pachanati). Nell’iconografia funeraria, alcuni elementi simbolici come il kantharos, il cerbiatto o il rotulo (un foglio di pergamena arrotolato con indicazioni scritte per l’iniziato), dimostrano la diffusione capillare dei misteri dionisiaci presso la popolazione, almeno dalla fine del VI secolo fino al tardo ellenismo.

Un tema di grande successo Al di là delle attestazioni cultuali, si contano molte raffigurazioni di Fufluns dall’epoca arcaica fino a quella recente, che dimostrano come il dio etrusco sia stato assimilato in tutto e per tutto al Dioniso dei Greci, fino a ereditarne l’iconografia e la mitologia. Il mondo dionisiaco, che oltre al dio conta corteggi di satiri, sileni e menadi – nonché elementi piú o meno simbolici, come il tirso (il bastone/arma di Dioniso) e i tralci di vite o di edera –, è presente nella pittura vascolare greca sin da epoca antichissima e viene presto ripreso e imitato nella tradizione decorativa etrusca. Nel tardo VI secolo si hanno rappresentazioni di gruppi dionisiaci, sia su vasi a figure nere di produzione locale, sia in alcune pitture parietali, come aTarquinia nella Tomba di Dioniso e dei Sileni. Una hydria a figure nere conservata a Toledo (Ohio, USA) rimanda alla tradizione

Il rapimento del dio

mitica greca, con il riferimento ai pirati tirreni trasformati in delfini dal dio, dopo che avevano tentato di rapirlo. Anche nella piccola statuaria in bronzo si conoscono immagini di Dioniso in veste simposiaca, spesso dotato di vasi per bere il vino. La possibilità di attribuire il nome di Fufluns alle immagini artistiche compare però solo con gli specchi incisi, spesso provvisti di didascalie, che, a partire dal V e IV secolo a.C., forniscono notizie sulla ricezione dei miti greci in Etruria. In questo modo è documentata, per esempio, la nascita del dio da una coscia di Zeus/Tinia, aiutata da Mean con funzioni di levatrice. Il mito racconta, infatti, che la madre Semele era rimasta folgorata dall’apparizione di Zeus in tutto il suo splendore, che lei stessa aveva richiesto, rendendo cosí necessaria la gestazione paterna per salvare il piccolo dio. Tuttavia, in altre occasioni, sono note scene di abbraccio tra Fufluns – ormai cresciuto – e sua madre Semla, che dimostrano come in realtà gli Etruschi potessero selezionare gli

Hydria (vaso per attingere l’acqua, a tre manici) etrusca a figure nere con rappresentazione di una scena del mito di Dioniso: i pirati tirreni che hanno osato rapire il giovane vengono trasformati in delfini e si gettano tra le onde. Attribuita al Pittore del Vaticano 238, fine del VI-inizi del V sec. a.C. Toledo (Ohio, USA), Toledo Museum of Art. Il racconto mitologico era presente già nell’antico inno omerico a Dioniso e va collocato presumibilmente nel Mare Egeo. La sua conoscenza da parte di artigiani etruschi e la sua riproposizione in forma artistica dimostrano quanto il mito greco fosse compreso e apprezzato nell’Etruria arcaica.

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A destra kylix attica raffigurante Dioniso e una baccante, da Chiusi. IV sec. a.C. Berlino, Antikensammlung. In basso iscrizione etrusca graffita sotto il piede di una kylix attica a figure rosse: fuflunsul pachies velclthi, letteralmente «di Fufluns bacchico a Vulci». 440-430 a.C.circa. Firenze, Museo Archeologico. L’iscrizione fa parte di un gruppo di quattro, pressoché identiche, apposte su altrettanti vasi attici a figure rosse. La consacrazione al Fufluns/Dioniso vulcente di questi vasi, le cui datazioni coprono un arco di almeno cinquant’anni, era probabilmente destinata a conferire loro il potere di talismani, da consegnare agli iniziati ai misteri dionisiaci.

aspetti del mito che erano loro piú congeniali. Profondo conoscitore dei significati della mitologia greca era l’artigiano che ha realizzato uno specchio prenestino con il rapimento di Arianna, futura sposa del dio, da parte di Artemide/Artames, quasi in funzione di «angelo della morte», che sottrae la fanciulla al mondo umano, poiché contaminata dal contatto impuro con Dioniso (vedi foto a p. 48, nel capitolo dedicato al dio Calus).

Pronta per le nozze La storia, a cui accenna già Omero nell’Odissea (XI, 321-325), è stata interpretata come una «morte simbolica della vergine che diventa nymphe, ”donna pronta per le nozze”» (Paolo Scarpi). L’anonimo incisore dello specchio dimostra di aver pienamente compreso la scena, scegliendo di definire Arianna non già con il suo nome etrusco (Ariatha), ma con

l’aggettivo esia, che significa letteralmente «sacra agli dèi Inferi» (Giovanni Colonna). Come si osserva anche nell’iconografia greca, l’aspetto di Dioniso subisce un’evoluzione dall’età arcaica a quella recente. Inizialmente, si preferiva l’immagine di un dio adulto, barbuto e riccamente vestito, in genere rappresentato all’interno della sua corte di satiri e menadi baccanti; in epoca recente, invece, viene prediletta la versione giovanile del dio, che ne sottolinea l’esuberanza e la vitalità. In questa distinzione gioca senz’altro un ruolo anche la destinazione delle raffigurazioni, che, nel caso della pittura vascolare arcaica e subarcaica, faceva riferimento al contesto del simposio, vero cardine dei rapporti sociali aristocratici, mentre nel caso degli specchi incisi si rivolgeva al mondo femminile, con speciale attenzione alla simbologia nuziale. In questo secondo ambito, la figura di un giovane dio trionfante, circondato dall’entusiasmo festoso dei baccanti e dalla natura rigogliosa, non privo di risvolti erotici e di riferimenti misterici, sembra prevalere su quella del dio del vino e dell’ebbrezza, piú legata all’immaginario prevalentemente maschile delle rappresentazioni simposiache.

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CAVTHA

CAVTHA

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La figlia del Sole

Pinax (quadretto votivo) in terracotta raffigurante Persefone e Plutone, da Locri. V sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale.

In alto disegno di uno specchio di bronzo inciso con i due momenti principali del viaggio cosmico del Sole, da Orbetello. lII sec a.C. Di giorno, il dio è al galoppo sul suo carro trainato da tre cavalli alati; di notte, è trasportato su una barca lungo il bordo del mondo fino a Oriente. Nella didascalia Cathesan (leggibile sopra il cavallo alato), si riconosce la forma maschile del nome della dea Catha, seguita dall’attributo San(s), «padre», ovvero unita al nome di Thesan, dea dell’Aurora.

L

avorando sul pantheon etrusco, si ha spesso la tentazione di identificare le varie figure divine con quelle meglio conosciute della mitologia greca e latina. E, in molti casi, il confronto è possibile e utile, e viene confermato da analoghi tentativi che già gli antichi avevano fatto in tale senso, per trovare corrispondenze religiose nei santuari frequentati anche da stranieri. Ma il pericolo di portare troppo avanti tali identificazioni, con il rischio di trascurare differenze anche importanti, appare particolarmente evidente nel caso dell’incompatibilità di alcune caratteristiche delle divinità etrusche rispetto a quelle delle figure corrispondenti della mitologia classica. Facciamo un esempio: nei pressi del castello di Santa Severa, sulla costa a nord di Roma (nel territorio dell’odierno Comune di Santa

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CAVTHA

Marinella), sorgeva un grande e famoso santuario etrusco, al margine dell’insediamento di Pyrgi, porto della potente città di Caere (Cerveteri). Fra le divinità venerate nelle due aree sacre del luogo di culto, spicca, per il gran numero di dediche votive ricevute, la dea Cavatha (nella forma arcaica del nome, poi sviluppatosi in Cavtha e infine Cautha), che ave­va sede nella cosiddetta area Sud, assieme ad Apollo/Suri, un dio caratterizzato in Etruria da valenze infere e oracolari. I frequentatori greci del santuario, che si devono immaginare numerosi in questo importante sito portuale, tappa fondamentale dei commerci del Tirreno, trovandosi nella necessità di identificare la dea alla quale di preferenza rivolgevano le proprie offerte, la invocarono sia con il nome di Demetra, sia con quello di Kore, la «figlia» per eccellenza della mitologia classica, compagna del dio degli Inferi.

Aspetti inferi e funerari Quest’ultima identificazione godette di un particolare successo anche presso gli Etruschi, che tanto a Pyrgi quanto a Orvieto attribuirono a Cavtha l’epiteto di sech,«figlia», confermando cosí l’omologazione formale con Kore. A riprova di ciò, sul già menzionato Piombo di Magliano, alla metà del V secolo a.C.,il nome di Cautha compare in un lungo rituale con aspetti inferi e funerari assieme ad altre divinità, tra le quali Calus, forse corrispondente al dio greco Ade. A Populonia, infine, ancora nel V secolo, un Greco etruschizzato di nome Karmu firma, in etrusco, la dedica di una coppa a figure rosse decorata da una civetta (glaux), rivolgendosi alla dea con il diminutivo Kavza, che forse sottintende un’immagine infantile o giovanile (vedi box e foto a p. 44). Non sorprende la necessità di una interpretatio – come viene chiamata l’identificazione di divinità lo­cali con le proprie da parte dei Greci e dei Latini –, che trova confronti per la maggior parte degli dèi etruschi conosciuti; ma tale

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Qui sotto bronzetto raffigurante una offerente. III sec. a.C. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. In basso, sulle due pagine ricostruzione dei templi A e B di Pyrgi, uno dei porti dell’antica Caere; qui, nel vicino santuario dell’area Sud, è attestato il culto tributato alla dea Cavtha.

fenomeno non comporta una totale identità tra le figure divine chiamate in causa. Per quanto riguarda Cavtha, infatti, disponiamo di altre fonti di informazione.

Il medico di Vespasiano Un dizionario enciclopedico botanico del III o IV secolo d.C., redatto da un anonimo compilatore a partire dall’opera di Dioscoride, il medico di Vespasiano, arricchita con notizie di altra origine, ha conservato, tra l’altro, il nome etrusco di alcune piante officinali, accanto al corrispondente nome greco, latino e di altre lingue del Mediterraneo antico. Tra le informazioni onomastiche cosí acquisite, si fa notare il nome kauta(m), corrispondente


etrusco di un fiore che in greco si chiama anthemis e in latino solis oculus, «occhio del sole». Si tratta, con ogni probabilità, di un tipo di camomilla o di fiore di campo, il cui nome latino, tradotto nell’inglese medievale dægesege, «day’s eye, occhio del giorno», è alla base del moderno daisy, nome della comune margherita. L’identità del nome della dea Cavtha con quello di un fiore, che a sua volta veniva «tradotto» in latino come «occhio del sole» (presumibilmente per la caratteristica di chiudere la corolla all’ombra come un occhio, per spalancarla solo in pieno sole), apre nuove interessanti possibilità per comprendere la natura della figura divina etrusca. Oltre a quelle

In basso, a destra restituzione grafica di un’iscrizione etrusca che corre al di sopra del piede di uno skyphos (bicchiere con due manici) a figure rosse proveniente dal santuario dell’area Sud di Pyrgi, in cui Cavtha era venerata assieme al suo compagno divino Suri. Prima metà del V sec. a.C. Il testo dichiara l’appartenenza del vaso alla dea alla quale è associato l’attributo sech, «figlia», che conferma l’identificazione con la greca Kore. Segue un divieto di appropriazione da parte di estranei, che potrebbe essere tradotto grosso modo come: «Non mi prendere, io sono sacro».

già ricordate, l’ultima attestazione del nome di Cavtha in ordine di tempo non oltrepassa l’inizio del IV secolo a.C.,epoca della dedica di una paletta di bronzo in un santuario sulla sponda del lago Trasimeno. Dopo tale data, sia a Pyrgi che altrove, il nome della dea non compare piú in quella forma, mentre, dal IV e III secolo, si fa strada Catha, che sembra esserne la variante semplificata. Con tale nome è nota una divinità che riceve un culto pubblico a Tarquinia, in associazione con aspetti religiosi dionisiaci, come ricordano le iscrizioni funerarie di due personaggi Laris Pulenas e di Larth Statlanes, che hanno ricoperto cariche sacerdotali connesse con tali culti.

La madre divina della dea L’iscrizione su un cippetto di bronzo conservato in una collezione privata statunitense ricorda la dedica da pane di Laris Thefries «alla madre Esti(a) (e) a Catha», informandoci allo stesso tempo dell’esistenza di una madre divina della dea, non altrimenti

Cavtha è una delle divinità venerate nel grande santuario di Pyrgi

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CAVTHA

| Le offerte degli stranieri Nei cosiddetti santuari emporici, luoghi di culto aperti alla frequentazione degli stranieri in prossimità di porti e di accessi commerciali di grande scala, prese piede in Etruria, tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C., un’interessante pratica religiosa, che prevedeva la pre-consacrazione a cura del personale del santuario degli oggetti (soprattutto vasi), che poi sarebbero stati acquistati e donati dai devoti di passaggio. Il vaso perciò era contrassegnato da un’iscrizione che ne dichiarava il possesso da parte della divinità titolare del luogo sacro. Il fenomeno è particolarmente comprensibile

nota, e confermandone la natura di figlia, come nella piú antica tradizione ellenizzante. Infine, il nastro esterno del Fegato di Piacenza riporta, in sesta posizione, il nome Cath, a cui corrisponde Catha in una delle caselle interne, documentando la permanenza della dea tra le maggiori divinità del pantheon etrusco ancora alle soglie della romanizzazione.

Natura solare La sequenza delle divinità incise sul margine del Fegato di Piacenza corrisponde alla serie delle sedi divine nel cielo, com’era descritta dalla dottrina religiosa etrusca e che è alla base di un noto passo delle Nozze di Filologia e Mercurio di Marziano Capella, un erudito scrittore latino della tarda antichità. In particolare, nel punto corrispondente alla casella di Catha – posta al mezzogiorno nel circolo del cielo –, la serie riportata da Marziano ricorda una figura divina chiamata Celeritas Solis filia. Ancora una volta, quindi, si conferma la natura solare della divinità etrusca, questa volta associata all’immagine di una dea «figlia», che, come abbiamo visto, si collega all’identificazione con Kore. Meno facile è la spiegazione del nome Celeritas, traducibile con «rapidità», ma è senz’altro utile notare che l’idea di un Sole femminile non doveva risultare facile da accettare per la mentalità romana, e

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nel caso di offerenti stranieri, che potevano avere difficoltà a riconoscere gli dèi etruschi e il loro nome; in effetti, in diversi casi a Gravisca, a Pyrgi e a Populonia, il dedicante che appone la propria firma sul dono preconfezionato è di origine straniera: perlopiú si tratta di Greci, che fanno offerte a divinità femminili, come Turan e Cavtha. In epoca piú recente, la pratica si estende anche ad altri luoghi di culto e si conoscono casi di dediche apposte in due tempi da devoti etruschi a Orvieto (la base di una statuetta offerta alla dea Pethan) e sul lago Trasimeno (la paletta da focolare per Cavtha).

La piccola Kavtha

In un luogo sacro della necropoli di Populonia, la dea Kavtha ricevette in dono, nel V sec. a.C., una glaux attica, cioè una coppa con manici spaiati, decorata a figure rosse con l’immagine di una civetta tra due rami d’olivo (ora al Museo Archeologico di Firenze; foto in basso). L’iscrizione sotto il fondo in posizione centrale e con lettere disordinate (disegno qui accanto) consacrava il vaso alla divinità già prima che un devoto di nome Karmu – trasposizione etrusca del greco Karmon – personalizzasse la dedica con una seconda iscrizione posta sul piede d’appoggio della coppa. La dea è qui invocata con il suo nome al diminutivo: Kavza, la «piccola Kavtha», forse con una sfumatura di familiarità o per sottintendere la sua condizione di fanciulla.

forse la scelta di trasformare la dea in una figlia del Sole potrebbe essere stata una soluzione di comodo per risolvere la difficoltà. Il problema di «tradurre» una divinità


In alto rilievo raffigurante il ratto di Proserpina su un’urna etrusca. Età ellenistica. Volterra, Museo Etrusco Guarnacci. In basso la lamina nota come Piombo di Magliano. 450 a.C. circa. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Su entrambe le facce corre un testo con prescrizioni rituali e fra i nomi delle divinità, compare anche quello di Cavtha.

femminile del Sole con un personaggio corrispondente della mitologia dassica doveva essere stata già sentita ben prima della tradizione letteraria latina, dal momento che di regola l’iconografia dei prodotti figurati etruschi, come vasi dipinti e specchi incisi, deriva da quella greca attraverso un complesso sistema di identificazioni mitologiche. Sugli specchi incisi, sin dall’età arcaica, la divinità del Sole è raffigurata con l’aspetto di Apollo, oppure come una figura maschile entro un disco radiato. Quando sono presenti didascalie, la divinità viene chiamata regolarmente Usil: un nome antico, che però non ricorre mai nelle iscrizioni votive ritrovate nei luoghi di culto. Il contrasto tra la dea etrusca e l’iconografia maschile greca sembra risolversi quindi

sdoppiando la divinità del Sole: Cavtha viene venerata nei santuari, dove agli occhi dei devoti assume l’aspetto di Kore; Usil sembra rimanere solo un nome legato all’immagine apollinea propria del greco Helios.

Il percorso del Sole A riprova di questa distinzione, è interessante notare che Cavtha non viene mai rappresentata nelle scene figurate della tradizione etrusca; ma, a questo proposito, un documento iconografico recente fornisce ancora materia di discussione. Uno specchio inciso da Orbetello, databile nel corso del III secolo a.C., raffigura in un’unica scena il percorso completo del Sole secondo l’immaginario antico (vedi disegno a p. 41). Tra le due figurazioni la didascalia indica il personaggio come Cathesan: un nome nel quale si riconosce la forma maschile di Catha, seguita dal termine san(s), dal significato di «genitore», ovvero fusa assieme al nome di Thesan, la dea dell’Aurora. In ogni caso, quello che conta sottolineare è che, in epoca recente, è stato compiuto almeno un tentativo di modificare il sesso della divinità etrusca del Sole allo scopo di conformarla all’iconografia dassica. In conseguenza di tale cambiamento, anche Catha è diventata Cathe, sebbene non sia possibile dimostrare con certezza se ciò abbia avuto qualche riflesso anche nel culto della divinità.

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CALUS

CALUS

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N

Tenebroso e sfuggente

ei capitoli precedenti, abbiamo osservato come alcune divinità (quali Thanr o Cavtha) potessero all’occorrenza essere chiamate in causa in relazione con la morte o con il mondo dell’Aldilà. In questo e nel prossimo capitolo ci occuperemo quindi della caratterizzazione degli

Nella pagina accanto stamnos a figure rosse di produzione vulcente che mostra l’addio ad Admeto da parte di Alcesti. Metà del IV sec. a.C. Parigi. Cabinet des Medailles. Il dio della morte Thanatos è qui rappresentato dai due Charun barbuti e armati di martello.

L’accompagnatore dei defunti

Particolare raffigurante il demone Charun, nello stamnos a figure rosse con l’addio ad Admeto da parte di Alcesti, riprodotto nella pagina accanto. Il demone fa parte delle divinità della cerchia di Calus ed è spesso raffigurato con barba e martello, in funzione di psicopompo, l’accompagnatore delle anime nell’Aldilà (dal greco psyche, «anima», e pompos, «conduttore», n.d.r.) e, a differenza del corrispettivo greco Caronte, di guardiano della porta degli Inferi. Non vi erano, infatti, corrispondenze piene tra le divinità degli Inferi greche e quelle etrusche, che spesso hanno un aspetto piú oscuro e inquietante.

dèi dell’oltretomba e del particolare modo di trattare la religione dei morti da parte degli Etruschi, soprattutto in considerazione della fama di cui essi godono a riguardo, in seguito al ritrovamento di ricche necropoli, con sistemazioni monumentali e tombe a camera complesse e spesso dipinte. Cominciamo allora con Calus, una figura divina che sembra identificarsi direttamente con il mondo degli Inferi, anche se, in realtà, si tratta di un personaggio sfuggente e privo di una chiara rappresentazione iconografica. Il documento piú antico del nome di Calus è la Tegola di Capua, il famoso calendario religioso della città campana risalente al principio del V secolo a.C., che riportava prescrizioni religiose (soprattutto ctonie) da compiersi in occasione di specifiche festività durante il corso dell’anno, dedicate di volta in volta a divinità diverse, fra le quali spiccano alcuni nomi noti come Tinia, Laran, Suri, Thanr e, appunto, Calus (vedi foto a p. 33, nel capitolo dedicato a Thanr).

Una coppia governa l’Aldilà Poco piú recente, della metà del V secolo, è l’attestazione del Piombo di Magliano: un disco ovale in piombo ricoperto su entrambe le facce da una lunga iscrizione etrusca incisa a spirale, contenente la descrizione di un rituale con evidenti risvolti funerari, nel quale sono menzionate diverse divinità. Il lato B del disco inizia con il nome di Calus, al quale in un secondo tempo è stato aggiunto anticipandolo quello della sua compagna: Mlach Thanra, la «buona (dea) di Thanr». Alla maniera dei Greci, quindi, anche in Etruria, l’Aldilà era governato da una coppia di dèi.

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CALUS

Restituzione grafica di uno specchio in bronzo inciso con l’uccisione di Clitennestra da parte di Oreste: a sinistra una Furia inferocita, che brandisce due serpenti, si avvicina per perseguitare il matricida. Produzione vulcente, IV sec. a.C. Vulci, Museo Archeologico Nazionale. Il demone è indicato con il nome [A]charum, corrispondente al greco Acheronte. In basso è raffigurato il combattimento di Giasone con il drago della Colchide.

L’esistenza di un culto proprio per il dio è poi confermata in modo piú diretto da due iscrizioni votive databili tra il V e il IV secolo a.C., che registrano l’appartenenza allo strumentario rituale di un suo luogo sacro di un mestolo (simpulum) di bronzo da Vulci, e l’offerta di una coppetta a vernice rossa da Castellazzo della Garolda (Mantova). Da tali documenti si ricava da una parte il dato dell’attribuzione del nome di Calus al dio degli Inferi già nel V secolo, e dall’altra la sua notevole diffusione da un capo all’altro della regione etrusca. Altre attestazioni piú recenti concorrono invece a dimostrare come attorno al dio dell’oltretomba si era raccolta una cerchia di altre divinità, chiamate nell’insieme con il nome di Calusur – plurale del nome divino –, che potrebbe essere tradotto con «gli Inferi». In una coppia di iscrizioni funerarie Qui sotto restituzione grafica di uno specchio in bronzo con il ratto di Arianna da parte di Artames/Artemide, da Preneste. IV sec. a.C. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale Prenestino. Fra la dea e Dioniso/Fufluns che le si oppone si apre nel terreno la bocca degli Inferi, rappresentata come il volto di un sileno.

Qui sopra bronzetto raffigurante un cane con una zampa sollevata e il muso rivolto verso l’alto, da Cortona. lII sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. La coda è ripiegata in avanti sul ventre, in una posizione che per un cane rappresenta generalmente la paura, in accordo con le orecchie abbassate: l’insieme fa pensare che sia spaventato o sottomesso. L’iscrizione registra la consacrazione del bronzetto a un dio della cerchia di Calus, indicato con la sola iniziale S, forse corrispondente a Selvans.

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appartenenti a due diversi personaggi della famiglia degli Alethna, sepolti in una tomba di Musarna (insediamento nei pressi di Viterbo), la morte è descritta con un giro di parole che suona come «giacque nel luogo dei Calusur» (lupuce munisuleth calusurasi): un’espressione forse non priva di intenti poetici, confermata da un’altra epigrafe sepolcrale, stavolta proveniente dalla necropoli di Tarquinia, in cui si fa riferimento al «luogo di Calu» (con il nome del dio privo della -s finale). In questi casi lo scriba intendeva verosimilmente riferirsi alla tomba con una perifrasi: il sepolcro è quindi in Etruria, sede degli dèi degli Inferi e probabilmente in un luogo appropriato per il loro culto.

Identità multiple A differenza degli Dèi Mani della tradizione latina, che rappresentano un gruppo unitario di divinità funerarie di cui non si conoscono il numero, né l’identità individuale, i Calusur etruschi sono venerati anche singolarmente e possiedono nomi propri, in base ai quali è possibile riconoscere una profonda differenza rispetto alle altre religioni classiche. La statuetta in bronzo di un cane da Cortona è consacrata a un Calus del cui nome è indicata la sola iniziale S, probabilmente corrispondente al nome di Selvans. La base in pietra di un’altra statuetta rinvenuta a Corciano, presso Perugia, riporta la dedica da parte di un uomo di nome Aule Curane alla dea Pethan Calusna, ovvero «appartenente alla cerchia di Calus». Lo stesso aggettivo qualifica il nome di Tinia, dio etrusco corrispondente a Zeus, in un’iscrizione votiva dipinta su una coppetta a vernice nera dal santuario del Belvedere di Orvieto. Un’altra attestazione, infine, potrebbe essere contenuta in un frammento dal santuario di Punta della Vipera a Santa Marinella sulla costa di Cerveteri, in cui l’epiteto [Calu]snita, «quella di Calus», va forse attribuito a Menrva, dea titolare del luogo sacro, corrispondente alla

I modelli greci

ln alto rilievo di un’urna cineraria in alabastro raffigurante il riconoscimento di Ifigenia, sacerdotessa di Artemide in Tauride, e Oreste con Pilade, perseguitato dalle Erinni, dall’Ipogeo dei Cumere a Sarteano. III sec. a.C. Siena, Museo Archeologico Nazionale. In basso particolare dell’Erinni addormentata ai piedi di Oreste. Il dio degli Inferi etrusco riassume in sé alcune caratteristiche proprie delle divinità greche Ade, Thanatos ed Erinni.

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CALUS

Tarquinia. Parete affrescata della Tomba dei Caronti, raffigurante una porta, che simboleggia il passaggio all’Aldilà, fiancheggiata da due Charun alati. lII sec. a.C.

greca Atena e alla latina Minerva. In tutti questi casi, databili tra il IV e soprattutto il III secolo a.C., gli dèi del gruppo dei Calusur sono gli stessi che altrove hanno mansioni diverse, per nulla legate al mondo degli Inferi, come Selvans protettore dei confini, o Tinia e Menrva, divinità celesti della tradizione classica. Evidentemente, nella religione etrusca non esisteva un sistema prefissato in cui le divinità venivano qualificate come celesti o ctonie in modo assoluto, ma le stesse figure divine entravano a far parte di una cerchia diversa, a seconda della funzione alla quale erano preposte, ovvero a seconda delle caratteristiche del culto nei diversi luoghi sacri.

Indovini ed eroi Un ulteriore esempio in proposito viene da uno specchio inciso vulcente, in cui sono rappresentati la discesa agli Inferi di Ulisse (uthuze) e il suo incontro con l’ombra dell’indovino Tiresia (hinthial terasias). A condurre quest’ultimo al cospetto dell’eroe è il dio Ermes, nella sua funzione di psicopompo, ovvero di accompagnatore delle anime dei trapassati: nella didascalia etrusca il dio è indicato con il nome di Turms Aitas, letteralmente «il Turms di Ade». In questo caso, la funzione infera del dio era nota anche alla mitologia dassica, che, sin da Omero, attribuiva a Ermes anche questa prerogativa, fra molte altre non legate al mondo dell’Aldilà. Ma, rispetto alla Grecia,la concezione religiosa etrusca sente la necessità di specificare

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l’appartenenza di questo aspetto di Turms alla cerchia che faceva capo al dio degli lnferi: si recupera cosí un altro membro del gruppo dei Calusur. Il riferimento ad Ade, etruschizzato come Aita (o Eita), apre il discorso sull’interpretazione greca di Calus, che solo in parte si adatta a una «traduzione» diretta con il dio degli Inferi del mito classico. L’espressione munis calus o calusuras, «luogo di Calu o dei Calusur», con cui si indica la tomba, trova un confronto diretto nelle «case di Ade» della tradizione omerica, che similmente indicano il regno dei morti. Ma le immagini etrusche di Aita/Ade, rivestito di una spoglia di lupo e accompagnato dalla compagna Phersipnai/Persefone, si adattano meglio a un’identificazione con un’altra figura

Particolare del sarcofago di Laris Pulenas, raffigurante due Charun barbuti e armati di martello, da Tarquinia. IV-III sec. a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.


Acquerello che riproduce parte dell’affresco della parete di ingresso della Tomba Colini Il (Orvieto, località Settecamini). Terzo quarto del IV sec. a.C. La figura armata di cui rimane solo parte della testa è definita dalla didascalia come zath[i]lath Aithas, una sorta di guardia del corpo del dio degli Inferi, da cui sembra derivare il termine latino satelles, che indica l’accompagnatore armato di un personaggio eminente, preferibilmente di stampo tirannico.

| Da Tarquinio a Galileo Fra i personaggi appartenenti alla cerchia delle divinità infere, oltre agli dèi maggiori e a una serie di demoni, va ricordato un personaggio anonimo, che compare in una sola rappresentazione dipinta, purtroppo molto rovinata, su una parete della Tomba Colini Il in località Settecamini, nella campagna di Orvieto. Accanto al personaggio, apparentemente armato, si trova la didascalia zath[i]lath Aithas, che lo qualifica come appartenente ad Ade. La prima parola è stata analizzata da Margaret Whatmough e da Helmut Rix come un nome comune dal significato di «colui che colpisce con l’ascia», ovvero guerriero armato d’ascia. Nella fattispecie si tratta di una sorta di guardia del corpo del dio degli Inferi, che non può non richiamare alla mente un altro genere di guardie reali armate d’ascia, che le fonti letterarie ricordano come provenienti dall’Etruria e giunte a Roma assieme ai simboli del potere: i littori, che hanno proseguito la loro funzione in età repubblicana accompagnando i magistrati supremi della città. In latino la parola che indica la «guardia del corpo», con particolare riguardo a figure tiranniche, come lo era l’ultimo dei

divina meno sfuggente del pantheon etrusco: il dio Suri, identificato sia con un Apollo infero che con il latino Dis Pater, e venerato in tutta l’Etruria come massima divinità catactonia.

La bocca degli Inferi Dal punto di vista iconografico, invece, Calus ha maggiore probabilità di essere identificato con la rappresentazione mostruosa della bocca degli Inferi che si apre nel terreno per sancire il fato di Arianna, rapita da Artemide in uno specchio prenestino. A tal proposito, una diversa possibilità di corrispondenza greca per il nome dell’oltretomba e del suo dio sembra la voce etrusca Achrum, che in età recente traduce il greco Acheronte.

re etruschi di Roma, Tarquinio il Superbo, prendono il nome di satellites, parola che con ogni probabilità deriva dall’etrusco zath[i]lath. La trasformazione del significato del termine nell’età moderna a indicare i corpi celesti minori si deve a Galileo Galilei, che con il primo cannocchiale scoprí l’esistenza di quattro «accompagnatori» del pianeta Giove: le lune maggiori, che prendono appunto il nome di «satelliti galileiani». Da una dotta espressione latina, quindi, deriva un termine ormai comune del linguaggio contemporaneo, che dalle lune che orbitano attorno ai pianeti è passato poi a indicare i satelliti artificiali.

Il nome, infatti, compare su un vaso vulcente nel sintetico racconto del mito di Alcesti, che si offre «affinché Achrum faccia una vittima», ma anche su uno specchio inciso da Vulci in cui indica una delle Furie che perseguitano Oreste (detti rispettivamente [A]charum, e Urusthe), e per finire come base dell’aggettivo Achrumune, con cui è designato uno dei quattro Caronti nell’omonima tomba tarquiniese. Ne scaturisce l’immagine di un dio degli Inferi oscuro e vendicativo, che racchiude in sé alcuni aspetti del greco Ade assieme ad altri propri di Thanatos e delle Erinni, confermando come anche per gli antichi fosse difficile trovare una piena corrispondenza tra le divinità etrusche e le loro omologhe greche.

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GUARDIANI DELL’OLTRETOMBA

Quella

F

I GUARDIANI DELL’OLTRETOMBA

ra le caratteristiche della tradizione religiosa etrusca che piú colpiscono l’immaginazione dei visitatori dei musei di archeologia e delle necropoli dell’ Etruria meridionale, occupano un posto di primo piano le rappresentazioni dei terribili demoni funerari, che nei dipinti e nei rilievi accompagnano i defunti nel loro ultimo viaggio, ovvero simboleggiano l’inevitabile destino di morte che si sta per abbattere sui personaggi di alcune scene mitologiche. Il patrimonio figurativo ha conservato l’aspetto e il nome di diverse entità di questo genere, che rendono le rappresentazioni dell’Oltretomba etrusco assai piú tetre e terrificanti rispetto a quelle del mito classico di tradizione greca. In alcuni casi i demoni sono in azione anche al di fuori del regno degli Inferi, come il pallido auriga dalla chioma infuocata che lancia al galoppo il suo carro trainato da creature mostruose, nella chiusina Tomba della Quadriga Infernale. Similmente, su uno specchio vulcente, ha le feroci sembianze di un demone la Furia [A]charum, intenta a perseguitare Oreste dopo l’uccisione della madre Clitennestra.

Affini nel ruolo ma diversi nell’aspetto Ma le figure demoniache che incarnano piú spesso il timore della morte e la sua ineluttabilità sono Charun e Vanth, delle quali sono note innumerevoli rappresentazioni, che ne confermano la popolarità e l’importanza per l’immaginario collettivo etrusco. L’estrema diversità nell’aspetto dei due accompagnatori dei defunti, che spesso sembrano costituire una coppia, ha fatto pensare in passato che intendessero alludere alla differenza tra una morte

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porta fatale... violenta (evocata dal maglio impugnato dall’orrido Charun) e una serena (impersonata dal gelido angelo della morte Vanth). L’ipotesi, tuttavia, per quanto suggestiva, non è convalidata dalle attestazioni note, che vedono entrambi i demoni impegnati in scene violente, come quella che raffigura il sacrificio dei prigionieri troiani nella Tomba François di Vulci, o nel semplice ruolo di accompagnatori nel viaggio verso l’Aldilà.

Sancire l’impossibilità del ritorno

Tarquinia, Tomba degli Anina. Particolare della coppia di demoni, Charun, sulla sinistra, con il martello, e Vanth, sulla destra, con la torcia, vivacemente caratterizzati, posti a guardia ai due lati della porta del sepolcro. Prima metà del lII sec. a.C. L’allargamento dell’entrata della tomba, per facilitare l’inserimento di alcuni sarcofagi, ha asportato parte delle braccia e delle ali dei demoni, ma, nel complesso, le figure sono ben conservate.

Uno studio dell’etruscologo francese Jean-René Jannot ha dimostrato che il poderoso martello che il demone Charun brandisce costantemente e che rappresenta il suo principale attributo, non è altro che lo strumento con cui gli addetti alle grandi porte urbiche conficcano il paletto che sigilla i battenti. Il ruolo di Charun, pertanto, è quello di sancire per l’eternità l’impossibilità del ritorno e l’inesorabilità del destino umano: e si può senz’altro affermare che, dal punto di vista psicologico, tale immagine è persino piú efficace e terrificante della falce che caratterizza la Grande Mietitrice a partire dall’iconografia medievale. L’aspetto del demone è quello di un uomo rozzo e muscoloso, barbuto, in genere vestito con una corta tunica e spesso alato, reso mostruoso dal grande naso adunco, e, soprattutto, dal colore azzurro della pelle, che richiama quello dei cadaveri in decomposizione. La sua funzione nelle scene rappresentate è quella di assistere al momento del trapasso, nel caso di alcuni momenti drammatici del mito, o, piú prosaicamente, di accompagnare i morti fino alla loro dimora eterna, occupando un ruolo che

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GUARDIANI DELL’OLTRETOMBA

A destra Tarquinia, necropoli dei Monterozzi. Particolare della decorazione pittorica della Tomba dell’Orco Il raffigurante il mostruoso demone Charun, con la pelle azzurra e le ali da rapace. Ultimo quarto del IV sec. a.C. Le orecchie appuntite e il naso adunco contribuiscono, con i capelli scarmigliati, a creare un’immagine selvaggia e sconvolgente per il demone della morte.

A sinistra statuetta votiva in bronzo del demone alato femminile Vanth, rinvenuta in Campania, nelle vicinanze del Vesuvio. Fine del V sec. a.C. Londra, British Museum. Il demone alato indossa una lunga tunica, e le sue braccia sono avvolte tra le spire di due serpenti. Spesso, nell’iconografia etrusca, Vanth è raffigurata con in mano una torcia, che serviva a illuminare il cammino verso l’Aldilà, e un rotolo, che doveva recare il nome del defunto, il cui destino era ormai segnato.

nell’immaginario greco apparteneva piuttosto a Ermes o tutt’al piú a Thanatos. E, in effetti, quest’ultimo assume le sembianze di Charun nella scena rappresentata su un vaso vulcente con l’addio di Alcesti al marito Admeto, che la donna si è offerta di sostituire al momento della morte. Nonostante quest’ovvia possibilità di identificazione, gli Etruschi hanno assimilato il personaggio al traghettatore del fiume infernale, Caronte, dal quale ha preso il nome, pur mantenendo una fisionomia del tutto autonoma. A tale riguardo, la differenza della tradizione etrusca rispetto alla mitologia classica è resa ancor piú evidente dalle raffigurazioni conservate sulle pareti della Tomba dei

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| Liberarsi dai vincoli della natura umana Si è già avuto modo di accennare come in Etruria il culto di Fufluns abbia avuto un particolare impulso in seguito all’introduzione dei Misteri dionisiaci, ai quali prendevano parte elementi di spicco della società, un fenomeno che fu all’origine della dura repressione voluta dal Senato romano nel 186 a.C. al fine di scongiurare la corruzione che le dottrine segrete avrebbero portato, in particolar modo fra i giovani. Lo scopo principale dei Misteri dionisiaci era quello di garantire la salvezza nell’Aldilà sotto forma di liberazione del devoto, da parte del dio, dai vincoli della natura umana di fronte alle divinità dell’Oltretomba. In diversi casi, specialmente in età alto-ellenistica, gli iniziati si sono presi cura di distinguersi

nell’apparato funerario, evidenziando i simboli della propria condizione religiosa nel corredo e soprattutto nell’iconografia dei sarcofagi. I segni prescelti dell’iniziazione dionisiaca sono diversi, a partire dal kantharos o dal craterisco, vasi da vino collegati per eccellenza con Fufluns, per arrivare al cerbiatto, noto elemento della simbologia misterica degli animali. Ma un segno di particolare importanza è quello del rotulo posto nelle mani dell’iniziato, che si oppone a quello recato con sé dai demoni funerari: al destino già scritto, il devoto di Dioniso può quindi opporre le prescrizioni del dio, in grado di prepararlo ad affrontare le prove che dovrà sopportare nell’altro mondo prima di raggiungere l’agognata liberazione.

Caronti, nella necropoli dei Monterozzi a Tarquinia: i demoni che vi compaiono, infatti, sono ben quattro, tutti con l’aspetto e il nome di Charun, ma distinti in tre casi dai misteriosi epiteti di Chunchulis (dal significato ignoto), Achrumune, «appartenente all’Acheronte», e Huths, «il quarto».

Una natura eterea e veloce L’aspetto «angelico» di Vanth è in realtà condiviso da diverse entità divine minori dell’iconografia etrusca (le cosiddette Lase), che, in genere, hanno il ruolo di accompagnatrici e assistenti delle divinità principali. Tuttavia, a parte le grandi ali che di regola ornano la schiena del demone femminile, simbolo di una natura eterea e veloce, la sua appartenenza al mondo delle tenebre è garantita dalla fiaccola che molte volte reca in mano, per rischiarare la strada nel viaggio fino all’Aldilà. L’aspetto poco minaccioso di Vanth, sempre raffigurata come giovane e bella, sebbene mai sorridente, è accentuato – almeno agli occhi di

noi moderni – dalla particolarità del suo abbigliamento, che, nella maggior parte dei casi, si limita a una corta gonna, sostenuta da fasce o bretelle incrociate in mezzo al seno nudo. Al ruolo di guida nell’ultimo viaggio, a cui sembra alludere l’attributo della fiaccola, si aggiunge per Vanth quello di messaggero del Fato, dal momento che, in diverse occasioni, il demone femminile è rappresentato mentre tiene in mano un rotulo (di pergamena o di lino), nel quale, con ogni probabilità, si immaginava che fosse scritto in In alto coperchio di sarcofago, da Tarquinia. Metà del IV sec. a.C. Londra, British Museum. La defunta è adagiata sul letto, a piedi nudi, nelle ricche vesti di «baccante», iniziata ai Misteri di Dioniso, come dimostrano sia il tirso, attributo tipico del dio che essa tiene nella mano sinistra, sia il kantharos, sollevato nella mano destra, al quale si abbevera avidamente un cerbiatto. Gli attributi ricordati hanno un alto valore simbolico nel contesto dionisiaco, e ritornano separatamente in molti altri coperchi di sarcofagi e urne etrusche per tutta la durata dell’epoca ellenistica.

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GUARDIANI DELL’OLTRETOMBA

modo indelebile il destino del defunto, ormai inevitabile e compiuto al momento della morte. Ma il forte richiamo alla simbologia della porta dell’Ade – evidentemente molto sentito dagli Etruschi – non manca di investire anche Vanth, che nel rilievo che orna la fronte dell’eccezionale sarcofago chiusino di Hasti Afunei serba una chiave gigantesca, che sottintende l’esistenza di una serratura altrettanto imponente. Lo stesso rilievo, datato tra la fine del III e il principio del II secolo a.C., aggiunge un ulteriore elemento alla consorteria di demoni addetti alla grande porta degli Inferi. La scena rappresenta l’estremo saluto della defunta, al quale partecipa l’intera famiglia paterna, di fronte all’accesso dell’Oltretomba, presidiato per l’occasione oltre che da Vanth anche da Culsu: un secondo demone femminile che varca la soglia infernale, di cui ha aperto uno dei battenti, e la illumina sollevando una torcia. Nonostante questa sia l’unica attestazione del personaggio, esso può essere a buon diritto inserito nel gruppo dei demoni in questione, proprio grazie al suo nome parlante: la «Portiera», a sua volta derivato da culs, la «porta».

Figura feroce e animalesca A completare la rassegna delle figure mostruose e demoniache che popolavano l’immaginario infero etrusco, non può mancare un accenno a Tuchulcha, il cui aspetto terribile e minaccioso ha spesso attirato l’attenzione del pubblico, forse piú del dovuto, dal momento che il suo nome compare una volta soltanto. Il demone vanta la figura piú feroce e animalesca tra quelle note, che risulta dalla giustapposizione di un becco da rapace, orecchie ferine e teste di serpenti alla sagoma di un uomo irsuto e muscoloso; completano il tutto le immancabili ali. Tuchulcha compare tra le anime degli antichi eroi della mitologia greca, nella rappresentazione degli Inferi che campeggia

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sulle pareti della tarquiniese Tomba dell’Orco II (vedi foto a p. 54): il mostro sembra essere posto a guardia di Teseo, il quale, come narra il mito, era rimasto incatenato a un macigno nell’Averno, in seguito al suo proposito di rapire Persefone assieme con l’amico Piritoo. Il supplizio gli era stato inflitto da Ade in persona, ma esecutrici materiali ne erano state le Erinni – ovvero le Furie –, di cui evidentemente Tuchulcha prende il posto nell’iconografia etrusca. Si potrebbe dunque immaginare che i demoni funerari della tradizione etrusca abbiano avuto principalmente la funzione di personificazioni simboliche degli agenti inesorabili della morte, di cui era vano provvedere al culto o invocare la protezione. Tuttavia, la documentazione dimostra che, in realtà, la situazione era ben diversa: infatti, al di là del tanto discusso «obolo di Caronte» (una moneta che spesso accompagna le sepolture), ampiamente diffuso negli usi funerari del Mediterraneo, i demoni etruschi


A destra: acquerello che riproduce parte dell’affresco della parete di ingresso della Tomba Colini Il (Orvieto, località Settecamini). Terzo quarto del IV sec. a.C. La figura armata di cui rimane solo parte della testa è definita dalla didascalia come zath[i]lath Aithas, una sorta di guardia del corpo del dio degli Inferi, da cui sembra derivare il termine latino satelles, che indica l’accompagnatore armato di un personaggio eminente, preferibilmente di stampo tirannico.

Tarquinia, Tomba 5636. Il defunto, accompagnato da Vanth, raggiunge la porta dell’Ade, dove Charun lo attende seduto. Seconda metà del III sec.a.C. Nella pagina accanto Sarteano, Tomba della Quadriga Infernale. Particolare del volto del demone-auriga, con il pallido incarnato e la chioma color del fuoco. Seconda metà del IV sec.a.C.

sono stati venerati con offerte e doni votivi sin da epoca antichissima.

La dedica ai «guardiani» Alla seconda metà del VII secolo a.C. risale la piú antica attestazione del culto di Vanth, invocata come malak, «benevola», nell’iscrizione su un vasetto da una tomba di Marsiliana d’Albegna. Di circa un secolo piú recente è la consacrazione di una preziosa kylix attica di Oltos, in stile «bilingue», offerta a Charun; e successivamente si contano diverse altre dediche a Vanth da Spina, Adria e dalla campagna senese, che arrivano ormai fino al III secolo a.C. Dalla zona di Adria proviene inolrre una coppa databile tra il IV e il III secolo a.C., iscritta con la dedica di una certa Sminthi ai «guardiani della porta» (in etrusco kulsnuter) nei quali si può riconoscere l’intero gruppo dei

demoni funerari di cui si è parlato. Tutte le iscrizioni provengono da contesti funerari, a dimostrazione del fatto che la tomba era l’unico luogo di culto ritenuto adatto per le divinità dell’Oltretomba, e servivano probabilmente a invocare un occhio di riguardo da parte degli accompagnatori infernali per i propri defunti. Forse, avevano invece uno scopo diverso le offerte rinvenute nelle tombe ad alcune divinità maggiori, il cui rapporto con la morte e con gli Inferi è meno evidente, come nel caso di una dedica tarquiniese ai Dioscuri (detti semplicemente Tinas diniiar, «figli di Zeus»), di una ad Afrodite/Turan dalla Campania o di una a Thesan, dea dell’aurora, da Spina. In queste occasioni, l’invocazione agli dèi cercava probabilmente di ottenere per i defunti la salvezza, ovvero una migliore condizione nella vita dell’Aldilà.

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HERCLE

HERCLE

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L’eroe universale

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li dèi etruschi hanno spesso nomi di origine italica, che dimostrano l’accoglienza prestata a culti stranieri, presumibilmente a causa della composizione mista della popolazione. Piú interessanti, invece, sono i pochi casi in cui le divinità hanno un nome greco, che indica la provenienza dall’esterno del loro culto oltre che della loro iconografia. La figura di Eracle, simbolo della civilizzazione ellenica del Mediterraneo, attraverso l’uccisione di mostri, l’inaugurazione di dinastie e la fondazione di città e santuari, che condussero l’eroe fino ai confini del mondo conosciuto, assume un’importanza cruciale presso piú d’un popolo ellenizzato, in particolare in Italia. Secondo il mito, il semidio aveva attraversato la Penisola italiana da nord a sud nel corso del viaggio di ritorno, dopo aver catturato i buoi di Gerione nell’estremo Occidente: sin da epoca arcaica, pertanto, si formarono tradizioni locali sui luoghi in cui egli aveva soggiornato o nei quali aveva compiuto gesta prodigiose.

Sui percorsi della transumanza Il collegamento con la miti-storia di Eracle, spesso connesso ai percorsi della transumanza e ai culti pastorali presso le popolazioni italiche (non dimentichiamo che l’eroe conduce una mandria di buoi!), gli garantí un’importanza religiosa eccezionale, paragonabile a quella delle peregrinazioni di Odisseo sul mare. A differenza di quest’ultimo, però, Eracle è il solo uomo – per quanto figlio di Zeus – che sia riuscito a diventare un dio con le proprie forze. Quest’ultimo aspetto ebbe particolare importanza nella ricezione del culto di Hercle in Etruria; infatti, dalla metà del VI

Statuetta in bronzo raffigurante Eracle che brandisce la clava mentre porge i pomi delle Esperidi, dal santuario bolognese di Villa Cassarini. 400 a.C. circa. Bologna, Museo Civico Archeologico. La pelle di leone (leonté) gli copre la testa (particolare alla pagina accanto) ed è annodata attorno al collo e riportata sul braccio destro.

secolo a.C. la figura dell’eroe in grado di raggiungere l’Olimpo e di esservi accolto tra gli dèi divenne il modello mitico per i re-tiranni, che dovevano legittimare la propria ascesa al potere in opposizione alle tradizioni oligarchiche delle famiglie aristocratiche. La storia ha conservato i nomi di alcuni di essi, come i Tarquini di Roma, il chiusino Porsenna o ancora Thefarie Velianas di Caere (Cerveteri), ma certamente ne sono esistiti altri, i cui nomi non ci sono giunti. L’iconografia di Eracle in lotta contro il leone nemeo e contro il toro di Creta, ovvero di fronte all’assemblea degli dèi, nel momento della sua apoteosi, compare sulle lastre decorative delle regge dei principi aristocratici di Acquarossa e di Velletri. Nel santuario di Portonaccio a Veio, la seconda metà del VI secolo è testimone di vari monumenti celebrativi del semidio: dalla possente scultura in terracotta di cui resta soltanto il torso, forse opera tarda dello scultore Vulca (il solo artista etrusco di cui le fonti antiche abbiano tramandato il nome), fino a due diversi gruppi raffiguranti Eracle presentato da Atena/Menevra agli dèi dell’Olimpo. Alla fine dello stesso secolo, fra le sculture che decoravano il tetto del tempio nel santuario veiente, Eracle ha un ruolo eccezionale, ritratto mentre affronta Apollo con pari dignità, per contendergli il diritto di catturare la cerva di Cerinea, sacra ad Artemide. Nello stesso momento, a Pyrgi, il porto di Caere, viene decorata con scene tratte dal ciclo delle fatiche e dell’apoteosi di Eracle la fronte del tempio B, offerto da Thefarie Velianas come ringraziamento per la sua ascesa al potere, con chiari intenti di propaganda tirannica. La classe dominante etrusca, dunque, fa presto propria la mitologia dell’eroe, che in Etruria e nel Lazio acquista

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HERCLE

uno spiccato valore politico-religioso, che da solo forse giustifica l’accoglimento di una divinità greca in assenza di un’identificazione con divinità locali piú antiche.

Protettori dei naviganti Riguardo al santuario di Mater Matuta presso l’area sacra di Sant’Omobono a Roma, il poeta Ovidio ha conservato nei suoi Fasti il ricordo di un mito che vedeva Eracle protagonista dell’accoglienza prestata alla fuggiasca lno, nutrice di Dioniso, e a suo figlio Melicerte, in seguito divinizzati con i nomi di Leucotea e Palemone, protettori dei naviganti. Tali figure divine furono identificate nel culto con i romani Mater Matuta e Portunus, rispettivamente dèi dell’aurora e dei porti. E non è un caso se un acroterio tardo-arcaico del tempio di Sant’Omobono – costruito all’epoca della monarchia etrusca e legato al nome di Servio Tullio – rappresentava ancora una volta il gruppo di Eracle e Minerva.

| Dodici imprese memorabili Sin dalla culla, Eracle fu messo alla prova a causa dell’inimicizia di Era, come quando strozzò due serpenti mostruosi inviati per ucciderlo. Ma le imprese piú dure e gloriose furono da lui compiute durante il servizio prestato a suo cugino Euristeo, che gli commissionò le famose dodici fatiche per volere della dea. Dapprima si trattò di sconfiggere mostri ritenuti invincibili, come il leone nemeo (della cui pelle l’eroe si rivestí), l’idra di Lerna, il cinghiale d’Erimanto, la cerva di Cerinea, gli uccelli Stinfalidi, il toro di Creta e le cavalle di Diomede. Poi di compiere azioni impossibili, come pulire le immense stalle di Augia o rubare la cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni. Infine di arrivare ai confini del mondo per catturare trofei irraggiungibili, come i pomi d’oro del giardino delle Esperidi o i buoi di Gerione. Per l’ultima fatica il semidio scese addirittura negli Inferi per catturare il mostruoso cane Cerbero. Solo alla fine delle sue fatiche (alle quali si aggiunsero molte altre azioni gloriose compiute lungo il percorso), Eracle poté essere accolto sull’Olimpo e diventare un dio accanto a suo padre Zeus.

È interessante però notare come, in realtà, esistesse una tradizione etrusca che contendeva a Roma la collocazione del mito. La fronte del tempio A di Pyrgi, costruito attorno al 470/460 a.C. e dedicato a Thesan, dea etrusca dell’aurora, fu decorata in una fase piú recente con una versione locale del mito, in cui Eracle funge da mediatore tra la futura dea fuggitiva e un dignitario del luogo, nel quale si può riconoscere un personaggio del tutto etrusco del mito, che sancisce l’ufficialità della tradizione.

Con la dea guerriera

Le statue di Hercle e di Atena/Menerva facenti parte del gruppo in terracotta dal santuario di Portonaccio a Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. I ritratti raffigurano il semidio nudo, con la leonté cinta sui fianchi (vedi anche foto qui accanto), mentre la dea, che lo presenta agli dèi dall’Olimpo, è in tenuta da oplita, a esaltarne l’aspetto guerriero.


| La piú celebre fra tutte le guerre Grande kylix (coppa da vino) attica a figure rosse firmata da Euphronios come vasaio e attribuita a Onesimos come pittore. All’interno della vasca sono raffigurate scene della presa di Troia, che culminano, al centro, nell’uccisione di Priamo e del piccolo Astianatte da parte del figlio di Achille, Neottolemo. All’esterno sono rappresentate altre scene tratte dalla saga troiana. 490 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. La kylix, che sotto il piede riporta due iscrizioni etrusche graffite, costituisce il primo documento epigrafico etrusco di carattere votivo, nel quale si faccia menzione del nome di Hercle. Le due iscrizioni ricordano l’offerta della coppa e una seconda consacrazione nel santuario del dio, forse effettuata al momento di un restauro antico, del quale rimangono alcune tracce. ll luogo di rinvenimento, a Caere, in località Sant’Antonio, è stato individuato a seguito di un accurato lavoro di indagine da parte della Soprintendenza, grazie al quale è stato possibile riportare in Italia il vaso, che era stato trafugato e venduto all’estero.

A destra bronzetto raffigurante Eracle con la leonté annodata attorno al collo. Metà del V sec. a.C. Fiesole, Museo Archeologico. La mano destra, perduta, impugnava verosimilmente la clava o l’arco, armi caratteristiche del semidio.

In questo contesto Eracle assume il ruolo di eroe civilizzatore, garante dell’ospitalità e dell’accoglienza agli stranieri in un santuario legato a uno dei porti piú importanti della costa tirrenica in età arcaica. Nonostante il suo ruolo di primo piano nell’iconografia mitologica etrusca sin dall’epoca alto-arcaica e sebbene la sua figura compaia spesso in contesti santuariali già nel VI secolo a.C., non si possiedono finora attestazioni epigrafiche del suo culto prima della metà del secolo successivo.

Il semidio venuto dal mare E, per quanto possa sembrare strano, vista l’universalità della diffusione del mito e delle immagini dell’eroe, le iscrizioni votive di cui si conosce il luogo di ritrovamento provengono tutte da Caere o dal suo territorio. Tale dato

fornisce un indizio prezioso per comprendere la dinamica dell’accoglimento del culto straniero, quando la fama del dio aveva già da tempo raggiunto e affascinato gli Etruschi. I primi documenti del nome di Hercle sono un’iscrizione apposta alla metà del V secolo a.C. sotto il piede di una pregiata kylix (coppa da vino) attica a figure rosse, piú antica di alcuni decenni e opera di Euphronios e Onesimos (vedi nell’immagine qui sopra), proveniente dal santuario ceretano in località Sant’Antonio, e una coppa attica a vernice nera, coeva, ritrovata nel santuario dell’area Sud di Pyrgi e dedicata da un individuo di origine greca. Pertanto, il culto del dio compare contemporaneamente nella città e nel suo porto, dimostrando di essere giunto dalla Grecia per la via del mare; ma, mentre a Pyrgi si tratta di una divinità ospite, anche se ben radicata e con un ruolo di primo piano, il santuario di Sant’Antonio, posto presso uno degli accessi alla città, sembra essere stato

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HERCLE

A destra e nella pagina accanto statua in terracotta, a grandezza naturale, raffigurante Eracle, dal santuario di Portonaccio a Veio. Ultimi anni del VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Disposta assieme ad altre sul colmo del tetto del tempio, l’opera apparteneva a un gruppo che comprendeva, tra gli altri, il celebre Apollo di Veio.

consacrato direttamente a Hercle. Oltre alla dedica della kylix, infatti, nel III secolo a.C. sono state offerte nello stesso luogo sacro anche una grande clava di bronzo con dedica al dio da parte di uno schiavo liberato e un peso da stadera ricoperto da una lunga iscrizione di dono ad Apollo/Rath e a Hermes/ Turms, venerati assieme nel santuario di Hercle, come è dichiarato nel testo etrusco.

Il lago nato da una prova di forza Completano la raccolta dei documenti epigrafici del culto di Hercle una kylix attica a figure rosse con scena atletica, consacrata al dio e forse proveniente ancora una volta da Caere (fine del V secolo), e la base di una statuetta di bronzo di provenienza ignota, conservata a Manchester, con dedica al dio da parte di un padre per il figlio (fine del IV-inizio del lII secolo). Al di là del valore politico già ricordato, la venerazione di Hercle in Etruria sembra assumere un significato particolare in relazione alla presenza sul territorio di sorgenti e acque dolci, che alcune fonti letterarie collegano ad azioni prodigiose del semidio, come per il lacus Ciminus (l’odierno lago di Vico), che, secondo Servio, sarebbe sorto dopo che l’eroe aveva conficcato nel terreno una sbarra di ferro per dimostrare la propria forza. Gli specchi etruschi del IV e III secolo a.C. spesso mostrano Hercle alle prese con sorgenti o con vasi contenitori e non va dimenticato che Livio ricorda l’esistenza in Etruria di un fons Herculis, forse in relazione con le aquae Caeretanae. In tutti i luoghi di culto in cui è stata riscontrata la presenza di Eracle, negli apparati iconografici o nelle statuette votive, gli scavi archeologici hanno rivelato opere per la Particolare della statua di Eracle raffigurante la cerva cerinitide, dalle corna d’oro e dai piedi di bronzo, cacciata dal semidio durante la sua terza fatica. Secondo il mito, l’animale viveva sul Monte Cerinea, presso l’omonima città dell’Acaia (Grecia).

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A destra specchio etrusco con l’allattamento simbolico di Hercle da parte di Uni/Hera, alla presenza di Apollo, Afrodite, Zeus e un’altra dea velata, da Volterra. Fine del IV sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

| Allattato di nascosto Secondo una tradizione antica, il piccolo Eracle sarebbe stato portato di nascosto da Ermes a bere il latte di Era, mentre questa dormiva, cosí da garantirne la natura divina anche da parte di madre, per adozione, oltre a essere figlio di Zeus. Alcune gocce del latte, cadute dalla bocca del bambino, sarebbero finite in cielo, creando la fascia biancastra ancora oggi detta via Lactea (in greco Galaxia, la nostra «galassia»). La dea, in realtà, odiava Eracle, in quanto nato da un amore extraconiugale del padre degli dèi, e solo dopo molte persecuzioni, tra le quali si pongono le famose dodici fatiche, fu disposta ad accoglierlo sull’Olimpo, ma soltanto dopo che l’eroe aveva partecipato alla guerra contro i Giganti e l’aveva salvata dalla violenza che Porfirione voleva recarle. Un famoso specchio etrusco da Volterra, alla fine del IV secolo a.C., raffigura l’allattamento di Hercle come se fosse avvenuto solo nell’età adulta dell’eroe, al cospetto degli dèi olimpici quali testimoni dell’atto di adozione. L’iscrizione su un piccolo quadretto in alto a destra può essere cosí tradotta: e «Questa immagine (?) mostra (?) come Hercle divenne (?) figlio di Uni».

raccolta e l’uso dell’acqua, come, per esempio, la vasca-fontana e le cisterne del santuario di Sant’Antonio o la vasca a cielo aperto accanto al tempio di Portonaccio. E, al riguardo, va notato come in Etruria abbia avuto un successo particolare l’iconografia di Acheloo, il dio del fiume per eccellenza, sia da solo che in lotta con Eracle, che qui assume il ruolo pure civilizzatore di eroe dell’irreggimentazione delle acque. In questa funzione, il dio contende il ruolo ad Apollo, che, come in ambito greco, anche in Etruria è preposto alle acque termali e salutari (si ricordano le aquae Apollinares, odierne Terme di Stigliano, presso Manziana, a nord di Roma): tale contesa non può essere meglio rappresentata che dalle statue acroteriali già ricordate del tempio di Portonaccio, dove probabilmente le due divinità erano venerate assieme, nonostante la manifesta rivalità.

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THESAN

THESAN

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Gli amori dell’alba

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os, dea dell’aurora «dal peplo di croco» di Omero rimase in Grecia poco piú che una figura poetica, le cui prerogative cultuali furono presto assorbite nella cerchia di Afrodite, che presiedeva a tutte le manifestazioni legate alla bellezza e al mondo femminile. L’etrusca Thesan, invece, nonostante la salda e tenace identificazione con la divinità greca, dalla quale prese sia l’iconografia, sia la posizione nelle genealogie mitiche degli dèi, ebbe un’importanza senza dubbio maggiore, paragonabile a quella di cui godeva presso i Romani la Mater Matuta, venerata nel Foro Boario. Nell’immaginario mitologico greco, Eos era famosa in particolare per due aspetti, che la caratterizzavano come una divinità dalle passioni forti e spesso avventate. Il primo è la tendenza ad abbandonarsi ad amori travolgenti con giovani di rara bellezza, che la dea soleva rapire, come nel caso di Cefalo o in quello tristemente noto di Titone, per il quale ottenne l’immortalità, ma non l’eterna giovinezza, e che perciò fu condannato a una vecchiaia senza fine.

L’aspetto preferito dagli Etruschi Un secondo lato del suo carattere, in parte speculare a compensare il primo, viene però evidenziato dal suo rapporto di madre affettuosa e protettiva nei confronti di Memnone, il figlio che aveva avuto da Titone, re degli Etiopi ed eroe della guerra troiana. Fu in questo suo secondo ruolo che gli Etruschi preferirono conservare memoria della dea, raffigurata su uno specchio inciso di epoca ellenistica mentre, assieme a Teti,

A destra testa di lno-Leucotea, appartenente all’altorilievo in terracotta che decorava la fronte anteriore del tempio A di Pyrgi (oggi Santa Severa, Roma) in un rifacimento della metà circa del IV sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Già nutrice di Dioniso, Ino è una divinità marina del pantheon greco, che gli Etruschi assimilarono come Thesan. Nella pagina accanto particolare della decorazione di un cratere lucano a figure rosse, attribuito al Pittore di Pisticci, che mostra Eos alla guida di un carro trainato da cavalli alati. V sec. a.C. Collezione privata.

invoca clemenza da Tinia/Zeus, nell’episodio omerico che prelude allo scontro tra i loro rispettivi figli, Memnone e Achille. Il padre degli dèi, dopo aver pesato con giustizia il destino dei due contendenti, decretò la vittoria del secondo, lasciando a Eos il compito ingrato di riportare il corpo del figlio in patria: scena rappresentata a sua volta su un secondo specchio etrusco, conservato a Karlsruhe, e su un bronzetto, oggi al British Museum di Londra. La dea dell’aurora, disperata, spicca il volo con le ali spiegate, recando tra le braccia il corpo del giovane inerte, e mostrando lo strazio di una madre che anticipa di vari secoli le scene cristiane della Pietà di Maria sul Cristo deposto dalla Croce. Non per nulla, a perenne memoria del suo dolore, il mito ricorda come le lacrime della dea siano rinnovate ogni giorno dalla rugiada che sempre accompagna il sorgere del giorno. Al di là delle scene epiche, che dimostrano la profonda assimilazione del mito greco in Etruria, va però detto che lo schema iconografico di gran lunga piú frequente per Thesan è quello della dea che lancia al

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|THESAN Gli dèi in parata Il ciclo di antefisse a figura intera che ornava l’unica falda del tetto del cosiddetto edificio delle Venti Celle nel santuario di Pyrgi è una vera e propria parata trionfale di divinità, della quale si propone la ricostruzione grafica. L’occasione sembra essere quella dell’apoteosi di Eracle (1), alla quale partecipa anche Uni/Era (2; dea titolare del santuario), dal momento che entrambi i personaggi sono raffigurati tra coppie di cavalli alati, simbolo dei carri celesti. Ma, intercalati tra le figure ripetute dei due protagonisti, si trovano in sequenza le

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immagini non meno significative di una dea ammantata che sembra sostenere due stelle (3; la notte?), di un dio a testa di gallo che annuncia l’alba imminente (4), di una dea con quattro ali in cui è verosimile riconoscere Thesan/Eos (5), e infine del dio Sole in persona (6), circonfuso da un nimbo fiammeggiante. Vale la pena ricordare che per il dio-gallo si è fatto il nome di Fosforo (ovvero Eosforo), figlio di Eos e personificazione del pianeta Venere, che con la propria comparsa a Oriente anticipa il sorgere del sole.

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In alto modello del tempio A del santuario di Pyrgi. Costruito attorno al 470/460 a.C., è l’unico luogo di culto accertato della dea Thesan in Etruria. In basso una delle facce di un cratere a campana attico a figure rosse con la rappresentazione dell’episodio in cui Eos (al centro) insegue il giovane Cefalo, per rapirlo. Maniera del Pittore di Peleo, 450-440 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

galoppo la propria quadriga: simbolo della luce dell’alba, che rapidamente sale da Oriente ad annunciare l’inizio di un nuovo giorno. Tale schema, ritenuto evidentemente il piú adatto a riempire la parte superiore del tondo degli specchi incisi (detta comunemente «esergo»), viene ripetuto un’infinità di volte, al punto da non poter essere considerato una semplice scena di genere, ovvero un riempitivo. In considerazione della naturale associazione dello specchio con la bellezza femminile e con il matrimonio, sembra verosimile associare la presenza di Thesan/Eos con la

sua prossimità alla cerchia di Afrodite presso i Greci. Ma oltre a ciò, la passione amorosa, resa immortale dal racconto degli sfortunati amori mortali di Eos, poteva essere un elemento sufficiente per giustificare la scelta della dea a completare l’ornamento degli specchi destinati alle fanciulle. Il successo dell’iconografia della quadriga della dea potrebbe dipendere dalla necessità di conciliare l’arcaica connotazione femminile del Sole in Etruria con la fortuna di cui godeva nel mondo antico l’immagine del carro di Helios, scelto da Fidia per adornare il frontone orientale del Partenone.

La figlia di Etra Il santuario di Pyrgi ha un’importanza particolare per Thesan, in quanto si tratta dell’unico luogo di culto accertato della dea in Etruria. A essa era infatti dedicato il tempio A, costruito attorno al 470/ 460 a.C. secondo il modello tradizionale «tuscanico», in contrapposizione con l’ellenizzante tempio B, piú antico e collegato al ricordo del suo costruttore: il tiranno Thefarie Velianas.


THESAN

Ancora una rappresentazione del rapimento di Cefalo da parte di Eos, che guida la sua quadriga. La scena compare, in questo caso, su un grande cratere a volute a figure rosse, da Falerii Veteres (Civita Castellana, Viterbo). L’autore dell’opera viene indicato come Pittore dell’Aurora proprio per la realizzazione di questo grande vaso. 375 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Una laminetta di bronzo incisa, ritrovata nei pressi dell’edificio templare e grosso modo coeva con esso, conserva la dedica di una statua alla dea, chiamata «Thesan figlia di Etra nel (santuario) di Uni». Dunque, almeno in un primo momento, il culto di Thesan era considerato ospite di quello piú antico e consolidato della dea del tempio B e, al momento di offrirle una statua, la dedicante, Thanachvil Catharnai, volle ricordare rispettosamente la padrona di casa. Suscita interesse la menzione della madre di Thesan/Eos, che Giovanni Colonna ha proposto di identificare con la greca Aethra, figlia dei Titani Oceano e Teti e madre – secondo le fabulae di Igino – di Aurora, Sole e Luna. L’uso di una discendenza divina greca originale nel contesto di una dedica etrusca dimostra la

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profondità dell’assimilazione del mito in Etruria, e il desiderio di permettere ai frequentatori stranieri di riconoscere un culto familiare in una divinità locale.

Salvatrice di Odisseo Tuttavia, nonostante gli sforzi eruditi dei sacerdoti etruschi, il tentativo di equiparare la dea del tempio A a Eos non sembrò del tutto soddisfacente e si preferí ricorrere a un’altra divinità per darle un volto e una connotazione mitica: Leucotea. Con tale nome è nota nella tradizione omerica una divinità marina che assiste Odisseo nell’ultimo dei suoi naufragi, apparendogli sotto forma di gabbiano e consentendogli di giungere sano e salvo all’isola dei Feaci. La dea di Pyrgi è chiaramente identificata con lei in un brano erroneamente attribuito ad Aristotele e in un passo della Varia Historia di


Delle due nature di Thesan, la dea dell’aurora che il mito ricorda come amante passionale e madre affettuosa, gli Etruschi preferirono celebrare la seconda Claudio Eliano, che raccontano come il suo santuario sia stato saccheggiato da Dionigi di Siracusa all’epoca dell’incursione contro la costa etrusca nel 384 a.C. La divinità dell’aurora, quindi, forse proprio in quanto protettrice dei naviganti, era considerata equivalente a Leucotea, cosí come a Roma lo era la dea del mattino Mater Matuta.

La pietà di Poseidone Se ce ne fosse ancora bisogno, una prova dell’identificazione viene dal famoso altorilievo della fronte anteriore del tempio A, giunto fino a noi in pochi frammenti, che raccontava la storia dell’infelice Ino, la nutrice di Dioniso, gettata in mare con il figlio Melicerte in seguito alla persecuzione di Era, e giunta miracolosamente illesa sulle coste laziali (in seguito, Poseidone, impietosito dalla vicenda, trasformò madre e figlio in divinità marine con il nome di Leucotea e Palemone). Le sculture conservate mostrano la futura dea nelle vesti di un’accalorata supplice, appoggiata a un pilastrino e protetta dalla figura rassicurante di un Eracle privo di armi, alla presenza di un personaggio togato dall’aspetto regale. Un ultimo documento del culto di Thesan viene infine da un contesto del tutto inaspettato: una tomba di età ellenistica nella necropoli di Spina. Si tratta dell’iscrizione su una coppetta a vernice nera, che ricorda un’ offerta alla dea da parte di un certo Melutu, nell’ambito di un

Specchio di bronzo inciso con Eos/ Thesan in volo ad ali spiegate, che reca tra le braccia il corpo del figlio Memnone, sconfitto da Achille durante la guerra di Troia, nonostante la supplica rivolta dalla madre a Zeus. Metà del V sec. a.C. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum.

culto evidentemente funerario. La presenza della divinità dell’aurora in un testo sacro di provenienza tombale dimostra l’esistenza di un suo ruolo come divinità in grado di salvare o aiutare il devoto anche dopo la morte, come nel caso degli dèi titolari di Misteri. Non può essere un caso, quindi, che alcuni inni orfici – composizioni poetiche relative ai Misteri di Orfeo – ricordino tra le divinità che donano salvezza anche Leucotea e Palemone, invocati per «salvare gli iniziati sia sotto terra che sotto il mare», probabilmente con allusione ai pericoli che si incontrano nel viaggio per raggiungere l’Aldilà.

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MENERVA

Le armi e la ragione

T

ra le divinità etrusche che portano un nome latino-italico, spicca per importanza Menerva, di fatto identica alla latina Minerva, con la quale, oltre al nome, condivide anche l’antica assimilazione alla greca Atena, luminosa dea guerriera della sapienza e delle arti. A giudicare dall’etimologia del nome, con ogni probabilità derivato dalla stessa base di mens, il collegamento con la ragione e con la sapienza giustifica il confronto con la divinità greca. Inoltre, un antico verbo tecnico dei sacerdoti divinatori, promenervare, dal significato di «avvertire in anticipo», mostra che nel mondo latino era tenuta in particolare considerazione la chiaroveggenza della dea. Anche lo studio delle informazioni relative alla figura divina di Menerva, quindi, si dibatte tra le caratteristiche del culto locale e le inevitabili forzature dell’assimilazione a una divinità greca, dagli aspetti iconografici alla mitologia e ai rituali.

MENERVA

Quel parto prodigioso... La nascita di Atena, cosí come viene narrata dal mito greco, colpí in modo speciale l’immaginario etrusco, che ne ha conservate diverse rappresentazioni, solo in minima parte adattate alla religione etrusca. Secondo la tradizione, mentre era incinta di Atena, Metis fu inghiottita dal marito Zeus per impedirle di generare un figlio maschio, che lo avrebbe spodestato. Insediatasi nella sua testa, la dea (il cui nome significa «saggezza») partorí e il padre degli dèi fu costretto a farsi aprire il cranio da Efesto per farne uscire la neonata Atena.

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Altorilievo di terracotta che decorava la parte centrale del frontone posteriore del tempio A nel santuario di Pyrgi. 470-460 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Le due scene rappresentate appartengono alla saga dei «Sette contro Tebe», e raffigurano due momenti dell’assedio della città: in primo piano, in basso Tideo assale alle spalle Melanippo accingendosi a rompergli la testa con la spada (perduta) per rodergli il cranio; a sinistra Atena/ Menerva si ritrae inorridita, negando allo stesso Tideo la bevanda dell’immortalità che gli aveva portato. In alto, al centro, Zeus/ Tinia si sostituisce a un Tebano per uccidere con un colpo di fulmine Capaneo (che cade a destra), colpevole di aver bestemmiato gli dèi.


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MENERVA

Gli specchi etruschi che raffigurano la scena vedono intervenire in aiuto di Zeus/Tinia alcune divinità levatrici (Thanr, Thalna, Ethausva) e sono concordi nell’attribuire a Efesto/ Sethlans una scure bipenne, utilizzata per la «delicata» operazione, e alla divinità neonata una figura già adulta (seppure in miniatura), armata di tutto punto. In effetti, l’iconografia degli specchi incisi e dei bronzetti mostra Menerva perennemente in armi e spesso in atteggiamento bellicoso, nell’ambito di battaglie mitologiche, ovvero protettivo nei confronti di eroi guerrieri, come Eracle o Perseo. Rispetto alla greca Atena, la dea etrusca non mostra differenze nell’abbigliamento, che comprende l’alto elmo e l’armatura, oltre all’attributo dell’egida: la corazza di pelle di capra su cui è appuntata la testa di Medusa (Gorgoneion), come trofeo e come arma in grado di pietrificare i nemici.

Natura selvaggia Nelle scene di battaglia, però, la sua immagine sembra addirittura piú feroce che in Grecia, come quando, rimasta senza armi durante la guerra contro i Giganti, brandisce a mo’ di clava il braccio strappato a un nemico, mostrando una natura selvaggia e aggressiva apparentemente poco adatta a una divinità olimpica. Ma il suo ruolo di combattente si limita a situazioni che rinviano ai tempi antichissimi del mito, mentre una funzione in cui piú spesso è impegnata nelle rappresentazioni figurate è quella di accompagnare e difendere gli eroi da lei prediletti. Nel caso di Eracle, in particolare, va

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Statua di Atena Promachos, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


Statuetta di bronzo della dea Menerva in atto di scagliare la lancia (oggi perduta). Secondo quarto del V sec. a.C. Modena, Galleria Estense.

Con il braccio destro, in origine, la dea impugnava la lancia che si apprestava a scagliare.

L’armatura di Menerva consiste nell’elmo con alto cimiero e nell’egida, la corazza di pelle di capra al cui centro spicca la testa della Gorgone, indossata su un mantello a tre lembi.

ricordata ancora una volta l’assistenza prestatagli nel corso delle sue fatiche (emblematica è un’antefissa ceretana conservata al Louvre, nella quale la dea appare intenta a ristorare l’eroe seduto), fino ad accompagnarlo sull’Olimpo al momento della sua apoteosi. L’altorilievo della fronte posteriore del tempio A di Pyrgi racconta invece di almeno un caso in cui la protezione di Atena/Menerva venne meno (vedi l’immagine in apertura di questo capitolo): si tratta del mitico Tideo, il quale, nello scontro per la conquista di Tebe, preso dalla

ferocia contro il nemico Melanippo, ormai morente, lo afferrò alle spalle e affondò i denti nel suo cranio. Nel frattempo, vedendolo ferito, la dea era corsa sull’Olimpo ed era riuscita a ottenere l’immortalità per il suo protetto (raffigurata nel rilievo sotto forma di bevanda contenuta in una brocca); ma quando assistette al gesto inumano si ritirò inorridita, rifiutandosi di dare un beneficio cosí grande a un selvaggio. Il significato del mito, che dimostra come gli dèi siano pronti a rovesciare la fortuna di chi viola le leggi sociali del buon comportamento, rende conto anche del ruolo di Menerva come garante della correttezza «cavalleresca» anche in battaglia, che la ferocia non deve e non può deformare in modo infamante. Fin qui le scene mitologiche riguardanti Menerva non si discostano dalla figura della greca Atena, con la quale la dea etrusca condivide anche altre rappresentazioni, come, per esempio, la comparsa assieme ad Afrodite e Hera nel giudizio di Paride. Ma non mancano notizie dell’esistenza di una mitologia etrusca del tutto particolare e purtroppo difficile da indagare, che gettano nuova luce sulla natura di Menerva nel pantheon etrusco.

Un fanciullo misterioso Per esempio, un elemento alieno dal carattere di Atena è il rapporto di Menerva con alcuni bambini divini, documentato da alcuni specchi incisi. In certi casi, la dea sembra consegnare a Hercle (o prendere dalle sue mani) un misterioso fanciullo di nome Epiur, che alcuni studiosi hanno proposto di identificare con un figlio dell’improbabile coppia di dèi. Ma l’ipotesi sembra da rifiutare, dal momento che altre volte Menerva appare intenta a estrarre uno dei piccoli Maris (vedi nel capitolo successivo, alle pp. 80-81) da un vaso, in

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MENERVA

A destra specchio di bronzo inciso con Menerva che esce armata dalla testa di Zeus/Tinia, aperta con un colpo di scure da Efesto/Sethlans, da Arezzo. IV-lII sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. Thanr e Thalna assistono al «parto» prodigioso in qualità di levatrici.

mezzo a un gruppo di altri dèi, nel contesto di un complesso mito etrusco, il cui significato resta per il momento sconosciuto. Si direbbe, pertanto, che la dea etrusca abbia avuto nel mito una funzione anche nei confronti dell’allevamento dei bambini, che, nel caso della greca Atena, può solo vagamente accostarsi al suo ruolo nella crescita di Erittonio, futuro re di Atene. È lecito pensare che tali miti, per noi difficilmente recuperabili in assenza di fonti letterarie narrative, servissero a giustificare alcuni aspetti noti del culto di Menerva, in qualità di dea tutelare dei passaggi di stato dalla fanciullezza all’età adulta. Il culto di Menerva in Etruria è piú diffuso di

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Nella pagina accanto, a sinistra statua in terracotta di Minerva Tritonia, da Pratica di Mare (Pomezia, Roma), area del «Santuario orientale». V sec. a.C. Pomezia, Museo Archeologico «Lavinium».

A sinistra specchio etrusco da Bisenzio. IV sec. a.C. (oggi perduto). Menerva, sulla destra, assiste all’abbraccio tra Turan e Adone; sulla sinistra, siede una terza dea, vestita come Turan. In alternativa la scena si potrebbe interpretare come una variante del giudizio di Paride, con le due dee sconfitte ai lati. L’iscrizione di dedica incisa sullo scudo di Menerva ci informa che lo «specchio sacro» è stato donato da Tite Cale a una «(dea) madre».

quanto lascino intendere i documenti epigrafici diretti in cui si è conservato il nome della dea, che pure sono stati trovati in contesti differenti e distanti da loro. L’unico caso di dedica votiva che si adatti alla figura di dea guerriera rappresentata negli specchi è quello di una coppia di schinieri di bronzo, prodotti in Grecia o nell’ltalia meridionale alla fine del VI secolo a.C. e offerti a Menerva almeno 150 anni piú tardi da un certo Arnth Savpunias, che ha fatto apporre un’identica iscrizione di dono su entrambi pezzi. La differenza di datazione tra l’oggetto e l’iscrizione si spiega probabilmente con l’appartenenza dei pregiati schinieri a un bottino di guerra, attraverso il quale sarebbero giunti in Etruria, per poi essere donati molti anni dopo in un santuario. Ma la loro storia non finisce qui, in quanto essi sono stati trovati nel corredo di una tomba ellenistica della necropoli di Perugia, dove possono essere giunti solo in seguito a una seconda razzia, nella quale Giovanni Colonna ha proposto di riconoscere il saccheggio di cui fu vittima Volsinii (oggi Orvieto) nel 264 a.C., a opera di Roma e dei suoi alleati.

L’aspetto oracolare In tutti i luoghi di culto conosciuti di Menerva, non è però l’aspetto militare a prevalere (sebbene una componente simile sia spesso presente nel caso dei riti di passaggio dei giovani all’età adulta); ad accomunare i santuari della dea è invece la presenza di un aspetto oracolare, che restituisce un significato al suo


| Storie di chiodi e di amori infelici A Roma, nella cella del tempio di Giove Capitolino dedicata a Minerva, era in uso un antico rito di origine etrusca, per cui ogni anno il passare del tempo era scandito dall’infissione di un chiodo nella parete del tempio (clavifixio). Il rito, simbolo dell’inesorabile scorrere del destino, era condiviso con una dea di nome Nortia, venerata nell’etrusca Volsinii, a volte identificata daIle fonti con Fortuna o con Necessitas. Ma, in terra etrusca, un’iscrizione latina, ritrovata a Bisenzio, sul lago di Bolsena, ricorda una dedica a Minerva Nortina, che assicura l’identificazione tra Ie due divinità.

Per trovare un’iconografia greca riferibile a questo aspetto particolare di una divinità del destino implacabile, però, l’incisore di uno specchio etrusco ha preferito non ricorrere alle consuete rappresentazioni di Atena, ma dare piuttosto la veste di una dea alata della cerchia d’Afrodite ad Atropo («l’irremovibile», in etrusco Athrpa): la terza delle Moire, che decideva la morte degli individui. La dea è intenta a conficcare con il martello un chiodo tra due coppie protagoniste di infelici storie d’amore (quelle di Afrodite con Adone e di Atalanta con Meleagro), entrambe conclusesi con Ia morte del compagno.

A destra disegno di uno specchio di bronzo inciso con due coppie di amanti infelici: Afrodite/Turan e Adone/ Atunis a sinistra; Meleagro/Meliacr e Atalanta/Atlenta a destra. Al centro è raffigurata Atropo/Athrpa, nuda e alata, che ribatte il chiodo del destino sulla testa di un cinghiale, alludendo alla fine toccata ai due giovani cacciatori, entrambi morti a causa di tale bestia in una battuta di caccia (Adone) o per rivendicarne le spoglie (Meleagro). Seconda metà del IV sec. a.C.

nome latino che, come abbiamo visto, sembra riferirsi alla chiaroveggenza. In epoca arcaica spicca per ricchezza e quantità di attestazioni votive il santuario veiente di Portonaccio, nel quale erano dedicati alla dea un sacello e un altare. La presenza di una componente divinatoria nel culto è garantita dall’offerta di una cassetta di bucchero per le sortes e dal ritrovamento di una barretta metallica di età romana repubblicana con il nome della dea. Piú recente è

invece il santuario ritrovato a Punta della Vipera, presso Santa Marinella (sulla costa laziale, poco a sud di Civitavecchia), nel quale, oltre ad alcune dediche alla dea, è stato raccolto quello che sembra addirittura un responso oracolare, inciso a lettere minute su una lamina di piombo. Purtroppo il testo è di difficile lettura e interpretazione, ma presenta riferimenti a termini del lessico sacro e a nomi di divinità, che fanno pensare alla complessa descrizione di un rituale. Un culto di Menerva è infine attestato anche nel santuario dell’area Sud di Pyrgi, dove però la dea è un’ospite della coppia titolare, costituita da Cavatha e Suri, anch’essa non priva di risvolti divinatori.

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LARAN E MARIS

LARAN E MARIS

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Scambio di nomi

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Statuetta in bronzo di Laran mentre vibra la lancia (frammentaria), di provenienza sconosciuta. Secondo quarto del V sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Dell’armatura da oplita del guerriero, identificato con il dio Laran, fanno parte: una corazza con corsetto a scaglie che scende sino ai fianchi, una coppia di schinieri, un grande scudo rotondo, un elmo con alto cimiero e paraorecchie sollevati. Tutte le armi sono finemente decorate a rilievo e incisione.

n dato acquisito per gli studiosi di mitologia dassica è l’identificazione del dio della guerra corrispondente all’Ares dei Greci con il Marte latino, il quale, a sua volta, trova un confronto diretto con l’omonimo dio italico, conosciuto anche con il nome di Mamers, da cui quello dei Mamertini. Per gli Etruschi la situazione è piú complessa: il nome Maris, che evidentemente corrisponde a quello del Marte latino-italico, è infatti ben documentato, ma nell’iconografia degli specchi incisi il nome del dio guerriero è Laran. Tale distinzione apre un problema di identificazione di soluzione non facile. La società etrusca arcaica condivideva con le altre civiltà del Mediterraneo l’importanza della figura del guerriero, le cui armi erano il simbolo del rango aristocratico e il cui valore bellico evocava gli antichi eroi del mito. In nessun pantheon del mondo antico, pertanto, poteva mancare una figura divina che presiedesse alla guerra e incarnasse il simbolo religioso della virtú guerriera. L’Etruria non faceva eccezione e, in realtà, sin dall’epoca protostorica sono attestate rappresentazioni di carattere (anche) religioso contenenti uomini armati: sia che si tratti di danze guerriere, che di parate militari o della semplice ostentazione delle armi principesche.

L’arma del principe Almeno a partire dal VI secolo a.C., in alcune di queste rappresentazioni si riconosce la figura di un vero e proprio dio guerriero, generalmente armato di scudo e lancia (l’arma per eccellenza del principe arcaico) e spesso dotato dell’armatura completa, con corazza,

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LARAN E MARIS

| Il Marte viaggiatore All’inizio del XVIII secolo fu ritrovata a Ravenna questa statuetta di bronzo, alta poco meno di 40 cm, raffigurante un guerriero in armatura completa, con elmo, corazza e schinieri, che originariamente imbracciava lo scudo e brandiva una lancia. Subito battezzato «Marte», il bronzetto entrò in possesso del noto antiquario Francesco Ficoroni, che ne dichiarò la provenienza da Perugia, riferendosi probabilmente al mercato antiquario dove l’aveva acquistato. Già nel gennaio del 1724, però, l’oggetto risulta presente a Cortona, presso la Collezione Corazzi, dove rimase a lungo, prima di lasciare l’Italia per approdare alla sua sede definitiva nel Rijksmuseum van Oudheden di Leida in Olanda, dov’è tuttora esposto. Con ogni probabilità la statuetta raffigura il dio della guerra, al quale verosimilmente era dedicata: lungo la gamba destra, infatti, è incisa un’iscrizione etrusca che ne dichiara il dono da parte di un certo Thucer Hermenas a una divinità di cui purtroppo è andato perduto il nome. In base al nome gentilizio, è stato possibile risalire a Orvieto come probabile luogo d’origine del dedicante, che sembra coincidere con il luogo di produzione del bronzetto. Evidentemente il destino della statuetta è quello di viaggiare, dapprima trasportata per mezza Italia per essere offerta in un santuario ravennate, per poi tornare a spostarsi per quasi due secoli dopo il suo ritrovamento fino a emigrare addirittura all’estero.

Statuetta bronzea di Laran armato. Terzo quarto del VI sec. a.C. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. Il bronzetto del dio guerriero, rinvenuto a Ravenna all’inizio del XVIII sec., aveva, in origine, un’armatura completata da un pennacchio crestato sull’elmo, dallo scudo e dalla lancia. Lungo la coscia destra, a partire dallo schiniere, è incisa un’iscrizione etrusca di dedica, in parte incompleta. Vi si legge: «Thucer Hermetras ha donato a...». Il nome della divinità a cui il dono era destinato è andato perduto.

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elmo e schinieri. Occorre però attendere il V secolo a.C., con la produzione di specchi incisi provvisti di didascalie, per poter attribuire un nome corrente a questo dio della guerra. E il nome che viene associato costantemente a tale immagine è quello di Laran. In epoca recente tale dio viene omologato in tutto e per tutto con il greco Ares, con il quale, oltre all’aspetto, condivide la partecipazione ad alcune scene mitologiche al fianco degli altri dèi olimpici. Per esempio, uno specchio inciso da Populonia mostra la partecipazione di Laran, al pari di Ares, alla guerra contro i Giganti, uno dei quali, denominato Cels clan, «figlio della Terra», fugge di fronte a lui, cercando di difendersi a colpi di pietre. In altri casi, il dio armato di lancia è presente in scene generiche di conversazione divina, che a volte sembrano alludere al suo rapporto amoroso con Turan, corrispondente etrusca di Afrodite (vedi oltre, alle pp. 92-97).

Un’identificazione certa L’identità delle caratteristiche del Laran etrusco con il greco Ares è tale che, in realtà, il problema dell’identificazione non si pone: se gli Etruschi avevano un dio della guerra, il suo nome non poteva essere altro che Laran. Sono invece rari i documenti epigrafici del culto del dio, che però compare già all’inizio del V secolo a.C. a San Giovenale, insediamento situato nell’entroterra di Cerveteri (nel territorio del Comune di Blera, in provincia di Viterbo), come titolare di una cerchia divina di cui fa parte il misterioso Lurs. Molto piú recente, del III, se non addirittura del II secolo a.C., è la testimonianza di due cippi confinari da Bettona, nella campagna di Perugia, sui quali è scolpita l’iscrizione tular larns (o larna nell’altro caso), da interpretare come «confine (del santuario) di Laran»; i blocchi iscritti sono pertanto il documento dell’esistenza di un santuario del dio compreso in una zona di necropoli. Piú problematica e intrigante è la figura di Maris, il cui nome deriva da quello latinoitalico di Marte, sebbene le caratteristiche


A sinistra rilievo votivo in marmo con Ares e Afrodite che compiono una libagione. Scuola di Fidia, 420 a.C. circa. Venezia, Museo Archeologico. La scena rivela il rapporto affettivo tra Ares e Afrodite, ritratti come se fossero due coniugi. Il dio, rappresentato nelle sembianze di un guerriero, riceve in una patera il vino che la dea gli porge, allo stesso modo in cui lo offrivano le donne ai propri uomini prima della partenza per una guerra. In basso restituzione grafica del rovescio di uno specchio etrusco inciso con Ares e Afrodite. Seconda metà del IV sec. a.C. Civita Castellana, Museo dell’Agro Falisco. Lo specchio, proveniente dalla necropoli di Corchiano, in provincia di Viterbo, fu trovato nel 1893, all’interno di una tomba. La scena mostra l’abbraccio tra Ares e Afrodite, scoperti da Efesto, consorte della dea. Sulla destra si vede un personaggio nudo, identificato con il greco Alettrione, un servo di Ares che avrebbe dovuto vegliare sulla loro passione segreta. Accanto alle figure sono iscritti i nomi etruschi.

| Amore clandestino Su uno specchio inciso da Corchiano è raffigurato un incontro clandestino tra Afrodite e Ares, sorpresi dal marito di lei, Efesto, che poi si vendicherà imprigionandoli in una rete ed esponendoli alla pubblica derisione. Ai personaggi sono attribuiti i nomi delle divinità etrusche, che non creano problemi per la dea Turan e suo marito Sethlans, già noti in altre attestazioni come omologhi degli dèi greci; per quanto riguarda l’amante, però, al posto dell’atteso Laran, si trova Acaviser, un nome in altri casi attribuito a una divinità femminile del seguito di Afrodite, a dimostrazione delle forzature che a volte ricorrevano nell’assegnazione dei nomi etruschi alle immagini mitologiche. Sulla destra nella scena si nota un quarto personaggio, denominato in etrusco Usletes. Si tratta con ogni probabilità di Alettrione, che, secondo una tradizione mitologica ricordata da Luciano ed Eustazio, era un servo di Ares, posto di guardia dal dio per evitare di essere sorpreso, che cedette al sonno e fu poi punito per la sua negligenza con la trasformazione in gallo (e infatti in greco il suo

nome indica tale animale). Il rapporto possibile tra il nome Usletes e la parola etrusca che indica il sole, Usil, potrebbe indicare che in Etruria vi fosse una corrispondenza tra il nome del personaggio e quello dell’uccello che ogni mattina accompagna con il suo canto il sorgere del giorno.


LARAN E MARIS

del culto e dell’iconografia sembrino essere molto diverse. Le scene raffigurate sugli specchi incisi ellenistici documentano l’esistenza di piú di un Maris, con aspetto diverso a seconda dei casi. Da questo punto di vista è molto significativa la testimonianza di uno specchio volsiniese, sul quale sono stati rappresentati, fra altre divinità, ben tre diversi fanciulli denominati Maris, differenziati tra loro tramite gli epiteti Isminthians, Halna e Husrnana; quest’ultimo, il cui nome significa «il giovanile» ovvero «quello dei giovani», è raffigurato mentre viene estratto da un grosso vaso a opera della dea Menerva. Anche se gli altri due epiteti non sono oggi comprensibili, è sembrato verosimile che in questo specchio i tre aspetti di Maris volessero alludere ad altrettante classi di età, ovvero a stadi differenti della vita del dio, ma non è chiaro in che modo questi concetti potessero entrare in relazione con le altre divinità e soprattutto con Menerva. La dea, infatti, compare anche in una variante della stessa scena su un secondo specchio, che raffigura solo due dei Maris bambini, tralasciando il piccolo Isminthians. E, a complicare ulteriormente le cose, viene inoltre la rappresentazione latina di una scena simile, su una cista prenestina (un contenitore di bronzo per cosmetici), in cui il dio estratto dal vaso da Minerva è proprio Marte, armato di tutto punto, assicurando l’assimilazione della divinità etrusca e di quella latina. In mancanza di fonti narrative, il complicato mito a cui alludono queste raffigurazioni è destinato a rimanere misterioso, anche se non

Il prezioso dono di Ahal Trutitis

Statua di guerriero in bronzo, nota come «Marte di Todi». Ultimo quarto del V sec. a.C. Città del Varicano, Museo Gregoriano Etrusco. La statua, a grandezza naturale, raffigura un guerriero con corazza e lancia (oggi perduta), in atto di offrire una libagione agli dèi, con una patera nella mano destra. L’elmo, eseguito a parte, è andato perduto. Aveva scopo votivo. come documenta l’iscrizione in lingua umbra incisa su una delle fimbrie (dal latino fimbria, letteralmente «frangia») che pendono dalla corazza (ahal trutitis runum rere, «Ahal Trutitis diede in dono»). Anche se ritrovata a Todi, in contesto umbro, il luogo di produzione della scultura è senz’altro etrusco: con ogni probabilità si tratta di Orvieto, città famosa nell’antichità per la fabbricazione di sculture di bronzo.

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sono mancate ipotesi al riguardo, come, oltre a quelle già ricordate, la possibilità che i piccoli Maris fossero figli di Ares e Atena ovvero di Ares e Afrodite, se non addirittura creazioni artificiali di Atena/Menerva, una dea notoriamente sterile.

Il piccolo genio Uno spiraglio per comprendere il significato dei diversi aspetti di Maris viene dalle rappresentazioni di alcuni altri specchi in cui un dio con questo nome è definito come appartenente a un’altra divinità. Si hanno cosí un Maris di Hercle, che accompagna in armi il semidio assieme al fido lolao; un Maris di Turan, giovanile, che assiste assieme ad Alpan all’incontro tra Ares e Afrodite; e un Maris di Tinia (o di Tiu), barbuto, che assiste alla nascita di Atena dalla testa di Zeus. Tutto considerato, l’ipotesi piú probabile sembra quella che in questi casi Maris possa rappresentare una sorta di genio (nel senso latino di spirito vitale) ovvero di divinità ausiliare, parte della personalità di un dio maggiore, del quale prende l’aspetto e alcune caratteristiche. A conferma di questa possibilità si può portare l’accostamento con una Lasa (nome comune di alcune divinità secondarie femminili e alate), al fianco di Tinia su un ulteriore specchio inciso, e, soprattutto, I’epiteto che caratterizza Maris nell’unica attestazione epigrafica votiva pervenuta: harth(ans) sians, «genio e padre», che sottolinea la sua potenza vitale e la connessione con la riproduzione. Se l’ipotesi può essere accettata, il nome di Maris non appartiene a una singola divinità, ma alla personificazione della potenza generatrice di tutte le divinità, similmente ai latini genius (maschile) e iuno (femminile): il collegamento con il nome del Marte latino-italico non passa quindi attraverso la funzione di dio della guerra, ma attraverso quella, assai piú antica e profonda, di dio della vegetazione e della rinascita: ciò spiega, per esempio, il nome del mese di marzo (dedicato al dio), corrispondente all’inizio dell’anno latino in coincidenza con il risveglio della natura a primavera.

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TINIA

TINIA


Le folgori del dio supremo

M

arco Terenzio Varrone, erudito romano dell’età augustea, in un passo dell’opera Sulla Lingua Latina, racconta che nel quartiere etrusco di Roma arcaica (il vicus Tuscus) era presente una statua di Vertumnus, definito deus Etruriae princeps, «il dio principale dell’Etruria». E da Livio e altri autori apprendiamo che a Volsinii (I’odierna Orvieto) esisteva un santuario dello stesso dio, il cui nome è tramandato piú propriamente come Voltumna, presso il quale si tenevano riunioni annuali dei «dodici popoli», ovvero delle delegazioni delle principali città etrusche, che culminavano nell’elezione di un magistrato-sacerdote – che rimaneva in carica per un anno – e nel corso delle quali venivano prese decisioni riguardanti l’intera nazione etrusca.

Divinità suprema L’importanza di questa divinità doveva essere ben maggiore di quella di un culto locale e pertanto è assai strano che sia menzionata solo in un’iscrizione votiva peraltro di lettura incerta (anche se scavi condotti a Orvieto da Simonetta Stopponi stanno portando in luce quello che sembra essere il grande santuario del dio). In un saggio del 1928 lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni (1883-1959) riconobbe che, in realtà, il nome Voltumna non era altro che un epiteto di Tina, il Giove etrusco, al quale doveva pertanto essere attribuito il ruolo di «divinità suprema della religione

Sulle due pagine statuetta di bronzo arcaica raffigurante Tinia in posa regale, con un’asta o scettro nella mano sinistra e nella destra un altro attributo (perduto, ma probabilmente un fulmine), da Populonia. Secondo quarto del V sec. a.C. Malibu, Paul Getty Museum. Il dio etrusco Tina, o Tinia, in cui è possibile riconoscere un’antica divinità del giorno – dal significato della parola etrusca tin, «giorno» – venne assimilato, sin da epoca arcaica, allo Zeus greco, dal quale prese anche l’attributo principale, il fulmine.

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TINIA

In basso testa virile, probabilmente di Zeus, in terracotta policroma, da Orvieto, tempio di via San Leonardo. Inizi del IV sec. a.C. Orvieto, Museo Claudio Faina. Nella pagina accanto specchio di bronzo inciso, da Tuscania. Metà del IV sec. a.C. Firenze, Museo Archeologcio Nazionale. Come si vede

anche dalla restituzione grafica, lo specchio raffigura la consultazione delle viscere di un animale da parte del fanciullo aruspice di nome pava Tarchies, di fronte a un uomo, Avl(e) Tarchunus (forse «figlio di Tarconte»), e a una donna, Ucernei. Ai due lati assistono gli dèi Veltune e Apollo/Rath.

| Il bambino sapiente come un vecchio Secondo un’antica tradizione etrusca ricordata da Cicerone nel De divinatione, le basi della disciplina etrusca furono fondate dal mitico Tagete, che aveva «l’aspetto di bambino ma la sapienza di un vecchio», scaturito dal solco profondo tracciato da un aratro nella campagna di Tarquinia. L’insegnamento del fanciullo prodigioso fu impartito ai principi di tutta l’Etruria e trascritto nei cosiddetti libri Tagetici, entrati a far parte della raccolta dottrinale della religione etrusca, purtroppo per la massima parte andata perduta. La scena rappresentata su uno specchio inciso da Tuscania della metà del IV secolo a.C. sembra da riferire a questo mito: vi compare infatti un fanciullo (di nome pava Tarchies) nell’atto di «leggere» il fegato di un animale di fronte a un uomo dotato di bastone (Avl(e) Tarchunus) e a una donna (Ucernei). Ai lati, due dèi assistono al prodigio: Apollo/Rath, titolare del santuario in cui è ambientata la scena, e Veltune,

etrusca». Si trattava, in sostanza, di uno degli aspetti del padre degli dèi, in qualità di protettore dell’Etruria intera. Per analizzare i vertici del pantheon etrusco, quindi, conviene spostare I’attenzione su Tina. Il nome Tina, che spesso compare anche nella forma Tinia, è uno dei pochi di cui si può comprendere appieno il significato: in etrusco, infatti, la parola tin vuol dire «giorno», e pertanto in Tina va riconosciuta la divinità del giorno.

I «ragazzi di Zeus» Ma già almeno dal VI secolo a.C., quando l’iconografia e le iscrizioni permettono di avere informazioni precise, il nome di Tina sembra strettamente legato alla figura dello Zeus greco, al punto che, alla fine del secolo, i suoi due figli per eccellenza, i Dioscuri (in greco letteralmente «i ragazzi di Zeus»), vengono «tradotti» in una dedica etrusca come Tinas cliniiar, «i figli di Tina». Pertanto, colui che in origine era il dio del giorno, venne assimilato in quanto padre (e capo) degli dèi a Zeus, del quale prese anche l’attributo principale: il fulmine.

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barbuto e armato di lancia. Con ogni probabilità lo specchio restituisce qualche elemento del mito etrusco, collegandolo con Tarconte, l’antico fondatore di Tarquinia e dell’Etruria, di cui Avle potrebbe essere il figlio, e ponendo l’azione del fanciullo sapiente in relazione con un luogo di culto di Rath, verosimilmente ben riconoscibile nella topografia della città di Tarquinia. La presenza di Veltune (in cui è impossibile non riconoscere il volsiniese Voltumna) sembra voler ricondurre all’epoca delle origini la tutela esercitata da questo dio nei confronti dell’Etruria intera, proiettando nel passato una funzione religiosa nata in rapporto con le riunioni annuali dei «dodici popoli» nel santuario orvietano.

A questo proposito, va ricordato che tra le arti divinatorie di cui gli Etruschi erano maestri, un posto particolare spettava alla scienza dei fulguriatores, che interpretavano il significato dei fulmini in base al colore e alla posizione nel cielo. Tra le poche informazioni che le fonti letterarie hanno tramandato su questa tecnica, si sa che Giove era l’unico tra tutti gli dèi a poter scagliare saette da ogni sede celeste, e che aveva a disposizione tre categorie diverse di fulmini, ordinate secondo il terrore che il presagio doveva incutere. Uno spaccato delle sedi divine nel cielo secondo la dottrina etrusca viene dal nastro esterno del noto Fegato di Piacenza, in cui sono riportate le sedici caselle corrispondenti ad altrettante posizioni celesti. In base a quanto si è detto, quindi, non stupisce che a

Tina siano dedicate ben tre caselle (le prime, secondo l’interpretazione piú diffusa), a dimostrazione della speciale libertà di azione del padre degli dèi nelle questioni divinatorie.

Per osservare le sedi degli dèi E un’ulteriore conferma viene dalla dedica a Tina di una delle due tabelle di travertino dal santuario di Castelsecco presso Arezzo, destinate a individuare, per chi osservava il cielo dal cosiddetto auguraculum, le diverse sedi (in etrusco lut) appanenenti agli dèi. La tutela esercitata da Tina nei confronti della cosiddetta «disciplina etrusca» – ovvero l’insieme di scienze religiose per le quali gli Etruschi andavano famosi in tutto il mondo antico – viene confermata dalla dedica di due statuette di

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TINIA

sacerdoti aruspici in un santuario della campagna di Siena tra la fine del IV e l’inizio del lII secolo a.C. E, in effetti, il testo etrusco della cosiddetta «profezia di Vegoia», conservato in traduzione latina nella raccolta degli agrimensori romani che va sotto il nome di Gromatici veteres, riferiva a Giove la consacrazione e la tutela delle pietre di confine: altro cardine della dottrina etrusca, tutta fondata sulla corretta divisione degli spazi nel cielo e sulla terra. All’inizio del I secolo a.C., quando la guerra civile di Mario e Silla che sconquassò l’Italia causò la fuga all’estero di alcuni Etruschi (presumibilmente di parte mariana), un gruppo si insediò presso Smindja, in Tunisia, come documentano tre cippi confinari posti da un certo Marce Unata, secondo un rituale di consacrazione a Tina, ricordato dalle iscrizioni ripetute molte volte su ogni cippo. Evidentemente gli esuli, che chiamavano se stessi Dardani, forse includendo nel richiamo mitistorico sia gli Etruschi che i Latini, chiedevano la protezione del padre degli dèi per la nuova colonia.

Ma aveva anche un aspetto infero Il legame con la terra, evidente nella tutela della sua divisione, apre una finestra su un altro aspetto del padre degli dèi in Etruria. Sono numerose, infatti, le attestazioni di culto che ne fanno un dio sotterraneo e a volte connesso con gli Inferi. Una coppa a vernice nera della prima metà del III secolo a.C., ritrovata nel santuario del Belvedere di Orvieto,

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In alto, sulle due pagine particolare della decorazione esterna di una coppa attica a figure rosse, opera del pittore Oltos e del vasaio Euxitheos, da Tarquinia. 510 a.C. circa. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale. L’iscrizione di dedica sotto il piede del vaso si rivolge ai Dioscuri chiamandoli Tinas cliniiar, «figli di Tinia». A sinistra statuetta bronzea di Tinia, che brandisce il fulmine, raffigurato con l’aspetto del cosiddetto «fiore di fuoco». Metà del V sec. a.C. Heidelberg, Archäologisches lnstitut der Universität.


A destra statuetta in bronzo di Tinia, nudo e in posizione di riposo, con il fulmine nella mano destra abbassata e il mantello ripiegato sulla sinistra. Prima metà del IV sec. a.C. Baltimora, Walters Art Gallery.

reca dipinta un’iscrizione etrusca di consacrazione a Tinia Calusna, che riconduce il culto del dio nell’ambito della cerchia di Calus, la principale divinità dell’Oltretomba. Da altre attestazioni si sa che il luogo sacro era dedicato al dio Suri, l’oscuro Apollo infero della tradizione etrusca, al quale forse l’aspetto sotterraneo di Tina poteva essere assimilato. Nello stesso santuario sono state trovate altre tracce del culto del Giove etrusco, fra le quali spicca la presenza di un cippo in pietra nera con un fulmine a rilievo e di alcuni altari forati, di un tipo diffuso in Etruria, definito «a bothros» e destinato a ricevere offerte liquide per le divinità sotterranee.

Preghiera in versi Un’altra coppia di altari simili è stata ritrovata a Bolsena, nel santuario del Poggetto, e altri due vengono da Orvieto: in tutti e quattro i casi un’iscrizione etrusca ne registra la consacrazione a Tina. All’epoca in cui erano in funzione, tali altari venivano infissi verticalmente nel suolo e un condotto che li attraversava da parte a parte portava nel terreno le libagioni che vi venivano versate all’interno. Una realizzazione monumentale di tale tipo di altare è nota a Pyrgi (il porto di

Caere), nell’area C del santuario monumentale, ancora una volta in relazione al culto di Tina, come registra una preghiera in versi incisa su una lamina di bronzo, che ripete il nome del dio con gli epiteti Thvariena e Atalena, assieme a quello della sua consorte Uni Chia.

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UNI

Dalla parte delle donne

C

aratteristica principale della dea etrusca Uni, cosí come della Giunone del mondo latino (Iuno), è l’essere consorte del padre degli dèi e, di conseguenza, figura esemplare di madre e di regina. Da questa condizione deriva una serie di attribuzioni della divinità, posta a tutela della

fertilità e del matrimonio, ma anche dell’aspetto eroico e regale di principi e condottieri e perfino invocata a protezione dell’integrità di alcune delle piú importanti città d’Etruria. Nonostante vi siano ampie tracce di figure divine femminili connesse con la regalità sin dall’epoca protostorica, l’identificazione di Uni nel culto può affermarsi con certezza solo a partire dall’età arcaica avanzata, quando l’iconografia di origine greca ispirata a Era, moglie di Zeus, e le iscrizioni sacre documentano la sua immagine e il suo nome. Il piú importante luogo di culto di Uni finora scavato in Etruria è, ancora una volta, il santuario monumentale di Pyrgi.

Ringraziamento regale

UNI

All’interno dell’area sacra l’edificio piú antico, il tempio B, era stato offerto alla dea dal tiranno di Caere (l’odierna Cerveteri), Thefarie Velianas, nel terzo anno del suo regno (da collocare poco prima della fine del VI secolo a.C.), come recita l’iscrizione di consacrazione del tempio incisa sulle famose lamine d’oro (vedi foto a p. 90), un tempo affisse alla porta dell’edificio. Il re tiranno della città aveva voluto onorare la dea in ringraziamento dell’aiuto prestatogli per l’ascesa al potere: un vero e proprio ex voto, in occasione del quale la presenza di una traduzione fenicia (su una seconda lamina), in cui la dea è assimilata ad Astarte, chiarisce quale fosse la politica estera di Thefarie Velianas, incentrata sull’alleanza con Cartagine. Si è ipotizzato che al culto della dea fenicia fosse associato il rito della prostituzione

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Qui sopra disegno di uno specchio di bronzo inciso con la nascita di Atena/ Menerva dal capo di Zeus/Tinia, con l’aiuto di Era/Uni e di Thalna in funzione di levatrici. A sinistra bronzetto etrusco di Iuno Sospita (Giunone Ausiliatrice), accezione della divinità come protettrice della città. Inizi del V sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. La dea, armata, avanza contro un avversario. Il braccio sinistro impugnava un’arma (perduta), mentre il destro, di cui manca l’avambraccio, era sollevato indietro. L’abbigliamento si compone di un chitone e di un himation (una sorta di mantello), ed è completato da una pelle di capra, che copre anche il capo con le corna in vista ed è allacciata sul petto per le zampe anteriori.


Busto di una statua di terracotta, dal secondo santuario falisco di Civita Castellana in località Scasato. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Nella scultura, che rappresenta la divinità falisca corrispondente a Era e Giunone del mondo dassico, ovvero alla Uni etrusca, va probabilmente riconosciuta l’immagine di culto vera e propria.

sacra, a cui sembra alludere un passo del poeta latino Lucilio e che spesso è connesso con riti della fertilità di origine orientale: a tale scopo è probabile che fosse destinato il lungo edificio delle Venti Celle, che chiudeva verso sud l’area del santuario. Ma il luogo sacro aveva una tradizione assai piú antica, testimoniata da scarsi ritrovamenti, in cui probabilmente l’aspetto di Uni non aveva ancora acquisito connotati orientali. A questo culto piú antico, presumibilmente a scopo di espiazione, sembra dedicata l’area C, posta a fianco del tempio B sin dalla sua fondazione e destinata a offerte sotterranee per Tinia e per la sua consorte Uni, qualificata con l’appellativo tutto etrusco di Chia.

Un epiteto dal significato oscuro Lo stesso epiteto, piuttosto raro e ancora di significato oscuro, è attestato nel cuore di Caere, la città madre da cui dipendeva il porto di Pyrgi, in cui l’area sacra di Vigna Parrocchiale ospitava senz’altro il culto di Uni, assieme a quelli di un ignoto dio «padre», forse lo stesso Tinia, e di un’altra divinità materna, Vei. E un culto della dea in chiave cittadina sembra documentato anche dalla base di una statuetta cortonese del IV-III secolo a.C., consacrata proprio «alla Uni di Cortona», «Unial Curtun[...]». La venerazione ufficiale di Uni all’interno delle città, in una

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UNI

Le lamine d’oro scoperte a Pyrgi, iscritte in etrusco (a sinistra e a destra) e in punico (al centro). Registrano la dedica del tempio B alla dea Uni-Astarte da parte del re-magistrato di Caere (Cerveteri) Thefarie Velianas, e alcune azioni di carattere sacro compiute in seguito dallo stesso personaggio. Rinvenute nel 1964, erano originariamente affisse alla porta del tempio tramite alcuni chiodi dalla capocchia d’oro. Ultimo decennio del VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

funzione che sembra richiederne la protezione, conferma quanto si può ricavare dalle fonti latine e greche, che piú volte fanno riferimento a culti pubblici della dea etrusca. Esemplare è il caso di Veio, che era posta sotto la tutela di luno Regina, secondo la testimonianza di Tito Livio, il quale ci informa dell’esistenza di un culto «poliadico» (ovvero a protezione della città), nel cuore stesso dell’acropoli. L’efficacia religiosa della protezione della dea nei confronti di Veio è assicurata dal rituale della evocatio, messo in atto dal condottiero romano Furio Camillo prima di procedere alla conquista della città (Veio fu la prima città etrusca a cadere sotto il dominio di Roma, n.d.r.): «Ti supplico, o Giunone Regina, che ora

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proteggi Veio, di seguirci quando torneremo vincitori nella nostra (e tra poco tua) città, dove ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza». E Livio non manca di notare come tale «tentativo di corruzione» degli dèi nemici avesse effetto proprio grazie alla promessa di costruire nuovi templi nella città vincitrice.

Al tempo dell’assedio di Perugia Lo storico greco Appiano, invece, nel raccontare l’assedio di Ottaviano a Perugia, ne ricorda l’appartenenza al novero delle dodici piú antiche e venerande città etrusche (la cosiddetta dodecapoli fondata dal mitico Tarconte) e di conseguenza l’antichità del culto di Era, insediato dai tempi degli Etruschi.


del padre Tinia su uno specchio inciso di provenienza ignota, in un ruolo che altrove spetta a Thanr ovvero ad altre dee levatrici. E a queste caratteristiche sembra associarsi anche un’immagine di nutrice divina, testimoniata dallo specchio in cui allatta Hercle ormai adulto, adottandolo cosí tra gli dèi olimpici. Nel culto, il riflesso di tale aspetto della dea è reso evidente dalla presenza di ex voto a forma di utero o di mammella o ancora di statuette di bimbi in fasce, rinvenuti in alcuni santuari a Cerveteri come a Vulci e altrove. Ma in questi casi si osserva che spesso alle dediche e consacrazioni in cui compare il nome della dea si associa la presenza di altre divinità femminili di caratteristiche affini, come Turan (l’Afrodite etrusca) a Gravisca, ovvero Vei (corrispondente di Demetra) ancora a Gravisca, ma anche a Vulci, a Caere e forse a Pyrgi.

Nel mese della dea

Ripresa aerea dei resti del santuario di Pyrgi: dal basso verso l’alto, i due templi A e B, fra i quali è interposta l’area C (coperta da una tettoia), da cui provengono le lamine d’oro (vedi pagina precedente). In alto, il castello di Santa Severa, sorto in corrispondenza del sito in cui si trovavano gli impianti portuali della cittadina etrusca.

Appare evidente come dietro il nome latino e greco della regina degli dèi si celino altrettanti culti di Uni, ma ancor piú precisa sembra l’identificazione della dea di Pyrgi con llizia: un attributo che in Grecia era assegnato alla dea Era in qualità di protettrice delle nascite. Tale puntuale assimilazione intendeva riconciliare i due aspetti della figura divina di Uni: in quanto sposa di Tinia/Zeus, infatti, come si è detto, Uni era venerata anche e soprattutto in funzione di dea della fertilità e garante del matrimonio, spesso specializzata nella protezione dei bambini, come la corrispondente luno Lucina della tradizione romana. La tutela delle partorienti è provata dal suo intervento alla nascita di Menerva dalla testa

La tutela del matrimonio, infine, potrebbe essere documentata dall’iscrizione di dedica su uno specchio inciso conservato ai Musei Vaticani, in cui è menzionata una coppia, Anaia e Tite Turnas, nel contesto di un rituale compiuto «nel giorno Uniapelis», in cui si può forse riconoscere una festa della dea. L’esistenza di feste o celebrazioni in onore di Uni è documentata anche da altri indizi, tra cui la testimonianza della terza lamina d’oro di Pyrgi, apparentemente fatta incidere dallo stesso Thefarie Velianas a qualche anno di distanza dalle prime due. Nel testo etrusco (che in questo caso, purtroppo, non è corredato da una traduzione in fenicio) si allude ad alcune azioni compiute dal tiranno, ed è menzionato un riferimento al calendario etrusco: «masan, mese dell’Unia» (tiur unias). Sembra allettante in questo contesto pensare che si alluda a una celebrazione (o un rituale periodico) in onore della dea: un’ipotesi confortata dalla constatazione che nel testo del calendario rituale conservato nelle bende della Mummia di Zagabria, assai piú recente, il mese di masan viene menzionato proprio in relazione a un’offerta nel tempio di Uni.

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TURAN

TURAN

Quando l’amore è un tiranno Specchio di bronzo inciso con raffigurazione di Turan che incorona Thalna, la dea etrusca protettrice delle nascite. Secondo quarto del IV sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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e scene rappresentate sugli specchi etruschi incisi sono generalmente connesse con la sfera femminile e, in particolare, con la bellezza, il matrimonio e l’amore, ed è per questo che il maggior numero di rappresentazioni iconografiche riguarda Turan, corrispondente etrusca di Afrodite e Venere. Dal «giudizio di Paride» agli amori adulteri con Ares e dalle scene di toletta all’infelice storia di Adone, la dea appare protagonista di numerose rappresentazioni, tutte tratte dal mito greco, a dimostrazione della profonda ellenizzazione della sua figura. Ma il culto di Turan, il cui nome si è voluto far risalire alla base del greco tyrannos, «tiranno», riferendolo a un antichissimo passato pre-ellenico, è assai antico in Etruria, e aveva probabilmente caratteristiche proprie e autonome rispetto all’Afrodite del mito dassico. La piú antica attestazione certa del culto della

Simulacro in terracotta a forma di urna raffigurante Adone morente, da Tuscania. Seconda metà del lII sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Ferito da un cinghiale, il giovane amante di Afrodite, a cui corrisponde l’etrusca Turan, giace su un letto riccamente addobbato. Gli stivaletti di pelle e il cane che lo veglia alludono alla sua condizione di cacciatore sfortunato, che dà inizio alle sue vicende oltremondane.

dea risale alla prima metà del VI secolo a.C. e proviene dal deposito votivo dell’altare di Menerva nel santuario di Portonaccio a Veio. Si tratta di una brocca in bucchero, frammentaria, sulla quale corre un’iscrizione graffita di dedica a Turan, in associazione con Aritimi, che corrisponde, anche nel nome, all’Artemide dei Greci. Purtroppo, la sola iscrizione votiva non dice molto sul culto di queste dee, salvo la loro tendenza ad associarsi in gruppi di divinità femminili che, a Portonaccio, erano evidentemente ospitate nel luogo sacro a una di loro.

Nel porto di Tarquinia Poco piú tardi, a Gravisca (presso il porto di Tarquinia, n.d.r.), inizia invece la documentazione di un santuario in cui si celebrava la dea Turan: si tratta, in realtà, del luogo di culto di un insediamento emporico dei mercanti greci nel territorio della città di

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TURAN

In basso statuetta in bronzo di Afrodite/Turan, armata, che originariamente brandiva la lancia e lo scudo (oggi perduti), ritrovata nel santuario di Gravisca. Metà del VI sec. a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

Veduta aerea del santuario di Gravisca, presso il porto della città etrusca di Tarquinia. Il santuario ospitava uno dei piú importanti luoghi di culto dedicati a divinità femminili, tra le quali un posto di primo piano spettava ad Afrodite/Turan, ed era aperto alla frequentazione di mercanti greci, che hanno spesso lasciato traccia della propria presenza con iscrizioni di dono sul vasellame. Gli scavi nel sito hanno anche permesso di identificare un Adonion, cioè un santuario di Adone, dedicato al rito orientale della fertilità.

Tarquinia, in vicinanza del mare, nel quale gli stranieri potevano venerare le proprie divinità ed effettuare scambi e incontri con la popolazione locale sotto la protezione delle autorità cittadine. Numerose sono le dediche iscritte in lingua greca su vasellame di importazione, del quale sono stati ritrovati numerosi frammenti, ma, dalla metà del VI secolo, non mancano testi di consacrazione in etrusco che assicurano l’identificazione diretta di Turan con Afrodite da parte dei frequentatori del luogo sacro. Anche in questo caso al culto della dea si affianca quello di altre divinità femminili, tra le quali si segnalano Demetra/Vei ed Era/Uni, anche se è la venerazione per Turan ad avere la durata maggiore, continuando almeno fino all’inizio del lII secolo a.C. La precoce assimilazione cultuale di Turan e Afrodite dimostra l’effettiva coincidenza delle sfere d’azione delle due divinità e, al contempo, dà conto della notevole

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trasformazione del culto della dea in chiave greca. In effetti, gli scavi condotti nel santuario di Gravisca hanno consentito a Mario Torelli di identificarvi un Adonion, ovvero un santuario di Adone: una divinità di origine orientale presto inserita nel mito e nel culto dell’Afrodite greca.

Una fatale battuta di caccia Secondo la mitologia, il giovane divino, il cui nome nelle lingue semitiche significa semplicemente «Signore», fu amato teneramente da Afrodite, finché la sorte non ne decretò la fine nel corso di una battuta di caccia al cinghiale. L’amore della dea, però, era tale che valse al giovane il permesso di tornare in vita; ma al miracolo si frappose il desiderio di Persefone, la regina dell’Aldilà, la quale, invaghitasi di Adone, non voleva piú lasciarlo tornare nel regno dei vivi.


| Una scelta sventurata Il mito per eccellenza della bellezza e dell’amore è il racconto del «giudizio di Paride», chiamato a stabilire quale fosse la piú bella tra le grandi dee dell’Olimpo. Il nobile pastore subí allora un vero e proprio tentativo di corruzione da parte di ciascuna delle dee, che gli offrirono rispettivamente il potere (Era), la sapienza (Atena) e l’amore della donna piú bella del mondo (Afrodite). Tutti sanno quali sventure portò la scelta del giovane, che designò Afrodite come vincitrice e ne ottenne l’amore di Elena, causando cosí le vicende luttuose della guerra di Troia. Ma l’immagine simbolica della vittoria dell’amore, da preferire a tutti gli altri piaceri della vita, fu fatta propria dall’iconografia classica e ripetuta innumerevoli volte su vasi dipinti e specchi incisi. In Etruria, il giovane figlio di Priamo chiamato a giudicare la contesa tra le dee prende di regola il nome di Alessandro (Alcsentre), secondo una variante del mito greco, mentre la vittoria di Afrodite/Turan appare evidente dall’atteggiamento della dea, spesso seduta in trono e a volte assistita da un’ancella.

Il giudizio del padre degli dèi a riguardo fu perentorio: ogni anno, Adone avrebbe trascorso quattro mesi con Afrodite e quattro con Persefone; i restanti quattro sarebbero stati lasciati a sua discrezione. Ovviamente il giovane decise di trascorrere questi ultimi con la dea dell’amore, con gran dispetto della sua rivale, ed è per questo che la natura sembra fermarsi nei mesi invernali (la morte di Adone), per risvegliarsi solo con l’arrivo della primavera e la bella stagione (la sua rinascita annuale). L’Adonion di Gravisca è finora l’unico luogo sacro conosciuto in Etruria dedicato al rito orientale della fertilità, ma la popolarità del mito di Adone e Afrodite è dimostrata dalla grande quantità di specchi incisi in cui è raffigurato l’abbraccio tra la dea dell’amore e il suo giovane amante. Tuttavia, rispetto all’Afrodite greca, Turan mostra anche alcune caratteristiche particolari, che sembrano piuttosto avvicinarla ad alcuni aspetti della Venere latina, chiamata in causa anche nel contesto di culti funerari, con l’appellativo di

Specchio di bronzo inciso con il «giudizio di Paride». Fine del IV sec. a.C. Bloomington, Indiana University Art Museum. Paride/Alessandro (sulla destra) sta per decretare la vittoria di Turan, seduta in trono e assistita dall’ancella Althaia, mentre le altre due dee, Uni e Menerva, sembrano renderle omaggio. Nello spazio superiore si intravede la quadriga della dea dell’Aurora, mentre in basso è raffigurato Ercole infante, che strozza i serpenti, per errore denominato Iolao (Vilae).

Libitina. Un’iscrizione di consacrazione tardo-arcaica a Turan, ritrovata in una tomba di Pontecagnano, nella Campania etrusca, dimostra che la dea poteva essere invocata a protezione dei defunti, cosí come è stato visto anche per altre divinità celesti del pantheon etrusco, come Thesan e i Dioscuri.

La cerchia di Thanr Altrettanto problematica è l’associazione con Selvans, un dio al quale era affidata soprattutto la tutela dei confini, nella dedica di una statuetta di bronzo raffigurante un giovane nudo proveniente da Chiusi e ora conservata al British Museum di Londra. Al nome della dea viene in questo caso aggiunto l’aggettivo thanra, che la qualifica come appartenente alla cerchia di Thanr, dea protettrice dell’infanzia e dotata di caratteristiche funerarie (vedi il capitolo alle pp. 28-33): tutto sommato è probabile che l’offerta votiva fosse rivolta agli

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TURAN

Sebbene assimilata a quella di Afrodite, l’identità di Turan sembra avere avuto anche valenze funerarie A sinistra lekythos ariballica a figure rosse con le immagini di Afrodite e Adone. 410 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, in alto restituzione grafica di uno specchio di bronzo inciso, rinvenuto a Tarquinia nel 1870, con la raffigurazione di Afrodite/Turan riccamente abbigliata e seduta in compagnia di Adone/Atunis; quest’ultimo è insolitamente raffigurato come un uomo maturo, barbuto e incoronato di alloro, con un lungo bastone simile al caduceo di Ermes. L’attuale luogo di conservazione del manufatto è sconosciuto. Nella pagina accanto, in basso disegno ricostruttivo di un vaso a vernice nera (kothon) con alto piede sagomato, proveniente da una tomba a fossa della necropoli di Pontecagnano (Salerno). L’iscrizione graffita sulla ceramica, di cui sono illustrate la restituzione grafica e la fotografia, conserva il nome della dea Turan, invocata a protezione del defunto nella vita dell’Aldilà. Il manufatto originale, datato tra la fine del VI e l’inizio del V sec. a.C., è esposto nel Museo Archeologico di Pontecagnano.

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dèi che sovrintendono ai limiti della vita umana: sia quelli fisici (Selvans, protettore dei confini), che quelli temporali (Turan e Thanr, che presiedono alla nascita e alla morte).

Un rituale amoroso Come abbiamo già osservato, la tendenza a formare associazioni divine che intervengono in un’unica sfera d’azione e sono poste sotto la presidenza di una di esse è caratteristica comune a molte divinità etrusche. Il fenomeno è però particolarmente evidente per Turan, per via della ricchezza della documentazione iconografica, che mostra un’ampia serie di «divinità minori», che ruotano attorno all’amore, alla bellezza, al matrimonio e alle nascite. Un’antichissima iscrizione etrusca graffita sul piede di un calice di bucchero, proveniente da una tomba di Narce (sito falisco che si trova tra le odierne Mazzano Romano e Calcata, in provincia di Viterbo, n.d.r.), fa riferimento a un rituale presumibilmente di carattere amoroso (sono noti casi coevi di iscrizioni greche di carattere erotico e conviviale): in tale contesto la parola turaniria, costruita sul plurale di Turan, sembra indicare in un solo concetto l’insieme delle cose che riguardano Afrodite e la sua cerchia. A conferma di questa ipotesi, piú avanti, nello stesso testo, ricorrono i nomi di due dee minori, aiutanti di Turan: Achavisr ed Ethausva; a queste le didascalie degli specchi aggiungono i nomi di Alpan, Thalna, Munthuch e altre ancora. Nella mitologia figurata degli specchi, tali nomi appartengono ad ancelle divine della dea, intente a ornarla o a portarle accessori per la toletta, o ancora a trascorrere il tempo in conversazione. Lasciandoci intravedere l’immagine ideale di un gineceo, di come doveva apparire la vita quotidiana di una dama aristocratica etrusca.

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SURI

Nero come l’Inferno

L

a ricostruzione della fisionomia dell’Apollo etrusco, di cui gli storici greci ricordano a piú riprese l’importanza, presenta difficoltà e contraddizioni che ne fanno una figura sfuggente. E la corrispondenza ideale con il luminoso dio profetico della tradizione greca è solo parziale e passa per alcune caratteristiche del culto e il collegamento con la divinazione (di cui l’Apollo greco era il campione, grazie alla fama mediterranea del suo santuario di Delfi e delle Sibille). Perciò, per descrivere il dio etrusco e i suoi molti nomi di culto, occorre accantonare pregiudizi o apparenze, per non attribuirgli aspetti che non gli appartengono.

SURI

Sacrifici umani In un passo del poeta latino Ovidio, che riprende una notizia del greco Callimaco, si legge che, nell’assedio navale alle isole Lipari, gli Etruschi avevano promesso di sacrificare ad Apollo il piú valoroso dei coloni greci liparesi: un certo Teodoto. Il che avvenne, «anche se le vittime umane non sono mai ben accette agli dèi», come osservò amaramente un anonimo commentatore latino. La tradizione di offrire in sacrificio agli dèi i nemici catturati è ben nota nella letteratura latina che racconta le guerre tra Roma e Tarquinia: si direbbe che la religione etrusca ritenesse accettabili i sacrifici umani e che tale usanza facesse inorridire i loro piú «civili» avversari greci e romani. La piú antica notizia di questa pratica è ricordata da Erodoto in relazione alla grande battaglia navale che, attorno al 535 a.C., vide contrapposti gli Etruschi di Cerveteri e i Greci focei che avevano colonizzato la Corsica e la usavano come base per incursioni piratesche nel Mar Tirreno. Lo scontro fu epico e costò gravi perdite agli Etruschi e ai loro alleati cartaginesi, i quali però, alla fine, risultarono vittoriosi e portarono con sé numerosi

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prigionieri, che vennero condotti a Cerveteri (l’antica Caere) e lí lapidati. Secondo Erodoto, l’ira degli dèi non tardò a manifestarsi e dal luogo della strage partí una terribile epidemia che minacciava la città; fu immediatamente inviata un’ambasceria a interrogare l’oracolo di Apollo a Delfi, che ordinò di offrire sacrifici periodici agli spiriti dei Focei lapidati e di istituire giochi ginnici ed equestri in loro onore. Anche in questo caso, seppure indirettamente, la letteratura classica collega il sacrificio umano al culto dell’Apollo etrusco, ma sottolinea la differenza di quest’ultimo dal corrispondente dio greco, che rifiutò l’empia offerta e tramite l’oracolo di Delfi impose ai Ceretani di onorare i propri nemici.

Molti nomi per lo stesso dio Grazie ad altre notizie, è possibile dare un nome all’Apollo etrusco; anzi, in realtà, i nomi sono piú d’uno: infatti, secondo Claudio Eliano, era dedicato ad Apollo il santuario di Pyrgi saccheggiato dal tiranno Dionigi di Siracusa, che le iscrizioni etrusche ci dicono consacrato a Suri (oltre che a Cavtha); ma a Pontecagnano, vicino Salerno, le dediche greche ad Apollo sono associate a un’iscrizione etrusca a Manth. Inoltre, uno specchio inciso da Tuscania mostra l’immagine di Apollo, con in mano un

Sulle due pagine Tarquinia, Tomba dell’Orco Il. Particolare di una delle pitture murali del sepolcro che comprende una delle piú vivide rappresentazioni etrusche degli Inferi: la coppia dei divini signori dell’Aldilà, che prende i nomi dai corrispondenti dèi greci Ade/Aita e Persefone/ Phersipnai. Seconda metà del IV sec. a.C.


ramo d’alloro (la sua pianta sacra), e la didascalia lo identifica come Rath: un ulteriore nome per lo stesso dio. Successivamente, alcune dediche etrusche recenti dimostrano che, almeno a partire dal IV secolo a.C., in Etruria fu introdotto anche il nome del dio greco, seppure in una forma modificata secondo la fonetica della lingua etrusca: Aplu. Ma non è finita: un nuovo prestito dal pantheon latino portò in Etruria il nome di Veiove: un dio antichissimo, venerato sul Campidoglio, che, secondo le fonti, aveva le sembianze di un Giove bambino oppure di un Apollo armato di frecce, ma senza l’arco. Il suo nome – letteralmente «l’anti-Giove» – era noto nelle due forme alternative di Vedius e Veiovis, puntualmente prestate all’etrusco (Vetis e Veivis) per essere usate in alternativa agli altri nomi di Apollo.

Epiteti «eufemistici» Come possiamo spiegare tale varietà? Sembra evidente che per gli Etruschi la divinità identificata con Apollo, dal carattere infero e vendicatore, spesso non veniva chiamata con il suo vero nome: un po’ come il dio degli Inferi greco, in genere invocato coi nomi di Ade o di Plutone, letteralmente l’«Invisibile» e il «Ricco» (e «Ricco Padre» era anche il significato del latino Dis Pater, dio con la stessa funzione). Tali epiteti, definiti «eufemistici», avevano lo scopo di nascondere il nome delle divinità funeste, per evitare di attirare la loro sgradita attenzione. Allo stesso modo è probabile che anche l’Apollo infero etrusco fosse invocato con diversi epiteti a seconda del tipo di culto. Ma qual era il suo nome genuino (ammesso che sia uno di quelli noti)? Nel commento all’Eneide di Virgilio che va sotto il nome dell’erudito latino Servio, si ricorda che le città etrusche della Pianura Padana furono fondate dal mitico Tarconte che le consacrò all’infero Dis Pater, che in etrusco aveva il nome di Mantus; e a questo dio è ispirato il nome di Mantua (l’odierna Mantova) e di altri centri minori dell’Etruria, come Manziana e Monterano. A una forma onomastica simile si ispira

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SURI

Mantrns, il dio al quale è stata dedicata a Cortona una statuetta raffigurante un bambino in atto di offrire due frutti. Potrebbe quindi essere questo, secondo Giovanni Colonna, il nome piú antico del dio infero etrusco, al quale, nel tempo, si sono sostituiti epiteti eufemistici e nomi di origine straniera. Tra questi ultimi, va ricordata anche la presenza di didascalie con il nome di Aita o Eita (corrispondenti al greco Ade) accanto alla figura banchettante del dio dell’Aldilà negli affreschi tombali di Tarquinia e Orvieto.

I signori degli Inferi Circa gli epiteti, invece, una particolare attenzione merita Suri, grazie ad alcune recenti scoperte, che ne hanno chiarito il significato. Come si è ricordato, con questo nome il dio era venerato nel santuario dell’area Sud di Pyrgi al fianco di Cavtha, con cui formava una coppia corrispondente ai signori degli Inferi della tradizione classica: in greco Ade e Persefone, in latino Dis Pater e Proserpina. Ma il nome di Suri è noto in molte altre parti dell’Etruria: ad Arezzo contrassegna un gettone oracolare in alternativa con Aplu, prova dell’esistenza di un oracolo di Apollo nella città; a Tarquinia era venerato in coppia con Selvans; a Orvieto, nel santuario del Belvedere, è affiancato da Tina e Statuetta di bronzo raffigurante Apollo, nudo e ingioiellato: con un diadema sul capo, un bracciale sull’avambraccio e una collana dai molti pendenti. 375-350 a.C. Parigi, Cabinet des Médailles. Sulla gamba sinistra è incisa, su due righe, una lunga iscrizione etrusca di dedica «lo sono del dio, o Artemide spulare. Fasti Rufris ha donato per il figlio», da parte di una donna (Fasti Rufris), che offre la statua al dio senza usare il suo nome, ma invocandone la sorella, che probabilmente era la titolare del santuario in cui l’oggetto era conservato.

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forse da Cavtha; a Viterbo (l’antica Surrina, che in origine portava il nome del dio), ancora una volta su una sors oracolare. Inoltre, dallo stesso nome deriva quello dell’Apollo dei Falisci, vicini di casa degli Etruschi: il Pater Soranus, al quale era consacrato il monte Soratte e che era venerato dagli Hirpi Sorani, speciali sacerdoti vestiti di pelli di lupo. Evidentemente, Suri era il piú diffuso tra gli epiteti dell’Apollo etrusco e, di conseguenza, quello ritenuto piú adatto alla personalità del dio. Ancora Giovanni Colonna ha messo in luce come il nome derivi da una parola di senso comune che identifica il colore


| La famiglia dei «Neri» La soluzione dell’enigma del nome di Suri è venuta da una tomba a camera perugina, scoperta nel 1921, in località Monteluce; vi erano sepolti i membri della famiglia etrusca Surte che, nel I secolo a.C., aveva ormai latinizzato il proprio nome in Sortes, conservando però memoria deI significato deI proprio nome gentilizio. Nelle famiglie romane, la formula onomastica era composta da tre nomi: un

In alto, a sinistra ricostruzione grafica di un donario offerto probabilmente da una delegazione etrusca, agli inizi del V sec. a.C., nel santuario di Apollo a Delfi. Sulla base reca infatti una iscrizione in cui viene dedicato «all’Apollo Tirreno». In alto, a destra cippi in pietra nera, con un fulmine-freccia a rilievo. Sarebbero rappresentazioni aniconiche (cioè prive di un aspetto figurato) del dio etrusco degli Inferi, identificato con un Apollo oscuro e mortifero.

nome personale (praenomen), un nome gentilizio (ereditario e appartenente alla famiglia) e un cognomen (non sempre presente e solo parzialmente ereditario). Nel caso in questione, il figlio del capostipite si chiamava Lucius Sortes Niger, mentre suo figlio aveva scambiato il gentilizio con il cognomen, prendendo il nome di Lucius Nigidius Sors: il cambiamento – del tutto

«nero»: Suri sarebbe quindi il dio «nero», cioè colui che vive nell’oscurità. Non è difficile immaginare come per gli antichi il regno dei morti fosse il luogo nero per antonomasia, ed è un fatto che negli affreschi delle tombe etrusche le raffigurazioni dell’Aldilà sono sempre caratterizzate da sfondi cupi (come nel banchetto degli Inferi nellaTomba dell’Orco di Tarquinia); e una nuvola nera accompagna fuori dall’Ade la Quadriga Infernale dell’omonima tomba chiusina.

Lingotti e gocce di piombo La simbologia del nero è stata osservata anche in altri casi, come nell’offerta di lingotti di piombo e di gocce di piombo fuso al dio Suri e alla sua compagna Cavtha nel santuario dell’area Sud di Pyrgi, poiché, nonostante il suo colore chiaro, il minerale era chiamato in latino plumbum nigrum (cioè «nero») ed era spesso collegato con divinità funerarie. E ancora neri o scuri sono i cippi di una serie in basalto o altra pietra vulcanica, che si trovano soprattutto a

irregolare e fuori dalla norma – non può che essere dovuto alla possibilità di una traduzione dall’etrusco al latino di surte/ sortes in niger/nigidius, che evidentemente alludevano entrambi al colore nero. Dal ragionamento si ricava che la parola surte è un aggettivo di colore formato sulla base sur, che indica il «nero», dalla quale deriva anche il nome del dio Suri: l’Apollo «nero», signore etrusco degli Inferi.

Orvieto e a Bolsena, e che spesso recano scolpita la sagoma di un fulmine, come segno del potere divino di scagliare fulmini. A tale potere, infine, alludeva l’offerta di frecce e giavellotti, presenti in gran numero nei santuari di Pyrgi e del Belvedere di Orvieto, a quanto pare come sostituti del fulmine vendicatore del dio degli Inferi. Del resto, secondo Aulo Gellio (scrittore e giurista latino attivo nel II secolo d.C.), anche la statua del Veiove latino, come si è ricordato, sebbene priva d’arco, era armata di frecce, che presumibilmente erano un modo arcaico di rappresentare la folgore. Sembra insomma difficile, per noi, capire perché l’oscuro signore etrusco degli Inferi sia stato assimilato all’Apollo dagli antichi. Evidentemente, la tutela sulla divinazione, l’uso delle frecce e altre caratteristiche del culto spingevano Greci ed Etruschi a identificare questo dio dai molti nomi con Apollo, nonostante il suo carattere funerario e «nero», in netto contrasto con la figura luminosa del dio greco della bellezza e delle arti.

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ARTUMES E TIUR

Al chiaro di luna

A

differenza del fratello Apollo, la dea greca Artemide – grande cacciatrice e al contempo divinità lunare – non sembra aver trovato in Etruria ampio spazio nel culto. Sebbene, assieme alle altre figure femminili della mitologia classica, essa compaia molto spesso nelle iconografie degli specchi incisi, destinati all’ambito femminile, in realtà, solo poche iscrizioni ne documentano la venerazione e il suo nome deriva da un antico adattamento del nome greco originale. A tutt’oggi, per la dea non si conoscono epiteti locali o un nome schiettamente etrusco. Già nella prima metà del VI secolo a.C., le offerte votive presso l’altare di Menerva nel santuario di Portonaccio a Veio conservano un’unica dedica votiva in cui, anziché la divinità titolare del culto, sono venerate insieme le dee Aritimi e Turan, ovvero le greche Artemide e Afrodite, accomunate in un contesto di devozione per divinità femminili.

ARTUMES E TIUR

Divina sorella di Apollo La medesima forma del nome – probabilmente assimilato ad altri nomi divini etruschi con finale -mi (Lurmi, Vatlmi, Leimi) – compare piú tardi, alla metà del IV secolo a.C., nella dedica di una statuetta ad Apollo, che sembra fosse stata deposta in un luogo sacro alla divina sorella di quest’ultimo. Piú diffusa, invece, è la forma Artumes, piú vicina al nome greco originale, forse documentata già alla fine del VI secolo da un graffito di Gravisca (il porto di Tarquinia) e utilizzata piú tardi a Roselle, per l’offerta di una coppa attica della seconda metà del V secolo, e a Tarquinia, per la consacrazione di una barretta oracolare (una sors) presso il santuario dell’Ara della Regina. Dalle scarne attestazioni epigrafiche del culto si ricava quindi l’immagine di una divinità femminile, associata di preferenza ad altre dee

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(come a Veio o a Gravisca) ed eventualmente posta in relazione con il fratello Apollo, dal quale potrebbe aver derivato anche la connessione con la divinazione a Tarquinia. Maggiori informazioni si ricavano invece dall’osservazione delle attestazioni sugli specchi figurati. Artumes appare qui in tutto e per tutto assimilata all’Artemide greca, dalla quale ha preso il nome: uno specchio tardo-arcaico di possibile produzione veiente la rappresenta a cavallo di una cerva, mentre attraversa la natura selvaggia che, secondo il mito classico, costituiva il suo dominio. Nella maggior parte dei casi, le altre attestazioni iconografiche si riducono a semplici conversazioni divine, nelle quali piú di frequente è confermata l’associazione con Apollo e, in qualche caso, con Latona (in etrusco Letun), la madre dei due gemelli divini. L’associazione con Apollo è ribadita anche da uno dei miti rappresentati nel ciclo statuario che decorava il tetto del santuario di Portonaccio a Veio, la cui scena piú famosa, alla quale prende parte l’Apollo, raffigura la contesa tra quest’ultimo ed Eracle per ottenere il possesso della cerva di Cerinea, animale sacro ad Artemide. Ancora una volta, la dea è presente attraverso il mito greco, ma solo come comparsa, sullo sfondo di scene in cui agiscono altre divinità.

Come un angelo della morte Un ruolo di primo piano, invece, che sembra richiamare le funzioni di pericolosa dea vendicatrice, talvolta presenti nella religione greca, è dimostrato dalla scena raffigurata su uno specchio prenestino, in cui è rappresentato il rapimento di Arianna/Esia dopo la sua unione con Dioniso/Fufluns. Per l’occasione Artemide (il cui nome compare nella variante Artames), caratterizzata dall’attributo dell’arco, prende la forma di una sorta di angelo della morte inviato

Particolare del fregio, della cornice e delle antefisse policrome del tempietto extraurbano di tipo etrusco-italico di Alatri, ricostruito, in scala 1:1, alla fine dell’Ottocento, nel giardino del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. Le antefisse raffigurano Artemide come Potnia Theron, la «Signora delle Belve feroci», alata e affiancata da due leonesse affrontate.


dagli dèi a ristabilire l’ordine, portando negli inferi Arianna, contaminata dal contatto con il dio. La storia avrà in realtà un lieto fine, come sembra suggerire l’aiuto di Atena/Menerva, che affianca Fufluns nell’opporsi al rapimento, e costituirà il primo esempio del potere salvifico di Dioniso nei confronti della morte.

Una differenza significativa Tuttavia, ciò che importa qui sottolineare è come la fisionomia divina di Artemide acquisti in Etruria un aspetto infero e vendicatore, che ben si adatta al suo ruolo di sorella del «nero» Apollo etrusco. Un aspetto diverso dell’Artemide greca è la sua natura originaria di divinità lunare, che la oppone a Selene (propriamente identificata con la Luna), in parallelo alla coppia Apollo-Helios.

In ambito etrusco questo aspetto non sembra riconoscibile, mentre la divinità della Luna è dotata di caratteristiche proprie, a partire dal nome Tiu, noto anche nella forma plurale Tiur, in omaggio alla natura triplice della Luna (calante, piena e crescente), oppure con riferimento alla ciclicità dei mesi nel calendario, secondo una proposta di Mauro Cristofani. Un oggetto votivo arcaico molto particolare è stato scoperto nell’VIII secolo e donato al cardinale Borgia da un vescovo di Città della Pieve (di conseguenza è oggi conservato in Vaticano, nel Museo Gregoriano Etrusco): si tratta di una lastrina di bronzo a forma di mezzaluna, dotata di un perno per la connessione a una base o a un oggetto maggiore; è molto probabile che il luogo di ritrovamento originario fosse un noto santuario

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ARTUMES E TIUR

etrusco in località Acquasanta di Chianciano. Su una delle facce della mezzaluna è stata incisa un’iscrizione di consacrazione alla divinità della Luna Tiur – alla quale è attribuito l’epiteto Kathunias –, dimostrando che già alla fine del VI secolo esisteva un culto autonomo della divinità. L’unica altra attestazione certa della sua venerazione arriva molto piú tardi, nella prima metà del III secolo a.C., epoca alla quale risale un breve testo di consacrazione alla divinità, nella forma Tiu, su una brocchetta dal deposito votivo di Campetti a Veio, dedicato alla dea Vei, corrispondente etrusca di Demetra e Cerere. Ancora piú recente, infine, è l’iscrizione scolpita su due blocchi di un edificio sacro di Feltre (Belluno), databile al I secolo a.C., in cui è menzionata una sequenza di nomi di

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Hydria (vaso per acqua) a figure nere etrusca, da Cerveteri. 540·530 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Al centro della scena si vedono, affrontate, Artemide (terza da sinistra) e Gea, dea che aveva permesso la nascita del gigante Tizio, che adesso difende quest’ultimo dalle frecce mortali di Artemide e del fratello Apollo, raffigurato alle sue spalle.

divinità etrusche comprendente Tinia e un secondo nome che comincia con Ti[---], in cui sembra possibile riconoscere Tiu o Tiur. Alcuni indizi sembrano indicare che le differenze tra la divinità della Luna etrusca e quella greca fossero piú marcate del previsto, fatto che forse potrebbe giustificare anche l’assenza di riferimenti al culto di Artemide.

Un’ipotesi alternativa Trattando del culto del Sole, si è già avuto modo di notare come la connotazione di genere delle divinità etrusche fosse diversa rispetto a quella greca: nella fattispecie, allo stesso modo in cui si è riconosciuta in Cavtha una divinità femminile del Sole, è lecito domandarsi se Tiu non fosse, in realtà, un dio


Qui accanto restituzione grafica della scena incisa su uno specchio di bronzo da Palestrina: Artemide (Artumes), in funzione di «angelo della morte», cerca di portare via l’infelice Arianna, definita Esia, cioè «sacra agli inferi», poiché contaminata dal contatto con Dioniso (Fufluns); quest’ultimo, però, si oppone al rapimento, spalleggiato da Atena (Menerva), e alla fine riuscirà a salvare la propria futura sposa divina. Secondo quarto del V sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. In basso restituzione grafica di uno specchio di bronzo inciso di origine incerta, forse di produzione veiente. Fine del V sec. a.C. La scena raffigura la dea Artumes, riccamente abbigliata, mentre cavalca all’amazzone sul dorso di una cerva, attraversando i suoi domini boschivi.

della Luna. In questa direzione sembrano puntare sia gli epiteti Kathunia(n)s di Città della Pieve – se cosí va integrato – e (U)silnanz di Feltre, che mostrano una terminazione in -ns, generalmente riservata a nomi divini maschili, sia l’immagine di un Maris Tiusta, «quello di Tiu», barbuto e armato di lancia su uno specchio graffito, che potrebbe aver assunto l’aspetto del dio a cui si riferisce (a meno che non vada corretto in Tinsta, «quello di Tina»). Ma un indizio ancora piú convincente della possibile natura maschile di Tiu viene da una forma particolare di culto tributata alla divinità da parte della famiglia chiusina sepolta nella Tomba delleTassinaie, in cui compare una sorta di «stemma» di famiglia a forma di falce lunare su uno scudo dipinto e che documenta

Associata ad altre dee, Artumes è la divina sorella di Suri, l’Apollo degli Etruschi | RELIGIONE ETRUSCA | 105 |


ARTUMES E TIUR

| Questioni di genere Lo studio comparato delle divinità nelle religioni politeistiche mostra di regola un’opposizione dei sessi tra le divinità del Sole e della Luna, del Giorno e della Notte, del Cielo e della Terra e cosí via. Da questo punto di vista, il sistema classico a noi familiare, che vuole un Sole maschile e una Luna femminile è in realtà un’eccezione, condivisa da Greci e Latini e dipendente dall’influenza vicino-orientale ed egiziana (a partire da Osiride e Iside): ancora oggi, in tedesco, il nome del Sole è femminile (die Sonne) e quello della Luna è maschile (der Mond) e le divinità corrispondenti hanno sessi opposti rispetto alla tradizione classica, dai Vichinghi fino al Giappone attuale. Nel caso delle divinità etrusche, pertanto, il confronto con la mitologia classica non può suggerire identificazioni immediate e vanno valutati i diversi indizi a disposizione: è certo però che sulla lunga durata, l’influenza vincente della cultura greca ebbe la meglio sulle eventuali differenze originarie. Un altro esempio viene dalla divinità della Notte, di regola femminile secondo la tradizione classica, ma che diviene maschile in un frammento di una commedia di Plauto (Anfitrione, verso 272: Nocturnus) e, soprattutto, nella trasposizione delle divinità del cielo etrusco da parte del tardo erudito Marziano CapeIla nella sua opera Le nozze di Mercurio e Filologia. In questo contesto, nell’ultima e nella prima delle 16 regioni del cielo, corrispondenti al Nord, risiede Nocturnus; nelle stesse posizioni la sequenza esterna di divinità del Fegato di Piacenza vede Cilens, che, con ogni probabilità, è il corrispondente etrusco del dio della Notte. Ciononostante, sebbene la terminazione -ns, come si è detto, appartenga di solito a divinità maschili, l’unica immagine conservata di Cilens la mostra come una dea ammantata su un rilievo di terracotta di difficile interpretazione. L’ipotesi piú probabile al riguardo è che nel momento di rappresentare la divinità della Notte l’artista etrusco abbia fatto ovvio ricorso all’iconografia femminile greca, ignorando l’originaria differenza di sesso.

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l’uso del nome Tiu al diminutivo Tiuza per il figlio maschio del capostipite sepolto nella camera funeraria. Sebbene non si tratti di prove decisive, il confronto con la dea solare Cavtha e la significativa assenza di attestazioni iconografiche etrusche per la divinità della Luna (che nella tradizione greca avrebbe dovuto essere assimilata alla dea Selene) sembrano quindi dare corpo all’ipotesi che le principali divinità astrali etrusche avessero sessi opposti rispetto alla tradizione classica. Nella pagina accanto ricostruzione della Tomba delle Tassinaie (170-150 a.C.) nel Museo Archeologico di Chiusi. Sulla parete di fondo è possibile osservare il simbolo dipinto a forma di falce lunare. L’iscrizione sepolcrale testimonia, inoltre, l’uso del nome Tiu (al diminutivo Tiuza) appartenente al figlio maschio del capostipite, suggerendo cosí una natura maschile dell’omonima divinità lunare. In basso il Fegato di Piacenza (modello in bronzo di un fegato di pecora con iscrizioni etrusche). II-I sec. a.C. Piacenza, Museo Civico. Il nome di Cilens ricorre due volte nelle regioni settentrionali della fascia esterna del Fegato, in un caso in coppia con Tina. La corrispondenza con la sequenza delle sedi celesti degli dèi descritta da Marziano Capella, sembra dimostrare in modo chiaro che si tratta della divinità della notte, tradotta in latino con il maschile Nocturnus e cosí attestata, per esempio, in un passo dell’Anfitrione di Plauto.


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CEL E VEI

Sacre maternità

I

n tutte le religioni politeistiche dell’antichità, il ruolo della «grande Madre», una dea dispensatrice di fecondità alla quale chiedere aiuto e protezione, era particolarmente sentito dai devoti: nel mondo greco tale funzione fu presto rivestita dalle divinità della Terra, origine della vita e antica madre universale. Ne sono testimonianza i culti di Demetra – che anche nel nome conserva la parola meter, «madre» – e di Gea. Gli Etruschi non facevano eccezione e anche qui, con ruoli in parte diversi, si conoscono una dea Terra, Cel, e una dea della fecondità e della maternità, Vei, corrispondente alla greca Demetra e alla latina Cerere. Per la prima delle due dee – Cel, il cui nome si identifica direttamente con la «terra», esattamente come per Gea –, sono note alcune attestazioni epigrafiche che sembrano chiarirne le funzioni.

CEL E VEI

Signora del sottosuolo Nella fascia esterna del Fegato di Piacenza, la dea occupa la prima casella dell’ultimo quarto (corrispondente al settore nord-ovest del cielo), destinato alle divinità piú terribili e oscure (maxime dirae), collegate agli Inferi e al mondo sotterraneo, conseguentemente al suo ruolo di signora del sottosuolo. In una posizione simile rispetto al lago Trasimeno si trova l’unico santuario noto della dea, a Castiglione del Lago, testimoniato solo dalla scoperta, agli inizi del Novecento, di cinque statuette votive di bronzo che riportano tutte la medesima iscrizione: mi cels atial celthi, «io (sono) della madre Cel in questo luogo (sacro)». I cinque bronzetti raffigurano altrettanti devoti offerenti, di ambo i sessi, che recano in mano melagrane ovvero vasi per libagioni; la ripetizione dell’iscrizione dimostra che si trattava di oggetti votivi già predisposti per la dedica alla dea, iscritti a

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cura del personale del santuario e acquistati sul posto dai visitatori. Un aspetto piú personale della dedica traspare invece in un’altra offerta votiva, proveniente da un deposito ritrovato nell’Ottocento in località Casabianca, presso Volterra: si tratta di un bronzetto raffigurante un volatile stilizzato, forse una pernice. Una lunga iscrizione di dedica sul fianco dell’uccello registra l’offerta da parte di Fel Supri a nome di Vipinai, moglie di un Ulchnie, una donna con la quale non aveva parentela; alla dea viene qui conferito l’epiteto tatanu – derivato da tata, «nonna» –, da interpretare,con ogni probabilità, come «progenitrice, antenata». Si direbbe pertanto che la dea etrusca svolgesse il ruolo di madre della natura, che accomunava sotto la propria protezione tanto gli esseri umani, quanto gli animali selvatici. Ancora una funzione di madre traspare da una testimonianza iconografica indiretta, l’unica in qualche modo riferibile alla dea etrusca della Terra. Uno specchio inciso proveniente da Populonia, ma probabilmente prodotto nell’Etruria In alto restituzione grafica di uno specchio di bronzo inciso, da Populonia. Metà del V sec. a.C. Firenze. Museo Archeologico Nazionale. Sulla sinistra è il dio etrusco Laran nelle vesti di Ares, che, con la spada sguainata, insegue un gigante, il quale si volge verso l’assalitore e tenta di schiacciarlo con un macigno, di cui si intravede solo il bordo inferiore; il nome del gigante è cels clan, letteralmente «figlio della Terra», fatto che dimostra come gli Etruschi conoscessero e condividessero anche le genealogie divine della mitologia greca.


In basso, sulle due pagine frammento di cratere a figure rosse con scena di Gigantomachia. V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

meridionale, rappresentava un episodio della mitica guerra tra gli dèi dell’Olimpo e i Giganti. Questi ultimi, secondo il mito classico, erano una stirpe di figli di Gea, generati dalla dea della Terra appositamente per sconfiggere Zeus e i suoi fratelli, colpevoli di aver detronizzato

Crono e posto fine al potere dei Titani, piú antichi figli della stessa dea. La sanguinosa guerra fu rappresentata spesso nell’arte greca, come esempio di lotta vittoriosa dell’ordine cosmico contro le forze del caos (e a volte come allegoria delle vittorie dei Greci

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CEL E VEI

| La «palestra» degli áuguri Il lago Trasimeno – del quale è oggi noto il nome etrusco, Tarsminna – era circondato in età antica da alcuni centri abitati secondari, nei quali è stata ritrovata traccia di santuari dedicati alle divinità locali. Secondo un’ipotesi di Giovanni Colonna, la forma del lago, diviso a metà da due promontori, suggerí agli Etruschi un parallelo con la forma del fegato delle vittime sacrificali che, come sappiamo dal Fegato di Piacenza, era considerato uno spazio consacrato paragonabile con la volta celeste. In base a tale idea, i luoghi di culto disposti lungo le sue sponde potevano costituire un sistema che rispecchiava la disposizione delle sedi celesti delle divinità venerate: oltre alla dea Cel, a Castiglione del Lago, nel quadrante nord-ovest, si conoscono i casi di Cavtha, a San Feliciano nel quadrante sud-est, e di Tece Sans, presso Tuoro nel quadrante nord-ovest (se, come pare, corrisponde al Tecvm del Fegato di Piacenza). Se l’ipotesi coglie nel vero, lo specchio del lago Trasimeno fu utilizzato come una palestra per le dottrine augurali etrusche, per mezzo delle quali è stato trasformato in una sorta di grande templum, ovvero uno spazio consacrato e orientato per la definizione delle sedi divine.

contro i barbari). Nello specchio populoniese compare lo scontro tra il dio guerriero Laran, corrispondente iconografico del greco Ares, e un gigante che indossa una corazza da oplita e fugge dinnanzi al suo avversario, mentre cerca di schiacciarlo sotto un macigno. Il nome attribuito dall’uccisore etrusco al gigante, quale rappresentante generico della sua stirpe, è cels clan, cioè «figlio di Cel», la Terra, dimostrando allo stesso tempo la conoscenza delle genealogie mitologiche greche e la comprensione del significato del mito.

Dea della fertilità e della riproduzione Come l’omologa greca Demetra, la dea etrusca Vei – che, tra l’altro, diede il nome alla città di Veio – aveva un carattere materno forse meno universale rispetto alla dea della Terra, ma piú legato alla fertilità e alla riproduzione. Una testimonianza molto interessante, di

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Qui sopra, a sinistra veduta aerea del lago Trasimeno, in Umbria. In alto, a destra ancora un’immagine del Fegato di Piacenza. II-I sec. a.C. Piacenza, Museo Civico. A destra particolare dell’iscrizione di consacrazione alla dea Vei, rinvenuta su una coppa proveniente dalla necropoli rupestre di Norchia. Il vaso è conservato nel Museo Civico Archeologico di Viterbo.

epoca tardo-arcaica, è la statua di culto trovata in un santuario ospitato nella necropoli della Cannicella a Orvieto, in cui era venerata la dea Vei, come dimostra un’iscrizione di età recente. L’opera, prodotta in Grecia con marmo pario, raffigura una dea completamente nuda con ricca capigliatura, priva della mano destra e del braccio sinistro,


Statua in marmo pario raffigurante una dea nuda. Fine del VI sec. a.C. Orvieto, Museo Claudio Faina. La scultura, opera di un artista greco, proviene dal santuario della Cannicella di Orvieto, nel quale era probabilmente utilizzata per il culto della dea Vei. Il seno destro è stato reintegrato già in antico con l’uso di un marmo diverso.

che probabilmente sostenevano attributi oggi perduti. Una particolarità del simulacro sta nel restauro realizzato con marmo diverso praticato già in antico per reintegrare il seno destro, visibilmente consumato: sembra evidente che la statua fosse esposta in posizione accessibile e sia stata costantemente toccata dai frequentatori del luogo sacro per buon augurio di fertilità, cosí come avviene ancora oggi nei santuari cristiani per alcune statue di santi. Altri documenti della venerazione della dea indicano la sua piú generica partecipazione ai culti femminili, come a Gravisca, dove l’edificio Beta a lei dedicato era frequentato anche da visitatori greci, che hanno lasciato iscrizioni di dedica a Demetra, confermando l’identificazione delle due divinità. Similmente a Cerveteri, una dedica a Vei è stata ritrovata nel luogo sacro della Vigna Parrocchiale, posto nel cuore della città e dedicato a Uni. Anche a Vulci, l’area sacra suburbana del Fontanile di Legnisina mostra associate nel culto Uni e Vei e, per quest’ultima, conserva la preziosa testimonianza dell’offerta votiva di due placche di terracotta raffiguranti uteri, destinate ad assicurare alle fedeli la fecondità e la protezione in gravidanza. Alla sfera femminile si collega anche

l’offerta a Roselle di un peso da telaio, che rimanda all’attività della tessitura, caratteristica del lavoro delle donne nell’antichità; non è un caso, pertanto, che l’unico altro peso da telaio contrassegnato da un’iscrizione votiva – purtroppo privo di provenienza sicura – sia consacrato a una divinità «madre», Ati, in cui si può riconoscere con ogni probabilità la stessa Vei.

Per la salvezza dei devoti Da una tomba ellenistica della necropoli rupestre di Norchia, nell’entroterra di Tarquinia, proviene una coppetta dedicata a Vei in un inatteso contesto funerario. Sembra dunque probabile che in Etruria la dea abbia assunto anche alcuni elementi del culto misterico eleusino, che voleva le «due dee» Demetra e Persefone attive nella salvezza dei devoti anche dopo la morte. A conferma di ciò una tomba di Pontecagnano, in Campania, ha restituito una dedica in etrusco alla dea italica Ceriie, corrispondente nel nome alla latina Cerere e nel culto alla greca Demetra. Il culto delle «due dee» ha lasciato molte testimonianze di sé nei santuari dell’Etruria e dell’Italia antica: per esempio, nell’area Sud di Pyrgi – dove era venerata Cavtha, corrispondente etrusca di Kore/Persefone –, compare anche una dedica in greco a Demetra, mentre alcuni frammenti di iscrizioni del santuario monumentale sembrano conservare il nome di Vei. Per finire, vale la pena di ricordare che dal nome della dea derivò quello di una delle piú importanti città etrusche, Veio (in latino Veii, al plurale), dimostrando un rapporto di protezione particolare, che si affianca a quello di Giunone Regina, venerata sull’acropoli. E, pur in assenza di prove epigrafiche, a Vei era certamente dedicato il santuario di Campetti, nel cui deposito votivo erano conservate una brocchetta con una dedica latina a Cerere e una con dedica alla Luna, oltre a una coppetta offerta genericamente alla «divinità» del luogo – in etrusco flere –, in cui è verosimile riconoscere ancora una volta la dea.

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TURMS E NETHUNS

TURMS E NETHUNS

Testa della statua in terracotta del dio Ermes appartenente al gruppo che decorava il tetto del tempio di Portonaccio a Veio. 510 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Il dio era raffigurato nell’atto di accorrere per sedare la lite tra Ercole e Apollo per il possesso della cerva di Cerinea.

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Fra cielo e mare

N

el mettere a confronto il pantheon degli Etruschi con quello dei Greci, abbiamo piú volte cercato di evidenziare le differenze e di riconoscere le caratteristiche specifiche delle divinità etrusche, spesso assai diverse da quelle note per il mondo classico. Tuttavia, oltre alle particolarità dei singoli dèi, le differenze del sistema religioso riguardano anche l’insieme delle divinità da venerare: non tutte le principali figure del pantheon classico, infatti, trovano un riscontro nei culti etruschi. È il caso, per esempio, di alcuni importanti dèi dell’Olimpo, come Ermes e Poseidone, a quanto pare poco venerati in Etruria, nonostante la loro importanza nella mitologia e nei culti in tutto il mondo greco e romano. Il nome dell’Ermes etrusco, fortunatamente, è stato conservato dalle didascalie degli specchi incisi: si tratta di Turms, che compare nelle scene rappresentate con tutte le sue caratteristiche di messaggero degli dèi, con le ali ai piedi e il petaso (il tipico cappello da viaggiatore) pure alato.

Messaggero di Zeus Come spesso sottolineato, il repertorio iconografico fornito dagli specchi è limitato alle scene mitologiche considerate adatte alla sfera femminile e a generiche «conversazioni» tra divinità, poste l’una accanto all’altra in rappresentazioni di genere, spesso prive di significato narrativo. Il dio Turms, figlio di Zeus secondo la tradizione classica, compare nella sua funzione di messaggero della volontà di suo padre e a volte come accompagnatore degli eroi, come nel caso del «giudizio di Paride», in cui si

Statuetta di bronzo raffigurante una donna riccamente vestita, rinvenuta all’inizio del Settecento nella campagna senese. Prima metà del IV sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Sul retro, lungo la schiena e le gambe del bronzetto è stata incisa a freddo un’iscrizione di consacrazione alla «divinità della fonte-pressoApani».

adatta a fare da scorta alle tre dee che si contendevano il primato di bellezza di fronte al giovane principe troiano. Un’importante apparizione di Turms è nota tra le grandi statue di terracotta che decoravano il tetto del tempio di Portonaccio a Veio: secondo la ricostruzione piú probabile, l’immagine del dio doveva essere posta in mezzo tra Apollo ed Ercole, che si contendevano la cerva di Cerinea (la cui cattura era una delle famose fatiche del semidio). Il messaggero divino portava con sé il verdetto di Zeus, padre dei tre protagonisti della vicenda, che comandava ad Apollo di lasciare libero il passo a Ercole, a patto di non fare del male alla cerva e di restituirle, sana e salva, la libertà.

Una presenza importante Non si è conservata alcuna traccia di un culto di Turms/Ermes nel santuario veiente, ma la sua presenza nel programma decorativo era piuttosto importante, essendo collegata con l’imperscrutabile volontà suprema del padre degli dèi. La funzione di Ermes come messaggero e viaggiatore aveva nel mondo greco anche un risvolto oscuro e funerario, poiché il dio era considerato una guida ideale nel corso dell’ultimo viaggio, fino alla sede dell’oltretomba in funzione di psicopompo (ovvero «accompagnatore di anime»). Tale aspetto è confermato in Etruria dalla scena rappresentata su uno specchio vulcente, che riproduce il passo dell’Odissea in cui Ulisse incontra nell’Aldilà l’ombra di Tiresia per avere notizie: nell’iconografia etrusca il vecchio indovino cieco è accompagnato da Turms, che, per l’occasione, riceve l’epiteto Aitas, ovvero «di Ade», appartenente al dio degli Inferi per conto del quale svolge tale

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TURMS E NETHUNS

| Con pinze e martello Secondo l’architetto romano Vitruvio, le norme urbanistiche della disciplina etrusca prevedevano di porre al di fuori delle città i templi di Marte, di Venere e di Vulcano; ma mentre non è problematico riconoscere il culto delle prime due divinità, a tutt’oggi non è stato ancora possibile rintracciare documenti archeologici relativi al culto di Vulcano. Nel mondo classico, questi era il dio degli artigiani – corrispondente aI greco Efesto – ed esercitava la sua tutela sul fuoco. Negli specchi incisi della tradizione etrusca, i miti in cui il dio compare lo vedono in costante associazione con il nome Sethlans, come, per esempio, quando con un colpo d’ascia apre la testa di Zeus/ Tina per farne uscire la figlia Atena o quando sorprende l’infedele moglie Afrodite/Turan tra le braccia di Marte. Alcune monete coniate a Populonia (in

ruolo. In questo caso la scena non è la mera riproduzione di un mito greco, ma comporta da parte dell’incisore la conoscenza della storia e permette di gettare luce sulla cerchia di divinità impegnate nel mondo dei morti secondo la tradizione etrusca. Tuttavia, come si è accennato, nonostante l’ampia documentazione di immagini e miti che lo riguardano, il dio Turms sembra essere stato poco venerato in Etruria, dal momento che sono note solo poche statuette votive che lo raffigurano e addirittura una sola iscrizione di offerta, insieme ad altre divinità. L’offerta in questione consiste in un peso da stadera (la bilancia tradizionale a piatto singolo), che al principio del III secolo a.C. era stato dedicato a Turms e a Rath/Apollo nel santuario in località Sant’Antonio a Cerveteri, la cui divinità titolare era in realtà Hercle. Troviamo cosí di nuovo riuniti insieme gli dèi rappresentati sul tetto di Portonaccio; ma in questo caso l’offerta di un peso (la cui quantità era garantita da un magistrato, come indicato dall’iscrizione) faceva riferimento alla

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epoca etrusca importante centro per la lavorazione del ferro), presso Piombino, mostrano sulle due facce la testa del dio e i suoi attrezzi (pinze da fonditore e martello). È perciò verosimile che in questa città il suo culto fosse considerato particolarmente importante, se non, addirittura, di rilevanza pubblica. Già da tempo sono in corso ricerche e scavi nel cosiddetto «quartiere industriale» di Populonia, posto al di fuori della cerchia muraria: non c’è che da sperare, quindi, che un luogo di culto dedicato a Vulcano/Sethlans venga rintracciato al piú presto.

protezione esercitata sul commercio da parte del dio viaggiatore Turms/Ermes, in un luogo di culto posto vicino a una delle porte della città, presumibilmente presso la sede di un mercato.

Un popolo di grandi navigatori Un’altra divinità primaria dell’Olimpo greco era Poseidone, il dio del mare, come ben si addice a un popolo che aveva fatto della navigazione una delle principali attività economiche e militari, arrivando a toccare l’intero bacino del Mediterraneo e oltre. Ma anche gli Etruschi avevano in realtà la fama di grandi navigatori, che li aveva portati a una vera «talassocrazia», come ricorda – nel I secolo a.C. – lo storico siciliano Diodoro Siculo, ovvero al dominio sul Mare Tirreno (che da essi prende il nome); e inoltre erano assai famosi e temuti in tutto il mondo antico i pirati tirreni, a partire dal tempo del mito, come documenta l’episodio del rapimento di Dioniso. Sembra assai strano, pertanto, scoprire che il dio etrusco Nethuns, corrispondente di Poseidone e il cui nome è ricalcato su quello

Verso di una moneta in bronzo coniata dalla zecca di Populonia, sul quale compaiono gli attrezzi da fabbro ferraio, tenaglia e martello, accompagnati dal nome etrusco della città, Pupluna. Firenze. Museo Archeologico Nazionale.


In alto restituzione grafica di uno specchio inciso proveniente da Tuscania, in cui è rappresentata una scena di «conversazione divina» fra Nethuns, a sinistra nelle vesti di Poseidone, Usil, dio del Sole simile ad Apollo e con una sorta di aureola al centro, e Thesan, dea dell’Aurora. Seconda metà del IV sec. a.C. Tuscania, Museo Archeologico.

Il peso è giusto!

Statuetta di bronzo raffigurante Ermes/Turms, ritrovata a Vulci: probabilmente si trattava del coronamento di un candelabro. Secondo quarto del V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Il dio è raffigurato come un viaggiatore, con il cappello a falda larga (dotato di ali) e un lungo bastone da passeggio dalla sommità configurata a caduceo, con due serpenti incrociati.

Qui sopra peso di bronzo da stadera, con riempimento di piombo, ritrovato nel corso degli scavi nel santuario in località Sant’Antonio, a Cerveteri. Inizi del lII sec.a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Lungo il corpo corre una lunga iscrizione di dedica incisa su piú righe, che registra la consacrazione dell’oggetto a Turms e a Rath, avvenuta nel santuario di Hercle, e garantisce la misura corretta del peso (2,5 libbre etrusche) con la menzione della magistratura.

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TURMS E NETHUNS

del latino Nettuno, sia stato assai poco venerato: anche in questo caso, infatti, si conosce, a oggi, una sola iscrizione. Si tratta di una dedica dipinta in colore chiaro sul collo di una piccola brocca a vernice nera, proveniente da Cerveteri e appartenente alla cosiddetta classe dei pocola deorum (vedi box in questa pagina). Sul vaso in questione, il nome del dio è stato trascritto con un errore di ortografia, forse da un artigiano straniero.

Dalle acque dolci al mare Nethuns compare anche nel calendario rituale trascritto sulle bende della Mummia di Zagabria ed è presente in ben quattro caselle del Fegato di Piacenza, dimostrando la sua importanza nella religione etrusca e rendendo ancora piú strana l’assenza di documenti del culto. In realtà, è stato dimostrato che il dio latinoitalico Neptunus, da cui deriva il nome di Nethuns, era in origine una divinità delle acque interne, legata ai fiumi e ai laghi, che in tutto il mondo antico erano considerati una

sede ideale per il culto. È perciò probabile che anche il dio etrusco esercitasse la propria tutela originariamente sulle acque dolci, per poi essere identificato solo piú tardi con il greco Poseidone. A riprova di ciò si può portare il documento del Fegato di Piacenza, che registra l’esistenza di un «Nethuns nella casa di Tina», interpretato come divinità dell’umidità atmosferica, e vede il nome del dio inserito in una casella posta sulla cistifellea, che anche secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio era sacra «a Nettuno ovvero al potere dell’umidità». Questi aspetti non si conciliano facilmente con la figura di un dio del mare e lasciano intravedere una situazione piú complessa. Abbiamo visto come in realtà anche altre

| Vasi come talismani Tra la fine del IV e l’inizio del lII secolo a.C. nei pressi di Roma si produsse una serie di vasi a vernice nera con decorazione sovradipinta in diversi colori, a cui si aggiungeva spesso un’iscrizione latina, pure dipinta, contenente il nome di una divinità, seguito dalla parola pocolom, letteralmente «vaso per bevande» (Menervai pocolom, «pocolom di Minerva », per esempio). Questi vasi hanno avuto un’ampia circolazione e sono stati ritrovati sia nei santuari che nelle abitazioni e nelle tombe: si tratta del documento di una particolare forma di culto degli dèi, per cui i vasi consacrati non erano lasciati dai devoti nei

luoghi sacri, ma venivano conservati per continuare il culto altrove. Con ogni probabilità, l’iscrizione di dedica attribuiva agli oggetti un valore religioso e ne faceva veri e propri talismani da conservare gelosamente, fino a portarli con sé nella tomba. L’uso sembra essere tipico del mondo latino, anche se diversi esemplari sono stati trovati in Etruria, ma l’esistenza di almeno una brocca con il nome etrusco di Nethuns dimostra che la consuetudine religiosa doveva essere stata esportata.


A destra frammento di placchetta fittile decorato a figure nere che ritrae Poseidone con il tridente, da Penteskouphia, Corinto. 550-525 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, al centro coppa a vernice nera con iscrizione sovradipinta e stampigliature centrali a rosette, dal Lazio. 280 a.C. circa. Londra, British Museum. Nella pagina accanto, in basso, a sinistra brocchetta a vernice nera con linee verticali incise e iscrizione in colore chiaro sul collo: nethuitsl sipaz, da Caere. III sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen. La prima parola corrisponde al nome del dio Nethuns in genitivo, con l’aggiunta di una «i» per un errore di scrittura.

divinità fossero interessate alla protezione delle acque, come Thesan/Leucotea, protettrice dei naviganti, o Apollo ed Ercole, signori dei luoghi termali, mentre la decorazione del piú antico tempio di Suri e Cavatha nell’area sud di Pyrgi comprendeva statue di Acheloo (il mitico padre dei fiumi) e volti femminili interpretati come rappresentazioni delle ninfe Oceanine.

Divinità locali Ma la presenza nel territorio di innumerevoli fonti, fiumi e polle d’acqua era quanto mai propizia per l’esistenza di diverse figure divine locali, non sempre identificate con gli dèi maggiori, a tutela delle preziose acque dolci.

A questi culti sono legati alcuni esempi interessanti, che spesso vedevano la deposizione di offerte sul fondo dei bacini lacustri o nell’alveo dei fiumi, come nel caso di una dedica raccolta nel torrente Castro, presso Arezzo, o in quello di una statuetta raffigurante un atleta trovata a Quarata (ancora nei pressi di Arezzo), vicino al punto in cui il fiume Clanis (l’odierno Chiana) si getta nell’Arno, dedicata a un altrimenti ignoto dio Klanins, che ovviamente porta il nome del fiume. In altri casi i devoti si trovavano in difficoltà nel decidere quale nome attribuire alla divinità del luogo, per cui ricorrevano a un giro di parole, come nel caso di due statuette ritrovate in diverse località della campagna di Siena, offerte rispettivamente alla «divinità che risiede a Uthurzanua» e alla «divinità della fonte che si trova presso Apani».

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THUFLTHA

Misteriosa e venerata da tutti

THUFLTHA

Statuetta in bronzo raffigurante un personaggio femminile vestito di chitone e ammantato. Ritrovata nel 1905 da una contadina in località Castello di Sant’Angelo in Colle, presso Montalcino. Metà del Il sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

L’

originalità della religione etrusca viene alla luce prepotentemente nelle caratteristiche del culto di Thufltha: una divinità che fino a oggi ha resistito ai tentativi di identificazione da parte degli studiosi con le figure del pantheon classico e per la quale sono stati espressi dubbi – anche in tempi recenti – persino sulla sua natura femminile. In realtà, almeno su questo dato sembra esservi certezza, dal momento che le statuette a essa dedicate (anche da devoti maschi) raffigurano, in maggioranza, personaggi femminili che, in qualche caso, potrebbero corrispondere a immagini della dea. Comunque, va ritenuta femminile anche la finale -tha del suo nome, condivisa con quello della dea Cavatha e utilizzata in etrusco per distinguere il lautni, lo «schiavo liberato», dalla «lautnitha», la sua corrispondente femminile. Siamo sicuri, pertanto, di essere alle prese con una dea, ma si tratta senz’altro di una delle divinità piú oscure e misteriose tra quelle venerate dagli Etruschi. E anche di una delle piú importanti, a giudicare dal numero di attestazioni del suo culto, ritrovate in diverse parti dell’Etruria.

Nobili, liberti e donne Una rapida occhiata ai documenti di culto della dea dimostra che in età recente (tra il IV e il II secolo a.C.) le vennero dedicate soprattutto statuette di bronzo da parte di persone appartenenti a diverse classi sociali: da un nobile della levatura di Arnth Muras, sepolto

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nella prestigiosa Tomba François di Vulci, fino a liberti come Murila Hercnas a Tarquinia e un anonimo lautni a Chiusi, ma anche donne, come Thana Cencnei o Velia Fanacni, rispettivamente a Montalcino e a Cortona. Si tratta, pertanto, di una divinità pressoché universale che, nel caso del deposito votivo cortonese, da cui viene l’ultima delle dediche menzionate, ha richiesto addirittura l’intervento cultuale di un’istituzione pubblica locale: il cosiddetto tuthina, una partizione amministrativa delle campagne etrusche. Le dediche a Thufltha mostrano, però, anche un’altra caratteristica, unica rispetto al panorama delle attestazioni votive etrusche: in tre casi diversi, forse provenienti da un medesimo santuario posto al confine tra Orvieto e Chiusi, i destinatari dell’offerta sono indicati come aiser Thuflthas, «gli dèi di Thufltha», ovvero Thuflthica, «che stanno presso Thufltha». Esisteva dunque una cerchia di divinità non meglio identificate, che avevano la caratteristica di essere accomunate sotto la protezione di Thufltha, ovvero che agivano entro la sua sfera di azione. La situazione si fa complessa.

Il retro della statuetta da Castello di Sant’Angelo in Colle, presso Montalcino. Sulla schiena sono state incise due iscrizioni di dedica da parte di persone diverse: una donna, Thana Cencnei, che ha offerto la statuetta, e un personaggio di umili origini, il flautista (suvlu) Laris Calznis, che l’ha ridedicata in un secondo momento.

Una divinità autorevole Per determinare chi fossero queste divinità sono disponibili alcuni indizi: la dedica di un bronzetto da parte del Vulcente Arnth Muras è intestata a Thufl Suuris, ovvero a Thufl(tha) e Suri, o meglio «al Suri di Thufltha», il che lascia intendere che il nero Apollo etrusco poteva entrare a far parte della cerchia della dea. Ma ancora piú intrigante è l’analisi delle iscrizioni sul Fegato di Piacenza (argomento ricorrente nella ricostruzione del pantheon etrusco); qui Thufltha compare ben tre volte, di cui una nel nastro esterno, in associazione con Tina, il Giove etrusco. Anche qui Tin(a) Thuf(lthas) ha ottime probabilità di essere un altro autorevole membro della cerchia di divinità in questione. A quanto pare, quindi, sono le stesse divinità principali della religione etrusca a riunirsi sotto la guida di Thufltha in determinate circostanze e ciò ha permesso agli

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THUFLTHA

Bronzetto raffigurante una donna ammantata, che allarga il braccio destro con la mano aperta, apparentemente con l’intento di mostrare qualcosa, ovvero in atto di adorazione. Rinvenuto nel XVIII sec. in un luogo incerto dell’Etruria centro-meridionale.

Seconda metà del IV sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. In basso disegno della statuetta e dell’iscrizione posta sul basamento.

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studiosi di istituire un confronto con quelli che i Latini chiamarono i Di Consentes (ovvero in altri casi Complices e Involuti): una sorta di Senato divino, che Giove consultava quando doveva scagliare i piú terribili e punitivi dei suoi fulmini. Evidentemente la dea Thufltha era chiamata a presiedere questo consesso di divinità, in grado di influenzare persino le decisioni del padre degli dèi in questioni che riguardavano il fato degli uomini e del mondo. Tutto lascia pensare che la dea sia coinvolta profondamente nella concezione religiosa degli Etruschi, che consideravano particolarmente importante il destino (sia individuale che collettivo) e


Statuetta in bronzo raffigurante un personaggio giovanile con fattezze satiresche, nudo salvo per gli stivaletti di pelle. Ritrovato nell’area della città di Vulci, forse nella zona del Tempio Grande. Seconda metà del III sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Anche se è andato perduto l’attributo sostenuto nella mano destra sollevata, sembra possibile ricostruirne l’azione di cattura degli uccelli; in tal caso l’oggetto semilunato appoggiato sulla sua testa potrabbe essere un’esca per ingannarli. L’iscrizione incisa sul fianco registra la dedica da parte di Arnth Muras al Suri di Thufltha.

avevano sviluppato specifici metodi di divinazione per prevederlo ed, eventualmente, scongiurarlo. Ma come si concilia questo aspetto della teologia politeistica con la venerazione quotidiana nei luoghi di culto dell’Etruria? Una delle statuette di bronzo dedicate agli «dèi presso Thufltha» raffigura una donna (presumibilmente la stessa dea) ed è stata offerta da un uomo, Tite Alpnas, in conseguenza di un rituale di divinazione, se cosí può essere interpretata la parola trutvecie, che ha la stessa base di trutnvt, il sacerdote addetto alla divinazione.

Prevedere il futuro È dunque verosimile che i santuari di Thufltha fossero particolarmente adatti a ospitare riti per la previsione del futuro e per l’allontanamento di un fato avverso incombente. A conferma di ciò la studiosa statunitense Nancy Thomson de Grummond ha osservato come l’insistenza sul motivo degli uccelli, tenuti in mano da alcune delle statuette offerte alla dea, possa essere connessa con l’osservazione rituale del loro volo da parte degli indovini, allo scopo di prevedere la volontà degli dèi. Il rituale era particolarmente diffuso anche a Roma, dove era chiamato auspicium (soprattutto in ambito militare e istituzionale), ed era perfino riconnesso alle origini della città, quando Romolo e Remo,

per contendersi il diritto di scegliere il luogo dove fondarla, si erano sfidati all’osservazione del maggior numero di avvoltoi. E non mancano attestazioni etrusche della stessa pratica, come nella Tomba François di Vulci, dove è raffigurato un personaggio trionfatore, Vèl Saties, assistito dal fanciullo Arnza in atto di lasciar liberi due uccelli allo scopo di osservarne il volo. Un ulteriore indizio per un aspetto divinatorio di Thufltha viene anche dalla sua associazione con Suri nel bronzetto vulcente di cui si è parlato; ma c’è di piú: l’analisi della sua iconografia, che ha portato avanti la stessa Nancy de Grummond, ha permesso di riconoscere nella statuetta l’immagine di un ragazzo intento a osservare e a catturare degli uccelli, dopo averli attirati per mezzo di un’esca posta sulla sua testa.

Un’immagine enigmatica In realtà, tale ipotesi non è priva di problemi, dal momento che le orecchie a punta del ragazzo e il kantharos che tiene nella mano sinistra abbassata sembrano lasciar intendere un riferimento al corteggio dionisiaco dei satiri. Ma la principale obiezione al riconoscimento – ammessa dalla stessa de Grummond –, riguardo all’eccessiva stilizzazione del supposto volatile posato sulla testa del giovane può essere superata se si pensa a un uccello-esca finto, sufficiente a ingannare gli uccelli da catturare, ma privo di alcuni dettagli anatomici. Nell’insieme potrebbe trattarsi di un’immagine che intende combinare un riferimento dionisiaco e quindi soprannaturale a una precisa funzione preparatoria per il rito dell’osservazione degli uccelli: quale offerta migliore per un dio oracolare come Suri e una

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THUFLTHA

Statuetta in bronzo raffigurante un bambino paffuto, nudo, che porta un’anatra al petto con entrambe le mani. Metà del Il sec. a.C. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. L’iscrizione posta sul fianco registra l’intervento dell’amministrazione locale (il Tuthina di Tlenache) per onorare il figlio di Velia Fanacni, per il quale si invoca la protezione di Thufltha. Fu rinvenuta nel 1746 presso Montecchio, nella campagna di Cortona, entro un deposito votivo di oggetti di bronzo, tra cui un incensiere e un’altra statuetta che recano iscrizioni di dedica alla stessa dea.

dea del destino come Thufltha? Che cosa sappiamo dunque del culto di Thufltha? Proviamo a mettere insieme tutte le informazioni raccolte. Si tratta di una divinità venerata in molti luoghi dell’Etruria, da Chiusi a Tarquinia e da Vulci alla campagna senese, da uomini e donne appartenenti a tutte le classi sociali, con una particolare predilezione da parte dei liberti. In almeno un caso viene invocata da una madre a favore del proprio figlio e in seguito all’intervento di un’istituzione pubblica. Le vengono offerte soprattutto statuette di bronzo (in genere femminili, ma anche maschili e di bambini) e incensieri.

La possibile identificazione La sua connessione accertata con la divinazione e con l’auspicio sembra passare attraverso la tutela su un consesso di divinità, che erano in grado di influenzare la volontà dello stesso Tinia, nel caso di decisioni importanti. Considerate tutte queste caratteristiche insieme, c’è una sola divinità del pantheon classico (per la verità piú di quello latino che non di quello greco) che può essere accostata a Thufltha per una possibile identificazione. Si tratta di Fortuna, la dea del destino, particolarmente venerata da alcuni personaggi chiave della storia romana, come Silla alla fine della repubblica ovvero come Servio Tullio, sesto re di Roma, inserito nella dinastia etrusca e fondatore di alcuni dei principali

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| Un culto diffuso e molto sentito Stando alle fonti letterarie, la presenza di Fortuna in Etruria è profonda e radicata. Si è già accennato al particolare rapporto della dea con Servio Tullio, che, in quanto suo protetto, le dedicò luoghi di culto pubblici al Foro Boario (nell’area sacra di Sant’Omobono) e Trans Tiberim con il nome di Fors Fortuna. Per rimanere a Roma, è interessante notare come il tempio del Foro Boario venisse restaurato successivamente da Furio Camillo dopo la presa di Veio e poi da Fulvio Fiacco dopo quella di Volsinii, in una stretta connessione con la progressiva conquista dell’Etruria. E a riprova di ciò, un secondo tempio di Fors Fortuna fu eretto accanto al primo da Spurio Carvilio dopo il suo trionfo sugli Etruschi. Tacito accenna

dell’esistenza a Ferento di un santuario dedicato a una dea che propone di identificare con Salus oppure con Fortuna, e anche nell’etrusca Capua è noto un luogo di culto dedicato a Fortuna attivo almeno sin dall’epoca repubblicana. Alcuni bronzetti romani raffiguranti la dea sono stati rinvenuti a Bolsena nel santuario del Pozzarello, in probabile connessione con la

locale dea del fato Nortia, per la quale pure si è fatto il nome di Fortuna. Queste sono solo alcune delle testimonianze del culto della dea in Etruria: sarebbe decisamente molto strano che non vi sia stata nessuna divinità del pantheon originario assimilabile a Fortuna. Finora erano state fatte alcune ipotesi, ma non del tutto convincenti: oggi forse abbiamo trovato una soluzione.

Sembra ora plausibile ipotizzare che in Thufltha si debba riconoscere l’equivalente etrusco della latina Fortuna luoghi di culto dedicati alla dea in città (per esempio quelli del Foro Boario e di Trastevere). Dunque Thufltha è Fortuna. L’ipotesi ha dalla sua diversi indizi a favore. Già da tempo era stato osservato come le fonti letterarie e le iscrizioni di età romana documentano con certezza l’esistenza di luoghi di culto a Fortuna in terra etrusca (vedi box in questa pagina), ma fino a ora non era stato possibile identificare nel pantheon etrusco quale potesse essere la figura divina assimilata alla dea latina. Per quest’ultima sono noti a Roma e nel Lazio diversi luoghi di culto, caratterizzati da riti ed epiteti differenti, come quello di Fors Fortuna a Trastevere, particolarmente venerato da plebei, artigiani e schiavi, oppure quelli di Fortuna Mammosa e Muliebris, rivolti alla

In alto l’area sacra di Sant’Omobono, a Roma, nella quale sorgeva il tempio dedicato a Fortuna dal re Servio Tullio, dopo la sua ascesa al trono come successore di Tarquinio Prisco, a testimonianza della venerazione speciale che il re etrusco tributava alla dea.

fecondità e alle donne, o ancora quelli di Fortuna Virgo e Virilis, riguardanti l’amore sia matrimoniale che libero. Ma altri esempi sono noti nel Lazio, come il santuario della Fortuna Primigenia a Praeneste (oggi Palestrina) e quello della Fortuna Anziate, entrambi fortemente legati ai culti oracolari. La dea della sorte, connessa in quanto primigenia con le stesse origini del mondo, va dunque considerata la principale candidata all’assimilazione con l’etrusca Thufltha. Con essa condivideva la venerazione da parte di tutte le classi sociali e le funzioni di guaritrice e dispensatrice di oracoli, ma inserita in un piú complesso sistema teologico: e proprio questo aspetto costituiva la principale differenza tra la religione etrusca e le altre dell’antichità classica.

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LE DIVINITÀ «MINORI»

Comprimari illustri

LE DIVINITÀ «MINORI»

S

iamo giunti al termine di questo viaggio alla scoperta delle divinità del pantheon etrusco, di cui abbiamo di volta in volta evidenziato le somiglianze con le figure divine della mitologia classica, ricercando nelle differenze l’originalità della religione e della cultura etrusca. Tuttavia, come appare evidente se si guarda alle diverse forme delle religioni politeistiche, in realtà non è possibile presentare in poche pagine un resoconto completo delle innumerevoli entità divine che presiedevano ai diversi aspetti della vita quotidiana, al fianco degli dèi principali, intenti a conservare l’ordine cosmico. Questo aspetto si rivela particolarmente vero per gli Etruschi: Seneca, infatti, ci ricorda come secondo la dottrina scientifica antica (che non conosceva l’elettricità) il fulmine era causato dallo scontro tra le nuvole, mentre, al contrario, gli Etruschi pensavano che le nuvole si scontrassero appositamente per creare il fulmine. Tutto era legato alla volontà degli dèi e il soprannaturale era pronto a manifestarsi in ogni momento e in ogni luogo.

Le acquisizioni piú recenti Questa breve premessa serve a spiegare come mai non sia possibile completare la rassegna delle divinità etrusche, dal momento che ve ne sarà sempre un’altra che è stata trascurata o che addirittura è ancora da scoprire (vedi box alle pp. 128-129): ci limiteremo a menzionare alcune figure minori note dalle dediche votive, che ne documentano il culto e permettono di riconoscerne i luoghi sacri. Una figura piuttosto interessante, ma ancora misteriosa, è il dio Tece Sans, letteralmente Tece «Padre», nel cui santuario di Tuoro, sulle

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sponde del lago Trasimeno, sono state offerte in dono statue di bronzo importanti come il famoso Arringatore e il Putto Graziani (oggi rispettivamente a Firenze e in Vaticano). Visto il livello e il pregio dei donari, non può essere considerata propriamente una figura minore del pantheon etrusco, a meno di non

Battaglia di Tullo Ostilio contro i Veienti e i Fidenati, affresco del Cavalier d’Arpino. 1597-1601. Roma, Musei Capitolini, Sala degli Orazi e Curiazi.


ritenerlo un aspetto locale di una delle divinità principali; ma anche questa soluzione si rivela improbabile, dal momento che un secondo importante santuario del dio è stato riconosciuto da Giovanni Colonna nel territorio di Perugia, sul monte Tezio, che anche oggi probabilmente ne conserva il nome.

Inoltre, il teonimo, nella variante Tecvm, è documentato su una delle caselle della fascia esterna del Fegato di Piacenza: una vera «guida breve» del pantheon etrusco alle soglie della romanizzazione, da noi spesso utilzzato come fonte di conoscenza in questa nostra presentazione degli dèi d’Etruria.

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Un’altra divinità menzionata da diverse dediche votive è Vatlmi, nel cui nome si può riconoscere la base del nome di Vetulonia (in etrusco Vatluna), una delle città piú importanti della dodecapoli etrusca, dalla quale i Romani, secondo la tradizione, trassero il simbolo del fascio littorio. Un luogo sacro alla divinità, di cui non sappiamo nemmeno dire se fosse maschio o femmina, doveva essere in funzione nel territorio tra Orvieto e Chiusi, dal quale provengono alcuni bronzetti votivi che ne documentano il culto. Ma il destino ha voluto che, in tutti e tre i casi, le iscrizioni fossero state offerte ad altre divinità e che il fantomatico (o la fantomatica) Vatlmi fosse chiamato in causa solo come testimone, in quanto titolare del luogo di culto in cui gli oggetti erano stati offerti. Una sorte analoga è toccata a Leimi, invocata nell’ambito di una dedica chiusina a Maris, e per lungo tempo altrimenti ignota, salvo la possibilità di confrontarne il nome con quello di Leinth, una divinità nota dagli specchi incisi, femminile in un caso e maschile in altri due, intenta a tenere in braccio il piccolo Maris.

Prospettive inquietanti Alcuni anni fa, la scoperta di una breve dedica vascolare dal santuario di Cetamura del Chianti ha permesso di individuare il luogo di culto di una delle due divinità (il testo può essere integrato sia con mi lein[th...] che mi leim[i...]). Per entrambi i nomi sembra

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Il cosiddetto «Arringatore», statua di bronzo a grandezza naturale, offerta come dono votivo in un santuario di Tuoro, sulla sponda settentrionale del lago Trasimeno. Prima metà del II sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. La figura togata, spesso confrontata con l’abbigliamento solenne dei magistrati romani, rappresenta probabilmente un devoto in atteggiamento di preghiera. Sul bordo inferiore della toga è incisa un’iscrizione etrusca di dedica al dio Tece Sans da parte della comunità locale a nome di un certo Aule Metelis: con ogni probabilità il personaggio raffigurato.


| Come a Troia Il racconto della presa di Veio, la prima delle città etrusche a cadere sotto il dominio di Roma, è infarcito di elementi leggendari che sembrano assumere l’aspetto di una vera e propria epopea incentrata attorno alla figura di Furio Camillo. Il condottiero romano condusse un lungo assedio nei confronti di Veio, lasciata da sola a fronteggiare il nemico da parte delle altre città d’Etruria, durato dieci anni tra il 406 e il 396 a.C., secondo una tradizione che, con ogni probabilità, intendeva porlo in parallelo con il mitico assedio di Troia. E, come nella narrazione omerica, la città etrusca cadde solo tramite uno stratagemma: un manipolo scelto di soldati si intrufolò attraverso una serie di cunicoli sotterranei che li condussero fin nel cuore della città, sulla stessa arce (ovvero l’acropoli oggi identificabile, con ogni probabilità, nella zona di Piano della Comunità, sull’altopiano di Veio, dove sono in corso scavi dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza»). Una volta impadronitisi in armi del punto piú alto e inaccessibile della città, i soldati di Camillo ebbero gioco facile nel mettere in fuga i Veienti, sorpresi in casa e desiderosi di proteggere donne e bambini, e

L’area archeologica di Portonaccio a Veio, presso Formello, alle porte di Roma.

aprirono le porte ai loro compagni decretando la fine della potenza di Veio. A questo resoconto, già di per sé epico, Tito Livio aggiunge il racconto di un episodio al quale egli stesso non riesce a credere (mostrando uno spirito critico razionalista): al momento dell’incursione romana era in atto un sacrificio sull’arce da parte del re, al quale era stato predetto da un aruspice che avrebbe ottenuto la vittoria se avesse completato il rituale. Proprio in quel momento i Romani balzarono fuori dal cunicolo e rapirono i resti consacrati della vittima sacrificale, riuscendo a portarli a Camillo e consegnando cosí al dittatore la possibilità di una vittoria miracolosa. La Giunone Regina dell’acropoli di Veio fu trasferita a Roma: aveva cosí inizio la fine dell’indipendenza dell’Etruria e l’assorbimento delle sue tradizioni nell’abbraccio della cultura classica.

A sinistra: il cosiddetto «Putto Graziani». Statuetta di bronzo, raffigurante un bambino nudo che tiene in mano un uccello (forse una colomba) e un frutto; il medaglione al collo (bulla) ne garantisce la condizione sociale libera. Prima metà del Il sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Etrusco Gregoriano. Rinvenuta nel XVI secolo a Tuoro, dove era stata offerta in un santuario di Tec(e) Sans, come informa l’iscrizione incisa sulla gamba: certamente si tratta dello stesso luogo sacro in cui era stato dedicato l’«Arringatore».

suggestivo il confronto con il verbo leine, utilizzato negli epitaffi per definire la morte, aprendo inquietanti prospettive sulla funzione di queste divinità. Qualche informazione in piú è ora disponibile per il dio Lur, il cui nome è noto anche nella variante Lurs, venerato a Cetamura, ma oggetto di culto a Orvieto come a Bolsena e, forse, a Santa Marinella e a Tarquinia, nonché menzionato nel Piombo di Magliano e nel Fegato di Piacenza. Particolarmente utile per chiarire la fisionomia del dio si rivela un candelabro di bronzo a lui

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consacrato, ritrovato in una tomba di Corchiano, dove probabilmente era finito in seguito al saccheggio dei santuari orvietani che i Romani e i loro alleati perpetrarono dopo la presa di Volsinii nel 264 a.C. (ricavando nientemeno che 6000 statue di bronzo, secondo lo storico greco Metrodoro di Scepsi). La dedica del candelabro attribuisce al dio Lurs l’epiteto Lar, identico alla parola latina che ancora in epoca repubblicana era utilizzata per indicare l’«eroe» oggetto di culto, come nel caso del cippo di Enea da Tor Tignosa. Il misterioso dio poteva dunque essere un eroe divinizzato, eventualmente un fondatore mitico, come Romolo/Quirino per i Romani? Una parziale conferma di questa ipotesi potrebbe venire dall’aspetto militare che il dio assume nell’unica attestazione iconografica nota: uno specchio inciso della metà del IV

| La ricerca continua Il politeismo degli Etruschi, che lo storico Tito Livio ebbe a definire «la gente piú di tutte dedita alla religione», era perfino piú ricco e articolato di quanto siamo riusciti a presentare nei capitoli di questa Monografia. Ma anche per gli studiosi la ricerca è tutt’altro che conclusa: ne sono prova le scoperte che anche di recente hanno arricchito il pantheon etrusco di due diverse figure divine. Giovanni Colonna ha potuto identificare in alcune iscrizioni l’esistenza di una figura divina denominata Lua, ovvero Lusa, evidentemente connessa con l’omonima dea latina Lua, dalle funzioni oscure e attiva in ambito funerario. Nello stesso tempo, il lavoro di ricerca portato avanti indipendentemente da Simonetta Stopponi e da Adriano Maggiani ha permesso di riconoscere il culto delle Tluschva, venerate a Orvieto nel santuario di Campo della Fiera, ma anche a Caere nel

Copia del «Trono di Claudio», rilievo di un altare di marmo ornato con un fregio di divinità che rappresentano atrettante personificazioni di città etrusche, ritrovato a Cerveteri. Prima metà del I sec. d.C. Roma, Museo delle Antichità Etrusche e Italiche dell’Università degli Studi di Roma «Sapienza». Le didascalie permettono di riconoscere, da destra verso sinistra, i Tarquiniesi (rappresentati da un solenne personaggio ammantato: probabilmente il mitico fondatore Tarconte), i Vulcenti (rappresentati da una dea in trono che tiene in mano un uccello: forse un’Afrodite, sulla quale vola Eros), e i Vetuloniesi, il cui nume tutelare è un giovane nudo con un remo sulla spalla, che potrebbe aiutarci ad attribuire caratteristiche marine a Vatlmi, documentata da alcune iscrizioni, o a una divinità affine.

secolo, conservato al Museo Puskin di Mosca, in cui sta seduto sulla sinistra con la spada sguainata in mano, vestito del solo mantello, mentre Tinia gli pone una mano in capo in un gesto che sembra essere di benedizione. Il riesame dello specchio dopo la sua pulizia ha permesso a Nancy de Grummond di comprendere la natura oracolare della scena, in cui Lur ottiene dal padre degli dèi una visione, probabilmente dopo un sacrificio cruento: ancora una volta un’azione adatta a un mitico eroe guerriero,

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Kanuta Larecenas

Tluschva

santuario in località Sant’Antonio e già note dalle caselle del Fegato di Piacenza. Si tratta, con ogni probabilità, di ninfe, forse legate al culto delle acque, la cui venerazione apre una nuova interessante pagina negli studi sulla religione etrusca.

L’unico tentativo di fare luce sulla misteriosa figura divina è stato portato avanti da Giovanni Colonna, che proponeva di confrontare il suo nome con quello dell’altrettanto oscuro dio latino Pitumnus, venerato a Veio nel santuario di Macchiagrande. Piú difficile è fare ipotesi sulla fisionomia divina quando le divinità sono note da una sola attestazione, come nel caso di Evas, a cui è dedicato un attingitoio di bucchero tardo-arcaico e il cui nome può forse essere assimilato a quello di Evan, un’ancella di Afrodite/Turan nota dagli specchi. Si è pensato a una sorta di genius o di spirito locale per Lethams, che pure compare diverse volte sul Fegato di Piacenza, ma è noto anche dall’arcaica Tegola di Capua e da un’iscrizione su uno specchio inciso, di cui purtroppo è andata persa la parte figurata.

Figure sfuggenti della quale sono noti svariati esempi nella mitologia classica. A complicare ulteriormente le cose, però, vi è l’attestazione del nome Lurmi, che compare su una barretta divinatoria e nelle dediche votive di una statuetta e di un altarino miniaturistico di bronzo: non è chiaro, infatti, se si tratti di una variante della stessa divinità o piuttosto della sua compagna o di una figura divina affine.

La compagna del dio dell’Ade? Una divinità certamente femminile è invece Pethan, come dimostra il suo epiteto sulla base di pietra di un donario che le era stato offerto a Corciano, nei pressi di Perugia: la dea è qualificata come «appartenente alla cerchia di Calus», mostrando che poteva avere un aspetto infero e non già che si trattasse della compagna del dio dell’Ade, come pure è stato proposto. Anche in questo caso non è possibile pensare semplicemente a una divinità locale come è noto in diversi casi, in cui addirittura figure divine minori a volte non possedevano un nome proprio, dal momento che lo stesso nome compare a Orvieto nell’iscrizione di dedica su un’altra base di donario ritrovata nelle vicinanze del tempio di via San Leonardo.

In alto, nel box restituzione grafica della base in pietra di una statuetta offerta in dono, in epoca tardo-arcaica, nel santuario di Campo della Fiera, a Orvieto, in corso di scavo da parte di una missione dell’Università di Perugia. Nella parte superiore modanata di due dei lati è stata scolpita una lunga iscrizione di dedica da parte di una schiava liberata (Kanuta Larecenas) alle divinità Tluschva, nelle quali si è proposto di identificare le Ninfe.

Ma persino piú sfuggenti sono altre figure divine della Tegola di Capua, come Sethums (letteralmente «il Settimo», se come pare il nome deriva dalle lingue italiche) ovvero Savlasie (eventualmente legato alla vita, dal momento che l’espressione etrusca svalce avil significa «visse anni...»). E ben poco si può dire anche di Tlenasie, a cui è consacrata una statuetta del principio del lII secolo a.C., forse di produzione volsiniese, conservata nella Galleria Estense di Modena; ciononostante doveva essere una figura divina di un certo peso se dal suo nome è derivato quello di un centro secondario della campagna cortonese (il cosiddetto tuthina Tlenache noto da alcune attestazioni) e se il suo culto continuava a Perugia in età imperiale, quando è documentata l’esistenza di un’area Tlennasis. Infine, resta ancora da menzionare un’ultima figura divina del santuario di Portonaccio: l’altrimenti ignota dea Vena (o eventualmente Venai), che ricevette in offerta una grande brocca di bucchero decorata da una testa femminile a rilievo e per la quale è stato proposto un accostamento con la ninfa Venilia, madre di Turno nell’Eneide di Virgilio, connessa con Nettuno e con il culto delle acque.

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MONOGRAFIE

n. 27 ottobre/novembre 2018 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Daniele F. Maras è funzionario archeologo presso la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: M. Carrieri: pp. 6/7, 10; G. Dagli Orti: p. 11 (basso); G. Nimatallah: p. 12 – Mondadori Portfolio: Leemage: p. 8; Album: p. 11 (alto) – Doc. red.: p. 9 – Bridgeman Images: p. 12 – Archivi Alinari, Firenze: Fine Art Images: pp. 124/125 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 14. Il restante corredo iconografico dell’opera è stato realizzato grazie alla documentazione redazionale della rivista «Archeo», e, in particolare, dai nn.: 291, maggio 2009 (pp. 16-21); 292, giugno 2009 (copertina e pp. 22-27); 293, luglio 2009 (pp. 28-33); 294, agosto 2009 (pp. 34-39); 295, settembre 2009 (pp. 40-45); 296, ottobre 2009 (pp. 46-51); 297, novembre 2009 (pp. 52-57); 298, dicembre 2009 (pp. 58-63); 299, gennaio 2010 (pp. 64-69); 300, febbraio 2010 (pp. 70-75); 301, marzo 2010 (pp. 76-81); 302, aprile 2010 (copertina e pp. 82-87); 303, maggio 2010 (pp. 88-91); 304, giugno 2010 (pp. 92-97); 305, luglio 2010 (pp. 98-101); 306, agosto 2010 (pp. 102-107); 307, settembre 2010 (pp. 108-111); 308, ottobre 2010 (pp. 112-117); 309, novembre 2010 (pp. 118-123); 310, dicembre 2010 (pp. 126-129). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: in primo piano, particolare di una statuetta di bronzo arcaica raffigurante Tinia in posa regale. Secondo quarto del V sec. a.C. Malibu, The J. Paul Getty Museum. In secondo piano, particolare di una statuetta bronzea del dio Culsans, da Cortona. IV-III sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

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