DI T I T OR U T RAT
MONOGRAFIE
IMPERATORI Vita, intrighi e potere nella Roma dei Cesari
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PE IM
N°22 Dicembre 2017 Rivista Bimestrale
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ARCHEO MONOGRAFIE IMPERATORI
I MA L I G RO
IN EDICOLA IL 21 NOVEMBRE 2017
IMPERATORI Vita, intrighi e potere nella Roma dei Cesari testi di Maria Baiocchi, Giorgio Bejor, Andrea Giardina, Anna Maria Liberati, Anna Maria Ramieri, Enrico Silverio e Giovanna Quattrocchi
6. AUGUSTO E nulla fu piú come prima 18. GIULIO-CLAUDI E FLAVI Da Cesare ai Cesari
30. L’Ara Pacis. Il «manifesto» del principe 34. Le Res Gestae divi Augusti. Cosí parlò l’imperatore 36. La vita privata. Dietro le quinte 37. I Libri Sibillini. Garanzia del destino di Roma 38. Mecenate. Gli intellettuali del consenso 40. L’Eneide. Ascendenze divine 42. Il cristianesimo delle origini. Alle prese con un nuovo «nemico» 44. I lavori pubblici a Roma. Interventi per il bene comune 48. Seneca. Ironie di un filosofo 50. Il culto imperiale. Principi come dèi 54. Nerone. Il sovrano dell’impossibile 60. La Domus Aurea. Una casa grande come una città 62. L’arco di Tito. Immagini del trionfo 66. Giochi gladiatori. Folle in delirio 72. I ludi circensi. All’ultimo respiro 73. Il teatro. In scena! 74. Giovenale. Un poeta contro
76. ANTONINI Quando Roma dominò il mondo
82. Marco Ulpio Traiano. Quell’ottimo «provinciale» 88. I servizi di informazione. Dalla guerra alla sicurezza interna 90. Ostia. Il porto dell’impero 92. Villa Adriana. Quasi un manuale d’architettura 96. Svetonio. Un cronista pettegolo 98. San Callisto. Un cristiano di successo
100. PRINCIPI D’AFRICA Verso l’anarchia
104. Matrimoni e concubine. Alla ricerca di legami «leggeri»
106. IMPERATORI SOLDATI Il gigante barcolla 109. Massimino il Trace. Una parabola fosca 112. Le Mura Aureliane. Difendere il cuore dell’impero 117. I tetrarchi. Potere quadrifronte
118. NEL SEGNO DI CRISTO
Una croce per insegna
Augusto
E NULLA FU PIÚ COME PRIMA PER GRAMSCI, LA SALITA AL POTERE DI AUGUSTO EQUIVALSE A UNA «RIVOLUZIONE PASSIVA». IL SUO AVVENTO, INFATTI, NON FU ACCOMPAGNATO DA UNA RIVOLTA. RESTA IL FATTO CHE IMPRESSE ALLA STORIA DI ROMA UNA SVOLTA EPOCALE, TENENDO A BATTESIMO L’IMPERO di Andrea Giardina
P
rima del capitalismo, nessuna società fu piú complessa di quella romana. Roma non conobbe lo Stato nella sua forma moderna, ma diede vita a compagini politiche altamente strutturate, che potrebbero anche apparirci con talune caratteristiche di «modernità». È questo il caso dell’impero tardo-antico, che fu in gran parte una creazione di Diocleziano e di Costantino, o del principato, come viene comunemente definito il regime con il quale Augusto sostituí la vecchia e logora repubblica romana. La nascita di nuovi sistemi politici, la creazione di nuove forme organizzative, l’invenzione di nuovi apparati di governo sono tutti fenomeni che rimandano lo storico dell’antichità a una domanda fondamentale: come avveniva il cambiamento in sistemi la cui cultura politica era dominata dal mito della tradizione, del mos maiorum (il «costume degli avi»), come dicevano i Romani? Una differenza basilare tra la politica moderna e quella antica riguarda l’idea di rivoluzione sociale. Nel mondo antico essa non aveva una connotazione positiva. Era oggetto di approvazione soltanto quel sovvertimento che mirasse a ripristinare un ordine precedente, alterato, per esempio, dall’instaurazione di una tirannide. Ma non era assolutamente lecito elogiare
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l’azione eversiva di chi volesse abbattere un sistema politico accreditato dal tempo. Lo stesso termine revolutio veniva usato a indicare i fenomeni cosmici, non i mutamenti politici, le rotture della storia istituzionale, le alterazioni dei rapporti sociali; per designare questi fenomeni si adoperavano invece termini come seditio o tumultus, il cui risvolto negativo è fin troppo evidente. Cosí, quando i gruppi tradizionalisti volevano gettare discredito su un avversario che sosteneva una politica filopopolare e che voleva magari introdurre qualche riforma istituzionale, lo accusavano di voler «turbare la concordia degli ordini » oppure di «tramare cose nuove». Nel peggiore dei casi, lo calunniavano dicendo che egli aspirava segretamente alla monarchia: accusa gravissima, che solitamente preludeva al suo annientamento fisico.
Fazioni, non partiti Altra differenza importante tra l’antico e il moderno è l’assenza di partiti politici. Non esisteva il partito inteso come associazione dotata di un apparato stabile, come organismo che mira a realizzare un modello di società (cioè un’ideologia). Esistevano invece fazioni, raggruppamenti fluttuanti di individui accomunati spesso da amicizie, parentele, interessi, clientele, che
Nella pagina accanto testa della statua togata di Augusto «capite velato», raffigurato, cioè, come pontefice massimo, intento a celebrare un sacrificio, da via Labicana, a Roma. Inizi del I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
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AUGUSTO
si mobilitavano a favore di determinati personaggi (il piú delle volte dei nobili) per condurli al potere e sostenerli. Le fazioni potevano ovviamente farsi portatrici di scelte sociali contrapposte, ma la stabilità dell’ordine politico costituito era un valore a cui tutti dovevano dichiarare di ispirarsi. Durante l’ultima fase della repubblica romana, gli schieramenti politici avversi si erano riconosciuti grosso modo in due fazioni, quella degli optimates e quella dei populares. Gli optimates, vale a dire gli «uomini eccellenti» (detti anche boni, «quelli che pensano bene», che sono guidati da «buoni principi») erano coloro che, come per esempio Cicerone, operavano per rafforzare il Senato, per contrastare le rivendicazioni delle masse popolari, per opporsi a tutti quei cambiamenti che potessero alterare gli equilibri sociali ed economici. Populares erano invece quei nobili che, come i Gracchi o come Giulio Cesare, si facevano interpreti delle esigenze delle masse popolari. Favorevoli al ridimensionamento dei poteri del Senato, essi propugnavano la necessità di attenuare lo squilibrio tra ricchi e poveri e di redistribuire la ricchezza mediante la promulgazione di leggi agrarie, le distribuzioni alimentari, la riduzione degli affitti.
La paura delle rivolte Un altro fattore che impedí la maturazione di un’ideologia di tipo rivoluzionario fu la schiavitú. In una società dove il numero degli schiavi era altissimo e dove, di conseguenza, la paura delle rivolte schiavili era ossessivo, sullo sfondo delle agitazioni popolari si delineava sempre lo spettro dello schiavo che prende le armi contro il padrone, Inoltre, la violenza delle masse era regolarmente descritta come un fenomeno imprevedibile, quasi come la manifestazione di un’improvvisa follia. In mancanza di organizzazioni che le inquadrassero entro una strategia politica di ampio respiro, le spinte eversive nate dal disagio sociale esplodevano infatti all’improvviso e si esaurivano altrettanto rapidamente, in folate di rabbia collettiva. Per tutti questi motivi, il mondo romano non
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Statua di Augusto come pontefice massimo, da via Labicana (Roma). Inizi del I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
L’Augusto detto «di Prima Porta», perché proveniente dalla Villa di Livia situata appunto in quella località, sulla via Flaminia. Inizi del I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
conobbe rivoluzioni come quelle che plasmarono l’età moderna. Conobbe invece grandiose operazioni di ingegneria politica, imposte dall’alto per rafforzare un sistema sfibrato e lacerato da gravi tensioni (a questo tipo di operazioni Antonio Gramsci attribuí la bella definizione di «rivoluzione passiva»). Uno dei piú grandi rivoluzionari del mondo antico (secondo questa particolare accezione del termine rivoluzione) fu Augusto. Il suo genio si manifestò nella straordinaria abilità con cui ridisegnò completamente lo Stato romano sotto l’apparenza di non modificare nulla. Si dice che la menzogna politica sia nata con la città stessa e quindi con la politica. Come tutti i discorsi politici, anche quello falso può essere effimero o creativo, un mero imbroglio o un prezioso strumento di trasformazione. Le forme piú alte della menzogna politica sono due: quella di chi dichiara di aver cambiato tutto allo scopo di non cambiare nulla e quella di chi dichiara di non aver cambiato nulla allo scopo di modificare tutto. Augusto eccelse in questo secondo genere.
Un testamento politico Gli storici discutono da sempre sulla natura del principato augusteo. L’operazione preliminare consiste nel dare voce allo stesso Augusto e rileggere quella specie di testamento politico che va sotto il nome di Res Gestae divi Augusti («Imprese del divino Augusto»; il documento ci è noto da alcune copie epigrafiche). «Nel mio sesto e settimo consolato [28 e 27 a.C.], dopo che ebbi estinto le guerre civili, assunto per universale consenso il controllo di tutti gli affari di Stato, trasmisi il governo della repubblica dal mio potere alla libera volontà del Senato e del popolo romano. Per questa mia benemerenza, con decreto del Senato ebbi
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AUGUSTO
l’appellativo di Augusto, la porta della mia casa fu pubblicamente ornata di alloro, e sull’entrata fu affissa una corona civica. Nella Curia Giulia fu posto uno scudo d’oro con un’iscrizione attestante che esso mi veniva offerto dal Senato e dal popolo romano in riconoscimento del mio valore, della mia clemenza, della mia giustizia e pietà. Da allora in poi fui superiore a tutti in autorità (auctoritas), sebbene non avessi maggior potere (potestas) di tutti gli altri che furono miei colleghi in ciascuna magistratura» (traduzione di Luca Canali). Il modo in cui Augusto descrive la propria particolare posizione nello Stato è molto chiaro. Egli ammette di aver goduto di un ascendente eccezionale. Il merito di aver posto fine alle guerre civili e di aver restituito la cosa pubblica ai suoi legittimi detentori (il Senato e il popolo), lo aveva reso superiore a tutti in auctoritas, una parola che il contesto sembrerebbe suggerire di tradurre semplicemente con «autorevolezza», «prestigio», ma che, come vedremo, aveva invece implicazioni ben piú gravi. Gli onori ricevuti per questo suo merito – aggiunge Augusto – erano stati di ordine puramente morale e discendevano dal riconoscimento pubblico di un complesso di virtú civiche (virtus, clementia, iustitia, pietas), che sembravano appartenere a lui piú che a ogni altro. Quanto al potere vero e proprio, Augusto affermava di averne goduto in una misura normale: egli avrebbe detenuto Io stesso identico potere che avevano esercitato i suoi colleghi nelle singole magistrature. In un altro passo delle Res Gestae, egli si vanta infatti di aver respinto la dittatura, che il Senato e il popolo gli avevano offerto, e di non aver accettato nessuna
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Il Clipeus Virtutis (scudo votivo) di Augusto, riproduzione marmorea dello scudo d’oro offerto dal Senato e deposto nella Curia nel 27 a.C., dal Foro di Arles. 26 a.C. Arles, Musée départemental Arles antique.
magistratura «che fosse in contrasto con il costume degli avi». Augusto rivendicava in tal modo la continuità tra il vecchio regime repubblicano e la politica contemporanea. La sua figura aveva impresso un carattere nuovo alla società romana unicamente sotto il profilo etico: il mondo aveva ritrovato la pace, i cittadini avevano smesso di uccidere i cittadini, gli agricoltori erano tornati ai campi, gli dèi si erano riconciliati con gli uomini. Ma anche questo «ottimo Stato» di cui egli si dichiarava autore era da lui presentato come un ritorno al passato, come una riscoperta di antichi valori che i Romani avevano smarrito.
Quasi un’età dell’oro La virtú di Augusto si era dunque riversata sull’umanità inaugurando quasi un’altra età dell’oro. Questo aspetto carismatico della sua persona si riflette nello stesso cognome Augustus, che Ottaviano assunse nel 27 a.C. Derivato dal verbo augeo, «accresco», Augusto indicava appunto la caratteristica di un uomo che, con la sua stessa persona, accresce la cosa pubblica. L’aspetto salvifico connesso con questa capacità faceva sí che il cognome Augusto indicasse anche «colui che è venerato». Esso rinviava inoltre palesemente all’augurium augustum con cui era stata fondata Roma. Il principe si proponeva, pertanto, anche come una sorta di nuovo Romolo. Un naturale svolgimento di questo attributo carismatico fu il culto della sua persona: gli onori tributati al Genio (il nume tutelare) di Augusto entrarono a far parte della religione statale; il culto della dea Roma e di Augusto si diffuse in tutto l’impero e il culto di Augusto vivente fu introdotto persino
in Italia, terra che, come poche altre, si era sempre mostrata restia a venerare un essere umano. Il miracolo da lui compiuto con la pacificazione del mondo – sosteneva Augusto – non aveva avuto come prezzo la perdita della libertà: le istituzioni, infatti, erano quelle di sempre, e quelle di sempre le regole. Roma era governata dagli stessi magistrati che l’avevano guidata al tempo delle guerre puniche. E quell’uomo eccezionale che aveva salvato l’umanità dalla catastrofe si era accontentato dello stesso potere di un normale magistrato. Per misurare il grado di veridicità di questa rappresentazione è necessario tentarne un’anatomia. Cominciamo col domandarci quali fossero, concretamente, i poteri di Augusto.
Incarico a vita Egli governava anzitutto per mezzo della tribunicia potestà (tribunicia potestas), che nel 23 a.C. gli fu concessa a vita. Con questo termine s’indicavano le importanti prerogative dei tribuni della plebe. Appartenente a un collegio di dieci membri, il tribuno aveva il potere di frapporre il suo veto per paralizzare gli atti di qualsiasi organo di governo della repubblica. Questo diritto di veto valeva anche nei confronti dei suoi colleghi nella magistratura. Egli aveva anche la facoltà di convocare il Senato e l’assemblea della plebe. Le delibere prese da quest’ultima su iniziativa del tribuno, chiamate plebisciti («deliberazioni della plebe»), avevano valore di legge. Il tribuno era inoltre «sacrosanto»: la sua persona era inviolabile e immune da qualsiasi coercizione. L’altra prerogativa del potere augusteo era l’imperium proconsulare, vale a dire il comando che spettava ai proconsoli nella loro funzione di governatori delle province. Sembrerebbe quindi che Augusto avesse
Il cosiddetto Cammeo Blacas, preziosa gemma in sardonice che presenta un ritratto di profilo dell’imperatore Augusto realizzato a bassorilievo. 14-20 d.C. Londra, The British Museum.
ragione quando dichiarava di governare «secondo il costume degli avi» e mediante poteri analoghi a quelli dei suoi colleghi nelle magistrature (i tribuni della plebe, i proconsoli). Ma le parole abbaglianti delle Res Gestae, che certamente Augusto avrà amato recitare in circostanze pubbliche e private, e che, senza dubbio, qualcun altro avrà avuto cura di ripetere per fargli cosa gradita, non bastano a trasfigurare una realtà che ci appare ben diversa. Dietro l’immagine repubblicana costruita dal richiamo ai costumi antichi, alle magistrature, alla sovranità del Senato e del popolo, vediamo infatti ben nitida l’immagine del potere monarchico. Augusto aveva la tribunicia potestà, ma non era un tribuno della plebe. Questo vuol dire che la sua persona era sacra e inviolabile come quella dei tribuni, e che, come i tribuni, egli poteva fare approvare i plebisciti, convocare il Senato, usare il diritto di veto. Ma c’era una differenza fondamentale: non essendo tribuno, le sue iniziative non erano soggette al veto dei tribuni della plebe. A rigor di termini, egli non aveva veri e propri colleghi. La tribunicia potestas gli fu inoltre concessa a vita, con la conseguenza che egli non era obbligato a sottoporsi alle elezioni. Lo stesso può dirsi per l’imperio proconsolare. Un vero e proprio proconsole esercitava le sue funzioni solo dentro i confini della singola provincia che gli era stata affidata. L’imperio di Augusto, invece, non aveva restrizioni di spazio. Esso veniva inoltre esercitato da un individuo che non risiedeva in provincia, ma nella capitale. Poiché Augusto sommava nella sua persona poteri che, per ampiezza e durata, superavano quelli dei normali magistrati, si può dire che egli godesse, sotto il profilo giuridicoistituzionale, di una vera e propria sovranità, derivante dalla sua particolare auctoritas. Il
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AUGUSTO
Augusto ebbe cura di non ripetere gli errori del padre adottivo Cesare e in questo fu facilitato dalle sue origini. Le storie personali hanno sempre la loro importanza. Appartenente alla piú prestigiosa gente patrizia di Roma (i Giulii discendevano addirittura dalla dea Venere), Cesare non riusciva a mascherare il disprezzo che provava per la maggior parte dei senatori. Nel corso della lotta politica e delle guerre civili aveva sperimentato l’angustia delle prospettive di molti membri del Senato, i loro sbandamenti morali, le loro incertezze politiche, il loro distacco dai sentimenti e dagli interessi delle masse. Quel patrizio discendente di Venere ma ateo, che guardava piú alla plebe di Roma che alla curia, aveva sottovalutato i sentimenti repubblicani del Senato. Vere o false che fossero le aspirazioni di Cesare alla monarchia, a molti esse risultarono credibili. E questo portò alle Idi di Marzo.
Cautela e lungimiranza
principato può essere dunque definito come l’«epoca della tribunicia potestas posta a fondamento del potere monarchico, e pertanto affiancata all’imperium militare» (Santo Mazzarino). In questa geniale mistificazione sta la grandezza di Augusto. Egli comprese che, per imporre in Roma un regime monarchico, era necessario salvare la forma repubblicana. Non sottovalutò l’avversione che i Romani avevano per parole come «re» e «regno», né il discredito che, dopo le avventure di Silla e di Cesare, si era riversato sull’istituzione della dittatura. Si presentò quindi come un semplice magistrato, ma governò da re per circa un quarantennio e fondò un regime destinato a un’eccezionale durata.
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In alto Gli dèi familiari, olio su tela di John William Waterhouse. 1880. Tainan, Chi Mei Museum. Il pittore immagina due donne romane intente a celebrare un rito in onore degli dèi familiari, ambientato nel larario, il luogo della casa deputato a custodire le statuette degli antenati defunti e delle divinità protettrici del focolare domestico.
Figlio di un cavaliere di Velletri, Ottaviano ebbe una piú cauta visione delle cose e seppe distinguere i problemi che richiedevano un’azione rapida e spregiudicata da quelli che richiedevano tempi lunghi e tocchi sfumati. La sua fiducia per il ceto equestre, al quale apparteneva la sua famiglia di origine, si riflette nel peso da lui attribuito ai cavalieri nella nuova organizzazione dello Stato. Egli affidò a un cavaliere la carica piú delicata e piú vicina al sovrano, quella di prefetto al pretorio, a cui competeva il comando dei pretoriani, la guardia del corpo del principe. Sempre ai cavalieri fu affidato il governo dell’Egitto, la provincia dove, nell’ultima fase delle guerre civili, si erano addensati i maggiori pericoli per la saldezza del dominio romano. Sempre ai cavalieri furono affidate le prefetture della flotta, cioè il comando delle due flotte militari permanenti stanziate a Ravenna e a Miseno (in Campania). Le altre cariche di rilievo erano affidate ai membri dell’ordine senatorio. I pilastri del nuovo Stato augusteo furono dunque l’ordine senatorio e l’ordine equestre. L’importanza di questi due ordini nel nuovo
regime emerge anche dal loro ruolo nell’elezione dei magistrati superiori. Questo compito spettava tradizionalmente alla principale assemblea popolare, i comizi centuriati. Augusto assegnò a gruppi di senatori e di cavalieri da lui prescelti la funzione di designare i candidati da sottoporre successivamente al voto dei comizi. Nel meccanismo finale della designazione era decisivo il ruolo della sorte, e il responso veniva proclamato nel nome di eroi divinizzati della famiglia imperiale. In In alto rovescio di moneta di Augusto con il segno zodiacale del Capricorno. I sec. a.C. Milano, Castello Sforzesco, Gabinetto Numismatico e Medagliere. In basso particolare della Base dei Vicomagistri, dagli scavi sotto il
questa atmosfera intrisa di autorevolezza e di religiosità non c’era spazio né per la discussione, né per il dissenso. L’antica funzione politica dei comizi si trasformò quindi in un rituale quasi religioso, diretto dal principe e dai due ordini che collaboravano al governo imperiale. Quello che colpisce maggiormente, quando si scava nei meandri del regime augusteo, è la cura minuziosa che il principe ebbe per i particolari: sembra che nulla sfuggisse al suo sguardo intelligente e freddo e Palazzo della Cancelleria (Roma). Il rilievo raffigura una processione religiosa con sacerdoti e servi sacrificanti. 14-37 d.C. circa. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano.
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AUGUSTO
che la sua regia non trascurasse alcuna inquadratura. Lo si è constatato ancora di recente, quando si è avuta l’idea d’indagare le conseguenze della rivoluzione augustea sulla vita della città di Roma. Nel passaggio dalla repubblica al principato cambiano le caratteristiche del calendario romano e con esse mutano l’organizzazione e l’ordine del tempo. Nascono nuovi ritmi del quotidiano. Il tempo della festa, che nella città repubblicana era prerogativa degli dèi, nella città augustea (come già parzialmente in quella cesariana) viene occupato da ricorrenze in onore degli uomini. I cittadini sono chiamati a commemorare episodi della storia contemporanea che avevano punteggiato drammaticamente l’ultima fase delle guerre civili: la sconfitta di Pompeo Magno a Farsalo, quella di Sesto Pompeo a Nauloco, la battaglia di Azio e tanti altri episodi, militari o civili. Durante il principato augusteo entrarono nel calendario circa 30 ricorrenze assolutamente nuove. Queste nuove ricorrenze non erano fatti puramente formali ed esterni: erano eventi festivi che convogliavano tutti i cittadini intorno al principe e alla sua casa: «Il principe – ha scritto Augusto Fraschetti – proiettava la sua ombra sul tempo civico, immettendo poderosamente se stesso e la sua casa nei calendari».
Una strategia sapiente Accanto al tempo della festa, il tempo del lutto. Grazie alla sapiente strategia del principe, i lutti della domus Augusta sono assimilati a catastrofi cittadine. Gli eventi, fausti o infausti, della famiglia dominante s’identificano ormai con il bene o con il male della cosa pubblica. In questa città riplasmata dalla mano di Augusto, grande ingegnere ugualmente attento ai vasti scenari e ai piccoli particolari, i due livelli si sovrappongono in un unico afflato sentimentale e ideologico. Parallelamente a questa manipolazione e conquista del tempo civico, Augusto procede a una manipolazione e conquista dello spazio civico. E questo non nel senso, prevedibile e banale, del principe edificatore di palazzi, di
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templi e di infrastrutture pubbliche, del sovrano che lega il proprio nome ai fasti solenni del marmo. Ma in un senso assai piú raffinato e penetrante. Facciamo un esempio. I Lares erano divinità indissolubilmente legate a un territorio (il Lar familiaris era connesso alla casa, i Lares viales alle vie, ecc.), e proteggevano tutti coloro che abitavano negli spazi di loro pertinenza. In età augustea, i Lares avevano assunto una piú marcata connessione con il mondo dei morti, tanto che Apuleio poté
Roma. Una suggestiva veduta notturna del Foro di Augusto.
successivamente definire il Lar come «colui che possiede la casa dei propri discendenti con nume quieto e pacato». Ebbene: dal 12 a.C., i Lares Augusti, vale a dire i Lares della casa del principe escono dalla loro sede originaria e occupano sistematicamente lo spazio cittadino. Il principe li diffonde nei vici (potremmo tradurre impropriamente nei «quartieri») della sua città e ne affida il culto ai «capi dei vici» (i vicomagistri) tratti dalla «plebe infima» e assistiti dagli schiavi. Il disegno è complesso e,
ancora una volta, geniale: si tratta di avvolgere la città nel culto dei Lares familiari propri della famiglia del principe (la città è quasi come la famiglia del principe) e, al tempo stesso, di coinvolgere in questa atmosfera quieta e pacata i ceti potenzialmente pericolosi: l’infima plebe, gli schiavi. Integrazione sociale, consenso politico, controllo delle spinte eversive e sensibilità religiosa si saldano in un quadro coerente, dove nulla sembra lasciato al caso.
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AUGUSTO
Germanico di fronte alla disfatta di Varo. Olio su tela di Lionel Toyer. XIX sec. Le Mans, Musée de Tesse.
Un processo di omologazione analogo e inverso Augusto effettua chiamando nella propria casa culti per eccellenza pubblici. Primo fra tutti quello di Vesta, il cui ingresso nella residenza del principe sul Palatino fu decretato dal Senato. «Pensare i culti di una città a immagine della propria casa, ma pensare al tempo stesso i culti della propria casa a immagine di una città»: in questa formula sta un progetto grandioso, non meno fortunato di altri progetti augustei.
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Spazi della città, spazi del mondo. Rileggiamo le prime parole delle Res Gestae: «Imprese del divo Augusto, con le quali sottomise il mondo all’impero del popolo romano». Nel suo testamento politico, Augusto insistette piú volte su questo tema, tanto che il documento può essere anche considerato quasi come un piccolo trattato di geografia. Il motivo ritorna quasi ossessivo nella cultura dell’epoca da Virgilio a Livio, da Orazio a Ovidio. Sui tipi monetali il principe è
raffigurato nudo con un piede sul globo, o con il globo in mano, o ancora appoggiato al globo. Altrove il globo è associato al Capricorno, segno zodiacale di Augusto. C’è di piú: dopo aver letto le Res Gestae, un Romano avrebbe potuto, girando per il Foro di Augusto, contemplare le rappresentazioni allegoriche dei popoli vinti dal sovrano e delle province ordinate nel suo impero. Avrebbe anche potuto vedere, nella Porticus Vipsania del Campo Marzio, la meravigliosa carta generale del mondo realizzata per iniziativa del genero di Augusto, Agrippa. Un universo di parole, di simboli, di immagini, di monumenti, evocava, a Roma e ovunque nel mondo romano, questo grande tema dell’ideologia ufficiale (modernizzando, potremmo dire della «propaganda»). Nella stessa epoca il governo romano intraprese una poderosa opera di misurazione, censimento e descrizione del proprio dominio: un vero e proprio inventario del mondo a beneficio della pax Romana.
Guerra e diplomazia
Germanico davanti alle legioni di Varo, olio su tela di Lionel Royer. 1896. Le Mans, Musée de Tessé.
Queste pretese ecumeniche suscitano un notevole imbarazzo negli storici. Certo, sappiamo bene che nella regione indiana del Malabar esisteva un tempio in onore di Augusto, frequentato da mercanti romani; che le campagne militari in Etiopia e in Arabia avevano conseguito notevoli successi, che i legionari avevano ben combattuto in Germania. Ma sappiamo anche – e lo sapevano bene i Romani dell’età augustea – che la tragedia della selva di Teutoburgo (9 d.C.), dove le tre legioni di Varo erano state annientate dai guerrieri di Arminio, aveva segnato la rinuncia alla conquista della «libera Germania». E sappiamo anche che i territori un tempo persiani erano tenuti saldamente da quei Parti che, alcuni decenni prima, nella battaglia di Carre, avevano umiliato l’esercito di Crasso. Con un nemico cosí forte, Augusto preferí le armi della diplomazia a quelle della guerra. Nell’ideologia dei grandi imperi, la vocazione universalistica si confonde spesso con il dominio diretto, la presa effettiva sui territori
con la proiezione emotiva ai limiti degli spazi abitabili. Si è padroni del mondo, come Augusto, anche se esistono altre potenze, purché esse non abbiano capacità d’iniziativa e restino confinate in una porzione, che s’immagina ristretta, dell’orbe terrestre. Nella dimensione geografica della politica è dunque centrale la percezione dello spazio. Nel III secolo a.C., Eratostene riusci a calcolare a tavolino in 39 690 chilometri la circonferenza terrestre, una cifra non molto lontana dal vero. Gli antichi erano dunque consapevoli non solo della rotondità della terra e delle sue dimensioni, ma anche delle latitudini e dei metodi per calcolarle. Ritenevano tuttavia che la terra abitabile fosse molto piú piccola di quanto non fosse in realtà. Se teniamo presente questa circostanza, quella che oggi ci appare come un’iperbole propagandistica (Augusto «signore del mondo») lo era assai meno per i Romani. Non c’è dubbio, tuttavia, che la politica estera di Augusto fu assai meno brillante di quella interna, e questo rende difficile giustificare la sua altisonante pretesa di aver «sottomesso il mondo». Ma sarebbe comunque errato misurare il successo di Augusto sull’entità delle sue conquiste territoriali. Possiamo misurarlo meglio in riferimento all’augurio che egli stesso si fece, del quale è rimasta una testimonianza nella biografia di Svetonio: «Mi sia concesso di consolidare salva e incolume la repubblica, e di averne il frutto che desidero: quello di essere detto fondatore di un ottimo stato e di portar con me, morendo, la speranza che dureranno incrollabili le fondamenta della repubblica da me poste». Nessun impero è eterno e nemmeno le fondamenta dell’ordinamento augusteo avrebbero potuto essere «incrollabili». Ma l’«ottimo Stato» di Augusto, riadattato e riaggiornato dai suoi successori, talvolta profondamente modificato, superò la dimensione del millennio: se Roma cadde cinque secoli dopo, la nuova Roma, Costantinopoli, crollò solo pochi decenni prima che Cristoforo Colombo scoprisse l’America.
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I Giulio-Claudi e i Flavi
DA CESARE AI CESARI TRA IL I SECOLO A.C. E IL I SECOLO D.C. L’IMPERO ROMANO PRENDE FORMA E VEDE SUSSEGUIRSI I SUOI PRIMI SOVRANI. ALLA DINASTIA DEI GIULIO-CLAUDI, INAUGURATA DA AUGUSTO, SUCCEDONO I FLAVI, CHE REGALERANNO ALL’URBE IL SUO GIOIELLO PIÚ FAMOSO: IL COLOSSEO di Giovanna Quattrocchi
L
a nascita dell’impero romano avviene alla fine del I secolo a.C., con il principato di Augusto. Tuttavia, già nel corso di quello stesso secolo, l’assetto istituzionale romano, fino ad allora fondato su regole rigorosamente repubblicane, viene messo in crisi dalle guerre civili tra le opposte fazioni dei generali Mario e Silla. Silla è il primo ad attuare una sorta di dittatura, anche se basata sulle istituzioni vigenti; Giulio Cesare, forse il piú grande uomo a cui Roma abbia dato i natali, cerca dopo di lui di istituire una monarchia illuminata; ma sarà Augusto che vi riuscirà, trasformando la repubblica romana in un impero. La fortuna di Cesare si afferma dopo il turbolento periodo della dittatura di Silla. Messo al bando in quanto nipote di Mario, all’indomani della morte del dittatore, Gaio Giulio Cesare – che discende dalla nobilissima famiglia giulia –, costituisce nel 60 il primo triumvirato, con i due membri piú potenti del Senato, Gneo Pompeo, partigiano di Silla, e Licinio Crasso, ricchissimo patrizio. Ottenuto il comando militare delle Gallie Cisalpina e Narbonense e dell’Illirico, in dieci anni dimostra il suo eccezionale genio di politico e di stratega, compiendo l’opera di
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La Gemma Augustea, cammeo in onice attribuito a Dioscuride o a uno dei suoi discepoli. I sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Il gioiello, coronato da un Capricorno, segno zodiacale dell’imperatore Augusto, rappresenta, nella parte superiore, Tiberio trionfante di fronte allo stesso imperatore e alla personificazione di Roma, e, in quella inferiore, soldati, con prigionieri e insegne.
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GIULIO-CLAUDI E FLAVI
conquista e di pacificazione di tutta la Gallia. Morto Crasso nella guerra contro i Parti, lo scontro con Pompeo si fa inevitabile: non potendo accettare di ritornare a Roma da privato cittadino, Cesare decide di varcare il Rubicone, considerato allora il confine dell’Italia, alla testa delle sue truppe, scatenando cosí una seconda guerra civile.
Vittorie fulminanti Pompeo fugge, e Cesare, in alcune fulminanti campagne militari, sconfigge lui e i suoi seguaci. Entra a Roma da vincitore, e può dettare le sue condizioni: il Senato gli conferisce la dittatura, il consolato e la tribunicia potestas, la facoltà di nominare i magistrati, il titolo di imperator a vita; poteri che connotano il suo governo come una vera monarchia. Tuttavia, Cesare ha appena il tempo di abbozzare il suo vasto
sistema di riforme, poiché viene ucciso, nelle Idi di Marzo del 44 a.C., da una congiura capeggiata dai repubblicani Bruto e Cassio. Nel periodo convulso che segue la sua morte, si fronteggiano due uomini: Marco Antonio, amico del dittatore, e Gaio Ottavio, pronipote di Cesare per parte femminile, da lui stesso indicato come suo erede nel testamento. Sebbene appena diciottenne, il futuro Ottaviano è già un politico consumato: la sua abilità tattica nell’intrecciare alleanze sfocia nella costituzione del secondo triumvirato, con Antonio e Lepido; il riaccendersi della guerra civile contro gli assassini di Cesare gli permette di eliminare progressivamente i suoi avversari politici e di annientare Antonio, che in Egitto avvia con Cleopatra una infuocata relazione e un sogno impossibile di potenza. La vittoria di Azio nel 31 a.C, e la conquista dell’Egitto segnano una svolta decisiva. Ottaviano si
Nella pagina accanto L’età di Augusto, la nascita di Cristo, olio su tela di Jean-Léon Gérôme. 1852-1854 circa. Los Angeles, John Paul Getty Museum.
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IL POTERE NEL SANGUE Caio Giulio Cesare 46-44 a.C.
5
Giulia Azia
Ottavia Claudio Marcello Gneo Domizio Enobarbo
Marco Antonio
6
Gneo Domizio Agrippina Enobarbo Minore Nerone
Scribonia
Agrippa Gaio Cesare
Giulilla
Lucio Cesare
Giulia Agrippina Maggiore
Nerone
4
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27 a.C.-14 d.C.
Antonia Minore
Antonia Maggiore
54-68 d.C.
CAIO OTTAVIANO AUGUSTO
3
Druso
Agrippa Postumo
Drusilla
2
Livia Drusilla
Tiberio Claudio Nerone Tiberio
14-37 d.C.
Germanico
Caligola
37-41 d.C.
Agrippina Minore
Druso
Antonia Minore
Livilla
Claudio
41-54 d.C.
(in giallo, oltre a Giulio Cesare, gli imperatori: le date si riferiscono agli anni di regno)
Sulle due pagine albero genealogico di Augusto e ritratti di alcuni membri della famiglia imperiale: 1. Testa di Ottaviano (su busto non pertinente). Roma, Musei Capitolini. 2. Cammeo con l’imperatrice Livia velata. Roma, Musei Capitolini. 3. Lucio Cesare, secondo figlio di Agrippa e Giulia. Roma, Fondazione Sorgente Group. 4. Gaio Cesare, figlio maggiore di Agrippa e Giulia. Roma, Fondazione Sorgente Group. 5. Marcello, figlio di Ottavia. Roma, Fondazione Sorgente Group. 6. Agrippa, generale e genero di Augusto. Parigi, Museo del Louvre.
presenta al Senato come il vero salvatore della patria: ha ottenuto non solo l’acquisizione dell’Egitto come provincia romana, ma anche l’unificazione di tutto il Mediterraneo sotto lo scettro di Roma. Il Senato, i nobili e i cittadini, stanchi di guerre, sentono il bisogno di un governo forte che riporti la pace nel Paese estenuato, e Ottaviano promette tutto ciò al popolo romano. Quando celebra il suo trionfo, nel 29 a.C., Roma intera è ai suoi piedi e i suoi poteri sono eccezionali. Le
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istituzioni repubblicane rimangono formalmente le stesse, ma il nuovo princeps accentra un’autorità che lo rende di fatto un monarca; tuttavia, fa mostra di non voler abusare del potere, ma di governare con il «consenso universale»; il Senato e il popolo romano gli decretano il titolo di Augusto, con il quale è passato alla storia. Chi è in realtà Augusto? Uomo previdente e calcolatore, dissimula la propria volontà sotto un’apparente moderazione e tiene a incarnare la figura dell’«ottimo principe». Il suo governo è teso a formare uno Stato forte all’interno e capace di espansione all’esterno. A questo scopo conferisce un nuovo assetto amministrativo all’Italia e alle province, riorganizza l’esercito in una forza stabile sotto il suo diretto controllo, sviluppa le strade e la navigazione, favorendo il commercio nelle province. Promuove una grande serie di opere pubbliche a Roma: il teatro di Marcello, il Pantheon, il Foro a lui dedicato, il grande sepolcro per sé e la famiglia nel Campo Marzio, l’ara della Pace Augusta (Ara Pacis), monumento alla virtú del principe.
Una propaganda capillare Per diffondere la propria immagine in tutto il territorio dell’impero, sfrutta fino in fondo i mezzi dell’epoca: archi onorari, statue, iscrizioni, templi esaltano il suo nome e le sue doti: virtus, clementia, iustitia, pietas. Si circonda di poeti e di scrittori, fondando una sorta di umanesimo classicista: Orazio esalta il nuovo «ordine», la nuova «età dell’oro» nata dal suo principato, Virgilio canta la storia della sua stirpe e la ricostruzione epica della sua origine divina attraverso Enea, l’eroe troiano dalla cui discendenza nascerà Roma. Augusto ha solo una figlia, Giulia. L’ultima moglie, Livia, è la grande passione della sua vita; l’ha strappata, appena ventenne, al primo marito; e Livia spera di favorire i due figli di primo letto Tiberio e Druso, nella successione al principato. Gli eredi diretti, figli di Giulia – Gaio e Lucio Cesare –, muoiono
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prematuramente, nel 2 e nel 4 d.C.; quanto al terzo, Agrippa Postumo, viene confinato dallo stesso Augusto nell‘isola di Pianosa. La via alla successione è aperta per Tiberio, che è però costretto a sposare Giulia, ripudiando l’amatissima moglie Vipsania. Il matrimonio è disastroso: Giulia ha sempre condotto una vita molto libera, del tutto in contrasto con il ritorno alla famiglia patriarcale e ai morigerati costumi delle matrone antiche, auspicati e imposti da Augusto. Il padre, dopo un ennesimo scandalo, la esilia. Anche il poeta Ovidio, forse complice delle dissolutezze della donna, viene coinvolto nello scandalo e costretto all’esilio a Tomi, sul Mar Nero. Quando l’imperatore muore, nel 14 d.C., Tiberio ha 56 anni; fedele alla sua natura dissimulatrice, finge di esitare a lungo e di cedere alle insistenze del Senato nell’accettazione del potere. Tuttavia, l’inizio del suo regno è segnato da due crimini, l’uccisione di Agrippa Postumo, per mano di un centurione a Pianosa, e quella di Giulia, appena quattro mesi dopo la morte del padre. Sotto un apparente ossequio al Senato e alle
Augusto diffuse la propria immagine in tutto l’impero, attraverso archi onorari, statue, iscrizioni e templi che ne esaltavano il nome e le doti
Nella pagina accanto statua di Tiberio come imperatore. I sec. d.C. Marmo. Città del Vaticano, Musei Vaticani. In basso tazza d’argento, da Boscoreale. I sec. a.C.-I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
istituzioni, Tiberio nutre verso tutti una profonda ostilità e una crescente diffidenza; ciononostante, almeno nei primi anni, il suo governo è vigile e fermo, coscienzioso e competente, soprattutto nella salvaguardia dei confini e nella politica delle province; in Germania, il nipote e figlio adottivo Germanico – brillante generale molto amato dal popolo –, conduce una fortunata campagna oltre il Reno per vendicare la sconfitta subita dai Romani a Teutoburgo, nel 9 d.C. Ma già nel 16 viene richiamato da Tiberio, forse geloso della sua popolarità, e inviato in Oriente, dove muore nel 19 in circostanze misteriose, alle quali, secondo gli storici Tacito e Svetonio, non sono estranei Livia e lo stesso imperatore.
Seiano, prefetto potente e perverso Tiberio si fida soltanto del potentissimo Seiano, il prefetto dei pretoriani (l’esercito privato dell’imperatore), uomo ambizioso e perverso. Ormai certo di poter succedere a Tiberio, Seiano sottopone Roma a un regime di terrore; a lui sembra si debba la morte del figlio stesso di Tiberio, Druso, e la condanna per alto
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Dopo averla voluta al suo fianco, ripudiando la legittima consorte, Claudio condanna a morte la bella e dissoluta Messalina tradimento della moglie di Germanico, Agrippina, nonché dei suoi due figli. Ma Tiberio, quando scopre che l’unico uomo nel quale ha riposto la sua fiducia è il piú colpevole verso di lui, si abbandona a una vendetta terribile, che coinvolge con Seiano gran parte della classe senatoria. Infine si ritira a Capri fino alla morte, che sopraggiunge nel 37 d.C. Roma, festante per la scomparsa del tiranno, elegge al potere l’ultimo figlio di Germanico e di Agrippina, diretto discendente di Augusto per parte di madre.
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In alto cammeo in sardonica con l’imperatore Claudio e la moglie Messalina su un carro trainato da serpenti alati. I sec.d.C. La cornice in oro e smalti è del XVIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale, Cabinet des Médailles.
Il giovane Caio Giulio Cesare Germanico, detto Caligola per la caliga, calzatura da soldato che portava quando, bambino, era con la madre al seguito dell’esercito paterno sul confine del Reno, malgrado la sua infanzia tra i soldati è malaticcio, sgradevole di volto e mal proporzionato; i suoi primi atti di governo sono improntati a moderazione e giustizia. Ma dopo una grave malattia sembra cambiare, ed esercita un potere assoluto, in modo sempre piú dissennato, sfogando la sua follia criminale,
e i suoi istinti depravati su mogli, sorelle, parenti e amici. Disprezza e umilia nobili e senatori e li manda a morte con futili pretesti. Le sue spese illimitate danno fondo all’erario: il suo regno, durato tre anni, dieci mesi e otto giorni, finisce quando viene ucciso dai suoi stessi pretoriani in un corridoio del circo, insieme alla moglie Cesonia e alla figlioletta, schiacciata brutalmente contro un muro.
Una monarchia burocratica È la prima volta, ma non sarà l’ultima, che i pretoriani eliminano un imperatore ed eleggono il successore. L’eletto è il cinquantenne Tiberio Claudio, fratello di Germanico; benché agli occhi della stessa madre Antonia sembrasse un mediocre, privo di spirito, è un uomo colto, dedito agli studi storici e antiquari, debole però di carattere e dominato dai liberti di cui si circonda. Claudio organizza lo Stato come una monarchia burocratica, estende la cittadinanza romana a molte città, promuove la costruzione del porto di Roma presso Ostia e dell’Acquedotto Claudio, amplia la rete stradale, specialmente in direzione dell’Europa centrale, con la via Claudia Augusta, che attraversa il passo del Brennero. Servendosi di ottimi generali, attua la conquista della Britannia, prosegue la politica di Augusto e Tiberio sul Reno e sul Danubio, rinsaldando la linea di confine con nuove fortificazioni; in Oriente tiene a bada i Parti e aumenta l’influenza romana. Inoltre intuisce il pericolo insito nella nuova religione cristiana, e ne perseguita i seguaci. Sfortunato nella vita privata, Claudio colleziona nei diversi matrimoni un insuccesso dietro l’altro: la prima moglie, Plautia Urgulanilla, è una donna depravata e sospettata di omicidio; Elia Petina, che le succede viene ripudiata anch’essa a favore della bellissima e dissoluta Messalina, che soddisfa la sua lussuria prostituendosi nei lupanari e che l’imperatore stesso fa condannare a morte insieme all’amante Silio. L’ultimo matrimonio è con la nipote Agrippina, figlia di Germanico,
Statua di Caligola in veste di generale. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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AUGUSTO
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ambiziosissima, e bramosa di portare sul trono il figlio di primo letto, Lucio Domizio Nerone: la donna convince Claudio, che pure ha un figlio maschio, ad adottarlo e per lui non esita, nell’ottobre del 54, ad avvelenare il marito. Il giovane Nerone ha 17 anni quando diviene imperatore. Il primo atto è quello di far uccidere Britannico, il figlio quattordicenne di Claudio e Messalina, ardito e intelligente, che ritiene un possibile rivale. Tuttavia, agli inizi del suo principato, Nerone collabora con il Senato e compie moderati atti di governo, sotto l’influenza della madre e, soprattutto, del filosofo Seneca, suo maestro per volere di lei. Presto, però, diviene insofferente a ogni controllo e fa uccidere Agrippina, che voleva avere parte nelle decisioni di governo. È dominato da una dilettantesca passione per la musica e per il teatro. Le folli spese a cui si abbandona, quelle per la costruzione della nuova splendida dimora – la Domus Aurea –, e quelle delle campagne militari contro i Parti, prosciugano le casse dell’erario; l’imperatore promuove una riforma monetaria che riduce il peso dell’aureo e del denario d’argento, ottenendo un notevole vantaggio economico per lo Stato.
Nella pagina accanto testa di una statua dell’imperatore Claudio, da Leptis Magna. I sec. d.C. Tripoli, Museo Archeologico. In basso testa di Nerone. Marmo. I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.
Nel frattempo, l’esercito deve fronteggiare la sollevazione di alcune province: la Britannia, la Palestina, dove Nerone invia il generale Vespasiano. Nel 68 anche la Gallia si solleva, sotto la guida di Vindice, che minaccia di allargare la ribellione a tutto l’Occidente, ma è sconfitto dall’armata del Reno; Galba in Spagna e Otone, il legato d’Africa, si sollevano contro Roma. Nerone, quando i pretoriani passano dalla parte di Galba, comprende di essere finito e tenta di fuggire. Il Senato lo dichiara nemico
La capitale in fiamme Nel 64, un terribile incendio distrugge molti quartieri popolari di Roma; il popolo, esasperato, ritiene che l’incendio, che alcuni sostengono sia stato voluto da Nerone per ampliare il progetto della Domus Aurea, sia doloso; l’imperatore allora accusa i cristiani di aver commesso il crimine, e scatena contro di loro la prima grande persecuzione. Nobili e senatori, e il popolo stesso, sono esasperati dalle crudeltà del tiranno: nel 65, una congiura guidata dall’aristocratico Calpurnio Pisone viene svelata all’ultimo momento; la reazione di Nerone è terribile e molti cadono vittime della sua vendetta; anche il filosofo Seneca, Petronio – l’autore del Satyricon –, e il poeta Anneo Lucano sono costretti al suicidio.
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LA FAMIGLIA IMPERIALE T. Flavius Sabinus-Vespasia Polla
† 69 d.C. † 69 d.C. T. Flavius Vespasianus - Domitilla (Vespasiano imperatore) 69-79 d.C.
† 69 d.C. T. Flavius Sabinus
T. Flavius Sabinus
39-81 d.C. Marcia Fumilla - Titus F. Vespasianus (Tito imperatore) 79-81 d.C.
T.Fl. Clemens T.Fl. Sabinus - Iulia Titifilia
51-96 d.C. T. Fl. Domitianus - Domitilla (Domiziano imperatore) 81-96 d.C.
Domitilla - Clemens
T. Flavius Vespasianus
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† ante 69 d.C. Domitilla
T. Flavius Domitianus
Flavia
Ebrei ribelli e la conquista di Gerusalemme. Assurgendo a un principato che durerà appena tre anni, il quarantenne Tito si dimostra un uomo giusto, equilibrato e generoso. L’assunzione del potere lo costringe a rinunciare al matrimonio con l’ebrea Berenice, figlia di Erode Agrippa I, da lui molto amata, che ha portato a Roma nel 67 da Cesarea, concedendole un rango elevato e grande influenza a corte. Nell’agosto del 79, poco dopo l’inizio del principato, una terribile eruzione del Vesuvio cancella le città di Pompei e di Ercolano e le ridenti campagne che circondano il vulcano: nella catastrofe muore, tra i tanti, il naturalista Plinio, che aveva voluto seguire da vicino il fenomeno. Il regno di Tito, contrassegnato da un grande favore popolare e da un prestigio militare altissimo è caratterizzato da comportamenti ispirati a benevolenza, generosità e liberalismo; Tito muore nell’81 d.C. in Sabina, forse di peste.
L’ultimo dei Flavi
In alto Masada (Israele). Veduta della fortezza di periodo erodiano (fine del I sec. a.C.), posta su un’altura nel deserto di Giuda, prospiciente il Mar Morto. Nella pagina accanto busti ritratto dei tre imperatori della dinastia flavia. Da sinistra: Tito (79-81 d.C.), Vespasiano (67-79 d.C.) e Domiziano (81-96 d.C.). I primi due sono oggi ai Musei Capitolini di Roma, il terzo si trova al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
pubblico e lo mette a morte, riconoscendo Galba nuovo imperatore. Rifugiatosi in una casa di campagna, Nerone, incapace di farlo da solo, si fa pugnalare dal suo segretario, Epafrodito. Il 69 d.C. vede combattersi quattro imperatori eletti per la prima volta dai rispettivi eserciti, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano: ciascuno dei primi tre è vinto e ucciso dal suo successore. Il vincitore, il sabino Tito Flavio Vespasiano – con il quale ha inizio la dinastia dei Flavi –, connoterà i dieci anni del suo principato con una conduzione giusta ed equilibrata, tesa a migliorare le condizioni economiche e istituzionali dell’impero. Le sue campagne militari sul Reno, in Britannia, in Oriente e in Africa ristabiliscono la sicurezza dei confini. A Roma, Vespasiano inizia la ricostruzione della città e i lavori per l’anfiteatro Flavio. Alla sua morte per malattia, nel 79 d.C., gli succede il figlio, Tito Flavio Vespasiano, che aveva acquisito grande prestigio presso il popolo e l’esercito con la guerra vittoriosa contro gli
La via al potere è aperta cosí al fratello Domiziano, che diviene imperatore nel settembre dell’81 d.C., il giorno seguente alla morte di Tito. Il Senato non ha perso tempo a concedergli la porpora imperiale. Il nuovo imperatore ha 30 anni e un concetto dittatoriale del potere, che imposta con una politica volta a favorire l’esercito e la classe equestre, padrona del commercio e della finanza, e a ottenere il consenso del popolo con giochi, distribuzioni di cibo e di denaro. Tutto ciò lo rende popolare presso la plebe e l’esercito, ma gli inimica il Senato e gli aristocratici; Domiziano si abbandona a una repressione feroce e sanguinosa che termina quando, nel 96, una congiura di palazzo – alla quale non è estranea la stessa moglie Domizia Longina –, lo elimina malgrado una sua estrema difesa. Sul finire del I secolo d.C. si estingue cosí la dinastia dei Flavi, con un imperatore perito ancora una volta di morte violenta: sarà questa la sorte, come vedremo, della maggioranza di coloro che hanno raggiunto, in un modo o nell’altro, la massima carica dell’impero.
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ARA PACIS
L’Ara Pacis
Il «manifesto» del principe
R
educe vittorioso dalla Spagna e dalla Gallia, Augusto vuole celebrare al tempo stesso il suo trionfo e la pacificazione successiva alle guerre civili. A tal fine, il Senato ha decretato la costruzione di un’ara in Campo Marzio. Lí, ogni anno, vestali, sacerdoti e magistrati dovranno celebrare un rito commemorativo. L’inaugurazione ufficiale dell’Ara Pacis (l’«Altare della Pace») il monumento-simbolo della Pax augustea è del 9 a.C. Rinvenuta nel 1568, «dimenticata» e finita di scavare solo nel 1937-38, l’opera presenta tutte le caratteristiche dell’arte ufficiale romana ed è, in tal senso, una straordinaria testimonianza storica (oltre e piú che artistica in senso stretto) tenuta insieme dal forte afflato simbolico. Il messaggio che esprime è emblematico della trasformazione del potere che si andava realizzando in quegli anni. Stanchi delle guerre civili e delle ribellioni nelle province, i Romani videro in Augusto e nella sua guida la soluzione a un periodo torbido e tumultuoso. Augusto, dal canto suo, offre tutte le garanzie del caso: sul piano internazionale è trionfante, su quello interno proclama la volontà di comporre i dissidi per dare inizio a una nuova epoca aurea, di pace nella
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Sulle due pagine veduta del lato nord del recinto esterno dell’Ara Pacis. Il monumento fu votato dal Senato di Roma il 4 luglio del 13 a.C. e ultimato nel 9 a.C. La decorazione esterna si sviluppa su due fasce sovrapposte, separate da un cornicione a meandri e interrotte sugli spigoli da pilastri. In basso un primo piano del riquadro raffigurante la Saturnia Tellus, collocato nel registro superiore del lato est. Nella pagina accanto, in basso uno scorcio dell’altare interno dell’Ara Pacis.
prosperità e nel rispetto delle tradizioni antiche. La struttura rettangolare era circondata da un recinto marmoreo, sui cui lati corti si aprivano due ingressi. Al centro, su un podio, era collocato il monumento, decorato sulla faccia esterna come su quella interna da bassorilievi separati da pilastri. L’ingresso era fiancheggiato da due scene rievocative delle origini dell’Urbe: il «lupercale», con i due mitici gemelli, eroi fondatori, allattati dalla lupa e il sacrificio del pio Enea – eroe capostipite della dinastia dei Giulio-Claudi – agli dèi Penati. Sull’altra porta invece stavano da una parte la personificazione di Tellus, la madre terra, circondata dalle immagini delle acque e delle aure, e, dall’altra, quella di Roma, armata custode del mondo. Dunque natura e cultura, Roma e il Cosmo, retti in mirabile equilibrio dalla guida sicura di Augusto, il cui potere affonda le radici in un passato mitico e sacro. Quello che l’Eneide fa sul piano letterario – la glorificazione dell’eroe troiano le cui gesta rimandano palesemente a quelle dell’imperatore –
AUGUSTO
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Nella pagina accanto, in alto il pannello con la scena di Enea che sacrifica ai Penati secondo la profezia di Elénoe, posto sul lato est, nella fascia superiore, a destra. Sulle due pagine la processione raffigurata nella fascia superiore, sul lato sud. In alto ricostruzione del probabile aspetto originario dell’altare, arricchito da una vivace policromia (@ Progetto Katatexilux).
l’Ara Pacis lo compie sul piano figurativo, realizzando un vero e proprio manifesto della sacralità e dell’universalismo dell’ideologia imperiale e del gusto neoattico che trionfava all’epoca di Augusto. Abbiamo visto il soggetto dei rilievi che ornavano i lati corti del recinto. Su quelli lunghi sono invece raffigurate due processioni: una pubblica, di sacerdoti, e una privata, a cui partecipa la famiglia imperiale. Simile avvicinamento aveva forse il senso di rafforzare l’idea della dinastia e di preparare a quella della successione imperiale. Pur nel recupero dell’arte greca, il monumento rimane squisitamente romano, come testimonia il pastiche di elementi che lo caratterizza (avvicinamento di decorazioni vegetali e figurali e assenza di rapporto organico fra le composizioni che corrono sui lati corti e quelle dei lati lunghi). Il naturalismo ellenistico che caratterizza i ritratti dei personaggi è mitigato dall’intento aulico che raggela, secondo la «moda» neo-attica, le figure in posizioni astrattamente ieratiche. Maria Baiocchi
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RES GESTAE
Le Res Gestae divi Augusti
Cosí parlò l’imperatore
S
e con l’Ara Pacis, Augusto si era preoccupato di far erigere un monumento simbolico che celebrasse il fulcro ideale della sua politica, va comunque ricordato che la preoccupazione di abbellire la città gli ispirò una quantità di opere pubbliche tali che, in punto di morte, sembra abbia detto agli amici di aver ricevuto una città di mattoni e di lasciarla di marmo. Nelle Res Gestae divi Augusti, il testamento che depositò nel 13 d.C. presso le Vestali, aveva inserito l’index rerum a se gestarum, ovvero l’elenco delle imprese da lui compiute che voleva fosse inciso, dopo la sua morte, su tavole di bronzo poste davanti al suo mausoleo. Si tratta di un vero testamento politico in cui il
In alto Ankara (Turchia). Una veduta dell’esterno del tempio di Augusto, adiacente alla moschea di Haci Bayram Veli, di epoca ottomana. I sec. d.C. A destra un primo piano dell’iscrizione con le Res Gestae Divi Augusti, il Monumentum Ancyranum, all’interno del tempio di Augusto ad Ankara (Turchia). Nella pagina accanto ritratto di Augusto con corona civica. Marmo. I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.
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ricordo delle opere di pace e di guerra compiute si mescola sapientemente al desiderio di lasciare un’immagine ufficiale dei suoi 44 anni di governo. Nei 35 capitoli, redatti in prima persona e in stile semplice e solenne, traspare la volontà di dimostrare ai cittadini romani la legalità del principato, ovvero di quella forma politica che ha restituito loro la libertas e la prosperità, la somma di benemerenze per le quali egli ha assunto e detenuto quella carica e, infine, l’importanza della continuità del nuovo regime, anzi della sua perennità, assicurata dalle cure che egli stesso ha riservato al delicato problema della successione. Ma vediamo che cosa dice a proposito delle opere pubbliche: «Restaurai il Campidoglio e il teatro di Pompeo, entrambe le opere di grande spesa, senza farvi iscrivere il mio nome. Restaurai gli acquedotti in molti luoghi guastati dal tempo, e raddoppiai la portata dell’acqua denominata Marcia, immessa nel suo decorso una nuova sorgente. Completai il Foro Giulio e la basilica fra il tempio di Castore e il tempio di Saturno, opere cominciate e quasi portate a termine da mio padre; e quando la medesima basilica fu distrutta da un incendio, cominciai a ricostruirla su un suolo piú ampio, dedicandola al nome dei miei figli; e disposi che se non l’avessi compiuta mentre ero in vita, fosse compiuta dai miei eredi. Console per la sesta volta, per volontà del Senato restaurai nella città ottantadue templi degli dèi, senza trascurarne nessuno che in quel tempo richiedesse di essere restaurato. Console per la settima volta restaurai la via Flaminia dalla città fino a Rimini, e tutti i ponti, eccettuati il Milvio e il Minucio» (traduzione di Luca Canali). Nella città vecchia di Ankara, là dove un tempo era l’acropoli dell’antica Ancyra, sorge oggi la moschea piú venerata dagli abitanti della capitale turca, dedicata a Haci Bayram Veli, poeta, saggio sufi e fondatore di
una confraternita religiosa, vissuto dal 1352 al 1430. L’edificio risale, nella sua veste attuale, al XVIII secolo, e ospita anche la tomba del santo e della sua famiglia. L’importanza del luogo è, però, dovuta anche alla presenza di un altro straordinario monumento, le cui rovine sono addossate a un angolo della stessa moschea: il tempio della dea Roma e di Augusto. Dell’edificio, costruito in onore dell’imperatore tra il 25 e il 20 a.C. sul luogo di un precedente santuario frigio (metà del II secolo a.C.), si sono conservate le imponenti mura della cella e il pronao. L’elemento che fa del tempio uno dei piú importanti monumenti dell’antichità classica è l’iscrizione incisa, in latino e in greco, sulle pareti esterne della cella e all’interno del pronao: si tratta del cosiddetto Monumentum Ancyranum, un testo che riporta le Res Gestae Divi Augusti, «le opere del divino Augusto» compiute durante la sua lunga carriera politica. Quella ancirana è l’unica riproduzione sopravvissuta del prezioso documento; il testo originale, inciso su lastre metalliche collocate presso il mausoleo dell’imperatore a Roma è andato perduto, insieme alle numerose altre copie realizzate in ogni parte dell’impero. Quando fu costruita la moschea di Haci Bayram, le rovine conservatesi attraverso i secoli (in età bizantina l’edificio era stato trasformato in chiesa, come testimoniano le tre finestre inserite nella parete sudorientale della cella e le aggiunte ancora ben visibili nella parte nordorientale del tempio) furono utilizzate come ambienti di una scuola coranica. Fu cosí che i resti del venerando monumento, contrariamente a tanti altri di età romana e bizantina, si salvarono dalla distruzione. E, oggi, si possono ammirare (sebbene parzialmente imbrigliati da una struttura metallica, resa necessaria per motivi di staticità), nel migliore dei contesti possibili. Maria Baiocchi
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La vita privata
Dietro le quinte
N
el caso della vita privata degli imperatori, occorre rivedere l’espressione «vizi privati e pubbliche virtú». Niente, infatti, fu piú sbandierato e dileggiato del loro discutibile comportamento sessuale. E questo sia dalla vox populi che da quelle, piú o meno di parte, di storici e poeti satirici. Secondo l’astratto ideale della romanità, infatti, etica avrebbe voluto che il Romano, specchio di virilità, sottomettesse uomini e donne, e che la donna romana, dal canto suo specchio di pudicizia, fosse sottomessa a tanto maschio. Ma che le cose poi non stessero esattamente cosí lo sapevano tutti. D’altra parte il «si fa ma non si dice» poteva reggere fino a un certo punto e, infatti, da un certo punto in poi, non resse piú. Già a cominciare da Giulio Cesare, chiamato di volta in volta «postribolo di Nicomede» e «bordello della Bitinia», oppure a scelta, «regina della Bitinia», si diffonde la voce secondo la quale, malgrado sia grande, anzi massimo condottiero, il dux sia anche impudicus, ovvero sessualmente passivo. Fu Cicerone che, quando in Senato Cesare aveva voluto difendere la causa della figlia di Nicomede, ricordando i benefici ricevuti dal padre di lei, esclamò: «Per carità, passiamoci sopra. Sappiamò tutti cosa hai ricevuto da lui e cosa gli hai dato!». Quanto alle abitudini sessuali dei Dodici Cesari, Svetonio non manca di informarcene con zelo.
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Vero è che le nefandezze di quel tipo facevano parte del repertorio del genere biografico, ma è anche vero che Svetonio viene ritenuto obiettivo e che gli anni da lui trascorsi a Palazzo rendono assai verosimili le sue narrazioni. L’elenco è lungo e c’è solo l’imbarazzo della scelta: Caligola stuprava tutte le sorelle davanti agli occhi della moglie e i suoi rapporti con i mimi rimasero famosi. Di Nerone si è detto fin troppo, ma certo il capolavoro del suo vizio pubblico fu quello del matrimonio celebrato con l’amato Sporo, preso in moglie dopo averlo fatto castrare e poi delle nozze col liberto Doryphorus, che invece gli fece da marito. Galba preferiva maschi adulti e robusti. Otone indossava il parrucchino e si strofinava il viso con il pane cercando di non farsi spuntare la barba. Vitellio che nell’infanzia era stato, a Capri, uno degli amasi di Tiberio, era chiamato con termine fin troppo evocativo, «sfintria». Anche di Tito, l’imperatore meno inviso ai cronisti, si dice che si abbandonasse a orge notturne con i depravati. Di Domiziano si diceva che si fosse offerto a Pollione, e non c’era chi non sapesse del legame amoroso fra Antinoo e Adriano, il quale, alla morte del ragazzo, si disperò come una donna. Elagabalo era omosessuale convinto e, secondo Erodiano, avrebbe perfino chiesto di essere castrato per somigliare di piú a una donna. Commodo fu definito sentina di tutti i vizi. E Costante, che aveva emanato una legge durissima contro gli omosessuali passivi, sarebbe stato, a detta di Aurelio Vittore, egli stesso un omosessuale. Maria Baiocchi
In alto Antinoo raffigurato come Bacco. Marmo. II sec. d.C. San Pietroburgo, Museo statale Ermitage. A destra ritratto marmoreo dell’imperatore Adriano, dalla villa romana di MiIlreu (Faro, Portogallo). II sec. d.C. Faro, Museo Arqueológico e Lapidar Infante Dom Henrique.
I Libri Sibillini
Garanzia del destino di Roma Distrutti dall’incendio che nell’83 a.C. devastò il tempio di Giove Capitolino, i libri sacri delle profezie, a cui i Romani ricorrevano fin dal VI secolo a.C. in caso di gravi avvenimenti accompagnati da prodigi spaventosi, furono sostituiti da altri, anch’essi attribuiti alle Sibille e scovati in giro per la Magna Grecia, la Grecia e l’Asia Minore. Augusto trasferí la
nuova raccolta in due ripostigli posti sotto la statua di Apollo nel tempio dedicato a quel dio sul Palatino. Quei libri erano considerati garanzia del glorioso destino di Roma e dunque non fu mossa da poco, da parte del lungimirante Augusto, averli messi al sicuro nel tempio di Apollo, un dio legato alla sophrosyne (saggezza) e alla temperanza, ma anche dotato di frecce, con cui colpire il nemico e difendere i fedeli; in origine, un dio-lupo che, in qualche modo, poteva far risuonare le corde mitiche arcaiche della città e che in seguito i Romani identificarono col dio-sole, trasfigurazione finale dell’imperatore! M. B.
Città del Vaticano, Musei Vaticani, Capella Sistina. Particolare della decorazione ad affresco di Michelangelo Buonarroti. 1508-1512. La Sibilla Cumana legge dal libro sacro delle profezie, mentre, a fianco, due putti ne reggono un secondo, chiuso.
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MECENATE
Mecenate
Gli intellettuali del consenso
S
e è vero che i costumi dell’impero e degli imperatori ispirarono la satira di scrittori e poeti, è anche vero che i primi anni del principato di Augusto, ovvero proprio quelli in cui si compiva il delicato trapasso dalla repubblica all’impero, videro fiorire l’ingegno di scrittori della statura di Virgilio, di Orazio e di Livio, che del nuovo assetto politico si fecero banditori. In quel contesto, ebbe un ruolo di spicco Mecenate, figura che oggi si chiamerebbe organizzatore culturale. Sodale di Augusto e, al tempo stesso, amico e protettore degli intellettuali del tempo, egli seppe raccogliere intorno alla politica augustea il consenso della cultura. Il paradosso geniale promosso dal regime consisteva proprio in questo, che mentre si affermava il potere delle famiglie, e dunque delle dinastie imperiali, si rivendicava l’idea che a contare dovesse essere la nobiltà d’animo piuttosto che quella di sangue. Il paradosso, in verità, è apparente piú che reale, in quanto l’ideologia di un imperatore che unifica e regge il mondo per ordine divino meglio si accorda con l’emergenza sulla scena sociale degli uomini nuovi che con l’antico rigore «repubblicano», che riservava il potere a un esiguo numero di patrizi. Augusto, dunque, che si presenta come il restauratore delle libertà repubblicane dopo la dittatura di Cesare, in realtà si afferma proprio perché riesce a eliminare la lotta fra i gruppi dominanti e a sventare il pericolo di un sovvertimento sociale, Ma che ruolo avevano in tutto ciò gli intellettuali del consenso, quelli della cerchia di Mecenate? Qual era il messaggio che veniva da opere come l’Eneide di Virgilio o le Odi e le Satire di Orazio, e dalle Storie di Tito Livio? Prima di tutto, un ideale di restaurazione dei valori
Lettura del VI libro dell’Eneide, olio su tela di Jean-Baptiste Wicar. 1819-1821. Tremezzo (Como), Villa Carlotta. Il dipinto evoca una scena svoltasi a Roma, alla corte di Augusto: Ottavia, sorella dell’imperatore, sviene all’ascolto dei versi che evocano la morte del figlio Marcello; la sorregge il fratello Augusto, il quale, con un gesto imperioso impone il silenzio a Virgilio, in piedi all’estrema sinistra della composizione. A destra, Mecenate (nelle cui fattezze è ritratto il committente dell’opera Giambattista Sommariva), si protende verso la donna; al suo fianco, in posizione marziale, sta il generale Agrippa, nelle cui vesti è ritratto Napoleone.
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della Roma arcaica, quella precedente alla vittoria su Cartagine: cioè l’esaltazione di una società fondamentalmente agricola, fatta di piccoli proprietari, priva del lusso e della corruzione di quegli anni tumultuosi. Era quella l’idea di Roma che piaceva ai populares e che faceva il gioco delle oligarchie municipali italiane. che avrebbero voluto spartire i privilegi fin lí riservati solo alla nobiltà
romana tradizionale, Ecco dunque che l’ideale dei poeti s’incontra mirabilmente con quello augusteo, condiviso dalle masse romane e italiche. Un consenso vastissimo permise dunque il passaggio dalla repubblica al principato e all’impero; un passaggio abilmente condotto, oltre che con le vittorie militari, con misure sociali, quali il condono dei canoni d’affitto delle case fino a 500 sesterzi in Italia e 2000 a
Roma imposto ai proprietari. La figura di Ottaviano Augusto, dunque, è quella di un rivoluzionario che vince la sua rivoluzione presentandola come una restaurazione, di un feroce guerriero e di un abile politico capace di presentarsi e di agire come pacificatore: un ruolo a cui di certo contribuí il sostegno trovato nell’intellighenzia del tempo. Maria Baiocchi
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ENEIDE
L’Eneide
a gens Iulia faceva risalire le proprie origini a capostipiti di tutto rispetto: nientemeno che a Enea e Venere. Augusto faceva parte di quella gens per volontà di Giulio Cesare, che l’aveva adottato. Ecco dunque che il poema di Virgilio, dedicato al pio Enea, è indirettamente (ma non troppo) una celebrazione della virtú romana e della stirpe di Augusto. Ma a celebrare la virtú romana contribuirono, su altro piano, i 142 libri delle Storie di Tito Livio: anche in essi l’idea ispiratrice è che il fulgido destino della
città sia l’effetto prodotto dalla virtu dei cittadini e dal favore degli dèi. E se la virtú negli ultimi tempi della repubblica lasciava a desiderare, se la corruzione e il desiderio di ricchezza avevano inquinato la società, il provvidenziale avvento di Augusto avrebbe rimesso le cose a posto, favorendo la pace, la prosperità e la rinascita morale dei Romani. Questo almeno credevano gli intellettuali, gli scrittori e i poeti della cerchia di Mecenate e questo espressero nelle loro opere, che in tal modo finirono per rappresentare un forte veicolo di penetrazione e di consenso per la politica augustea. Maria Baiocchi
In basso miniatura dal Vergelius Romanus, raffigurante i vincitori della gara in memoria di Anchise. V sec. d.C. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Nella pagina accanto Enea ferito, affresco (strappo), dalla Casa di Sirico a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Ascendenze divine
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GESÚ CRISTO
Il cristianesimo delle origini
Alle prese con un nuovo «nemico»
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o sfondo politico è quello dell’impero di Augusto e poi di Tiberio, quello religioso il giudaismo al tempo di Gesú. Ma sulla vita di quest’ultimo sappiamo pochissimo, giacché le fonti della storiografia
ufficiale contemporanea lo ignorano, mentre i quattro Vangeli sono posteriori e rappresentano un testo religioso e «di parte». Non c’è dubbio, però, che sia esistito e morto sulla croce, supplizio in voga a quei tempi, per volere congiunto di Ebrei e Romani. Quanto a faziosità, anche i pagani non erano da meno. Basta leggere quanto scrive Minucio Felice nell’Ottavio, ottimo esempio della propaganda anticristiana: «A poco a poco s’intreccia fra costoro
In alto due monete di Ponzio Pilato, risalenti all’epoca della sua procura in Giudea. 30-31 d.C. Gerusalemme, Bible Lands Museum. A sinistra Che cos’è la verità? (Cristo e Pilato), olio su tela di Nikolai Nikolajewitsch Gay. 1890. Mosca, Galleria Tret’jakov.
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L’iscrizione di Pilato, dal teatro romano di Cesarea. I sec. d.C. Gerusalemme, Museo di Israele.
una specie di libidinoso legame che li spinge a chiamarsi indistintamente fratelli e sorelle, in modo che la fornicazione, solita a esser praticata da loro, acquisti, mercé l’intervento di quel sacro nome, il sapore di un incesto (...). E chi viene a raccontare che un uomo punito per il suo delitto con la pena suprema e il legno di una croce costituiscono la lugubre sostanza della loro liturgia attribuisce in fondo a quei ribaldi senza legge il rituale che loro meglio si addice, cioè addita a oggetto della loro adorazione ciò che essi meriterebbero». D’altro canto, Tertulliano, nell’Apologetico, difende la sua fede dalle accuse dei pagani con queste significative parole: «Voi andate dicendo che i Cristiani sono nemici pubblici perché non tributano agli imperatori onori fatui». Ma la minaccia rappresentata dalla predicazione di Cristo era poi ancora piú radicale se si pensa che si rivolgeva anche ai poveri, agli schiavi, alle donne: insomma quanto bastava per far tremare il potere imperiale dalle fondamenta. Svetonio sostiene l’idea di una posizione antiebraica di Tiberio che avrebbe osteggiato la diffusione a Roma dei culti stranieri, adottando severe misure a riguardo. Quanto alla corresponsabilità dell’imperatore nella messa a morte di Cristo, La dottrina di Addai (un testo siriaco del 400 circa) riporta una lettera del battezzato re Abgar che chiede a Tiberio di punire gli Ebrei per quello che hanno fatto a Cristo. Cosí risponde l’imperatore: «Per quanto riguarda Pilato, l’ho cacciato con ignominia per essersi allontanato dalla legge, avere seguito i desideri degli Ebrei e avere crocifisso Cristo per loro gratificazione: mentre stando a ciò che sento, invece della morte sulla croce, avrebbero dovuto tributargli onore e (...) venerarlo, soprattutto dopo che avevano visto con i loro occhi tutto ciò che aveva compiuto». Insomma, secondo i cronisti cristiani, se Pilato se ne era lavato le mani, Tiberio aveva fatto a scaricabarile. Maria Baiocchi
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OPERE PUBBLICHE
I lavori pubblici a Roma
Interventi per
il bene comune
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an mano che la potenza di Roma cresceva, anche la forma stessa della città si evolveva, espandendo sempre piú il primitivo nucleo dell’Urbe.
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Fu necessario, quindi, arrivare a una gestione amministrativa piramidale: l’intera città era divisa in regiones (gli attuali rioni) e queste in vici, i borghi (che, già cresciuti fino a 200 all’inizio dell’impero, arrivarono a quasi 400 sotto Diocleziano). I responsabili dei vici erano i vicomagistri, a loro volta sottoposti all’autorità degli edili (o tribuni della plebe, o questori), che rispondevano ognuno del rione
assegnatogli, scelto o toccatogli in sorte. Ma se abbiamo varie notizie e riscontri per la gestione ordinaria, molto meno chiara ci risulta la pianificazione delle grandi opere pubbliche, d’interesse comune per l’intera città: quasi sicuramente, la gestione straordinaria di Roma non fu mai regolamentata in modo ufficiale, e non certo per fortuita dimenticanza. La realizzazione di un’opera
pubblica imprevista, magari sfarzosa e spettacolare, era un asso nella manica e il suo costo era comunque inferiore a quello necessario per la cura capillare, continua e scrupolosa della città. Il rinnovamento annuale della magistratura, inoltre, rafforzava questa tendenza gestionale (perché con opere estemporanee e da realizzarsi a tempo di record c’era una maggiore possibilità di peculato e corruttela). L’imperatore, dal canto suo, detenendo il monopolio dell’industria del marmo e dei laterizi, non faceva certo difficoltà. Molto precisa, puntigliosa e severa era invece la normativa che regolarizzava la manutenzione ordinaria. Già la Lex Iulia municipalis del 45 a.C., per esempio, prescriveva che i proprietari di case provvedessero al decoroso mantenimento del tratto di strada e dell’eventuale marciapiede antistante il loro fabbricato, al suo lastricamento e al prosciugamento delle pozze d’acqua stagnanti; chi non si fosse adeguato a tali regole avrebbe comunque dovuto sostenerne l’onere, perché ci pensava l’edile a farle rispettare d’ufficio, assegnando l’appalto a una ditta. Le costruzioni poi non dovevano superare l’altezza di 20 m circa. Purtroppo, però, anche allora, l’esistenza delle leggi non era sufficiente da sola a eliminare i fenomeni per cui quelle stesse leggi erano state promulgate. Roma, che aveva espanso il suo dominio in tre continenti, non riuscí mai ad applicare a se stessa quel modello di armonioso sviluppo che via via esportò, ancorché imponendolo, nell’intero mondo antico. Ma questo bizzarro destino era forse fatale per la stessa originaria dimensione agricola della città, che la condannava al caos perenne. Alla nascita dell’Urbe era il buon senso a regnare (e bastava) cioè ad amministrare. Poi, quando la crescita abnorme, inizialmente non prevista, divenne sempre piú inarrestabile e si trasformò in una necessità, fu altrettanto fatale che, spostatasi all’esterno l’attenzione, i problemi interni finissero in subordine. Chissà, la soluzione forse sarebbe stata rifondarla altrove, ripartire da zero? Fatto sta che questo non avvenne e i tentativi di pianificarne lo sviluppo convulso non furono mai condotti a termine. Già Cesare, con la Lex de Urbe augenda, aveva potuto individuare l’unica possibile risposta alla già frenetica domanda di urbanizzazione, Ricostruzione grafica dell’area del Campo Marzio. Gli assi stradali creati in età repubblicana e augustea hanno determinato lo sviluppo urbanistico della zona (da Les voyages d’Alix. Rome, di Jacques Martin e Gilles Chaillet/© CASTERMAN).
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OPERE PUBBLICHE
comunque in corso e altrimenti selvaggia, con la bonifica del Campo di Marte. Non era un progetto da poco, fra l’altro prevedeva addirittura la deviazione del corso del Tevere! Ma il malcontento era generale, perché il Campo Marzio era malsano e per di piú già destinato alle grandi esercitazioni militari, che di conseguenza si sarebbero dovute svolgere altrove, piú lontano, nel migliore dei casi al Campo Vaticano. Comunque, l’uccisione di Cesare impedí la realizzazione del suo avveniristico piano regolatore. Augusto, suo successore ed esecutore testamentario, cambiò decisamente politica, o meglio, strategia e spostò l’attenzione dalle ragioni urbanistiche a quelle autocelebrative perché, fatto comunque bonificare il Campo di Marte – pur senza far deviare il corso del Tevere – invece di farvi costruire le abitazioni e imporre deportazioni di massa cominciò con l’abbellire il territorio bonificato, trasformandolo in un giardino lussureggiante e fece costruire edifici pubblici e templi in quantità; per contro allargò gli spazi destinati ai fori al centro della città. Tempo al tempo, e il Campo Marzio si sarebbe urbanizzato spontaneamente. Con quella «toppa» si riuscí a tamponare ancora per un po’ il problema. Ma già Nerone si ritrovò a dover amministrare una Roma ormai ingovernabile e non è escluso infatti che gli stessi cristiani, in quel tempo sovversivi tutt’altro che mansueti, avessero deciso di vendicarsi del loro persecutore distruggendo l’Urbe col fuoco. Comunque quella fu la versione accreditata da Nerone, che invece, secondo i primi, avrebbe appiccato egli stesso il fuoco alla città, arrivando a bloccare il lavoro delle squadre dei pompieri fino a che il fuoco non avesse compiuto la sua opera. E se invece il fine ultimo del rogo dell’Urbe fosse da ricercarsi proprio nella necessità, ormai improcrastinabile, di un taglio netto per poi ripartire da zero e poterla riedificare «piú bella e piú superba che pria»? Forse la satira petroliniana è piú vicina alla verità di quanto si potrebbe credere, perché dalle rovine la nuova Roma risorse, se non piú bella, sicuramente piú grande e informata a modernissimi criteri urbanistici. Spazi maggiori, porticati, strade rettilinee, strutture in pietra refrattaria, capillare rete idrica per uso pubblico utilizzabile anche in caso di ennesimo incendio, indennizzi ai privati. Roma stava davvero per cambiare faccia: peccato che i Romani videro in quell’utopistico piano regolatore solo il desiderio di Nerone (che si stava facendo costruire la Domus Aurea) di farsi casa! Maria Baiocchi
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Un suggestivo scorcio delle strutture superstiti, visibili nel Parco degli Acquedotti, a Roma, di uno degli impianti che rifornivano la capitale dell’impero,
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Seneca
Ironie di un filosofo
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eneca, il precettore del futuro imperatore, del famigerato Nerone, aveva iniziato la sua carriera con un esilio, decretato nei suoi confronti da Claudio, sotto istigazione di Messalina, per l’accusa di adulterio con Giulia Livilla, sorella di Caligola. Dovette soggiornare per otto anni in Corsica (che all’epoca non poteva certo essere considerata come una terra di vacanze...) prima di poter rientrare in patria. Anche questa volta era stata una donna a brigare (sia pure per il ritorno), nella persona della seconda moglie di Claudio, Agrippina Minore, la
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quale subito affidò al filosofo Seneca l’educazione del figlio avuto dal precedente matrimonio con Domizio Enobarbo: il pupillo era Nerone. Era dunque comprensibile che Seneca nutrisse del risentimento nei confronti di Claudio, al quale, evidentemente, non poteva perdonare la decisione di averlo esiliato. Appena morto l’imperatore (era comunque saggio astenersi dalla satira nei confronti di quelli vivi e capricciosi), confezionò per lui una gustosa apoteosi beffarda, nella quale, invece che in un dio, il povero Claudio si trasformava in una zucca. Ma non bisogna credere che la bile accumulata dal filosofo potesse esplodere pubblicamente, sia pure dopo la morte dell’odiato tiranno.
La morte di Seneca, olio su tela di Manuel Dominguez Sanchez. 1871. Madrid, Museo del Prado.
A Seneca, infatti, oltre che quello di lodarlo in vita, era toccato anche l’ingrato compito di scrivere l’orazione funebre di Claudio. Orazione che Nerone lesse fra scrosci di risa, perché, anche se uscita anonima, l’apoteosi satirica si era già diffusa fra la gente e, nel sentire l’elogio funebre, i cittadini pensavano all’altra piú veritiera opera di Seneca. Il Ludus de morte Claudii Caesaris o Apoteosi di Claudio in satira ci è stata tramandata anche con il titolo di Apocolocyntosis (assunzione fra le zucche). Giunto davanti al consesso degli dèi, Claudio sarebbe stato respinto e cacciato agli Inferi, dove Minosse lo avrebbe assegnato come schiavo ai processi
infernali, con palese riferimento alla mania processuale che aveva ossessionato la vita dell’imperatore. Anche Seneca però non si salvò dalla sorte comune a tanti sfortunati intellettuali del tempo. Malgrado si fosse dato tanto da fare (ahinoi inutilmente) per proporre a Nerone il modello stoico del rex Iustus, moderato, tollerante, ecc., e poi a chiudere gli occhi davanti ai misfatti del suo discepolo, Nerone lo accusò di aver partecipato alla congiura di Pisone e gli inviò l’ordine di uccidersi. E Seneca rispose: «Obbedisco!». In verità non sappiamo se abbia risposto: fatto sta che obbedí. Maria Baiocchi
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CULTO DEI CESARI
Il culto imperiale
Principi come dèi
L’
assimilazione di un monarca alla sfera divina è un fenomeno che si ritrova di frequente: il faraone era visto dagli Egiziani come dio in terra; Ittiti, Assiri, Persiani riproducevano i loro monarchi in diretto rapporto con gli dèi. Il razionalismo greco rifiutava questi riconoscimenti, ma i miti erano pieni di eroi, uomini che discendevano da un dio, e che qualche volta per le loro imprese tra gli dèi potevano essere accettati, come accadde a Ercole. Come nuovo Ercole si fece rappresentare Alessandro Magno, che fu sempre un re mortale per i suoi sudditi macedoni, ma
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fu visto in Oriente come un dio. I sovrani dei regni nati dalla disgregazione delle sue conquiste si presentarono come reincarnazioni sulla terra di Ercole, o di Zeus, o di Apollo, o del Sole. Sembrò poi logico attribuire una natura sovrannaturale anche ad alcuni dei condottieri romani che a loro volta conquistarono quelle regioni. In Occidente, Roma compresa, un mortale, per quanto potente, non avrebbe mai potuto essere considerato un dio; ma le abitudini, nate con i sovrani orientali, si fecero ugualmente largo, attraverso soluzioni ibride: particolare protezione, discendenza divina, sacralità di Roma e del ruolo imperiale, e infine apoteosi, cioè ascensione tra gli dèi dopo la morte, in qualche modo
garantita dal trionfo mentre l’imperatore era ancora vivente. Caligola, Nerone e molti altri dopo di loro cercarono di farsi venerare come divinità mentre erano ancora in vita; ma tutti, a cominciare dallo stesso Augusto, si collocarono in qualche modo in una sfera superiore a quella dei comuni mortali; anzi, il culto per gli imperatori defunti, e, di riflesso, per il sovrano regnante, divenne una delle espressioni piú tangibili della fedeltà allo Stato. Il culto per gli imperatori, defunti o meno, fu diffusissimo e in sua funzione fu eretta un’enorme quantità di monumenti. A Roma, in particolare, la famiglia imperiale utilizzava lo strumento del culto dei suoi membri defunti e divinizzati come mezzo per rendere evidente la legittimità della continuazione del potere sino all’imperatore regnante. Sulle pendici del colle Capitolino, da poco devastato da un incendio, trovò posto il tempio dedicato dal Senato al divo Nella pagina accanto gemma in sardonica con l’apoteosi di Claudio, databile dopo il 54 d.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso Roma. Le colonne superstiti del tempio di Vespasiano, ai piedi del Campidoglio.
Vespasiano e poi anche a Tito, completato da Domiziano e restaurato da Settimio Severo e Caracalla. All’interno della cella stavano le basi destinate a sorreggere le statue dei due imperatori divinizzati, esponenti della dinastia flavia. Nel II secolo, con gli imperatori adottivi, si moltiplicarono le apoteosi proclamate dopo la morte, non solo per gli imperatori defunti, ma anche per altri membri, soprattutto femminili, della famiglia. Già Traiano, nel 112, proclamò divi sia il padre naturale, già governatore dell’Asia, sia la sorella Marciana, certo che li avrebbe raggiunti appena la morte lo avesse liberato dagli incarichi terreni. La stessa Colonna Traiana, sul suo zoccolo a forma d’altare, rendeva evidente come i meriti dell’imperatore, e in particolare le sue vittorie, fossero tali da garantirgli la futura apoteosi. Quando Adriano fece sostanzialmente rifare il Pantheon eretto da Agrippa nel Campo Marzio, volle sottolinearne ancor piú il ruolo di santuario dinastico: a questo scopo fece porre all’interno delle nicchie dell’immensa rotonda centrale le statue di culto delle divinità legate alla famiglia giulio-claudia, come Marte e Venere, accostate a quelle del Divo Giulio, di Augusto e dei successivi imperatori. Inoltre, poco a nord-est del Pantheon, nei pressi dell’attuale piazza Capranica, Adriano fece erigere un tempio alla suocera, Matidia, morta nel 119 e subito divinizzata. È probabile che, sin da allora, il progetto prevedesse
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CULTO DEI CESARI
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In alto il tempio di Antonino e Faustina nel Foro Romano. II sec. d.C. Eretto per la moglie divinizzata di Antonino, fu, dopo la morte di lui (161 d.C.), dedicato anche al suo culto. A sinistra Roma, piazza di Pietra. Uno scorcio del colonnato superstite del tempio di Adriano. II sec. d.C.
la costruzione, sullo stesso asse, del tempio dedicato ad Adriano dopo la morte, nel 145. In piazza di Pietra ancora si possono vedere undici delle tredici maestose colonne in marmo proconnesio, alte 15 m, del lato nord del tempio. Lo stesso mausoleo di Adriano, poi trasformato nell’attuale Castel Sant’Angelo, era percepito già dai contemporanei come un tempio del culto agli imperatori morti e assurti tra gli dèi. Ancora in diretta connessione con il Foro, nel 141 d.C., in onore della moglie Faustina, appena morta, Antonino Pio fece costruire un tempio sulla via Sacra, presso il tempio del Divo Giulio. Il tempio è ancora in piedi, trasformato nella chiesa di S. Lorenzo in Miranda. Le immagini che se ne hanno sulle monete mostrano che doveva contenere la statua di culto dell’imperatrice. Sin dalla sua progettazione doveva essere destinato ad accogliere anche il culto di Antonino Pio una volta che egli fosse divenuto divus, come poi avvenne nel 160. Giorgio Bejor
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NERONE
Nerone
Il sovrano dell’impossibile
I
l destino ha voluto che, dopo la morte, Nerone fosse ricordato soprattutto come il sovrano dell’eccesso: troppi omicidi, troppe mogli, troppe amanti, troppi piaceri, troppe spese. Anche la sua politica edilizia fu giudicata come l’espressione fallimentare di un temperamento visionario e smodato: «incredibilium concupitor» («smanioso di cose impossibili») lo definí Tacito, riassumendo magnificamente in due sole parole l’essenza del «problema Nerone». Costruire edifici immensi e splendidi, realizzare opere audaci, vincere e addomesticare la natura, piegandola alle necessità della vita civile: tutto questo rientrava nel modello «eroico» che Nerone cercò d’incarnare. Ma questo modello poteva anche apparire come tirannico: una medesima indole avrebbe portato Nerone a tiranneggiare gli uomini e la natura. E, come gli uomini, anche la natura gli si sarebbe ribellata. Tacito formula quel giudizio anche in riferimento alla costruzione della Domus Aurea: «Nerone sfruttò la rovina della città [dopo l’incendio del 64 d.C.] per costruire una residenza in cui facessero gridare al miracolo non tanto le gemme e l’oro, adoperati già da tempo in un lusso ormai banale, quanto i campi e i laghetti e – a imitazione della natura selvaggia – di qua i boschi, di là spazi aperti e vedute panoramiche, secondo il progetto degli architetti Severo e Celere, i quali avevano anche l’ingegno e l’audacia di osare, con l’arte, dilapidando le risorse del principe, ciò che la natura aveva negato». Lo storico ricorda inoltre il progetto, intrapreso solo in piccola parte, di scavare un canale artificiale lungo circa 250 chilometri, navigabile dal lago d’Averno, nei pressi di Cuma, fino alla foce del Tevere, «attraverso spiagge desolate e monti impervi». Le navi cariche del grano egiziano destinato alla capitale facevano infatti scalo a Pozzuoli (vicino a Cuma), che offriva un buon porto naturale e magazzini ben attrezzati. Qui il grano veniva reimbarcato su battelli piú piccoli che lo trasportavano a Roma. Ma la tappa finale del viaggio era particolarmente pericolosa, come mostravano i numerosi disastri avvenuti lungo la costa e nello stesso porto di Ostia e che in anni recenti avevano provocato gravi difficoltà
Sulle due pagine Nerone a Baia, olio su tela di Jan Styka. 1900 circa. Collezione privata.
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NERONE
In alto Subiaco (Roma). Una veduta dei resti della villa neroniana ad simbruina stagna. I sec. d.C.
Nella pagina accanto testa in bronzo di Nerone, dalla Cilicia. I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
all’organizzazione annonaria e affamato la plebe: nel 62, da ultimo, circa 200 navi erano andate distrutte nel porto di Ostia a causa di una mareggiata. La costruzione lungo la costa tirrenica di un canale dove i convogli potessero transitare al sicuro era stata già ideata da Cesare, che aveva pensato di mettere in collegamento Roma con Terracina, ma il progetto di Nerone era ancor piú ambizioso. Svetonio afferma che il principe aveva anche deciso di prolungare le mura di Roma fino a Ostia e di fare arrivare il mare alla città per mezzo di un canale. Un’altra impresa sovrumana tentata da Nerone fu il taglio dell’istmo di Corinto, già concepito dal tiranno Periandro, dal re di Macedonia Demetrio Poliorcete, da Giulio Cesare e da Caligola. Era facile constatare che Demetrio aveva finito i suoi giorni in prigionia e che gli altri tre aspiranti scavatori dell’istmo erano morti assassinati. Non meno facile era dedurne una
limpida morale, attribuita da Filostrato a un politico ben piú cauto: «Tagliare l’istmo di Corinto è un’impresa // degna degli immortali, incredibile, e io credo che scavare // l’istmo spetti a Poseidone piú che agli uomini». Si raccontava che, non appena Nerone diede il segnale di iniziare i lavori e furono date le prime picconate, dalla terra uscí sangue, si udirono lamenti e ululati e apparvero molti fantasmi. L’imperatore avrebbe allora afferrato un piccone e obbligato i presenti a scavare insieme con lui. L’opera avrebbe poi assorbito enormi risorse economiche e umane, ma, come tante altre, si sarebbe interrotta con la morte del suo ideatore. Il titanico rapporto di Nerone nei confronti della natura non si manifestava soltanto nel suo desiderio di aprire le viscere della terra scavando canali e spaccando montagne. Esso aveva anche una
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proiezione orizzontale, uno sguardo teso verso i limiti del mondo, un’ansia di raggiungere spazi ignoti. Egli progettò, per esempio, una spedizione nel cuore dell’Africa e ne organizzò una nel Caucaso, una montagna affascinante e terrifica, dove era ambientata una miriade di miti e che si diceva fosse popolata da animali bizzarri e da uomini grandi come giganti (ragione per cui Nerone fece reclutare legionari alti sei piedi). Gli storici antichi, e al loro seguito molti studiosi moderni, non sono stati equanimi, e non hanno insistito, con uguale enfasi, sui fallimenti altrettanto clamorosi di altri sovrani. Finí per esempio nel ridicolo, e provocò alcune vittime innocenti, un’ambiziosa opera d’ingegneria idraulica voluta da Claudio. Questo imperatore fece scavare una galleria tra il lago Fucino e il fiume Liris (l’odierno Garigliano), per convogliare le acque in un grande bacino in prossimità del Tevere. Per inaugurare solennemente l’opera, fu allestita sul lago una grande battaglia navale, alla quale parteciparono 19 000 uomini imbarcati su triremi, quadriremi e zattere. Le rive e le pendici dei colli erano piene, come a teatro, di una folla di spettatori convenuti dalle città vicine e da Roma. L’imperatore in persona assisteva allo spettacolo, indossando un mantello militare; accanto gli stava la bella Agrippina, avvolta in una clamide dorata. Fu quindi aperta la via per il deflusso delle acque. Ma non accadde quasi nulla, perché la galleria si trovava troppo in alto e l’inaugurazione venne rinviata. Dopo qualche tempo, nuovo spettacolo e nuova cerimonia. Ma anche questa volta le cose non andarono secondo le previsioni. Adesso l’acqua defluí in modo troppo violento, mettendo a soqquadro ogni cosa e seminando il panico tra la popolazione. Il tutto culminò in una violenta lite tra Agrippina e il liberto Narcisso, appaltatore dell’opera: la donna accusò il liberto di essere un ladro, mentre Narcisso trattò Agrippina da isterica. Normalmente, gli storici moderni si soffermano soprattutto sui grandi successi dell’ingegneria e dell’architettura romana; e una giustificata retorica esprime da molti secoli l’ammirazione dei posteri per le opere immortali dei loro antenati. Sarebbe molto utile, tuttavia, un inventario dei fallimenti, delle
imprese effimere, dei tentativi andati a vuoto. Questo inventario ci darebbe un quadro piú completo e realistico della tecnica romana e ci darebbe al tempo stesso informazioni preziose sulla dialettica tra progetto ed empiria. Come già osservarono gli storici antichi, non è possibile scindere le grandi opere d’ingegneria civile progettate da Nerone dalla sua politica edilizia, riguardante principalmente la città di Roma. Qui egli costruí edifici importanti e audaci, come il famoso anfiteatro ligneo del Campo Marzio, che viene descritto come una sfida al cielo e ricordato per i
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NERONE
gradini immensi e i pendii lievemente digradanti, oltre che per il telone azzurro trapunto di stelle. Suscitavano ammirazione anche il teatro, il circo, le terme, il mercato. Persino i piú accaniti detrattori dovettero inoltre riconoscere la bontà delle norme urbanistiche ed edilizie introdotte da Nerone dopo l’incendio del 64, e abbandonate dai suoi successori: «Sulle aree della città che, dopo la costruzione della Domus, restavano libere, non si costruí – racconta Tacito – come dopo l’incendio dei Galli, senza un piano e nel disordine, ma calcolando I’allineamento delle vie e lasciando un’ampia carreggiata alle strade, fissando limiti all’altezza degli edifici, con vasti cortili e con l’aggiunta di portici, per proteggere le facciate degli isolati». Se gli edifici costruiti da Nerone a Roma brillano per originalità e audacia tecnica, non fu da meno la villa da lui costruita nei pressi di Subiaco (Sublaqueum), la località che prese il nome dai laghi creati dal principe sbarrando l’alto corso dell’Aniene. Come testimoniano ancora oggi le numerose rovine, questa villa era un complesso assolutamente straordinario, articolato in una serie di padiglioni dislocati a varie altezze sulle rive dei laghi e modellati sulle asperità del terreno roccioso. Per dare un’idea della ricchezza delle opere d’arte che essa ospitava, basterà ricordare il celebre Efebo da Subiaco, ora al Museo Nazionale Romano. Malgrado tutto questo, Nerone fu ricordato soprattutto come il folle ideatore della Domus Aurea, un’opera divenuta impopolare già al momento della sua costruzione. Le pasquinate sono una vecchia abitudine dei Romani: anche al tempo di Nerone venivano affisse ai muri, o circolavano semplicemente di bocca in bocca, molte invettive contro il sovrano. Alcune riguardavano l’assassinio della madre Agrippina: «Chi può negare che Nerone sia della grande stirpe di Enea? Portò via questo la madre, portò via quello il padre»; altri si riferivano alla costruzione della Domus Aurea: «Roma si trasforma in una casa: emigrate a Veio, o Quiriti, sempre che questa casa non occupi anche Veio». Per una coincidenza che fu subito notata, l’incendio del 64 d.C. era avvenuto lo stesso giorno (il 19 luglio) in cui i Galli, nel 390 a.C., avevano incendiato e bruciato la città; in quell’occasione, alcuni avevano sostenuto la necessità di abbandonare Roma e di trasferirne la popolazione nella città etrusca di Veio. Ora, intendeva dire l’ignoto autore dell’epigramma, si ripresentava la stessa circostanza, anche se per motivi diversi: la mastodontica dimora neroniana,
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In queste pagine due immagini della statua di Efebo, dalla villa di Nerone a Subiaco. Marmo. I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme.
espandendosi senza freni, trasformava le case dei Romani in un’unica casa, spossessandoli della loro città come un tempo avevano fatto i Galli. Quello che colpiva negativamente l’opinione pubblica non era tanto l’enorme costo dell’opera, ma la sua destinazione: la plebe non si preoccupava affatto se
somme ingenti venivano destinate, per esempio, ai pubblici spettacoli o ad altre iniziative d’interesse collettivo; questo tipo di magnificenza suscitava, anzi, un consenso quasi unanime e innalzava il prestigio del sovrano. A turbare la plebe, era piuttosto la destinazione privata dell’opera: certo, era probabile che, a lavori conclusi, il popolo sarebbe stato ammesso occasionalmente negli spazi esterni della Domus, ma questa non sarebbe mai divenuta una struttura civica. Che si trattasse della natura aspra e ingovernabile o degli spazi urbani, Nerone osava l’impossibile. Abbiamo visto come anche questo aspetto della sua personalità fosse oggetto, pur meno di altri, di biasimo. Eppure, la tradizione antica ha lasciato tracce di una valutazione diversa, o per lo meno piú articolata. Nella sua descrizione dell’Argolide, Pausania (Il secolo d.C.), si sofferma a descrivere il piccolo lago Alcionio, ancora oggi visibile presso il villaggio di Mili. Questo specchio d’acqua ha la caratteristica di essere largo appena sessanta metri, ma di avere una grande profondità: una circostanza ideale per farne un ricettacolo di leggende piú o meno terrifiche: «Ho sentito raccontare – dice Pausania – anche questa storia: l’acqua del lago, per quanto può parere a vederla, è calma e tranquilla; tuttavia, pur presentando quest’aspetto, riesce a trascinare giú chiunque osi attraversarla a nuoto, e lo porta via risucchiandolo nelle sue profondità». Si raccontava anche che di qui Dioniso sarebbe sceso all’Ade per riportare Semele sulla terra. Quanto alla profondità, Pausania fa una precisazione di grande interesse, che non è mai stata adeguatamente valorizzata per la comprensione del mito di Nerone: «Non c’è limite alla profondità del lago Alcionio, né, a mia conoscenza, alcun uomo è potuto arrivare, con qualunque mezzo, al suo fondo: infatti, nemmeno Nerone, pur avendo fatto fabbricare e legare fra loro funi di diversi stadi di lunghezza, e avendo loro attaccato anche del piombo, e quant’altro era utile alla prova, riuscí a trovare un limite alla sua profondità». Nerone appare dunque, in una connotazione non negativa, come l’uomo del limite, come la misura della curiosità e insieme delle possibilità umane. In questa luce, è lecito ritenere che l’ingegneria civile romana, e non solo I’architettura, debba qualcosa anche agli ambiziosi tentativi di quell’imperatore. Andrea Giardina
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AUGUSTO
La Domus Aurea
Una casa grande come una città
I
l primo vero palazzo imperiale, situato sul lato occidentale del colle Palatino, fu la Domus Tiberiana, sede dei Giulio-Claudi. Questo fino a Nerone: dopo l’incendio del 64 d.C. infatti, l’imperatore volle per sé un nuovo palazzo, sfruttando lo spazio lasciato nel centro di Roma dai quartieri distrutti dal fuoco. Il progetto, dovuto, secondo la testimonianza di Tacito, agli architetti Severo e Celere, si ispirava alle grandi ville marittime costruite sul golfo di Napoli, ma era di una grandiosità inusitata: adagiati tra le colline del Palatino e della Velia, gli edifici occupavano parte del Colle Oppio, gli horti imperiali sull’Esquilino e arrivavano fino al Celio, dove il tempio del Divo Claudio era stato trasformato in ninfeo. Al centro, nella parte piú bassa della valle, era stato creato un lago artificiale, sul quale digradavano i giardini e i boschi che erano parte integrante del progetto. Ben poco oggi è rimasto della fastosa casa di Nerone,
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che già 34 anni dopo la costruzione fu distrutta in parte da un altro incendio. Nel 104, infatti, Traiano costruí sopra il padiglione del Colle Oppio le sue terme, usando le strutture neroniane come sostruzioni; e proprio questa circostanza ha salvato dalla totale distruzione il grande padiglione conservatosi al di sotto delle terme traianee, l’unico edificio rimastoci della Domus Aurea. Si tratta di una lunga struttura di circa 150 stanze, affacciate sui giardini digradanti; prive di porte, di servizi e di riscaldamento, dovevano avere una funzione piú che altro di rappresentanza. Le pareti anticamente rivestite di marmo, le pitture e gli stucchi delle volte, l’uso del calcestruzzo per le ardite coperture a botte e a cupola, la decorazione raffinata ed elegante riempirono di ammirazione anche coloro i quali, alla fine del Quattrocento, entrarono per caso attraverso i fori delle volte, calandosi letteralmente nei vani riempiti di terra e riscoprendo la casa di Nerone. La fortuna che nel Rinascimento ebbero le decorazioni delle «grottaglie» (cosí erano chiamate le stanze neroniane per il loro interramento) si riscontra nei numerosi disegni rimastici e nelle imitazioni che ne sono state fatte
all’interno di palazzi e dimore rinascimentali. Pittori come Perugino, Filippino Lippi, Pinturicchio, Ghirlandaio copiarono le eleganti colonnine, i candelabri, le ghirlande e l’inesauribile diffondersi di viticci, disegni vegetali, animali e quadretti di genere inseriti in appropriati punti della decorazione generale. Molti dei disegni cinquecenteschi sono oggi preziosi per avere un’idea piú completa della decorazione, allora molto meglio leggibile e oggi spesso del tutto offuscata. Oltre alle pitture, la «riscoperta» della Domus Aurea portò alla messa in luce di opere d’arte che la decoravano: tra le statue rinvenute allora nelle sue sale vi è, solo per fare l’esempio piú celebre, il gruppo del Laocoonte: splendido testimone di una decorazione scultorea che doveva raccogliere il meglio dei capolavori della statuaria antica. Nella pagina accanto Roma, Domus Aurea. L’interno della Sala della Volta dorata. I fori sul soffitto sono il risultato dei ritrovamenti fortuiti della fine del Quattrocento. In alto la Sala ottagona, dove si trovava la Cenatio. A sinistra uno dei corridoi di passaggio della Domus Aurea.
Ci vuole un notevole sforzo di immaginazione per rivestire i nudi muri di mattoni del padiglione sotto le Terme di Traiano al Colle Oppio (tutto ciò che rimane oggi della fastosa dimora di Nerone) con i marmi preziosi, i fregi e le dorature che li adornavano, per completare nella mente gli smaglianti colori originari delle pitture, ora offuscate e frammentarie. Eppure queste nude mura hanno una grandiosità che colpisce il visitatore, tanto piú sapendo che questo vasto edificio, neppure del tutto scavato, costituiva solo una piccola parte della famosa Domus Aurea. Qui, afferma Tacito narrando del regno di Nerone, «non tanto erano da ammirare gemme e ori (una ricchezza ormai divenuta banale, perché troppo comune), quanto terreni coltivati e laghi, di qua parchi come selvagge foreste, di là liberi spazi e prospettive: opera dei fantasiosi architetti Severo e Celere, la cui geniale arditezza si sbizzarriva nel creare con l’arte ciò che natura non offriva» (Tacito, Annali, XV, 42, Einaudi, traduzione di Camillo Giussani). È questa solare vastità, piú che il prezioso rivestimento, che manca oggi alla Domus Aurea: mancano i grandi spazi boscosi che dal Colle Oppio scendevano fino al lago artificiale (poi occupato dal Colosseo) e manca la luce che penetrava dalle larghe finestre, dai porticati, dai cortili. (red.)
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ARCO DI TITO
L’arco di Tito
Immagini trionfali
I
l buon governo di Tito, l’imperatore chiamato dalla tradizione apologetica amor et deficiae generis humani, non poteva non contemplare una fervida attività edilizia. Il figlio di Vespasiano costruí terme e templi, riparò strade e acquedotti, e, nell’80 d.C., completò, fra grandi festeggiamenti, la costruzione del Colosseo. Con lui poi si affermò un genere nuovo dell’arte celebrativa: l’arco onorario e trionfale di Tito, che si erge all’inizio della Via Sacra, è infatti il piú antico di quella nuova tipologia architettonica celebrativo-propagandistica che sia giunto fino a noi nella sua interezza. È vero che l’uso risale al Il secolo a.C., ma è altrettanto vero che con l’avvento dell’impero quella forma si afferma e si diffonde. L’appellativo divus attribuito a Tito fa pensare che la dedica sia stata apposta dopo la morte e la divinizzazione dell’imperatore, ovvero nell’81 d.C. Il monumento, alto 15,40 m per 13,50 di larghezza, è a un solo fornice. Sul fregio, le tavolette riportano i nomi dei popoli conquistati ed elencano i bottini.
I pannelli che lo rivestono all’interno celebrano il trionfo nel 71 d.C. dopo la vittoria della guerra giudaica. In uno si vedono i vincitori, incoronati di alloro, che trasportano a spalla gli arredi sacri, le trombe d’argento, il candelabro a sette bracci e la mensa dei pani, e due camilli portano le tavole con la descrizione delle fasi della vittoria. Nell’altro, l’imperatore trionfante è sul carro, incoronato da una Vittoria alata, guidato da Roma-Virtus, scortato dal Genio del Senato e da quello del Popolo Romano.
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In basso Roma. Particolare della volta interna del fornice dell’arco di Tito, decorato con formelle a rose e, nella zona apicale, un pannello che mostra l’imperatore divinizzato e portato in cielo da un’aquila. I sec. d.C.
Sulle due pagine Roma. Una veduta complessiva della facciata principale dell’arco di Tito. I sec. d.C.
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AUGUSTO
Al centro della volta a cassettoni c’è un rilievo con l’apoteosi dell’imperatore: un’aquila trasporta in cielo il divo Tito. Ritroviamo, in questo avvicinamento dell’elemento narrativo-realistico a quello trasfigurativo-allegorico, lo stesso modulo dei rilievi dell’Ara Pacis e che fu caratteristico dell’arte celebrativa dell’impero. Tale sintesi ha portato a definirlo classico, anche se l’accento sugli elementi decorativi verticali va ricondotto al cosiddetto «barocco» dell’epoca flavia e se le decorazioni figurate appaiono segnate da uno stile popolare. Oltre ai due pannelli interni, l’arco presenta un fregio sopra l’architrave e un altro pannello inserito nel cassettone della volta. Nell’archivolto, le Vittorie si levano in volo su un globo: una con un’insegna, l’altra con una palma e una corona. Sulle due grandi mensole stanno le immagini, in parte mutilate, di Virtus sul lato ovest e di Honos su quello est. Maria Baiocchi
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Sulle due pagine modello in scala 1:50 della città di Gerusalemme all’epoca del Secondo Tempio. Gerusalemme, Israel Museum. In basso Roma. Particolare della decorazione interna del fornice dell’Arco di Tito, che raffigura la processione di soldati romani che porta in trionfo il bottino di guerra, tra cui si riconoscono la Menorah e la tavola dei pani sottratte al tempio di Gerusalemme.
L’oro dei Giudei Sull’imperatore passato alla storia per la sua magnanimità e la sua clemenza le fonti non sono del tutto concordi. Alla versione di Giuseppe Flavio, il quale, nelle Guerre Giudaiche, riferisce che il secondo tempio di Gerusalemme (il primo era stato distrutto da Nabucodonosor Il di Babilonia) fu abbattuto contro la volontà di Tito, supremo condottiero delle truppe romane, è oppotuno fare la tara, se non altro in considerazione della posizione filo-flavia dello storico giudeo. Altri, per esempio Sulpicio Severo, affermano che la distruzione avvenne invece con l’approvazione di Tito. Fatto sta che, se è difficile dire come siano andate davvero le cose, è certo però che il tesoro rapinato nel Sancta Sanctorum e riportato in patria come bottino di guerra serví a innalzare l’arco di trionfo di Tito.
La novità è emersa dagli studi di Géza Alföldy, il quale, con un metodo ingegnoso – consistente nel leggere «in negativo» ovvero dai fori in cui erano inserite le lettere dell’iscrizione precedente –, ha ricavato la prima iscrizione dell’architrave della porta posteriore interna del Colosseo. Ebbene vi si diceva cosí: «L’imperatore Tito Vespasiano Cesare Augusto fece erigere il nuovo anfiteatro con il provento del bottino (ex manubis)» e infatti, l’abbiamo visto, il Colosseo, eretto da Vespasiano, fu però completato e inaugurato dal figlio Tito nell’80 d.C. Se ne conclude che il tesoro del tempio di Gerusalemme non finanziò soltanto la costruzione dell’arco di Tito, ma anche quella del monumento poi divenuto universalmente noto come il simbolo della Città Eterna. M. B.
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ANFITEATRO
Giochi gladiatori
Folle in delirio
N
el 105 a.C. furono istituiti dallo Stato i munera, combattimenti gladiatori che, in precedenza, i privati organizzavano presso la tomba dei loro genitori per placare col sangue nuovo l’ira degli dèi e
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l’inquietudine dei trapassati. Al tempo di Augusto, Festo definisce il munus come «oblazione offerta per motivi ufficiali», ma ormai pochi serbavano ancora memoria delle origini sacrali e propiziatorie di quell’usanza. Già in epoca repubblicana, i combattimenti fra gladiatori erano tanto invalsi nell’uso che ci è giunta notizia di una
rappresentazione dell’Hecyra di Terenzio, nel 164 a.C., disertata in massa in favore dei munera. I candidati a cariche pubbliche pensarono bene di sfruttarli a loro favore e cominciarono a «sponsorizzare» i munera per assicurarsi la gratitudine e i voti degli elettori. E nel 63 a.C. il munus veniva elargito in maniera talmente sistematica che il Senato, per reprimerne la
pratica, finí per squalificare dalla gara elettorale quanti avessero finanziato questo tipo di spettacolo nei due anni precedenti le elezioni. D’altra parte, però, lo sfruttamento della morbosità popolare «pagava» troppo perché si decidesse di reprimere definitivamente questa pratica: meglio gestirla personalmente. Pompeo, in questo senso, fu molto
Il versante orientale dell’Anfiteatro Flavio, universalmente noto come «Colosseo». I sec. d.C.
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ANFITEATRO
«munifico» e lo stesso Cesare perfezionò i munera, arricchendone ed elaborandone gli spettacoli. Con gli imperatori, che avevano compreso appieno la loro valenza, i munera vennero regolamentati, e la conservazione del potere venne rafforzata per un verso con il divieto ai privati con un reddito inferiore ai 400 000 sesterzi di patrocinarli, mentre per contro si prescriveva l’obbligo di sponsorizzarli, almeno una volta l’anno, ai magistrati municipali. A Roma, i pretori in carica assicuravano lo svolgimento dei munera due volte l’anno. Tiberio, regolamentati quelli ordinari, ne indisse molti altri straordinari per ingraziarsi maggiormente il popolo. E cosí sotto l’impero i munera divennero una consuetudine irrinunciabile, affiancando a pieno titolo i ludi del circo e del teatro. E se, inizialmente, erano stati praticati sfruttando le strutture dei circhi, o costruendone di provvisorie in legno, quando assursero a spettacolo imperiale per eccellenza per essi vennero costruiti edifici appositi, riprendendo la forma, inizialmente casuale, dell’anfiteatro. L’Anfiteatro Flavio, ovvero il Colosseo, è l’esempio meglio conservato (nonostante gli attacchi del tempo e dei barbari e l’utilizzo come cava di marmo a cui fu destinato durante la costruzione del palazzo del Campidoglio, di Palazzo Barberini e di Palazzo Venezia) dell’architettura-tipo degli anfiteatri. Nonostante le sue dimensioni, tanto piú imponenti se rapportate alla popolazione dell’epoca, gli spettacoli gladiatorii erano cosí in auge che gli imperatori fecero costruire anche l’Anfiteatro Castrense, di età severiana. Gli spazi (il Colosseo poteva ospitare – e ospitava, sempre, a esaurimento – piú di 50 000 persone) erano rigidamente suddivisi in funzione del censo. Si andava dalle tribune d’onore, contrapposte centralmente sul diametro corto dell’ellisse dell’anfiteatro, alle tribune numerate, ai settori riservati alle donne, alle popolari «curve» e all’ancor piú popolare «piccionaia». Ovviamente, ai posti centrali delle tribune d’onore sedevano le personalità: da una parte, imperatore e famiglia, e, dall’altra, prefetto e magistrati. I gladiatori facevano il loro ingresso dalle arcate alle estremità dei lati lunghi dell’arena e raggiungevano lo spazio antistante la tribuna imperiale per rendere omaggio all’imperatore prima dell’inizio dei combattimenti. E il loro morituri te salutant non era affatto un modo di dire. Forse era proprio il tragico epilogo delle tenzoni, tutte all’ultimo sangue, ad accendere la morbosità degli
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spettatori; via via che sfilavano i Sanniti con scutum e spatha, i Traci con la parma (piccolo scudo rotondo) e la sica, il pugnale, i retiarii con rete e tridente, i murmillones (naturali antagonisti dei precedenti) riconoscibili dai caschi, dipinti con l’immagine di una murena, la febbre cresceva, le scommesse si moltiplicavano, le urla di incitamento si mescolavano ai suoni di trombe, corni e organi idraulici, che
Panem et circenses Come scrisse il filologo e storico dell’antichità Jerôme Carcopino (1881-1970), «Un popolo che sbadiglia è pronto per la rivolta» (La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero). Ben lo sapevano gli imperatori, che mai fecero mancare al popolo gli antidoti a fame e noia: e la celebre sintesi «panem et circenses» racchiude il geniale segreto della conservazione del potere. Il calendario dell’Urbe vantava una pletora inaudita di feste, ricorrenze, commemorazioni, celebrazioni e propiziazioni; con una stima prudente, si può calcolare che mediamente il Romano lavorava un giorno su tre (senza contare gli esonerati – oltre 150 000 – mantenuti dall’assistenza pubblica). Impedire che nel tempo libero gli stomaci o i cervelli lavorassero contro l’impero fu un capolavoro di psicologia, i cui frutti hanno determinato il corso della storia.
davano il segnale dell’inizio dei duelli. Ognuno aveva un tipo di combattimento preferito e, come nei circhi il pubblico si divideva fra le diverse
tifoserie, cosí qui si prediligeva l’una o l’altra arma: e gli imperatori non facevano eccezione; Tito, per esempio, era un «aficionado» dei parmularii, mentre
Sulle due pagine il cosiddetto mosaico di Magerius, in cui un inserviente presenta su un vassoio dei sacchetti pieni di denarii, mentre quattro leopardi vengono uccisi da gladiatori armati di lancia. Ogni sacchetto è stato interpretato come la somma di 1000 denarii, pertanto si otterrebbe qui una rappresentazione delle effettive somme che venivano pagate per spettacoli simili negli anfiteatri dell’epoca. Da Smirat. III sec. d.C. Susa (Tunisia), Museo Archeologico.
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ANFITEATRO
Domiziano un agguerrito fan degli scutarii. L’esito degli scontri, sempre fatale per uno dei due contendenti, anziché far inorridire esaltava ancora di piú il pubblico che, anzi, suggeriva ai gladiatori i colpi da infliggere. Peraltro, in caso di scarsa combattività o di sospetto di incontro truccato, entravano in azione i loriarii, che convincevano a suon di staffilate i contendenti a battersi con maggior
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vigore. Quando uno dei due, magari solo ferito o stordito, deponeva le armi, a indicare un’evidente inferiorità, e, prostratosi a terra, sollevava la mano destra a chiedere la grazia, era il vincitore a decidere della sua sorte. Questi, generalmente, per «fair play» cedeva il suo privilegio all’imperatore, il quale, a sua volta, decideva in base alle indicazioni (urla belluine) del pubblico.
Solo raramente, se nessuno dei due contendenti riusciva a prevalere sull’altro, il «grande cuore» dell’imperatore e del popolo romano faceva decretare a gran voce nullo il combattimento e graziava entrambi i contendenti. Ma invece, di fatto era sempre la morte a trionfare: nelle sportulae ideate da Claudio – combattimenti che si svolgevano contemporaneamente Sulle due pagine assonometria ricostruttiva dell’Anfiteatro Flavio, che permette di distinguere i diversi settori della struttura.
In alto sesterzio bronzeo di Tito. Al dritto, l’imperatore togato, seduto sulla sella curulis, circondato da armi; al rovescio, il Colosseo, in una prospettiva frontale dall’esterno, che permette di vedere anche parte della cavea. 80 d.C.
sull’arena, degenerando in risse di inaudita violenza e che sfociavano nella strage in poche ore (anche se nei Fasti di Ostia del 113 Traiano fece disputare una sportula che durò tre giorni, in cui si affrontarono piú di 2400 gladiatori) –, come anche nei normali munera, che duravano dall’alba al tramonto o a notte inoltrata, o nelle vere e proprie carneficine dei munera sine missione, in cui si faceva «combattere» un inerme contro un avversario armato fino ai denti, e quando questi aveva immolato la sua vittima veniva spogliato delle armi, divenendo a sua volta vittima di un nuovo «vincitore». Per finire in bellezza con i munera interminabili, come quello che, nel 109, sotto Traiano, si disputò da luglio fino a novembre, nel quale perirono 10 000 gladiatori. La «monotonia» dei duelli fra gladiatori veniva talvolta interrotta dalle venationes, in cui gli uomini venivano contrapposti a belve feroci (leoni, tigri, tori, elefanti, rinoceronti, bufali, orsi), o gli animali venivano fatti combattere fra di loro. Ma anche le venationes degenerarono e si arrivò a destinare ad bestias i malcapitati (generalmente colpevoli di gravi reati, fra i quali era compresa la professione religiosa del neonato cristianesimo) facendoli «semplicemente» divorare dalle fiere o trasformando l’iniziale lotta con le belve in un vero e proprio «tiro al piccione», in cui uomini armati di lancia o di frecce – prudentemente al riparo in locali sottostanti la tribuna d’onore – trafiggevano le loro vittime attraverso robuste grate. Unica parentesi incruenta era l’esibizione di animali addomesticati, in spettacoli o intermezzi simili a quelli degli odierni circhi. Tuttavia, i Romani preferivano decisamente il sangue e ci volle il radicarsi del cristianesimo perché gli imperatori cominciassero a umanizzare, ridurre, e finalmente abolire quegli «svaghi» mostruosi. Maria Baiocchi
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CIRCO E TEATRO
I ludi circensi
All’ultimo respiro
S
pettacoli imperiali per eccellenza, i circenses appassionavano i Romani a livelli oggi difficilmente concepibili, e per lasciar sfogare quella passione, di circhi ne vennero costruiti svariati. Il piú grande, il Circo Massimo, i cui resti ancora oggi stupiscono per le loro dimensioni, 600 x 200 m, aveva una capienza stimata da oltre 200 000 a quasi 400 000 posti. C’erano poi altri circhi, di cui non è rimasta traccia, come quello di Caligola, in Vaticano, e quello Variano, lungo le mura Aureliane, presso la basilica di S. Croce in Gerusalemme. Intorno a essi sorgevano botteghe, bettole, chioschi; si aggiravano perdigiorno, venditori ambulanti, ladri e prostitute, attirati dall’enorme numero di spettatori. I ludi circensi piú popolari prevedevano l’uso di cavalli: da gare di abilità equestri a esibizioni
clownesche, alle corse vere e proprie con bighe, trighe, quadrighe e tiri fino a dieci cavalli. Per le corse, i Romani avevano una vera febbre e, per dar loro sollievo, gli imperatori arrivarono a far disputare fino a 100 competizioni al giorno. Le scommesse fioccavano e si accendevano dispute furiose fra le diverse factiones, nome un tempo indicante le divese fazioni politiche, ugualmente combattive, ma rivolte molto piú pericolosamente verso la gestione della cosa pubblica, e nel Foro, invece che nel Circo. Maria Baiocchi
In alto illustrazione artistica che immagina l’aspetto assunto dal Circo Massimo in età augustea. A sinistra mosaico raffigurante un auriga del circo. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.
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Il teatro
In scena!
U
ltimato sotto Augusto, nell’11 a.C., il Teatro di Marcello vantava 14 000 posti a sedere: una capienza immensa, se paragonata a quella degli attuali teatri, pur considerando quelli operistici, di Roma, Milano, Napoli, come anche di Parigi o New York. E se teniamo conto della contemporanea presenza di almeno altre tre strutture, oggi purtroppo scomparse, possiamo stimare in almeno 60 000 i posti a sedere disponibili negli spazi dedicati al teatro. Tuttavia, per ironia della sorte (o, anche qui, per consapevole o inconsapevole funzionalità a piú vaste strategie?), il periodo in cui quelle strutture toccarono il culmine coincise con quello del progressivo, rapidissimo svuotamento dell’arte drammatica classica. Perché se le tragedie greche e le commedie mal si adattavano a essere rappresentate in spazi cosí espansi, e potevano essere apprezzate unicamente se e quando già se ne conosceva la trama, le nuove opere risultavano addirittura inintellegibili, tanto che gli autori che si ostinarono a cimentarsi nella drammaturgia preferirono renderle pubbliche negli auditoria, davanti a un piú ristretto numero di astanti, anch’essi letterati. Negli enormi teatri, per facilitare la comprensione da parte degli spettatori, si dovette ricorrere alla stereotipizzazione dei personaggi e a convenzioni sempre piú marcate, con relativo impoverimento delle opere rappresentate. E gli spettatori cominciarono a concentrarsi sempre piú sulla recitazione, determinando la progressiva ascesa di una nuova figura: il pantomimo. Questi ballava, cantava, recitava, danzava, mimava, racchiudendo in sé tutti i ruoli, ed era fatale che divenisse un idolo delle folle. Per la sua professione, precedentemente discriminata, veniva spregiativamente considerato dalla legge un «infame », un «istrione»: ma le donne se lo contendevano e gli ammiratori lo vezzeggiavano, lo viziavano, lo idolatravano. Queste «primedonne»
Formella a rilievo raffigurante una rappresentazione della commedia Adria di Publio Terenzio Afro (185-159 a.C.), da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
cominciarono a recitare anche opere scritte da loro stessi, cosicché i testi finirono per avere un valore sempre piú relativo, tanto che i mimi li cambiavano di volta in volta, in funzione di estro, umore o capriccio: perché chi li andava a vedere voleva applaudire loro, non i loro personaggi. Si potevano permettere, e si permisero, di tutto: dalla recitazione nella completa nudità, fino a raccapriccianti interpretazioni di opere come il Laureolus, al cui epilogo l’attore che impersonava il bandito veniva sostituito da un vero condannato, il quale subiva realmente le torture e la pena capitale del protagonista della vicenda, e veniva immolato in scena (o, in altri casi, crocifisso, sbranato da belve...). Simili atrocità venivano benevolmente tollerate dagli imperatori: infatti la «morale della favola» suonava come chiaro, esplicito monito a chi non si fosse conformato ai dettami imperiali. La satira politica era del tutto marginale e sbeffeggiava a volontà solo gli uomini già caduti in disgrazia. Ma il gusto dell’orrido allora in auge non era prerogativa delle rappresentazioni teatrali, e trovava anzi sede altrettanto o forse piú consona in altre manifestazioni pubbliche, nei circhi e negli anfiteatri. M. B.
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GIOVENALE
Giovenale
Un poeta contro
«S
e il talento poetico mi manca, non importa, mi detterà i versi la collera». Cosí annuncia Giovenale, indicando subito la vocazione satirica e civile della sua poesia. E l’autoironia non mancava di certo a quell’uomo, nostalgico di un passato sano e disgustato dalla corruzione dei costumi che vedeva intorno a sé. «Ora noi sopportiamo i mali di una lunga pace piu feroce della guerra», dice il poeta nella satira contro le donne. Giovenale aveva dedicato la quarta delle sue 16 satire al grave problema di come cucinare un enorme rombo: questione che aveva buttato giú dai letti i senatori, accorsi da Domiziano nella Villa Albana nel timore di finirci loro, sulla brace, se non avessero risolto l’arduo enigma per il quale l’imperatore aveva pensato bene di convocare il Senato. Come cucinare il pescione? Il consiglio del celebre buongustaio Montano riportò il sorriso fra i tremebondi senatori: bastava far costruire un’apposita padella e prepararlo in salsa piccante! Erano tempi, quelli, in cui il lusso dei ricchi romani infastidiva gli imperatori, capaci di far arrestare chi osasse contendere loro un grosso pesce che, secondo
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Pollo o pavone? Che le abitudini imperiali romane fossero caratterizzate da un certo strafare lo abbiamo già visto a proposito delle zuffe che si scatenavano per assicurarsi il pesce piú grosso, ma una storia esemplare del gusto eccessivo dei nostri antenati di epoca imperiale lo troviamo nella vicenda del pavone. L’elegante pennuto doveva esclusivamente alla sua bellezza la disgrazia di finire in pentola. È Orazio a protestare per quella patente ingiustizia: «È perché l’uccello raro si vende a peso d’oro, non è vero? (...) Mangiate forse quelle piume che lodate tanto? Ma malgrado la carne del pollo sia mille volte superiore a quella del pavone, è chiaro che siete delusi dalla differenza del loro abito». Quanto a cibarsi delle sue carni, infatti, non ci si pensava neppure. Questo vezzo arriverà fino alla Francia del Seicento, a tutto vantaggio dei capo-cuochi, che, dopo aver mummificato l’animale spennato cuocendolo dentro a un intruglio resinoso e aromatico, lo decoravano ben bene e lo rivendevano piú volte con grande profitto. Ai piccioni invece, di cui si apprezzava proprio il sapore delle carni, si spezzavano le zampe per metterli all’ingrasso: insomma gli allevamenti in batteria oggi tanto biasimati hanno una storia antica dietro le spalle. Ma dei banchetti imperiali al popolo romano (che rappresentava all’incirca i due terzi dell’Urbe) arrivava solo la fama e qualche volta l’odore (come agli dèi). Il menu-tipo era infatti composto dalla zuppa di legumi con olio e da un po’ di pesce secco e salato. A maggior ragione era festa grande quando un generale in vena di festeggiamenti offriva un banchetto di proporzioni oceaniche (Cesare ne offrí uno per 260 000 humiliores) non soltanto gratuito, ma anche abbondante: c’erano frutti di mare, pollame, selvaggina, verdure pregiate e vino a volontà. Mancava solo la carne macellata, che ai tempi era il lusso supremo. M. B.
A sinistra I Romani della decadenza, olio su tela di Thomas Couture. 1847. Parigi, Musée d’Orsay. Nella pagina accanto la prima pagina di un manoscritto rinascimentale contenente il testo delle Satire di Decimo Giunio Giovenale. XV sec.
una consuetudine invalsa – pur se assai invisa ai venditori –, finiva per essere graziosamente offerto al Cesare di turno. E comunque, imperatore permettendo, si faceva a gara per strappare al banditore – come in una qualunque asta che si rispetti – la triglia piú grossa e poi la si cucinava in un vaso di vetro, direttamente sulla tavola del buongustaio, dove la bestia veniva bollita viva a fuoco lento per poterne ammirare il «tramonto» dei colori nel globo di vetro. Ma sentiamo ancora i commenti al vetriolo di Giovenale, il quale, nella sesta satira, oltre che di misoginia, dà prova di una certa acutezza sociologica: «Il lusso è piombato su noi a vendicare il mondo conquistato. Nessun crimine manca, nessuna libidine, da quando la povertà romana è finita. Sui nostri colli sono venute a confluire Sibari, Rodi e Mileto, e sfacciata e incoronata, Taranto, madida dei suoi vini. Il danaro ha introdotto presso di noi i primi vizi osceni, i costumi stranieri; le molli ricchezze hanno corrotto il nostro tempo col lusso vergognoso». Ecco dunque che, malgrado la misurata prosperità
auspicata e promessa nei primi anni del principato, Roma ha imboccato una brutta china: quella dello sfarzo e della bizzarria, vizi dei quali alcuni fra gli imperatori sembrano dimostrarsi campioni. Certo Giovenale, poeta anti-aristocratico, tradizionalista e difensore dei poveri (la vera e unica nobiltà per lui era la virtú) non era un cuor contento e la sua sferza colpiva dove poteva. Peccato però che, per colpire in alto, fosse costretto ad aspettare il cadavere dei suoi imperiali bersagli polemici; se almeno questo fosse servito a sottrarlo alla repressione imperiale... Invece no, venne esiliato in Egitto (o in Caledonia) con la scusa di una promozione per avere inserito in una delle satire (la VII) i versi che un tempo aveva scritto contro il mimo Paride, un favorito di Domiziano, «dedicandoli», però, a un attore amato da Adriano, che si affrettò a «promuoverlo» e a fargli finire oscuramente i suoi giorni. Tanto oscuramente che non sappiamo neppure il luogo e la data precisa della sua morte. Maria Baiocchi
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Gli Antonini
QUANDO ROMA DOMINÒ IL MONDO L’ETÀ COSIDDETTA «DEGLI ANTONINI» SEGNA ALCUNE TAPPE EPOCALI NELLA STORIA DELL’IMPERO. COSÍ, ALL’INDOMANI DELLE VITTORIOSE CAMPAGNE MILITARI CONDOTTE DA TRAIANO, LA SUPERFICIE DELLE TERRE CONTROLLATE DA ROMA TOCCA UN’ESTENSIONE DESTINATA A NON ESSERE MAI PIÚ EGUAGLIATA di Giovanna Quattrocchi
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Statua equestre in bronzo dell’imperatore Marco Aurelio. 161-180 d.C. Roma, Musei Capitolini.
ANTONINI
A
ll’indomani della morte di Domiziano, si apre un periodo di rinascita e di pace, dovuto a una serie di imperatori impegnati a ristabilire il senso dello Stato e a promuoverne la crescita economica e territoriale. Prima ancora di eliminare Domiziano, i membri della congiura si sono assicurati il consenso di Marco Cocceio Nerva, che, il giorno stesso, viene assunto al potere con la ratifica del Senato. Uomo della vecchia nobiltà repubblicana, Nerva ha 66 anni, è un giurista che ha ricoperto due volte il consolato e instaura un regime che oggi si direbbe improntato a un liberalismo moderato: ripristino dell’autorità del Senato, rigore economico per riequilibrare le finanze, controllo delle province e dei confini dell’impero. Nerva, però, non è un soldato, e ciò non piace agli eserciti, che mostrano il loro scontento: egli allora, anche per l’avanzata età, decide di adottare come suo successore Marco Ulpio Traiano, legato della Germania Superiore, che comanda l’esercito stanziato sul Reno. È una svolta importante: per un secolo la successione, invece che all’interno della famiglia, come per i Giulio-Claudi, o per diretta discendenza, come per i Flavi, avviene con la scelta del piú degno a ricoprire la massima carica dell’impero. Quando Nerva muore, nel 98 d.C., Traiano si trova a Colonia (Claudia Ara Agrippinensium o, piú semplicemente, Colonia Agrippina, capitale della Germania Inferiore, n.d.r.), dove consolida la difesa del limes, e gode già di una grande popolarità. Nato a Italica, in Spagna, è un provinciale e rappresenta quindi non solo gli Italici ma tutti i cittadini dell’impero. Ha sposato
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Nella pagina accanto statua in bronzo dell’imperatore Adriano, da Tel Shalem. 117-138 d.C. Gerusalemme, Museo di Israele. In basso busto dell’imperatore Traiano. 53-117 d.C. Londra, The British Museum.
Pompeia Plotina, donna bella e intelligente che gli sarà vicina con discrezione. Il loro matrimonio, che rimarrà senza figli, non è che un’alleanza, basata però sulla reciproca lealtà.
Un principe illuminato Giunto a Roma, Traiano liberalmente fa donazioni al popolo, si circonda di intellettuali e consiglieri preparati, come Nerazio Prisco, giurista, Plinio il Giovane, uomo politico e letterato, Apollodoro di Damasco, grande architetto al quale affiderà il progetto di uno splendido Foro, situato vicino a quelli di Augusto e di Nerva. Le sue conquiste militari ampliano l’impero al massimo dei suoi confini: la Dacia, l’Arabia, l’Armenia e la Mesopotamia vengono acquisite in successive campagne dal 101 al 117. Prosegue la politica di costruzioni: il porto di Claudio a Ostia, subito interratosi per la vicinanza del Tevere, viene completamente ristrutturato e dotato di un canale di sbocco per evitare l’insabbiamento; si costruiscono ponti sul Danubio, a Dobreta e sul Tago, ad Alcantara, in Spagna; vengono eretti l’acquedotto di Segovia e la città di Timgad, in Africa; a Roma si innalzano le sue Terme; oltre alla costruzione del Foro che porta il suo nome, Traiano fa erigere la colonna con le storie delle sue conquiste in Dacia, leggibili come su un rotolo di pietra dispiegato lungo il fusto in splendidi bassorilievi (vedi box a p. 85). Il suo governo è improntato alla moderazione all’interno e all’affermazioue militare all’esterno. La sua dichiarazione, riportata da Eutropio, «Da imperatore, cerco di comportarmi come, da privato, avrei voluto che l’imperatore si
comportasse verso di me», potrebbe essere assunta come la prima regola del buon governo. Sul letto di morte, a Selinunte di Cilicia, Traiano sembra abbia scelto quale successore Adriano, già da tempo suo consigliere; almeno questa è la notizia che scrive Plotina al Senato. Adriano, avvertito ad Antiochia della sua elezione, chiede una conferma al Senato e giunge a Roma nella primavera del 118. Nato anch’egli a Italica, in Spagna, Publio Elio Adriano è di famiglia italica emigrata, ha compiuto un lungo e brillante cursus nelle diverse cariche dell’impero, ha sposato una pronipote di Traiano, Sabina, verso la quale dimostra grande rispetto e considerazione; tuttavia, il matrimonio non è felice, perché Adriano non nascoude le sue tendenze omosessuali. Egli concepisce una travolgente passione per un giovane e bellissimo bitinio, Antinoo, che diviene il suo favorito.
Il consolidamento delle frontiere Dopo il suicidio di questi, gettatosi nel Nilo, l’imperatore, inconsolabile, lo farà venerare come un dio. I suoi viaggi per tutto l’impero hanno lo scopo di assicurare le frontiere: in Britannia, al confine con la Scozia, fa erigere il vallo fortificato che porta il suo nome, come presidio contro le popolazioni del Nord. Amante e profondo conoscitore dell’arte e della letteratura greca, fa costruire numerose opere pubbliche nelle varie città dell’Ellade. A Roma pone il suo mausoleo, oggi Castel Sant’ Angelo, sulla riva sinistra del Tevere, collegato con un nuovo ponte al Campo Marzio; presso Tivoli, edifica su personale progetto la bellissima Villa Adriana, un palazzo vastissimo fatto di diversi edifici, nel quale vengono sperimentate le piú moderne e audaci tecniche costruttive (vedi box alle pp. 92-95). Per assicurare la successione, Adriano adotta in un primo tempo Lucio Aelio Vero, morto il quale, nel 138, sceglie Tito Aurelio Antonino, originario di Nemausus (oggi Nîmes, in Francia), purché questi, a sua volta, adotti il figlio di Aelio Vero, Lucio. Quando Adriano
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ANTONINI
muore, nel 138, viene tumulato nel grandioso mausoleo sul Tevere. Aurelio Antonino, detto poi il Pio per la sua osservanza verso le istituzioni e la religione dello Stato, è un aristocratico bello e colto, facondo e amabile, generoso e rispettato; la moglie, Faustina Maggiore, è figlia di una cognata di Adriano. La coppia ha due figli: un maschio, che muore presto, e una femmina, Faustina Minore, che sposerà il successore Marco Aurelio. Nei suoi 23 anni di regno l’impero è all’apogeo: la pace è la caratteristica di questo principato, in cui il sistema statale non subisce incrinature; anche i popoli che
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Northumberland, Regno Unito. Veduta panoramica aerea dei resti del Castrum 39, parte delle fortificazioni dislocate lungo il Vallo di Adriano. II sec. d.C.
premono alle frontiere, come i Parti in Armenia, vengono tenuti sotto controllo. Antonino muore nel 161, all’età di 74 anni. Nato a Roma da famiglia spagnola, Marco Aurelio, nei primi otto di regno, divide il trono con il fratello adottivo, Lucio Vero, al quale dà in moglie la figlia tredicenne, fino al 169, quando Lucio improvvisamente muore.
Un filosofo al potere Marco Aurelio è un filosofo che, ancora giovanissimo, ha abbracciato la dottrina stoica, traendone uno stile di vita fondato sulla ragione, sulla coerenza dei propri atti e sul
dallo stesso Marco Aurelio che, dopo il trionfo, fa innalzare una colonna simile a quella Traiana, sulla quale sono narrate le sue vittorie. Ma l’impero non è piú lo stesso: l’economia è cambiata, le campagne si spopolano, perché il latifondo si sostituisce alla piccola proprietà, la disoccupazione dilaga e i contadini, soprattutto in Italia, si impoveriscono e vanno ad accrescere la plebe delle città; il baricentro dei commerci si sposta in Oriente, attraverso il Danubio, il Mar Nero, l’Asia Minore e la Siria.
Una religione «pericolosa»
rigore morale, che non si lascia travolgere dalle passioni. Nell’opera in lingua greca che rappresenta il suo testamento spirituale, A se stesso (in italiano, Pensieri), Marco Aurelio aggiunge il suo profondo e quasi eroico pessimismo alla visione stoica della condizione umana. Nel gennaio 177 l’imperatore innalza accanto a sé il figlio Commodo alla dignità imperiale. Ma l’impero non è piú quello della prima metà del secolo. I barbari alle frontiere si fanno avanti minacciosi: Parti in Armenia, Quadi, Marcomanni, Sarmati sul Danubio; i primi sono fermati da Lucio Vero e Avidio Cassio, i secondi sono vinti tra il 167 e il 175
La morte dell’imperatore Commodo, olio su tela di Fernand Pelez. 1879. Parigi, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris.
La religione nazionale viene sostituita nelle coscienze di molti da culti che meglio soddisfano esigenze morali e spirituali, primo fra tutti il cristianesimo, che predica la salvazione: questa dottrina monoteista che rifiuta gli dèi pagani mina dall’interno lo stesso potere imperiale. Di qui una serie di persecuzioni da parte del pur tollerante imperatore. Inoltre la peste, portata dall’armata di ritorno dall’Oriente, devasta la Penisola per quindici anni, con esiti disastrosi anche per l’esercito. Nel 175 Avidio Cassio, in Oriente, dopo il diffondersi di false voci sulla morte di Marco Aurelio, si fa proclamare imperatore, ma l’esercito non lo segue ed egli viene assassinato; segno inquietante di ciò che avverrà nel secolo seguente. Nel 180 d.C., quando, alla morte del padre (forse causata dalla peste), prende il potere a soli 17 anni, Commodo è già da tre coimperatore. A Roma si spera che egli segua la politica di moderazione del padre, ma un complotto contro la sua vita, ordito da Lucilla, moglie di Lucio Vero, e solo casualmente evitato, ne scatena la furia. Ossessionato dal timore di un assassinio, Commodo instaura un regime di terrore, perseguitando il Senato e tutti i presunti nemici, appoggiandosi prima al prefetto del pretorio Tigidio, quindi a uno schiavo, Cleandro, da lui fatto cavaliere, poi messi a morte l’uno dopo l’altro. Commodo muore infine per un complotto, avvelenato e strangolato dalla favorita Marcia e dallo schiavo Narcisso, l’ultimo giorno del 192 d.C.
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TRAIANO
Marco Ulpio Traiano
Quell’ottimo «provinciale»
M
arco Ulpio Traiano nasce il 18 settembre del 53 d.C. a Italica, nella provincia della Betica, nel Sud della Spagna. Suo padre, discendente da una famiglia d’origine italica, riveste con Vespasiano importanti ruoli militari e per i suoi meriti ricevette onori e incarichi sempre maggiori. La mancanza di fonti non ci permette di conoscere la sua giovinezza. Regnando ancora Vespasiano, è tribuno in Siria al comando del padre stesso, mentre sfuggono molti dettagli della sua carriera militare successiva. Il 18 settembre del 96 d.C. viene assassinato Domiziano, ultimo imperatore della dinastia flavia, rivelatosi un pericoloso tiranno. In questo periodo, pur non avendo ricoperto incarichi particolari, il giovane Traiano, sempre grazie al padre, fa parte dell’élite di corte. L’unica sua azione militare nota in quegli anni lo vede a Magonza, nell’89, per domare la rivolta di Antonio Saturnino, governatore della Germania Superior. Nello stesso settembre viene inaspettatamente eletto al trono l’anziano Nerva, con
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lo scopo di costituire un governo quanto piú coeso possibile in un grave momento di crisi, in cui molti erano gli indizi di una prossima e devastante guerra civile. Contemporaneamente si cerca di dare un segnale forte, procurandosi l’appoggio dell’esercito. Per questo motivo Traiano, nell’autunno dello stesso anno, viene di nuovo mandato al confine renano, questa volta con l’importante incarico di governatore della Germania Superior, con tre legioni ai suoi ordini e il controllo di un territorio strategicamente molto importante. Il 27 ottobre del 97, mentre ancora si trova in Germania, viene designato e ufficialmente riconosciuto quale successore dell’imperatore. All’inizio del 98, dopo soli sedici mesi di regno, Nerva muore; Traiano si trova nei pressi dell’attuale Colonia e riceve la notizia da Adriano, il futuro imperatore, all’epoca tribuno militare a Magonza. Fino al 99 Traiano non torna a Roma, ma trascorre ancora alcuni mesi sul Reno, portando avanti la politica di romanizzazione del territorio. Grazie alle numerose immagini giunte fino a noi, siamo in grado di conoscere abbastanza bene l’aspetto di questo imperatore, anche se sono stati classificati ben sette tipi diversi di ritratti, tra quelli ufficiali e quelli invece di ambito privato.
In alto uno dei rilievi dell’arco di Traiano, che celebra l’Institutio alimentaria: l’imperatore, sulla destra, in compagnia dei littori e affiancato da due virtú – Indulgentia e Felicitas – presenta a Roma, al cui fianco è il dio Marte (riconoscibile dall’elmo), un bimbo e una fanciulla che si levano dalla terra arata. In basso, a sinistra, si riconoscono la cornucopia, simbolo di abbondanza, e un aratro. Nella pagina accanto Benevento. Veduta dell’arco trionfale di Traiano, dal lato sud, rivolto verso il centro urbano. Il monumento fu innalzato, per volere del Senato, tra il 114 e il 120 d.C.
Nel complesso, al di là delle varie interpretazioni formali, il modello iconografico che emerge è quello di un uomo che nei tratti rivela una grande determinazione, unita a un profondo senso di consapevolezza del suo importante ruolo, elementi questi che dovevano suscitare nei contemporanei sentimenti di affidabilità. L’immagine di Traiano continuò a essere riprodotta anche dopo la sua morte e fino al IV secolo d.C. «Noi qui non parliamo di un tiranno ma di un cittadino, non di un comandante ma di un padre che ha l’eccezionale merito di considerarsi uno come noi e di non dimenticare mai di essere anche egli un uomo e di governare come tale altri uomini». Cosí Plinio il Giovane, nel suo Panegirico, molto discusso dalla storiografia moderna, rende omaggio a Traiano divenuto imperatore. Egli ricorda anche il titolo
onorario di optimus princeps ricevuto dal Senato, a evidenziare l’eccezionalità della sua figura. Dopo la breve e apparentemente neutra parentesi del regno di Nerva, la figura di Traiano si staglia in netto contrasto rispetto a quella del tiranno Domiziano: sembra infatti impersonare in ogni campo un’epoca nuova, destinata a dare pace e prosperità all’impero, quasi contrassegnata da una nuova vitalità, che, in effetti, avrebbe ben presto dato i suoi frutti sia all’interno che verso l’esterno con la conquista di nuovi territori. La nomina di Traiano a imperatore segna una svolta di notevole importanza: egli non è legato a Nerva da vincoli familiari e per giunta è nato fuori dell’Italia. È stato scelto perché ritenuto il migliore, uno dei pochi sopravvissuti a Domiziano in grado di riscuotere le simpatie del Senato e la fedeltà dell’esercito. E, in effetti, sotto il suo regno inizia per
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TRAIANO
L’Imperatore «Perfetto»
Roma un lungo periodo di benessere e prosperità. Non si hanno molte fonti scritte sulla figura e le opere di Traiano, non abbiamo biografie, né resoconti delle sue imprese in guerra, soltanto pochi frammenti e rielaborazioni tarde, dai quali si è cercato di ricostruire la realtà storica nel modo piú obiettivo possibile. Ben piú ricche di informazioni sono, per contro, le numerosissime testimonianze iconografiche ed epigrafiche. Uno degli obiettivi di Traiano è quello di risollevare il prestigio e il benessere economico dell’Italia. Particolare incremento viene dato alla politica sociale, attraverso la predisposizione di distribuzioni di grano, anche gratuite. Il raccolto granario dell’Italia, già da tre secoli almeno, si era infatti rivelato insufficiente per il fabbisogno della popolazione. Le guerre continue, le leve militari e il conseguente abbandono dei campi, il diffondersi di
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culture piú redditizie – la vite e l’olivo –, la formazione di latifondi con la conseguente sostituzione del lavoro servile con quello libero, avevano drasticamente ridotto la produzione di cereali. Traiano cerca di ovviare allo spopolamento delle campagne incoraggiando la piccola proprietà. Agli agricoltori viene quindi concessa la possibilità di migliorare i propri fondi ottenendo, direttamente dalla cassa imperiale, prestiti a un interesse del 5% anziché del 12%. Con gli interessi derivati da queste somme, le famiglie povere della zona in cui si trovavano i fondi erano in grado di allevare i propri figli. Questa importante istituzione benefica, che con Traiano trova larga diffusione, costituisce una risorsa importante per il sostentamento all’infanzia. La testimonianza piú completa di questa politica, che passa sotto il nome di Institutio alimentaria, è un testo inciso su una grande tavola di bronzo rinvenuta nel
1747 presso l’antica città di Veleia, nell’Appennino parmense. Nelle poche colonne ancora leggibili sono registrati due successivi provvedimenti imperiali, relativi al prestito di 72 000 e di 1 044 000 sesterzi, fruttanti con gli interessi rispettivamente una rendita annuale di 3600 e 52 200 sesterzi. Tali somme, divise in quote mensili, sarebbero state erogate per il mantenimento di molti giovani fino al raggiungimento dei 18 anni per i ragazzi e dei 14 per le ragazze, con proporzioni diverse a seconda del loro stato giuridico. Queste iniziative sono anche narrate per immagini sui pannelli del grande arco di Benevento, dedicato nel 114 e sorto nel punto in cui l’antica via Appia cedeva il passo alla nuova strada recante il nome di Traiano. Infatti, i grandi rilievi del monumento illustrano perlopiú il programma politico dell’imperatore, compreso quello rivolto al benessere della popolazione. Una di queste scene si
riferisce a una distribuzione gratuita di cereali e olio. Scrive ancora Plinio: «Sciami di bambini, il popolo del futuro,occupavano le strade per osservare l’uscita in pubblico del principe. Il compito degli adulti consisteva nel mostrare i bambini piú piccoli, che stavano sulle loro spalle, e insegnare loro parole di elogio». Anche nel campo delle opere pubbliche Traiano si distinse per la costruzione di edifici e complessi monumentali che diedero nuovo lustro a Roma. A tutti noto è il suo Foro, piú grande e maestoso dei precedenti, al cui centro si innalzava la celebre Colonna (vedi box in questa pagina), vero e proprio libro aperto sulle imprese della guerra in Dacia. Alle spalle del Foro era un vasto complesso a emiciclo conosciuto con il nome di Mercati, probabile sede degli uffici della burocrazia imperiale. Ancora, a Roma sono da ricordare le maestose terme sul Colle
Nella pagina accanto Traiano sacrifica un toro a Nettuno prima di imbarcarsi per la campagna contro i Daci, particolare del calco dei bassorilievi della Colonna Traiana. Bucarest, Muzeul National de Istorie a Romaniei.
La Colonna Traiana, fra storia e propaganda La Colonna Traiana venne eretta nel 113 d.C. per commemorare le vittorie riportate dall’imperatore Traiano in Dacia. Unico monumento del Foro di Traiano giunto intatto ai nostri giorni, domina oggi lo spazio circostante. È costruita in marmo lunense e la sua altezza è di 100 piedi, pari a 29,78 metri. Nel complesso misura 40 m circa, a esclusione della statua colossale posta alla sua sommità e raffigurante san Pietro, commissionata da Sisto V a Giacomo della Porta nel 1587, a sostituzione di quella di Traiano andata perduta nel Medioevo. Il basamento è ornato di trofei d’armi barbariche e presenta una porta d’ingresso tramite la quale si accede all’interno e quindi alla scala a chiocciola, ricavata nel vivo del marmo, che porta fino alla sommità della colonna. La porta è sormontata da un’epigrafe dedicatoria che rammenta, tra l’altro, come il monumento indicasse l’altezza del taglio operato per abbattere la sella montuosa che anticamente univa il colle Quirinale al Campidoglio e permettere in tal modo la costruzione dell’intero complesso. La Colonna aveva lo scopo principale di celebrare le vittorie di Traiano sui Daci, quasi una trascrizione figurata dei suoi Commentarii, che ben si collocava tra le due biblioteche del Foro, similmente a un lungo rotolo di papiro avvolgentesi attorno al fusto del monumento. La narrazione si estende per 200 m circa, presentando piú di 2500 figure a rilievo continuo che si snodano
lungo una striscia e la cui altezza cresce progressivamente per motivi di prospettiva. Il racconto degli avvenimenti segue abbastanza coerentemente il susseguirsi degli eventi bellici, pur se esemplificati in una serie definita di episodi ricorrenti, quali costruzioni di accampamenti, discorsi all’esercito, sottomissioni di capi barbari, senza mai però ripetizioni e diminuzione di tono. La figura di Traiano appare circa sessanta volte, elemento costante di riferimento di tutta la narrazione, distinta in due parti da una figura di Vittoria in atto di scrivere su uno scudo. Le scene si susseguono presentando diverse composizioni e schemi narrativi. Il rilievo, molto basso, non altera la linea architettonica della colonna e si presenta scorrevole e pittorico, dando l’illusione di ariose prospettive. Alcuni ritengono che i rilievi fossero originariamente policromi. Ma nessuna traccia di colore è stata rinvenuta, anche se l’ipotesi che vuole la colonna simile a una lunga pittura trionfale è alquanto suggestiva. Un elemento che invece contribuiva a infondere vivacità al rilievo era l’inserimento delle armi e degli attrezzi usati dai soldati, realizzati in bronzo. La colonna è opera di una grande personalità artistica conosciuta con il nome di «Maestro delle imprese di Traiano», forse da identificare con lo stesso architetto del Foro, Apollodoro di Damasco. A. M. L.
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TRAIANO
Oppio e il nuovo acquedotto, l’Aqua Traiana, per l’approvvigionamento del Trastevere. Attribuibili alla sua opera sono anche ponti, acquedotti, templi, monumenti e archi di trionfo in diverse province dell’impero, fra cui la Spagna, sua terra natale. Fu inoltre artefice della costruzione e sistemazione dei porti di Terracina, Ostia, Civitavecchia e Ancona, nonché del potenziamento della rete stradale: famosa è la prosecuzione della via Appia fino a Brindisi. Con Traiano l’impero raggiunge il massimo della sua estensione, superando i 5 400 000 kmq, contro i 3 800 000 dell’età augustea. Nell’anno 101, con l’intento di rendere definitivamente sicure le frontiere della Pannonia e della Mesia e di eliminare dalla scena politico-militare i Daci, divenuti un pericoloso punto di riferimento per le popolazioni ribelli del medio e basso Danubio, l’imperatore intraprende una poderosa offensiva. Immortalata nel fregio della Colonna Traiana, la guerra vede l’imperatore impegnato in due distinte campagne, nel 101-102 e nel 105-106, fino alla presa della capitale Sarmizegetusa. La conquista della Dacia reca alle casse dell’impero ingenti quantità d’oro e contribuisce a risollevare la critica situazione finanziaria ereditata da Nerva. Sempre negli anni 105-106 veniva conquistata l’Arabia Petrea, vasto territorio tra le province d’Egitto e di Siria, cruciale per il controllo di importanti carovaniere dirette verso i ricchi mercati orientali. Nel 114, forte dei successi riportati, Traiano apre le ostilità contro i Parti, eterni nemici di Roma. Approfittando delle lotte interne per la successione al trono, riesce a conquistare l’Armenia, annettendo a questa nuova provincia l’Assiria e parte della Mesopotamia, e occupando la capitale, Ctesifonte. Ma la conquista di questi territori è ben presto compromessa da rivolte che, dalla Mesopotamia, si estendono anche all’Egitto e ai territori limitrofi. Traiano è ricordato in campo militare anche per la costituzione di due nuove legioni, la II Traiana e la XXX Ulpia. Sotto il suo regno le unità legionarie raggiunsero probabilmente il numero di trenta. Formate da 5000-6000 uomini, costituivano la fanteria pesante, che si schierava di regola su due linee di coorti e si presentava protetta sul retro e nei fianchi da formazioni di cavalleria. In quest’epoca tali reparti sono costituiti anche da forze ausiliarie, e famosa è la cavalleria maura nord-africana che Traiano impiegò nelle guerre daciche e contro i Parti. Con questi cavalieri, ritratti sulla Colonna Traiana al
comando di Lusio Quieto, si assiste a un significativo cambiamento di ruolo della cavalleria, impiegata per la prima volta in compiti strategici. Sempre le campagne in Dacia dovettero avere un ruolo non secondario nello sviluppo dei servizi di informazione e sicurezza militari (vedi box alle pp. 88-89). Traiano muore dopo 19 anni di regno, il 7 agosto 117. A succedergli è Publio Elio Adriano, che ne fa trasportare le ceneri a Roma da Selinunte in Cilicia, dove l’imperatore era improvvisamente deceduto, e che ne ordina la deposizione alla base della Colonna Traiana. Prima d’allora non era mai successo che qualcuno venisse sepolto all’interno del pomerio, la linea sacra che segnava il confine ideale della città. La morte di Traiano segnò un brusco arresto nella politica di espansionismo che aveva risollevato le sorti di un impero sull’orlo del collasso. Tanto forte fu l’impatto delle sue imprese sui contemporanei e i posteri, che per l’optimus princeps presero vita un culto e una venerazione giunti fino alle soglie dell’età moderna. È difficile dare un giudizio equilibrato e oggettivo sulla sua figura, ma, in ogni caso, il pensiero dovrebbe doverosamente andare anche agli eccidi perpetrati in nome di Roma e della sua civiltà, che nessuno ricorda, ma che sono chiaramente percepibili se si divaga dalle fonti «allineate». Per esempio lo scrittore cristiano M. Minucio Felice, vissuto alla fine del II secolo, cosí si esprime, descrivendo il comportamento costante che riteneva fosse applicato a tutti i nemici di Roma: «Lo scacciare i popoli confinanti dal loro territorio, il distruggere dalle fondamenta le città vicine con i templi e gli altari, il far prigionieri i vinti e il prosperare con gli altrui danni e con le proprie scelleratezze è un sistema che con Romolo hanno avuto in comune tutti gli altri re e capi che vennero appresso. Pertanto tutto ciò che i Romani hanno, venerano e posseggono è frutto della loro violenza». Ma la sorte donò a Traiano la fama di imperatore buono e giusto, tanto che, nella tradizione cristiana, egli è salvato dall’inferno grazie alle preghiere di papa Gregorio Magno. Dante, nel X Canto del Purgatorio, ricorderà questo avvenimento, rammentando anche altri improbabili episodi di umiltà e giustizia. Nel corso della storia Traiano venne inoltre preso a modello da sovrani e capi di Stato, come esempio di quel concetto di «romanità» perfetta e perduta per sempre. Anna Maria Liberati
Nella pagina accanto particolare della Tabula alimentaria traianea, lastra bronzea su cui erano iscritti i termini della concessione degli alimenta a beneficio degli indigenti, da Velleia. II sec. d.C. Parma, Museo Archeologico Nazionale.
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SERVIZI SEGRETI
I servizi di informazione
Dalla guerra alla sicurezza interna
I
l principato di Traiano ha un’importanza particolare anche in merito allo sviluppo dei servizi informativi sia interni che militari, cioè di quelle strutture che con una certa approssimazione possiamo definire i «servizi segreti» romani. Circa il sistema informativo militare, l’età traianea appare rilevante per l’evoluzione dei corpi impiegati un tempo solo per raccogliere notizie di carattere tattico. Negli eserciti romani erano da sempre esistiti militi con funzioni di «spie» o di «guide di cavalleria», rispettivamente gli speculatores e gli exploratores. Essi operavano solitamente a cavallo e avevano il compito di assumere informazioni sul nemico, ma i loro metodi erano molto diversi. Le spie, infatti, agivano in
maniera simulata, entrando anche in territorio nemico senza farsi scoprire. Le guide di cavalleria, invece, operavano in modo piú apertamente riconoscibile, essendo incaricati della ricognizione del territorio in cui l’esercito transitava o operava. È probabile che durante la repubblica e all’inizio del principato le spie militari e le guide di cavalleria fossero riunite in reparti creati in occasione delle singole campagne e destinati a essere smobilitati al termine di esse, anche se è verosimile che in ogni unità militare esistessero veri e propri turni per svolgere l’ordinario servizio di guida. Durante il principato, però, gli speculatores, le antiche spie militari, sono impiegate negli uffici dei governatori provinciali per svolgere incarichi connessi soprattutto con la sicurezza interna. Il ruolo di spie militari fu allora progressivamente assunto dalle guide di cavalleria e il principato di Traiano si colloca in questa fase di trasformazione. Il suicidio del re dacico Decebalo accerchiato dal comandante Tiberio Claudio Massimo e dal suo contingente di soldati, particolare del calco dei bassorilievi della Colonna Traiana. Roma, Museo della Civiltà Romana.
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L’impero romano da Augusto a Traiano (30 a.C.-117 d.C.) Sc an di a
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Massima estensione dell’impero nel 117 d.C.
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L’explorator piú famoso del principato traianeo è Tiberio Claudio Massimo, il comandante di un drappello di guide che inseguí il re dei Daci Decebalo, riuscendo quasi a catturarlo vivo. Le sue imprese sono raffigurate sulla Colonna Traiana, mentre la carriera militare ci è nota dalla sua stele funeraria. Durante le guerre daciche Claudio Massimo appartenne a un’unità di guide di cavalleria appositamente creata, a cui, in questo periodo, non si chiedeva piú soltanto la ricognizione del territorio ostile, ma anche la capacità di eseguire vere e proprie operazioni speciali, come appunto quella per la cattura di Decebalo. Le campagne di Traiano dovettero contribuire a trasformare le antiche guide di cavalleria in vere e proprie spie militari, colmando il vuoto lasciato dagli speculatores. Solo a partire dalla fine del conflitto in Dacia, nel corso del II e soprattutto del III secolo d.C., osserviamo infatti la presenza di piccoli contingenti di exploratores, spesso collegati a un ben preciso territorio, dislocati presso le vie di
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comunicazione, il cui compito era quello della ricognizione, anche individuale, di singoli settori in prossimità dei confini. Unità di questo genere sono attestate in Germania, Pannonia, Numidia e Britannia e benché il loro numero dovette essere ridimensionato nel tardo impero, Ammiano Marcellino per l’anno 368 d.C. descrive ancora le spie in servizio in Britannia. Queste dovettero essere in principio create durante il principato di Settimio Severo, con la «consulenza» dell’ex capo dei «servizi segreti» interni, l’ex princeps dei castra peregrina. Secondo alcuni, lo stesso «servizio segreto» interno incentrato nei castra peregrina del Monte Celio e di cui facevano parte i temuti frumentarii, sarebbe stato creato da Traiano e non da Adriano, poiché accanto a un documentato interesse per i rapporti tra il centro e la periferia dell’impero, in età traianea sarebbe epigraficamente attestata per la prima volta proprio la qualifica di princeps peregrinorum. Enrico Silverio
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OSTIA
Ostia
Il porto dell’impero
I
resti dell’antica città di Ostia sono uno degli specchi piú fedeli del formidabile sviluppo dei traffici commerciali in età romana e dell’importanza acquisita da uno scalo che costituiva il principale cardine nel sistema di approvvigionamento della capitale dell’impero, quella Roma che, all’epoca della sua massima espansione, contava oltre 2 milioni di abitanti. I resti della città furono oggetto di scavi sistematici a partire dal 1907, che vennero particolarmente intensificati tra il 1938 e il 1942, in quanto si voleva che le rovine dell’antico centro portuale fossero una delle attrazioni dell’Esposizione Universale che si sarebbe dovuta svolgere appunto nel 1942. Dopo la guerra, Ostia fu oggetto soprattutto di restauri dell’immane patrimonio riportato alla luce e soltanto negli ultimi anni sono state avviate nuove indagini, questa volta circoscritte solo ad alcuni obiettivi ben precisi. Pur non godendo delle eccezionali condizioni di conservazione che caratterizzano le città di Ercolano e Pompei, Ostia è in grado di competere con entrambe grazie alla leggibilità del suo impianto urbanistico, che può essere agevolmente seguito nel corso della visita. La scelta del sito è legata alla prossimità della foce del Tevere, tanto che il nome stesso della città è una derivazione della parola «ostium», che in latino significa appunto foce.
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L’accesso agli scavi è situato in corrispondenza dell’ultimo tratto suburbano della via Ostiense, che, all’interno delle mura diventava decumano massimo della città. Superato l’ingresso, lungo i due lati della strada, si susseguono una serie di sepolcri la cui datazione è compresa tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. Piú avanti si oltrepassano i resti della Porta Romana, che costituiva uno degli accessi principali alla città. Al di là della porta, sulla sinistra, si apre il piazzale della Vittoria, fronteggiato dalle Terme dei Cisiarii e dai resti di un vasto complesso di horrea (magazzini), che costituivano una delle numerose aree di stoccaggio delle derrate. Sempre seguendo il selciato del decumano massimo, giunti all’altezza di un pozzo realizzato in età medievale, si gira a destra per raggiungere uno degli edifici piú noti della città, la Caserma dei Vigili, destinata ad accogliere una guarnigione di 400 vigili del fuoco. Adiacenti alla caserma sono le Terme di Nettuno, impreziosite da pregevoli mosaici e provviste di una piccola terrazza panoramica dalla quale è possibile godere di un’ampia veduta della zona. Oltrepassate le Terme di Nettuno ci si trova ormai a ridosso del centro della città e dunque nell’area in cui si addensano alcuni dei piú importanti monumenti ostiensi. La sequenza è aperta dal Teatro. Ampiamente restaurato, viene tuttora utilizzato per spettacoli estivi e se ne possono distinguere con facilità tutti i principali elementi. Alle sue spalle si apre il Piazzale delle Corporazioni, un’area circa la cui destinazione
funzionale non esiste ancora un’interpretazione sicura, ma che comunque si segnala per una serie di interessanti mosaici legati alle diverse attività economiche e per il Tempio di Cerere che ne occupa la parte centrale. Terminato il giro del piazzale, merita una sosta l’area nella quale si susseguono la Casa di Apuleio, il complesso dei Quattro Tempietti e il Mitreo delle Sette Sfere. Di qui si può puntare in direzione della piazza del Foro, attorno alla quale sono situati il Capitolium, la Curia, il Tempio di Augusto e Roma, le Terme del Foro, la Basilica e il Tempio Rotondo. Si tratta del vero e proprio cuore della città e infatti non a caso gli edifici che qui si concentrano sono i piú importanti sia per le loro funzioni politiche e amministrative che per il loro valore religioso e simbolico. Poco oltre, in corrispondenza della biforcazione del decumano, si estendono quartieri nei quali i principali poli di interesse sono costituiti dai resti delle abitazioni private (Case a giardino, Casa dei
Dioscuri) o delle strutture commerciali (Caseggiato del Larario, Horrea epagathiana). La visita dell’area archeologica può essere integrata con quella del Castello, commissionato da Giulio II, quando era ancora cardinale, a Baccio Pontelli. È uno dei primi e piú interessanti esempi di architettura militare del Rinascimento e conserva pregevoli affreschi di Baldassarre Peruzzi. (red.)
Sulle due pagine Ostia. Resti del Caseggiato degli Aurighi e delle Terme dei Sette Sapienti, affacciati su una strada basolata. A destra statua loricata di Traiano. II sec. d.C. Ostia, Museo Ostiense.
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VILLA ADRIANA
Villa Adriana
Quasi un manuale d’architettura
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ublio Elio Adriano salí al potere nell’agosto del 117 d.C.: l’impero romano era nel momento della sua massima potenza ed estensione. Il nuovo princeps era un uomo di grande cultura e sensibilità, appassionato di ogni forma artistica. Soprattutto, amava l’architettura, che coltivava in prima persona anche nei suoi viaggi nel corso dei quali lo seguiva un vero e proprio esercito di fabbri, muratori e falegnami. Politicamente egli interpretò le piú vive esigenze culturali e civili della sua epoca, fondendo la raffinata cultura ellenistica con la pratica capacità di governo di cui i Romani avevano dato prova da molti secoli. A Villa Adriana possiamo trovare la plastica espressione di questa realtà storica, oltre all’attrazione romantica per l’intreccio tra natura e rovine, che nella villa trova una delle sue massime espressioni. Gli immediati successori di Adriano, continuarono a frequentare la villa come loro residenza estiva; in seguito, però, questa venne progressivamente dimenticata. Diocleziano la restaurò alla fine del III secolo, ma, secondo varie fonti, pochi decenni dopo, Costantino ne avrebbe portato via un gran numero di opere d’arte per adornare Costantinopoli, la nuova capitale d’Oriente. Poi ebbero la meglio l’abbandono, le devastazioni dei secoli bui e, incredibilmente, distruzioni e spoliazioni anche maggiori fin dai primi scavi archeologici della fine del XV secolo. Da questi e dai successivi sono emersi circa 300 capolavori (soprattutto sculture e mosaici) che hanno riempito musei e collezioni di mezzo mondo; ben poca cosa comunque, rispetto alla folla di statue e di oggetti d’arte che Adriano sparse nei numerosi ambienti della Villa, paragonabile al ricchissimo contenuto negli attuali Musei Vaticani. La grandiosa residenza, che con i suoi 300 ettari di estensione può definirsi una vera e propria città, fu costruita fra il 118 e il 134, come indicano i bolli di fabbricazione impressi sui mattoni, alle pendici dell’antica Tibur, l’odierna Tivoli. Una delle caratteristiche piú note di Villa Adriana è l’evocazione dei luoghi rimasti impressi nella memoria e nell’anima dell’imperatore e in particolare
Sulle due pagine Tivoli. Una suggestiva veduta del Canopo di Villa Adriana. II sec. d.C.
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AUGUSTO
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In alto resti del cosiddetto Ninfeo- o Giardino-Stadio. Nella pagina accanto uno scorcio dei resti delle Grandi Terme.
quelli ammirati nelle regioni orientali dell’impero. All’inizio della visita è opportuno fermare la propria attenzione sul grande plastico della villa, realizzato da Italo Gismondi negli anni Cinquanta del Novecento, che propone una efficace visione d’insieme di questa straordinaria residenza suburbana. L’itinerario di visita ideale ha un andamento grosso modo anulare e si snoda all’interno di un paesaggio di grande suggestione. Si comincia attraversando il quadriportico del Pecile, al di là del quale sorge il cosiddetto Ninfeo- o Giardino-Stadio. È dunque la volta delle Piccole e delle Grandi Terme, la cui presenza è l’ennesima conferma del grande apprezzamento di cui godevano questi impianti, praticamente onnipresenti nelle dimore di lusso dell’età romana. Oltrepassate le terme, si arriva alla valletta artificiale del Canopo, il canale sulle cui sponde si stagliano statue e decorazioni architettoniche e alla cui estremità meridionale si trova il Serapeo, una struttura che, oltre a coronare l’assetto scenografico dell’intera area, veniva verosimilmente utilizzata anche per banchetti
all’aperto. Tornando sui propri passi e dopo aver riattraversato l’area del Ninfeo, si raggiunge la zona del Palazzo Imperiale, che si articola su oltre 5 ettari di terreno. In essa sono comprese sia strutture residenziali che di rappresentanza. Gli elementi piú interessanti sono la Piazza d’Oro, il cortile delle Biblioteche e la terrazza di Tempe. La Piazza d’Oro è una grande corte colonnata, caratterizzata da una sala ottagonale il cui disegno, con lati curvilinei concavi e convessi, è stato piú volte ripreso dall’architettura barocca; sul Cortile delle Biblioteche si affacciano gli edifici erroneamente interpretati come biblioteca latina e biblioteca greca: è infatti piú probabile che si trattasse di due triclini estivi; la terrazza di Tempe è uno dei luoghi piú belli di tutta la villa: si tratta infatti di un ampio belvedere, immerso nel verde, dal quale si domina la vallata che Adriano avrebbe ribattezzato col nome dell’omonima valle della Tessaglia. Procedendo quindi verso ovest, al di là dell’area del palazzo, si raggiungono infine il tempietto di Venere e il teatro greco. (red.)
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SVETONIO
Svetonio
Un cronista pettegolo
È
singolare che proprio della vita di Svetonio, il quale, nel De vita Caesarum, ci ha raccontato vita, morte e miracoli (anzi, piú che miracoli, malefatte) degli imperatori, non si sappia alcunché. Certo è che nacque fra il 70 e il 75 e che morí fra il 140 e il 150; sappiamo inoltre che, intorno al 122, venne allontanato dal palazzo, dove aveva ricoperto incarichi importanti, come quello di capo dell’ufficio studi della corte, sovrintendente delle biblioteche pubbliche e segretario addetto alla corrispondenza dell’imperatore. La sua caduta in disgrazia sarebbe stata causata dal comportamento poco ortodosso nei confronti dell’imperatrice Sabina. Fatto sta che quella «disgrazia» costrinse il nostro a ritirarsi a vita privata e dedicarsi anima e corpo agli studi. Gli anni passati a palazzo come segretario di Adriano gli avevano permesso di accedere agli archivi di corte, e quelli successivi di concentrarsi sulla stesura delle biografie. Piú che lo spirito dello storico, lo anima una curiosità da cronista e la grande erudizione permette alle sue pagine di comporre un affresco della storia sociale dei tempi, oltre che una serie di ritratti vivaci e spontanei senz’altro ricchi di colore, seppure a volte inclini al pettegolezzo. Ma è proprio questo, insieme a uno stile piano e lineare, che ne ha decretato la fortuna. L’impianto delle biografie è tipicamente alessandrino e la vita di dodici imperatori è narrata negli otto libri che costituiscono l’opera: i primi sei sono dedicati agli imperatori della casa giulio-claudia, il settimo ai tre del 69 d.C., Galba, Otone e Vitellio e l’ultimo ai tre Flavi. L’eccessiva dipendenza dai documenti, la grande erudizione, il gusto per l’aneddoto scandalistico e la violenta tendenza anti imperiale lo hanno esposto spesso a un giudizio superficialmente liquidatorio da parte degli storici successivi. Tuttavia, proprio per l’assenza di una forte impostazione storico-critica, le sue vite risultano a tutt’oggi fresche e leggibilissime, per la capacità mimetica del linguaggio e la varietà e vivacità dei toni adottati. «Poiché costava troppo il bestiame per il pasto delle fiere destinate agli spettacoli, fece dare a
A destra la pagina dedicata all’imperatore Claudio tratta dall’edizione di Basilea delle Opera quae extant di Gaio Tranquillo Svetonio (69-130 d.C.), con illustrazioni di Carolus Patinus. 1675.
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esse da sbranare alcuni condannati (...) Condannò alle miniere, o a lastricare strade, o chiuse in gabbioni con mani e piedi a mo’ di bestie, o fece segare per mezzo, molti cittadini d’onorevole condizione, dopo averli sfregiati col marchio d’infamia». E la ferocia di Caligola è bilanciata dalla natura pavida e meschina di Claudio: «Non vi fu dunque alcun sospetto, non vi fu sí poco serio accusatore che, messagli in corpo gran paura, non lo spingesse a mettersi in guardia e a vendicarsi. Un litigante, trattolo in disparte nel salutarlo, gli affermò di averlo veduto in sogno uccidere da qualcuno e, poco dopo, come se riconoscesse l’uccisore, gli mostrò il proprio avversario che veniva a rimettergli una supplica; e immediatamente costui, quasi fosse stato colto sul fatto, fu tratto al supplizio». O ancora, a proposito di Nerone e della sua mania di esibirsi come auriga e come istrione: «Venne delimitato nella valle Vaticana uno spazio entro il quale egli potesse guidare i cavalli senza dare spettacolo al pubblico; però in seguito il popolo romano vi fu ammesso, per volere di lui, e ne levò al cielo le lodi: ché la moltitudine è avida di divertimenti e soddisfatta quando vede nel principe le sue stesse inclinazioni». Una notazione sulla psicologia di massa non priva di suggestione. Maria Baiocchi
Gli imperatori Tito e Vespasiano raffigurati in un particolare de Il trionfo di Tito e Vespasiano olio su tavola di Giulio Romano (1499-1546). 1537. Parigi, Museo del Louvre.
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CALLISTO
San Callisto
Un cristiano di successo
L
a vita di Callisto, lo schiavo-banchiere che fu vescovo della comunità cristiana di Roma fra il 217 e il 222, è un esempio di come sia sbagliato generalizzare a proposito del rapporto fra impero romano e comunità cristiana, rapporto che non fu sempre e solo di persecuzione. La situazione era quanto meno variegata e lo dimostra la singolare storia di Callisto. Siamo al tempo di Commodo, il diciottenne imperatore figlio di Marco Aurelio, che ha già dato prova della sua instabilità. Come Nerone, preferisce all’esercito l’arena, dove ama esibirsi quale novello Ercole, con clava e manto di pelle leonina. Accanto a lui, potentissima, è la concubina Marcia, filocristiana. Callisto è ancora schiavo del ricco e potente Carpoforo, liberto dell’imperatore. Una cosa accomuna padrone e schiavo: sono entrambi cristiani. Forse proprio per la comunità d’intenti che viene dalla nuova fede comune, Carpoforo affida l’amministrazione della sua banca allo schiavo. Ma Callisto non ha fortuna: fallisce e scappa. Catturato, viene gettato dal padrone nel pistrinum, il luogo di tormento nel quale gli schiavi sono costretti a far girare ininterrottamente la mola per macinare il grano.
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In alto Roma, Catacombe di S. Callisto. Affresco con scena di banchetto eucaristico. Prima metà del III sec. d.C.
Liberato da quell’inferno, Callisto va a disturbare una cerimonia del Sabato ebraico, ritenendo gli Ebrei romani colpevoli del fallimento della banca di Carpoforo, non avendo questi ultimi pagato gli interessi sui soldi presi in prestito. Gli Ebrei, inferociti, lo bastonano e lo trascinano dal prefetto Fusciano, un pagano convinto, che lo incrimina per la sua fede cristiana. Carpoforo si commuove e decide di salvare Callisto. A tal fine, dichiara il falso al prefetto, asserendo che Callisto, in realtà, non è cristiano. Fusciano, però, non ci crede, visto che lo schiavo stesso si ostina a rivendicare la sua fede, e condanna Callisto ad metalla, ovvero alla deportazione nelle miniere imperiali in Sardegna. La storia ha però una svolta inaspettata: Marcia decide di intervenire presso l’imperatore per far liberare un gruppo di cristiani condannati in Sardegna. Riesce nel suo intento e Callisto, facendo il diavolo a quattro, s’infila nel gruppo. Dopo alterne vicende, Callisto viene infine chiamato dal vescovo di Roma, Zefirino, che gli affida l’amministrazione delle catacombe e, epilogo glorioso, alla morte di Zefirino è proprio Callisto a ereditarne la cattedra. Le grandi doti di ingegno e anche di amministratore di questo schiavo cristiano furono tali da vincere la propaganda infamante che gli andava facendo il rivale Ippolito, l’antipapa, ovvero il capo di un’altra ekklesia (comunità cristiana) meno popolare di quella retta da Callisto. Ippolito lo tacciava d’impostura e continuava a rinfacciargli il fallimento della banca di Carpoforo, prodotto a suo parere dal fatto che lo schiavo-banchiere aveva fatto scomparire i depositi a lui affidati. Ma le banche erano imprese private, che incentivavano l’iniziativa finanziaria dei liberti imperiali e quella di Callisto, in particolare, utilizzava i risparmi dei cristiani per fare prestiti, per esempio agli Ebrei; è ovvio che il tasso d’interesse doveva essere superiore a quello che la banca stessa versava ai risparmiatori che le avevano affidato i loro averi. Quella banca svolgeva un’attività benefica a favore delle vedove e dei cristiani poveri e, per farlo, imponeva alti tassi d’interesse sui prestiti. A un certo punto, però, la forte inflazione di quel periodo non permise piú di continuare quella prassi. Ecco il motivo della crisi delle imprese grandi e piccole di quel periodo e della immutata fiducia dei cristiani che, malgrado l’apparente fiasco, affidarono proprio a Callisto la gestione delle catacombe prima e poi lo elessero addirittura papa (che pur non identificandosi allora con il capo indiscusso di tutte
In alto Roma. Uno scorcio dell’interno delle catacombe di S. Callisto, la cui rete di ambienti sotterranei si estende su un’area di oltre 30 ettari. II-IV sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso incisione raffigurante san Callisto I papa, in catene, mentre benedice due cristiani.
le comunità cristiane, era comunque il ruolo piú prestigioso). Da questa vicenda emerge con forza la molteplicità di contraddizioni che agitavano la società romana di quel periodo. Una per tutte: si poteva essere cristiani ed esercitare pubblicamente la propria professione ma, al tempo stesso, essere condannati per cristianesimo se qualcuno faceva una denuncia in piena regola. Ipocrisia, eterno ritardo della legge rispetto alla società civile? Può darsi. Fatto sta che vicende come quella di Callisto illuminano un mondo molto piú sfumato a proposito dei cristiani e del loro inserimento nella società imperiale. Maria Baiocchi
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A sinistra busto in marmo e alabastro di Settimio Severo. II-III sec. a.C. Roma, Musei Capitolini. Sulle due pagine Leptis Magna (Libia). Veduta dei resti del teatro romano. I sec. d.C.
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Gli imperatori africani
VERSO L’ANARCHIA
SUL FINIRE DEL II SECOLO D.C., ROMA VIVE ANNI CONVULSI E RITROVA LA QUIETE CON L’ASCESA DI SETTIMIO SEVERO, L’IMPERATORE VENUTO DALL’AFRICA. SI TRATTA, PERÒ, DI UN SOLLIEVO DI BREVE DURATA: NEI DECENNI SUCCESSIVI, INFATTI, LE ACQUE TORNANO AD AGITARSI, IN UN CRESCENDO DI COMPLOTTI E FAIDE FAMILIARI di Giovanna Quattrocchi
PRINCIPI D’AFRICA
D
opo che Commodo è rimasto vittima del complotto ordito ai suoi danni nel 192, si scatena una guerra tra gli eserciti delle province per la conquista del potere da parte dei rispettivi generali. È una lotta piú terribile di quella che si era accesa dopo la morte di Nerone o, in seguito, all’indomani dell’uccisione di Domiziano, ed è un altro presagio dell’anarchia militare che porterà l’impero sull’orlo della rovina, nella seconda metà del III secolo. Il generale Publio Elvio Pertinace, di umili origini, ma valente soldato, ha 67 anni quando viene acclamato imperatore dai pretoriani dopo l’uccisione di Commodo e ottiene il riconoscimento del Senato; ma regna solo 2 mesi e 27 giorni, durante i quali riesce a compiere alcune azioni necessarie: rimette ordine nelle finanze pubbliche, vendendo gli enormi beni di Commodo, ristabilisce la libertà di commercio, paga i soldati, cede le terre incolte a chi voglia coltivarle. Malgrado la grande popolarità, i pretoriani stessi, scontenti, lo uccidono nello stesso palazzo imperiale. Tuttavia non si accordano sul successore e mettono l’impero all’incanto: andrà al miglior offerente. Sulpiciano offre 5000 dracme per ogni pretoriano, Oidio Giuliano ne offre 6250; è lui il prescelto, che il Senato accetta supinamente. Le truppe di stanza lungo i confini, ostili all’eccessivo potere dei pretoriani, si ribellano a questo mercato e acclamano ciascuna il proprio generale: le legioni pannoniche designano come imperatore Settimio Severo; quelle orientali Pescennio Nigro; quelle occidentali Clodio Albino. Settimio Severo arriva per primo a Roma e viene accolto come un liberatore. Poi si reca in Oriente e sconfigge Pescennio Nigro in tre successive vittorie, saccheggiando Antiochia; quindi raggiunge la Gallia, dove vince anche Clodio Albino presso Lione. Nato a Leptis Magna, da famiglia di origine africana, Settimio Severo non appartiene ai Romani colonizzatori, ma ai colonizzati. Ha studiato retorica, diritto e arti liberali, ma il suo accento punico tradisce l’origine
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Bassorilievo marmoreo raffigurante Settimio Severo con i figli Caracalla e Geta, che si stringono la mano, facente parte, in origine, della decorazione dell’arco trionfale dell’imperatore a Leptis Magna. 189-209 d.C. Tripoli, Museo Nazionale.
provinciale. Ha sposato la figlia del gran sacerdote di Baal a Emesa, in Siria, la bella, intelligente e ambiziosissima Giulia Domna, che gli dà due figli e lo affianca nella conduzione dell’impero, associata al potere con il titolo di Augusta; Giulia Domna si circonda di letterati e filosofi e crea a Roma un raffinato centro intellettuale.
Il potere? Una questione di famiglia Settimio Severo ha promesso un governo sulla linea di Marco Aurelio, in collaborazione con il Senato; ma, reduce dai trionfi sui suoi avversari, impone un nuovo ordine, basato sul potere assoluto della sua famiglia. Nomina il figlio decenne Caracalla dapprima imperator designatus e, due anni piú tardi, coimperatore, con il titolo di Augusto, mentre il piú piccolo, Geta, riceve quello di Cesare. Settimio Severo vuole mantenere a ogni costo l’unità della famiglia e fondare una dinastia che duri a lungo nel tempo. Conquista il popolo con regalie e
spettacoli, promuove grandi opere pubbliche nella città natale, Leptis Magna. Le province, soprattutto quelle d’Africa, di Siria e del Danubio, aumentano di molto il giro di affari e la ricchezza. L’imperatore mostra anche la sua umanità nel promulgare leggi piú giuste e favorevoli verso i deboli, migliora le condizioni dei soldati, in particolare di quelli che militano nel suo esercito illirico, favorisce la tolleranza religiosa, tranne che verso i cristiani, fatti segno a una nuova persecuzione. Nel 204 celebra i Giochi Secolari, e, nel 209, designa anche Geta come Augusto: appare chiaro che la sua volontà è quella di vedere ambedue i figli sul trono in un perfetto accordo, che perpetui il potere dinastico da lui instaurato. Durante una campagna in Britannia, nel 211 d.C., affrontata malgrado un precario stato di salute, Settimio Severo muore a Eburacum (l’odierna York, in Inghilterra), lasciando il regno nelle mani dei figli. Il maggiore, Caracalla, è vizioso e crudele: fa uccidere la propria moglie, esiliata a Lipari, odia il fratello al punto che, dopo appena un anno di imperio comune, lo uccide nelle braccia stesse della madre, che tenta invano di difenderlo. Il suo rapporto con Giulia Domna diviene allora sempre piú oscuro, girano voci di rapporti incestuosi e di un legame di reciproca complicità. Con l’aiuto della sorella Giulia Maesa e delle nipoti Giulia Soemia e Giulia Mamea, che ha fatto venire dalla Siria, Giulia Domna si occupa dellle questioni di governo e inizia la costruzione delle sfarzose terme che portano il nome di Caracalla. L’imperatore conduce campagne militari contro i Parti, soggiorna a Emesa e ad Alessandria d’Egitto. Il suo atto di governo piú importante è la concessione, nel 212, della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero: ciò significa per i provinciali
Busto marmoreo di Elagabalo ritratto come Marco Aurelio. II sec. d.C. San Pietroburgo, Pavlovsk Museum.
poter godere con parità di diritti di tutte le leggi romane. All’inizio di una nuova campagna contro i Parti, l’imperatore viene assassinato, nel 217, vittima di una congiura forse ordita dal prefetto del pretorio, Macrino. Questi viene acclamato imperatore: astuto e intraprendente, cerca di guadagnarsi il consenso del Senato, dell’esercito, del popolo, ma teme le ambizioni dinastiche delle nipoti di Giulia Domna.
Un succedersi di trame e congiure Mentre l‘imperatrice, stanca e malata, si lascia morire di fame, le nipoti tramano contro Macrino e inducono la III legione Gallica ad attaccare la legione Partica, fedele a Macrino. Questi viene sconfitto e il figlio di Giulia Soemia, Elagabalo, diviene imperatore. Tre donne – Giulia Maesa, Giulia Soemia e Giulia Mamea – sono intorno al nuovo sovrano e di fatto reggono le sorti dello Stato, mentre Elagabalo si diverte tra stravaganze e manie religiose, che lo rendono inviso alla sua stessa famiglia. Dopo quattro anni, la nonna, Giulia Maesa, non esita a far uccidere lui e la madre per contrapporgli l’altro nipote Alessandro Severo, figlio di Giulia Mamea, che viene eletto nel 222. Appena diciassettenne, il nuovo imperatore è del tutto succube delle due donne, che lo spingono a grandi imprese: prima una campagna contro i Parti che ha esito negativo, poi contro gli Alamanni, fattisi minacciosi lungo il Reno. I suoi soldati, non sopportandone l’incapacità, lo uccidono insieme alla madre nel 235, e offrono il trono al prefetto delle reclute, Massimino il Trace. Ha cosí inizio un periodo di assoluta anarchia, in cui il potere imperiale è nelle mani delle varie legioni dell’impero, che acclamano o uccidono gli imperatori a loro piacimento, di fronte a un Senato e a un popolo romano destituiti di qualsiasi autorità.
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MATRIMONIO E CONCUBINATO
Matrimoni e concubine
Alla ricerca di legami «leggeri»
O
ltre alla forma di matrimonio classica e riconosciuta dalla legge per la discendenza legittima – la confarreatio, una forma quasi religiosa di unione, che prevedeva l’ingresso della moglie sotto la totale giurisdizione del marito e che, in compenso, le conferiva il titolo di matrona –, c’erano la forma detta per coemptio e quella per coemptio fiduciae causa, con le quali si otteneva il titolo di uxor, anziché l’altro, piú prestigioso, di matrona. In compenso, in questi due ultimi casi la moglie poteva continuare ad amministrare i suoi beni ed era molto piú facile rescindere il contratto matrimoniale. Certamente era piú facile e piú frequente che fosse il marito a prendere l’iniziativa del divorzio, ma la cosa era contemplata anche per la moglie. C’era poi, oltre a questi tre matrimoni in piena regola, una forma veloce di unione: il matrimonio per usus, ovvero il concubinato. Che fosse perfettamente accettato è dimostrato dal fatto che la concubina poteva portare la stola, veste tipica delle mogli. La convivenza della coppia di concubini poi diventava matrimonio a tutti gli effetti se durava ininterrottamente per un anno. A sventare quell’eventualità bastavano però tre giorni di fila di interruzione della coabitazione, e questo si verificava regolarmente, proprio per conservare i vantaggi del concubinato: maggiore indipendenza
della donna e possibilità per entrambi di sciogliere il legame senza alcuna formalità. La legislazione matrimoniale di Augusto, che colpiva le relazioni extramatrimoniali con donne di posizione sociale elevata e proibiva, al tempo stesso, il matrimonio con quelle di bassa condizione, di fatto finí per favorire il concubinato. Dunque Augusto aveva legalizzato quella forma, sia pure come unione inferiore a quella matrimoniale. Col tempo, i Romani, al peso rappresentato da una moglie in carica, alla quale render conto quotidianamente di tutto («Nulla donar potrà s’ella non voglia. Nulla senza di lei vendere. Nulla comprar giammai s’ella s’opponga», dice Giovenale: anche se l’attacco è ad personam, può esser preso come esempio di una condizione generale), cominciarono a preferire il concubinato. Il procedimento piú diffuso era questo: il Romano di turno sceglieva una schiava piacente, la affrancava e poi, sicuro che la donna gli sarebbe stata devota e fedele, se non altro per riconoscenza, ne faceva una concubina. Per liberare gli eventuali figli dalla condizione infame dei bastardi poi sarebbe bastato adottarli. In questo modo, nelle famiglie piú influenti dell’Urbe, già piene di liberti e liberte, cominciò a
Un affronto inaccettabile Il bizzarro imperatore Elagabalo (al quale l’Historia Augusta attribuisce forse piú stravaganze del vero) preferiva alla tradizionale carica romana di pontifex maximus quella di sacerdote del dio-Sole, e alle doti guerriere anteponeva quelle religiose. Voleva essere chiamato Pius Felix. Il suo fu un tentativo prematuro ed eccessivo di orientalizzazione dell’impero, un tentativo che, in seguito, Aureliano e Diocleziano avrebbero continuato con piú misura e fortuna. Fatto sta che, se non fosse bastato il gusto per l’esotismo, che pure gli aveva già fruttato l’antipatia del Senato e del popolo, lo strapotere della madre, Soemia, non avrebbe tardato a far traboccare il vaso della collera romana. Quando l’imperatore permise che Soemia partecipasse ai lavori dell’assemblea senatoriale, la misoginia dilagante
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esplose: si cominciò allora a parlare di «senatino delle donne», perché a brigare, nel palazzo, oltre alla madre, non poteva mancare la zia (Giulia Mamea)... Insomma, nel 222, quando Soemia ed Elagabalo furono assassinati dai pretoriani, il popolo scalpitava di gioia. Gettarono il cadavere dell’imperatore nel Tevere e lo dimenticarono. M. B.
Nella pagina accanto rovescio di un sesterzio di Giulia Mamea, zia dell’imperatore Elagabalo; intorno all’effigie corre l’iscrizione IULIA MAMAEA AVG. III sec. d.C. A sinistra frammento di affresco con scena di banchetto in un triclinio, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
formarsi una folla prepotente di «meticci», nati da quelle unioni, che contribuí fortemente a trasformare l’atmosfera e i costumi cittadini. Succedeva perfino che lo stesso concubinato, che imponeva pur sempre qualche dovere all’uomo, venisse sentito da molti – in genere dai ricchi che potevano permetterselo – come un legame eccessivo, al quale preferire un harem di schiave sempre a disposizione. Da tempo, il matrimonio aveva perso il carattere nobile che aveva avuto agli albori della repubblica e si era trasformato in un modo per risistemare le finanze dissestate; anche per questo la frequenza dei divorzi era andata aumentando vertiginosamente e senza produrre piú scandalo, se lo stesso Cicerone, a ben cinquantasette anni, trovò normale ripudiare Terenzia, la madre dei suoi figli, per sposare Publilia, che, rispetto all’altra, aveva il vantaggio di essere giovane e ricca. E Terenzia, anche lei al passo con i tempi, si consolò e nella sua lunga vita (morí ultracentenaria) tornò a sposarsi altre due volte, prima con Sallustio e poi con Messalla Corvino. Si comprende allora come il concubinato potesse
essere ritenuta un’unione assolutamente rispettabile, e del resto lo stesso Marco Aurelio, l’imperatorefilosofo, dopo la morte della legittima sposa, si era unito a una concubina. E concubina fu, sia pure solo per un breve periodo, anche Berenice, figlia del re della Giudea, Agrippa I. Tito se n’era innamorato e la portò a Roma, dove la fece vivere a palazzo come sua concubina. Gli toccò poi rimandarla a casa per via dell’impopolarità di cui la donna godeva nell’Urbe. Della sua pessima reputazione (le si attribuiva, fra l’altro, l’incesto con il fratello Agrippa Il) riferisce Giuseppe Flavio, il quale racconta come, alla morte del padre di lei, la popolazione di Cesarea avesse trascinato le sue statue nei bordelli. Insomma, durante l’impero la famiglia romana dei tempi eroici si disgrega, la condizione femminile si emancipa, il divorzio si espande a macchia d’olio, fino a diventare, secondo Marziale, un modo per praticare l’adulterio legale. Ancora una volta gli imperatori – salvo casi rari di coppie rimaste famose come Antonino e Faustina – hanno fatto scuola. Maria Baiocchi
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Gli imperatori soldati
IL GIGANTE BARCOLLA
DOPO LA DINASTIA DEI SEVERI, IL POTERE PASSA DI MANO IN MANO, IN UNA SUCCESSIONE QUASI FRENETICA DI PERSONAGGI CHE DEVONO LA PROPRIA ASCESA ALLA VOLONTÀ DELL’ESERCITO. ROMA, NON PIÚ UNA GRANDE POTENZA, HA IMBOCCATO LA STRADA CHE LA PORTERÀ AL TRACOLLO di Giovanna Quattrocchi
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A
Ila morte di Alessandro Severo, l’impero entra in una fase di crisi profonda, le cui conseguenze ne minarono irreparabilmente la consistenza e ne misero in forse la sopravvivenza. Due sono le cause del fenomeno: lo strapotere dei militari di fronte alla debolezza del potere centrale di Roma e la pressione sempre maggiore delle popolazioni esterne sui confini dell’impero. L’imperatore che succede all’ultimo dei Severi deve la sua elezione all’esercito stanziato sul Reno. Massimino il Trace è il primo imperatore barbaro: figlio di un
Naqsh-e Rostam, Iran. Rilievo raffigurante il sovrano Shapur I a cavallo che tiene prigioniero Valeriano, mentre riceve l’omaggio di Filippo l’Arabo, rappresentato inginocchiato. III sec. d.C.
pastore dei Balcani e di una donna della tribú degli Alani, è dotato di una forza fisica eccezionale, ma è del tutto sprovvisto di cultura, non conosce il greco e parla stentatamente il latino (vedi anche il box a p. 109). Arruolatosi nell’esercito romano, supera tutti i successivi gradini della scala militare e appartiene alla cerchia di Alessandro Severo quando questi viene ucciso. L’esercito ha fiducia in lui e lo proclama imperatore nel marzo del 235. Ottenuto il placet del Senato, Massimino vince gli Alamanni sul Reno, in Pannonia, sul Danubio, combatte i Daci e i Sarmati.
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IMPERATORI SOLDATI
Ma l’imposizione fiscale e le confische che si sono rese necessarie per finanziare le campagne militari accrescono il malcontento: in Africa i proprietari terrieri si ribellano, ed eleggono imperatore il proconsole Gordiano, che associa il figlio. Nonostante la ratifica del Senato, che dichiara Massimino nemico dello Stato, Capelliano, un seguace di Massimino, alla testa della IlI legione Augusta sbaraglia l’esercito dei Gordiani: Gordiano II cade in battaglia, Gordiano I si impicca. Il Senato nomina allora due nuovi imperatori, Pupieno e Balbino. Massimino lascia il Danubio per contrastare i nuovi avversari, ma i suoi stessi soldati della II legione Partica lo uccidono con il figlio Massimo, il 24 giugno del 238.
A Roma da trionfatori Pupieno e Balbino entrano a Roma da trionfatori, ma il loro regno, contestato dai pretoriani che non hanno partecipato all’elezione, avrà vita breve: nel luglio 238, durante i giochi capitolini, i pretoriani entrano nel palazzo imperiale e uccidono barbaramente i due imperatori. Gli stessi pretoriani acclamano Gordiano III, figlio e nipote degli usurpatori di Massimino; appena tredicenne, la giovane età è forse la sola ragione della sua designazione. Egli regnerà per sei anni, durante i quali il potere sarà nelle mani del prefetto del pretorio, Timesiteo. In quegli anni i Sasanidi in Persia, guidati dal re Shapur I, si stanno avvicinando ad Antiochia; hanno un esercito agguerrito e una magnifica cavalleria (i cavalieri «catafratti», cioè dotati di armatura). Gordiano, dopo aver battuto i Goti e i Sarmati, giunge all’Eufrate, sconfigge i Persiani e marcia sulla capitale Ctesifonte; ma improvvisamente Timesiteo muore e il nuovo prefetto del pretorio, Filippo
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In alto antoniniano di Gordiano III. III sec. d.C. Al dritto, ritratto dell’imperatore con legenda IMP GORDIANUS PIUS FEL AVG; al rovescio, personificazione della Aequitas, che regge una bilancia e una cornucopia, con legenda AEQUITAS AUG.
l’Araho, elimina Gordiano, che si era rifiutato di accordargli lo stesso potere concesso a Timesiteo. Figlio di un capo arabo, Filippo diviene imperatore nel 244; dopo aver firmato una pace rovinosa con i Persiani, si volge al Danubio, dove Vandali e Goti stanno invadendo la Mesia. Nomina comandante delle legioni pannoniche Quinto Decio, il quale viene presto acclamato imperatore dai suoi soldati. Invano Decio protesta la sua fedeltà, Filippo non gli crede e lo affronta nell’agosto 249 presso Verona, dove trova la morte in battaglia. Decio assume l’impero con il nome di Decio Traiano. Nato a Bubalia, in Pannonia, è il primo imperatore illirico. Si trova ad affrontare una serie di calamità: una epidemia di peste che, proveniente dall’Etiopia, flagella per circa quindici anni l’impero; l’avanzata dei Goti, provenienti dall’Ucraina, sul Danubio; il dilagare sempre maggiore del cristianesimo, che mina dall’interno l’unità religiosa. Decio promulga un editto secondo il quale tutti i cittadini, entro un dato periodo, dovranno professare la loro fede facendo sacrifici e libagioni agli dèi. Chi si rifiuterà verrà perseguitato e punito con la morte. Molti abiurano, ma molti altri, tra cui il papa Fabiano e il primo vescovo di Parigi, Saturnino, affrontano eroicamente il martirio.
In balia degli eserciti Decio muore nel 251, combattendo contro i Goti in Tracia e lascia un impero allo sbando, in balia degli eserciti: il perugino Treboniano Gallo e il figlio Volusiano si impadroniscono del potere, ma, nel 253, vengono sconfitti e uccisi a Terni da Emiliano, acclamato in Mesia dal suo esercito; anche Emiliano resiste appena qualche mese prima di essere ucciso dai suoi stessi soldati, accordatisi con Valeriano,
Massimino il Trace
Una parabola fosca
Busto in marmo dell’imperatore Massimino il Trace. III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.
Q
uella di Massimino il Trace, imperatore romano fra il 235 e il 238 d.C., è una vicenda sorprendente. Massimino non era, come suggerirebbe il nome, piccolo. Anzi, tutto comincia da lí: era un gigante, buono e valoroso per di piú, tanto che la sua fama dalle fila degli eserciti giunse fino a Roma, e Settimio Severo prima e Caracalla poi lo vollero per centurione. In seguito fu tribuno della IV legione e la sua carriera militare fu fulminante, fino a concludersi con l’acclamazione da parte delle truppe del novello Ercole a imperatore. Qui però Massimino subisce una trasformazione sinistra: tre anni di esercizio del potere e il «gigante buono» diviene un «orco cattivo». Per crudeltà e comportamento paranoide, il suo regno venne paragonato, in peggio, a quello di tiranni come Caligola e Nerone. Rimase sulle rive del Danubio senza curarsi di vedere Roma e l’Italia, e da lí mandò a morte migliaia di oppositori – veri o presunti – e visse nel continuo sospetto del tradimento e della congiura. L’epilogo è fin troppo prevedibile: Massimino fu assassinato da quello stesso esercito che lo aveva amato e acclamato al comando supremo. Uno studioso statunitense, Harold L. Klawans, ha fornito una lettura in chiave ippocratica della metamorfosi di Massimino. Gigantismo e acromegalia (ovverosia l’allargamento abnorme delle ossa del viso, delle mani e dei piedi) si sarebbero combinati nella persona dello sventurato, come confermano l’effigie eternata sulle monete e i racconti degli storici: portava per anello il bracciale della moglie, mangiava quantità spropositate di cibo, beveva dieci litri di vino al giorno... Tutto questo suggerisce una diagnosi di probabile tumore dell’ipofisi, con iperproduzione dell’ormone della crescita. Dapprima il tumore avrebbe provocato il gigantismo e l’acromegalia di Massimino, e quindi, continuando a crescere senza trovare spazio nella cavità cranica, ne avrebbe causato la pazzia. M. B.
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IMPERATORI SOLDATI
appartenente alla gens Licinia, che diviene imperatore nell’ottobre 253. Le continue guerre e l’inflazione galoppante inducono il nuovo imperatore a confiscare i beni dei cristiani: vescovi, senatori, cavalieri, impiegati di palazzo subiscono una nuova persecuzione. L’impero è di nuovo minacciato dai Goti, che invadono la Dacia e dai Persiani di Shapur I, che si impadronisce di tutte le province medio-orientali. Valeriano accorre ad Antiochia, ma viene fatto prigioniero e ucciso da Shapur. È la prima volta che un imperatore subisce la prigionia e la morte. Shapur viene però fermato da Odenato, principe di Palmira, che fonda all’interno dell’impero un regno indipendente.
Minacce su piú fronti Il figlio di Valeriano, Gallieno, al potere con il padre dall’ottobre 253, è colto e amante delle arti; insieme alla moglie Salonina, si circonda di letterati e filosofi, tra cui il neoplatonico Plotino. Sembra non preoccuparsi troppo della misera sorte del padre, ma deve far fronte all’avanzata dei Franchi sul Reno, mentre gli Alamanni minacciano l’Italia dal Brennero e i Goti in Pannonia traversano il Danubio. I Franchi vengono respinti dal generale Postumo, che fonda un impero in Gallia, dimostrando fino a che punto l’impero abbia perduto la sua unità: il regno gallico è il secondo in territorio romano, dopo quello di Palmira dove, morto Odenato in battaglia contro i Goti, la moglie Zenobia – donna di grande cultura e intelligenza –, ha assunto il potere come tutrice del figlio. Ostile ai Romani, infliggerà loro alcune sconfitte fino all’arrivo – pochi anni piú tardi – di Aureliano, il quale, dopo aver preso Palmira, porterà la regina a Roma come prigioniera, ma
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eletto imperatore dalle legioni della Pannonia. L’impero è allo sfascio: la Gallia è uno Stato indipendente da almeno dieci anni, la regina Zenobia allarga il suo regno a tutto l’Oriente, e lungo il Reno e il Danubio si addensa la minaccia dei barbari. Il nuovo imperatore fa innalzare a Roma una poderosa cinta di mura, alta fino a 6 m, con 13 porte in corrispondenza delle vie consolari (vedi alle pp. 112-115); poi affronta il regno di Palmira, che sottomette in due campagne, nel 271 e 273; quindi si volge al regno della Gallia, dove si sono susseguiti, alla morte di Postumo, altri cinque imperatori: Vittorino, Leliano, Marco Aurelio Mario e Tetrico. Quest’ultimo viene condotto a Roma, dove figura nel trionfo di Aureliano: ma, come Zenobia, Tetrico verrà trattato con magnanimità e finirà i suoi giorni come senatore. In fondo, sia l’uno che l’altra, con il loro abuso di potere, hanno contribuito a tenere i barbari fuori dal limes romano.
Un ultimo sussulto
non infierirà su di lei, permettendole di sposarsi e di terminare la sua vita da matrona romana, a Tivoli. Al pari di molti dei suoi predecessori, Gallieno verrà ucciso nel marzo del 268 da una congiura ordita dai suoi stessi maestri di palazzo. Dopo Gallieno, viene eletto il suo luogotenente, Claudio II il Gotico, al corrente della congiura e passivamente accettato dal Senato, ormai completamente esautorato da qualsiasi potere. Claudio, valente soldato, sconfigge prima gli Alamanni e poi i Goti, ricomparsi minacciosamente in Grecia e in Asia Minore. Ma viene stroncato dalla peste nel settembre 269. Ad Aquileia i soldati acclamano allora il fratello Claudio Quintilio, che però si suicida quando viene a sapere che un generale di Claudio, Aureliano, anch’egli illirico, è stato
In alto rilievo raffigurante Ishtar e Tiche con le sembianze della regina Zenobia e della sua ancella, da Palmira (Siria). III sec. d.C. Damasco, Museo Nazionale. Nella pagina accanto busto dell’imperatore Claudio II il Gotico, dal Capitolium di Brescia. 268-269 d.C. Brescia, Museo di Santa Giulia.
Sul fronte del Danubio, Aureliano abbandona la Dacia, troppo esposta e ormai indifendibile. Infine parte per la Mesopotamia, contro Shapur I, per vendicare l’affronto della morte di Valeriano, ma viene ucciso da alcuni ufficiali. Nel 275 si susseguono Tacito, già sessantacinquenne, poi il fratello Floriano, ambedue assassinati, e infine Marco Aurelio Probo, eccellente generale nato a Sirmio, in Pannonia, che deve intervenire sui confini del Reno, in Rezia contro Burgundi, Vandali e Ligi, in Tracia e in Panfilia, e fronteggiare numerose ribellioni da parte di usurpatori. Nel 282 vuole riprendere ai Persiani la Mesopotamia e l’Armenia, ma, come la maggioranza dei suoi predecessori, viene ucciso dai soldati a Sirmio, la sua patria. Dopo i regni effimeri di Caro, Carino e Numeriano, tra il 282 e il 283, finalmente qualcuno riesce a fermare la paurosa spirale di morte che ha eliminato, uno dopo l’altro, tutti gli imperatori soldati, e ripristina l’unità dell’impero. Quest’uomo è Diocleziano.
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MURA AURELIANE
Le Mura Aureliane
Difendere il cuore dell’impero
L
a costruzione di una nuova linea di difesa di Roma nella seconda metà del III secolo d.C., cioè quasi settecento anni dopo le cosiddette Mura Serviane, si impose come opera necessaria e urgente all’imperatore Aureliano a seguito dell’invasione dell’Italia settentrionale da parte degli Alemanni e della minaccia da essi rappresentata per la capitale dell’impero. Segno di una crisi e di un declino inarrestabili, eppure opera imponente, la piú grande dell’epoca, il muro di Aureliano è uno dei maggiori esempi di tecnica fortificatoria: esso corrispose in pieno allo scopo di proteggere l’Urbe in modo stabile e compatibile sia con la sua estensione che con la particolare conformazione del suolo. Come riferisce il biografo Vopisco, l’imperatore, dopo aver consultato il Senato – che aveva competenza sia sulle finanze municipali che sul demanio e gli edifici pubblici –, avviò, nel 271, la costruzione della cinta lunga 50 miglia, una cifra tuttavia esagerata rispetto al reale perimetro di 19 km circa, racchiudente un’area di 135 ettari. La riuscita di una simile impresa, portata a termine dopo appena quattro anni nel 275, fu ovviamente affidata a un attento studio elaborato da architetti militari che nella definizione del tracciato, oltre all’indispensabile conoscenza dell’orografia del terreno, si attennero soprattutto a criteri di carattere strategico, mentre condizioni di economicità e velocità del lavoro vennero a essi imposte dal particolare momento storico. Al fine di contenere l’onere finanziario degli espropri e indennizzi dei terreni privati attraversati dalle mura e degli
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edifici destinati alla demolizione, il percorso venne il piú possibile localizzato su proprietà del demanio pubblico o imperiale, sfruttando al tempo stesso le differenze altimetriche del suolo a fini difensivi. Pertanto furono comprese le zone piú elevate all’interno del perimetro, eretto preferibilmente sulle creste dei rilievi per aumentare sia la visibilità degli assediati che la differenza di altezza con gli assalitori. Per tali motivi e per altri problemi brillantemente risolti da Aureliano e dai suoi architetti, la cinta non riusci a racchiudere completamente Roma fino ai limiti dell’espansione allora raggiunta mediante una crescita irregolare. Cosí il territorio di cinque delle quattordici regioni augustee venne tagliato a metà dal circuito difensivo. Alcune coincidenze accertate con la cinta del dazio sembrano casuali o imputabili, a nord, alla necessità di riutilizzare i muraglioni di terrazzamento degli horti (giardini) degli Acilii sul Pincio, e, a sud, di includere la zona portuale del Testaccio e gli adiacenti magazzini annonari (Porticus Aemilia, Horrea Galbana), di importanza decisiva per i rifornimenti alimentari e la sopravvivenza di Roma stessa. Il percorso delle mura non fu condizionato neanche dal Tevere, che avrebbe potuto rappresentare un punto debole per la difesa della città, ma che di fatto nel progetto fu sfruttato come fossato naturale di protezione della riva sinistra. Quest’ultima, infatti, fu solo parzialmente munita della cinta muraria che attraverso un sistema di sbarramenti oltrepassò il fiume in due punti: in corrispondenza pressappoco dell’attuale Ponte Sisto e nella zona immediatamente a sud della moderna Porta Portese. Dopo essersi inoltrati sulla sponda destra, i due tratti si congiungevano nella regione del Trastevere, fino a delimitare una zona triangolare, al cui interno fu compreso il Gianicolo, con l’acquedotto di Traiano e i mulini per la macinatura del grano. Diversa fu la sorte per i piú importanti acquedotti (Claudia e Anio Novus a Porta Prenestina; Marcia, Tepula e Iulia a Porta
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Acqua
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Sepolcro degli Scipioni Porta Ardeatina
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1. Terme Neroniane 2. Portico degli Argonauti 3. Tempio di Matidia 4. Tempio di Serapide 5. Tempio della Salute 6. Teatro di Balbo VI capitolina e Tempio di A L ATI N A An7. Arce to nGiunone Moneta in a 8. Portico di Filippo 9. Portico di Ottavia 10. Tempio di Apollo 11. Teatro di Marcello 12. Tempio di Giove Capitolino 13. Tempio di Esculapio 14. Tempio di Giano 15. Foro di Augusto 16. Foro Transitorio o di Nerva 17. Basilica di Massenzio 18. Basilica di Costantino 19. Tempio di Venere e Roma 20. Arco di Costantino 21. Terme di Tito 22. Tempio di Iside A N
Bona Dea Subsaxana
Magazzini di Galba Piramide di Cestio e s ta c c i o T Porta . M Ostiense TIENSE
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Nella pagina accanto Roma. Una veduta di Porta S. Paolo, uno dei principali accessi delle Mura Aureliane, anticamente detta Porta Ostiensis, nei pressi della piramide Cestia (I sec. d.C.). III sec. d.C.
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MURA AURELIANE
circuito. Tale modo di procedere richiese ovviamente modifiche in fabbriche di tipologia diversa e differente destinazione, come i castra praetoria (l’accampamento costruito nel I secolo d.C. da Tiberio), l’anfiteatro castrense di pochi decenni anteriore alle mura e la casa a piú piani, nei pressi di Porta Tiburtina, identificata di recente con una cisterna. Numerosi, infine, risultano i sepolcri inseriti nella cinta o addirittura trasformati in fondazioni delle torri ai lati delle porte come quelli del giovane poeta A. Sulpicio Massimo e di Cornelia Vatiena, tornati alla luce durante la demolizione di Porta Salaria, dell’oratore Quinto Haterio a Porta Nomentana e del fornaio Marco V. Eurisace a Porta Prenestina. Al contrario, rimase integra e ben visibile, a fianco di Porta San Paolo, la piramide di Caio Cestio
del 20 a.C., la cui inclusione andò a scapito della continuità del camminamento di ronda. Nonostante lo scetticismo di molti sulle reali possibilità di un attacco a Roma da parte dei barbari, nel 271 Aureliano, alla vigilia della spedizione in Oriente contro Zenobia, avviò la costruzione delle mura, avvalendosi di tutte le corporazioni cittadine di muratori impiegate contemporaneamente nei diversi settori del perimetro perché terminassero i lavori al piú presto. La fretta e la complessità dell’opera, con un percorso esattamente calcolato in 18,837 km e concluso nel 275, consigliarono un sistema difensivo abbastanza semplice, con la costruzione di un muro alto appena 7,70-8 m e largo 3,50-4 m e tuttavia sufficiente per respingere gli assalitori sprovvisti di macchine di assedio (vedi box in basso).
Le macchine da guerra Nella difesa di una cinta fortificata un ruolo determinante era svolto dai tormenta, strumenti bellici che, per il lancio a distanza di frecce o di pietre, traevano la forza propulsiva dalla torsione di fibre, nervi, tendini o crini di animali. La discordanza delle fonti storiche circa l’uso di queste armi da posizione è imputabile ai diversi nomi da esse assunti nel tempo in ragione delle mutate caratteristiche tecniche. È tuttavia opinione comune che il termine scorpiones indicasse genericamente le macchine a torsione, di cui le ballistae o le catapultae sino al I secolo d.C. erano destinate rispettivamente al lancio di pietre e di dardi. In epoca successiva, la balestra viene utilizzata soltanto per le frecce, mentre scompare la catapulta sostituita dall’onagro che, per il lancio in altezza di grosse pietre, doveva essere posizionato all’aperto. Viceversa, la balestra, munita di un treppiedi, era collocata nella camera di manovra all’interno delle torri. Di dimensioni ridotte e piú simile al tipo medievale era infine la balestra fornita individualmente agli arcieri: un arco
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in ferro, la cui elasticità garantiva la forza propulsiva dell’arma poggiata ai parapetti concavi delle feritoie. Sempre a scopo difensivo, dall’alto delle mura si faceva calare il lupus, una grossa tenaglia con cui si tentava di afferrare e immobilizzare, tenendoli sollevati da terra, gli arietes, macchine di attacco note attraverso diverse forme e tipi. Costituito da una pesante trave con l’estremità rivestita di metallo, l’ariete veniva spinto a braccia sull’obiettivo da abbattere, ovvero poteva essere sospeso a una incastellatura di
legno (aries pensilis), montato su ruote (aries subrolatus) o addirittura inserito in torri mobili di legno (turres ambulatoriae) internamente suddivise in piani collegati da scale e dotate di feritoie e di un ponte levatoio. Simili dovettero essere le torri manovrate, secondo Procopio, da cinquanta uomini contro le mura di Roma durante la guerra gotica. L’assalto poteva essere altresí tentato con semplici scale o con il tolleno, un dispositivo capace di sollevare da terra una cesta piena di soldati. A. M. R.
Il muro fu costruito secondo la tecnica edilizia dell’epoca, l’opera laterizia: un solido impasto di malta e pezzi di tufo, pietre e mattoni, compreso ed esternamente rivestito ai lati da cortine eseguite in modo accurato con mattoni e tegole spezzate. La parte superiore del muro era percorribile attraverso un corridoio scoperto e protetto da un parapetto merlato su tutto il percorso, che ogni 30 m viene movimentato da una torre quadrata con quattro finestre, dotata di una camera di manovra per le artiglierie e sopraelevata rispetto al camminamento, cosí da configurarsi come punto di osservazione e avvistamento. Inoltre nel muro, a diversa altezza dal suolo e a distanze regolari, furono aperte numerose feritoie. In corrispondenza delle strade in uscita da Roma, furono costruite porte che ne riprendevano il nome e di cui le piú monumentali erano a due ingressi coperti ad arco e fiancheggiati da torri semicircolari: Porta Appia, Ostiense, Portuense e Flaminia. Altre ebbero un solo fornice con due torri semicircolari ai lati (Salaria, Nomentana e Latina), o addirittura un ingresso arcuato senza torri, come le porte Pinciana, Asinaria e Metronia. Allo stesso tempo, sfruttando le rientranze del percorso, furono realizzate porte minori (posterule) su strade secondarie per consentire il traffico locale. Presto richiuse per motivi di sicurezza, presentavano un arco con piattabanda e stipiti di travertino come nella Posterula Ardeatina visibile a lato dei fornici di Via Cristoforo Colombo. Ultimate dall’imperatore Probo nel 279, le mura, non essendo coinvolte in episodi bellici, per molti anni furono oggetto solo di lavori di manutenzione. Anche il primo restauro, nel 307, fu limitato da Massenzio agli interventi strettamente necessari e oggi riconoscibili nei tratti in opera listata (filari di blocchetti di tufo alternati a mattoni) sovrapposti alla muratura di Aureliano. Ben piú esteso e consistente fu il restauro attuato tra il 401 e il 403 dagli imperatori Arcadio e Onorio sotto la minaccia dei Visigoti di Alarico: le mura e le torri furono raddoppiate in altezza e si provvide alla bonifica del fossato esterno con la rimozione di tutto il materiale di risulta accumulatosi nel corso di un secolo. Come ricorda l’iscrizione incisa all’epoca sull’attico di tre porte e attualmente leggibile solo a Porta Tiburtina, fu Stilicone a suggerire e dirigere i lavori che conferirono alla cinta l’aspetto definitivo conservatosi in gran parte sino ai nostri giorni. A questo intervento, che si caratterizza per una cortina laterizia piú scadente anche per l’utilizzo di
Nella pagina accanto illustrazione artistica che mostra alcune ricostruzioni delle macchine d’assedio in uso intorno al III sec. d.C. In alto Roma. Uno scorcio di un tratto delle Mura Aureliane nei pressi di Porta S. Paolo. III sec. d.C.
materiali di recupero, si deve la ristrutturazione delle porte per motivi di sicurezza, con il rifacimento dei prospetti e la costruzione di nuove camere di manovra sulle torri a piú piani. Venne anche creato un altro camminamento di ronda scoperto e sopraelevato sul precedente che, ridotto a una galleria a volta, fu posto in comunicazione con l’esterno attraverso numerose feritoie. Infine, le porte vennero assicurate da un doppio sistema di sicurezza: all’interno due battenti e all’esterno una saracinesca calata dall’alto nelle scanalature ricavate lungo gli stipiti dell’arco di ingresso e perfettamente conservate a Porta S. Sebastiano. Nonostante tale impegnativa opera di rinforzo delle mura, nel 410 i Visigoti di Alarico riuscirono a penetrare a Roma e a saccheggiarla. Nel 440, Teodosio riparò la cinta, nuovamente danneggiata e forzata nel 455 da Genserico a capo dei Vandali e dai Goti guidati da Recimero nel 472. Ai necessari restauri di Teodorico, nel 510, e di Belisario, nel 535, seguirono gli assedi di Vitige, nel 537, e di Totila, che nel 549 entrò vittorioso a Roma. Decisivo fu in quest’ultimo caso il tradimento, mentre in altri la resa della città fu facilitata dalle carestie. I numerosi restauri e rifacimenti successivi ad Aureliano consolidarono la struttura senza tuttavia modificarne l’impianto originario, a cui va attribuita la perdurante validità difensiva sino al secolo scorso. Anna Maria Ramieri
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AUGUSTO
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I tetrarchi
Potere quadrifronte
I
l periodo di Diocleziano segna una svolta decisiva nella concezione del potere imperiale. Originario della Dalmazia, il nuovo imperatore possiede grande intelligenza e senso del potere, capacità decisionale e realismo politico. Viene acclamato dalle sue truppe a Nicomedia, nel novembre del 284. Rendendosi conto che è impossibile che un uomo solo controlli i confini dell’impero e che Roma non ne è piú il cuore, Diocleziano sposta il baricentro verso nord-est, dove piú forti sono i fermenti di sviluppo commerciale e intellettuale: Treviri, Milano, Sirmio, Nicomedia divengono le nuove capitali; inoltre associa all’impero come Augusto, Massimiano, e gli affida l’Occidente, mentre tiene per sé l’Oriente. Questa prima divisione, seppur compiuta per un migliore controllo, sarà una ulteriore causa della progressiva decadenza della parte occidentale dell’impero, e di Roma in particolare. Massimiano conduce vittoriose campagne in Gallia, ma la vastità dell’impero impone una nuova divisione: nel 293 Massimiano sceglie un Cesare in uno dei suoi ufficiali, Costanzo Cloro, e altrettanto fa Diocleziano con Galerio. L’imperatore non è piú, come al tempo di Augusto, il primo magistrato, ma diviene un vero monarca con poteri assoluti di tipo orientale, basati su una religione politeista che fa di lui un dio in terra. Nasce cosí la tetrarchia, che dovrebbe risolvere anche il problema della successione: divenuti Augusti, i due Cesari ne sceglieranno altri due, e cosí via. Le capitali sono Treviri e Milano per l’Occidente, Sirmio e Nicomedia per l’Oriente. Nel nuovo assetto dell’impero, diviso in 12 diocesi raggruppate in quattro territori, l’Italia perde la sua posizione di privilegio e Roma non è piú la capitale, soppiantata da Milano, che riceve un enorme impulso economico e politico, grazie anche alla sua centralità strategica. Diocleziano riforma l’esercito, passando da 34 a 68 legioni, 48 delle quali stazionano sul limes, mentre le altre sono di riserva; ma l’immenso apparato ha bisogno di grandi mezzi finanziari; viene cosí promossa una riforma fiscale con il censimento di tutti i beni e le risorse dell’impero, secondo una rigida struttura che impedisce la libera circolazione del lavoro e del denaro. Per fermare l’inflazione, l’imperatore istituisce una stabilità nei salari e un calmiere di 1000 articoli: una mossa incauta, che ottiene solo la sparizione dei prodotti e l’aumento dei prezzi, e che viene subito abbandonata.
Nella pagina accanto e qui sopra veduta d’insieme e particolare del gruppo in porfido dei Tetrarchi, proveniente da Costantinopoli e collocato tra la basilica di S. Marco e il Palazzo Ducale di Venezia. III sec. d.C.
Nel 303-304, ritenendo la sua concezione teocratica minacciata da una religione monoteista, promulga quattro editti per eliminare il cristianesimo e scatena la piú terribile delle persecuzioni. La sua abdicazione, nel 305, in seguito a una malattia, costringe Massimiano a fare altrettanto. I due Cesari li sostituiscono, nominando a loro volta Severo e Massimino. Diocleziano si ritira nel suo magnifico palazzo di Spalato, in Dalmazia. Fin dal primo passaggio di poteri, il sistema tetrarchico si dimostra tuttavia fallace: già nel 306, vi sono tre Augusti: Massimiano, che vuole il potere per sé e per il figlio Massenzio, Galerio, al posto di Diocleziano, Severo a quello di Costanzo Cloro, morto pochi mesi prima a Eburacum (York). Vi sono inoltre i due Cesari, Massimino Daia e Costantino, figlio di Costanzo Cloro. Galerio, incapace di riportare l’ordine, invoca l’intervento di Diocleziano. Ma già nel 310 vi sono sette Augusti: Galerio in Oriente, Licinio succeduto a Severo in Occidente, Massimino Daia, Costantino, Massimiano, Massenzio, e infine Domizio Alessandro, governatore della provincia d’Africa. Scomparsi Severo nel 307, Massimiano nel 310 e Galerio nel 311, nel 312 Costantino sconfigge Massenzio nella battaglia ad Saxa Rubra, presso Roma, e rimane unico imperatore in Occidente. Resta Licinio in Oriente, il quale ha a sua volta eliminato Massimino Daia nel 313. Giovanna Quattrocchi
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Gli imperatori cristiani
UNA CROCE PER INSEGNA
QUELLA DI COSTANTINO FU UNA CONVERSIONE SINCERA? O FU UNA BUONA DOSE DI REALISMO POLITICO A DETERMINARE LA SCELTA DELL’IMPERATORE? RESTA IL FATTO CHE, ALL’INDOMANI DELL’EDITTO PROMULGATO NEL 313, ROMA ENTRÒ IN UNA FASE DEL TUTTO NUOVA. CHE FECE REGISTRARE PROFONDI E SIGNIFICATIVI MUTAMENTI NON SOLO RELIGIOSI, MA ANCHE SOCIALI E CULTURALI di Giovanna Quattrocchi
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ostantino viene eletto imperatore d’Occidente nel 313 d.C. con il consenso del Senato, che gli conferisce il titolo di Primus Augustus, mentre Licinio mantiene il trono d’Oriente. I due coesistono pacificamente fino al 320, quando scoppia tra le due parti un conflitto di religione; Costantino, infatti, ha dato libertà di culto ai cristiani con l’editto di Milano del 313, mentre Licinio, che è un pagano convinto, ha sottoscritto a malincuore l’editto e pone numerose limitazioni alla libertà di culto. Nel 323, Costantino affronta e sconfigge Licinio presso Adrianopoli, lo insegue fino a Nicomedia, e lo fa prigioniero. Sei mesi piú tardi lo mette a morte e cosí l’impero d’Oriente e quello d’Occidente tornano nelle mani di un uomo solo. A differenza di Diocleziano, che aveva voluto spartire l’enorme responsabilità del potere, Costantino riunisce sotto lo scettro di una monarchia assoluta l’intero impero e lo governa con l’ausilio di una classe di funzionari efficienti, molto potenti e accentratori. Sotto il suo regno, la Chiesa cristiana aumenta progressivamente di importanza, soprattutto in Occidente, fino a divenire essa stessa repressiva verso gli altri culti.
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Vengono restituiti ai cristiani i beni confiscati, e viene indetto, nel 325, il Concilio di Nicea, in Bitinia, contro l’eresia ariana, che si è ampiamente diffusa in Oriente e che nega la natura divina del Cristo. Nelle città l’autorità del papa e dei vescovi assume sempre maggiore importanza.
Dal Palatino al Bosforo Costantino abbandona Roma e stabilisce la propria residenza sul Bosforo, a Bisanzio, che prende il nome di Costantinopoli. Egli deve affrontare i Franchi sul Reno, i Sarmati, i Vandali e i Goti sul Danubio: fortifica quindi le frontiere, e attua una nuova strategia. Dopo aver sconfitto i Goti, li associa come federati e difensori del confine romano e altrettanto fa con i Sarmati, che stanzia in Tracia, Macedonia e Italia. Ma questa politica di deportazione e conversione dei barbari – pur rivelandosi vantaggiosa per arruolare nuove truppe – a lungo andare si dimostrerà perniciosa per l’impero: l’immissione di soldati e ufficiali di origine germanica contribuirà a indebolire l’unità e il senso di identità dell’esercito. Nel 337 l’imperatore sta per marciare contro i Persiani, quando si ammala; prima di morire, chiede al vescovo Eusebio di
Nella pagina accanto statua in marmo di Costantino, proveniente dalle terme dell’imperatore erette sul Quirinale, oggi collocata nell’atrio della basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. IV sec. d.C.
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NEL SEGNO DI CRISTO
Nicomedia di essere battezzato. La sua morte mette di nuovo in discussione l’unità dell’impero. I suoi tre figli – Costantino II, Costante e Costanzo II – dovrebbero reggere insieme il potere; ma l’accordo non regna tra i fratelli: Costantino II viene subito eliminato da Costante, che si insedia a Milano, da dove governa l’Occidente. Controlla i confini, sostiene la supremazia del vescovo di Roma su quelli d’Oriente, tenta una riforma monetaria, rendendo piú pesante il solidus, ma scatena speculazioni che portano lo Stato sull’orlo della bancarotta; allora una congiura di palazzo gli sostituisce Magnenzio, brillante generale di origine bretone. Costretto a fuggire, Costante viene raggiunto e giustiziato nel 350. Costanzo II, in Oriente, promulga leggi piú giuste e cerca di moralizzare la vita pubblica; alla morte del fratello interviene in Occidente, elimina ben tre usurpatori, Magnenzio, Vetranio e Nepotiano, e nel 353 torna a essere il solo imperatore. Arricchisce Costantinopoli di monumenti e, nel 360, inaugura la basilica di S. Sofia.
«Vescovo dei vescovi» Il suo imperio si estende anche al campo religioso, si dichiara «vescovo dei vescovi» e impone una totale sottomissione. Nel frattempo, gli Alamanni passano il Reno e dilagano per tutta la Gallia: Costanzo invia contro di loro il cugino Giuliano, a cui concede il titolo di Cesare, che riesce a ricacciarli fuori dal confine. Il giovane generale, nipote di Costanzo Cloro, gode di un immenso prestigio presso l’esercito, tanto che viene acclamato imperatore nel 360. La guerra sembra inevitabile quando Costanzo II, ammalatosi a Tarso, prima di morire, designa Giuliano suo legittimo erede e successore. Uomo di cultura e di formazione filosofica, oltre che brillante generale, Giuliano vuole ripristinare l’antica virtú romana e la religione pagana, e per questo è passato alla storia con l’epiteto di «Apostata»: la sua azione è
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Frammento di bassirilievo raffigurante la vittoria di Costantino presso Ponte Milvio. IV sec. d.C.
anacronistica, e non sopravviverà al suo breve regno, ma gli atti del suo governo sono improntati a saggezza e liberalismo. Giuliano è un asceta e un filosofo (vive in perfetta castità con la moglie Elena e non avvicinerà mai alcuna donna), ma non è compreso dalla popolazione ed è odiato dai cristiani; nel 363, durante una vittoriosa campagna contro i Persiani, viene ferito e muore dopo solo tre anni di regno. Dopo i brevi regni di Gioviano, che conclude una pace umiliante con i Persiani cedendo
Nisibi sul Tigri, e di Valentiniano I, ufficiale pannonico, i parenti di quest’ultimo si dividono l’impero, il fratello Valente in Oriente e il figlio Graziano in Occidente.
L’impero apre le porte ai barbari Sul confine danubiano la minaccia dei Goti si fa sempre piú pressante: Valente, che ha dovuto eliminare anche l’usurpatore Procopio, per contrastare l’avanzata degli Unni, permette ai Goti di passare il Danubio e di stanziarsi in Tracia; è la prima volta che a un popolo barbaro venga consentito di accedere al territorio dell’impero. Ben presto, però, i Goti forzano i Balcani e dilagano verso la Macedonia e la Grecia. Fidando nelle proprie forze, Valente, senza aspettare Graziano, che sta accorrendo in aiuto, li affronta presso Adrianopoli, nel 378 d.C., ma subisce una delle piú terribili sconfitte di tutta la storia romana: lo storico Ammiano Marcellino ha lasciato una dettagliata descrizione della battaglia, sulle cui sorti pesa l’errore fatale dell’imperatore, che vi perde la vita. I Goti arrivano fino alle porte di Costantinopoli. Frattanto, in Occidente, l’impero di Graziano è minacciato dalle truppe dell’lllirico, che acclamano il fratellastro Valentiniano II, bimbo di appena 4 anni. Graziano accorre tuttavia in aiuto di Valente, ma, informato della sconfitta di Adrianopoli e della morte dello zio, proclama imperatore d’Oriente Teodosio, nel 379. Questi conclude un patto con i Goti, che si stanziano con garanzie legali nell’Illirico; nel 380, promulga l’editto in virtú del quale il cristianesimo viene dichiarato religione di Stato. Graziano riorganizza il governo e affida
Testa pertinente a una statua colossale in bronzo dell’imperatore Costantino. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.
ai Franchi la difesa del Reno; pone la capitale a Milano, lasciando Roma, dove il papa acquista sempre maggior prestigio. Ma un usurpatore, Massimo, fomenta una rivolta in Britannia; Graziano vi accorre, viene fatto prigioniero e giustiziato nel 383. Alla sua morte, Giustina, madre di Valentiniano II, insedia il figlio a Milano con il sostegno del vescovo Ambrogio, riconoscendo a Massimo il governo del territorio al di là delle Alpi. La donna regna in nome del figlio con spirito liberale: è ariana, ma tiene presso di sé il pagano Simmaco, prefetto urbano; è questi che introduce a Milano un giovane e brillante retore venuto dall’Africa, Agostino, seguace dell’eresia manichea; il vescovo Ambrogio riuscirà a convertirlo al cristianesimo ortodosso. Nel 387, l’usurpatore Massimo invade il territorio italiano: Giustina e Valentiniano fuggono a Tessalonica, e Teodosio interviene in loro aiuto (nel frattempo ha sposato, per amore, la di lui sorella, Galla); pone accanto a Valentiniano il generale franco Arbogaste, vince Massimo a Siscia e lo fa decapitare ad Aquileia. Ma Arbogaste elimina Valentiniano II e proclama imperatore un retore romano, Eugenio, con l’appoggio delle potenti famiglie pagane dei Simmachi e dei Nicomachi, contrarie al vescovo Ambrogio. Con l’appoggio dell’aristocrazia, Arbogaste, un barbaro, diviene cosí padrone dell’Occidente. Teodosio attende due anni prima di passare all’attacco, poi marcia contro Arbogaste, con un esercito formato essenzialmente da barbari e con ufficiali come il vandalo Stilicone e il goto Alarico. La battaglia ingaggiata sul fiume Frigido, presso Aquileia, nel 394, viene
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NEL SEGNO DI CRISTO
vinta da Teodosio: Eugenio e Arbogaste sono eliminati. Alla morte di Teodosio, nel 375, gli succedono i due figli, Onorio in Occidente e Arcadio in Oriente, sotto la guida del fido generale Stilicone, un Vandalo romanizzato al quale Teodosio li ha affidati.
Due mondi che si allontanano Alla morte del padre, Arcadio ha 18 anni, Onorio soltanto 11; il primo, di intelligenza limitata, lascia il governo nelle mani di Rufino ed Eutropio, intriganti di palazzo che rifiutano la guida di Stilicone, la cui autorità viene limitata all’Occidente. Di fatto, le due parti dell’impero si discostano sempre piú l’una dall’altra: mentre in Oriente prevale una politica antibarbarica (il popolo di Costantinopoli, nel 400, sotto la guida del vescovo Giovanni Crisostomo caccia il goto Gainas, ripristinando
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Attila e i suoi Unni rovesciano l’Italia e le Arti, particolare della decorazione del soffitto della biblioteca, opera di Eugène Delacroix. Olio e cera vergine su gesso. XIX sec. Parigi, Palais Bourbon.
la pace sotto Arcadio e la moglie Eudossia), Stilicone, in Occidente, affronta Alarico e lo vince a Verona, ma non lo annienta, rimanendo fedele alla politica filobarbarica di Teodosio. Sarà eliminato nel 408, quando l’ostilità del popolo milanese e dell’esercito romano indurrà Onorio a consegnarlo nelle loro mani. La morte di Stilicone affretta la rovina dell’Occidente: Alarico conquista Roma e la sottopone a un selvaggio saccheggio (410); prende prigioniera la bella Galla Placidia, sorella di Onorio, che passerà sette anni con i barbari, sposata ad Ataulfo, successore di Alarico. Dopo il sacco di Roma, i Visigoti dilagano in Spagna e nella Gallia meridionale. Morto Onorio nel 423, arriva di nuovo un fanciullo sul trono di Occidente, Valentiniano III, figlio di Galla Placidia e di Flavio Costanzo, che, innamorato di lei fin da quando era fanciulla,
l’ha sposata dopo il suo ritorno dalla prigionia. Donna di forte personalità, Galla Placidia governa per il figlio minorenne, ma non riesce a evitare un nuovo colpo inflitto all’impero: la conquista della ricca e colta provincia d’Africa da parte dei Vandali, che vengono accolti come liberatori dalla popolazione, ostile alla Chiesa romana e seguace di un cristianesimo ai limiti dell’eresia. Durante l’assedio di Ippona muore il vescovo della città, Agostino. I barbari sono ormai padroni di molte province occidentali dell’impero, e danno vita ai primi regni romano-barbarici: nel 435, Genserico, il capo dei Vandali, viene riconosciuto re di Numidia e Mauretania; in Gallia si è formato il regno gotico-burgundico; in Spagna quello celtico; in Britannia quello degli Angli e dei Sassoni.
Le mura di Costantinopoli In Oriente, ad Arcadio succede, nel 408, Teodosio II, che ha appena 7 anni. La reggenza viene assunta da Antemio, prefetto del pretorio, e, quando questi muore nel 414, da Pulcheria, sorella di Teodosio e maggiore di soli due anni, ma – come molte donne di questo periodo – pienamente all’altezza del compito: durante il regno di Teodosio II, nel 413, viene iniziata la costruzione delle possenti mura di Costantinopoli, capaci di sostenere qualsiasi attacco; viene istituita l’università; vengono raccolti, sotto il titolo di Codice Teodosiano, tutti gli editti imperiali da Costantino in poi; l’imperatore li invia al cugino Valentiniano III, imperatore d’Occidente, perché ne faccia lo strumento del suo diritto. Egli indice anche due concili ad Efeso, nel 431 e nel 449, durante i quali vengono definite le dottrine dei dogmi relativi a Cristo e alla madre Maria. Un’altra minaccia proviene intanto dalle regioni danubiane: quella di Attila e degli Unni. Nel 441 Teodosio è costretto a pagare loro un
Moneta d’oro di Teodosio I. Al dritto, busto dell’imperatore e legenda D N THEODOSIVS P F AVG; al rovescio, Costantinopoli seduta su trono regge uno scudo sul quale è scritto VOT V MVL X, legenda CONCORDIA AVGGG e CONOB, in esergo.
tributo per salvare la penisola balcanica, il che non impedisce ad Attila di passare di nuovo il Danubio, nel 447 e nel 449, quando decide di rivolgersi contro l’impero d’Occidente. Entra in Italia e prende d’assedio Aquileia, poi si volge alle città della Pianura Padana e le conquista una per una, a cominciare da Milano. Tuttavia rinuncia alla conquista di Roma e si ritira, forse spaventato da una epidemia di peste. Le due metà dell’impero si allontanano sempre di piú. Mentre l’impero bizantino si stabilizza in un potere saldo e organizzato, in Occidente l’esercito – sul quale, fin dall’epoca di Augusto, si basa la difesa dell’unità – è in mano ai generali provenienti dalle file barbare. Nel 455 Valentiniano III viene ucciso. Si interrompe allora la successione per ereditarietà, che era stata portata alle massime conseguenze con i «principi fanciulli» e, si ricorre al Senato: un senatore prende il potere, Petronio Massimo; anche se viene subito ucciso da Genserico, un altro lo sostituisce, Avito, quindi Maioriano, e poi Procopio Antemio, e ancora Giulio Nepote; ma di fatto dominano i patricii, cioè i capi barbari, come Ricimero, Gundobado, Oreste. Proprio Oreste, dopo avere deposto Giulio Nepote, nomina imperatore il proprio figlio Romolo Augusto, che sarà anche l’ultimo monarca d’Occidente: infatti il generale sciro Odoacre – che a capo dell’armata romana ormai composta di mercenari barbari conquista Pavia nel 476 e depone Romolo – si contenta del titolo di re d’Italia e di patricius per conto di Zenone, imperatore d’Oriente. L’impero di Roma finisce cosí, nelle mani dei barbari: è un potere vacante, ormai pronto a essere occupato dal primo che ne abbia la capacità. Sarà Teodorico, re degli Ostrogoti che, vinto Odoacre nel 493, stabilirà in Italia il suo regno.
| IMPERATORI ROMANI | 123 |
L’impero dei Cesari 27 a.C.-14 d.C.
54-68 d.C.
69-79 d.C.
AUGUSTO
NERONE
VESPASIANO
Gaio Giulio Cesare Ottaviano (63 a.C.-14 d.C.), figlio adottivo di Cesare e primo imperatore romano. Sposa in terze nozze Livia Drusilla e ne adotta il figlio Tiberio.
Lucio Domizio Enobarbo (37-68 d.C.), figlio di Agrippina Minore. Succeduto a Claudio, fa uccidere il di lui figlio, Britannico, la madre e infine la moglie Ottavia (figlia di Claudio), per sposare Poppea. Scampato alla congiura di Pisone nel 66 d.C., è costretto al suicidio dal Senato.
Tito Flavio Vespasiano (9-79 d.C.), generale di Nerone in Giudea, viene designato imperatore dalle legioni d’Oriente in opposizione a Vitellio. Alla morte di questi torna in Italia e governa con il consenso del Senato, nominando coreggente il figlio Tito, che gli succede nel 79 d.C.
14-37 d.C.
TIBERIO Tiberio Claudio Nerone (42 a.C.-37 d.C.), figlio di Livia Drusilla e di Tiberio Claudio Nerone. Sposa nel 12 d.C. Giulia, la figlia di Augusto, al quale succede nel 14 d.C. Sotto il suo impero viene crocifisso Gesú Cristo.
79-81 d.C. 68-69 d.C.
GALBA
TITO
37-41 d.C.
69 d.C.
Tito Flavio Vespasiano (39-81 d.C.), al seguito di Vespasiano conduce a termine la guerra contro i Giudei, conquistando Gerusalemme (70 d.C.). Sotto il suo regno avviene l’eruzione del Vesuvio che distrugge Pompei ed Ercolano (79 d.C.).
CALIGOLA
OTONE
81-96 d.C.
Gaio Giulio Cesare Germanico (12-41 d.C.), soprannominato Caligola per la calzatura militare (caliga) che portava da bambino. Designato da Tiberio a succedergli, assume l’impero nel 37 d.C. Vittima di una congiura, muore nel 41 d.C.
Marco Salvio Otone (32-69 d.C). Primo marito di Poppea (poi moglie di Nerone), aderisce alla rivolta di GaIba, poi lo fa uccidere ed è acclamato imperatore dai pretoriani, ma viene sconfitto da Vitellio a Bedriaco e si toglie la vita.
41-54 d.C.
69 d.C.
96-98 d.C.
CLAUDIO
VITELLIO
NERVA
Claudio Tiberio Druso Nerone Germanico (10 a.C.-54 d.C.), acclamato imperatore dai pretoriani nel 41 d.C., dopo l’uccisione di Caligola, sposa prima Messalina e poi Agrippina Minore. Muore avveIenato nel 54 d.C.
Aulo Vitellio (15-69 d.C.). Acclamato imperatore dalle legioni renane avverse a Otone, viene sconfitto da Vespasiano a Cremona e muore durante un tumulto a Roma.
Marco Cocceio Nerva (30 circa-98 d.C.), di estrazione senatoria, giurista e uomo di cultura, viene eletto dopo l’uccisione di Domiziano. Adotta Traiano, appartenente all ‘aristocrazia provinciale spagnola.
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Servio Sulpicio Galba (3 a.C.-69 d.C.). Eletto in Spagna dalle truppe nel 68 d.C. e riconosciuto imperatore dal Senato, viene ucciso nel 69 dai pretoriani, seguaci di Otone.
DOMIZIANO Tito Flavio Domiziano (51-96 d.C.), figlio di Vespasiano succede al fratello Tito e instaura un regime dispotico che gli inimica la classe senatoria. Muore vittima di una congiura, nel 96 d.C.
98-117 d.C.
TRAIANO Ulpio Traiano (Italica in Spagna, 53-117 d.C.), associato all’impero da Nerva nel 97, gli succede nel 98, sposa Plotina e adotta Adriano. Conquistata la Dacia, muore a Selinunte in Cilicia dopo una vittoriosa spedizione contro i Parti. Sotto di lui l’impero raggiunge la sua massima estensione. 117-138 d.C.
ADRIANO Publio Elio Adriano (Italica, 76-138 d.C.), cugino di Traiano, gli succede nel 117 d.C. e ne sposa la nipote Vibia Sabina. Non avendo figli adotta Tito Aurelio Antonino per garantire la successione. 138-161 d.C.
ANTONINO PIO Tito Aurelio Antonino (86-161 d.C.) assicura all’impero un periodo di pace, sposa Faustina e, morti i figli maschi, adotta come successori Marco Aurelio, marito della figlia Faustina Minore, e Lucio Vero, figlio di Elio Vero (già scelto da Adriano come successore, ma morto prematuramente).
Faustina, figlia di Antonino Pio, regna con il fratello adottivo Lucio Vero fino alla morte di lui (169), combatte contro i Parti in Oriente e i Quadi e i Marcomanni sul Danubio. Filosofo stoico, scrive I ricordi. 161-169 d.C.
LUCIO VERO Lucio Aurelio Vero (130 circa-169 d.C.), adottato da Antonino Pio nel 138 insieme con Marco Aurelio, che lo associa all’impero nel 161 d.C. 180-192 d. C.
COMMODO Lucio Elio Aurelio Commodo (161-192 d.C.), figlio e successore di Marco Aurelio, conclude la pace con i Marcomanni. Divenuto un despota sanguinario, viene ucciso in una congiura di palazzo.
193-211 d.C.
SETTIMIO SEVERO Lucio Settimio Severo Pertinace (Leptis Magna, 146-211 d.C.), marito di Giulia Domna, nata nel 158 circa a Emesa in Siria, ha due figli, Caracalla e Geta. Riorganizza lo Stato e riordina le finanze, combatte contro i Parti e rende piú sicuri i confini dell’impero. 211-217 d.C.
CARACALLA Marco Aurelio Antonino Caracalla (188-217 d.C.), figlio di Settimio Severo, associato dal padre nel 198, gli succede con il fratello Geta, che poi uccide. Nel 212 concede la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero (Constitutio antoniniana). Viene fatto uccidere dal prefetto del pretorio Macrino. 211-212 d. C.
193 d.C.
PERTINACE
GETA
Publio Elvio Pertinace (126-193 d.C.), viene assassinato dai pretoriani dopo soli 80 giorni di regno.
Publio Settimio Geta (189-212 d.C.), associato all’impero dal padre nel 209, ucciso nel 212 dal fratello Caracalla, viene sottoposto alla damnatio memoriae.
161-180 d.C.
193 d.C.
217-218 d.C.
MARCO AURELIO
DIDIO GIULIANO
MACRINO
Marco Didio Giuliano (133-193 d.C.), acclamato dai pretoriani, dopo due mesi è messo a morte da Settimio Severo, eletto dalle legioni in Pannonia.
Marco Opellio Macrino (Mauretania, 164-218 d.C.), fa uccidere Caracalla ma viene a sua volta
Marco Elio Aurelio Vero (121-180 d.C.), marito di
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ucciso dalle truppe che acclamano il piccolo Elagabalo, nato da Giulia Soemia, figlia di una sorella di Giulia Domna. 218-222 d.C.
ELAGABALO Marco Aurelio Antonino Elagabalo (204-222 d.C.), figlio di Giulia Soemia (effettiva detentrice del potere, con la madre Giulia Mesa) instaura il culto di El Gabal, divinità solare di Emesa. Nel 221 adotta il cugino Severo Alessandro, ma viene ucciso dai pretoriani insieme con la madre. 222-235 d.C.
SEVERO ALESSANDRO Marco Aurelio Severo Alessandro (208-235 d.C.), figlio di Giulia Mamea, instaura un regno tradizionalista-illuminato.Viene ucciso a Magonza, insieme con la madre, dai soldati. 235-238 d.C.
MASSIMINO TRACE Gaio Giulio Vero Massimino (170 circa-238 d.C.), acclamato a Magonza, combatte i Germani; frattanto le legioni d’Africa acclamano Marco Antonio Gordiano e il figlio. La rivolta si estende all’Italia e Massimino è ucciso dai suoi stessi soldati ad Aquileia.
238 d.C.
GORDIANO II Gordiano Il (192 circa-238 d.C.), acclamato imperatore con il padre in Africa, è vinto dal legato di Numidia e muore in combattimento. 238 d.C.
TREBONIANO GALLO
238 d.C.
BALBINO
253 d.C.
Marco Clodio Massimo Pupieno (?-238 d.C.), eletto imperatore dal senato con Balbino, viene ucciso dai pretoriani.
Decimo Celio Calvino Balbino (178-238 d.C.), eletto dal Senato con Pupieno, ne condivide la sorte per mano dei pretoriani. 238-244 d.C.
GORDIANO III Gordiano III ( ?-244 d.C.), nipote di Gordiano I, è acclamato imperatore dai pretoriani. Viene ucciso dai soldati presso Dura Europos. 244-249 d.C.
FILIPPO L’ARABO
238 d.C.
GORDIANO I
249-251 d.C.
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251-253 d.C.
Vibio Treboniano Gallo (207 circa-253 d.C.), si associa il figlio Volusiano, ma le legioni della Mesia acclamano il legato Marco Emilio Emiliano, e Gallo e Volusiano vengono uccisi dai loro soldati presso Terni.
PUPIENO
Marco Giulio Filippo (204 circa249 d.C.), acclamato dai soldati che avevano ucciso Gordiano III. Celebra il millenario di Roma (248), marcia contro Decio, ma è sconfitto a Verona e ucciso.
Marco Antonio Gordiano (157 circa -238 d.C.), acclamato imperatore dalle legioni d’Africa, si associa il figlio Gordiano II. Venuto a conoscenza della morte di lui in battaglia, si uccide.
acclamato imperatore vince Filippo a Verona, governa con i figli Etrusco e Ostiliano, compie una radicale politica anticristiana; muore con il figlio Etrusco combattendo ad Abritto sul Mar Nero.
DECIO Messio Traiano Decio (200 circa251 d.C.), nato in Pannonia,
EMILIANO Marco Emilio Emiliano (206 circa-253 d.C.), legato imperiale in Mesia, dopo tre mesi è attaccato da Valeriano, a sua volta acclamato imperatore dopo la morte di Gallo. Viene quindi ucciso dai suoi soldati. 253-260 d.C.
VALERIANO Publio Licinio Valeriano (195 circa-260 d.C.), dopo una persecuzione anticristiana, in un impero assediato dai barbari affida l’Occidente al figlio Gallieno e combatte i Persiani, ma cade prigioniero del re persiano Shapur l. 253-268 d.C.
GALLIENO Publio Licinio Egnazio Gallieno (218 circa268 d.C.), non tenta la liberazione del padre e sospende la persecuzione
contro i cristiani. Seguace del filosofo Plotino, combatte Postumo in Gallia e il regno di Zenobia a Palmira, in Oriente. Muore vittima di una congiura.
l’impero combattendo contro i barbari e contro il regno della regina Zenobia a Palmira. Fortifica Roma con una nuova cinta muraria. Viene ucciso nel 275 d.C.
258-268 d.C.
POSTUMO Marco Cassiano Latino Postumo, acclamato nel 258 dai suoi soldati contro Gallieno, crea un regno autonomo in Gallia, Germania, Britannia, Spagna, con capitale a Treviri (imperium Galliae).
275-276 d.C.
TACITO Marco Claudio Tacito, eletto dal Senato come successore di Aureliano, vince i Goti in Cilicia, poi rimane vittima di un attentato. 276-282 d.C.
268 d.C.
MARIO Mario, successore per pochi giorni di Postumo nell’imperium Galliae. 268-270 d.C.
VITTORINO Piavonio Vittorino, ufficiale del pretorio di Postumo, poi suo successore nell’imperium Galliae. 268-270 d. C.
CLAUDIO IL GOTICO Marco Aurelio Valerio Claudio (219-270 d.C.), dalmata, riesce a fermare i barbari ad Aquincum (Budapest) e a Naisso in Mesia (269). Muore di peste. 270-274 d.C.
TETRICO Esuvio Tetrico, ultimo imperatore gallico, vinto da Aureliano. 270-275 d.C.
AURELIANO Lucio Domizio Aureliano (215-275 d.C.), dalmata, riunifica
PROBO Marco Aurelio Probo (232-282 d.C.), riafferma l’unità dell’impero vincendo i Goti in Asia Minore e i Franchi e gli Alemanni in Gallia. Viene ucciso a Sirmio dai suoi stessi soldati. 282-285 d.C.
CARO Marco Aurelio Caro (223 circa-285 d.C.), prefetto del pretorio di Probo, acclamato imperatore dai soldati della Rezia e del Norico, durante una spedizione in Persia muore, forse ucciso dal prefetto del pretorio Apro. 283-285 d.C.
CARINO E NUMERIANO Figli e successori di Caro, Marco Aurelio Carino in Occidente, Marco Aurelio Numerio Numeriano in Oriente, ambedue uccisi dalle truppe: Numeriano nel 284 in Persia, Carino dai suoi soldati, malgrado la vittoria ottenuta in Mesia contro
un ufficiale dalmata, Valerio Diocle (Diocleziano). 284-305 d.C.
DIOCLEZIANO Gaio Valerio Diocle (247 circa-313 d.C.), nato in Dalmazia, acclamato dai soldati, attua la restaurazione imperiale con la tetrarchia (divisione dell’impero in occidentale e orientale con due Augusti e due Cesari). Fissa la propria residenza a Nicomedia. Attua un’importante riforma del sistema monetario. Abdica il 1° maggio del 305. 286-305 d.C.
MASSIMIANO Erculio Massimiano (245 circa310 d.C.), eletto Augusto per l’Occidente regna con Diocleziano, portando la residenza a Milano, e vince una ribellione della Gallia. Abdica, insieme con Diocleziano, il 1° maggio del 305. 305-311 d.C.
GALERIO Gaio Valerio Massimiano Galerio (250 circa-311 d.C.), scelto da Diocleziano come Cesare (293) per l’Oriente, sposa la figlia di lui, poi gli succede come imperatore d’Oriente. Tenta inutilmente di contrastare l’ascesa di Costantino. 305-306 d.C.
COSTANZO I CLORO Costanzo I Cloro (250 circa-306 d.C.), prima Cesare (293) di Massimiano in Occidente (sposa la figliastra di lui Teodora, ripudiando Elena, già madre di
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Costantino), poi imperatore d’Occidente. Muore combattendo in Britannia. 306-307 d.C.
FLAVIO SEVERO Flavio Severo, Cesare di Costanzo Cloro (305), non riesce a succedergli alla morte di lui nel 306, perché ostacolato da Costantino, figlio illeggittimo di Costanzo Cloro, e da Massenzio. 306-312 d.C.
MASSENZIO Marco Aurelio Valerio Massenzio (275 circa-312 d.C.), figlio di Massimiano Erculio, acclamato dai pretoriani a Roma, si contrappone a Costantino, ma viene vinto nella battaglia di Ponte Milvio (312) e annega nel Tevere. 308-313 d.C.
MASSIMINO DAIA Gaio Galerio Valerio Massimino (?-313 d.C.), eletto Cesare sotto Galerio (305), alla morte di lui (311) partecipa alla lotta per il potere, unificando l’Oriente. Divenuto Augusto con Costantino e Licinio, muore nel 313. 306-337 d.C.
COSTANTINO Costantino (280 circa-337 d.C.), nato da Costanzo Cloro ed Elena, acclamato imperatore dall’esercito in Britannia (306) alla morte del padre, sconfigge Massenzio e diviene imperatore d’Occidente. Nel 313, con l’editto di Milano, accorda piena legalità al cristianesimo.
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308-324 d.C.
LICINIO Valerio Licinio Liciniano (250 circa-325 d.C.), Augusto dell’Occidente (308) e alleato di Costantino contro Massimino e Massenzio, ottiene in seguito l’impero d’Oriente. Rotta l’alleanza con Costantino è vinto da lui ad Adrianopoli e a Crisopoli nel 324. 337-340 d.C.
COSTANTINO II Costantino II (316 circa-340 d.C.), primogenito di Costantino, nella divisione con i fratelli Costanzo e Costante ottiene la prefettura delle Gallie; tenta di impadronirsi del territorio di Costante, ma è da lui sconfitto e ucciso presso Aquileia.
e si proclama Augusto (350), ma è sconfitto da Costanzo e si uccide. 360-363 d.C.
GIULIANO L’APOSTATA Flavio Claudio Giuliano (332-363 d.C.), acclamato Augusto dai soldati della Gallia (360), alla morte di Costanzo II rimane unico imperatore. Dal 351 rinnega il cristianesimo e restaura il culto pagano. Muore durante una spedizione contro i Parti. 363-364 d.C.
GIOVIANO Gioviano (?-364 d.C.), dopo la morte di Giuliano assume il potere, restaura il cristianesimo e conclude una rovinosa pace con i Persiani.
337-350 d.C.
COSTANTE Costante (320 circa-350 d.C.), figlio terzogenito di Costantino, dopo la morte di Costantino Il ottiene l’impero d’Occidente. Viene ucciso dal ribelle Magnenzio, un gallo semibarbaro, che lo aveva dichiarato deceduto.
364-375 d.C.
VALENTINIANO I Valentiniano I (321-375 d.C.), ufficiale pannonico, muore in Pannonia durante una spedizione contro i Quadi.
337-361 d.C.
COSTANZO II Costanzo II (318-361 d.C.), secondo figlio di Costantino e Augusto in Oriente, dopo la morte dei fratelli sconfigge Magnenzio nella battaglia di Mursa (353) e rimane unico imperatore.
364-378 d.C.
VALENTE Valente (328-378 d.C.), fratello e co-Augusto di Valentiniano, prima accoglie i Visigoti nell’esercito, poi in seguito alla loro ribellione li combatte nei Balcani, ma è ucciso nella battaglia di Adrianopoli. I Goti arrivano alle porte di Costantinopoli.
350-353 d.C.
MAGNENZIO Flavio Magno Magnenzio (?-353 d.C.), di origine gallica, generale di Costante lo fa uccidere
375-383 d.C.
GRAZIANO Flavio Graziano (359-383 d.C.), figlio di Valentiniano, succede al
padre nel 375 con il frateIlastro Valentiniano II. Nel 379 nomina Teodosio imperatore d’Oriente. Muore a Lione in seguito alla rivolta dello spagnolo Massimo.
d’Occidente sotto la tutela di Stilicone, generale romano di origine vandala, vincitore dei Visigoti poi ucciso per una ribellione delle truppe a Pavia (408).
461-465 d.C.
423-425 d.C.
467-472 d.C.
GIOVANNI
ANTEMIO
Giovanni, funzionario imperiale, usurpa per due anni l’impero d’Occidente, quindi viene ucciso. 425-455 d.C.
Antemio Procopio (?-472 d.C.), nominato Cesare dall’imperatore d’Oriente, poi acclamato Augusto in Italia, viene assediato e ucciso a Roma dal genero Ricimero.
VALENTINIANO III
472 d.C.
LIBIO SEVERO Libio Severo (?-465 d.C.), usurpatore dell’impero, non riconosciuto in Oriente.
375-392 d.C.
VALENTINIANO II Valentiniano II (371-392 d.C.), figlio di Valentiniano, nominato Augusto dalle truppe dell’Illirico, regna dapprima con la madre Giustina. All’avvento di Teodosio viene relegato in Gallia. È ucciso nella ribellione del suo generale Arbogaste. 392-394 d.C.
EUGENIO Flavio Eugenio (?-394 d.C.), proclamatosi imperatore alla morte di Valentiniano II, è vinto da Teodosio al fiume Frigido (394).
Valentiniano III (419-455 d.C.), figlio del generale Flavio Costanzo e di Galla Placidia (figlia di Teodosio) sotto la cui tutela sale all’impero. Sposa Eudossia, figlia di Teodosio II (imperatore d’Oriente succeduto al padre Arcadio). Uccide il generale Ezio, vincitore di Attila, e a sua volta è ucciso dai soldati di Ezio.
379-395 d.C.
TEODOSIO I Teodosio (347-395 d.C.), elevato all’impero orientale nel 379, combatte l’eresia ariana con sant’Ambrogio e, nell’editto di Tessalonica (380), proclama l’ortodossia cristiana, sancita dal Concilio di Nicea, unica religione di Stato. 395-408 d.C.
ARCADIO Arcadio (377-400 d.C.), figlio di Teodosio, sale al trono d’Oriente. Da questo momento, l’impero si scinde in due parti distinte, orientale e occidentale. 395-423 d.C.
ONORIO Onorio (384-423 d.C.), figlio di Teodosio, ottiene l’impero
455 d.C.
PETRONIO Petronio Massimo (?-455 d.C.), senatore, succede a Valentiniano e costringe Eudossia a sposarlo, ma è ucciso da Genserico, re dei Vandali. 455-456 d. C.
AVITO Marco Mecilio Eparchio Avito (?-456 d.C.), senatore gallico, posto sul trono da Genserico, presto deposto, diviene vescovo di Piacenza. 457-461 d.C.
MAGGIORIANO Giulio Valerio Maggioriano (405-461 d.C.), generale, nominato imperatore dal barbaro Ricimero, poi da lui ucciso.
OLIBRIO Olibrio (?-472 d.C.), della famiglia degli Anicii, nominato da Ricimero, rimane sul trono solo pochi mesi. 473-474 d.C.
GLICERIO Glicerio, nominato dal burgundo Gundobado, non riconosciuto in Oriente. Sconfitto da Giulio Nepote, diviene vescovo di Salona. 474-475 d.C
GIULIO NEPOTE Giulio Nepote, nominato da Oreste, generale di origine illirica, poi da lui deposto a favore del figlio Romolo Augustolo. 475-476 d.C.
ROMOLO AUGUSTOLO Romolo Augustolo, figlio di Oreste, viene deposto da Odoacre, generale sciro che diviene rex gentium in Italia e patricius dell’imperatore d’Oriente. La sua deposizione segna la fine dell’impero d’Occidente.
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MONOGRAFIE
n. 22 dicembre 2017 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Maria Baiocchi è scrittrice e traduttrice. Giorgio Bejor è professore ordinario di archeologia classica all’Università degli Studi di Milano. Andrea Giardina è direttore del Laboratorio di Storia, Archeologia, Epigrafia, Tradizione dell’antico della Scuola Normale Superiore di Pisa. Anna Maria Liberati è stata responsabile delle Collezioni del Museo della Civiltà Romana, Roma. Anna Maria Ramieri († 2013) è stata funzionario archeologo della Sovraintendenza Capitolina del Comune di Roma. Enrico Silverio è cultore di istituzioni di diritto romano e di diritto romano presso la LUMSA, sede di Palermo, Dipartimento di Giurisprudenza. Giovanna Quattrocchi è giornalista. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 14/15, 21 (alto), 30-31, 32, 32/33, 34 (sinistra), 46/47, 51, 52/53, 60-67, 80, 82-83, 90/91, 92-95, 112, 115-117 – Doc. red.: pp. 7-11, 20, 21 (basso), 23, 28-29, 35, 50, 53, 54-57, 68/69, 71, 84, 104, 118-121, 124-128 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 12, 13 (basso), 24, 26, 4243, 72 (alto), 74/75, 79, 88, 91, 98 (alto), 102-103, 105, 106/107, 122; Leemage: pp. 16-19, 22, 25, 27, 34 (destra), 36 (alto), 48/49, 73, 100-101, 109; Album: pp. 36 (basso), 76/77, 78, 81, 98 (basso), 99; Musei Vaticani: pp. 37, 40; Electa/Sergio Anelli: pp. 38/39; Electa/Luigi Spina: p. 41; su concessione MiBACT: pp. 58-59, 72 (basso); AGE: p. 108 – DeA Picture Library: pp. 13 (alto), 74, 96; A. De Gregorio: pp. 87, 123; G. Dagli Orti: pp. 97, 111; A. Dagli Orti: p. 110 – Progetto Katatexilux, Amelia: p. 33 – GlénatEdizioni BD/Gilles Chaillet: pp. 44/45 – Studio Inklink, Firenze: disegno alle pp. 70/71 – Bridgeman Images: p. 114 – Cippigraphix: cartine alle pp. 89, 113. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: particolare della statua che ritrae l’imperatore Augusto proveniente dalla Villa di Livia a Prima Porta. Inizi del I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
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