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A Tavola con gli
Antichi
Bimestrale - My Way Media Srl
archeo monografie
monografie
€ 6,90 a tavola con gli antichi
N°4-2014
Viaggio nella storia dell’alimentazione dalle origini al Rinascimento ♦ Il primo chef della storia ♦ La mensa del faraone ♦ A banchetto con Greci, Etruschi e Romani ♦ Tutte le pietanze afrodisiache ♦ Il vino, la birra, l’olio
A Tavola con gli
Antichi
di Carlo Casi con la collaborazione di Luciano Frazzoni, Manuela Paganelli e Germana Vatta
6. preistoria
Quando l’uomo si fece cuoco
14. egitto
I doni del Nilo
22. grecia
Omero e i sofisti del banchetto
30. etruria
Schiavi del ventre in terra d’Etruria
38. roma
L’impero dei 10 ingredienti
46. medioevo
Tutti i colori dell’età di Mezzo
54. rinascimento
Questi piatti sono opere d’arte!
62. liquidi e bevande
Nettari divini e sapori esotici
72. 101 ricette da non perdere
Preistoria
Disegno che ricostruisce una scena di vita quotidiana tipica del Neolitico, che con l’avvento della pastorizia segnò una svolta «rivoluzionaria» nella storia dell’uomo.
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Quando l’uomo si fece cuoco È impossibile fissare il momento in cui il cibo divenne un «piacere», oltre che una «necessità». sicuramente, come potremo leggere nelle pagine che seguono, le piú antiche sperimentazioni culinarie risalgono a epoche molto remote. la «scoperta» della bollitura, per esempio, o l’introduzione di diete variegate sono appannaggio di uomini vissuti centinaia di migliaia d’anni fa...
I
l «primo cuoco del mondo» non lo troviamo nel ristorante piú esclusivo di New York, né lo ammiriamo nel programma televisivo piú gettonato del momento, tantomeno lo incontriamo indaffarato ai fornelli dell’agriturismo toscano piú alla moda. Infatti, il «primo cuoco del mondo» è, probabilmente, Homo erectus (specie che fa la sua comparsa intorno a 1,9 milioni di anni fa). Le tracce piú remote della sua attività culinaria si trovano forse nelle grotte africane, dove possiamo immaginarlo occupato a interporre tra l’azione del procurarsi il cibo e quella del mangiare, un atto carico di conseguenze: cuocere il suo frugale pasto. Molto tempo era passato da quando i primi Ominidi (apparsi 5 milioni di anni fa) si cibavano di semi, bacche e frutti carnosi, quelli cioè piú facilmente digeribili, integrandoli con quanto, del mondo animale, era facilmente accessibile: insetti, uova, vermi e larve, formiche o il dolce miele. E molto tempo era passato anche da quando Homo habilis (2,4 milioni di anni fa), dalle forti mascelle (anche se è proprio con il genere Homo che si assiste, a causa di modificazioni genetiche, alla riduzione dell’apparato masticatorio che consente l’aumento del volume del cervello) e dai denti dallo smalto spesso, utilizzava i primi utensili in pietra per scarnificare prima piccoli animali, alcuni già morti, per passare poi alle prede di maggiori dimensioni. Di queste spezzava le ossa lunghe
per estrarre il piú prelibato midollo, e consumarne la carne sí, ma cruda, come dimostrano i tagli visibili sulla superficie di ossa di gazzelle e di altri piccoli e medi ungulati rinvenuti in Kenya, e risalenti a contesti di 2 milioni di anni fa, ritenuti la testimonianza piú antica del consumo di carne non piú occasionale da parte di Homo.
I padroni del fuoco Per indagare un tema cosí incredibilmente cruciale per la storia dell’evoluzione umana, quello relativo alla pratica della cottura del cibo da parte di Homo erectus, occorrono tecnologie sempre piú specializzate, in grado di dimostrare con assoluta certezza che gli «indizi» raccolti dai paleoantropologi – quali le tracce di fuoco rinvenute in associazione a resti umani, animali, o a strumenti litici (dal momento che Homo erectus è ormai in grado di costruire asce e altri strumenti dalle lame sottili e assai taglienti) – appartengono a una «cucina preistorica» e non sono il frutto di eventi causati dall’intervento di agenti naturali. Si deve infatti poter escludere che i reperti combusti non consistano, per esempio, in carboni trasportati all’interno dall’acqua o dal vento successivamente all’utilizzo del riparo da parte di Homo erectus; o che gli stessi reperti non derivino da incendi della boscaglia prossima alla caverna. A oggi i piú antichi ritrovamenti che attestano il
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PREISTORIA
Disegno nel quale si immaginano uomini del Paleolitico intenti a dipingere figure di animali sulle pareti di una caverna. Recenti studi hanno portato a ipotizzare che, in realtà, simili pitture fossero opera delle donne e venissero realizzate per auspicare il buon esito delle battute di caccia.
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controllo del fuoco da parte dell’uomo, e che lasciano ipotizzare un suo utilizzo come strumento di cottura del cibo, rimandano addirittura a 1 milione di anni fa e provengono dalla Grotta di Wonderwerk, in Sudafrica. Qui è stato scoperto un deposito stratigrafico di eccezionale importanza: all’interno di uno strato di cenere rinvenuto in situ, sono state trovate ossa di animali combuste a temperature calcolate tra i 400 e i 700 gradi. Le analisi, realizzate con spettroscopio all’infrarosso (uno strumento che consente di rilevare le anomalie chimiche dovute alla combustione) stabiliscono che i resti dei fuochi sono in giacitura primaria e che le ossa di animali rinvenute nella cenere sono state alterate dal calore; resta da confermare se siano state cotte prima del consumo, o se invece siano state gettate nel focolare dopo
aver mangiato le parti molli. E non è questione da poco. La cottura della carne e dei vegetali infatti, non solo rendeva piú gradevole al palato i cibi ma, soprattutto, li rendeva piú facilmente masticabili e digeribili, e, mentre ne aumentava l’apporto proteico, contemporaneamente consentiva al corpo umano di impiegare per la digestione meno energia, mettendola a disposizione per sviluppare altre funzioni.
Fu vero cannibalismo? Tecnologie sempre piú sofisticate e un approccio multidisciplinare consentono oggi di analizzare i resti dei nostri progenitori in maniera cosí approfondita da trarne risultati a volte sorprendenti. È il caso delle analisi genetiche che hanno dimostrato come circa 800 000 anni fa l’Homo antecessor (apparso 1,3 milioni anni fa), insediato presso la Gran Dolina de la Sierra de Atapuerca (Spagna), fosse dedito al cannibalismo, nonostante la discreta disponibilità e varietà di altro cibo. Il deposito analizzato ha restituito ossa appartenenti a undici giovani individui che furono decapitati, scarnificati e smembrati per estrarre dalle ossa il midollo e il cervello. E che tale pratica non fosse un’emergenza dovuta a carestia di altro cibo sarebbe dimostrato dalla presenza, in associazione con i resti umani, di ossa di bisonti, cervi e pecore selvatiche. D’altra parte, secondo gli studiosi, è impossibile pensare che gli undici individui siano stati oggetto di preda da parte di animali (non si deve infatti dimenticare che, i nostri predecessori dovevano lottare per conquistare e sottrarre le prede non solo agli altri uomini, ma anche ad altri pericolosi carnivori). Una seconda testimonianza della pratica del cannibalismo viene anch’essa dalla Spagna, ma è assai piú recente e rimanda a Homo neanderthalensis (apparso 200 000 anni fa). Le ultime ricerche sul genoma (il «bagaglio» genetico) del gruppo familiare di Neandertal hanno consentito di stabilire che i resti degli individui rinvenuti nel sito preistorico di El Sidrón furono preda di cannibali che li uccisero per mangiarne carne e parti molle interne. Il gruppo familiare era formato da tre donne e altrettanti uomini adulti, da tre ragazzi dell’età
Replica di una delle pitture della Grotta di Lascaux (Dordogna, Francia) raffigurante un bisonte. Saint-Germain-enLaye, Musée d’Archéologie nationale.
compresa tra i 12 e i 15 anni e tre bambini dai 2 ai 9 anni. In questo caso le ossa umane non sono associate a resti animali e ciò lascia ipotizzare che il ricorso al cannibalismo sia stato dettato da una grave criticità di reperimento di altro genere di cibo.
Gli enigmi dell’arte parietale Quanto fosse importante la caccia e atteso il suo risultato lo dimostrano le raffigurazioni di leoni, mammut, bisonti, rinoceronti, orsi, uri (un bovino estinto), cavalli, cervi, cinghiali e capre in quello che possiamo definire un «bestiario della preistoria», dipinto o graffito sulle pareti di grotte di cui El Castillo (40 000 anni fa) e Altamira in Spagna (35-13 000 anni fa), e Chauvet-Pont-d’Arc (31 000 anni fa) e Lascaux (32-17 000 anni fa) in Francia, rappresentano gli esempi piú emozionanti. Chi abbia dipinto queste scene (è recente la discussa attribuzione all’Uomo di Neandertal) e perché lo abbia fatto è oggetto di discussione animata tra i ricercatori. Basandosi sulla misurazione delle impronte e sul rapporto tra la lunghezza delle dita e in particolare tra indice e anulare, ritiene plausibile che fossero le donne, forse sciamane, le autrici delle figure riprodotte per evocare un controllo sull’animale durante la caccia, facendone propria l’immagine e imprigionandola prima ancora che avvenisse la cattura della preda. In attesa che la battuta di caccia desse i suoi frutti, è assai probabile che i nostri predecessori attingessero a tutt’altro tipo di riserve alimentari, quelle offerte dalla «raccolta animale» e dal mondo vegetale. È ormai accertato che già l’Uomo di Neandertal avesse una dieta assai variata, e questo a
partire dalla prima infanzia. Le moderne teorie circa l’allattamento al seno consigliano di avviare lo svezzamento a partire dal settimo mese di vita, quando si fa necessaria un’integrazione con alimenti solidi. È quanto facevano istintivamente gli uomini della preistoria, per i quali lo svezzamento precoce comportava anche una maggiore possibilità di sopravvivenza del gruppo familiare consentendo intervalli piú brevi tra le nascite. Recenti studi hanno analizzato il livello di bario presente sul dente fossile appartenuto a un giovane individuo di Neandertal. Essendo il bario l’elemento chimico che indica l’assunzione del latte materno, si è potuto costatare che per i primi sei mesi di vita il bambino era stato nutrito esclusivamente con il latte materno, mentre dal settimo mese la sua alimentazione era stata integrata con altri alimenti fino ai 14 mesi, quando l’allattamento al seno fu definitivamente interrotto.
Il «palato fine» dei Neandertal Grazie a un metodo innovativo che applica la scansione tridimensionale ai reperti fossili, è stato analizzato il molare di un uomo di Neandertal vissuto tra i 44 000 e i 38 000 anni fa, conservato presso il Museo della Moravia di Brno (Repubblica Ceca), rilevandone le caratteristiche morfologiche dovute ai movimenti mandibolari influenzati dalle proprietà del cibo masticato. Dal confronto con reperti simili appartenenti a uomini di altre culture, si evince che l’Uomo di Neandertal aveva una dieta influenzata dall’ambiente e dal clima, ma comunque piú variata di quanto comunemente immaginato.
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PREISTORIA
Se per i Neandertal vissuti durante il periodo delle glaciazioni nelle regioni europee settentrionali la carne era pressappoco l’unico alimento reperibile, in un periodo piú recente e con un clima piú caldo, troviamo nella loro dieta anche cereali, legumi e frutta. Non solo: quella che a lungo è stata ritenuta una delle prove della «modernità» dei comportamenti umani propri di Homo sapiens, ossia lo sfruttamento delle risorse alimentari ittiche, appare ora di dominio anche degli Uomini di Neandertal. Studi recenti hanno analizzato i depositi archeologici del livello Bj19, risalenti a 150 000 anni fa rinvenuti nella Grotta di Bajondillo (Spagna).
Frutti di mare e cibi bolliti Gli uomini che frequentavano all’epoca il riparo, oltre a cibarsi di stambecchi, cervi, conigli e uri, mangiavano anche i molluschi, in particolare il Mytilus galloprovincialis, comunemente chiamato «cozza» o «peocio», che potevano raccogliere durante le basse maree sugli scogli o nei fondali sabbiosi che si aprivano 15 m al di sotto del livello della grotta. Inoltre, gli utensili rinvenuti dimostrano che a questi uomini non mancavano le capacità tecniche necessarie a procurarsi il cibo. Alcuni studiosi ritengono che essi fossero in grado non solo di arrostire il cibo, ma anche di bollirlo, utilizzando un sistema a lungo apprezzato, per esempio, presso i nativi americani, che usavano gettare nell’acqua alcune pietre riscaldate sulle braci facendo alzare la temperatura fino all’ebollizione, mantenuta con il costante ricambio di pietre calde. Non fu dunque un’immaginaria incapacità a procurarsi il cibo, né una dieta prettamente carnivora a causare l’estinzione dell’Uomo di Neandertal. Una ricerca internazionale svolta da un team di scienziati provenienti da numerose istituzioni svedesi, danesi, spagnole e americane rivela che solo un gruppo ristretto di Neandertaliani sopravvisse all’ultima glaciazione iniziata circa 70 000 anni fa, facendo sí che all’arrivo dell’Homo sapiens (apparso in Africa 200 000 anni fa), giunto in Europa intorno a 45 000 anni fa, le femmine di Neandertal in tutta l’area
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le prime specie domesticate
Nord America Carciofo Mirtillo
Girasole Tabacco
Mesoamerica Fagiolo Peperoncino Cotone Mais Manioca Patata dolce Taro Cane Tacchino
Altopiano Andino Papaya Patata Zucca Pomodoro Porcellino d’India Alpaca Lama
Brasile orientale Fagiolo Noce brasiliana Cacao
euroasiatica raggiungessero al massimo le 5000 unità, troppo poche per far sopravvivere la propria specie.
Da predatore a produttore Ma lo scenario che vede la sovrapposizione tra la lotta per la sopravvivenza dei Neandertal e la migrazione di Sapiens dall’Africa all’Europa è assai complesso. A oggi, la piú antica presenza di Homo sapiens in Europa è stata registrata nella Baia di Uluzzo, in Puglia e risale a 45 000 anni fa, dato acquisito tramite la microtomografia computerizzata e la datazione al radiocarbonio di due molari rinvenuti nella Grotta del Cavallo di Uluzzo negli anni Sessanta del Novecento. A partire da 45 000 anni fa ha inizio, dunque, la storia che ci appartiene,
Arachide Ananas Taro Tabacco
In alto cartina nella quale sono indicate le principali specie vegetali e animali addomesticate dall’uomo nel corso del Neolitico.
Asia sud-occidentale Fagiolo Pisello Orzo
Grano Rapa Carota
Alberi da frutto Vite Canapa
Melone Cipolla Avena
Bovini Maiale Cavallo
Segale Palma da dattero Pecore e capre
Cammello battriano (a due gobbe)
bacino Mediterraneo Capre Uva Lenticchia Lattuga Olivo
Orzo Bovini Sedano Dattero Aglio
Cina settentrionale e centrale Orzo Grano saraceno
Albicocco Pesco Cavolo
Soia Pruno
Asia meridionale e sud-orientale Africa Occidentale Marantacee (fecola) Zucca Melone Miglio Palma da olio Riso Igname Maiale
Africa Orientale Orzo Caffè Cotone Miglio Gombo (Okra)
quella della specie Sapiens nel continente europeo. Homo sapiens, anche denominato «Uomo anatomicamente moderno», aveva ereditato e assimilato dai suoi predecessori un bagaglio di comportamenti alimentari composito e ben radicato: il suo corpo necessitava ormai di una dieta variata (carne, pesce, cereali, legumi, vegetali, frutti) e le sue capacità intellettive aumentate lo avevano portato a costruire utensili assai funzionali. Facendo ricorso all’avorio, al corno, alle ossa e alla selce,
Sorgo Grano Asino Dromedario
Macina e macinello utilizzati per la produzione della farina. Età neolitica. Saint-Germain-enLaye, Musée d’Archéologie nationale.
Riso Banano Albero del Pane Cetriolo Cocomero Noce di cocco Melanzana Canapa Cotone Lattuga
Lenticchia Taro Tè Igname Gallina Cane Anatre e oche Maiale Zebú Bufalo
Homo sapiens realizza punte di freccia e arpioni per catturare le prede, raschiatoi per scarnificare le carcasse, scalpelli per incidere e altri oggetti per preparare e tagliare ogni sorta di cibo a sua disposizione. Nel suo lungo cammino, l’uomo anatomicamente moderno ha intrapreso la migrazione dall’Africa agli altri continenti, si è confrontato (e, secondo alcune recenti teorie anche incrociato) con Homo neanderthalensis, si è adattato ai grandi cambiamenti climatici e alle diverse disponibilità di prede e cibo che questi cambiamenti dettavano. In Europa occidentale e nella nostra penisola,
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PREISTORIA
l’innalzamento della temperatura e il ritiro dei ghiacciai avvenuto a partire da 13 000 anni fa, determinarono a lungo andare l’abbandono della vita nomade che derivava dall’inseguimento delle mandrie di grandi mammiferi: qui, Homo Sapiens si diede alla caccia della selvaggina stanziale, di piú piccola taglia (cervi, stambecchi, daini e cinghiali) e alla raccolta di frutti e piante spontanee (l’oleastro, l’uva e le leguminose selvatiche, le nocciole, le ghiande, i corbezzoli). C’è però un nodo cruciale lungo questo cammino, tanto carico di conseguenze da far coniare a un celebre paletnologo inglese d’origine australiana, Vere Gordon Childe (1892-1957), la definizione di «Rivoluzione neolitica»: a partire da 10-8000 anni fa, nel Vicino Oriente si verificano le condizioni per il passaggio dalla vita nomade dei
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cacciatori-raccoglitori alla vita stanziale dei primi agricoltori, intenti alla produzione di cibo attraverso lo sfruttamento di specie vegetali e animali ormai addomesticate (orzo, frumento, legumi quali i ceci, i piselli, le lenticchie e le fave; capre, pecore, bovini e suini). Lentamente, le risorse protagoniste di questa «rivoluzione» vicino-orientale si diffusero, trasformando la società, l’«economia» e il paesaggio anche in Europa.
Il lungo viaggio del DNA Un interessante «progetto globale», il Genographic Project, utilizza tecnologie genetiche e computazionali per indagare le dinamiche di popolamento del continente europeo durante questo momento cruciale. E il dato è assai sorprendente, perché, proprio in contemporanea con il diffondersi delle nuove pratiche di addomesticamento di piante e animali, le popolazioni dell’Europa centrale rinnovano costantemente il proprio DNA, prova, questa, di una serie di «ondate» di flussi migratori che hanno finito per costituire il corredo genetico degli europei moderni. Andando ancor piú nel dettaglio: il DNA degli agricoltori sepolti intorno a 8000 anni fa nella necropoli di Derenburg, in Germania, è stato analizzato e ha rivelato similitudini spiccate con popolazioni provenienti dal Vicino Oriente (odierni Turchia e Iraq), mentre non vi è alcun rapporto con i cacciatori nomadi già presenti nel Centro Europa. In questo modo, tra il V e il III millennio a.C., nell’intero continente europeo si è ormai verificata quella che gli studiosi chiamano «neolitizzazione secondaria» che, rispetto alle caratteristiche della prima fase, quella del Vicino Oriente, presenta caratteristiche specifiche. Nel tempo il grano, la vite e l’olivo vengono utilizzati per la produzione dei loro derivati (farine, vino, olio); si sviluppa l’orticoltura; l’allevamento di alcuni animali viene sfruttato a fini diversi (le pecore vengono ora utilizzate principalmente come animali da lana); si realizzano i primi formaggi (è il dato che risulta da un recente studio che ha analizzato alcune ceramiche rinvenute in Polonia e risalenti a 7000 anni fa, trovando
In alto un’immagine dell’Uomo del Similaun, scattata durante il suo recupero. Il corpo mummificato fu scoperto casualmente, nel 1991, da una coppia di escursionisti, sul Tisenjoch (passo di Tisa), nelle Alpi Venoste: sistema che sul versante austriaco assume la denominazione di Ötztaler Alpen, da cui il nomignolo Ötzi. Dalle analisi dei resti di cibo contenuti nello stomaco, si è scoperto che, prima di morire, Ötzi si era nutrito di una focaccia di cereali o di un pezzo di pane, di verdura e carne. Nella pagina accanto ipotesi ricostruttiva dell’aspetto e dell’abbigliamento di Ötzi, vissuto durante l’età del Rame. Bolzano, Museo Archeologico dell’Alto Adige.
tracce di acidi grassi provenienti dalla lavorazione del latte); si introducono l’aratro a trazione animale, la slitta da trebbiatura, la macina; si affinano le tecniche di irrigazione.
Gli ultimi pasti dell’Uomo del Similaun E proprio l’età del Rame ci ha restituito una delle maggiori scoperte scientifiche degli ultimi decenni: la mummia del Similaun, conservata oggi nell’imperdibile Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano. Di Ötzi conosciamo ogni giorno un dettaglio in piú, anche se ancora molte sono le domande senza risposta: sappiamo di che colore erano i suoi occhi e i suoi capelli; sappiamo che era predisposto a malattie cardiache e che soffriva di disturbi alle gengive; sappiamo che si ruppe un dente a causa di un sasso, forse un detrito della pietra con cui era stata macinata la farina utilizzata per il pane che aveva mangiato di gusto; sappiamo quanti tatuaggi aveva sul suo corpo e come erano stati realizzati; sappiamo come era vestito e attrezzato nella primavera di 5300 anni fa, in cui trovò la morte per mano di un assassino che lo colse alle spalle e che dopo avergli conficcato una freccia nella scapola, ingaggiò con Ötzi una lotta facendolo barcollare, cadere e sbattere la testa causandogli il trauma cranico che gli fu fatale. Ma ancor piú sorprendente è che, grazie agli eventi metereologici che si sono verificati immediatamente dopo la sua morte e che hanno fatto sí che il corpo si conservasse in condizioni ottimali, gli scienziati sono giunti a scoprire cosa mangiò Ötzi non solo 2 ore prima di morire (parte del cibo era solo parzialmente digerito), ma anche nei due pasti precedenti.
Nei suoi ultimi istanti di vita, quest’uomo aveva assaporato, senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta, una focaccia o un tozzo di pane (mangiava spesso cereali quali orzo e farro), un po’ di verdura, un pezzo di carne di stambecco (sicuramente piú fresca di quella di cervo – con verme! – che aveva mangiato nel corso del penultimo pasto); aveva bevuto un estratto di foglie di felce o forse le aveva utilizzate come colino per filtrare una bevanda, fatto è che nel suo stomaco sono state trovate numerose spore di questa pianta (altamente cancerogene per l’uomo). Ötzi mangiava spesso la carne, e questo aveva comportato la formazione di calcoli biliari, ed era intollerante al lattosio; inoltre possiamo essere sicuri che non fosse tipo da preoccuparsi se una mosca si posava sul cibo… mangiava tutto! Chissà se Ötzi avrebbe apprezzato tutti i prodotti che si diffusero nelle epoche successive alla sua. Durante l’età del Bronzo e nel corso dell’età del Ferro in Europa occidentale le coltivazioni si completano con la segale, il miglio, i ceci e altri cereali e legumi che troviamo ancora oggi sulla nostra tavola. Assai piú lentamente si diffuse invece l’allevamento del pollame mentre la caccia, che per lungo tempo era stata un mezzo di sostentamento, divenne un segno distintivo dei gruppi emergenti. La nuova economia basata sull’agricoltura e l’allevamento fu portatrice di nuove dinamiche sociali e trasformò il cibo in uno strumento allo stesso tempo aggregante e marcatore di distinzione dei singoli all’interno del gruppo. E, come tale, il cibo fu utilizzato sempre piú consapevolmente come veicolo di comando, di conoscenza e di piacere.
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Egitto
Autore Autore
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Sulle due pagine sequiam, omnis ium hilluptae premquo totaten imoditate ped maio earum que doluptatisit fugia niminulpa nest, quia cus, nus nost quas arum voluptat aut modi dolorepe
corundae iditam etur aperum quaesequo ium alibus sani berumet harum denimeniet, arum eos idus re proribus dolorer spitis iusam rerum im lant porporenet venitem quam qui dita
I doni del Nilo efficaci quanto un trattato e certamente piú suggestive di un testo scritto, le numerose pitture legate alla produzione e al consumo dei cibi ci hanno restituito una «fotografia» straordinariamente dettagliata dell’alimentazione nell’antico egitto. nel paese dei faraoni, soprattutto fra le classi piú elevate, la dieta era ricca e variata e vino e birra non mancavano di innaffiare le pietanze
P
oche civiltà antiche appagano la nostra vista e solleticano il nostro gusto e il nostro olfatto come quella egiziana. Che siano reperti esposti nelle vetrine dei musei quali i cibi nei loro contenitori, i bouquet e le ghirlande di fiori intrecciate con sapienza, le parrucche ancora intrise di essenze profumate; o che siano le vivide immagini di caccia, di panificazione e di vendemmia dipinte sulle pareti delle dimore eterne dei defunti, in entrambi i casi l’antico Egitto coinvolge oggi i nostri sensi alla scoperta di un mondo raffinato, anche per il… palato. La maggior parte delle fonti materiali o iconografiche a nostra disposizione consente di indagare il tema dell’alimentazione degli antichi Egiziani da un punto di vista doppiamente alterato, in quanto osservato attraverso la «lente d’ingrandimento» del rituale funerario che tutto ingigantiva, nella qualità e quantità degli oggetti disposti accanto al defunto per garantirgli un degno viaggio e la sussistenza nell’aldilà; oltremodo distorto poiché si tratta in prevalenza di defunti che in vita si collocavano all’apice della scala sociale, essendo perlopiú faraoni, membri delle famiglie reali, alti dignitari di Stato. Per cogliere piú da vicino l’articolato tema della cucina nell’antico Egitto occorrerà quindi fare riferimento anche a quelle fonti che gettano luce sulla vita degli strati piú bassi della
Sheikh Abd el-Qurna, tomba di Nakht. Particolare di una pittura murale con uomini che portano frutta, cacciagione e altri alimenti, destinati al defunto per la vita nell’aldilà. Fine del regno di Thutmosi IV (1397-1387 a.C.)-inizi del regno di Amenofi III (1387-1348 a.C.).
società, di cui facevano parte i contadini, gli artigiani al servizio dello Stato e gli schiavi. Nel 1906 Ernesto Schiaparelli (1856-1928), durante le indagini archeologiche della necropoli a nord del sito di Deir el-Medina (presso Luxor, antica Tebe) si imbatté nella tomba denominata TT8 (la sigla TT sta appunto per Theban Tomb, n.d.r.). Entrando, l’archeologo si trovò proiettato all’epoca dei faraoni Amenofi II (1424-1398 a.C.) e Amenofi III (1387-1348 a.C.), presso i quali il proprietario della tomba, Kha, aveva svolto le funzioni di architetto e di scriba.
Le offerte di Kha e Merit Il sepolcro di Kha e di sua moglie Merit è ora uno dei piú interessanti contesti esposti nelle rinnovate sale del Museo Egizio di Torino. Al momento della scoperta, tutto appariva come se gli sposi fossero stati appena deposti nell’ultima dimora. Oltre ai sarcofagi della coppia, al mobilio, alla biancheria, agli strumenti di lavoro di Kha e agli oggetti personali di Merit, il corredo comprendeva composizioni di fiori ormai essiccati, la parrucca (di veri capelli) che la donna usava nelle occasioni piú importanti (e che reca ancora traccia dell’uso di disporvi un cono di grasso animale mescolato a essenze profumate che, sciogliendosi lentamente, emanava un gradevole profumo rendendo piú elegante l’acconciatura) e numerosi cibi adagiati nei loro contenitori con i quali si voleva assicurare la sopravvivenza spirituale di Kha e di Merit, a partire dal pane. Quest’ultimo era considerato l’alimento base della dieta
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EGITTO
egiziana, tanto che, ancora nel secolo V a.C., lo storico e geografo greco Ecateo di Mileto definiva gli Egiziani «mangiatori di pane». Il pane veniva preparato perlopiú con farina di farro, talvolta di orzo, impastata con acqua e lievitata utilizzando residui di pasta fermentata da almeno un giorno: nella tomba di Kha e Merit si presenta con fogge diverse e dimensioni variabili, secondo un uso ampiamente attestato dai ritrovamenti e dalle immagini di panificazione dipinte, scolpite o modellate che mostrano pani rotondi, conici o a ciambella, ovoidali o triangolari o, per i bambini, a forma di pupazzi.
Dieta vegetariana Principale fonte di approvvigionamento nell’antico Egitto erano i frutti della terra: Kha e Merit potevano contare, per la loro sopravvivenza nell’aldilà, su sementi e farine (il grano, frumento-Swt, orzo-It e farro-Bdt erano le principali fonti di nutrimento ed erano consumati sotto forma di zuppe, farinate, oppure tostati e frantumati), ortaggi e verdure, abitualmente consumati sotto forma di minestre, stufati o molto piú semplicemente gustati crudi con l’eventuale aggiunta di condimenti oleosi e spezie. Una dieta
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vegetariana che potrebbe essere gradita anche a commensali moderni, eppure la testimonianza di un altro storico greco, Diodoro Siculo (vissuto tra l’80 e il 20 a.C.), sull’alimentazione dei fanciulli, in Egitto ci sorprende. Nella sua Bibliotheca historica, Diodoro afferma che gli Egizani spendono non piú di dieci dramme per sfamare i figli poiché «non danno loro da mangiare se non cose fatte di vile sostanza e facilissime da prepararsi, e le punte molli del papiro arrostite sotto la cenere, e le radici, e i fusti di piante palustri, ora crude, ora lesse od arrostite». Tralasciando quanto di polemico possiamo scorgere in questa citazione, certo è che facevano parte dell’alimentazione egiziana anche ingredienti a noi inusuali, quali, per esempio, i rizomi di piante acquatiche come il papiro. Anche Kha e Merit avevano a loro disposizione vegetali: verdure (in Egitto si consumava molta lattuga, alla quale si assegnavano virtú afrodisiache); aglio e cipolle, utilizzati fin dai tempi piú antichi da soli o come condimenti di altre pietanze, e apprezzati anche per le loro proprietà terapeutiche (l’aglio, per esempio, era una pianta sacra, utilizzata come antivirale, stimolante per il sistema circolatorio e respiratorio e, diluito in acqua e aceto, come
Forme di pane rinvenute nella tomba dell’architetto e scriba Kha e di sua moglie Merit. XVIII dinastia, regno di Amenofi II e di Amenofi III, XIV sec. a.C. Torino, Museo Egizio. Il pane, alimento base della dieta egizia, era preparato con farina di farro od orzo, impastata con acqua e lievitata con residui di pasta fermentata.
Un’altra pittura murale della tomba di Nakht raffigurante la spiumatura e la preparazione dei volatili. XVIII dinastia, fine del regno di Thutmosi IV (1397-1387 a.C.)inizi del regno di Amenofi III (1387-1348 a.C.).
colluttorio per i denti e per la gola); frutti di cumino e bacche di ginepro, utilizzati come numerose altre spezie ed erbe aromatiche (in particolare coriandolo, sedano, mirto e timo) per insaporire i cibi, ma delle quali si apprezzavano anche le capacità curative; e datteri che, con uva, fichi, cocomeri e meloni, costituivano i piú abbondanti e golosi frutti della calda stagione estiva. Tra i resti vegetali, vi erano anche alcuni frutti selvatici, come quelli di un arbusto spontaneo molto diffuso in Egitto, lo Zizyphus spina-Christi (comunemente noto come giuggiolo), di cui si consumavano i frutti, simili alle ciliegie. Dal Vicino Oriente arrivarono durante il Nuovo Regno (1510-1070 a.C. circa) anche meli e melograni: questi ultimi trovarono un habitat particolarmente favorevole, e i loro frutti divennero quasi una costante delle offerte funerarie.
Le olive del Fayyum Tra le offerte di cibo non potevano mancare le olive, e trattandosi qui di personaggi di alto rango possiamo immaginare che almeno in vita i due abbiano gradito quelle piú pregiate, raccolte dalle piante coltivate nella regione di Tebe o nelle oasi del Fayyum, che davano un olio sicuramente piú pregiato di quello prodotto nelle altre terre d’Egitto, di cui era noto l’odore sgradevole. Prima ancora che, durante il Nuovo Regno, venisse introdotto dal Vicino Oriente l’ulivo, per condire, friggere e conservare cibi
si utilizzavano altri tipi di olii, dal gusto piú dolce e morbido, ricavati dai semi di sesamo e dalle noci di moringa (olio baq), mentre sembra essere tardo, nonostante la pianta fosse ampiamente coltivata, l’utilizzo di olio di semi di lino. Nella camera funeraria di Kha e Merit furono sistemate anche reticelle che contenevano i semi di palma, utilizzati anche questi per l’estrazione di olio. Il composito corredo di alimenti apprestato per garantire la sopravvivenza dell’architetto e di sua moglie conferma quindi l’importanza dei prodotti della terra nella dieta egizia: i cereali, le leguminose, le verdure e la frutta costituivano gli alimenti piú comuni per l’intera popolazione, che comunque disponeva di altrettanto necessarie risorse alimentari, quelle fornite dal mondo animale: uova, pesce e carne, che garantivano un giusto apporto proteico, ma la cui distribuzione «sociale» non era sicuramente equa. Nella tomba di Kha e Merit non mancano anfore contenenti piccoli volatili che, per essere conservati, venivano aperti, essiccati e messi sotto sale. Dalle piccole quaglie, a volte mangiate anche crude, ai piú saporiti piccioni e dalle anatre catturate nelle paludi alle succulente gru, l’uccellagione consentiva anche alla popolazione piú povera di rifornirsi, con semplici strumenti (lacci, trappole, reti e anche il boomerang!) di carne che veniva consumata preferibilmente arrostita o
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conservata sotto sale. L’allevamento dei volatili, in uso già nell’Antico Regno (2700-2195 a.C. circa), consentiva inoltre di disporre di animali da sottoporre ad alimentazione forzata: era l’amaro destino di gru e di anatre, il cui prelibato grasso era utilizzato anche nella pasticceria. Ma non erano solo i volatili a essere oggetto di caccia: sin dall’Antico Regno, gli artisti egiziani hanno raffigurato scene nelle quali gruppi ben attrezzati di cacciatori sono alle prese con leoni, pantere, antilopi, giraffe e struzzi, oltre che con prede piú usuali quali cervi, tori, capre e volpi. La diffusione dell’allevamento di bovini, ovini e suini, contribuí rapidamente a modificare il ruolo della caccia che divenne sempre piú una pratica elitaria, trasformandosi presto in un divertimento per i soli ranghi alti della società.
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La carne veniva mangiata prevalentemente bollita, ma non tutti gli animali allevati erano destinati alla macellazione: essendo produttrici di latte (utilizzato non solo come bevanda ma anche come liquido di cottura e per la realizzazione di burro e formaggi), le vacche venivano risparmiate, come pure i maiali (il divieto di mangiare carne di maiale pare sia esistito solo in alcune fasi della storia egizia ed era probabilmente osservato solo da alcune fasce della popolazione) e le pecore. Altra importante fonte di nutrimento era il pesce (vedi box a p. 20), fornito in abbondanza dal Nilo e quindi piú economico, tanto da essere presente con maggiore frequenza della carne sulle tavole piú umili, dove era consumato bollito, arrostito o in salamoia. Anche il pesce fu sottoposto a parziali interdizioni alimentari e
Ancora una scena dipinta nella tomba di Nakht raffigurante in questo caso la vendemmia e la pigiatura delle uve in un tino, a destra del quale si riconoscono quattro anfore vinarie. XVIII dinastia, fine del regno di Thutmosi IV (1397-1387 a.C.)inizi del regno di Amenofi III (1387-1348 a.C.).
risulta comunque bandito dalle offerte funerarie; eppure le sue funzioni erano molteplici e talvolta poteva essere considerato un vero e proprio «salvavita»: nel Papiro Ebers, tra formule magiche e indicazioni mediche, si consiglia, per proteggersi dall’attacco dei serpenti, di essiccare bulti (Tilapia Nilotica) e porlo davanti alla tana del serpente che «non sarà in grado di uscire»!
Il vino ai faraoni... Per noi moderni è piú che lecito pensare che tutti questi cibi fossero accompagnati da un buon vino, ma questo, nell’antico Egitto, era invece una bevanda di lusso. Vino-irp, fu prodotto sin dal Periodo Protodinastico (o thinita, 3000-2700 a.C. circa), quello sicuramente piú apprezzato proveniva dai
vigneti del delta del Nilo e delle oasi occidentali, ma non mancavano – ormai nel Nuovo Regno – vini importati dal Vicino Oriente, ancor piú costosi. Le vivaci scene di vendemmia che l’antico Egitto ci ha trasmesso mostrano uomini intenti alla pigiatura che si aiutano attaccandosi a corde per dare maggiore vigore all’azione delle gambe; uomini intenti a torcere il sacco contenente i residui della pigiatura con l’aiuto di bastoni acrobaticamente spinti da un servo che li divarica con l’aiuto di braccia e gambe; uomini intenti a sigillare le anfore sulle quali erano riportati, come nelle moderne etichette dei migliori vini imbottigliati dalle cantine piú famose, il vitigno, la vigna e l’annata. Il vitigno e l’aggiunta di altri ingredienti determinavano il sapore della bevanda rendendolo gradevole ad
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EGITTO
| Pescare nel Nilo | L’importanza del pesce nell’Antico Egitto è ben rilevabile grazie alla frequenza con la quale appaiono scene di pesca nelle decorazioni nelle tombe di privati cittadini dell’Antico Regno (2700-2195 a.C.). Un preciso campionario dei pesci piú popolari è presente in una tomba di Saqqara della metà del III millennio a.C., quella di Ti, dove sono rappresentati piú di 50 tipi diversi di pesce. D’altronde ne conosciamo anche il costo al dettaglio che era pari a quello del pane e quindi abbastanza economico per l’epoca, vista la grande pescosità del Nilo. Il pesce piú apprezzato era sicuramente il lates, del quale vivono due specie che risalgono il fiume sino alla prima Cateratta, sia per le saporite carni sia per le uova, considerate una vera ghiottoneria, tanto da fresche che essiccate. Ma la pesca era considerata già, almeno per le classi elitarie, un piacevole e distensivo passatempo, come ben traspare dalla scena dipinta nella tomba di Nebwenef (1250 a.C.) nella quale l’alto prelato tebano è rappresentato con una canna in mano, in un clima di pace e serenità nel quale trova spazio anche il lento volo di una farfalla. I metodi per pescare erano molto numerosi e si ritrovano ben descritti sulla parete della tomba di Mereruka (2350 a.C.) a Saqqara. Quello piú utilizzato è certamente basato
alcuni palati piuttosto che ad altri. Possiamo immaginare, per esempio, che Tutankhamon (il 12° faraone della XVIII dinastia, salito al trono a soli otto anni e morto poco piú che diciasettenne intorno al 1323 a.C.) non amasse particolarmente il vino «dolce», dato che tra le 26 anfore vinarie deposte all’interno della sua tomba nella Valle dei Re, magnificamente corredata di migliaia di oggetti raffinatissimi, solo quattro segnalavano questa caratteristica. I vini conservati nella tomba di Tutankhamon provenivano da quattro principali vigneti, di proprietà reale: la Casa di Tutankhamon, la Casa di Aton sul Fiume occidentale, la Casa di Aton da Tjel, la Casa di Aton da Karet; e conosciamo anche i nomi di alcuni vignaioli, riportati sulle anfore: May, Kha’y e Sennufe. Una particolare bevanda, presente nel corredo di Tutankhamon con due sole anfore, era contrassegnata con il termine Sheikh Abd el-Qurna, tomba dello scriba e soprintendente Menna. Particolare di una pittura murale raffigurante alcuni pesci. XVIII dinastia, forse databile al regno di Thutmosi IV (1397-1387 a.C.).
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sull’utilizzo di reti che venivano trascinate in acqua da imbarcazioni che compivano un semicerchio tornando a riva, dove altri pescatori si occupavano di ritirarle. Nella tomba di Akhethotep (2500 a.C.), sempre a Saqqara è descritta la scena del recupero della rete nella quale sono rimasti impigliati numerosi pesci, tra i quali si riconoscono un’anguilla, un pesce gatto e un persico, pronti per essere essiccati. Inoltre erano molto utilizzate le trappole consistenti principalmente in nasse e cestini di vimini che venivano alloggiate in acque poco profonde.
shedeh: a lungo si era ritenuto che si trattasse di vino di melograno (in Egitto si produceva inoltre anche il vino di datteri e di fichi), ma recentemente sono stati analizzati in laboratorio i resti rinvenuti sul fondo delle giare giungendo cosí alla conclusione che shedeh è un vino d’uva sottoposto però a cottura. Come dovevano apparire i vigneti di Tutankhamon e degli altri faraoni, lo mostra ancora oggi la splendida decorazione della tomba TT96, anche detta «Tomba delle vigne», nella Valle dei Nobili (Necropoli di Sheikh Abd el-Qurna, presso Luxor). Alcune delle pareti e dei soffitti della tomba mostrano un pergolato sovraccarico di grappoli d’uva, in cui sembra di essere immersi in compagnia dei servitori di Sennefer, l’alto dignitario qui sepolto che, tra la fine del XV e i primi anni del XIV secolo a.C., fu messo a capo della città di Tebe dal faraone Amenofi II. Ma una delle testimonianze piú interessanti sul vino dell’antico Egitto viene dagli scavi del palazzo di Amenofi III a Malkata (presso Luxor), sulla riva occidentale del Nilo, dove numerosi frammenti di anfore vinarie riportano iscrizioni che caratterizzano il vino non solo per la sua provenienza, ma anche per l’uso che se ne faceva: «vino per le tasse», «vino per le offerte», «vino di bentornato», «vino della festa»; o per le sue qualità: «vino miscelato», «vino buono», «vino molto buono»… come a dire che l’«Est! Est! Est!» di Montefiascone non è una novità!
...e la birra al popolo La birra era sicuramente la bevanda piú comune, capace di dissetare, nutrire e curare tutti i ceti dell’antico Egitto! Intorno al 1400 a.C. lo scriba Any elogia la figura della madre componendo un Insegnamento nel quale è ricordata una sequenza di azioni che
Statua raffigurante una donna che prepara la birra. V dinastia (2510-2350 a.C.). Firenze, Museo Egizio.
testimoniano di cosa sia capace di fare l’amore materno: «Raddoppia il pane che ti ha dato tua madre. Portala come ti ha portato; essa portò un grosso peso con te ma non ti lasciò. Quando sei nato dopo i tuoi mesi, essa ti portò in collo, le sue mammelle essendo nella tua bocca per tre anni (…) Ti ha messo a scuola, e ti stava ad aspettare ogni giorno, col panierino della merenda, col pane e la birra portati da casa». Latte materno e birra, dunque, già per i bambini egiziani! Ma si trattava di una bevanda molto diversa dalle birre moderne, sicuramente meno alcolica e piú densa, ritenuta assai nutriente se un bambino, raffigurato in atto di porgere un vaso per avere cibo sulle pareti della tomba del visir Antefoker a Tebe (TT60), chiede «Dammi un po’ di birra, poiché ho fame»; e se gli operai , gli artisti e altri professionisti che vivevano nel villaggio di Deir el-Medina (presso Luxor), impegnati nella costruzione delle tombe dei faraoni del Nuovo Regno venivano retribuiti con razioni alimentari: curiosamente un operaio riceveva mensilmente, oltre a pesce, olio e verdure, 3 khar (circa 225 l) di farro per la preparazione del pane e 4 khar (300 l) di orzo per la preparazione della birra, un medico riceveva appena ¼ di tali razioni, forse però a integrazione di un salario maggiore che poteva variare anche in considerazione dello stato sociale del paziente! Numerose scene dipinte e raffigurazioni modellate mostrano le fasi di lavorazione della birra, partendo da un procedimento del tutto analogo a quello della panificazione che vedeva preparare e cuocere solo parzialmente dei pani, generalmente di orzo: la fermentazione era favorita dalla mancata cottura dell’interno dei pani che venivano poi spezzati, sbriciolati e nuovamente impastati con un liquido aromatizzante estratto dai datteri. Lasciato a riposo per il tempo necessario alla giusta fermentazione, il liquido veniva filtrato e finalmente versato nelle giare pronto per raggiungere le mense!
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Grecia
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Sulle due pagine sequiam, omnis ium hilluptae premquo totaten imoditate ped maio earum que doluptatisit fugia niminulpa nest, quia cus, nus nost quas arum voluptat aut modi dolorepe
corundae iditam etur aperum quaesequo ium alibus sani berumet harum denimeniet, arum eos idus re proribus dolorer spitis iusam rerum im lant porporenet venitem quam qui dita
Omero e i sofisti del banchetto dal sobrio desinare degli eroi omerici alle sfrenatezze dell’età ellenistica, i greci associarono al banchetto e al simposio valori sociali e ideologici ben precisi. che, non a caso, furono a piú riprese descritti e variamente commentati anche da filosofi e letterati
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anchetti, cibo e vino sono temi cari a Platone, Senofonte, Plutarco, Luciano, e dal V secolo a.C. al II d.C. la produzione letteraria eno-gastronomica è proliferata fino ad annoverare una quindicina di saggi e libri di cucina, andati, purtroppo, tutti perduti, a eccezione di pochi brani, tra cui anche l’opera in versi Hedyphagetica, composta dal famoso gastronomo dell’antichità, Archestrato di Gela. Tuttavia e per nostra fortuna, di quel patrimonio si ricorda l’esistenza e si ha traccia grazie a I Deipnosofisti (I sofisti a banchetto), una raccolta antologica composta da Ateneo, tra la fine del II e il III secolo d.C., nella quale si traccia la storia dell’alimentazione greca, dall’epoca di Omero in poi, con particolare riguardo agli alimenti, alla gastronomia, ma anche alle usanze conviviali delle genti allora conosciute che popolavano il bacino del Mediterraneo. Numerose sono anche le citazioni sull’alimentazione che possiamo ricavare dagli autori comici, in particolare Aristofane, che consentono di delineare un quadro ricco e articolato sull’argomento. Piú scientifico è l’approccio di Ippocrate, vissuto alla fine del V secolo a.C., autore de Il Regime; a fondamento della gastronomia greca vi è la dietetica, la scienza che regola l’alimentazione cosí da provvedere alle esigenze nutrizionali degli uomini in modo salutare, assumendo le vesti di medicina preventiva, che corregge e
Particolare di una scena di banchetto dipinta su un cratere a figure nere di produzione corinzia. 590-575 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
sopperisce a eventuali carenze o eccessi dell’organismo, riportandolo al giusto equilibrio. Qui entra in gioco la cucina, che con i suoi artifizi, le sue tecniche di preparazione e con le combinazioni degli alimenti, dà origine a cibi piú o meno complessi, che assumono maggior valore se sono buoni e benefici. Le informazioni desunte dalle fonti letterarie, integrate ai dati offerti dall’archeologia (vasellame da mensa, da cucina e da dispensa, ecc.) e alle testimonianze iconografiche (pitture vascolari, statuine fittili, stele funerarie, ecc.), consentono di ricostruire un quadro dettagliato e sfaccettato dell’antica cucina greca. Le abitudini alimentari, i tipi di cottura e il modo in cui si consumavano i pasti sono fattori che si connotano di valori sociali indicativi della differenza tra mondo civilizzato e mondo delle bestie e dei barbari, uomini che per i Greci si differenziano di poco dagli animali.
Mangiare (e vivere) insieme Nella frase di Plutarco «Noi non ci sediamo a tavola per mangiare, ma per mangiare insieme», è insita tutta la concezione che i Greci avevano del mangiare, visto come momento importante per la collettività, che prescinde dal semplice alimentarsi per saziarsi e sostentare il corpo. In quest’ottica ben si comprendono il valore sociale del banchetto e le regole del banchettare che vennero poi recepite e sintetizzate dal termine latino convivium (cum vivere). Analogo valore ha anche il simposio, il bere insieme, rito collettivo
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GRECIA
Stele funeraria in marmo raffigurante una scena di simposio, con il defunto che porge la sua coppa a un giovane che attinge il vino da un cratere, da Thasos. 470-460 a.C. Istanbul, Museo Archeologico.
che in Grecia è separato dal banchetto, ma è anch’esso disciplinato da regole che consentono di godere del vino, dono di Dioniso che, se bevuto nei dovuti modi, conferisce l’ebbrezza necessaria per comunicare con la sfera divina, ma viceversa se assunto in eccesso, rigetta l’uomo in una condizione deprecabile e all’inciviltà dei barbari. Il partecipare o meno al banchetto, il posto occupato a tavola e il cibo assegnato nella spartizione ai banchettanti determinano differenziazioni di rango ed espressione di potere, di aggregazione o di emarginazione del singolo rispetto alla collettività, sia essa la famiglia o la popolazione cittadina. Le donne per bene (madri, figlie e sorelle nubili) non potevano partecipare a banchetti e simposi, riunioni che si svolgevano in una grande sala, l’andron, vicina all’ingresso dell’androceo (parte riservata esclusivamente agli uomini), ma mangiavano nel gineceo, insieme ai bambini e al pater familias, vestite di tutto punto e con la testa velata, sedute ai lati della mensa, su seggiole con braccioli e alti schienali poggiando i piedi su uno sgabello, in una posizione di evidente sottomissione rispetto ai componenti maschi adulti del nucleo familiare. Soltanto agli uomini era concesso di mangiare sdraiati sui letti triclinari. Ai festini maschili erano ammesse e ben volute
suonatrici di flauto o cetra e ballerine, artiste di facili costumi dedite anche alla prostituzione, che rendevano l’atmosfera piú piacevole e festosa, e le etère, cortigiane d’alta classe, esperte nell’ars amatoria, colte e raffinate, la cui arguzia e versatilità era apprezzata dai convitati, ai quali si concedevano a caro prezzo. Ai banchetti partecipavano anche gli «scrocconi», che riuscivano a farsi invitare perché in qualche modo potevano contribuire con la loro piacevole conversazione e con la loro disponibilità alla buona riuscita del ricevimento. Si tratta di figure di primo piano, assurti per le loro «prodezze» agli onori della cronaca dell’epoca, tanto che Ateneo si dilunga a parlare di loro nel VI libro della sua opera.
Il «barbecue» di Achille Semplici e frugali erano i costumi conviviali dei protagonisti dell’Iliade, ma se questi potevano essere motivati dal fatto che si svolgevano nelle tende da campo, nei dieci anni di assedio sotto le mura di Troia, altrettanto sobri erano i banchetti che si svolgevano nei palazzi reali del XIII secolo a.C. Achille, re e comandante dei Mirmidoni, arrostisce la pecora e la distribuisce ai compagni e prepara la cena per sé e per Patroclo, non esimendosi dall’apparecchiare e rigovernare la tenda dopo il pasto. Non molto diversamente dovevano
comportarsi i re di Micene, Tirinto e Pilo nel mégaron, il grande ambiente con al centro un grande focolare, nel quale non solo si svolgevano i banchetti, ma i sovrani prendevano decisioni politiche e amministravano la giustizia. Nonostante fossero gli stessi re a occuparsi della preparazione della carne, arrostita sulla brace e distribuita ai commensali, questo non sminuiva il loro predominio, ribadito dalla posizione rialzata del trono, addossato a una parete e dal quale sovrastavano tutti i convitati, seduti per terra, sotto il portico che circondava il mègaron. Il menú era assai limitato: principalmente carne bovina, e, in misura minore, agnelli e capretti, cotti sulla brace, e pagnotte, queste ultime servite, secondo Ateneo, soltanto a pranzo; inoltre, era già prodotto l’olio, conservato in dolii (grandi contenitori per derrate). Benché poco nominato, si può supporre che, trattandosi di una civiltà prevalentemente pastorale, si consumasse anche il formaggio; analogamente, dovevano far parte dell’alimentazione dei Micenei il pesce, la frutta e la verdura, ritenuti, forse, non degni di menzione.
Agli eroi non si addicono i molluschi Il vasellame si limitava perlopiú a coppe per il vino e a coltelli per tagliare gli arrosti, mentre si mangiava con le mani. Nell’Odissea prima di mangiare ci si lava le mani e si mangia su letti triclinari, usanze sconosciute ai protagonisti dell’Iliade, che consentono di escludere che il poema possa essere anteriore al VI secolo a.C.; quanto ai cibi anche il menú, rispetto all’Iliade, sembra essere piú vario, prevedendo verosimilmente anche cacciagione e pesce; a tal proposito, c’è da notare che per quanto la Grecia sia un paese circondato dal mare, pesci, crostacei e molluschi sembrano entrare nella dieta soltanto nel V secolo a. C., non essendo menzionati nei menú omerici, forse perché ritenuti cibi miserevoli non adatti agli eroi. Per le stesse motivazioni, si può supporre, come diretta conseguenza dello sviluppo dell’orticoltura e della arboricoltura (ulivo,vite e alberi da frutto) che in questo periodo integrano la cerealicoltura, anche il consumo
dei prodotti ortofrutticoli; questi ultimi, inoltre, avevano il vantaggio di essere disponibili a medio termine, consentivano la rotazione delle colture, e comportavano una lavorazione piú economica, non richiedendo necessariamente l’uso del bue, data l’estensione ridotta della terra lavorata necessaria per la piantagione. Infine, l’impiego culinario degli ortaggi comportava al massimo una semplice bollitura o tostatura, e nel caso di insalate, cipolle e cetrioli, il suo utilizzo era immediato. Quanto all’apparato organizzativo del banchetto, nell’Odissea compaiono inservienti, poeti e musicanti, personaggi che saranno una costante di questo tipo di intrattenimento dall’arcaismo in poi. In età arcaica si definisce il rituale del convivio, che, nella sostanza, rimase invariato per secoli con poche varianti, divenendo parte integrante, dopo il sacrificio, di qualsiasi festività, e occasione di divertimento e di aggregazione sociale. Rispetto al periodo omerico si assiste a un progressivo sfoggio di ricchezza, che investe tutta l’organizzazione dell’evento, dal mobilio alla tappezzeria, dal vasellame all’uso di profumi fino all’uso di corone d’oro. Il menú si arricchisce di nuove vivande, a discapito della carne, che comunque è cucinata in piú modi e non soltanto cotta alla brace; a questa subentrano, infatti, numerose varietà di pesci, crostacei e molluschi, formaggi, verdure, olive, frutta e dolci, che diventano pietanze servite nel convito a tutti gli effetti, insieme a cavallette e cicale.
Una cena pantagruelica Nel poema Il banchetto di Filosseno di Citera, composto tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C., sono descritte 35 portate, tra le quali spiccano una frittura di calamari e gamberi, bocconcini d’anguilla, pesce smeriglio, cefalo arrosto, razza, seppie e calamari, fette di tonno fresco arrostito; le portate di carne non sono da meno: interiora, trippa, lombo e coscio di maiale, capretto da latte spaccato in due, braciole, piedini, costiglie, testina di maiale, filetto insaporito con il silfio, capretto e agnello bolliti e arrostiti, lepri, galletti, pernice calda e colombacci; il
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GRECIA
In alto hydria (vaso per acqua) a figure rosse del Pittore di Nikoxenos, decorata con una scena di simposio. Inizi del V sec. a.C. Kassel, Antikensammlung. Nella pagina accanto statuetta in terracotta raffigurante una donna seduta su uno sgabello intenta a cucinare, da una tomba arcaica di Tanagra (Beozia). 525-475 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
tutto accompagnato da tanti tipi di pane: pagnotte di farina di grano, pane d’orzo, panini dolci e grandi focacce insaporite da una salsa agrodolce, pane e miele. Quanto ai formaggi, ci sono la cagliata e il formaggio fresco. Si tratta di un menú estremamente ricco, che privilegia le proteine animali e i farinacei, mentre non prevede verdure, frutta e dolci, alimenti piú comuni e forse meno degni di essere offerti in una cena cosí prestigiosa. Olive, lampascioni, pietanze campagnole a base di verdure, insieme a formaggio e sale, sono consumate in una cena ideale, descritta nella Repubblica di Platone, ma probabilmente corrispondente a quelle consumate dal filosofo e dalla sua cerchia di amici. Ceci, fave e fichi costituiscono i dessert, e per il dopocena ghiande e bacche di mirto arrostite, da mangiare mentre si beve il vino. Il menú era decisamente piú semplice e frugale.
Tra gastronomia e filosofia Il tenore del banchetto era, dunque, dato dai partecipanti, dalle loro condizioni sociali e culturali: se questi erano filosofi, l’intrattenimento assumeva toni intellettuali e piú sobri rispetto agli altri convivi. Comunque, i banchetti dei filosofi erano intrattenimenti particolari, che esulano dalla consuetudine, come del resto eccezionali erano i banchetti sfarzosi; di fatto, il pasto quotidiano era assai piú semplice e meno variato, anche perché la maggior parte della popolazione non disponeva
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di rendite tali da permettersi simili intrattenimenti. L’alimentazione delle classi a redditi piú bassi si basava principalmente sul consumo di cereali e legumi, combinazione che garantiva un giusto ed equilibrato apporto nutrizionale. Piú che il pane di farina di frumento, in ambiti rurali si consumava la maza d’orzo, una specie di focaccia impastata e non lievitata, non soggetta a cottura, se non addirittura una sorta di pappa lasciata rapprendere naturalmente. Con le lenticchie si preparavano zuppe (Ateneo, IV. 158 b), mentre i ceci freschi venivano mangiati come stuzzichini d’accompagno al vino, ed essiccati venivano cotti; si mangiavano anche i lupini, cibo plebeo per eccellenza. La dieta, integrata da olive, fichi secchi, aglio e cipolle (con cui si preparava la zuppa), era completa e sufficiente, almeno sul piano qualitativo, e suppliva alla scarsezza di alimenti di provenienza animale; questi ultimi erano costituiti perlopiú da latticini e dal pesce, mentre il consumo di carne era assai limitato, comportando l’abbattimento di animali, quali pecore e capre, senz’altro piú utili per i derivati che fornivano (latticini, lana, velli), o i bovini utilizzati per l’aratura e per il traino, la cui importanza era tale da essere considerati quasi parte integrante della famiglia dell’agricoltore. L’impiego dei bovini nell’agricoltura prevaleva a tal
punto che, non solo in Grecia, ma anche a Roma, era proibito uccidere i buoi per consumarne la carne. Escluso dalla macellazione per scopi alimentari e sacrificali era il cavallo, poiché considerato un animale «nobile». Di conseguenza, la consumazione di carne bovina, ma anche ovicaprina e suina (maialini erano sacrificati nelle Tesmoforie, le feste in onore di Demetra), aveva luogo principalmente durante i banchetti che seguivano al sacrificio cruento offerto alle divinità; tali riti erano considerati come un’istituzione fondamentale per la coesione della comunità, coincidendo con la costituzione di un’identità politica, favorendo la solidarietà sociale, data la ripartizione delle carni sacrificali fra i membri della collettività.
Alla maniera orientale Comunque, tra tutti gli animali, a parte quelli da cortile, l’unico a essere allevato a fini alimentari era il maiale, e la carne suina era quella maggiormente consumata in Grecia, come avvenne in seguito anche a Roma. Si tratta, tuttavia, di abitudini alimentari estremamente frugali, mitizzate dai sostenitori della vita semplice contrapposta alle sfarzose e dissolute abitudini dei decadenti persiani. Con l’età ellenistica il banchetto conosce una svolta decisiva, assumendo caratteristiche nuove; dalla cerchia ristretta dei convitati, regolamentata da norme ben precise che limitavano il numero dei partecipanti a trenta persone, si passa ai banchetti sovraffollati, ricchi e sfarzosi allestiti da Alessandro Magno alla maniera dei convivi orientali, che avevano affascinato il giovane sovrano al punto tale da imitarli.
Tale mutamento è un riflesso della nuova situazione politica ed economica venutasi a creare a seguito delle sue conquiste, che portarono enormi ricchezze e facilitarono l’arrivo di usi e costumi piú raffinati che ebbero ripercussioni anche nella gastronomia, grazie, soprattutto, alla diffusione di nuovi alimenti e spezie, come per esempio il cumino. Non è un caso che, alla fine del V secolo a.C., ad Atene compaiano cuochi specializzati, che mettono a frutto le loro conoscenze gastronomiche rielaborando gli alimenti, cosí da ottenere piatti sempre piú complessi e raffinati. I prodotti ittici sia di mare che di lago, divennero di moda e la loro presenza nel menú rendeva piú o meno prestigioso il banchetto. A tal proposito si segnala che nell’Hedyphagetica, Archestrato di Gela non solo riporta le ricette per cucinare il pesce, ma dà anche indicazioni su dove procurarsi quello migliore che avrebbe conferito al piatto una riuscita ottimale. Tra le tante novità importate, che divennero poi una costante dei banchetti della classicità, si annovera l’utilizzo di grandi tende, montate appositamente per i convivi. Si tratta di strutture mobili, paragonabili a quelle degli odierni circhi, molto diffuse tra i popoli mediorientali; queste avevano il pregio di ospitare numerose persone e di consentire uno sfruttamento ottimale dello spazio interno.
Un regalo a ciascun invitato Un’occasione per sfoggiare la propria ricchezza era offerta dai festeggiamenti nuziali; i banchetti dei Macedoni, naturalmente di alto lignaggio, spiccavano oltre che per la varietà delle pietanze, dei vini e degli spettacoli, anche per i doni offerti ai convitati, il cui numero era di gran lunga superiore a quello di cinque partecipanti consigliato da Archestrato. Un esempio notevole è rappresentato dalla festa per le nozze di Carano il Macedone, riportata da Ateneo nel IV libro. Calici, corone e altro vasellame d’oro e d’argento e profumi sono i doni offerti a ripetizione dallo sposo agli amici durante tutto il banchetto. Nel corso del IV secolo a.C., però, di pari passo con questo lusso dilagante si registra viceversa un aumento del divario tra l’alimentazione dei
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GRECIA
ricchi e quella dei poveri; in caso di carestia poi, il prezzo dei cereali aumentava a dismisura, come avvenne nel 329 a.C.; a salvare la situazione intervenivano le elargizioni di frumento a basso prezzo offerte alla città dall’evergete, oppure le distribuzioni di grano.
Le regole del simposio Il termine sympósion ricorre per la prima volta in Alceo di Mitilene (630 circa-560 a.C. circa), ma la pratica conviviale che esso designa, in cui si consumava esclusivamente vino e che seguiva il banchetto, era già diffusa in ambiente insulare e microasiatico almeno dagli inizi del VII secolo a.C., mentre sembra improbabile che in epoca micenea vi fosse già una distinzione tra il momento destinato alla consumazione del cibo e quello dedicato esclusivamente alla libagione del vino. Iliade e Odissea comprendono epoche diverse del Medioevo ellenico, che rispecchiano usanze diverse del banchetto e del simposio; di conseguenza sono documentati sia la concomitanza dei due momenti, sia la netta separazione, anche se è il banchetto a rivestire un ruolo importante come momento di aggregazione della comunità, che segue perlopiú a riti sacri che prevedevano il sacrificio di un animale e la spartizione delle carni tra i partecipanti. Non a caso, in età micenea, al centro della sala in cui si svolgevano i banchetti, il mègaron, era collocato il grande braciere circolare per arrostire gli animali, che in epoca arcaica venne sostituito dal cratere per mescere il vino con l’acqua, anch’esso posto al centro della sala per il simposio, centralità simbolo di uguaglianza e di equilibrio. A differenza di quanto accadde in seguito, nei conviti omerici gli accoppiamenti con le fanciulle non avvenivano davanti agli invitati, ma a banchetto finito e in privato. Il simposio in età arcaica rappresentò un’importante istituzione della vita politica, strettamente legato alla poesia lirica monodica. Infatti, a questa riunione partecipavano soltanto uomini, legati spesso da vincoli di parentela, appartenenti a una stessa classe politica (gli avversari erano esclusi), che discutevano e prendevano decisioni su temi di attualità e che
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non di rado suggellavano con la libagione il giuramento che li trasformava in un’etería. Ma come si svolgeva un simposio? Innanzitutto venivano portate via le mense, gesto che segnava la fine del banchetto e che separava il momento dedicato al pasto da quello dedicato alla libagione. Puri dovevano essere gli ambienti, che venivano spazzati e, dopo l’abluzione delle mani, ai simposiasti erano distribuite ghirlande per cingere la testa, il petto e le coppe. Le corone, simbolo di iniziazione e di appartenenza al gruppo di convitati, servivano anche a rinfrescare la testa e ad alleviare eventuali emicranie provocate dal vino. Come nel banchetto gli uomini, coperti soltanto di un drappo avvolto intorno alla vita e scalzi, bevevano sdraiati su letti triclinari. Si iniziava facendo cadere un po’ di vino pretto dalla coppa per onorare l’agathòs daimon, il buon genio, gesto rituale che sanciva l’appartenenza dei singoli commensali alla comunità raccolta a simposio. Il vino era il tramite per entrare in comunicazione con Dioniso, ma venivano onorati anche Zeus, Apollo e altre divinità.
L’importanza delle proporzioni A questo rituale seguivano, nell’ordine, l’elezione del simposiarca e la miscelazione del vino con l’acqua. Il simposiarca decideva le proporzioni della miscela che rispondevano al tipo di simposio che si intendeva organizzare e il numero dei crateri da predisporre, oltre naturalmente alle direttive che avrebbero regolato l’intrattenimento. La miscela ideale, consigliata da Esiodo e nota a Plutarco, era quella costituita da tre parti d’acqua e una di vino, ma erano anche preparate miscele piú alcoliche, con effetto inebriante crescente, come la miscela di due parti d’acqua e una di vino, quella in cui i due liquidi erano versati in parti uguali, considerata pericolosa (proporzione diffusa e menzionata dai commediografi del IV secolo a.C.), per arrivare a quella assai rara, destinata forse a eventi eccezionali, di due parti di vino e una di acqua, considerata degna di un simposio di barbari. Gli Sciti erano famosi per bere vino puro, pratica che si riteneva portasse alla distruzione del corpo e alla follia, come successe allo
Particolare della scena di simposio affrescata sulle pareti della Tomba del Tuffatore, scoperta nel 1968 nella necropoli di Tempa del Prete, a sud della città di Paestum. 480-470 a.C. Capaccio, Museo Archeologico Nazionale di Paestum.
spartano Cleomene che, essendo vissuto con queste genti, ne aveva preso le abitudini, impazzendo. Insieme al vino erano serviti anche formaggi e focacce di vario tipo, stuzzichini salati che favorivano il bere.
Rime e canti a braccio Distribuita la bevanda cosí preparata, si libava agli dèi, si intonava in coro il peana accompagnato dal suono dell’aulos (il doppio flauto) e si potevano recitare poesie e liriche composte appositamente per questo tipo di intrattenimento. Le esibizioni poetiche si configuravano come un momento rituale, durante il quale la solidarietà e l’unione del gruppo erano incrementate dalle invettive e dal biasimo degli avversari, espresse ampiamente nei carmi e rafforzate dall’uso del canto a «botta e risposta», eseguito alternativamente dai convitati. Nel corso del IV secolo a.C., con il prevalere dell’aspetto ludico vero e proprio, scevro da implicazioni politiche, furono previste manifestazioni di ballerini e mimi, come è documentato anche nel Simposio di Senofonte. In età ellenistica, inoltre, la dimensione privata del simposio fu soppiantata dai grandi banchetti offerti dai sovrani, la cui magnificenza era necessariamente subordinata e accresciuta dalla varietà e dalla ricchezza degli aspetti spettacolari. Concluso il momento liturgico, il simposio procedeva secondo l’ispirazione e i gusti dei partecipanti. Il simposio ideale era regolato dal senso della misura che portava al dialogo costruttivo e all’ascolto della poesia, allo stato di letizia, che favoriva il misticismo, generato dal vino e dal piacere dell’apparato conviviale, oltre che all’assenza di conflittualità: guerra, armi e immagini di morte erano argomenti
banditi e parodiati, come dimostrano la compresenza di scene di convito con iconografie belliche delle pitture vascolari. Nell’arco della festa questa situazione ideale di delizia, era destinata a durare poco. Man mano che l’effetto del vino si faceva sentire, i simposiasti passavano dall’euforia e dall’esaltazione dell’apparato sensorialeintellettivo all’oblio, si dedicavano al gioco e alle pratiche erotiche con flautiste, ballerine e cortigiane e talvolta giovinetti, e la moderazione tanto cercata degenerava in eccessi e trasgressioni che sconfinavano nel diverbio e nello scherno se non nelle zuffe.
Non piú di tre volte Non a caso, secondo Ateneo si dovevano bere solo tre coppe di vino annacquato: una per il brindisi, una per l’amore e una per il sonno. Tutte quelle che seguivano avrebbero portato diretti alla follia e alla distruzione del mobilio (Ateneo, I. 36). Quando per i fumi dell’alcool si scatenavano liti e risse, capitava che i vasi da notte («pappagalli» ante litteram utilizzati dal V secolo a.C. per sopperire alle necessità corporali dei convitati) fossero lanciati pieni del loro maleodorante contenuto contro l’avversario, come si legge nel Commensale Acheo di Sofocle (Ateneo I, 1.17.c). Soprattutto in occasione di festeggiamenti nuziali, il simposio poteva avere come esito finale la prosecuzione del divertimento all’esterno (kòmos), con tanto di trasporto del cratere; i simposiasti ebbri in corteo a piedi o talvolta su carri, facevano baldoria cantando, accompagnati dalla musica dell’aulos, della cetra e della lira, abbandonandosi a giocose manifestazioni allusive a sfondo sessuale a dir poco disinibite se non oscene.
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Etruria
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Un servitore impegnato a preparare cibi per il banchetto ultraterreno in onore del defunto, particolare degli affreschi che ornano la tomba Golini I rinvenuta a Orvieto, in localitĂ Settecamini. 350-325 a.C. Orvieto, Museo Archeologico Nazionale.
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Schiavi del ventre in terra d’Etruria grano, vite e olio: gli scrittori greci e latini descrivono con parolE d’ammirazione la perizia degli etruschi nella produzione e nelle lavorazioni alimentari. Assai meno lusinghiero, invece, era il loro giudizio circa un nuovo costume introdotto dai tirreni: quello di far partecipare le donne a banchetti e simposi
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astriduloi (schiavi del ventre) e gaudenti, li considera Diodoro Siculo, mentre il filosofo Posidonio di Apamea racconta che «presso gli Etruschi però due volte al giorno si apparecchiano mense sontuose, e tappeti variopinti e coppe argentee di ogni specie, ed è presente una folla di belli schiavi, adorni di vesti sontuose». La visione di Diodoro e di Posidonio, entrambi calati all’interno del I secolo a.C., relativa alle abitudini delle classi etrusche piú agiate, oramai romanizzate, deriva sicuramente dalla rappresentazione negativa che ne coniarono i Greci, a partire almeno dal IV secolo a.C., non riuscendo a giustificare la diversità dei costumi che li divideva dal popolo tirrenico. Questa tradizione riconosceva agli Etruschi il ruolo di popolo dedito al lusso smodato e ai piaceri, compreso quello della tavola. Ma al diffondersi di un’immagine di ricercata mollezza contribuí certamente la stessa raffigurazione che alcuni di loro hanno voluto riproporre di se stessi già nella pittura tombale e non solo, a volte con particolare realismo, come nel caso del personaggio rappresentato sul coperchio del Sarcofago dell’Obeso di Tarquinia (vedi a p. 34). Non a caso , sempre nel I secolo a.C., Catullo parla infatti dell’Etruscus obesus e Virgilio ricorda il pinguis Tyrrhenus. Ma fu vera gloria? Davvero gli Etruschi pensavano solo a mangiare e a divertirsi? A questo punto si impongono alcuni distinguo. Sia il banchetto, dove si consumavano cibi e bevande, sia il simposio, piú dedicato al
consumo del vino, erano prerogativa ristretta dell’aristocrazia etrusca, che vedeva entrambi quali elementi fondamentali dell’autorappresentazione di derivazione orientale. I costumi alimentari del resto della popolazione etrusca dovevano essere molto piú modesti, spesso legati alla mera sopravvivenza piú che allo sfarzo e anche lo stesso concetto di «grasso» poteva essere attributo fisico solamente dei rappresentanti della classe dominante: io sono sovrappeso perché sono ricco e mi posso permettere di mangiare due volte al giorno! Un po’ quello che succede in molte culture antiche, come i pachies del mondo greco o il cosiddetto «popolo grasso» di medievale memoria, ma anche, purtroppo, ai giorni nostri in varie regioni del globo.
Il paesaggio e la produzione Gli scrittori greci e latini offrono preziose indicazioni anche su altri aspetti del mondo etrusco, quali, per esempio, quelle legate alla produzione degli alimenti. Tito Livio cita gli aiuti forniti dalle città etrusche a Scipione, nel 204 a.C., per affrontare la seconda guerra punica, e ci informa che l’Etruria era una delle regioni piú fertili d’Italia, quella degli Etrusci campi, ricchi di frumento e di omnium copia rerum, che si estendevano tra Fiesole e Arezzo. Lo stesso Livio descrive come apparvero, verso la fine del IV secolo a.C., all’esercito romano, impegnato in una delle
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Kyathos etrusco in bucchero, vaso utilizzato come attingitoio durante il simposio, decorato con testine umane in rilievo, da Vulci. 550-500 a.C. Già Collezione Campana. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
prime invasioni dell’Etruria, dalla cima del Monte Cimino, le feraci pianure di Volsinii (Orvieto), definite addirittura come opulenta Etruriae arva. Anche Varrone descrive l’alta resa in frumento delle terre etrusche, che consentivano di ottenere sino a quindici volte il seminato, mentre Diodoro Siculo riferisce che in Etruria si produce ogni bene.
del farro, una sorta di magistrati occupati dalle problematiche relative ai pagamenti in natura dei tributi o dei rifornimenti dei cereali, verosimilmente vicini ai magistrati dell’annona romana. È possibile che anche in Etruria esistesse qualcosa di simile. I Saserna invece, probabilmente padre e figlio, pubblicarono un’opera, intitolata De agricoltura, purtroppo non arrivata a noi, che godette di molto credito tra gli studiosi dell’epoca (Varrone, Plinio, Columella) e anche successivamente. I due erano di origine etrusca e possedevano un’azienda di una cinquantina di ettari vicino Piacenza, organizzata in un sistema di filiera completa, dalla produzione alla commercializzazione, passando per la realizzazione stessa dei recipienti per la conservazione e il trasporto. Il successo dell’opera dovette risiedere anche nella descrizione delle attenzioni riservate ai campi e alle tecniche colturali atte a migliorarne la fertilità, e ai sistemi di produzione che probabilmente risentivano ancora della tradizione etrusca.
Lo stesso Varrone riconduce l’invenzione delle macine girevoli alla città di Bolsena e Plinio il Giovane racconta che i suoi terreni in collina presso Tifernum Tiberinum (Città di Castello) non avevano nulla da invidiare a quelli di pianura. Grazie a Plinio il Vecchio, invece, sappiamo che le due specie maggiormente coltivate erano i cereali (frumenta) e i legumi (legumina). Tra i primi vengono ricordati principalmente il grano (triticum) e l’orzo (hordeum), ma anche il miglio, il paníco e il sesamo, mentre tra i secondi si notano la fava (faba), il cece (cicer) e il pisello (pisum). Sempre Plinio, ricorda quando in tempi di carestia, nel corso del V secolo a.C., Roma si rivolse in piú occasioni (492, 440, 433, 411) all’Etruria per approvvigionarsi di grano, e Livio dice poi del frumento versato da Tarquinia quale indennizzo dopo il conflitto con l’Urbe, nel 308 a.C. Forse utili alla comprensione del problema sono anche le Tavole Eugubine e un’iscrizione rinvenuta a Mevania (Bevagna) in cui si parla di cuestur fararies, cioè questori
La triade mediterranea
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Oltre al frumento, un ruolo molto importante avevano le altre due colture tipiche dell’agricoltura e dell’alimentazione mediterranea: la vite e l’olivo. Dionisio d’Alicarnasso e Livio raccontano che proprio a causa del vino e dell’olio magistralmente prodotti e dei fichi che caricò nell’agro chiusino, Arrunte (figlio di Tarquinio il Superbo, n.d.r.) riuscí a convincere i Galli a scendere nella Penisola. Già a partire dal VII secolo a.C. in Etruria, le colture estensive che privilegiavano la coltivazione di un grano a elevata qualità, furono integrate da quelle intensive della vite e dell’olivo. In particolare, il vino, da allora in poi, ebbe un ruolo determinante nell’economia dell’Etruria come testimoniano le anfore vinarie etrusche rinvenute in Campania, in Sicilia, in Sardegna e anche fuori dell’Italia come in Corsica, in Francia e Spagna. Al tempo di Alessandro Magno poi i vini etruschi erano cosí famosi da insidiare lo storico primato della Grecia
Il bronzetto di Arezzo, noto come l’Aratore, raffigurante un contadino al lavoro con un aratro spinto da una coppia di buoi. 430-400 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Comunemente allevati in epoca antica, i bovini comparivano di rado sulle tavole in quanto indispensabili per il lavoro nei campi, al punto che una legge romana ne impediva la macellazione per scopi alimentari.
stessa. Plinio evidenzia tra i migliori quelli di Gravisca, di Statonia e di Luni in particolare, mentre a Veio, secondo Orazio, Persio e Marziale, si produceva un vino rosato di pessima qualità. Sempre secondo Plinio, gli Etruschi, apprezzavano molto le viti apianae (dalle uve ricche di parte zuccherina e quindi molto gradite dalle api), che davano origine a un vino inizialmente molto dolce, ad alta concentrazione di zuccheri che poi diventava di sapore intenso ed elevata gradazione alcolica. Ricorda inoltre la vite pompeiana, originaria della Campania e molto gradita dagli abitanti di Chiusi, e un vino chiamato maecenatiana, probabilmente da localizzare nell’Aretino, terra d’origine di Mecenate. Altrettanto importante dal punto di vista economico era la coltivazione dell’olivo, introdotta anch’essa dai coloni greci, come testimonia lo stesso nome dell’olio: elaion in greco ed eleiva in etrusco. L’olio veniva usato a piú scopi e non solo alimentari (per ungersi e profumarsi il corpo ma anche per illuminare) mentre sicuramente importanti nella dieta etrusca come in quella greca erano le olive. Ne sono testimonianza ritrovamenti come quello del relitto del Giglio con le anfore piene di olive, risalente al 600 a.C. o la cosiddetta Tomba delle
Olive di Cerveteri, databile al secondo quarto del VI secolo a.C., nella quale tra gli oggetti di corredo, si rinvenne una sorta di caldaia riempita da noccioli di oliva. Anche la produzione ceramica fu contagiata dalla coltivazione dell’olivo: tra l’VIII e il VII secolo a.C. i contenitori da olio deposti nelle tombe etrusche sono in larga parte d’importazione, mentre dalla fine del VII incomincia ad apparire una produzione locale destinata ad aumentare nel tempo.
L’allevamento Probabilmente, alla triade delle coltivazioni mediterranee, era associato l’allevamento degli animali: alcuni erano sicuramente utilizzati in agricoltura per l’aratura, come testimonia il bronzetto di Arezzo (430-400 a.C.), e altri dovevano essere di fondamentale importanza per la concimazione dei terreni. Il poeta ed erudito greco Licofrone (attivo nel IV secolo a.C.) racconta di mandrie di ovini a Pisa e Cerveteri, Livio a Roselle e Plinio il Giovane nei dintorni di Orvieto. Il latte doveva rappresentare una importante risorsa alimentare, sia
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direttamente che tramite i formaggi. Le analisi paleofaunistiche dimostrano infatti che gli ovini venivano generalmente macellati in tarda età per meglio sfruttare le potenzialità dei latticini e forse della lana.
Per le occasioni solenni Varrone, poi, narra di un’antica usanza etrusca che vedeva il maiale ucciso nelle occasioni solenni, come i matrimoni, che segnala in maniera indubbia l’importanza attribuita nell’alimentazione a questa specie. Una conferma in tal senso si ritrova anche nella rappresentazione, già alla metà del VII secolo a.C., su una situla d’argento dorato proveniente da Chiusi, di una mandria di verri condotti da un porcaro che sembra regolarne gli spostamenti con un flauto a suon di musica. Pare che fossero molto apprezzati i prosciutti di Caere e la ventresca di Falerii. I bovini, invece, non erano molto presenti sulle tavole, ma venivano utilizzati di frequente per le lavorazioni agricole e quindi erano comunemente allevati. Addirittura, una legge romana proibiva l’uso della carne bovina a scopi alimentari, proprio per proteggere il piú possibile la forza lavoro nei
campi. L’aratura aveva infatti grande importanza per le coltivazioni estensive e Plinio ricorda che in terreni compatti era preferibile arare almeno cinque volte prima di seminare e addirittura nove volte in Etruria. L’operazione doveva necessariamente essere ripetuta perché gli aratri di allora, vista la mancanza delle ali, piú che rovesciare la terra, la tagliavano, spesso lasciando quasi intatte le erbe infestanti. Varrone ricorda anche dell’abitudine a catturare alcune specie di animali selvatici come lepri, cervi, caprioli che venivano rinchiusi e velocemente ingrassati. Da alcuni scavi poi pervengono dati riguardanti un allevamento particolare, quello dei ghiri, che seppur diffuso in epoca romana, era già noto in ambiente tardo-etrusco, come testimoniano i numerosi ritrovamenti di gliraria a Rofalco, nella Selva del Lamone (area boschiva dell’Alto Lazio, ai confini con la Toscana, n.d.r.). Esso prevedeva l’alloggiamento dei ghiri entro grandi vasi, forati sulle pareti per permettere la respirazione agli
Particolare del coperchio del sarcofago «dell’Obeso», da Chiusi. II sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Il pingue proprietario del sarcofago è immaginato mentre partecipa al banchetto.
animali, e provvisti all’interno di rampe intercalate da vaschette per l’acqua. Nelle scene di banchetto delle tombe dipinte sono spesso raffigurati altri animali, alcuni dei quali sicuramente destinati all’alimentazione: tra di essi, spiccano l’anatra, il colombo, l’oca, e la gallina. Per quest’ultima sappiamo da un frammento di Ecateo che erano molto apprezzate, seppur molto piccole, le galline di Adria sia per la qualità delle carni che per la produzione di uova.
La caccia e la pesca I prodotti dell’allevamento venivano naturalmente integrati da quelli della caccia e della pesca. Se le grandi battute dovevano essere privilegio esclusivo della nobiltà etrusca, è pur vero che la tradizione venatoria di preistorica memoria non poteva svanire del tutto tra i ceti meno abbienti, che probabilmente praticavano la caccia in modo marginale e secondario, ma che doveva risultare fondamentale per l’apporto proteico che forniva. La specie cacciata piú importante era sicuramente il cinghiale, ma anche cervi, caprioli, lepri e uccelli di palude erano ritenuti interessanti. Numerose sono le raffigurazioni sulle pareti delle tombe dipinte, come quella, famosa, della Caccia e della Pesca di Tarquinia (500-490 a.C.), in cui un personaggio armato di fionda cerca di colpire alcuni uccelli in volo. Vicina si trova una barca con un altro soggetto intento a calare una lenza, sicuramente un pescatore. Seppur secondario, anche la pesca doveva avere un ruolo nell’economia alimentare. Il mare offriva un’enorme varietà di pesci e molluschi, ma molto apprezzati erano anche quelli di acqua dolce, come segnala Strabone per i laghi di Chiusi e Perugia, o Columella per Bolsena e Bracciano. L’importanza riconosciuta al pesce dagli Etruschi è confermata anche dal loro frequente utilizzo nelle immagini decorative delle ceramiche, come a Cerveteri, dove è stata identificata un’officina chiamata «Bottega dei Pesci di Stoccolma» (da un vaso lí conservato), operante nella prima metà del VII secolo a.C.
Il Cinerario di Montescudario, urna con coperchio ornato da decorazione plastica rappresentante un’ancella e un sovrano assiso in trono, davanti al quale si trovano un tavolino imbandito di vivande e un grande vaso per mescolare l’acqua col vino. Metà del VII sec. a.C. Cecina, Museo Archeologico Etrusco-Romano.
È probabile però che lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento abbia comportato una graduale contrazione dell’importanza economica della pesca che finí col trasformarsi in un’attività prestigiosa, analogamente alla caccia, legata anch’essa alla rappresentazione del ruolo sociale delle élite.
Il banchetto e il simposio La cucina etrusca raggiunge l’apoteosi nel banchetto, frequentemente immortalato su reperti e monumenti di vario genere, dalle ceramiche ai cippi funerari e soprattutto nelle pitture delle tombe a camera. Gli aristocratici amavano autocelebrarsi nel rituale funerario ponendo in evidenza il prestigioso status sociale raggiunto, grazie anche a queste rappresentazioni che spesso si mescolavano con il simposio. Quest’ultimo, a differenza del banchetto, prevedeva che nelle riunioni conviviali ci si limitasse al consumo di bevande, nelle quali il vino aveva il ruolo di
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protagonista. Come traspare dall’epica omerica, il banchetto/simposio vedeva la partecipazione di alcuni invitati comodamente seduti che, mangiando e bevendo, celebravano l’unione e la coesione tra gli astanti, andando ad assumere cosí un significato spiccatamente cerimoniale. Anche in Etruria, almeno a partire dall’VIII secolo a.C., dovevano svolgersi simili incontri dai modi tipicamente ellenici, probabilmente introdotti dai Greci delle colonie euboico-cicladiche, come testimoniano alcuni corredi nei quali compaiono sia vere e proprie attrezzature da banchetto, sia oggetti decorati da scene di banchettanti quale per esempio il Cinerario di Montescudaio (vedi a p. 35). Risalente alla metà del VII secolo a.C., sul coperchio del vaso, è rappresentata una scena dal chiaro sapore orientale, intrisa di tradizione etrusca e con elementi grecizzanti. Cosí l’ancella che rinfresca con un flabello il sovrano assiso, riccamente abbigliato, e il di lui inequivocabile atteggiamento regale rimandano ad allegorie assire; il vicino tavolino tripode imbandito con pani, focacce e formaggi risulta già noto nei corredi dell’età del Ferro in Etruria e nel Lazio; mentre il grande vaso che serviva a mescolare l’acqua con il vino era già molto diffuso in tutta la Grecia. In questo periodo si diffonde anche tra gli Etruschi la moda fenicia e siro-palestinese di
banchettare semisdraiati, soprattutto nei symposia, che tanta fortuna troverà in Etruria, come ben testimoniano le rappresentazioni che dal coperchio di cinerario della Tomba 23 di Tolle (metà VII secolo a.C.) si susseguiranno ininterrottamente su lastre decorative, su sarcofagi, su ceramiche e sulle pareti di numerose tombe dipinte.
Convivio in due atti L’uso della kline (il letto su cui ciascun banchettante prendeva posto) venne comunque associato sempre piú agli elementi caratterizzanti il banchetto greco. I musici accompagnavano il consumo delle pietanze, mentre danzatori e saltimbanchi allietavano gli intervalli tra una portata e l’altra. Lo svolgimento prevedeva due parti principali, la prima era il sundèipnon (pasto insieme) e la seconda il sumpòsion (bere insieme). Si cominciava con primi piatti consistenti in zuppe o minestre di farro, ai quali seguivano le carni, il piatto forte, indi si passava alla frutta e ai dolci prima di dedicarsi completamente al vino, che caratterizzava la seconda e ultima parte del banchetto. Ma la regola greca non era rispettata completamente e il motivo della mancata applicazione fece gridare allo scandalo. Le donne etrusche partecipavano al banchetto in qualità di commensali, uniche nel mondo mediterraneo a ricevere questo trattamento.
Lastra fittile di rivestimento decorata a rilievo con scena di banchetto, da Acquarossa. VI sec. a.C. Viterbo, Museo Civico.
Teopompo, storico del IV secolo a.C., disapprova la loro scostumatezza: «Banchettano accanto non ai propri mariti, ma al primo che capita, bevono alla salute di chi vogliono e sono anche grandi bevitrici». Di particolare importanza risulta la Tomba Golini I di Orvieto, risalente alla metà del IV secolo a.C. e appartenuta alla nobile famiglia dei Leinie, nella quale, oltre alla scenografia rientrante nell’iconografia tradizionale del banchetto, sono raffigurati anche i momenti principali della sua preparazione. Illustri invitati a questo banchetto sono Ade e Persefone che con la loro presenza ben chiariscono il luogo di svolgimento: l’aldilà. I servitori sono intenti ai preparativi ed è facile notare la grande abbondanza di cibo: sulla parete di sinistra sono appesi accanto a un bue intero, la cui testa è riposta sul ripiano sottostante, una lepre, un capriolo e due coppie di volatili, una di piccole dimensioni. Sulla tavola imbandita si riconoscono focacce, grappoli d’uva, uova e una melagrana, mentre altri servitori sono impegnati nella preparazione di altri cibi. Notevole risulta anche la quantità del vasellame utile alla celebrazione del simposio, a partire dai numerosi buccheri, soprattutto kantharos, kyathos, olpe e oinochoe (rispettivamente: coppa a due manici, attingitoio, caraffa e brocca da vino) Alcune di queste forme, originarie dell’Etruria, ebbero tale fortuna da diventare oggetti tipici del repertorio ceramico greco, soprattutto attico, e si diffusero in tutto il bacino del Mediterraneo.
Alle origini del parmigiano... La dieta degli Etruschi doveva prevedere una base vegetale, costituita da cereali (carboidrati) e dai legumi (proteine vegetali), integrata dalla carne (proteine e grassi), soprattutto di allevamento. Le farine, quindi, rappresentavano il primario elemento del cibo di tutti i giorni, sia sotto forma di pani e focacce che di minestre e zuppe. Grazie a Marziale sappiamo dell’esistenza di una Clusina puls, una specie di polenta a base di farro tipica di Chiusi che rappresentava uno dei principali
nutrimenti degli Etruschi, molto simile alla puls romana. Da qui dovrebbe derivare l’epiteto di pultiphagi che, come ricorda Plauto, i popoli orientali usavano per chiamare i Romani e gli Italici in genere. I legumi venivano spesso ridotti in farina e consumati anch’essi in minestre e polente. Ancora oggi in Etruria sono piatti tradizionalmente famosi zuppe come l’acquacotta e la ribollita. I legumi piú utilizzati erano le fave, i ceci, le lenticchie, le veccie, i lupini e i piselli che si mangiavano anche semplicemente bolliti. Tra gli alimenti vegetali vanno ricordati alcuni frutti come le prugne, le mele, le pere e i fichi, che potevano essere consumati freschi o fermentati in bevande leggermente alcoliche. Si utilizzavano comunemente il porro, l’aglio e la cipolla; quest’ultima era consumata moderatamente dagli aristocratici e solamente dopo cottura, mentre i servitori ne facevano abbondante uso anche cruda e condita con poco sale. Tra le carni, il maiale la faceva da padrone, cotto oppure salato, come la succosa salsiccia preparata con l’aggiunta di spezie piccanti, chiamata dai romani Lucanica in onore della sua terra d’origine e ancora oggi conosciuta con lo stesso nome. Gli ovini fornivano proteine quando venivano consumati freschi, ma anche tramite i latticini che non dovevano essere di secondaria importanza se Plinio si sofferma nella descrizione di un formaggio di latte vaccino, prodotto nell’Appennino emiliano in forme enormi per poterlo imbarcare sulle navi nel porto di Luni e che ricorda troppo da vicino il Parmigiano Reggiano. Il bue invece doveva comparire raramente sulle tavole come anche le specie cacciate e pescate. Il pollo, che si diffonderà a partire dall’VIII secolo a.C grazie alle navi fenicie sulle quali veniva imbarcato per il consumo a bordo, assume via via sempre maggiore importanza, soprattutto per le fasce piú povere, non solo per la carne, ma anche per le uova che aggiunte alle farine cereali, quale forma di integrazione proteica, diedero luogo a un processo che portò alla nascita della pasta all’uovo.
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Affresco pompeiano con scena di banchetto. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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L’impero dei 10 ingredienti pepe, olio, miele e garum: sono queste alcune delle presenze fisse nel repertorio gastronomico dei romani. La cui cucina, per effetto della straordinaria espansione territoriale, fu la prima ad aprirsi a quello che oggi chiamiamo «cibo multietnico»
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differenza delle epoche precedenti, per le abitudini alimentari dei Romani si dispone di una vasta tipologia di notizie, da quelle letterarie a quelle archeologiche, paleoambientali e iconografiche. Molte ricette le conosciamo grazie al De re coquinaria il manuale del gastronomo Apicio (vissuto tra l’epoca di Augusto e quella di Tiberio), ma anche dai trattati di Catone (De agri cultura), Plinio il Vecchio (Naturalis Historia), oltre che dalle opere letterarie di Petronio (Satyricon), con la famosa cena del liberto Trimalcione, di Marziale, Giovenale, Orazio, Virgilio, per finire con l’editto De pretiis di Diocleziano, che stabiliva il prezzo massimo per la vendita dei principali beni, tra cui molti generi alimentari. Ma oltre che dalle fonti scritte, gran parte delle conoscenze vengono dalla ricerca archeologica, soprattutto dagli scavi effettuati nell’area vesuviana, dove le città di Pompei ed Ercolano, distrutte dall’eruzione del 79 d.C., hanno restituito reperti eccezionali, come suppellettili, strumenti, semi e cibi carbonizzati, pitture e mosaici che permettono di ricostruire la vita quotidiana e le abitudini alimentari nell’epoca imperiale.
A ciascuno il suo orto Per i Romani i prodotti della terra derivavano dai campi arati (arva) e dagli orti con vigne e frutteti (horti). Si può dire che ognuno aveva il proprio orto, anche in città, parte integrante della domus. Dall’orto si ricavavano le verdure (holera) alla base dell’alimentazione romana,
come rape, cavoli, porri, cipolle, aglio, insalata, cardo, oltre che tuberi e bulbi commestibili, consumati cotti o crudi. Dai campi coltivati si ottenevano invece i cereali (il piú pregiato era naturalmente il frumento), e legumi con baccello (fagioli, fave, piselli). In epoca arcaica, la base dell’alimentazione era costituita dai cereali minori, soprattutto orzo e farro, che non danno farina panificabile, ma che assicuravano comunque un buon raccolto anche in terreni non ottimali; spesso questi cereali venivano coltivati insieme alle leguminose, fave e piselli, in modo da avere sempre un raccolto garantito. Da questi si ricavava una zuppa, chiamata farrago, dal sapore non particolarmente gradevole, tanto che in seguito fu utilizzata solo per l’alimentazione animale. I semi di questi cereali inferiori, rivestiti da membrane piú tenaci che non si eliminano con la battitura, venivano torrefatti o brillati, poi battuti e macinati per ottenere una farina che, mescolata all’acqua o al latte, costituiva la base della puls (pl. pultes), una pappa piú o meno densa che poteva essere arricchita da legumi (fave, lenticchie, ceci), cavoli e cipolle. Da questa farina si potevano ricavare anche focacce non lievitate, a metà tra la puls e il pane, rimaste a lungo in uso per alcuni rituali, tra cui quello matrimoniale detto appunto confarreatio, durante il quale gli sposi si dividevano questa focaccia. Le Vestali preparavano poi la mola salsa, una farina di farro di cui venivano cosparsi gli animali vittime
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del sacrificio (da cui il termine immolare). Se per buona parte dell’età repubblicana gli usi alimentari dei Romani furono molto austeri, tra il III e il II secolo a.C., con le guerre di conquista affluirono nell’Urbe grandi ricchezze che, insieme al contatto con la cultura greca, provocarono profondi cambiamenti nello stile di vita e nella cultura. A partire da questo periodo, divenne abituale il consumo di carne, vino e olio; la puls fu sostituita dal pane, azzimo fino al I secolo d.C., poi lievitato. Dall’Oriente e dalla Grecia giunsero, insieme agli artisti e ai letterati, anche cuochi che fecero conoscere nuove spezie e sapori; con la conquista della Gallia, i Romani appresero nuove tecniche per conservare la carne di maiale e per realizzare prosciutti e salami. La maggior disponibilità di terre e la diffusione delle conoscenze agronome dei Greci e dei Cartaginesi, insieme all’introduzione di nuove specie coltivabili, portarono a un miglioramento della produttività agricola e dell’allevamento.
La dieta dei soldati e degli schiavi La dieta del soldato romano è in massima parte simile a quella della plebe domiciliata nella capitale dell’impero, ed è in entrambi i
Ciotola contenente resti di uova, rinvenuta a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Oltre che per la carne, il pollame veniva allevato per le uova, conservate in contenitori ceramici riempiti di argilla finissima.
casi assicurata dalle distribuzioni dello Stato. Nel I secolo d.C. il regime alimentare era in genere a base di pane (ricavato dal grano proveniente dall’Egitto e dall’Africa), vino, olio (diffuso dalla Betica nel limes germanico e in Gran Bretagna), carne di maiale. Un’altra categoria sociale che godeva di un’alimentazione «regolamentata», è quella degli schiavi, ai quali non provvedeva lo Stato ma il padrone, che aveva tutto l’interesse affinché godessero di buona salute. Se al tempo di Catone l’alimentazione schiavile è prevalentemente vegetariana, prevedendo pane, il pulmentarium a base di verdure che può variare secondo le stagioni, olio, sale, aceto, olive, fichi e l’allec, il residuo del pesce proveniente dalla preparazione del garum (vedi box alle pp. 44-45), in epoca imperiale la dieta degli schiavi sembra essere piú variata. Nel villaggio in cui risiedeva la manodopera schiavile addetta all’estrazione del marmo del Mons Claudianus vicino al Mar Rosso, per esempio, sono stati rinvenuti resti di pasto costituiti da molluschi, pesci, maiali, oltre a cereali, legumi (fave, lenticchie, piselli, lupini), noci, mandorle, frutta (datteri, uva, fico, melone), olive, e altri cibi come aglio, cipolla, cumino, coriandolo. In Italia, nel quartiere
cacciati e mangiati, ma mai sacrificati. Recenti scavi effettuati dall’Università di Cincinnati in alcuni edifici situati presso Porta Stabia a Pompei e forse pertinenti a thermopolia (botteghe nelle quali si vendevano bevande calde e fredde, n.d.r.) hanno riportato alla luce resti di pasti provenienti da discariche, in contesti datati alla metà del IV secolo a.C. Accanto a frutta, lenticchie, pesce, noci, uova, sono stati rinvenuti anche cibi esotici come fenicotteri e una zampa di giraffa, condita con spezie.
servile della villa di Settefinestre, presso Ansedonia, è attestato il consumo di ovini, suini e bovini, seppure di qualità non pregiata.
Dagli altari alla tavola Per i Romani l’approvvigionamento di carne derivava dagli animali domestici, allevati per i sacrifici, e da quelli selvatici che venivano cacciati. Le vittime principali dei sacrifici erano i suini, gli ovini e i bovini, associati nel rito dei suovetaurilia, le cui carni potevano essere acquistate al mercato (macellum) e nelle macellerie specializzate nella vendita di animali sacrificati durante i riti pubblici. Per i sacrifici domestici, si uccidevano animali giovani, agnelli, capretti, maiali, polli. In ogni caso, il principale animale da carne per l’alimentazione romana era il suino, la cui razza domestica, benché avesse ancora tratti morfologici tipici del cinghiale, era abbastanza simile all’attuale maiale di allevamento. Gli ovicaprini erano considerati meno pregiati, e allevati principalmente per il latte, il formaggio, e la lana. La carne bovina era limitata a quella di animali vecchi e inabili al lavoro dei campi. Tra gli altri animali allevati nei cortili, vi erano i polli, le oche, i pavoni, i piccioni, i colombi, mentre per cacciare i volatili venivano utilizzate particolari trappole. Il pollame era allevato anche per le uova, conservate entro contenitori ceramici riempiti di argilla finissima, come testimoniano i ritrovamenti pompeiani. Un cibo particolarmente prelibato, sia per gli Etruschi che per i Romani, era la carne di ghiro, il cui allevamento avveniva entro particolari contenitori (i gliraria). Tra gli animali selvatici, quello piú ricercato e che non poteva mancare nei banchetti piú sontuosi, era naturalmente il cinghiale. È da notare che, mentre gli animali – di qualunque specie – allevati possono essere sacrificati agli dèi, gli animali selvatici vengono
Pesce a volontà
Aureo di Traiano che commemora la distribuzione di cibo ai bambini poveri disposta dall’imperatore. 107 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. Le distribuzioni pubbliche gratuite alla plebe romana non prevedevano la consegna di pane, ma di frumento, che veniva poi lavorato e cucinato in casa.
Oltre alla normale attività di pesca, a partire dal II secolo a.C. si sviluppa, lungo il litorale del golfo di Napoli dove ricchi e illustri personaggi avevano le loro dimore, anche l’allevamento del pesce e dei molluschi entro vasche artificiali. L’acquacoltura si deve a personaggi come Sergio Orata, Licinio Murena (da cui prendono nome le specie ittiche da loro preferite), Ortensio, Lucullo e Vedio Pollione, i quali realizzano presso le loro ville complesse opere idrauliche in cui allevare i pesci, piú per sfoggiare la loro potenza economica che per scopo di lucro. Dall’area campana, le peschiere si diffusero sulla costa tirrenica sia verso nord che verso il Meridione, dove sono presenti anche diverse strutture per la lavorazione del pesce e vasche per realizzare il garum. Le peschiere potevano essere di due tipi: scavate nel banco naturale di roccia (come accade sull’isolotto di Sant’Irene presso Briatico in Calabria), o in opera muraria, con vasche rivestite di cocciopesto, presenti in gran parte dell’Italia meridionale, in Calabria, Puglia, Sicilia. Come narra Plinio, la nascita della molluschicoltura si deve a Sergio Orata (140-91 a.C.), il quale nella sua villa di Baia inventò i vivai di ostriche (ostrearia), che
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venivano commercializzate nell’area campana. Il condimento principale della cucina romana era il garum, ottenuto con la colatura di vari tipi di pesci fatti macerare nel sale. Esistevano vari tipi di garum, il migliore era quello di sgombro. I centri di produzione sono localizzati in Italia a Pompei, ma veniva importato in gran quantità anche dalla Spagna e dall’Africa.
Soli al mattino e la sera in compagnia Esistevano due tipi di pasto, il prandium e la cena. In genere il prandium veniva consumato spesso da soli, la mattina o intorno a mezzogiorno, e consisteva in un pasto veloce molto frugale con pane e formaggio, cipolle, insalata, rape e legumi cotti, fichi. La cena è il momento dell’otium, in cui ci si dimentica degli affanni delle attività mattutine; iniziava nel primo pomeriggio e durava fino al tramonto, e costituiva un momento fondamentale della vita sociale romana. Vi partecipavano gli uomini – appartenenti a un gruppo sociale ben definito come la famiglia, la clientela, un collegio professionale o sacerdotale –, disposti in posizione sdraiata, secondo l’uso greco adottato dagli Etruschi fin dal VII secolo a.C. (mentre le donne, se presenti, sono sempre sedute). Durante la cena si consumavano le carni sacrificate agli dèi, con i quali i convitati sembrano condividere il gusto del mangiare. Il banchetto era anche il modo per ostentare il lusso e la prodigalità del padrone di casa. Era dunque nettamente contrapposto alla semplicità e frugalità del prandium. In genere il menú della cena era costituito da tre portate: la gustatio, un breve antipasto in cui si servivano uova, olive accompagnate da pane e vino mielato, ma anche piccole carni, ostriche, molluschi, tordi, ghiri. Seguiva la cena vera e propria, in cui il ruolo principale era svolto dalle carni sacrificali, in genere di maiale o di scrofa grassa (di cui si gustava la mammella o la vulva), accompagnate da selvaggina di piuma o di pelo e pesce, spesso proveniente dalle peschiere di proprietà di chi offriva il banchetto. Per finire, le secundae mensae prevedevano prevalentemente frutta fresca o secca (noci, fichi secchi), il tutto naturalmente accompagnato da abbondante
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vino. I convitati venivano serviti dagli schiavi, in appositi ambienti della casa. L’arredamento della sala da pranzo era formato dal triclinium, un letto continuo a forma di «U», con un piccolo tavolo al centro, su cui prendevano posto fino a nove convitati (tre per ogni braccio) distesi sul fianco con la testa verso il centro. Vi erano poi altri tavolini di servizio, usati per gli scaldavivande e per sostenere le pietanze e il vino, oltre a panche e sgabelli. In epoca paleocristiana e bizantina, il triclinio viene sostituito dallo stibadium, un letto semicircolare su cui i convitati erano sdraiati in posizione radiale con la testa verso il centro. Il rito del banchetto prevedeva un’organizzazione particolare e il lavoro di molti schiavi, che provvedevano a tagliare i cibi e versare il vino. Il servizio da tavola era costituito da piatti, coppe, salsiere d’oro e d’argento per le case piú ricche, o da stoviglie in ceramica che spesso ricordavano nelle decorazioni quelle in metallo prezioso, fabbricate dall’epoca repubblicana alla prima età imperiale in Italia (Campania, Arezzo, Etruria) e successivamente in Gallia e in Africa a livello quasi industriale. Le uniche posate erano i cucchiai, usati per i cibi liquidi; non esisteva la forchetta, introdotta a tavola solo a partire dal Medioevo, pertanto anche nei banchetti piú raffinati si mangiava con le mani.
Un luogo comune da sfatare La famosa formula panem et circenses va considerata metaforica piú che reale. In effetti, la plebe romana non riceveva razioni gratuite di pane, ma di frumento, che veniva macinato in casa in maniera grossolana, per ricavarne la puls; infatti il pane non poteva certamente essere infornato negli appartamenti d’affitto nei quali viveva la popolazione urbana piú bassa, e doveva essere pertanto portato nei forni pubblici e cotto dietro pagamento. Solo con Aureliano (270-275 d.C.) vi fu una distribuzione gratuita di pane e non di grano, pari a due libbre al giorno (654 grammi). Altre distribuzioni di pane, nelle quali la razione venne raddoppiata (ma diminuendone la qualità), avvenivano dietro pagamento. Nel 369 d.C. Valentiniano I tornò alle
Affresco da Pompei, raffigurante la bottega di un fornaio. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In epoca arcaica la base dell’alimentazione era costituita da cereali minori, quali orzo e farro, dai quali si otteneva una farina utilizzata per le pultes, pappe più o meno dense, e per focacce non lievitate. Ancora in epoca imperiale il pane non poteva essere infornato negli appartamenti popolari, e doveva essere portato a cuocere nei forni pubblici.
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distribuzioni gratuite, con razioni ridotte di un quarto, mentre alla fine del IV secolo probabilmente la razione tornò a pagamento. Dunque è evidente che il pane non sempre veniva distribuito gratuitamente al popolo, semmai veniva venduto a prezzo controllato dal fisco. Secondo le situazioni, benché il prezzo rimanesse invariato, poteva cambiare la pezzatura della pagnotta. Per accedere alle distribuzioni di grano occorreva essere cittadino romano, ma anche avere origini romane e il domicilio a Roma. Gli aventi diritto erano muniti di un gettone, con il quale, in giorni prestabiliti, si presentavano negli uffici dell’Annona (dall’età claudia presso la Porticus Minucia in Campo Marzio). Allo stesso modo si accedeva agli spettacoli del circo e nei teatri. Accanto alle distribuzioni pubbliche, potevano avvenire distribuzioni da parte di privati, in occasioni particolari: un affresco di Pompei sembra rappresentare, infatti, la distribuzione di pane da parte di un personaggio ai suoi sostenitori (vedi a p. 43), forse per l’elezione a una magistratura locale. La recente rilettura di un mosaico della villa di Piazza Armerina, con scena di distribuzione di pane nel Circo Massimo, suggerisce che in occasioni particolari potevano avvenire distribuzioni gratuite anche sulle gradinate del circo, rendendo in questo caso effettivo l’accostamento panem et circenses.
L’uso delle spezie Le 468 ricette facenti parte della raccolta di Apicio prevedono tutte per la loro preparazione solo 10 ingredienti di base: il pepe, primo per ordine di importanza, il garum, l’olio, il miele, il levistico (o sedano di montagna), l’aceto, il vino, il cumino, la ruta, il coriandolo. Per cucinare un piatto, servono in media almeno otto di questi ingredienti. È evidente che il costo per preparare un piatto era molto elevato, e solo i ricchi potevano permettersi preparazioni elaborate, tanto che Marziale in un epigramma, è costretto a rinunciare a mangiare la carne di un cinghiale, ricevuta in regalo da un suo amico, in quanto non può permettersi il costo della sua preparazione. Per contro, Columella dice che un bravo cuoco può condire la fava con i semplici prodotti
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| Quella salsa a cui nessuno sapeva rinunciare...
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Il garum è una salsa a base di pesce o delle sue interiora, fatte macerare nel sale con l’aggiunta di erbe e spezie, largamente impiegato nella cucina greco-romana (ne parlano tra gli altri Orazio, Seneca, Marziale) per preparare molti piatti e per insaporirli. Come attesta il ricettario di Apicio, del garum era utilizzata soprattutto la varietà chiamata liquamen, ottenuta filtrando con una tela la colatura del pesce. Apicio consiglia l’uso del liquamen in alternativa all’olio, al sale e al pepe, non come ingrediente nella preparazione dei piatti, ma per insaporirli e presentarli in tavola. Plinio (Naturalis Historia, XXXI, 42-44) ne indica l’etimologia con il garon, un tipo di pesce (peraltro noto solo attraverso Plinio) cosí chiamato dai Greci, con il quale si preparava la salsa anticamente. Definito squisito da Plinio, il garum viene prodotto in diverse località del Mediterraneo; l’autore ci informa che quello piú gustoso e apprezzato è quello di sgombro proveniente da Cartagena in Spagna, chiamato garum sociorum, molto costoso; gli sgombri vengono catturati in Mauretania e nella Betica (odierna Andalusia) quando entrano nel Mediterraneo dall’Oceano, e servono esclusivamente per fabbricare questa salsa. Altri centri di produzione sono Clazomene nella Ionia, Pompei, Lepcis, Turii, Antipoli (odierna Antibes) e la Dalmazia. L’allec è invece lo scarto della lavorazione del garum, di minor pregio in quanto non lavorato e non filtrato, prodotto tra l’altro a Forum Iulii (odierna Fréjus) con le acciughe. Oltre a elencare altri tipi di allec e di garum (tra cui una varietà di colore di vino melato vecchio, cosí liquido che si può bere, e uno fatto con pesci privi di squame riservato alle cerimonie sacre ebraiche), Plinio ci informa delle qualità medicinali di questi preparati: l’allec serviva a curare la scabbia delle pecore, mentre il garum era usato
contro i morsi dei cani, dei coccodrilli, per curare le ulcere, la dissenteria, la sciatica. Tale prodotto era diffuso in tutto l’impero, e veniva trasportato in apposite anfore, su cui spesso si trovano tituli picti che ne specificano la qualità. L’uso del garum continua anche in epoca altomedievale, come retaggio della cultura greco-romana. Isidoro di Siviglia (Etymologiae, XX, 3, 19) nel VII secolo, dopo aver ribadito le parole di Plinio sull’origine del nome, ci informa che al suo tempo veniva fabbricato con ogni genere di pesci; nell’VIII secolo (715 o 730), il Capitolare del re dei Longobardi Liutprando, che stabilisce le modalità di esazione dei dazi e dei pedaggi a cui erano tenute le navi comacchiesi che risalivano il Po, comprende, tra i prodotti trasportati, oltre al sale, anche olio, pepe e il garum, una libbra del quale doveva essere pagata a Liutprando come pagamento del ripatico. Altri documenti del’VIII secolo ne attestano la diffusione anche in ambito continentale, per esempio nell’abbazia di Corbie, mentre un documento tedesco del IX secolo ne fornisce una ricetta a base di pesce, sale e anice, cui si aggiungono menta, salvia, alloro, fienogreco e altre erbe; questo preparato veniva poi fatto cuocere e passato, per essere quindi conservato in vasi ben chiusi. Infine, nel X secolo sant’Atanasio Atonita, monaco del Monte Athos in Grecia, riceve in dono del garum preparato da alcuni monaci provenienti da Amalfi. Tutte queste notizie fanno pensare che in ambito mediterraneo ancora fossero ben vive, anche in epoca altomedievale, alcune abitudini proprie del mondo greco-romano; e se è possibile che i Comacchiesi e i Genovesi commerciassero garum di produzione locale, è anche verosimile che questo provenisse dal mondo bizantino, che ancora per alcuni secoli ebbe in Bisanzio l’erede dell’impero romano.
Pompei, Casa del Fauno. Particolare del mosaico con la lotta tra il polpo e l’aragosta raffigurante pesci e altri animali marini, appartenenti a specie pregiate. II sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
dell’orto come il cerfoglio, la cicoria, la lattuga, la cipolla e l’aglio; quest’ultimo, dalla forte connotazione popolare, non compare mai nelle ricette di Apicio. La cucina romana faceva largo uso di misture di erbe pestate nel mortaio, utensile sempre presente nelle case.
Continuità della cucina romana Alcuni caratteri tipici delle cucina medievale e rinascimentale (almeno fino al XVIII secolo), come il gusto agrodolce, la mescolanza dei sapori, l’uso delle spezie, dei sapori forti e piccanti mischiati a quelli dolci, salati e agri, derivano direttamente dalla cucina romana di età imperiale. Se il gusto agrodolce derivava dall’uso simultaneo dell’aceto e del miele, il salato veniva dal garum, la diffusissima salsa a base di interiora di pesce fatte macerare in olio e varie erbe, che Apicio raccomanda di usare per salare le vivande insipide. L’uso del garum si protrasse a lungo, tanto che, nell’VIII secolo, viene commercializzato dai mercanti di Comacchio lungo il Po, e ancora nel IX secolo i monaci del convento di Bobbio lo acquistano sul mercato di Genova, probabilmente importato dalle coste dell’Istria e da Bisanzio, la città erede dell’impero romano e della sua cultura, che ne manteneva viva anche la tradizione gastronomica. Tra le spezie, utilizzate nella cucina romana e poi in quella medievale, sono molto diffusi il pepe, già conosciuto e usato nel I secolo d.C. e utilizzato anche nei dolci e nel vino (come nel pan pepato e nell’ippocrasso medievali), lo zenzero e lo zafferano, quest’ultimo nella funzione specifica di colorante, tipica poi della cucina medievale, e i chiodi di garofano. Solo con l’invasione araba giunsero in Europa ingredienti nuovi (primi tra tutti lo zucchero di canna e gli agrumi) che, pur mantenendo alcuni caratteri tipici della cucina romana, apportarono un rinnovamento al gusto culinario, mescolando tradizione e innovazione nella preparazione dei cibi.
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Medioevo
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Sulle due pagine sequiam, omnis ium hilluptae premquo totaten imoditate ped maio earum que doluptatisit fugia niminulpa nest, quia cus, nus nost quas arum voluptat aut modi dolorepe
corundae iditam etur aperum quaesequo ium alibus sani berumet harum denimeniet, arum eos idus re proribus dolorer spitis iusam rerum im lant porporenet venitem quam qui dita
Tutti i colori dell’età di Mezzo zafferano, chiodi di garofano, cannella: la cucina del medioevo, contrariamente a quanto si possa immaginare, registrò numerose innovazioni importanti, in larga parte dovute ad abitudini culinarie importate dall’oriente
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ra le fonti scritte per conoscere le abitudini alimentari nel Medioevo, si possono annoverare le opere di medicina e i repertori di erbe, di piante e di animali, che, sotto forma di suggerimenti dietetici, presentano notizie su molti prodotti che venivano reputati idonei per la nutrizione dell’uomo. Altrettanto importanti sono i Tacuina sanitatis, manuali di scienza medica scritti e miniati databili dalla seconda metà del XIV secolo al 1450 circa, che descrivono, sotto forma di brevi precetti, le proprietà mediche di ortaggi, alberi da frutta, spezie e cibi, spesso attraverso vivaci illustrazioni che offrono spaccati della vita quotidiana. Veri e propri ricettari appaiono in Europa solo a partire dalla fine del XIII e nel XIV secolo, mentre si deve agli Arabi, già tra il IX e il X secolo, la prima compilazione di libri di cucina anche se molti di questi non ci sono pervenuti. Se per la cucina francese famosi sono i trattati Le viander, scritto prima del 1380 e attribuito a Guillaume Tirel, detto Taillevent, cuoco dei re di Francia Carlo V e Carlo VI, e Le ménagier de Paris, libro di consigli di cucina e gestione domestica scritto da un borghese parigino alla propria moglie piú giovane di lui, in Italia il piú famoso libro di ricette medievali è il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino da Como, considerato nel Quattrocento il piú grande cuoco del suo tempo.
Commensali intorno a una tavola imbandita, miniatura da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Tutte le informazioni che ci vengono da queste fonti scritte sono riferite alle classi piú elevate della società, mentre scarse sono le notizie sulla cucina dei poveri, dei contadini e dei rappresentanti delle classi meno abbienti. I precetti religiosi costituiscono uno degli elementi che piú caratterizzano le abitudini alimentari nel Medioevo. La Chiesa, infatti, imponeva di astenersi dalla carne e dai prodotti animali, ogni settimana, il mercoledí, il venerdí, il sabato e la vigilia delle feste, soprattutto in periodo di Quaresima, distinguendo tra giorni grassi e giorni magri. Un’altra caratteristica della cucina medievale dei ricchi è l’attenzione ai piaceri dell’occhio. I cuochi prestavano una cura particolare ai colori delle portate e alla forma con le quali queste venivano offerte ai commensali. Le colorazioni delle pietanze si ottenevano con spezie e ingredienti particolari: il giallo, per esempio, era dato dallo zafferano, il verde dal prezzemolo.
Sulle mense dei signori La base del mangiare dei ricchi signori era soprattutto la carne, quasi esclusivamente quella rossa di grandi animali come cinghiali, cervi, caprioli, cacciati nelle proprietà feudali, mentre ai contadini veniva lasciata la carne bianca di polli, conigli, nonché quella dei maiali. Altri animali diffusi erano il camoscio, lo stambecco, l’orso e anche il bue selvatico, che ancora nel IX-X secolo viveva nelle pianure europee. Il cinghiale era spesso incrociato con il maiale selvatico, con il quale aveva una
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MEDIOEVO
Particolare del telo ricamato noto come «arazzo» di Bayeux, che celebra la conquista normanna dell’Inghilterra. 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux. Vi si vedono varie scene di preparazione e cottura delle carni.
somiglianza fisica. Abbondante era anche la selvaggina, costituita da lepri, pernici, fagiani, quaglie e altri volatili, mentre spesso si allevavano a scopo alimentare uccelli acquatici come le gru e le cicogne. L’uso della carne come simbolo di ricchezza e nobiltà deriva dalle popolazioni germaniche, per le quali il consumo degli animali selvatici era anche segno di forza. Il signore è anche il guerriero che difende le sue terre e i suoi sudditi, e pertanto deve mangiare carne per ricavarne la forza necessaria per combattere e per comandare. Questo grande consumo di carne, che si mangiava arrostita e condita con salse speziate, provocò la malattia piú diffusa dell’epoca, la gotta. Significativo è il racconto di Carlo Magno, il quale, afflitto da questo male, non poteva comunque esimersi dal mangiare grandi quantità di carne per simboleggiare il suo potere. Nei giorni di magro si consumava pesce come il salmone e lo storione, mentre alla fine del pasto venivano serviti confetti speziati per favorire la digestione. Mentre la cucina romana impiegava solo il pepe (nel ricettario di Apicio compare unicamente questa spezia; altre, come lo zenzero e lo zafferano – quest’ultimo con la già ricordata funzione di colorante – si trovano nell’appendice al testo, scritta
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probabilmente tra il V e il VI secolo dall’ostrogoto Vinidarius), a partire dall’Alto Medioevo si diffondono in tutta Europa moltissime specie di spezie, destinate principalmente al mercato dei beni di lusso, come i chiodi di garofano, la cannella, ecc. Importate dall’Oriente in maniera massiccia soprattutto con le crociate, le spezie, avevano un costo molto elevato ed erano perciò riservate solo alle classi abbienti. Il loro uso smodato, però, non nasce dalla necessità di coprire il sapore delle carni avariate (anche perché queste venivano consumate fresche o sottoposte a precisi sistemi di conservazione), ma riflette il desiderio di ostentare ricchezza. La frutta veniva in genere consumata fresca all’inizio del pasto e secca alla fine, e aveva anch’essa un preciso ruolo sociale. Infatti quella che maturava vicino alla terra, come le fragole, era ritenuta non adatta ai nobili, ai quali si addiceva invece quella che cresceva sugli alberi, come la mela e la pera.
La tavola dei poveri Informazioni sulla cucina delle classi piú povere e su quella dei contadini sono fornite da documenti privati, statuti, cronache, trattati e dalla novellistica. A partire dal X-XI secolo le strutture produttive avevano assunto una
| La cucina ebraica | L’alimentazione degli Ebrei è rigidamente regolata dalle leggi di Mosè, derivate dalle rivelazioni ricevute da Yahweh nel Sinai e riportate in due capitoli della Bibbia, il Levitico e il Deuteronomio. Secondo queste prescrizioni, si fa una netta distinzione tra animali «mondi» e «immondi». Tra gli animali che vivono sulla terra, possono essere mangiati solo quelli ruminanti con l’unghia fessa e il piede forcuto (Levitico, XI; Deuteronomio, XIV); tra i pesci, quelli forniti di pinne e di squame. Il criterio riguarda dunque principalmente gli organi della locomozione (le zampe e le pinne). Sono pertanto proibiti gli animali terrestri che strisciano come i rettili, e quelli marini che vivono sul fondo o sugli scogli come i frutti di mare, i molluschi e i crostacei (eccezionalmente è consentita l’aragosta). Sono considerati immondi anche alcuni animali «ibridi», come i cetacei, che non hanno squame, alcuni uccelli acquatici e gli animali che vivono sottoterra. Ma anche tra gli animali provvisti di zampe vi sono quelli considerati immondi, perché non ruminano e non mangiano erba. Sono quindi esclusi cavalli, cammelli, lepri perché non hanno il piede esattamente conforme alla norma, e soprattutto i maiali. Altro elemento importante è l’interdizione del sangue e il mischiare la carne con il latte. Come dice il Deuteronomio, «non cuocerai un capretto nel latte di sua madre»; da questo divieto, non si potrà cuocere con il latte non solo il capretto, ma qualsiasi specie animale. Da ciò deriva anche che, durante lo stesso pasto, non si possono mangiare insieme la carne e il latte con i suoi derivati, come il formaggio. Il vino è permesso, ma deve essere preparato da vinai ebrei e venduto in osterie esclusive. Oltre al vino si usava una bevanda a base di semi di melone, tipica di Smirne, chiamata pepitada. Le feste del calendario liturgico ebraico prevedono il consumo di cibi particolari. Durante lo shabbat, giorno in cui si ricorda il riposo del Signore dopo aver
creato l’uomo (equivalente al riposo domenicale dei cristiani) sono proibite diverse attività, tra le quali cuocere cibi, macellare animali e mettere la carne sotto sale, impastare farina e accendere il fuoco. Pertanto occorre preparare da mangiare il giorno prima. Dopo aver cambiato le stoviglie, acceso la menorah – il candelabro a sette braccia – e dopo aver steso una tovaglia bianca sulla tavola, si mangia il piatto principale dello shabbat, cioè lo hamin, una zuppa con uova sode, ceci e carne, cui si aggiungevano cavolo o altri ortaggi. Durante il periodo di Rosh ha-shanah, il «capo dell’anno», si mangiavano mele intinte nel miele insieme a datteri, melograni, ceci tostati, porri e altre verdure simbolo di fertilità. Lo Yom Kippur è il momento del digiuno, di espiazione e penitenza e di riconciliazione del popolo ebraico con Dio. Cade generalmente nel mese di settembre e coincide con il periodo di vendemmia. La cena della vigilia, si consuma un pasto leggero a base di pollame, evitando le spezie e le bevande alcoliche. La cena che rompe il digiuno, dopo la comparsa delle stelle, è a base di carne, ma si può mangiare anche il pesce, come il tonno stufato o il nasello con le melanzane; si consumano anche uova e frutta (uva, fichi, mandorle). Un altro momento importante è la Pasqua – Pesach – che generalmente cade tra marzo e aprile. Durante tale festa, della durata di otto giorni, nei quali si commemorano le sette piaghe d’Egitto e la liberazione dal faraone, il cibo caratteristico è il pane azzimo, che ricorda le gallette non lievitate che gli Ebrei portarono con sé durante l’uscita dall’Egitto. Nel corso del banchetto pasquale si preparavano una zampa d’agnello arrostito, simbolo del sacrificio, insalata di erbe amare, che ricorda l’amarezza della schiavitú, con il sedano simbolo di tristezza e la lattuga simbolo di gioia, accanto a ceci, uova sode, miele, frutta e dolci.
fisionomia marcatamente agricola, puntando sulla cerealicoltura a scapito dell’economia silvo-pastorale (basata sull’allevamento, la caccia e la pesca) che era stata invece la fonte di approvvigionamento principale nell’Alto Medioevo, quando il regime alimentare dei ceti rurali era costituito da una notevole presenza di carne e pesce accanto ai cereali. Per quanto riguarda i cereali, si registrano, agli inizi del Medioevo, alcune novità rispetto all’epoca romana. Vengono infatti introdotte nel
sistema alimentare la segale e l’avena, prima considerate solo piante infestanti, che grazie alla loro alta resa e alla resistenza alle avversità climatiche, soppiantano progressivamente altre coltivazioni, come il farro e il frumento. In alcuni casi si assiste all’abbinamento tra orzo e avena, come contaminazione tra il vecchio (orzo) cereale di origine mediterranea, e il nuovo (avena), diffuso principalmente nelle regioni del Nord Europa. In questo periodo si coltivano anche altri cereali minori, come il
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MEDIOEVO
miglio, il paníco, il sorgo («grani minuti»), contribuendo cosí a una maggiore differenziazione delle risorse, in grado di garantire maggiore disponibilità in caso di carestie o raccolti andati male. Una continuità con il mondo antico si può riscontrare nella coltivazione delle leguminose, incentrata sulla fava, il cece e il fagiolo (l’unica specie autoctona mediterranea è il fagiolo dall’occhio, in quanto tutti gli altri sono di origine americana), e su specie minori come la cicerchia e la veccia. Nell’Alto Medioevo si diffonde anche il pisello (specie comunque già conosciuta fin dalla preistoria), che ebbe grande diffusione nei secoli successivi. Per le verdure, la continuità con il mondo romano è rappresentata dalla presenza del cavolo, della rapa, dell’insalata, della cipolla e dell’aglio, mentre solo a partire dai secoli centrali del Medioevo si avranno alcune novità con la diffusione di piante di origine mediorientale come gli spinaci, le melanzane, i carciofi, giunte dapprima in Italia meridionale e in Spagna tramite la presenza araba. Il frumento, elemento di continuità con il mondo classico, è un prodotto di uso comune nel Mezzogiorno d’Italia, mentre nelle aree settentrionali viene considerato un prodotto di lusso, destinato principalmente ai mercati urbani, e i contadini consumano cereali minori. L’aumento della popolazione che si registra a partire dal X secolo impose la scelta di mettere a coltura nuovi suoli (reducere terram per panem) a scapito di boschi, pascoli e paludi e delle attività silvo-pastorali a essi collegate. In tal modo il regime alimentare dei ceti rurali si modificò, facendosi da una parte piú sicuro, ma dall’altra meno variato. Tale stato di cose sembra interrompersi soltanto nella metà del Trecento, quando, a causa delle carestie e dell’epidemia di peste, si registra un crollo economico e demografico che comporta un aumento dei terreni incolti.
Piatti di città e piatti di campagna La base dell’alimentazione erano i cereali, ma occorre distinguere tra città e campagna, tra i ceti popolari urbani – la cui alimentazione era basata soprattutto sul frumento – e i ceti rurali
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– che basavano il proprio sostentamento sui cereali inferiori e sui legumi, prodotti meno pregiati, ma di resa piú sicura e abbondante come la segale, la spelta, il miglio, il panico, il sorgo, e l’orzo, con i quali si preparano polente, zuppe e focacce. Nel Quattrocento viene ad aggiungersi un nuovo cereale, introdotto nel Nord, il grano saraceno, destinato a diffondersi nei secoli successivi. Nella seconda metà del Quattrocento fa la sua comparsa, sempre al Nord, il riso, che però in questa fase viene utilizzato solo nella cucina dei ricchi, forse per cucinare soprattutto dolci, e solo successivamente entrò a far parte dell’alimentazione contadina. In vaste zone dell’Italia padana i cereali minori furono soppiantati nell’alimentazione contadina dal granoturco, importato dall’America e diffusosi tra il XVII e il XVIII secolo. Tra i legumi, molto ampio è il ricorso a fave, fagioli, ceci, cicerchie e piselli. Altro alimento importante, soprattutto nelle zone di alta collina e di montagna è la castagna (vedi box a p. 52). Fondamentali nella dieta contadina sono anche gli ortaggi (erbe e radici, aglio, cipolla, porri, cavoli, rape), da consumare crudi in insalata o cotti nell’acqua o in padella, mescolati alla carne o ai cereali.
Ancora due vignette dal Tacuinum Sanitatis. XIV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. In alto la raccolta del cavolo navone, un ortaggio simile alla rapa. Nella pagina accanto la preparazione del pane di miglio.
secolo. Già nel XVI secolo in Italia sono diffuse diverse specie di carciofo, che i ricettari (Scappi, Messisbugo, Romoli) citano ampiamente, da mangiare crudo, cotto con olio, sale e pepe, menta e aglio tritato, alla brace, o nel brodo grasso, o «in molti altri modi secondo che piú diletta» (Costanzo Felici, Del’insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo del’homo, 1569). Importata anch’essa dagli Arabi in Spagna e in Sicilia, la melanzana non riscuote subito lo stesso successo, a causa tra l’altro del suo stesso nome mela insana. Fritta nell’olio o cotta sulla brace, è invece particolarmente diffusa nella cucina ebraica (come del resto il carciofo). Altri ortaggi che compaiono nei ricettari cinquecenteschi sono i fagiolini (Messisbugo), i cavolfiori (Scappi) e i finocchi dolci, che cominciano a essere coltivati in questo secolo. Il finocchio ebbe enorme successo sulle tavole rinascimentali, servito fresco alla fine del pranzo. La preparazione del pane d’orzo cessa almeno dal tempo di Plinio, se non in tempi di carestia. Nel Medioevo però, appunto in caso di carestia o di cattivo raccolto, si tende a ricavare il pane anche dall’orzo, non adatto alla panificazione perché la sua farina non lievita. Considerato dai medici romani di difficile digestione e dannoso per lo stomaco, adatto ai filosofi distaccati dal mondo e dediti alla meditazione, nell’età di Mezzo il pane d’orzo si configura come cibo per gli asceti che perseguono la privazione e la rinuncia al piacere fisico. Dunque l’orzo è considerato cibo per animali o per i contadini che non possono permettersi il pane di frumento. Quando manca anche l’orzo, l’uomo regredisce allo stato animale, riducendosi a mangiare l’erba (come durante l’assedio di Lucera da parte di Carlo d’Angiò del 1269). Se per molti secoli il repertorio dei prodotti agricoli non era cambiato rispetto all’epoca romana, tra il XIII e il XIV secolo cominciano a diffondersi anche altre specie di verdure, come gli spinaci, introdotti dagli Arabi dalla Persia, e coltivati in Lombardia agli inizi del Trecento; da innesti con il cardo selvatico sperimentati in Medio Oriente deriva il carciofo, che alcuni attribuiscono invece a orticoltori italiani del XV
Acqua (e vino) col miele In epoca medievale l’acqua proveniva da falde spesso inquinate, pertanto si usava allungarla con l’aceto (aqua posca), con il miele (aqua mulsa) o con erbe. Il vino era invece una delle bevande fondamentali, anche perché legato alla religione cristiana e al rito dell’eucaristia. Grazie al monachesimo, la viticoltura conobbe nel Medioevo una grande diffusione, soprattutto in Italia e Francia. Molto apprezzati erano i vini del Reno e della Mosella, della Borgogna, l’Albana, il Trebbiano, la Vernaccia tra quelli italiani. Dato che non si usavano i tappi di sughero, che compaiono a partire dal Seicento, il vino veniva conservato nelle botti e con il tempo tendeva ad alterarsi, pertanto andava bevuto molto giovane. Altri vini molto apprezzati erano quello di Cipro, il vino di Gaza, il Falerno e la Malvasia, e i vini liquorosi dell’Italia meridionale e della Corsica. Per rendere piú gradevole il sapore nel caso si fosse alterato, si aggiungeva acqua, miele (vino mulso) e spezie. Inoltre era diffuso il vino cotto. Nelle zone in cui la vite non attecchiva, soprattutto nelle aree di tradizione germanica, era diffusa la cervogia, una birra ottenuta dalla
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MEDIOEVO
| L’albero che dà il... pane
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La pianta di castagno è presente allo stato selvatico in molte aree dell’Europa, soprattutto in Italia, Francia e Spagna. La sua domesticazione è dovuta però ai Greci dell’Asia Minore, mentre il maggiore impulso alla coltivazione risale all’epoca imperiale romana. Il castagno, e il frutto che se ne ricava, ebbe molta importanza nel Medioevo, soprattutto per le popolazioni delle zone di montagna e di alta collina, contribuendo a garantirne la sussistenza alimentare ed economica. Il legno di castagno aveva infatti molte utilizzazioni, in ambito edilizio, in ambito navale, per fabbricare botti e manici per attrezzi agricoli, e per ricavarne carbone, considerato il migliore per l’industria siderurgica. Dalla castagna invece, consumata fresca bollita o arrosto, o essiccata in modo da permetterne una lunga conservazione, si poteva ricavare farina per focacce, polente e pane, in assenza o penuria di cereali. Tra l’XI e il XIII secolo, in conseguenza dell’aumento demografico, vennero impiantati numerosi castagneti, in zone poco adatte alla coltivazione di cereali, a scapito anche dei
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boschi. In molte aree dell’Italia, dalla fascia prealpina alla Liguria, dall’Amiata all’Appennino calabro, il castagno divenne l’«albero del pane» per molti ceti rurali. Anche in Francia si impiantarono castagneti, in Bretagna, Aquitania, Normandia, in alcuni casi distribuiti in maniera regolare tra i campi di grano, o su terrazzamenti appositamente realizzati (come in Liguria e nella Francia meridionale). Quando i frutti maturavano, fino alla raccolta si stabiliva il divieto di pascolo nel castagneto; dopo di questa, si lasciavano liberi gli animali, soprattutto i maiali, di razzolare in modo da ripulire il sottobosco. Le castagne venivano raccolte battendo i rami con una lunga pertica, oppure aspettando che cadessero spontaneamente. Le castagne erano perlopiú destinate al consumo interno, ma in alcuni casi i prodotti migliori venivano commerciati nelle maggiori città, come per esempio Milano, Napoli, Messina, Venezia e Genova, anche se per le popolazioni urbane costituivano un alimento marginale nella loro dieta, abituate com’erano a ben altri consumi.
La raccolta e la cottura delle castagne, in una miniatura tratta da un’altra edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
fermentazione dell’orzo e da altri cereali (dal francese Céres, cioè la dea Cerere, legata all’agricoltura e ai cereali con cui si fabbricava la bevanda), usata – come ci informa Giona, discepolo di san Colombano – da tutti i popoli della terra eccetto gli Scordisci e i Dardani (rispettivamente stanziati nella valle del Danubio e a nord della Macedonia, n.d.r.), ma soprattutto dalle genti che abitano l’Oceano, cioè in Gallia, in Bretagna, in Irlanda, in Germania e presso i popoli simili a queste. Benché la birra fosse già conosciuta dai Sumeri, dai Babilonesi e dagli Egiziani – in Italia dal popolo etrusco, che fu il primo a produrla e berla, trasmettendola anche ai Romani –, solo a partire dal Medioevo ai cereali (orzo e farro, frumento e orzo), si aggiunge il luppolo, di cui si ha notizia in un documento del 768 dell’abbazia di Saint-Denis. Cosí, da bevanda tipica del mondo barbarico e pagano, la birra si lega a quello cristiano, spesso contrapposta al vino perché meno costosa. Un’altra bevanda consumata è il sidro, ottenuto dalla fermentazione della frutta, soprattutto mele verdi (pomaticum) e pere selvatiche (piratum), allungato con acqua. Fu in uso presso i contadini, perché piú economico del vino e si diffuse soprattutto in Spagna, in Normandia e in Inghilterra, dove nel 1256 si pagava anche una decima sul sidro al vescovo di Salisbury. La tecnica della distillazione, introdotta in Europa dagli Arabi, viene perfezionata dagli alchimisti della Scuola Salernitana, per produrre l’acquavite utilizzata esclusivamente a scopi medicinali. Per lo stesso scopo, alcune abbazie in Inghilterra, intorno all’XI secolo producono una bevanda chiamata uisge beatha («acqua benedetta»), cioè il whisky. Altre bevande diffusissime nel Medioevo sono l’agresto, un condimento simile all’aceto ricavato dall’uva acerba; l’acqua di rose, ottenuta facendo macerare petali di rose pestati nell’acqua, usata durante i banchetti per lavarsi le mani o in cucina per aromatizzare alcuni cibi; il latte di mandorle, che sostituiva il latte nei giorni di magro, utilizzato anche per addensare salse e per molti dolci, o come emolliente per le cure di bellezza. Tra i sistemi di conservazione della carne e del
pesce, il piú diffuso era la salagione, seguito dall’affumicatura e dall’insaccamento. Un altro metodo era quello di conservare la carne in gelatina (o galantina), ottenuta tramite la bollitura di parti grasse di animali o di pesci, mentre la frutta veniva conservata con il miele e lo zucchero. Le carni e il pesce fresco infine venivano anche conservati in olio, mentre nei Paesi del Nord il cibo era raccolto e conservato in particolari cavità chiamate neviere.
Bollitura e «cotture multiple» Se tra le popolazioni barbariche l’unico sistema di cottura delle carni consisteva nell’arrostirle, nel pieno Medioevo si ricorreva soprattutto alla bollitura, tanto che si è anche utilizzato il termine «monopolio del bollito». Sebbene la carne venisse cucinata anche in altri modi (arrosto, fritto, umido), la bollitura era la soluzione piú praticata poiché rendeva la carne piú tenera (una soluzione quasi obbligata, dal momento che gli animali venivano macellati in età piú avanzata rispetto a oggi). Inoltre, dal bollito si ricavava il brodo, utilizzato anche come base per preparare le salse che accompagnavano la carne. Molto praticata era anche la tecnica «delle cotture multiple», consistente nel bollire la carne prima di sottoporla ad altri tipi di cotture, uso che dall’epoca romana si protrae fino al XVII secolo inoltrato. Nel De observatione ciborum, il medico bizantino Antimo (vissuto nel V-VI secolo), consiglia di cuocere le carni in un brodo ristretto. Dopo averle bollite, si aggiungono all’acqua aceto, erbe, spezie e miele. Una volta fatto addensare il liquido, la carne viene ulteriormente imbevuta di altre spezie tritate nel mortaio con aggiunta di vino, ottenendo un gusto agrodolce retaggio della cultura romana. Per le carni piú giovani si poteva invece adottare direttamente la cottura al fuoco, in graticola o allo spiedo. A tal proposito il biografo di Carlo Magno, Eginardo, riporta che il re era un gran mangiatore di arrosti, e pur soffrendo, come già ricordato, in tarda età di gotta, rifiutava i consigli dei medici di mangiare carne bollita, tanto era assuefatto a tale sistema di cottura.
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corundae iditam etur aperum quaesequo ium alibus sani berumet harum denimeniet, arum eos idus re proribus dolorer spitis iusam rerum im lant porporenet venitem quam qui dita
Questi piatti sono opere d’arte! nel corso del rinascimento tavole imbandite e piatti di portata divengono il pretesto per creazioni che non solo deliziano il palato, ma appagano e stupiscono l’occhio dei commensali. e l’elenco degli ingredienti si arricchisce delle novità portate dalle americhe
N
el Cinquecento vengono pubblicati in Italia numerosi libri sulla cucina; uno solo di essi è scritto da un cuoco famoso, L’Opera di Bartolomeo Scappi (Venezia 1570), mentre altri si devono a professionisti che esercitarono le loro arti come scalchi (camerieri), trincianti (addetti al taglio delle vivande e delle carni in particolare), mastri di casa presso le corti di Roma, Ferrara, Firenze e Urbino. Tra questi possiamo ricordare Cristoforo Messisbugo (Banchetti, composizioni di vivande, et apparecchio generale, Ferrara 1549), Domenico Romoli detto il Panunto (La singolar dottrina, Venezia 1560), Vincenzo Cervio (Il trinciante, Venezia 1581), Giovan Battista Rossetti (Dello scalco, Ferrara 1584). Per quanto riguarda i vini, una panoramica esauriente dei grandi «cru» del tempo è fornita dalla lettera che Sante Lancerio, bottigliere di Paolo III Farnese, indirizza al cardinale Ascanio Sforza, Camerlengo Generale della Chiesa, mentre per la cucina dei conventi ci si può valere delle ricette di suor Maria Vittoria della Verde, compilate tra il 1583 e il 1606 nel monastero di S. Tommaso di Perugia. In ogni caso, la summa della gastronomia rinascimentale si può considerare L’Opera di Bartolomeo Scappi, cuoco di Pio V (1566-1572) e già responsabile delle cucine del palazzo pontificio al tempo di Paolo III (1534-1549).
Particolare de La cucina grassa. Un’allegoria, olio su tavola di Pieter Aertsen.1565-1575. Copenaghen, Statens Museum for Kunst.
Nei suoi presupposti, la cucina rinascimentale resta comunque di ispirazione medievale. Innanzitutto, vigono le stesse restrizioni di carattere religioso del periodo precedente, anzi in modo ancor piú accentuato dopo la metà del Cinquecento con la Controriforma, che portano a elaborare ricette alternative alla carne e ai prodotti animali. Altra caratteristica è l’uso abbondante delle spezie, che continuano a essere un segno di distinzione sociale. Perdura anche l’impiego delle salse a base di frutta o piante aromatiche, legate con mollica di pane e profumate con miscele di spezie, insieme al sapore agrodolce ottenuto con succhi di limone, di agresto e arancia amara. L’eredità medievale include inoltre gli arrosti, sia di pollame che di selvaggina, le paste ripiene (ravioli, gnocchi, tortelletti), e le torte e i pasticci in crosta ripieni di carni disossate.
Un silenzio sorprendente Stranamente, nelle ricette cinquecentesche non si trova alcun riferimento ai nuovi prodotti di origine americana, come il pomodoro, la zucca, il fagiolo o il mais, mentre troviamo il tacchino, molto apprezzato in sostituzione dell’oca. Il pesce svolge un ruolo importante nell’alimentazione delle ricche corti rinascimentali: si consumano sia pesce di mare e crostacei, sia pesce d’acqua dolce, come già nel Medioevo, come lamprede, salmoni e storioni, carpe e tinche. Rispetto all’età di Mezzo, muta invece il consumo delle carni: si mangiano molto manzo e vitello,
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RINASCIMENTO
animali in precedenza utilizzati perlopiú per i lavori agricoli; e sono molto apprezzate le frattaglie e le teste (vengono considerati pregiati anche gli occhi arrostiti allo spiedo), nonché le interiora dei pesci. Anche il latte e i suoi derivati come la panna e il burro vengono utilizzati in maniera maggiore rispetto all’epoca precedente, insieme a vari tipi di formaggi (marzolino, provola, cacio). Ma l’ingrediente piú significativo dell’alta cucina rinascimentale è lo zucchero, usato in maniera massiccia nelle ricette, e anche per le gelatine di frutta, nella confetteria e nella pasticceria. Una caratteristica dei grandi banchetti di corte è costituita dalla presenza dei «Trionfi», grandi sculture ornamentali di zucchero che adornavano le tavole. Si può anzi dire che la cucina italiana del Cinquecento è dominata dal gusto dolce, sebbene l’uso abbondante dello zucchero vada considerato, come le spezie, un elemento di distinzione sociale. Il banchetto rinascimentale, infatti, non tende tanto al piacere del gusto, quanto a mostrare l’abbondanza e il lusso della tavola del principe come segno di ricchezza e potenza. La forma e la presentazione dei piatti prendono il sopravvento sul contenuto e il sapore, tanto che in uno dei festini per le nozze del duca di Ferrara Alfonso II d’Este con Barbara d’Austria del 1565 – descritto da Giovan Battista Rossetti –, interamente dedicato a Nettuno (secondo l’usanza del tempo i banchetti erano spesso a tema), i vitelli arrosto interi vengono acconciati con artifici di pasta come mostri marini, come i capponi e i pavoni, presentati in una crosta per dargli la parvenza di animali acquatici.
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Frontespizio di un’edizione del 1622 dell’Opera di Bartolomeo Scappi, considerato il «Michelangelo della cucina». Il suo trattato fu pubblicato per la prima volta a Venezia, nel 1570.
C’è poi da considerare che questi piatti cosí elaborati non venivano spesso nemmeno assaggiati o quasi, in quanto troppo manipolati. Anche i piatti caldi, come gli arrosti, vengono penalizzati dal protrarsi dell’attesa tra la cucina e la sala da pranzo a causa del rituale del servizio. Inoltre, il codice del galateo e delle buone maniere impedisce le manifestazioni di gola, tanto che i commensali si limitano ad accostare alle labbra qualche boccone preferendo ammirare la regia del pranzo e gioire del privilegio di partecipare al banchetto. A differenza di quello che accadde nel Settecento, che vide primeggiare tra tutte la cucina francese, nel Cinquecento non esiste una cucina che si elevi sopra le altre tanto da dominarle e influenzarle, semmai si può parlare di circolazione di idee e conoscenze di varia provenienza. Nell’Opera dello Scappi, infatti, molti piatti sono definiti «alla francese, alla spagnola, alla tedesca», e vi sono ricette che si rifanno alla cucina moresca (il Sucussu, cioè il cuscus) ed ebraica come il foie gras, riscoperto proprio dallo Scappi dopo che nel Medioevo se ne era persa la conoscenza. Tutto questo dimostra quanto il suo sapere di arte culinaria fosse per il tempo di carattere universale. Il mais giunge in Europa grazie a Cristoforo Colombo nel 1493, e ben presto viene coltivato in diverse parti del Vecchio Continente: in Spagna e in Portogallo, già agli inizi del XVI secolo; in Francia, nell’Italia del Nord – soprattutto nell’area veneta –, tra il 1530 e il 1540; per poi diffondersi in Pannonia e nella penisola balcanica. Inizialmente il mais non sostituisce gli altri cereali, ma è utilizzato come foraggio nei
campi messi a maggese. In alcuni casi i contadini lo coltivavano nei loro orti, dove non pagavano decime né tributi; nelle aree in cui l’alimentazione era basata essenzialmente sui cereali poveri e scarsamente panificabili come il miglio e il paníco, il mais venne poco a poco a costituire la base per la preparazione di focacce e polente, principalmente nel Sud-Ovest della Francia, in Spagna e nell’Italia del Nord, dove viene chiamato granoturco. Il mais, che dalle popolazioni americane veniva consumato bollito, arrostito o impastato, specialmente in Italia venne adattato all’uso locale per preparare la polenta. La sua massima diffusione, insieme a quella della patata, si ebbe in seguito all’espansione demografica verificatasi nel XVIII secolo, con l’aumento del fabbisogno alimentare.
I pro e i contro delle pannocchie Grazie alla resa molto vantaggiosa, con un rapporto di 80 chicchi per 1, il mais venne coltivato su grandi superfici, e i proprietari terrieri spinsero i propri lavoranti a consumarne in gran quantità. L’alimentazione monotona dei contadini basata quasi unicamente sulla polenta di mais comportò la diffusione di epidemie di pellagra, causata dalla carenza di vitamina PP: attraverso questo tipo di preparazione, infatti, la pianta perde alcune vitamine essenziali all’organismo; tra le popolazioni d’America, dove il mais veniva mangiato con procedure diverse, il suo consumo non diede mai luogo all’insorgere di questa malattia (che provoca disturbi a carico dell’apparato digerente, disturbi nervosi e psichici, e, soprattutto, lesioni cutanee, n.d.r.). Segnalata per la prima volta nelle Asturie nel 1730, la pellagra si diffuse in Francia, nell’Italia settentrionale e nei Balcani, regioni che ancora nel XIX e nel XX secolo ne vennero funestate. La totale assenza del mais nelle cucine dei ceti abbienti lo connota come alimento proprio dei contadini e delle classi piú basse. Conosciuta dagli Spagnoli in Perú nel 1539, la patata si diffonde come cibo in Europa solo dalla metà del XVIII secolo, contribuendo a sfamare i contadini in tempo di carestia. All’inizio veniva utilizzata come cibo per gli
Acquerello di John White raffigurante una famiglia di nativi americani, ai piedi dei quali compaiono patate e una pannocchia di mais (granoturco), vegetali che, importati dal Nuovo Mondo, si diffusero in Europa soprattutto dal XVIII sec., nell’alimentazione dei contadini. 1585-1587 circa. Collezione privata.
animali; nel Settecento era anche consigliata da numerosi agronomi come nuovo prodotto per fare il pane, in quanto si poteva coltivare nei maggesi tra due raccolti di grano, con un rendimento anche tre volte superiore rispetto al frumento; aggiunta all’acqua e alla farina, la patata divenne ingrediente indispensabile per gli gnocchi, che comunque erano già presenti in epoca medievale, preparati con acqua e farina o pane grattugiato. Giovanni Battarra (1714-1789) consiglia di bollirla e ripassarla in tegame con aglio, olio, pepe, o di sostituirla alle rape condendola con olio, sale e aceto. In ogni caso, nei paesi tradizionalmente cerealicoli, gli abitanti hanno a lungo rifiutato la patata come principale alimento per il loro sostentamento, considerandola cibo da maiali. Nel 1573 compare in Spagna a Siviglia, e, alla fine del Cinquecento, viene introdotta nei Paesi Bassi; in Italia (dove viene chiamata tartufo bianco o tartuffolo), nello stesso periodo viene cotta in umido insieme alla carne di pecora, soprattutto nell’area alpina.
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RINASCIMENTO
Nel XVII secolo si diffonde in Irlanda, dove diviene rapidamente una delle maggiori risorse, come anche in Inghilterra, nell’Est della Francia e in Prussia, dove arriva nel XVIII secolo. Solo dalla fine del XVIII e nel XIX secolo, però, la patata diventa uno dei cibi alla base dell’alimentazione contadina e delle classi piú povere, contribuendo a sfamare grandi masse di popolazione europea, sempre piú numerosa e sempre piú affamata.
Fagioli «con l’occhio» Il solo tipo di fagiolo presente in Europa già in epoca classica e nel Medioevo è quello bianco con l’occhio nero, di cui resta oggi la varietà africana chiamata dolico. Dall’America
In basso una pianta di peperoncino (Capsicum sive Piper Indicum), tavola dall’Hortulus botanicus pictus sive collectio plantarum, erbario dipinto del pittore e botanico Giovanni Battista Morandi. 1748. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
giungono nuove qualità di questo legume, che ben presto si impongono nelle abitudini alimentari europee, sostituendo quella antica. Di «fagioli senza occhi» parla nel 1584 Giovan Battista Rossetti (Dello scalco). Altre specie americane si diffondono non solo in Europa, ma anche in altre cucine come quella africana o orientale. Tra queste la manioca, l’arachide e il peperoncino. Quest’ultimo si diffonde in Spagna nel XVI secolo, sia come pianta ornamentale che come sostituto del pepe, in quanto piú saporito e meno caro. Successivamente venne piantato nell’Italia meridionale, nei Paesi slavi e in Ungheria, dove il piatto piú famoso, il gulasch,
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In alto Il banchetto nuziale, olio su tela di Pieter Bruegel il Vecchio. 1568 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum. L’artista rappresenta il pranzo offerto da una coppia di contadini, in cui agli invitati vengono servite scodelle probabilmente di polenta di mais.
sarebbe impensabile senza la paprica. Come il peperoncino, proviene dall’America anche il peperone, che però non trova molta diffusione nella cucina italiana, in quanto considerato cibo rustico e volgare.
La riabilitazione del peperone Nel XVII secolo viene utilizzato per la cottura del tacchino, o per insaporire alcune salse, finché nel 1807, i peperoni sotto aceto dell’oste veronese Valentino Alberti vengono serviti sulla tavola di Napoleone, dell’imperatore d’Austria e del re di Napoli, trasformando un cibo «popolare» in un alimento apprezzato anche dall’aristocrazia e dall’alta borghesia.
Un’altra specie americana rapidamente apprezzata in Europa è il tacchino. Scoperto da Hernán Cortés in Messico intorno al 1520, nel decennio successivo è ben presente in Francia (è citato da Rabelais nel Gargantua nel 1534) e allevato in Spagna. Il tacchino ben rispondeva al fatto che fin dal Medioevo, sulle tavole aristocratiche, si era soliti mangiare grandi uccelli come aironi, gru, cormorani, cicogne, pavoni; pertanto, grazie anche al sapore delle sue carni e al prezzo piú basso rispetto ad altri volatili, conobbe immediatamente notevole successo nei banchetti. Per finire, l’alimento americano che maggiormente caratterizzò la cucina in area
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RINASCIMENTO
| Dal «biancomangiare» alla «piccola polenta bigia» Tra il XV e il XVI secolo si diffondono in Europa nuove piante alimentari, che contribuiscono a nutrire la popolazione sempre piú numerosa del Vecchio Continente. Occorre distinguere le specie alimentari introdotte nella cucina europea dagli Arabi fin dal Medioevo, e i prodotti americani, giunti tutti insieme tra la fine del XV e gli inizi del XVI
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secolo, e che però, in molti casi, conobbero un’ampia diffusione solo molti secoli piú tardi. Il riso, originario dell’Estremo Oriente, inizia la sua espansione verso l’Occidente dall’India; conosciuto già dai Greci e dai Romani, è diffuso nel Mediterraneo a opera degli Arabi, i quali lo trovarono in Mesopotamia e in Egitto, estendendo la produzione alla Palestina e al Maghreb. In Europa compare già alla metà del X secolo in al-Andalus e poi in Sicilia. A partire dalla metà del XIV secolo il riso viene esportato a opera dei commercianti spagnoli in Italia a Genova e nelle Fiandre. Al di fuori di queste aree, esso rimase per lungo tempo un prodotto associato alle spezie, tanto da essere venduto nelle botteghe degli speziali insieme alle droghe e altri prodotti esotici; utilizzato sotto forma di farina (nel trecentesco Liber de coquina viene indicato come addensante nel «biancomangiare») o come ingrediente
medicinale, è ancora poco diffuso nell’Italia settentrionale. Nella metà del Quattrocento compare nel ricettario di Maestro Martino una ricetta di riso con latte di mandorle, dunque come piatto «autonomo» che comunque richiama il «biancomangiare». Solo alla fine del XV secolo viene acclimatato nella Pianura Padana, dapprima in Lombardia e, dopo il 1475, nel Ferrarese. Nel XVI secolo il riso, come il mais, diventa uno degli alimenti principali per placare la fame in caso di carestie. Il sistema di coltivazione adottato nel Nord d’Italia, che prevedeva l’allagamento delle risaie per favorire la crescita della pianta, indusse le autorità nel Seicento a limitare o proibire la coltivazione del riso a causa dell’ambiente malsano; a partire dal secolo successivo, a seguito delle gravi carestie e dell’aumento demografico verificatisi in tutta Europa, il riso, al pari del mais e della patata, torna a essere l’alimento principale delle classi piú povere. Cibo povero, dunque, ma anche protagonista di piatti piú raffinati e complessi come i timballi o i sartú, diffusi soprattutto nel Sud Italia. Il grano saraceno, proveniente dal Nord-Est europeo, si diffonde in Olanda, in Germania, in Francia e nell’Italia del Nord tra XV e XVI secolo. Per essere panificabile, dev’essere mischiato ad altri cereali, pertanto viene utilizzato per fare pappe, crespelle o polenta, la polenta grigia concorrente di quella gialla fatta con il miglio, la «piccola polenta bigia» presente sulla tavola di Tonio, ricordata da Manzoni nei Promessi Sposi. Il vantaggio di questo cereale è di poter crescere su terreni poveri, non altrimenti coltivabili, e di poter essere unito ad altri grani e coltivato su terreni solitamente a maggese. Questo spiega la sua introduzione in regioni come la Bretagna o le Alpi, dove i cereali crescono difficilmente.
Nella pagina accanto statuetta lignea antropomorfa di un bulul, divinità del riso venerata dagli Ifugao dell’isola di Luzon (Filippine). XV sec. Parigi, Musée du Quai Branly. I bulul sono raffigurazioni antropomorfe che avevano il potere di sorvegliare le sementi prima della semina e sui sacchi di chicchi freschi dopo la raccolta.
mediterranea, è senza dubbio il pomodoro. Visto all’inizio come un frutto esotico puramente ornamentale, viene usato a scopo alimentare solo raramente, fritto nell’olio e condito con sale e pepe. Solo alla fine del Seicento comincia a comparire nelle ricette napoletane del marchigiano Antonio Latini (Lo scalco alla moderna, 1692), dove, oltre che tra gli ingredienti di vari piatti, figura anche la salsa di pomodoro preparata con cipolle, sale, olio e aceto, che poi divenne, con qualche aggiustamento, la base di molti piatti della cucina italiana e dell’industria conserviera, soprattutto tra Sette e Ottocento.
C’è qualcosa di nuovo tra i fornelli... Tra il XVII e il XVIII secolo, si verificarono due eventi rivoluzionari, capaci di modificare profondamente gli usi e i gusti a tavola. Il primo consiste nel già ricordato arrivo di nuovi cibi provenienti dall’America, che spesso soppiantano gli ingredienti di base di alcune ricette tradizionali: è il caso della patata, del mais e del pomodoro. Allo stesso tempo, l’America fu sfruttata per produrre alimenti come il grano, l’olio, il vino, e per l’allevamento del maiale e del manzo, prima sconosciuti nel Nuovo Mondo; anche lo zucchero e il caffè vennero esportati e coltivati in America, insieme agli schiavi africani. Altra piccola rivoluzione culinaria, che si viene affermando in Europa, principalmente in Francia e in Italia tra Seicento e Settecento, è quella che tende a distinguere i sapori (dolce, salato, agro, piccante) sia nelle singole vivande che nell’ordine delle portate durante il pasto, rispettando il sapore naturale di ogni singolo alimento. Questo contrasta nettamente con la cucina dei secoli (se non dei millenni) precedenti; la cucina romana, quella medievale e poi quella rinascimentale erano infatti basate sull’elaborazione artificiosa delle vivande e sulla mescolanza dei sapori, unendo spesso il gusto agrodolce al piccante e all’amaro, non solo nelle singole preparazioni, ma anche nell’ordine delle portate. Questo rispondeva all’idea della scienza dietetica antica, secondo cui il cibo equilibrato ( o per meglio dire «la
vivanda perfetta») era quello in cui tutti i sapori (e le virtú) erano simultaneamente presenti. Se il gusto agrodolce ottenuto con lo zucchero e gli agrumi della cucina medievale (che riprende quello della cucina romana ottenuto con l’aceto e il miele) si ritrova ancora oggi in alcune cucine europee (come l’uso della confettura di mirtilli insieme alla carne nella cucina tedesca e svedese), in Italia un esempio può essere considerato il panpepato, in cui lo zucchero si unisce al pepe nero per la preparazione di dolci natalizi. Insomma, le cucine medievale e rinascimentale tendono a unire, quella moderna a separare. Questo si riscontra anche nelle tecniche di cottura, che nella cucina medievale spesso si susseguono nella preparazione dei piatti. Infatti, lessare, arrostire, friggere, stufare, brasare, costituiscono spesso momenti diversi di uno stesso processo di cottura, fasi successive della preparazione, che servivano per conservare ma anche per dare particolari consistenze ai cibi. Altra differenza è l’uso dei grassi, poco utilizzati nel Medioevo. Le immancabili salse che accompagnavano i piatti a base di carne e di pesce venivano infatti preparate utilizzando alimenti acidi come l’aceto, l’agresto, il vino, il succo di agrumi mescolati con spezie e fatti raggrumare con mollica di pane, mandorle, noci, tuorlo d’uova. Le salse a base di olio e burro, come la maionese o la besciamella, sono entrate nell’uso comune della cucina solo a partire dal XVII secolo. Per finire, altro elemento di differenza tra il modo di mangiare moderno e quello medievale è nella successione delle vivande e del servizio della tavola. Se oggi la successione delle portate è prefissata e uguale per tutti i convitati («servizio alla russa») nel Medioevo i cibi sono serviti simultaneamente, lasciando a ciascun convitato la scelta e l’ordine in cui degustarli (un po’ come accade oggi nella cucina cinese o nelle cene a buffet). Tutt’al piú si distingueva tra piatti caldi (di cucina) e freddi (di credenza), piú o meno numerosi secondo l’importanza e la ricchezza del banchetto. Inoltre, le differenze di ceto imponevano di mangiare alcuni cibi e non altri, secondo lo status sociale dei convitati.
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Liquidi e bevande
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Nettari divini e sapori esotici osiride, dioniso, atena...: le tradizioni leggendarie delle grandi civiltà antiche attribuiscono origini prodigiose alla birra, al vino e all’olio d’oliva. ma qual è la vera storia di queste bevande e di quelle, come tè, caffè e cioccolato, che, secoli dopo, allietarono i momenti di relax degli europei?
N
on poteva che essere il dono di un dio, anche se di second’ordine, il prezioso liquido che induce alla gioia e al canto facendo dimenticare le quotidiane fatiche, sicuro elemento di congiunzione con il sacro, vero dominatore delle tavole importanti del mondo antico. Almeno questo pensavano i Greci, e come dargli torto! Infatti, anche gli Etruschi, che identificarono Dioniso con la loro divinità Fufluns, ne fecero largo uso e a Roma, dove Bacco si sostituí nel mito al figlio piú giovane di Zeus, se ne sviluppò la produzione e il consumo si diffuse in ogni angolo dell’impero. Ma già nel VI millennio a.C., nel sito neolitico di Hajji Firuz Tepe (Iran nord-occidentale), si beveva un vino resinoso, come dimostra il ritrovamento di una serie di vasi contenenti residui di acido tartarico e di resina di terebinto, quindi un antenato diretto di quello che ancora oggi si consuma in Grecia: la popolare Rezina. In un altro centro non molto distante, a Godin Tepe, poi, all’interno di strati riferibili al 3500 a.C., sono stati rinvenuti numerosi otri e quelle che potrebbero essere definite le prime «bottiglie» di vino, sigillate con tappi di argilla cruda. Oltre la resina si aggiungevano anche spezie e vari tipi di frutta per rendere piú dolce possibile il vino e aumentarne la carica antibatterica. Gli Assiro-Babilonesi lo addizionavano con
Disegno ricostruttivo che immagina la produzione della birra in una «fabbrica» dell’antico Egitto.
miele e mosto cotto cosicché ne bloccavano la fermentazione. Anche il vino della tradizione biblica e quello delle nozze di Cana non doveva essere molto dissimile. Ciononostante, la gradazione alcolica doveva certamente persistere se nelle pagine della Genesi è descritta quella che potrebbe essere definita la prima «sbornia» della storia: «Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda». Una conferma importante è giunta recentemente dallo scavo di Nahariya, nel Nord di Israele, dove sono state portate alla luce quaranta anfore, alloggiate in quella che doveva essere la cantina di un palazzo nobile risalente al 1700 a.C. Qui le analisi effettuate sui residui terrosi dei riempimenti hanno evidenziato la presenza nel vino di resina, menta, cannella, cedro e miele.
L’ultimo viaggio dei faraoni In Egitto il consumo del vino è documentato sin dal IV millennio a.C. quando quello prodotto in Palestina riempiva alcuni grandi vasi che accompagnavano i faraoni nel loro ultimo viaggio, mentre in un raffinato affresco della tomba di Nakht (databile tra la fine del regno di Thutmosi IV, 1397-1387 a.C., e gli inizi del regno di Amenofi III, 1387-1348 a.C.), sono invece descritte la vendemmia e la successiva spremitura delle uve. Nello stesso periodo, nella Grecia micenea, il vino era considerato un
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LIQUIDI E BeVANDE
prodotto di lusso e compare nelle tavolette in Lineare B come wo-no- (da cui il greco classico oinos) quale dono a divinità o a personaggi importanti, spesso associato a un’anforetta a staffa che si ritrova, non a caso, in quasi tutto il Mediterraneo. Nell’Iliade il vino è legato ai rituali di giuramento e funebri, alle cerimonie religiose e ai grandi banchetti; inoltre fanno bella mostra di sé alcune città ricordate proprio perché «ricche di grappoli» come Arne (in Beozia), Istica (in Eubea), Pedaso (in Messenia) ed Epidauro (in Argolide), mentre l’isola di Lemno sembra aver garantito l’approvvigionamento del vino all’esercito acheo durante il lunghissimo assedio a Troia. Achille porta con sé una particolare coppa che usa solamente per bere in onore di Zeus e che, dopo averla ben pulita con acqua e zolfo, riempie di vino per imbonire il re degli dèi quando Patroclo si dirige verso la battaglia. Ma l’importanza cerimoniale del vino traspare bene anche dalla descrizione di un sacrificio ad Apollo in occasione del quale il sacerdote, dopo aver tostato chicchi d’orzo e sacrificato alcuni animali, «vino lucente versava sopra». Numerosi e variegati erano i vini, a seconda della provenienza e delle tecniche di vinificazione. C’era chi preferiva il vino invecchiato di Lesbo e chi invece il Biblino, dall’eponima città fenicia, e chi, al contrario consumava solo il Thasio, dal delizioso aroma di mele. A partire dall’età del Bronzo, si assiste ai primi timidi tentativi di coltivazione della vite che comincia a comparire nella sua specie domestica e che si diffonde verso la fine del II millennio a.C., indicando oramai un consumo sistematico del frutto, forse anche per produrre l’antenato mitico del vino, di possibile derivazione
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Nella pagina accanto località San Giovanni, Isola d’Elba. Un dolium (grande contenitore per derrate), utilizzato per completare la fermentazione del vino o per la sua conservazione. In basso rilievo funerario raffigurante l’ostessa Sentia Amarantis che spilla vino da una botte. II-III sec. d.C. Mérida, Museo Nacional de Arte Romano. L’introduzione di botti di legno si deve alle popolazioni celtiche.
micenea: il temetum. Già nei corredi della prima età del Ferro si rilevano recipienti chiaramente riferibili a pratiche libatorie che presuppongono l’esistenza di occasioni cerimoniali, certamente imperniate sul consumo di bevande alcoliche.
Gli Etruschi conquistano i mercati Ma solo a seguito dello sviluppo coloniale greco, a partire dall’VIII secolo a.C., avviene un radicale cambiamento ben leggibile nei corredi piú ricchi delle necropoli etrusche, sempre piú forniti dell’armamentario tipico occorrente per il simposio. Ben presto le terre etrusche si ricoprirono di vigneti e il vino prodotto cominciò a essere esportato insieme al piú tipico vasellame etrusco dedicato al suo consumo, i kantharoi (coppe a due manici) di bucchero. Dionigi di Alicarnasso reputava i vigneti d’Etruria al pari dei migliori, mentre Marziale riconosceva ai vini etruschi, noti in Grecia già ai tempi di Alessandro Magno, la capacità di rivaleggiare con quelli di Tarragona. Vini eccellenti erano considerati quelli di Gravisca, sulla costa tarquiniese e di Statonia, nella Val Tiberina, mentre a Veio si produceva un vinello rosato dalla feccia spessa e di basso costo. Il commercio etrusco di vino e olio si protese soprattutto verso il quadrante nord-occidentale del Mediterraneo, come dimostra il frequente rinvenimento di anfore vinarie, in particolare vulcenti, sul litorale francese. Diodoro Siculo racconta che, ancora nel I secolo a.C., i Galli ne erano particolarmente golosi e non esitavano a dare in cambio di un’anfora di vino addirittura un uomo. A queste popolazioni celtiche e in particolare a quelle che si insediarono nei territori dell’Etruria padana, dobbiamo alcune importanti
| L’Elba: isola del ferro e... dell’uva
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Nel cuore della rada di Portoferraio, lí dove il promontorio delle Grotte è prossimo a immergersi dolcemente nel mare, in località San Giovanni, le indagini archeologiche condotte dall’Università di Siena hanno fatto riaffiorare importanti novità per l’antica storia dell’Isola d’Elba. Lentamente sta riemergendo un articolato edificio composto da cinque ambienti, in uno dei quali sono alloggiati ben cinque dolia defossa (grandi contenitori per derrate, parzialmente interrati), utilizzati per completare la fermentazione del vino o per la sua conservazione. Le analisi effettuate sulle terre di riempimento dei grandi vasi confermano la presenza di vino mentre alcuni vinaccioli sono stati recuperati all’interno di altre anfore. Siamo certamente in presenza di una fattoria dotata di cantina che, impiantata intorno alla metà del I secolo a.C., si è occupata di produzione vitivinicola sino al I secolo d.C., quando un incendio la distrugge. Grazie al rinvenimento di alcuni bolli, sappiamo anche chi fossero i proprietari sia della fattoria sia della vicina villa marittima delle Grotte: i Valerii, una delle piú celebri e nobili famiglie romane. Ma la grande novità che traspare dagli scavi è quella rappresentata dall’accertato mutamento del sistema produttivo elbano. Proprio i lavori per la costruzione della pars rustica della villa segnano la chiara volontà di sostituire la materia prima della produzione che sino allora aveva caratterizzato, almeno a partire dal IX secolo a.C., il paesaggio economico dell’antica Aithale e la vicina costa populoniese: il ferro. Le stesse scorie della lavorazione metallurgica furono utilizzate dagli antichi costruttori di San Giovanni come piano preparatorio dei pavimenti in cocciopesto. Le diffuse macchie mediterranee che avevano precedentemente ricoperto come un manto vellutato il pietroso scheletro elbano dovevano essere quasi scomparse, sacrificate per il raggiungimento del punto di fusione metallico. In cambio il paesaggio era stato nel tempo segnato da cumuli di detriti ferrosi che sporgevano senza soluzione di continuità in tutte le aree prossime agli impianti siderurgici. Questo doveva essere a grandi linee l’aspetto che, agli inizi del II secolo a.C., l’Elba presentava all’occhio dei visitatori. Ma una nuova «rivoluzione agricola» stava per abbattersi sull’isola e non solo, basata essenzialmente sulla «triade mediterranea» che causò l’affermarsi di un paesaggio contrassegnato da elementi agrari e vitivinicoli. E la fattoria di San Giovanni segnala indiscutibilmente il punto di passaggio dalla fase industriale a quella rurale, dal ferro all’uva.
innovazioni tecnologiche, come l’utilizzo delle botti di legno per la conservazione del prezioso liquido. A Roma, la tradizione assegnava al re Numa Pompilio il merito di aver introdotto la coltivazione della vite e dell’uva, fino allora raccolta semplicemente dalle piante selvatiche arrampicatesi sugli alberi. Molti erano i vini prodotti e i Romani apprezzavano particolarmente quelli invecchiati almeno di un anno. Uno dei piú pregiati e dei piú costosi era il mulsum, un vino mielato dalla lunga preparazione, che prevedeva di esporre al fumo le anfore in cui era stato versato il vino aggiunto di miele attico. Il poeta Orazio declamava il Falerno come il «vino di fuoco» o «indomito», mentre l’Albano come il re dei vini. Plinio il Vecchio cita almeno 80 tipi di vino, tra i quali sceglie senza dubbi il Cecubo, prodotto nella zona di Terracina. Con l’avvento del cristianesimo, il simbolismo del vino si lega all’Ultima Cena e al sacramento dell’Eucarestia. Tutta l’arte cristiana si permea di motivi simbolici: la vigna, che rimanda alla pienezza dei beni paradisiaci; la vite, simbolo della nuova vita che attende il beato; e il vino, simbolo dell’immortalità dell’anima.
Quel prodigioso dono di Atena Usato per curare, per abbellire e tonificare il corpo, come combustibile o quale diffusore di profumate essenze, l’olio di oliva, ancor prima d’essere consumato sulle tavole, aveva acquisito un ruolo unico nelle culture antiche tanto da far nascere, su di sé e sulla sua pianta, storie e leggende di cui è sicuro protagonista. La piú famosa è forse quella della disputa tra Atena e Poseidone per la dominazione di Atene. Zeus decise di risolvere la diatriba tra la dea della sapienza e il dio del mare riconoscendo la vittoria a chi dei due avesse offerto il regalo piú utile all’umanità. Poseidone conficcò il suo tridente nella sacra roccia dell’Acropoli, facendo sgorgare acqua marina, simbolo del dominio sul mare da parte di Atene, e regalò un velocissimo cavallo, aiuto per l’uomo nel lavoro dei campi e in guerra. Atena, dal canto suo, si chinò, piantando la sua asta nella terra e facendo nascere una nuova pianta, che germogliò rapidissimamente,
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LIQUIDI E BeVANDE
La spremitura delle olive in un torchio, particolare del mosaico pavimentale con calendario agricolo rinvenuto a SaintRomain-en-Gal (Francia). Prima metà del III sec. d.C. Saint Germain-enLaye, Musèe d’Archéologie nationale.
mettendo in mostra un bel fogliame verde argentato. Con una pragmaticità tutta femminile spiegò che i frutti dell’albero avrebbero nutrito, abbellito, profumato, medicato, scaldato e illuminato l’uomo. E con una siffatta meraviglia la vittoria arrise alla dea e, da allora, tutti gli alberi d’olivo furono considerati sacri; chiunque ne avesse tagliato anche un solo ramo sarebbe stato punito con la pena di morte. Neanche i Persiani, che invasero l’acropoli nel 480 a.C., dopo aver preso Atene, riuscirono a domare la sacra pianta e non credettero ai loro occhi quando all’indomani dell’incendio che ne aveva fatto un cumulo di ceneri, videro spuntare dal tronco bruciato freschi germogli che, muti, evidenziarono l’indomito carattere della popolazione ateniese. In onore della dea si celebravano le Feste Panatenaiche i cui vincitori venivano premiati con l’olio contenuto
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| Il primato delle picene
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Fin dall’antichità, l’interesse per la pianta dell’olivo a fini alimentari non è stato relegato al solo prodotto della spremitura, ma è stato esteso anche alle olive stesse. Le cultivar (le singole varietà di piante coltivate, n.d.r.) si differenziano ancora oggi tra quelle da olio e quella da mensa. Già Plinio racconta che «Nella Dodecapoli di Siria olive piú che minuscole, non piú grandi di un cappero, hanno tuttavia una polpa pregiata. Per questo motivo le olive d’oltremare si preferiscono, per la tavola, alle italiane, anche se sono a queste inferiori per l’olio e, all’interno della stessa Italia, le olive picene e quelle dei Sidicini sono preferite a tutte le altre». Marziale poi specifica che quelle del Piceno venivano utilizzate sia come antipasto che alla fine del pranzo.
entro apposite anfore, dette per l’appunto panatenaiche. Ma anche nei giochi olimpici l’olivo aveva una posizione di prestigio se è vero che qui i vincitori erano premiati con una corona di rami intrecciati presi dalla sacra pianta vicina al tempio di Zeus.
La lunga marcia dell’oro liquido Ma la storia dell’olivo comincia molto prima, in Asia Minore. Qui l’olivo cresce selvatico e i frutti, molto piú piccoli, producono un olio molto amaro e difficile da mangiare. I primi a intuirne l’importanza sono stati probabilmente i popoli semitici, quali gli Armeni e gli Egiziani, mentre gli Assiri e i Babilonesi usavano solo olio di sesamo, tanto che in sanscrito non è nemmeno presente la parola olivo. Resti di Olea europaea sono già presenti probabilmente in strati miocenici a Rosignano Marittimo (LI), mentre in forma fossile si ritrovano nel Pliocene di Mongardino (BO) e nelle Cicladi (Santorini e Nisyros), quest’ultimi attribuiti a 50 000 anni fa circa. In Israele è famoso il ritrovamento, nel sito paleolitico di Har Ha Negev, di noccioli di oliva risalenti al 43 000 a.C., mentre altre tracce dell’olivo sono state rinvenute in siti neolitici di Spagna, Grecia e Italia. Per trovare i primi
Le olive picene erano, o, per meglio dire, sono, olive verdi, molto grandi, tenere e dolci, oggi conosciute con il nome di Ascolana, e già diffuse in tutto l’impero. Ne offre una conferma la scoperta compiuta a Bliesbruck, tra Francia e Germania, nell’alta valle della Mosella: qui sono venuti alla luce i resti di una taberna, distrutta da un incendio intorno al 275 d.C., e uno dei reperti reca sulla spalla l’iscrizione «Oliva / Picena / ++(...)ti», che si riferisce al suo contenuto. Con queste si facevano le colymbades (le affiorate), cosí chiamate perché galleggiavano in una soluzione fatta da una parte di salamoia e due parti di aceto. Le olive erano state in precedenza incise e poi tenute in aceto per tre giorni, indi scolate e messe entro vasi insieme a ruta e prezzemolo e
segnali di una coltivazione, occorre però andare in Siria, dove, nel 6000 a.C., l’olivo selvatico sarebbe stato addomesticato. Grazie ai Fenici, che chiamavano l’olio «oro liquido», l’olivo domestico cominciò a diffondersi sulle coste del Mediterraneo. Arrivò certamente in Grecia, dove Heinrich Schliemann rinvenne noccioli d’oliva negli scavi di Micene e di Tirinto, e a Creta, come testimonia l’eccezionale ritrovamento a Zakros, in un pozzo risalente al 1500 a.C., di una coppa piena di olive, forse un modesto dono tributato alle divinità ctonie che regolavano il flusso delle stagioni e quindi della vita stessa. Ancora a Creta, nel pieno splendore della cultura minoica, si riconosce un boschetto di olivi tra gli affreschi del palazzo di Cnosso, mentre negli scavi di Festo sono stati portati alla luce bacini e presse per frangere le olive. L’ininterrotta importanza riconosciuta all’olio viene confermata dall’iscrizione risalente all’età classica rinvenuta a Driros, nella quale venivano invitati i giovani a piantare gli olivi e a curarli sino a crescita avvenuta. Proprio i Greci fissarono per primi le regole per la coltivazione, quali l’allineamento e la distanza. Numerosi sono gli esempi di fiorenti oliveti come quelli dell’Attica e della pianura di
coperte dalla soluzione. Al ventesimo giorno potevano essere servite a tavola. Anche le olive nere venivano consumate, soprattutto le pausanie e le orcite: dopo averle tenute un mese sotto sale, venivano condite con bacche di lentisco e semi di finocchio selvatico. Queste olive costituivano anche la ricercata base di un’importante conserva dell’epoca: l’Epityrum. Catone scrive che le olive dovevano essere denocciolate e poi tritate e condite con olio e aceto, seguite da un’aggiunta di coriandolo, cumino, finocchio, ruta e menta, indi il tutto veniva messo in un orciolo con olio a coprire. Quel che ne veniva fuori era una salsa molto saporita che si poteva consumare direttamente oppure quale gustosa aggiunta ad altri piatti.
Ciotola da Pompei contenente olive carbonizzate, ancora conservate dopo l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Oltre che per la produzione di olio, le olive venivano consumate anche come cibo da tavola, sia come antipasto che alla fine del pranzo.
LIQUIDI E BeVANDE
Brocca da birra con manico a cestello da Idna, vicino a Hebron, Cisgiordania (a destra, prima-seconda età del Ferro) e brocca da birra con un solo manico dal distretto di Hebron (a sinistra, seconda età del Ferro). Haifa, Dagon Agricultural Collection.
Delfi, ancora oggi ricoperta da olivi. Gli oli provenienti da queste due zone erano considerati i migliori, insieme a quelli dell’Eubea, di Sicione, di Samo, di Cirene e di Cipro e si trovavano in grande quantità sui mercati. D’altronde, ogni greco adulto aveva un consumo medio annuale di 55 kg circa: 30 per l’igiene corporea, 20 per l’alimentazione, 3 come combustibile per l’illuminazione e 2 per i rituali religiosi e i medicamenti. Tra gli Etruschi, tra l’VIII e il VII secolo a.C., proliferano, soprattutto nei corredi funerari principeschi, i vasi da olio d’importazione, sicuro indizio della sua introduzione in Etruria insieme al suo contenitore. L’inizio, verso la fine del VII secolo a.C., dell’olivicoltura organizzata si rileva anche, con tutta probabilità, dall’apparire di una produzione locale, che imita i recipienti oleari e aumenta sempre piú. Da prodotto di lusso, grazie al progressivo aumento della coltivazione in loco, l’olio diventa elemento di largo consumo. E cosí si moltiplicano i ritrovamenti, come quello della nave del Giglio (600 a.C.), recante nella sua stiva anfore piene di olive o quello effettuato nella necropoli della Banditaccia a Cerveteri dove, tra gli oggetti rinvenuti
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all’interno di una sepoltura, compare una «caldaia» contenente alcuni noccioli, per i quali la tomba è stata conseguentemente denominata «delle Olive» (575-550 a.C.). Anche nel resto d’Italia fanno bella mostra di sé l’olio ligure e quello di Venafro mentre in Magna Grecia si distinguono quello prodotto a Sibari e quello tarantino. Con Roma, la coltivazione dell’olivo e il consumo dell’olio si diffondono in tutte le terre conquistate. I Romani ne facevano ampio uso in cucina, ma apprezzavano molto anche le sue proprietà terapeutiche per lenire le ustioni, alleviare le irritazioni e curare i disturbi di stomaco. A Roma si devono la costruzione di strumenti per la spremitura altamente specializzati e il perfezionamento delle tecniche di lavorazione e conservazione. Basti pensare che l’insieme delle conoscenze e delle pratiche olearie sviluppate dai Romani è rimasto praticamente inalterato sino al secolo scorso e solo con l’avvento dei frantoi industriali a ciclo continuo si registrò un sostanziale mutamento tecnologico.
Una scoperta casuale? La birra è presente nella storia dell’uomo almeno dal VI millennio a.C. e la sua produzione si accompagna alla scoperta della cerealicoltura avvenuta nel Neolitico. Osservando infatti la fermentazione che si verificava nei contenitori pieni di acqua e cereali lasciati all’aperto, si arrivò, probabilmente in modo autonomo in varie località, alla scoperta di questa bevanda, che gli Egiziani consideravano dovuta a Osiride e producevano con orzo e altri cereali sbriciolati e messi a fermentare nell’acqua. Non era comunque molto apprezzata dai Greci e dai Romani, che le preferivano il vino; anche nell’Editto dei prezzi di Diocleziano (IV secolo d.C.), la birra egiziana costava la metà rispetto a quella dei Celti. In Europa la birra veniva prodotta nell’area centro-occidentale e nell’Italia settentrionale, nel mondo celtico e della Gallia cisalpina fin dall’età del Ferro. Secondo quanto riferiscono Ateneo e Strabone, i Liguri producevano, probabilmente già nel VII secolo a.C., una birra d’orzo, insieme a un vino aspro e resinoso.
Dal punto di vista archeologico, la piú antica attestazione della produzione di birra proviene da una necropoli scoperta a Pombia in Piemonte, inquadrabile nell’ambiente protoceltico della cultura di Golasecca. Da una tomba a pozzetto databile intorno alla metà del VI secolo a.C. (vedi qui accanto), all’interno dell’urna cineraria, insieme alle ceneri del defunto, era presente un bicchiere d’impasto della capacità di circa 18 cl, nel quale si erano conservati, grazie alle particolari condizioni ambientali, resti di una bevanda di colore rosso-brunastro ricavata dalla fermentazione di cereali con aggiunta di aromi vegetali, nonché una minima percentuale di luppolo; si tratta, come si vede, di una birra scura e ad alta gradazione. Il ritrovamento di Pombia non solo costituisce la piú antica attestazione archeologica di birra in Europa, ma fornisce anche la prova dell’utilizzo del luppolo come aromatizzante già in epoca protostorica; del resto il luppolo selvatico è ancora oggi endemico nelle brughiere del Ticino tra Pombia e Castelletto e viene usato localmente anche per aromatizzare il risotto, secondo una tradizione descritta già da Plinio il Vecchio. Dunque le popolazioni protoceltiche, già intorno al 550 a.C., producevano una birra scura e rossastra probabilmente corrispondente alla cervisia delle fonti classiche, ricavata da una miscela di cereali.
Con o senza luppolo Nel Medioevo la bevanda ha molta diffusione, soprattutto nell’Europa del Nord e dell’Est, dove la vite non attecchisce e il vino è un prodotto destinato alle classi alte. Un documento del 768 dell’abbazia di Saint-Denis, attesta che insieme ai cereali come l’orzo e il farro, il frumento e l’orzo, viene aggiunto il luppolo nella produzione della birra. Dal XIV secolo tale ingrediente divenne fondamentale, e la birra di luppolo prevalse in tutta l’Europa continentale dal XVI -XVII secolo, come prodotto semi-industriale realizzato da birrai specializzati e dai monasteri. Solo nelle Isole Britanniche la birra senza luppolo, chiamata ale, continua a essere prodotta fino almeno al XVII secolo. Essendo fatta
prevalentemente in casa e non adatta a essere conservata, questa birra andava consumata rapidamente. La prima birreria monastica sembra essere stata quella dell’abbazia benedettina di Weihenstephan vicino Monaco di Baviera, il cui abate, nel 1040, ottiene il diritto di fabbricare e vendere birra per il sostentamento del monastero. Nelle regioni d’Europa in cui si produceva anche il vino, la birra si impose comunque come bevanda popolare, grazie alla sua bassa gradazione alcolica e al minor costo di produzione, diventando spesso, piú che diffusa tra i contadini, la bevanda principale delle città e delle osterie, come accadde per esempio in Alsazia. Solo nel XVIII secolo, l’alto costo del vino fece sí che la birra si imponesse anche nelle campagne, diventando di uso comune anche tra i contadini.
La Tomba 11 della necropoli golasecchiana di Pombia (Novara), sepoltura maschile a pozzetto, con l’urna sigillata (in alto) e aperta. All’interno, tra le ceneri del defunto, si nota un bicchiere contenente i resti disidratati di una birra scura, ottenuta dalla fermentazione di cereali con aggiunta di aromi vegetali. Metà del VI sec. a.C. Oleggio, Museo Civico Etnografico «G. Fantini».
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LIQUIDI E BeVANDE
miscele fumanti Il Caffè
La pianta del caffè è originaria dell’Etiopia e di altre regioni dell’Africa orientale, dove se ne ricava una pasta unita a burro; tra il XIII e il XIV secolo viene importato dagli Arabi nell’Arabia sud-occidentale, dove, intorno al Trecento, si sviluppò l’uso di ricavarne una bevanda dai chicchi torrefatti, ridotti in polvere e poi messi in acqua bollente. Diffuso successivamente in Egitto e nei territori dell’impero ottomano (a Costantinopoli i primi caffè vengono aperti nel 1554), giunse in Oriente, fino all’India. A partire dalla seconda metà del XVI secolo viene importato anche in Europa principalmente per merito dei mercanti veneziani. La nuova bevanda ebbe da questo momento un notevole successo, tanto che si impiantarono vaste piantagioni nei territori delle colonie olandesi a Giava, in quelle francesi delle Antille e in quelle spagnole e portoghesi dell’America centro-meridionale, esempio di prodotto in questo caso non importato, ma esportato nel Nuovo Mondo. Le grandi capitali europee videro sorgere a partire dalla metà del Seicento diversi locali per la degustazione e la vendita del caffè: a Parigi nel 1686 era famoso il «Procope», aperto dall’italiano Procopio Coltelli; a Londra la prima caffetteria fu aperta nel 1687, e, già agli inizi del secolo successivo, se ne potevano contare quasi 3000 in città. Se in Inghilterra e poi in Olanda il caffè viene presto soppiantato dal tè – grazie anche agli interessi commerciali della potente Compagnia delle Indie per questo prodotto – nel resto d’Europa e soprattutto in Francia il caffè divenne il simbolo della cultura illuminista, che si riuniva nei locali o nei salotti privati per gustare la bevanda. In Italia, si adotta l’uso di un filtro per evitare che sul fondo si depositi la polvere, come avviene nel caffè alla turca. Da prodotto di élite, alla fine del Settecento il caffè diviene la bevanda popolare piú diffusa (anche gli artigiani e i commessi, prima abituati a bere la mattina vino o birra, con conseguente scarso rendimento sul lavoro, preferiscono il caffè che li rende svegli e produttivi, come testimonia James Howell già nel 1660), anche perché piú economica rispetto al vino e alla birra.
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Il Tè
Di antica origine cinese, la pianta del tè viene conosciuta dagli Europei in India, ed esportata per la prima volta ad Amsterdam nel 1610. Intorno alla metà del XVII secolo, si diffonde anche in Francia e, grazie agli Olandesi – che l’avevano sostituita ad altre bevande inebrianti come la birra e altri alcolici –, viene commercializzata in Inghilterra. Intorno al 1720 il tè diventa cosí la bevanda piú popolare del Regno Unito, dove gli operai agricoli del Middlesex e del Surrey lo bevono al posto della birra, piú costosa; nella seconda metà del XVIII secolo il consumo pro capite di tè è di circa 900 grammi (2 libbre); agli inizi dell’Ottocento infine, diventerà anche la bevanda alla base dell’alimentazione del proletariato urbano delle città industriali inglesi, che spesso si nutre quasi esclusivamente di tè e pane.
Il cacao
Il cacao è uno dei prodotti importati in Europa dall’America dai conquistatori spagnoli. Molto usato come bevanda dagli Aztechi nelle cerimonie religiose, i suoi semi erano anche utilizzati come moneta di scambio tanto erano considerati preziosi. Triturati e mischiati con diversi alimenti – soprattutto pimento, mais, frutta o anche funghi allucinogeni –, i semi davano origine a diverse preparazioni, che potevano servire come bevanda, medicamento, afrodisiaco o come un vero e proprio cibo a sé. La descrizione della realizzazione del cioccolato è fornita da Díaz del Castillo, che, insieme a Hernán Cortés, assistette ai banchetti del re Montezuma II nel 1519: i semi vengono triturati e mischiati a pimento fino a ottenere una pasta, che poi viene bollita e infine sbattuta velocemente per ottenere una schiuma prima di degustarlo. Essendo molto amaro, il cioccolato all’inizio non ebbe molto successo tra gli Spagnoli stabilitisi nel Nuovo Mondo; solo verso la fine del XVI secolo, quando, forse a opera di suore stabilitesi a Oaxaca in Messico, si aggiunse lo zucchero di canna delle piantagioni messicane, il cioccolato ebbe enorme diffusione tra i creoli spagnoli. Benché Cortés avesse portato in Spagna al re Carlo V alcuni semi di cacao già nel 1527, solo alla fine del secolo la bevanda divenne di moda tra l’aristocrazia spagnola, tanto che per rispondere alla crescente richiesta, vennero create piantagioni, oltre che in Messico e Guatemala, anche in Venezuela. Benché molto caro e riservato essenzialmente alle classi aristocratiche, il cioccolato si diffuse tra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo, nel resto
A sinistra bollitore in argento per il tè. Produzione inglese, XVIII sec. Sèvres, Musée national de Céramique. Qui sopra pianta, frutto e semi del cacao, stampa colorata da un erbario di scuola francese del XIX sec. Nella pagina accanto incisione seicentesca raffigurante un costume grottesco per il coltivatore di caffè, con gli attributi della sua professione.
d’Europa, in Italia, in Germania, in Francia e, tramite l’Olanda, anche in Inghilterra. Nella seconda metà del XVII secolo gli Inglesi impiantarono coltivazioni in Giamaica, i Francesi a Santo Domingo, per soddisfare la richiesta sempre piú crescente in Europa, anche se il maggior produttore di cacao continuò a essere il Venezuela. Tra il Settecento e l’Ottocento, grazie anche a notevoli progressi nelle tecniche di lavorazione dei semi di cacao, in Francia, in Olanda e in Svizzera sorsero le prime grandi fabbriche di cioccolato. In Olanda, Coenraad Van Houten migliorò notevolmente la qualità del cacao, riuscendo a separarne la parte piú grassa, il burro di cacao. Intorno al 1870 in Svizzera cominciò a essere fabbricato il cioccolato al latte. L’alimento, infatti, non veniva piú considerato solo una bevanda, ma sempre piú veniva consumato solido sotto forma di tavolette.
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A Tavola con gli
Antichi
titolo capitolo
101 ricette
La carne
regina delle tavole 74
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Il pesce
Pasta
sapori e simboli
e pasticci
92
104
Il triclinio, olio su tela di Roberto Bompiani (1821-1908). Los Angeles, J. Paul Getty Museum.
I piatti delle foto alle pp. 86, 87, 100, 122, 133 e 144 sono stati appositamente realizzati dallo chef Damiano Arienti presso il ristorante La Vecchia Fonte di Franco Agnelli a San Quirico di Sorano.
Il miele
Alla mensa del
114
126
l’oro dolce
Profeta
Le pietanze dell’
amore 136
La carne regina delle tavole
C
ome abbiamo visto nella prima parte, nel mondo greco e poi in quello romano, l’alimentazione è di tipo prevalentemente
cerealicolo, basata soprattutto sul pane e su altri prodotti, come zuppe, pappe e polente, ricavate da diversi tipi di cereale. Omero definisce gli uomini «mangiatori di pane», in quanto capaci di dominare la natura a proprio vantaggio attraverso l’agricoltura ed elaborando i prodotti della terra, al contrario dei «barbari», che, come gli animali, mangiano carne cruda. Ciò che rende l’uomo superiore agli altri esseri, è pertanto la capacità intellettuale di ricavare attraverso l’ingegno prodotti non altrimenti presenti in natura (il pane, l’olio e il vino sono i simboli di questa attività); anche il fatto di cuocere gli alimenti lo distingue dallo stato bestiale in cui vivono altre popolazioni. La carne sembra dunque avere un ruolo secondario nella dieta dei Greci e dei Romani, ma occupa un posto centrale dal punto di vista ideologico e simbolico. Essa, infatti, è l’elemento principale dei sacrifici e dei banchetti, cioè i momenti piú alti della convivenza sociale, in occasione dei quali si rafforzano i rapporti tra gli uomini e le divinità e tra persone appartenenti allo stesso ambito sociale e culturale. Se la carne non proviene dai sacrifici, deriva da un altro momento fortemente importante, cioè la caccia (gli animali cacciati non potevano essere sacrificati agli dèi). I bovini erano allevati soprattutto per il lavoro dei campi, mentre gli ovini per la lana e il
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Affresco raffigurante due addetti alla cucina che eviscerano un animale, forse un cerbiatto. 50-75 d.C. Malibu, The Getty Villa.
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latte: pertanto, venivano raramente uccisi per i sacrifici e per essere mangiati. Addirittura ad Atene le leggi equiparavano l’uccisione del bue all’omicidio. In casi eccezionali si uccidevano e mangiavano i buoi che tiravano l’aratro, generalmente in età avanzata quando non erano piú adatti al lavoro nei campi. Il solo animale che poteva essere sacrificato e mangiato senza problemi era il maiale, anche se nel mondo romano il sacrificio piú solenne prevedeva l’uccisione di
un bue, di una pecora e di un maiale (Suovetaurilia). Il consumo di carne presso il popolo, sia greco che romano, era dunque strettamente legato al rituale del sacrificio agli dèi, ai quali spettava una parte dell’animale, generalmente i peli della testa – che venivano bruciati –, le interiora, il grasso e le ossa. Nel pamphlet Costituzione degli Ateniesi, attribuito allo pseudo-Senofonte e datato al V secolo a.C., si afferma che il popolo ateniese approfittava dei sacrifici pubblici per permettersi la carne, altrimenti non alla | 76 |
Nella pagina accanto calco di un rilievo raffigurante un macellaio (l’originale, da Roma, si data al 130 d.C. circa). Roma, Museo della Civiltà Romana. A sinistra il sacrificio di un giovane cinghiale raffigurato su una kylix a figure rosse del Pittore di Epidromos, 510-500 a.C. Già Collezione Campana. Parigi, Museo del Louvre.
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sua portata. In epoca romana l’apporto carneo continua a essere importante, soprattutto nella popolazione urbana, sempre legato ai sacrifici. La carne, inoltre, è l’alimento principe che non può mancare nei sontuosi banchetti dei ricchi romani, mentre lo Stato provvede a distribuirne, prevalentemente di maiale, al popolo. A Roma vi erano macellerie specializzate nella vendita di carne proveniente dai sacrifici pubblici, che veniva smerciata in appositi mercati (macellum). Un aumento del consumo di carne ovina sembra essere
Nella pagina accanto miniatura raffigurante un macellaio che squarta un maiale, scelto come personificazione del mese di novembre, da un manoscritto del Martirologio di Adone di Vienne. XII sec. Cremona, Biblioteca Capitolare.
attestato, secondo alcuni studi, in epoca tardo-antica in alcune aree nelle quali viene gradualmente abbandonata la coltivazione di cereali a favore di una economia di tipo silvo-pastorale, che caratterizzò anche buona parte del periodo altomedievale. Con il diffondersi del cristianesimo, si assiste a un rifiuto del sacrificio di animali, ma non perché connotato da rituali cruenti, quanto perché tali riti venivano officiati in onore delle divinità pagane. Del resto il rituale cristiano dell’eucaristia prevede il sacrificio della carne e del sangue di Cristo, anche se effettuato simbolicamente con il pane e il vino. Ma anche nella liturgia cristiana, il sacrificio e la conseguente consumazione della carne – in questo caso di agnello che simboleggia Cristo nel sacrificio pasquale – compare come momento importante nel suo valore simbolico, contrapposto al rituale eucaristico del pane e del vino. Se per l’epoca romana è comunque attestato il consumo di carne, il modello di civiltà è legato esclusivamente ai prodotti dei campi e ai cibi vegetali; i popoli che vivono esclusivamente di caccia e pastorizia sono considerati, per contro, «incivili e barbari», giudizi che si mantengono inalterati almeno fino al periodo della guerra greco-gotica (535-553), quindi nel momento di passaggio tra l’epoca tardo-antica e l’Alto Medioevo. Nel pieno Medioevo questo tipo di mentalità cambia radicalmente, perché i popoli fino ad allora considerati barbari si impadroniscono delle terre e diventano la nuova classe dominante su quello che era stato l’impero romano d’Occidente, imponendo la loro cultura e il loro modo di | 79 |
sfruttamento del territorio, nel cui ambito riveste un’importanza fondamentale l’economia di pascolo e di caccia. Durante l’Alto Medioevo, prevale un sistema economico di tipo silvopastorale, dunque diverso rispetto a quello dell’epoca classica basato quasi esclusivamente sull’uso agricolo dei terreni. Lo sfruttamento della foresta prevede attività tra cui vi sono l’allevamento brado e la caccia, che dunque consentono un notevole consumo di carne a tutti i livelli sociali. La cultura della forza e dell’esercizio fisico, propria della nuova classe dominante di origine barbara, vede nella caccia la sola attività, oltre alla guerra, a cui dedicarsi, lasciando ai contadini il lavoro agricolo. Pertanto, la dieta alimentare dei nobili era costituita essenzialmente di selvaggina. Anche la scienza dietetica del tempo, a differenza di quella classica che indicava nel pane l’alimento perfetto per l’uomo, vede nella carne l’alimento che dà maggior nutrimento e forza, come scrive Aldobrandino da Siena nel XIII secolo. In età carolingia la carne è veramente il simbolo della forza e del potere, tanto che, nel IX secolo, l’imperatore Lotario ne prescrive l’astinenza, insieme all’obbligo di deporre le armi, per coloro che si sono macchiati di una grave colpa nei confronti del sovrano o dell’omicidio di un vescovo, che equivale a rinunciare di fatto al proprio stato sociale. Inoltre, altra caratteristica delle abitudini alimentari dei signori in epoca altomedievale è di mangiare molto, anche se naturalmente vi erano eccezioni, dovute soprattutto agli aristocratici meno legati alla cultura germanica. Significativa a tal proposito risulta la notizia secondo cui il duca di Spoleto, Guido, non fu eletto re dei Franchi nell’888 in quanto di parche abitudini alimentari e perciò non ritenuto adatto a regnare, in base a un’affermazione attribuita all’arcivescovo di Metz. La carne piú diffusa in questa economia di tipo silvo-pastorale è quella di maiale, poiché i boschi sono prevalentemente costituiti da querceti, dove questo animale trova il cibo piú adatto nelle ghiande. In tutti i documenti di epoca carolingia, i pascoli e i boschi vengono misurati infatti in maiali, ovvero indicando il numero di quelli che possono essere ingrassati da una determinata superficie (cosí come | 80 |
i campi sono misurati in moggi di grano, le vigne in anfore di vino, i prati in carri di fieno). Se però i signori mangiavano soprattutto carne arrostita, l’alimentazione contadina dell’Alto Medioevo vede prevalere il consumo di carne bollita, in quanto si poteva ricavare nutrimento anche dal brodo di cottura. Solo a partire dal IX secolo, con la graduale esclusione dei ceti rurali dalle foreste, riservate alle attivitĂ
Scena di caccia al cinghiale, scelta per raffigurare il mese di dicembre, dal cosiddetto Breviario Grimani. Inizi del XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
venatorie dei signori, e alla limitazione dei diritti di pascolo, a | 81 |
cui corrisponde l’incremento dei terreni messi a coltura, la base dell’alimentazione contadina fu costituita principalmente dai prodotti dei campi, anche se la carne fece ancora parte della dieta, soprattutto quella di maiale, attraverso l’allevamento stabulare o tramite i residui usi civici dei boschi. Infine, il consumo di carne è sempre piú limitato, per non dire rifiutato, in ambito ecclesiastico. I monaci e le gerarchie ecclesiastiche, pur provenendo in massima parte dal mondo nobiliare, quando prendono i voti rinunciano alla forza e al potere, cosa che si riflette anche sul piano alimentare con il rifiuto della carne (intesa anche come pulsione sessuale), adeguandosi allo stile di vita dei contadini e degli strati piú poveri e orientandosi dunque verso i cibi vegetali. Spingendosi ancora oltre, l’uomo di Chiesa, per avvicinarsi ancor di piú ai poveri, pratica come scelta l’astinenza e il digiuno. La carne è comunque un alimento a cui anche i monaci fanno fatica a rinunciare, e le fonti agiografiche sono piene di racconti di monaci spesso puniti perché incapaci di mangiare altro che carne, retaggio del loro status precedente. Nei secoli centrali e finali dell’età di Mezzo, il consumo di carne fa inoltre registrare la netta distinzione tra città e campagna, sia in Italia che in altri Paesi d’Europa. Capretti, agnelli, vitelli e pecore sono sempre piú destinati al commercio urbano, mentre alle comunità rurali vengono riservate le carni di animali piú vecchi e di minor pregio. | 82 |
Statuetta in terracotta raffigurante un macellaio nell’atto di uccidere un maiale. Produzione greca, VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Un apporto carneo importante per i contadini viene dai piccoli animali e volatili da cortile, come polli, conigli, oche, e dal maiale domestico, sempre piú spesso allevato in stalla e non allo stato brado. La carne di maiale salata era importante nell’alimentazione contadina soprattutto nei mesi invernali, cosí come il lardo usato nelle regioni in cui non era diffuso l’olio d’oliva, soprattutto nell’Europa centrale e settentrionale, ma anche nell’Italia del Nord. Il diverso consumo di tipi di carne tra chi abita in città è dovuto anche ad aspetti ideologici e sociali, alla contrapposizione tra economia di sussistenza ed economia di mercato, che porta i cittadini (sia i ceti piú bassi che i ricchi e i borghesi) a distinguersi dai ceti rurali, anche sul piano alimentare. Se quindi la carne di maiale è vista sempre piú come «rustica», i ceti urbani preferiscono orientarsi su quella di bovino (soprattutto di vitello) e sugli ovini. Inoltre, nei secoli finali del Medioevo alcune modificazioni del paesaggio (dopo i diboscamenti del XII-XIII secolo e la crisi demografica dovuta all’epidemia di peste scoppiata alla metà del Trecento, aumentarono i terreni incolti tenuti a pascolo erboso) portarono a un aumento dell’allevamento bovino, soprattutto nell’area padana e in altre zone d’Europa, e all’intensificarsi di quello ovino, anche sotto la spinta delle corporazioni dei lanaioli e dell’industria laniera. Per concludere, se nel periodo altomedievale la carne, simbolo del signore guerriero e cacciatore, era quella dei grandi animali, come il cervo, il cinghiale, l’orso, da cui derivava la sua forza, nel XIV e XV secolo la cacciagione piú indicata, anche dai testi di dietetica, è quella dei volatili, come la pernice, il fagiano, la quaglia, le cui carni sono giudicate piú «leggere» (il volatile vola pertanto è leggero), delicate e raffinate. Se prima i volatili erano considerati idonei soprattutto alla dieta monastica, ora medici, letterati e cuochi li considerano i cibi propri della nuova élite aristocratica e alto borghese, che non deve piú conquistare il potere con la forza, in quanto gli viene trasmesso per eredità di sangue, e che esprime il suo dominio attraverso la politica, la diplomazia e la cultura. | 83 |
Ricette di carne
La bottega del macellaio, dal Tacuinum Sanitatis. XIV sec. Vienna, Ă–sterreichische Nationalbibliothek.
A
mbrogino di pollo
Bollito misto all’alessandrina
Pollo ruspante, lardo, prugne acerbe, cipolla, carota, sedano, gambi di prezzemolo, zafferano, chiodi di garofano, uvetta sultanina, mandorle, datteri, zucchero di canna, sale. Questa ricetta è tratta da uno dei piú antichi libri di cucina medievale, redatto a Napoli tra il 1285 e il 1309. Lessa i polli. Poi soffriggi con lardo e cipolla e spezie con zafferano tritati e stemperati con il brodo in cui sono stati lessati i polli; lascia colare e metti con i polli. E metti anche prugne acerbe, uva passa, mandorle pulite, datteri e zucchero.
Piedini, testina, orecchie, interiora, trippa, lingua. Il bollito misto si poteva gustare ad Alessandria nelle efthopolia (botteghe del bollito) e, da quanto viene riportato da Ateneo, era preparato con una grande varietà di componenti che venivano messi a bollire fino a ottenere la giusta cottura (Ateneo, III. 94.c)
Capretto arrosto Capretto, pepe, sale, coriandolo, olio. La ricetta è riportata da Apicio (Apicio, VIII. 6.8): si prende un capretto, si strofina bene con olio, si cosparge di pepe di abbondante sale e semi di coriandolo. Si mette in forno e si fa arrostire.
A destra donna che cucina, particolare di un’altra miniatura dal Tacuinum Sanitatis. XIV sec. Österreichische Nationalbibliothek.
Brodo Apostolorum per Pio V Maiale, castrato, zafferano, cannella, pepe, uva spina o agresto, prezzemolo, formaggio grattato, uova. Ricetta tratta dall’Opera di Bartolomeo Scappi: «Per far minestra di petrosemolo et altre herbette dimandata nelle corti di Roma. Habbisi brodo di carne, dove siano bollite cervellate (salsicce) gialle et barbaglie (gole) di porco e schiena di castrato, et esso sia tinto di zafferano mescolato con pepe e cannella e nel tempo dell’estate pongasi con esse uva spina o agresto intero; e quando saranno cotte este materie pigliasi il petrosemolo ben netto e lavato con altre erbucce e si taglino minute e pongasi in esto brodo; e levato che avverrà il bollito servasi subito con fette di pane sotto e le carni siano compartite in pezzuoli nel piatto. Avvertasi però che (…) starà in arbitrio se si vorrà maritare con cascio grattato e uova sbattute».
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Capretto con l’intingolo
Civero di capriolo in agrodolce
Capretto, fagioli, pepe, garum, pane, acqua e sale. Nel De Re Coquinaria, Apicio descrive questo modo di preparazione del capretto che deve essere ben lavato e pulito e tagliato a pezzi. Metterlo poi in un tegame con acqua, pepe e qualche goccia di garum e far cuocere a fuoco basso. A parte far cuocere dei fagioli in un tegame contenente acqua e sale. Una volta cotti schiacciarli e amalgamarli con pepe tritato e garum. Versare i fagioli nel tegame contenente il capretto e continuare a cuocere. Aggiungere un po’ di olio e servire, preparando una base di bocconi di pane sul quale verrà versato il tutto.
Cinghiale in salsa di Guardea Dosi per 4/6 persone: 1kg di cinghiale, olio d’oliva, sale, 2/3 spicchi d’aglio, 1 rametto di rosmarino, 1 cipolla, 4/5 bacche di ginepro, 1 cucchiaio di capperi, 1 cucchiaio di pasta di olive verdi o nere, vino nero, aceto. Questo piatto rimanda alla cucina etrusca. Tritate finemente aglio, rosmarino e capperi e metteteli in una tazza riempita con metà vino e metà aceto, lasciandoli macerare per un po’ di tempo. Tagliate il cinghiale in tanti pezzi piccoli e mettetelo a bagno per almeno 12 ore in una marinata d’acqua, aceto, vino, rosmarino e salvia. Quindi, scolate lo spezzatino e mettetelo in padella a cuocere molto lentamente, eliminando l’acqua che via via si forma; una volta tolta tutta l’acqua, unite al cinghiale abbondante olio, bacche di ginepro, salvia, sale. Quasi a fine cottura, aggiungere la pasta di olive.
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Carne di capriolo per brasato (spalla, collo o parte finale della lombata), 200 g di lardo, 150 g di uva passa, 75 g di mandorle non spellate, 150 g di pane di campagna leggermente arrostito, 1,5 l di aceto, 30 cl di vino rosso, 1 cucchiaino di zenzero in polvere, 1 cucchiaino di cannella in polvere, 1 cipolla, sale. Questa è una ricetta del XV secolo, tratta dal Libro de arte coquinaria di Mastro Martino. Cuocete la carne per due ore in tre litri di liquido salato composto per metà d’acqua e metà d’aceto. Prima di spegnere fate attenzione che la carne sia diventata tenera senza essere troppo cotta. Scolare e tenere in caldo. Frattanto, sbriciolate il pane e mettetelo a bagno nel vino. Frullate l’uvetta e le mandorle per ottenere una pasta fine. Mischiate alla pappa di pane aiutandosi con la forchetta. Allungate la miscela con ¾ di litro del brodo di cottura della carne. Passate al setaccio il composto e mettete sul fuoco. Aggiungete le spezie e portate a ebollizione a fuoco bassissimo. Lasciate sobbollire per una mezz’ora, finché la salsa non risulti ben legata. Sbucciate e affettate fine la cipolla. Cuocetela in 50 g di lardo finché non si scioglie senza colorirsi. Ridurla in purè e mischiarla alla salsa insieme ai pezzetti del lardo di cottura. Fate sobbollire ancora per qualche istante. Sciogliete il resto del lardo e fate colorire la carne da tutte le parti. Sgocciolate bene e disponete sul piatto di portata. Versare la salsa sulla carne e servire subito.
Coniglio in salsa Coniglio, brodo di carne, mandorle, zenzero e zucchero di canna. Questa ricetta inglese fu scritta nel 1390 per il re Riccardo II. Prendete il coniglio, tagliatelo in pezzi: bolliteli e metteteli in un buon brodo con mandorle, sbiancate e triturate. Mettete insieme zucchero e zenzero in polvere e bolliteli e stemperateli insieme; guarnire il piatto con zucchero e polvere di zenzero e servire.
Crostini di fegato Fegato di maiale, pepe, garum, alloro. Apicio ci descrive cosí la preparazione dei crostini di fegato di maiale: «Fai arrostire del fegato di maiale. In precedenza provvedi a sminuzzare pepe e garum che aggiungerai al fegato dopo averlo tritato, mescola il tutto e forma con la massa cosí ottenuta degli gnocchetti. Quindi li avvolgerai in foglie di alloro e li farai affumicare. Prima di servire, riscaldare in forno!».
Fegato di vitello alla pasta d’olive Dosi per 4/6 persone: 4/6 fettine di fegato di vitello, 50 g di olive nere, salvia, aglio, limone a fettine, olio di oliva, burro, sale ½ bicchiere di vino bianco. Un secondo di carne ispirato alla cucina etrusca. Snocciolate le olive e frullatele con 2 cucchiai d’olio; spalmate le fette di fegato con la pasta ottenuta e fatele cuocere in padella con olio, burro e gli odori: a metà cottura ponete su ciascuna fetta una rondella di limone e spruzzate di vino, abbassate il fuoco e fate evaporare. Salate e servite immediatamente.
Maiale ripieno Maiale, sale, pollo, tordi, anatra, beccafichi, polenta di farro, 15 uova sode tritate, liquamen (salamoia o garum), lampascioni, datteri, lumache sgusciate, malve, bieta, porri, sedano, cime di cavolo bollite, coriandolo, pepe, pinoli.
Lepre con ripieno Una lepre, pinoli, datteri, noci, pepe, uova, 1 rete di maiale, cipolla, garum, vino. Questa ricetta era in voga nell’antica Roma ed è tratta anch’essa dal De Re Coquinaria di Apicio. Svuotare la lepre delle interiora, lavarla accuratamente e riempirla con un macinato di pinoli, datteri, mandorle, noci, pepe; aggiungere delle uova e avvolgerla nella rete di maiale dopodiché metterla nel forno. Preparare un composto costituito da cipolla, datteri, pepe, qualche goccia di garum e vino. Sobbollire tutto in un tegame a fuoco basso. Una volta addensata, versare la salsa cosí ottenuta sulla lepre e far continuare la cottura in forno. Disporre la lepre su di un piatto da portata, spolverarla con del pepe e servire.
La ricetta è riportata da Apicio e prevede il disossamento di un maialetto e la successiva farcitura, tramite la gola, con polpette fatte con la sua stessa carne, beccafichi e tordi, luganeghe, polpette di pollo, datteri snocciolati, lampascioni, lumache sgusciate, malve, bieta, porri, sedano, cime di cavolo bollite, coriandolo, pepe in grani, pinoli. Al tutto si aggiungono le uova sode tritate e il liquamen con molto pepe tritato. Ricucito il maialetto, si pone in forno. Una volta cotto, si serve con delle salse.
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Piccione alle mandorle e alle spezie Quattro grossi piccioni di fattoria con il fegatino, 120 g di lardo, 4 cipolle di media grandezza, 30 g di pane arrostito, 40 cl di vino rosso di buona qualità, 40 mandorle da agricoltura biologica non spellate, 1 cucchiaino raso di zucchero in polvere, sale, spezie. Ricetta tratta da un libro del XIV secolo. Dividiamo ogni piccione in quattro parti. Tritiamo il lardo, sbucciamo le cipolle e tagliamole a fettine molto sottili. Cuociamo i fegatini dei piccioni in un po’ di acqua per circa 5 minuti. Facciamo sciogliere il lardo in una casseruola e mettiamovi i pezzi di piccione per farli dorare per 5 minuti circa. Aggiungiamo successivamente le cipolle, il sale e 2 cucchiaini di miscela di spezie. Laviamo con cura le mandorle dopo averle spellate. Rosoliamo a fuoco lento per qualche minuto, copriamo e lasciamo bollire a fuoco bassissimo per circa 10 minuti. Scoliamo i fegatini e frulliamoli insieme al pane arrostito; aggiungiamo il vino. Passiamo la salsa al setaccio sopra il tegame in cui abbiamo messo i piccioni. Portiamo a ebollizione e abbassiamo la fiamma al minimo. Copriamo e lasciamo bollire per altri 10 minuti. La salsa si addenserà scurendosi e ricoprendo i pezzi di carne. Al momento di servire, ricopriamo con le spezie e con pochissimo zucchero in polvere che non dà sapore dolce ma corregge l’aroma forte della preparazione.
Piedini lessi Piedini di maiale, acqua, sale. Pepe, aceto e odori (cipolla, carota e sedano) a piacere. Anche questo piatto rimanda alla cucina etrusca. Le modalità di preparazione di questa pietanza sono desunte da Ateneo (Ateneo, III, 95. e-f), mettendo insieme quanto è riportato in Aristofane nelle Gerytades (si parla di piedini di maiale), e in due opere di Ferecrate, i Minatori e l’Addestratore di schiavi (dove si afferma che erano bolliti; Ateneo, III, 96. a).
Pasticcio di cosciotto di agnello in pentola 300 g di coscio o di spalla d’agnello, 200 g di grasso di vitello, 2 cipolle, 3 cucchiai di aceto di vino, 2 cucchiai d’acqua, 1 cucchiaio di zenzero in polvere, 1 cucchiaino di peperoncino macinato, 1/3 di cucchiaino di noce moscata in polvere, sale. Questa ricetta è tratta da un manoscritto risalente al 1393. Prendete un coscio e un po’ di grasso o di midollo di bue o di vitello tritati fini, e cipolle tritate fini. Fate bollire e cuocere in un recipiente coperto con un pochino di brodo di carne o altro liquido; poi mettete a cuocere con spezie e un po’ di aceto per renderlo piú acuto e servite su un piatto. Passate la carne e il grasso al tritacarne usando la rondella della seconda misura. Tritate le cipolle e mischiate il tutto, salando e mescolando bene. Mettete la miscela in una terrina, aggiungete 2 cucchiai d’acqua e cuocete a fiamma bassissima. Coprite e lasciate sobbollire per ¾ d’ora. Aggiungete l’aceto e la miscela di spezie, continuando la cottura ancora per mezz’ora. Servite subito o aspettate che il pasticcio sia completamente freddo.
Pollo farcito Pollo, pepe, ligustico, zenzero, cervello, uova, spelta, garum, olio, pepe, pinoli. Ricetta romana. Vuota il pollo dalla parte del collo. Trita del pepe, del ligustico, dello zenzero, della polpa tagliuzzata e spelta lessata, cervello scottato nella salsa, rompi delle uova e mescolale. Fai l’impasto. Stempera con garum e mettici poco olio, pepe a chicchi e abbondanti pinoli. Riempi il pollo in modo che rimanga dello spazio dentro e cuoci.
Pollo al limone o Limonia
Pollo vardano (pollo in salsa bianca)
Un pollo, 150 g di mandorle, ½ l di brodo di carne, 2 cipolle, 60 g di lardo, il succo di un limone, un cucchiaino di spezie.
Un pollo da 1,5 kg, acciughe, olio, vino, porri, odori, pepe in grani, pinoli, latte, 4 uova sode (solo albume).
Ricetta degli inizi del XIV secolo, tratta dal Liber de Coquina. Per fare la limonia friggere i polli in lardo e cipolle. Macinare delle mandorle mondate, stemperarle nel brodo della carne e passarle. Cuocerle insieme ai polli e alle spezie. E, non avendo le mandorle, si ispessisca il brodo con i rossi d’uovo. E al momento di servire, aggiungere succo di limone, o limetta o melangola.
Cuoci il pollo in questa salsa: liquamen (o garum), olio, vino e un fascetto di porri, coriandolo e santoreggia. Quando sarà cotto trita pepe, due mestoli di pinoli, scioglili nel liquido di cottura (dopo aver gettato via il fascetto di odori), e lavora con il latte. Versa il contenuto del mortaio sopra il pollo e fallo bollire. Lega la salsa con il bianco di quattro uova (sode) tritato. Metti il pollo su un vassoio e coprilo di salsa. Questa salsa si chiama salsa bianca (Apicio, De Re Coquinaria).
Polenta di castagne Farina di castagne, olio, sale, pezzi di maiale salato. Far bollire 2 litri di acqua con 2-3 cucchiai d’olio e sale, versare 600 grammi di farina di castagne mescolando bene per non fare grumi. Far bollire a fuoco moderato per 40 minuti, avendo cura che non attacchi; togliere l’acqua in eccesso, tenendola da parte. Levare la pentola dal fuoco e rimescolare la polenta, aggiungendo l’acqua fino a ottenere una consistenza lenta. Rimetterla sul fuoco per due minuti fino a che non bolle e servire con maiale salato (in alternativa si possono mettere cipolle, pesci sott’aceto o ricotta). A destra incisione ottocentesca tratta da una tavola realizzata per l’opera di Cristoforo Messisbugo Banchetti, composizioni di vivande, et apparecchio generale (Ferrara, 1549),
L’agnello di Re Mida Narra la leggenda che Sileno, patrigno di Dioniso, ubriacatosi, si perse nei boschi della Frigia. Qui fu ritrovato da alcuni contadini che lo portarono dal loro re, Mida, il quale, riconosciuto il satiro, lo trattò da gradito ospite per alcuni giorni finché lo riconsegnò a Dioniso. Il dio, per contraccambiare, propose al re di scegliere qualsiasi regalo e Mida chiese di poter trasformare in oro qualunque cosa toccasse. Resosi conto, a causa della sua cupidigia, di non poter piú mangiare, né bere implorò Dioniso di riprendersi l’aureo tocco e il dio, impietosito, accondiscese alla richiesta (Ovidio, Metamorfosi). Re Mida deve la fama a questa leggenda – non l’unica sul suo conto – anche se fu probabilmente il piú importante regnante della Frigia tra l’VIII e il VII secolo a.C. quando Gordio, l’antica capitale, venne distrutta probabilmente a opera dei Cimmeri del Caucaso. Gli scavi archeologici qui condotti da oramai
cinquant’anni dalla Pennsylvania University hanno portato all’individuazione, tra l’altro, della tomba attribuita da alcuni studiosi a re Mida, o Mita, localizzata all’interno di un grande tumulo alto una trentina di metri. La sepoltura risultò intatta al momento della scoperta e, tra gli oggetti del ricco corredo, furono rinvenuti molti calici e alcuni contenitori di terracotta, tutti con resti di cibi e bevande. Le successive analisi di laboratorio hanno potuto determinare le sostanze utilizzate per il banchetto funebre del sovrano: l’ultima cena di re Mida. La ricetta che rappresenta la portata principale è stata ricavata dai cuochi della Pennsylvania University e le dosi sono per 4-6 persone. Sulle due pagine Il festino di Mida in onore di Bacco e Sileno, olio su tela di Gillis Van Valckenborch (1570-1622). Mosca, Museo Nazionale di Belle Arti Pushkin.
Ingredienti: 250 g di lenticchie; 2 cucchiai di semi di finocchio e 2 di cumino; 3 cucchiai di olio di oliva; 1,2 kg di carne di agnello tagliata in cubetti; 1 cipolla tritata; brodo (o acqua); 2 bicchieri di vino rosso; 2 cucchiai di miele; sale q.b. Tenete a mollo le lenticchie della sera precedente, sciacquatele e poi mettetele in una casseruola larga, poi pestate in un mortaio i semi di finocchio e di cumino, fino a ridurli in polvere. Scaldate l’olio in una padella e fatevi rosolare l’agnello per 7-10 minuti indi trasferitelo nella casseruola dove si trovano le lenticchie, unitevi la cipolla e fate cuocere per 10-15 minuti a fuoco basso mescolando frequentemente; unite la polvere di spezie e cuocete per altri 3 minuti mescolando. Aggiungete il vino e mescolate per circa 10 minuti, finché il vino non si è ridotto di un terzo e aggiungete il brodo, o l’acqua, e il miele, sempre mescolando. Coprite e cuocete il tutto a fuoco bassissimo per 4-6 ore finché la carne non sarà diventata molto tenera. Regolate di sale e servite. Il tutto dovrà essere accompagnato da vino e da birra con miele.
Polpette involtate nell’omento Maiale, pane di siligine (spelta), pepe, garum, bacche di mirto, pinoli, vino dolce, omento (rete del maiale). Da Apicio ci arriva la descrizione di questa originale ricetta. Tritare della polpa di maiale sminuzzata con mollica di pane di siligine ammollata nel vino. Pestare insieme pepe e salsa di pesce; se si vuole, anche bacche di mirto prive di semi. Confezionare piccole polpette mettendovi dentro dei pinoli e del pepe. Si avvoltolano nell’omento e si scottano leggermente con vino dolce.
Prosciutto in crosta Prosciutto cotto (un pezzo), miele, uovo (rosso). Per la pasta brisée: 500 g farina, 2 cucchiaini rasi di sale, 10 cucchiaini e ½ d’olio, 8 cucchiai d’acqua gelata. Preso un prosciutto e lessato con moltissimi fichi secchi e tre foglie d’alloro, lo si scuoia, si incide a rombi e lo si inzuppa di miele. Poi si fa una pasta con farina e olio e se ne riveste il prosciutto. Quando la pasta sarà cotta si leva dal forno (Apicio, De Re Coquinaria).
Sardamone di carne 1 kg petto o collo di castrato, 40 g di lardo, 200 g di carote, 1 cucchiaino di coriandolo, 3-4 stigmi di zafferano, 4 l di acqua, miscela di spezie in polvere: zenzero, cannella, noce moscata e pepe in parti uguali. Questa è una ricetta italiana tratta da un libro del XIV secolo. Prendi della carne di castrato, dal petto; tagliala fine e falla bollire bene. Quando avrà bollito tanto da non avere piú odore di beccume, togli l’acqua e friggi la carne nel lardo; poi aggiungi l’acqua in quantità tale che resti poco del suddetto brodo. E quando sarà cotto, cospargi di coriandolo e carote ben tritate con spezie e abbastanza zafferano. E se non avessi il coriandolo, metti del cumino e mangia.
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Il pesce
sapori e simboli
S
e il consumo di pesce è evidente sin dalle epoche piú antiche della preistoria, piú difficile è dire come venisse consumato.
Possiamo presupporre che pesci, molluschi e crostacei venissero mangiati crudi, arrostiti o essiccati, con sistemi quindi di cucina molto semplici. Alcuni pesci suscitarono grandi interessi alimentari, tali da giustificare una vera e propria specifica marineria. Esemplare è il caso del «maiale di mare» (Strabone, III, 2-7) o tonno nell’utilizzo del quale si specializzarono alcuni popoli come i Cartaginesi e i Troiani. Gli Egiziani erano soliti dare ai bambini, come primo cibo dopo lo svezzamento, il pesce e, in particolare, le
Sulle due pagine particolare di un mosaico con barche, ciascuna impegnata in una diversa tipologia di pesca, su un mare ricco di specie ittiche, dalle catacombe di Ermes a Sousse (l’antica Hadrumetum). II sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico. Nella pagina accanto vaso con immagine di polipo, da Cnosso. 1500 a.C. circa. Iraklion, Museo Archeologico.
sue prelibate uova, che si consumavano sia fresche che essiccate, presenti ancora nella cucina di quel Paese con il nome di batarakh (da cui l’italiano «bottarga»). I Minoici, invece, amavano le lampughe, come si evince da un affresco di Thera (Santorini), ma anche i ricci di mare, le triglie e probabilmente i delfini. Questi ultimi, insieme agli altri cetacei, sono sempre stati molto ricercati dalle culture mediterranee, come confermano le pitture
rupestri neolitiche della Grotta del Genovese di Levanzo o quelle etrusche della Tomba delle Leonesse di Tarquinia. Addirittura, in un’iscrizione risalente al IX secolo a.C., si fa menzione dei doni che i re della costa fenicia inviarono al re assiro Assurnasirpal II, tra i quali spicca un balenottero. I Micenei erano ghiotti di polpo ed erano soliti pescarlo con l’arpione mentre i crostacei venivano reperiti, insieme alle spugne, grazie alla pesca subacquea. Tuttavia, solo in epoca storica e grazie soprattutto ad Archestrato | 94 |
Nella pagina accanto giovane pescatore con filze di lampughe, affresco da Akrotiri (Thera, odierna Santorini). 1500 a.C. circa. Atene, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra piatto in ceramica dalla Campania, con rappresentati due pesci e un polpo. 350-325 a.C. circa. Boston, Museum of Fine Arts.
In alto affresco pompeiano raffigurante una natura morta con pesci. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Sulle due pagine ancora un mosaico da Sousse (antica Hadrumetum) con scene di pesca. II sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.
di Gela, che, nel IV secolo a.C., scrive uno specifico libro di cucina (poi tradotto in età repubblicana da Ennio), viene sancita l’importanza del pesce sulla tavola. Molto apprezzati erano la murena, la sogliola, l’orata, il sarago, la triglia, la sarda, le alici, ma anche scampi, seppie, polpi, astici, aragoste e ostriche, che venivano insaporiti con ogni sorta di salse e accompagnati da verdure bollite e a volte da fegato, da carni varie e da uova di anitra, pernice e piccione. Del pesce non si buttava via nulla e tutte le parti che non venivano consumate fresche o essiccate si utilizzavano per la preparazione di varie salse, la piú famosa delle quali è il garum. Con Roma si sviluppò anche la piscicoltura, già sperimentata in precedenza anche da Gelone tiranno di Gela nel V secolo a.C., che si trasformò da moda dei ricchi in una vera e propria attività industriale, molto redditizia. Varrone racconta di un tale Lucio Albuccio che guadagnava da questo commercio circa 20 000 sesterzi, esattamente il doppio di quanto gli rendeva la sua bella proprietà di Albano. Ad alcuni pesci, poi, vennero attribuite alcune particolari proprietà come quella afrodisiaca. La religione cristiana, viceversa, inserí il pescato come alimento privilegiato da consumare nei giorni di magro per via della credenza che vedeva i pesci riprodursi senza accoppiamento.
Ricette di pesce
Mosaico raffigurante diverse specie di pesce che fuggono da un paniere, da Sousse (l’antica Hadrumetum). II sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.
A
cciughe fritte
Acciughe, uova, garum, vino, olio, pepe. Ricetta molto semplice e saporita, in voga presso i Romani. Lava le acciughe, rompi delle uova e sbattile con poca acqua. Aggiungi la salsa garum, il vino, l’olio, metti al fuoco e quando bollirà gettaci le acciughe. Quando tutto sarà incorporato, rivoltalo con delicatezza. Fai prendere colore e bagna con garum. Cospargi di pepe e porta in tavola.
Amia Baccalà del frate cappuccino Baccalà, sardelle, alloro, pinoli, uva passa, cioccolato amaro grattugiato, una scorzetta di limone, brodo, pangrattato, polenta gialla. Preparazione di origine monastica. Togliere pelle e lische al baccalà ben ammollato. Tagliarlo a pezzi piuttosto grossi e soffriggerlo ben infarinato in una teglia a bordi alti, sistemando i pezzi molto vicini uno all’altro, in modo che non rimangano vuoti. Aggiungere alloro, sardelle ben pulite e tritate, pinoli, uva passa, cioccolato amaro, scorzetta di limone, sale e pepe. Ricoprire il tutto con brodo bollente e far cuocere lentamente per almeno 3 ore, avendo cura, perché il baccalà non si attacchi, di non mescolare, ma soltanto scuotere il recipiente. Al termine, cospargere la pietanza di pangrattato e infornarla per il tempo necessario a ottenere una leggera crosticina dorata. Servire il baccalà alla cappuccina accompagnato con polenta gialla molto morbida.
(pesce azzurro: leccia, ricciola) 1 ricciola, foglie di fico, sale, maggiorana. La ricetta è del grande gastronomo Archestrato di Gela, che raccomanda di cucinarla in autunno, cosí da gustarla al meglio, avvolgendola in foglie di fico con pochissima maggiorana (senza aggiunta di formaggio o altri alimenti), ponendola cosí preparata sotto la brace.
Buglione di pesce Ricetta molto usata nel Medioevo. Pesce misto, di fiume e di mare, si faccia lessare. Con prezzemolo, mollica di pane secco e noci, si faccia bollire. Al pesce si aggiungano durante la cottura spezie forti (garofano, zenzero, pepe, ecc.) e dolci (cannella, ecc.).
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Crostata d’alici salate Acciughe, farina, burro, formaggio grattugiato, uova, pepe, acqua e sale. Ricetta preparata per la prima volta da Bartolomeo Scappi alla metà del Cinquecento. Pulite delle acciughe, lavatele bene e asciugatele. Disponete della farina a fontana, mettendovi al centro del burro ammorbidito tagliato a pezzettini, una presa di sale e un po’ d’acqua tiepida. Impastate e senza lavorare troppo fate una palla che avvolgerete in un tovagliolo lasciandola riposare un paio d’ore. Preparate un composto con del formaggio grattugiato, delle uova, una presa di pepe, amalgamando bene il tutto. Con l’impasto fate una sfoglia non troppo sottile e foderateci una tortiera, dove verserete all’interno il ripieno decorando con i filetti di acciughe. Infornate la torta e servitela tiepida o anche fredda.
Gronco arrosto Gronco in pezzi, garum, farina, cipolla, vino, pepe, prezzemolo, cumino, origano, uova, aceto, olio. Apicio, nel De Re Coquinaria, consiglia di preparare il gronco questo modo. Fate scaldare l’olio in una padella e immergetevi il pezzo di gronco infarinato, che indorerete da tutte le parti. Nell’olio mettete anche, per insaporirlo, una cipolla tagliata in quattro. Quando il pesce è indorato, aggiungete il bicchiere di vino e rimestate; aggiungete poi, mescolando ogni volta, il pepe, il prezzemolo, il cumino, l’origano, i tuorli delle uova che avrete fatto sode, l’aceto, il garum e infine ancora altro vino. Tempo di cottura: mezz’ora circa. Servite ben caldo.
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Garum L’immancabile invitato a tutte le tavole romane. Veniva utilizzato un po’ dappertutto, a volte anche al posto del sale. Queste sono le preparazioni che si consigliano: A) Prendere la bianca carne dello sgombro, aggiungerla a sardine e acciughe. Sminuzzare e mescolare il tutto su di un tagliere. Aggiungere del sale in grande quantità e fare riposare per tutta la notte. Versare quindi in un contenitore, da lasciare poi aperto per alcuni mesi in un angolo soleggiato. Si otterrà un liquido fermentato da versare come salsa sulle pietanze. B) Prendere erbe aromatiche (timo, finocchio, salvia, menta peperita, origano) e pesci (acciughe, sardine, tonno...), tritare il tutto e mettere il composto ottenuto in un vaso con un coperchio di legno o di sughero. Dopo venti giorni, pigiare con forza e raccogliere il liquido in un recipiente, avrete cosí ottenuto il garum. C) Stemperare 3-4 filetti di acciughe in olio ben caldo. Un cucchiaio di aceto di vino rosso, due cucchiai di succo d’uva ed erbe aromatiche: timo, finocchio, salvia, menta piperita e origano. Lasciamo le erbe in infusione per 4-5 giorni dopodiché filtriamo. D) Per preparare un garum, il piú semplice possibile, prendere della pasta di acciughe e diluirla con qualche goccia di aceto.
Insalata di mare Esistono tanti esempi di insalata di mare, qui se ne consigliano tre tipi molto in voga ai tempi dell’antica Roma: A) Preparare frutti di mare e pesci a pezzettini dopo averli lessati e condire con la salsa cosí fatta: tritate insieme pepe, levistico, prezzemolo, menta secca, alloro, nardo, cumino e mescolate con mezzo bicchiere d’aceto, un cucchiaio di garum e uno di miele. B) Lessate i molluschi e i pesci e condite con una salsa (tipo maionese) sbattendo un tuorlo d’uovo con olio, aceto, garum, vino e mescolate con un trito di pepe e levistico. C) Preparate un letto di lattuga ben sgocciolata e posizionategli sopra i tranci di tonno salato e fette di uova sode. Il tutto condito con l’immancabile garum.
Pesce dei Templari Filetti di pesce (orata o branzino), olio, vino, sale, 50 g mandorle, 50 g pinoli, 2 fette di mollica di pane, latte, 1 spicchio d’aglio, limone, olive. Ricetta medievale dedicata ai famosi cavalieri. Disporre i filetti di pesce in una teglia unta d’olio, salare e bagnare di vino bianco. Cuocere in forno sino a quando risulterà morbido. Nel frattempo, preparare la salsa pestando in un mortaio le mandorle, i pinoli, la mollica di pane precedentemente ammollata nel latte e l’aglio. Quando avrete ottenuto un composto omogeneo, unirvi il succo di ½ limone e allungare il tutto con il fondo di cottura del pesce tanto quanto basta a rendere l’impasto morbido e cremoso. Aggiustare di sale e travasare la salsa in una ciotola da servizio. Su un piatto da portata sistemare un letto di foglie di lattuga, adagiarvi i filetti di pesce, guarnirlo con spicchi di limone, olive nere, e servire con la salsa a parte.
Piatto di dentice, d’orata, di cefalo Orata, dentice, cefalo, ostriche, vino, uova, pepe, garum, olio Ricetta romana piuttosto sofisticata. Prendi i pesci e preparali, scottali e tritane la polpa. Sguscia poi delle ostriche. Aggiungi il pepe macinato al garum e al vino, poi metti nel tegame con l’olio e le ostriche. Fai bollire con la salsa acida di vino. Quando ha bollito ungi una padella e getta il trito sopra detta polpa e sopra il condimento di ostriche. Fai bollire. Quando bollirà, rompi due uova e gettale sulle ostriche. Quando tutto si sarà rappreso, cospargi di pepe e servi.
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Scapece da taverna 1 Kg di pesce (naselli, merluzzi, sgombri, ecc.), 1 litro di vino, 1/4 di litro di aceto, 3 cipolle, 6/7 stigmi di zafferano, ½ cucchiaio di grani di cumino, ½ cucchiaio di pepe in polvere, sale.
Razza bollita 1 razza, formaggio, silfio (aneto o prezzemolo); per la bollitura: acqua, sale e a piacere aceto e cipolla, carota, sedano, alloro, pepe. Ateneo consiglia la degustazione di questo piatto a metà dell’inverno. Si tratta di un pietanza molto semplice, insaporita dal formaggio, presumibilmente pecorino, e dal silfio, da sostituire, visto che questa pianta si è estinta, con prezzemolo o aneto. Questa modalità di preparazione è suggerita anche per tutti pesci che non sono molto grassi.
Ricetta medievale. Mischiare il vino e l’aceto, aggiungere il sale e portare a ebollizione. Mettere il pesce in questa miscela acetosa e cuocere solo per 5-7 minuti, mantenendo il liquido al limite dell’ebollizione. Togliere il pesce con la schiumarola e metterlo in un recipiente fondo, preferibilmente di terracotta. Rimettere sul fuoco il liquido, gettarvi le cipolle tagliate a rondelle e far restringere a fuoco lento per circa mezz’ora. Togliere dal fuoco e aggiungere gli stigmi di zafferano, il cumino e il pepe. Versare sul pesce e far freddare: si rapprenderà in gelatina. Servire freddo.
Seppioline al nero Sarde farcite Sarde, menta, cumino, pepe in grani, noci, miele, garum e olio. Ricetta molto usata al tempo dell’antica Roma, come ci ricorda Apicio. Eviscerare le sarde e dividerle in due, togliendo la lisca centrale, e preparare un trito a base di menta cumino, grani di pepe, noci e miele; distribuire bene il composto sulle sarde aperte e richiuderle, indi cucirle e avvolgerle in carta da forno. Cuocere poi al vapore in un recipiente coperto e a fine cottura aprire le sarde e condirle con olio e garum.
Sarde alla Mastro Martino
Seppioline con inchiostro, piselli indiani (detti cosí per essere una varietà particolare o forse per il modo di prepararli), porri, coriandolo, olio, liquamen, vino, pepe, ligustico (sedano di montagna), origano, carvo (cumino). Questa pietanza è suggerita da Apicio (Apicio, V. III. 3). Si mettono a bollire i piselli, una volta schiumati, si pongono a cuocere in una teglia con del porro e coriandolo tagliuzzati, insieme alle seppioline con l’inchiostro; successivamente si aggiungono olio, salamoia, vino, un mazzetto di porri e uno di coriandolo. Terminata la cottura, unire un trito di pepe, ligustico, origano e poco carvo; si mescola il tutto con il vino e il passito. Tagliate le seppie a piccoli pezzi, si dispongono sui piselli. Pepare e servire.
Sarde, succo d’arancia o agresto e olio. Il famoso cuoco medievale le preferiva cucinate in maniera molto semplice: «Il suo naturale è de frigerle et ancora le poi arrostire se ti piace, et mettili suso del suco de aranci o agresto mescolato con un pocho d’olio».
Torpedine in casseruola Torpedine, olio, vino, odori, formaggio, sale. Archestrato di Gela propone di farla rosolare in olio, vino, odori e un po’ di formaggio grattato.
Terrina di crema di formaggio e pesce salato Un baccalà, un cervello di vitello, 3-4 fegatini e cuori di pollo, 7 uova, 250 g di ricotta, 12 grani di pepe, 12 grani di ligustico, un cucchiaio di origano secco e una bacca di ruta, mezzo bicchiere di vino dolce, cumino, miele e olio. Anche questa ricetta si deve ad Apicio. Ammolla per 5-6 ore un filettone di baccalà. Asciuga, friggi in poco olio, spella e dilisca. Sbollenta per 5 minuti il cervello di vitello; lascia raffreddare e pulisci. Sbollenta per 10 minuti i fegatini e i cuori di pollo; lascia raffreddare. Rassoda le uova bollendo 8 minuti, raffredda sotto acqua corrente e sguscia. Metti in un tegame il cervello, i fegatini e cuori, le uova sode e la ricotta, tutto tagliato a dadi di circa ½ cm. Polverizza i grani di pepe e di ligustico, l’origano secco e la ruta, riprendi con mezzo bicchiere di vino dolce, miele e 3 cucchiai d’olio; versa uniformemente sulla terrina. Lascia cuocere a fuoco dolce o a bagnomaria per 2 ore. Frulla fino a crema omogenea con 4 uova intere; ricuoci per un’altra mezz’ora. Lascia raffreddare. Rovescia su un piatto di portata e spargi di cumino polverizzato. Servi freddo.
Tonno all’uva Tonno, cipolla, farina, vino, pepe, cumino, timo, coriandolo, uvetta, miele, garum, aceto, olio. Ancora una ricetta che proviene dall’antica Roma. Prendete un bel pezzo di tonno fresco e ricavatene delle fette spesse da 3 a 4 cm. Fate quindi scaldare l’olio e metteteci a dorare le fette di tonno coperte di cipolla. Quando saranno dorate da tutte le parti, aggiungete la farina e mescolate. Versate quindi il vino, poi aggiungete il pepe, il cumino, il timo, il coriandolo, l’uvetta, l’aceto, il miele e il garum. Fate restringere un po’ la salsa, finché il pesce non sarà ben cotto, poi servite caldo. Tempo di cottura: mezz’ora circa.
Terrina di acciughe senza acciughe Pesce, 5 grani di pepe, 5 foglie di ruta, 2 uova, garum, alghe, pepe, olio. Ricetta tratta dal De Re Coquinaria di Apicio. Riduci a pezzi di 1 cm avanzi di pesce arrostito o lessato, quanto basta a riempire una terrina. Polverizza il pepe e la ruta e amalgama con il garum, l’olio e le uova intere. Versa nella terrina, mescola con cura e copri di alghe in modo che non affondino. Cuoci a vapore fino a che rapprende; spargi di pepe prima di servire.
Triglie affogate Triglie, garum, porri, coriandolo, pepe, vino secco, vino dolce, olio. La passione degli antichi Romani per le preparazioni ricercate comprende anche la saporita triglia. Squama il pesce, lavalo e aggiustalo in una teglia, aggiungi l’olio, liquamen o garum, un fascetto di odori composto di porri e coriandolo verde legati assieme e fallo cuocere cosí. A parte metti nel mortaio pepe e trituralo finemente, aggiungendo olio e un po’ di aceto, mescola poi con vino secco e un po’ di vino dolce. Metti tutto questo in un pentolino e ponilo sul fuoco affinché bolla. Infine versalo sulla teglia dei pesci, poi spolverizza di pepe e servi.
Zuppa di Lucrezio Filetti di pesce, cipollotti, garum, miele, mosto cotto, aceto, olio, acqua. Cosí almeno la riporta Apicio (I secolo a.C.). Pulisci i cipollotti, gettando il verde ma lasciando qualche centimetro di foglia sopra il bulbo e metti in una terrina. Moderato garum, olio e acqua. Mentre cuoce, disponi in mezzo pesce salato crudo. Ma quando sarà quasi cotta col pesce salato, spargi 1 cucchiaione di miele, poco di aceto e di mosto cotto. Assaggia. Se sarà sciocco, aggiungi altro garum, se salato, miele moderato. E spargi di santoreggia, e che bolla.
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Pasta
e pasticci
N
ell’Opera, Bartolomeo Scappi, definisce «macco» una minestra lombarda di fagioli secchi. La stessa etimologia si ritrova
in maccheroni, termine che indicava gli gnocchi, tipico piatto contadino soprattutto del Nord Italia, che compare in ricettari del XIV-XV secolo. Secondo Teofilo Folengo, gli gnocchi sono una variante del pulmentum (la tradizionale zuppa diffusa tra i ceti rurali del mondo romano); essi venivano realizzati mescolando farina, pane grattugiato, formaggio, rossi d’uovo per ottenere polpettine che poi venivano cotte in acqua bollente. Con il termine di maccheroni, dunque, non si indicava ancora la pasta secca, che tanta diffusione ebbe nei secoli successivi. La pasta fresca era già conosciuta nel mondo antico in area mediterranea, e i Romani impastavano la farina con l’acqua per ottenere una sfoglia chiamata lagana (la nostra lasagna), poi cotta al forno. Nel Medioevo si diffondono altri tipi di pasta fresca, di forma lunga, corta, stretta, forata, ripiena, cotta in acqua bollente, nel brodo o nel latte. La vera rivoluzione avviene con l’invenzione della pasta secca a lunga conservazione, che diviene un prodotto industriale particolarmente adatto a essere trasportato e commercializzato, data la sua lunga conservazione. Tale invenzione probabilmente si deve agli Arabi, che sembra elaborarono la tecnica dell’essiccazione per garantirsi scorte alimentari durante le traversate del deserto. La pasta secca di grano duro trova la sua prima attestazione in un testo di cucina arabo del IX secolo; inoltre il geografo arabo Idrisi nel XII secolo riporta la notizia di un’industria alimentare di pasta | 104 |
Il mangiatore di fagioli, olio su tela di Annibale Carracci. 1583-1585. Roma, Galleria Colonna. Nell’Opera di Bartolomeo Scappi, la parola macco indicava una minestra lombarda di fagioli secchi.
secca – chiamata itrija – nella Sicilia occidentale, a Trabia, una trentina di chilometri da Palermo. Egli scrive che in questa zona «si fabbrica tanta pasta che se ne esporta in tutte le parti, nella Calabria e in altri paesi musulmani e cristiani; e se ne spediscono moltissimi carichi di navi». Il termine tria, con cui si indica la pasta lunga, si ritrova sia nei trattati di cucina italiani del XIV secolo che nei Tacuina sanitatis, che ci forniscono anche le piú antiche attestazioni iconografiche della pasta. Secondo alcuni studiosi, l’invenzione della pasta si deve collocare in Persia; da qui, si sarebbe diffusa a est, fino in Cina, mentre sarebbe stata esportata in Occidente attraverso la mediazione araba. Già nel XII secolo i mercanti genovesi commerciavano la pasta siciliana nelle regioni del Nord, e poco dopo la Liguria si impose sul mercato anche come centro produttore di «vermicelli», tanto che nei ricettari trecenteschi (ma anche in quelli dei secoli successivi) si parla di paste genovesi. Nel Quattrocento altre regioni italiane, come la Puglia, si affermano come centri produttori di pasta insieme alla Sicilia e alla Liguria, mentre le regioni padane (Emilia, Lombardia, Veneto) continuano a essere legate (come del resto ai nostri giorni) al consumo di pasta all’uovo. Le prime indicazioni per la realizzazione di vermicelli (pasta lunga) si trovano nel ricettario di Maestro Martino, il quale fornisce anche la ricetta dei «maccaroni siciliani», in cui per la prima volta il termine indica una pasta corta forata. Con il termine di «maccaroni romaneschi», si indicano invece le fettuccine, come indicato, oltre che da Maestro Martino, anche da Messisbugo e Bartolomeo Scappi. Ancora nei secoli centrali del Medioevo la pasta secca non è ampiamente diffusa, essendo considerata a lungo un cibo d’élite. I tempi di cottura della pasta erano molto lunghi, secondo il gusto medievale che si ritrova ancora oggi nei Paesi del Nord Europa, e che non corrisponde all’abitudine italiana moderna della «pasta al dente». Maestro Martino (metà XV secolo) prescrive infatti di cuocere i vermicelli per un’ora, e addirittura di far bollire i maccheroni siciliani «per spatio di doi hore». L’uso della pasta al dente sembra iniziare in Italia solo agli inizi del XVII secolo. La pasta veniva | 106 |
Incisione raffigurante un Arabo intento alla preparazione di maccheroni.
inoltre utilizzata frequentemente come contorno ad altre pietanze prevalentemente a base di carne (come avviene ancora oggi in Paesi come la Germania o la Francia), anche se non mancano testimonianze del suo consumo come piatto unico, accompagnata da formaggio grattugiato.
Maccheroni stesi a essiccare al sole prima di essere messi in vendita lungo le vie di Napoli, in una foto d’epoca.
Si può anzi ritenere che la pasta venisse usata come contorno principalmente nelle corti aristocratiche, mentre come piatto a sé nella cucina popolare. Per molti secoli, inoltre, elementi indispensabili per accompagnare la pasta furono, oltre al formaggio e in qualche caso il burro o il lardo, lo zucchero e la cannella. L’abbinamento della pasta con la salsa di pomodoro e il parmigiano grattugiato si ebbe soltanto tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, rappresentando il piatto tipico della cucina italiana soprattutto dell’area mediterranea. Considerata un alimento adatto nei giorni di magro, per molto tempo la pasta fu considerata soprattutto un prodotto riservato ai ceti piú alti, mentre il popolo continuava a mangiare prevalentemente pane, minestre, verdure e, in casi eccezionali, carne. Nel 1509 un bando siciliano proibiva di fabbricare «taralli, susamelli, ceppule, maccarune, trii vermicelli» e «ogni altra cosa de pasta» nei periodi in cui la farina aumentava di prezzo a causa delle guerre, delle carestie o per «indispositione de stagione», testimoniando dunque che la pasta non era un alimento indispensabile nella dieta della popolazione. Solo intorno alla metà del Seicento, quando a Napoli, in seguito a una crisi economica e all’aumentare della popolazione, si verificò un problema anche nell’approvvigionamento di generi alimentari, la pasta venne ad assumere un posto di primo piano come risorsa alimentare per i ceti urbani piú poveri. Questo anche perché, grazie alla rivoluzione tecnologica dovuta all’introduzione del torchio meccanico e della gramola, il suo prezzo si era notevolmente abbassato. Dal XVIII secolo, dunque, divenne comune lo stereotipo del napoletano «mangiamaccheroni», precedentemente attribuito ai siciliani, anche a livello iconografico e letterario, con la maschera di Pulcinella sempre affamata di spaghetti. | 109 |
Ricette di pasta
Miniatura raffigurante la preparazione della pasta, dal Tacuinum Sanitatis. XIV sec. Vienna, Ă–sterreichische Nationalbibliothek.
G
nocchi di pane di Bartolomeo Scappi
350 g pangrattato, 2 cucchiai di farina, 150 g burro, 6 cucchiai di parmigiano grattugiato, 2 uova e 2 tuorli, 1 bicchiere di latte tiepido, qualche foglia di salvia, noce moscata, sale e pepe. Ricetta riferita al famoso cuoco «segreto» dei papi. Porre in una terrina le uova, i tuorli, il pangrattato, 60 g di burro, 3 cucchiai di parmigiano reggiano grattugiato, la farina e il latte tiepido, regolare di sale e di pepe, profumare con la noce moscata e mescolare fino a ottenere un composto omogeneo, che sarà lasciato riposare per circa un’ora (coperto con della pellicola affinché non si secchi). Fare dei salsicciotti e tagliarne tanti pezzettini e, lavorandoli con le mani, ottenere gnocchi grandi come un uovo e infarinarli. Cucinare gli gnocchi in acqua bollente salata e, una volta giunti in superficie, prelevarli con un mestolo forato e trasferirli in un colapasta. Fondere il burro rimasto, insaporito dalle foglie di salvia tritate velocemente e condire gli gnocchi nei singoli piatti, aggiungendo il parmigiano rimasto.
Lasagne di magro 200 g pangrattato, 5 mandorle pelate, 10 noci, 4 spicchi d’aglio, olio extra vergine d’oliva, 150 g parmigiano grattugiato, 150 g burro, 1 cucchiaino di maggiorana secca, sale, pepe in grani, 400 g farina 00 e 4 uova. Ricetta del XVI secolo rivista di recente. Procedete con la preparazione della sfoglia che farete riposare per mezz’ora e che stenderete e taglierete a forma di lasagna. Lessatela poi in abbondante acqua salata e raffreddatela. Per preparare il condimento dovete innanzitutto far asciugare per 10 minuti il pangrattato nel forno già caldo; poi, dopo aver tritato gli spicchi d’aglio e fatti dorare in 100 g di burro e 2 cucchiai di olio, aggiungete il pangrattato e fatelo tostare qualche minuto. Alla fine unite le mandorle e le noci pestate, il pepe macinato fine e la maggiorana. Fate amalgamare tutti gli ingredienti. Componete le lasagne alternando le sfoglie di pasta, con il condimento ottenuto, il formaggio grattugiato e dei fiocchetti di burro. Ripetete per tre volte e chiudete con solo la sfoglia ricoperta di parmigiano e burro. Cuocere in forno a 180° per 30 minuti.
Maccheroncini in crosta 400 g pasta matta, 400 g maccheroncini caserecci, 50 g burro fuso, 100 g caciocavallo grattugiato, 1 uovo, 150 g ricotta, 100 g prosciutto crudo, 350 g fiori di zucca, 150 g piselli sgranati, 1 cipolla, aglio, 20 g zucchero, olio extra vergine d’oliva, sale, pepe. Ricetta d’ispirazione rinascimentale. Spianate i due terzi della pasta matta con un mattarello, ottenendo una sfoglia dell’altezza di mezzo centimetro. Ungete uno stampo e foderatelo con la sfoglia, fino a farla debordare. Lessate i maccheroncini al dente e aggiungete il condimento, costituito da burro fuso, ricotta fresca passata al setaccio, caciocavallo grattugiato e dadini di prosciutto crudo. Preparate a parte i fiori di zucca soffritti in padella con uno spicchio d’aglio e piccoli piselli cotti con olio e cipolla. Riempite quindi lo stampo, con strati di maccheroncini alternati ai fiori di zucca e ai piselli. Spennellate con l’uovo il bordo superiore della pasta, affinché vi possa aderire la sfoglia di chiusura, chiudendo cosí il pasticcio di maccheroncini. Poi decorate la superficie con disegni a piacere ricavati con striscioline o formine di sfoglia rimasta. Spennellate ancora con l’uovo sbattuto prima di cuocere il timballo in forno caldo a 200° per 40 minuti circa. Lasciare riposare qualche minuto prima di sformarlo. Ponetelo su di un piatto da portata e servitelo. Statuetta in porcellana raffigurante Pulcinella che mangia della pasta, prodotta nella Real Fabbrica Ferdinandea di Napoli. 1790. Sorrento, Museo Correale di Terranova.
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Ravioli al formaggio 600 g di formaggio (tomino, caprino, pecorino, raveggiolo), 20 g di burro, 1 uovo, un po’ di farina, 60 g di zucchero, 1 cucchiaino di zenzero, 2 cucchiaini di cannella, alcuni stigmi di zafferano, sale.
Polenta giuliana Due cervelli di agnello, 200 g di carne macinata, sedano, prezzemolo, pepe, semi di finocchiella, un bicchiere di vino, 3 cucchiai d’olio, 250 g di semolino, acqua. Ricetta in voga nell’antica Roma. Fare una polenta con acqua e semolino. Per il condimento, frullare i cervelli di agnello, preventivamente lessati, ben puliti e snervati, con una manciata di sedano e prezzemolo, pepe, semi di finocchiella, vino e olio. Mescolare questa salsa con la carne macinata e cuocere a lungo a fuoco lentissimo. Servire la polenta con la salsa cosí ottenuta.
Ricetta medievale. Schiacciamo il formaggio fino a renderlo un composto omogeneo, insieme al burro (a temperatura ambiente), allo zafferano, un cucchiaio di cannella, 50 g di zucchero, l’uovo e un pizzico di sale. Prepariamo una miscela con il resto dello zucchero e il cucchiaino rimasto di cannella. Riempiamo un piatto con la farina. Prendiamo la crema di formaggi a cucchiaiate e formiamo, con le mani, dei «ravioli» abbastanza grossi e di forma cilindrica. Rotoliamoli nella farina e disponiamoli su un piatto. Portiamo a ebollizione dell’acqua in una pentola piuttosto larga. Quando i ravioli sono pronti, immergiamoli nell’acqua dopo aver abbassato la fiamma. Appena vengono in superficie, tiriamoli fuori dall’acqua servendoci di una schiumarola e sistemiamoli su un piatto. I «ravioli» vanno serviti, 3 o 4 per convitato, spolverati con lo zucchero e la cannella. Serviamoli inoltre freddi o tiepidi.
Patina cotidiana Sfoglia fatta con farina di grano duro e acqua, pepe, levistico (oppure prezzemolo e sedano), vino, carne (maiale, pollo, prosciutto, ecc.), pesce, uova, garum. Ricetta tratta dal De Re Coquinaria di Apicio Prendi i pezzi di carne e di pesce e cuocili (puoi usare anche eventuali avanzi); tagliali finemente. Sbatti le uova in una scodella; trita il pepe e il levistico che devi bagnare con garum, vino e olio e falli bollire in una pentolina. Unisci le uova e amalgama il sugo, poi aggiungi i pezzettini di carne e pesce. Metti sul fondo di una teglia il sugo cosí preparato e stendi una sfoglia di lasagna e continua cosí, sugo e sfoglia sino all’ultima, che si bucherella. Fai cuocere e aggiungi il pepe. In alto La polenta, olio su tela di Pietro Longhi. 1740 circa. Venezia, Museo del Settecento Veneziano.
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Ravioli in bianco di Mastro Martino Mozzarella, burro, zenzero, uova, farina, cannella. Il famosissimo cuoco del Medioevo, Mastro Martino, propone degli gnocchi di formaggio (che lui chiama ravioli in bianco) fatti con provatura (simile alla mozzarella), burro, zenzero, bianchi d’uovo e farina (per legare l’impasto). Questi gnocchetti sono poi bolliti e conditi con cannella e del burro.
Ravioli di pollo Ravioli, petto di pollo, strutto di maiale, noce moscata, zafferano, parmigiano, brodo. Ricetta medievale. Fare una pasta per ravioli. Preparare il ripieno battendo del petto di pollo con strutto di maiale, fior di noce moscata, zafferano e cacio parmigiano. Confezionare i ravioli con la pasta e il ripieno e metterli in una casseruola con un poco di brodo, cospargendoli di cacio parmigiano. Si facciano bollire sulla brace.
Timballo napoletano Maccheroni, cipolla, burro, olio d’oliva o strutto, pecorino, provola fresca, cannella, acqua di rose, sale, pepe. Ricetta medievale di origine napoletana, è il timballo di maccheroni a tre strati, condito con cacio grattugiato, cannella, fette di provola fresca e abbondante burro; spruzzato poi di acqua di rose, e lasciato riposare nella cenere o in forno caldo per mezz’ora.
Zanzarelli 2 l di brodo, 8 uova fresche, 200 g di parmigiano grattugiato fresco, 80 g di pane raffermo macinato, 6 stigmi di zafferano, miscela di spezie in polvere (cannella, zenzero, noce moscata, pepe). Ricetta tratta dal Libro de arte coquinaria di Mastro Martino. Mescoliamo il parmigiano e il pangrattato alle uova che avremo precedentemente sbattuto, fino a ottenere un impasto non troppo denso, ma corposo. Portiamo il brodo a ebollizione. Appena bolle, aggiungiamo gli stigmi di zafferano. Lasciamo un po’ di tempo in infusione finché il brodo non sarà diventato di un bel colore giallo dorato. Portiamo nuovamente a ebollizione e versiamo l’impasto d’un colpo solo. Mescoliamo e aspettiamo che ricominci a bollire. Lasciamo bollire per qualche secondo finché la parte liquida non si separi da quella solida. La zuppa assumerà un aspetto granuloso, dovuto alle uova che, cuocendo, si sono rapprese. Togliamo dal fuoco. Aggiustiamo il condimento. Spolveriamo abbondantemente con le spezie e serviamo.
Torta di lasagne Uova, ravioli, formaggio, lardo, spezie. Questa ricetta è stata desunta da un codice miscellaneo del XV secolo che cosí dice: «Se vuoi fare la torta di lasagne, prendi uova fritte o lesse o sciolte e ravioli tagliati o interi, formaggio grasso grattato o tagliato a pezzi, lardo a sufficienza e metti insieme, ciò facendo uno strato, aggiungendo spezie, e su queste cose forma un serpente di pasta che combatte con una colomba o qualunque altro animale vorrai; indi intestini riempiti di buon ripieno e si componga in giro una specie di muro, poi si coloriscano gli strati a volontà e si ponga nel forno; infine si porti alla presenza del signore in gran pompa». Illustrazione raffigurante la cucina di campagna, da L’Arte et Prudenza d’un Maestro Cuoco di Bartolomeo Scappi (1570). Venezia, Biblioteca Marciana.
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Il miele
Nella pagina accanto Luxor, Tomba di Pasaba. Pittura murale raffigurante una scena di apicoltura. XXVI Dinastia, regno di Psammetico I (664-610 a.C. circa).
l’oro dolce
A
pprezzato da sempre per il suo sapore, utilizzato ben presto nella preparazione di dolci e, grazie alle sue qualità
emollienti, in quella di medicamenti e profumi, il miele ha ricoperto nelle civiltà antiche del Mediterraneo un ruolo di prim’ordine. Già 11 000 anni fa un artista, o piú semplicemente un raccoglitore, dipinse una delicata immagine di raccolta di miele selvatico sulle pareti della Cova de l’Aranya, presso Valencia (Spagna): con l’aiuto di liane, la figurina raggiunge il favo pericolosamente circondato da api ronzanti e stringe nella mano il contenitore in cui è raccolto il prezioso alimento. Non possiamo essere certi che la pittura, come le altre assai rare immagini preistoriche che rimandano alla raccolta del miele selvatico, abbia una valenza magico-rituale, ma certo dimostra che tale pratica costituiva un momento importante per chi ha frequentato la Cova de l’Aranya. Il miele era dunque un alimento cosí prezioso e nobile che quando l’uomo fu in grado di generare il pensiero di un articolato mondo abitato da divinità superiori, venne associato alla sfera divina piú che a quella umana: caduto dal cielo sotto forma di rugiada, il miele – per gli antichi – è trasportato dalle api che fungono cosí da intermediarie tra il mondo divino e quello degli uomini. Nella Bibbia, quando Dio parla a Mosè del viaggio alla volta della Terra promessa (Esodo 3,7-8), pronuncia queste parole: «Sono sceso per liberare dalla mano dell’Egitto, e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele».
In questa pagina restituzione grafica della pittura rupestre raffigurante la raccolta del miele selvatico, nella Cova de l’Aranya (Valencia). 9000 a.C. circa.
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Venezia, Scuola Grande Arciconfraternita di San Rocco. La raccolta della Manna, affresco di Jacopo Robusti detto il Tintoretto, dipinto sul soffitto della Sala Superiore. 15771581. A sinistra api e alveare, miniatura dal Grant Herbier (o Herbolaire Estense). XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
Anche la manna, nutrimento degli Ebrei durante la fuga dall’Egitto, aveva «il sapore del miele». Il potere delle parole. Latte e miele: una bevanda dal sapore ancestrale e un alimento dal sapore soave per definire la Terra promessa. Una terra in cui la ricerca archeologica ha dimostrato che già intorno al X-IX secolo a.C. si era sviluppata un’avanzata pratica di apicoltura. Negli scavi di Tel Rehov (Beth Shean, 130 km a nord di Gerusalemme), l’Università di Gerusalemme ha rinvenuto un’arnia capace di contenere tre file di alveari che, grazie a cilindri in argilla collocati all’interno, serviva a oltre 90 sciami dai quali si poteva ricavare anche mezza tonnellata di miele all’anno. L’importanza attribuita a questa struttura per la raccolta del miele è testimoniata dalla circostanza del ritrovamento, al suo interno, anche di piccoli oggetti di culto. Presso i popoli antichi, dunque, il miele risulta tanto apprezzato quanto prezioso: il Codice di Hammurabi (XVIII secolo a.C.) riporta tra i delitti da sanzionare, anche il furto di miele dalle arnie! | 117 |
Nel mondo egiziano, dove spesso l’immagine dell’ape è associata alla regalità, si conoscevano diverse qualità di miele e come accadeva anche per il vino, quello migliore, definito «puro», era destinato alle divinità, ai faraoni e agli alti dignitari di Stato; al resto della popolazione bastava evidentemente quello di «seconda qualità». Differiva nel colore «rosso» o «chiaro» e poteva provenire da impianti di apicoltura ben organizzati, con arnie artificiali in argilla, o, al contrario, dalla raccolta effettuata nel corso di spedizioni che si addentravano in territori desertici e pericolosi tanto da necessitare la scorta militare. Utilizzato anche per la fermentazione di bevande, il miele diluito nell’a cqua e lasciato fermentare costituiva una bevanda assai apprezzata dagli Egiziani (ma mai quanto la birra!), l’idromele. Con l’aggiunta all’impasto del pane del miele, dell’uva, dei fichi, e di spezie e aromi vari, si preparavano deliziosi biscotti, focacce e torte che potevano poi essere fritte o caramellate (vedi, nel ricettario, la Dulcis Coccora) o cotte piú semplicemente nei forni utilizzati per la cottura del pane. Pendente in oro sagomato a forma di api, da Mallia (Creta). 1800-1700 a.C. circa. Iraklion, Museo Archeologico.
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Una tavoletta in Lineare B rinvenuta a Cnosso riporta l’offerta di Oplontis, Villa di Poppea. Particolare degli affreschi di Secondo Stile del triclinio, raffigurante un cestino di fichi.
miele agli dèi e alla Signora del Labirinto: la destinazione era la sfera divina; al contrario, nessun riferimento al miele compare nei documenti relativi alle razioni di cibo destinate agli uomini. A Creta troviamo indicazioni di un primo «pasticcio» che presenta già tutti gli ingredienti della pasticceria greca: il gastris, che al miele amalgamava noci, mandorle, uva sultanina, semi di papavero e di sesamo. Nel mondo greco, antiche tradizioni volevano che Zeus fosse stato partorito in una grotta del Monte Ida abitata da api sacre, divenute poi le sue nutrici. In Grecia, fin dai tempi piú remoti, la «bevanda degli eroi», il kykeion, a base di vino, orzo e formaggio grattugiato, si completa con l’aggiunta di miele, come seppe anticipare Circe nell’Odissea (X, 234). Nella cucina greca si faceva largo uso di miele: nella preparazione dei dolci offerti agli dèi (data la grande varietà di ricette e forme sembra quasi che a ogni divinità corrispondessero numerosi e diversi dolci!), ai vincitori di gare atletiche, nelle cerimonie nuziali (il gamelio, a base di sesamo e miele), nel corso di funerali (la koliva, miele impastato con semi e frutta secca) o piú semplicemente nella cucina dei giorni di festa e delle grandi occasioni quali i banchetti, durante i quali erano apprezzati i sisamithis, preparati solamente con miele e sesamo; ad Atene, essendo particolarmente buono il miele prodotto in zona, era rinomato il plakous, un fagottino ripieno di pecorino fresco sul quale, ancora caldo, veniva cosparso miele. Largo uso di miele veniva fatto anche nella cucina dell’antica Roma e non solo come ingrediente per i dolci. Il mulsum, bevanda assai rinomata era preparata con il vino addizionato con il miele e altri ingredienti (la versione piú povera, vino, miele e pepe era solo per i viandanti!). Il miele era inoltre utilizzato come conservante per altri cibi, in particolare per la frutta. Tra le numerose ricette dell’antica Roma giunte fino a noi, alcune possono stupire per gli accostamenti inusuali del miele alla carne o al garum, la salsa a base di pesce di cui i Romani erano particolarmente ghiotti: le «carote cuminate», per esempio, venivano insaporite con cumino e menta e condite con aceto, garum e miele! | 119 |
Ricette di dolci
Oplontis, Villa di Poppea. L’affresco raffigurante una torta sul vassoio, nota anche come «cassata di Oplontis». I sec. d.C.
A
cqua allo zenzero (bevanda)
1 l di acqua, un po’ di zenzero, miele, succo di limone. Bevanda rinfrescante molto usata a Roma. Macinare dello zenzero in acqua; prendere il succo filtrato e aggiungerlo al litro d’acqua, al succo di limone, al miele. Mescolare e mettere nel frigo.
Boccioli di rosa al forno Miele, boccioli di rosa, burro. Piatto molto particolare usato nell’antica Roma. Lavare con attenzione i boccioli e tuffarli nel miele in modo che penetri a fondo anche nei petali. Mettere i boccioli in una pirofila imburrata e mettere in forno per circa 10 minuti.
Carote cuminate Bruschetta «romana» Fette di pane, aceto, 50 g di formaggio grattugiato, 3 o 4 foglie di coriandolo verde o prezzemolo, 3 o 4 foglie di menta, una spruzzata di pepe, 2 spicchi di aglio, 3 cucchiai di miele millefiori e 3 cucchiai d’olio. Piatto semplice della cucina romana. Si prendono delle fette di pane caserecce, possibilmente un tipo integrale. Le si bagna con un misto di due parti d’acqua e una parte di aceto, facendo colare il liquido eventualmente in eccesso. Preparare una salsa amalgamando il formaggio, il coriandolo, la menta, il pepe, gli spicchi di aglio, il miele con un po’ di olio (minimo 3 cucchiai). Formare una pasta (nel caso aggiungere un altro po’ di olio o pochissima acqua) e versarla sulle fette di pane.
Particolare di un affresco raffigurante una coppa in vetro contenente miele, dalla Casa dei Cervi a Ercolano. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Carote, cumino, levistico (oppure prezzemolo e foglie di sedano), nardo (se disponibile), miele, aceto, garum, cannella. Ricetta suggerita dalla cucina romana per rendere piú appetitose le carote. Lessare delle carote e tagliarle a rondelle. Preparare una salsa tritando insieme molto cumino con levistico, menta secca e del nardo. Unire miele, aceto e garum. Condire le carote con questa salsa e spolverare il tutto con una piccola manciata di cannella.
Cassata di Oplontis 1,5 kg ricotta, 500 g miele, 150 g albicocche secche, 150 g prugne secche, 100 g uva sultanina, 100 g noci sgusciate e spellate, 10 datteri, 150 g farina di mandorle, colore rosso da pasticceria in polvere. La ricetta di questo squisito dolce è stata recentemente ricostruita interpretando un affresco della villa di Oplontis. Le dosi sono per una teglia di 30 cm di diametro e 5 cm di altezza. Tagliare la frutta secca a dadini e tenere i frutti piú belli da parte per la decorazione. Far cuocere nel miele le noci sino a caramellatura avvenuta e rompere in pezzi il croccante cosí ottenuto. Mischiare la ricotta con il miele, aggiungendolo un po’ per volta sino alla giusta dolcezza, paragonabile a quella della cassata siciliana. Dopo averla lavorata molto, alla crema cosí ottenuta, vanno aggiunti i dadini di frutta secca e i pezzetti di noci caramellate. Poi si impasta la farina di mandorle con il miele e il color rosso di pasticceria in modo da ottenere un marzapane rosso vivo. Foderare la teglia con carta oliata e stendere il marzapane e foderarci i fianchi della teglia. Riempire il tutto con la crema di ricotta e lasciare il dolce a consolidarsi per un giorno nel frigorifero. Dopodiché mettere la cassata su un vassoio tondo e coprire con un velo di ricotta ben setacciata e lavorata, decorando il tutto con i dadini di frutta secca messi da parte e servire.
Dulcis coccora Miele, fichi secchi, farina, semi di coccora. Antica ricetta egiziana. I coccora erano semi commestibili aggiunti al dolce caramellato. Oggi potrebbero essere sostituiti dai semi del melograno o dai frutti di bosco. Lavorare farina, acqua e aggiungendo all’impasto pezzi di fichi secchi e noci. Modellare delle piccole palline da mettere a cuocere e caramellare nel miele bollente. Aggiungere frutti di bosco e servire.
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Crema di susine, miele e spezie 1,5 kg susine bianche, 1 l vino bianco, 2 cucchiai di miele, 1 cucchiaio di crema di riso, un pizzico di spezie forti (chiodo di garofano, pepe e noce moscata), 1 cucchiaio di confettini all’anice. Ricetta inglese medievale. Lavare e snocciolare la frutta e far bollire il vino. Aggiungere le susine e far cuocere per 5 minuti. Scolare la frutta e passarla al setaccio indi raccogliere il purè in una casseruola e cuocerlo a fuoco lento. Far amalgamare la crema di riso con il vino con cui è stata cotta la frutta e aggiungere, insieme al miele, alla composta con un pizzico di sale e di spezie. Far cuocere per una decina di minuti a fuoco lento in modo che il tutto si addensi e mettere a raffreddare in uno stampo. Prima di servire decorare con i confettini all’anice.
Dolce al pepe 1 l latte, tractae (in sostituzione riso), miele, pinoli, pepe, ruta, vino dolce, uova. Apicio ne consiglia il consumo: «Trita pepe, pinoli, miele, ruta, vino dolce e fai cuocere con latte e tractae. Cuoci questa crema con un po’ d’uova. Servi bagnato nel miele e spolverizzato di pepe».
Gastris Miele, noci, semi di papavero, semi di sesamo bianco, pepe, nocciole, mandorle. Il gastris era una specialità cretese molto simile ai laterculi descritti da Plauto e ricorda da vicino i deliziosi baklavà della cucina greca moderna. Ateneo ce ne dà la ricetta: noci e nocciole, insieme alle mandorle e ai semi di papavero, al miele, al pepe e ai semi di sesamo bianco.
Idromele (bevanda) L’idromele è una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del miele con acqua. Le proporzioni, per l’idromele a base di acqua, sono circa 5 l per ogni kg di miele.
Miele speziato (bevanda) 1 kg miele, 4 l acqua, 100 g lievito birra, 15 g spezie (cannella, cardamomo, zenzero, pepe). Mescolare il miele con l’acqua e portare a ebollizione; togliere la schiuma, aggiungere le spezie e far bollire ancora per 5-7 minuti. Far raffreddare fino alla temperatura di 25-30°. Aggiungere il lievito, lasciare fermentare il tutto per 12-14 ore in luogo caldo. Versare il liquido ottenuto in bottiglie, chiuderle e metterle in luogo fresco per 2-3 settimane per fare maturare la bevanda. A destra illustrazione raffigurante la pianta e la radice dello zenzero (Zingiber officinale).
La dose di miele può essere innalzata (1,5-3 kg) a seconda della gradazione alcolica o della dolcezza che si vuole ottenere. La fermentazione deve avvenire in locale non freddo, in un recipiente (anche di vetro), chiuso con un telo di cotone. Il fruttato della bevanda può essere variato aggiungendo aromi in immersione (cannella, chiodi di garofano). La fermentazione è piuttosto lenta (2/3mesi), richiede vari travasi per levare le impurità.
Nella pagina accanto fichi e mandorle in ambra, dall’Egitto. Epoca tolemaica. Collezione privata.
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Pane dolce
Salsa di comino
Pane raffermo, latte, olio, miele.
Pepe, ligustico, prezzemolo, menta secca, un po’ di comino, miele, aceto e salsa di pesce.
Dal De Re Coquinaria di Apicio: «Tagliare il pane togliendo la crosta e bagnarlo nel latte, poi friggere le fette nell’olio bollente e servire coprendole di miele».
Apicio ci descrive la ricetta di questa salsa che si ottiene mescolando bene tutti gli ingredienti.
Olive nere Miele, olive nere, aceto, finocchio selvatico. Ricetta dell’antica Roma proposta da Columella. Si mettono le olive nere, possibilmente grandi, in un recipiente contente una soluzione composta da 3 parti di miele e una di aceto e condita con il finocchio. Tenere a mollo le olive per almeno 15 giorni prima di consumarle.
Salsa per le sarde Pepe, ligustico, menta, cipolla cotta, miele, aceto e olio oppure pepe, origano, menta, cipolla, un po’ d’ aceto e olio. Apicio propone l’uso di questa salsa per condire le sarde.
Salsa piccante Menta, ruta, coriandolo, finocchio, tutto fresco; ligustico, pepe, miele, salsa di pesce, aceto. Ancora Apicio ci dice come fare una salsa piccante mescolando tutti gli ingredienti. Al bisogno, aggiungere aceto. Ottima per il pesce e le carni.
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Cumino dei prati (Carum Carvi, Caros), dal De Historia Stirpium Commentarii Insignes di Leonhart Fuchs, XVI sec. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.
A sinistra affresco raffigurante pane e fichi, da Ercolano. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
In basso pianta di cannella (Laurus cinnamomum), dall’erbario Florindie ou Historie physico-economique des vegetaux de la Torride.1789. Vincennes, Bibliothèque Historique Centrale de la Marine.
Torta di pecorino e noci alla moda di Pio II Miele, uova, zucchero, pecorino, ricotta, farina, noci, burro, pasta brisée.
Tetiromeni plakountes Pasta phyllo, 4-5 cucchiai di miele, olio, mandorle tritate, 500 g di ricotta, 1 uovo, 1 cucchiaino di cannella in polvere, la scorza di 1 limone.
Ricetta medievale. Amalgamare rossi d’uovo, zucchero e miele. Aggiungere poco per volta pecorino setacciato, ricotta, farina, noci pestate, e infine le chiare montate a neve ben ferma. Rovesciare il composto ottenuto in uno stampo precedentemente imburrato e foderato con pasta brisée, pareggiare e infornare per 45 minuti a temperatura media. Servire la torta ricoperta di zucchero a velo e guarnita con gherigli di noce.
Ricetta proveniente dall’antica Grecia. Preparare in una ciotola un composto con la ricotta, le mandorle tritate, il miele, e la cannella. Tirate la pasta in una sfoglia sottile, dividetela in tanti dischi di 7 cm circa e, al centro di ognuno, mettete un cucchiaio di ripieno. Piegare i dischi a metà formando dei fagottini, sigillarli bene lungo i bordi, spennellarli con l’uovo sbattuto e friggeteli in olio bollente. Scolate i calzoni man mano che appaiono ben dorati e serviteli caldi cosparsi leggermente di cannella in polvere.
La Pasta phyllo 250 g farina, 1 uovo, 50 g acqua, 50 g olio, 1 cucchiaino di sale. Scaldare l’acqua con l’olio e il sale in un pentolino. Preparare in una ciotola la farina con il sale e versare sopra l’acqua e l’olio intiepiditi. Tutti gli ingredienti devono essere lavorati insieme in una ciotola. Impastare per qualche minuto fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo. Formiamo delle palline che faremo riposare per circa mezz’ora. Andremo poi a stenderle in sfoglie sottilissime. La pasta phyllo, si può usare sia per preparazioni dolci che salate.
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Alla mensa del
Profeta
S
i può affermare che l’apporto arabo allo sviluppo degli usi alimentari dell’Occidente medievale, fu pari a quello realizzatosi
nel campo della cultura e della scienza; alla presenza araba in alcune aree dell’Europa (Sicilia e Andalusia) si deve infatti la ripresa, la rielaborazione e la diffusione delle conoscenze culinarie delle antiche civiltà greca, romana, e persiana, che, per suo tramite, vengono rinnovate e rivitalizzate, fino a caratterizzare in gran parte la cucina medievale e rinascimentale. L’uso eccessivo di spezie – come l’associazione pepe, cumino e coriandolo –, costante nelle ricette di Apicio, è sempre presente nella cucina islamica medievale, specialmente del Maghreb, cosí come l’uso dell’aceto e del miele, sostituito dagli agrumi e dalla canna da zucchero. Del resto, benché la penisola arabica, terra d’origine dell’Islam, non sia stata conquistata dai Romani, essi giunsero fino ai suoi confini, annettendo all’inizio del II secolo d.C. il regno dei Nabatei con capitale Petra (attuale Giordania); l’impero romano, inoltre, si era esteso nel Vicino Oriente, in Mesopotamia, e nel Nord Africa, nelle regioni in seguito conquistate dagli Arabi, che dunque erano impregnate della cultura greco-romana e persiana: da tutti questi elementi viene elaborata l’arte culinaria islamica. A partire dall’Alto Medioevo, con gli Arabi giungono in Europa due
Acquerello di scuola islamica raffigurante due botteghe di frutta. 1580 circa. Venezia, Museo Correr.
prodotti fondamentali che trasformarono il gusto, mantenendo però alcuni caratteri tipici della cultura gastronomica dell’epoca precedente, caratterizzata dal contrasto di cibi agrodolci. Sono lo zucchero di canna e gli agrumi, che presto sostituirono il miele e l’aceto, tipici della cultura romana. Altro fondamentale apporto
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arabo è l’enorme diffusione delle spezie, che caratterizzarono la cucina europea del Medioevo e del Rinascimento. I piatti arabi del VII secolo erano molto semplici, essendo derivati dalle usanze dei beduini nomadi, dediti prevalentemente alla pastorizia, e dai gruppi sedentari dediti al commercio carovaniero. Conosciamo le loro usanze alimentari attraverso i racconti della vita del Profeta Maometto, il cui piatto preferito era il tharid, una zuppa di carne cotta nel brodo in cui vengono sbriciolate gallette di frumento. Un altro piatto è la masliyya, a base di carne di montone o capretto cotta nel siero di latte e spolverata di formaggio secco. Con l’espansione dell’impero musulmano, si venne differenziando il modo di mangiare dei pastori nomadi, delle popolazioni rurali e dei raffinati abitanti delle città come Baghdad, Damasco o dell’Andalusia, che risentivano di influenze culturali diverse, in cui l’arte culinaria era un elemento importante. I primi libri di ricette della cucina araba furono compilati a Baghdad nel IX secolo; successivamente altri testi, originari di altre città come Aleppo in Siria, il Cairo in Egitto, Murcia in Andalusia, raccolsero le tradizioni culinarie proprie di quelle regioni, tanto che, già nel XIII secolo, si andava distinguendo una cucina araba «andalusa» da quella «orientale». In un elenco bibliografico del 998, il libraio e bibliofilo Ibn an-Nadim menziona una decina di libri di cucina scritti tra il IX e il X secolo, dei quali ne è pervenuto uno soltanto, Kitab altabikh (Libro della cucina) opera di Ibn Sayyar al-Warraq, un libraio esperto di medicina e dietetica. Grazie a lui possiamo conoscere le ricette del piú celebre «chef» arabo, Ibrahim ibn al-Mahdi (779-839), cuoco, poeta, musicista, fratellastro del califfo Harun al-Rashid, autore del primo libro | 128 |
In alto placca in avorio intagliato raffigurante un uomo che beve vino durante una festa allietata da musicisti. Manifattura egiziana, XI-XII sec. d.C. Berlino, Museum für Asiatische Kunst. Nella pagina accanto brocca in vetro di manifattura islamica. Fine del XII sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
arabo di cucina, non conservato. Altri trattati sono il Kitab al-tabikh (i titoli spesso si ripetono) di Muhammad al-Baghdadi, scritto a Baghdad nel 1226 e il Kitab al-Wusla, redatto ad Aleppo da Ibn al-’Adim prima del 1262. Due libri di ricette del XIII secolo ci hanno tramandato invece la cucina arabo-andalusa (1238-1266). Uno di questi è il cosiddetto Anonimo Andaluso, mentre l’altro è opera di un autore di Murcia, Ibn Razin al-Tujibi. A differenza dei ricettari scritti in Oriente e in Egitto, che risentono delle tradizioni della cucina persiana e turca (ma sono presenti anche ricette franche giunte con le crociate), la cucina andalusa è piú aperta all’influenza berbera e dell’Africa subsahariana, ma anche alla tradizione romana e visigota. A eccezione della carne di maiale e del sangue (come per gli Ebrei), ai musulmani è permesso ogni tipo di cibo. In linea di massima (ma le proibizioni variano a seconda dell’appartenenza a un rito o l’altro), le bevande alcoliche e il vino non sono vietati dal Corano, semmai lo sono l’abuso e il consumo incontrollato, anche se generalmente gli Arabi consumavano alcolici prodotti dai cristiani e dagli Ebrei. Naturalmente veniva punito chi si presentava ebbro alla moschea. Ogni anno i musulmani devono praticare il digiuno nel mese del Ramadan, dal sorgere del sole al tramonto. Nel resto dell’anno possono mangiare di tutto, in qualsiasi momento della giornata. Non vi sono i giorni di magro come per i cristiani o il sabbat per gli Ebrei, e anche i giorni di Ramadan sono 30, quindi meno dei 40 imposti dalla Quaresima. L’unica proibizione che avvicina i musulmani agli Ebrei, | 129 |
è dunque quella relativa alla carne di maiale e al sangue versato, oltre a quella di non mangiare animali uccisi in modo diverso dallo sgozzamento, che permetteva di far colare tutto il sangue. Ovini e pollame sono solitamente arrostiti o fritti in olio o grasso animale e marinati con spezie, latte acido e aceto, o bolliti sotto forma di spezzatini e polpette con aromi e spezie, accompagnati da legumi, verdure e riso. In una raccolta di ricette si contano ben 74 modi diversi di cucinare il pollo, anche con uova e gelatine di frutta. Naturalmente, come per gli Ebrei, la carne doveva essere macellata secondo le regole della sharia, cioè la legge della dottrina coranica. Il pesce è presente con poche ricette, essendo considerato di scarso valore dietetico. Le specie piú apprezzate sono soprattutto quelle grasse, la carpa e l’alosa d’acqua dolce e il tonno, le acciughe e le sardine del Mediterraneo, messe sotto sale. Sulle coste della Spagna e del Maghreb, fin dall’epoca romana, vi erano impianti per la lavorazione di questi pesci. In genere il pesce fresco viene marinato, oppure cotto alla griglia, fritto o al forno, riempito di erbe aromatiche, pane, mandorle, noci con aggiunta di succo d’agrumi o d’uva. Oltre al grano, al miglio e all’orzo era diffuso il riso, che gli Arabi avevano conosciuto dall’Oriente e consideravano pianta sacra, germinata dalle lacrime di Allah. I cereali erano usati insieme alla carne, per esempio per l’harisa, piatto che prevede una lunga cottura della carne insieme al grano o al riso. Molto usate sono anche le | 130 |
Manoscritto del Kitab al-tabikh (Libro della cucina) di Sayyar al-Warraq, trattato che raccoglie più di 600 ricette di cucina islamica, nonché quelle del celebre cuoco Ibrahim Ibn al-Mahdi (779-839). X sec. d.C. Helsinki, National Library of Finland.
verdure (carote, rape, cipolle, porri, ravanelli, zucche, cetrioli e soprattutto melanzane, quest’ultime cotte al forno, fritte o ripiene) e le spezie (coriandolo, cumino, menta, cannella, zafferano), oltre a zucchero e miele. Una salsa di piccoli pesci seccati nel sale con erbe aromatiche, il murri, sembra derivare dal garum romano, anche se aveva una base di latte fermentato e cereali. La sua preparazione, lunga e complessa, ricorda quella del nuoc mam vietnamita. Uno dei piatti tipici della cucina araba è senz’altro il cuscus, la cui origine va forse ricercata tra i popoli berberi provenienti dal Marocco o dalla Mauritania, o ancora piú verso sud, dal confine tra il Maghreb e l’Africa subsahariana, che lo introdussero in Andalusia. Nel Kitab al-Wusla, ricettario della prima metà del XIII secolo, viene infatti definito «marocchino». I dolci rivestono un ruolo fondamentale nella cucina araba. Gli arabi avevano conosciuto lo zucchero dai Persiani, e lo utilizzavano per preparare dolci raffinati con frutta, spezie e soprattutto mandorle. Molti dolci arabi si ritrovano nella pasticceria siciliana (pasta di mandorle unita al pistacchio). Alla fine del pasto si potevano mangiare dolci con ripieno di mandorle, datteri, noci, pistacchi. Un altro esempio che si ritrova nella cucina siciliana è l’uso di bevande fresche alla frutta (sharab), che ricordano le granite al limone o al gelso. In alternativa al vino, si bevevano bevande a base di datteri, fichi, ciliegie, e anche la birra ottenuta dal grano, orzo e miglio, oltre l’idromele (ottenuto con miele fermentato e acqua) e l’ossimele (a base di aceto e miele). Si mangiava in comune, seduti a gambe incrociate o sui talloni, su tappeti o stuoie, e il cibo era posto in un unico vassoio comune al centro. I piatti venivano serviti tutti insieme, sia quelli caldi che quelli freddi, insieme alle salse, in piccole scodelle. Si poteva iniziare con la frutta, specialmente con i datteri; si passava poi ai piatti freddi e a quelli caldi, a base di carne di agnello, di vitello, di pollame, di pesce, serviti insieme a verdure in salamoia o sotto aceto. Alla fine del pranzo si gustavano dolci e sciroppi, e si offrivano pastiglie speziate per rinfrescare l’alito. Si mangiava con le mani, usando solo tre dita, dopo averle purificate lavandole in un bacile anch’esso comune. | 131 |
Ricette arabe
Un beduino controlla la preparazione di una forma di pane cucinata con il sistema tradizionale, che consiste nel cuocerla fra due strati di cenere calda.
B
adinjan Muhassa (melanzane con crostini di noci)
Melanzane, cipolline, noci, aneto, cumino, pepe, olio, sale. Dal Kitab al-tabikh di Muhammad al-Baghdadi, prima metà del XIII secolo. Far bollire le melanzane in acqua per circa mezz’ora; scolarle e, una volta raffreddate, spellarle. Tagliare finemente la polpa e metterla a scolare per perdere l’amaro. Tritare le noci finemente, mescolarle con aceto e un po’ di sale, fino a formare un impasto da cui ricavare delle frittelle che andranno fritte in olio bollente. Unire le frittelle alle melanzane tagliate. Tritare i semi di cumino, insaporire con un po’ di aceto, aggiungere sale e pepe. Condire il piatto, coprendolo con cipolline fresche o fritte.
Cuscus con carne e verdure Cuscus, carne di vitello, agnello o pollo, sale, olio, pepe, coriandolo, cipolla, zenzero, chiodi di garofano. Dal Fadhalat al-khiwan fi tayybat al-ta’am wa-l-alwan di Ibn Razin, Andalusia, XIII secolo. Ricetta classica del cuscus con carne e verdure. Prendere la carne a pezzi, metterla in una grande marmitta con olio, sale, pepe, coriandolo, cipolla, coprire con acqua e metterla sul fuoco. Quando la carne comincia a cuocere, aggiungere verdure di stagione (cavolo, rape, carote, lattuga, finocchio, fave fresche, zucca, melanzane). Intanto preparare il cuscus facendolo cuocere al vapore. Quando il cuscus è cotto, versarlo in un vassoio profondo con burro, cannella, nardo e sfregarlo con le mani per separare i grani. Portare del brodo a ebollizione e irrorarvi il cuscus, poi coprire, lasciandolo per un’ora, in modo che il cuscus assorba il brodo. Infine, disporre i pezzi di carne e le verdure sopra il cuscus, spolverando di cannella, chiodi di garofano e zenzero macinati.
Carne al succo di albicocche Carne grassa, sale, cipolle, spezie dolci, albicocche fresche o secche. Dal Kanz al-Fawa‘id fitawi al-mawa‘id, Egitto, XIII secolo. Taglia della carne grassa in piccoli pezzi e mettila in una casseruola con pochissimo sale, copri d’acqua e schiuma. Lava le cipolle, tagliale e disponile sopra la carne con spezie dolci. Prendi delle albicocche fresche o secche, schiacciale e falle bollire bene, poi lavorale e schiacciale, falle scolare e aggiungi il loro succo alla carne.
Filetti di pesce al cumino e allo zafferano Filetti di pesce a scelta, olio, pepe, coriandolo, cumino, aglio, zafferano. Dal Fadhalat al-khiwan fi tayybat al-ta’am wal-alwan di Ibn Razin, Andalusia, XIII secolo. Mettere i filetti in una padella con un po’ di acqua, olio, pepe, coriandolo, cumino in polvere, aglio intero schiacciato, zafferano. Lasciare marinare e poi farlo cuocere sul fuoco fino a che l’acqua sia evaporata e i filetti arrostiti.
Harîsa Riso o grano spezzato; carne di gallina o cappone o pecora, burro, olio, erbe aromatiche, cannella, sale. Zuppa molto diffusa nel mondo arabo, sia tra i ceti ricchi che quelli piú poveri. Preparare un brodo con la carne, erbe aromatiche e sale. Passare il brodo e cuocervi il riso o il grano spezzato. Disossare e tagliare a pezzi la carne e rimetterla nella pentola con il riso, facendola cuocere a lungo fino a che il tutto diventi una pappa. Aggiungere burro o olio, aromatizzare con la cannella e servire. Lo stesso piatto si può anche cuocere nel forno.
Isfanakh Mutajjan (spinaci alle spezie) Spinaci, aglio, cumino, coriandolo, cannella, olio di sesamo, sale. Dal Kitab al-tabikh di Muhammad al-Baghdadi, prima metà del XIII secolo. Sbollentare gli spinaci e lasciarli scolare dell’acqua. Condire con un filo di olio di sesamo, aglio tritato finemente, polvere di cumino, coriandolo e un pizzico di cannella. Regolare di sale, mescolare e servire.
Luqam al-qadi (palline dolci) Pasta di pane, olio di sesamo, zucchero di canna. Dal Kitab al-tabikh di Muhammad al-Baghdadi, prima metà del XIII secolo. Dolce ancora molto diffuso in tutto il Mediterraneo, corrisponde ai lukumates greci e agli «struffoli» napoletani. Dalla pasta di pane ricavare delle palline e friggerle nell’olio bollente. Scolarle e, una volta raffreddate, ripassarle in uno sciroppo preparato con acqua e zucchero di canna. Infine, cospargere con zucchero di canna finemente macinato.
Itryya Spezzatino di manzo o agnello o pecora, acqua, farina (per fare gli itriyya), olio, burro, coriandolo, cannella, zenzero, pepe, sale. Anonimo Andaluso, XIII secolo. Gli itryya sono il primo tipo di pasta di grano duro conosciuto nella cucina araba. Preparare una sfoglia con acqua e farina, ricavarne delle fettuccine non troppo lunghe e arrotolarle con le mani in modo da farne dei vermicelli. Rosolare la carne in una pentola con olio, sale, pepe e coriandolo a fuoco moderato fino a che non diventi tenera, aggiungendo acqua calda o brodo. Quando è cotta, toglierla dalla pentola e aggiungere al fondo di cottura burro e acqua. Quando la salsa cosí ottenuta sobbolle, aggiungervi gli itryya, finché il liquido non sia assorbito (pertanto la salsa non deve essere molto abbondante). Disporre la carne su un piatto di portata insieme agli itryya e spolverare il tutto con zenzero e cannella. Nel Kitab al-tabikh di Muhammad ibn al-Karim al-Katib al-Baghdadi, composto a Baghdad nel XIII secolo, la carne, dopo essere stata rosolata, si cuoce in un brodo insieme a cipolle, ceci e barbabietola. Quando è cotta si aggiungono gli itryya e si serve spolverando il tutto con cannella e cumino.
Pollo beduino Musakbaj Pesce (se piccolo come le acciughe o le sarde lasciarlo intero, se grande farne bocconcini già spinati), sedano, coriandolo, zafferano, olio di sesamo, aceto, sale. Dal Kitab al-Tabikh di Ibn Sayyar al-Warraq, seconda metà del X secolo. Termine persiano per indicare il sikbaj di pesce, equivalente della nostra scapece; probabilmente gli Arabi ripresero questo piatto dalla tradizione romana. Friggere il pesce nell’olio di sesamo, scolarlo e condirlo con grani di coriandolo e sale. Preparare un intingolo con aceto, colorato con zafferano, e foglie di sedano (o prezzemolo). Versare sul pesce e lasciar riposare alcune ore prima di servire.
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Pollo ruspante, cipolle, olio, uova, aceto, pepe, spezie, sale. Anonimo Andaluso, XIII secolo. Cuocere il pollo a pezzi con acqua e sale; intanto far rosolare in una padella le cipolle con olio e un po’ di pepe. Aggiungere il pollo e lasciar cuocere con l’aggiunta di acqua o brodo. A fine cottura aggiungere coriandolo, cardamomo, abbondante cumino e un uovo battuto. Mescolare bene e servire. Eventualmente si può aggiungere l’aceto.
Sikbaj Spezzatino di carne di manzo, agnello o pecora, uva passa, pepe, coriandolo, cipolla, aglio, uovo sodo, pangrattato, aceto, sale.
Nabatiyya (brodo di pollo con vermicelli) Due polli, cipolla bianca, olio d’oliva, ceci, cannella di Cina, coriandolo, pepe, galanga, nardo, chiodi di garofano, noce moscata, zenzero, 5 uova sode, formaggio, sale, acqua di rose. Ricetta tratta dal Kitab al-Tabikh di Ibn Sayyar al-Warraq, seconda metà del X secolo. Prendere i polli a pezzi e metterli a cuocere per un’ora in una pignatta con olio, cipolla tagliata fine, ceci bagnati schiacciati, cannella di Cina. Alla fine della cottura coprire con acqua. Far cuocere il tempo di due bollori, poi aggiungere il formaggio, il sale e le spezie, precedentemente pestate nel mortaio. Dopo due bollori, gettare nel brodo tre manciate di itriyya (vedi ricetta), versare l’acqua di rose (10 dirham) e lasciar cuocere la pasta. Aggiungere quindi cinque uova sode sbucciate e quando il brodo smette di bollire, girare con il cucchiaio, togliere il formaggio e le uova, tagliarli a pezzi e disporli tutt’intorno alla pasta e ai polli sul piatto.
Sciroppo di spezie per la gaiezza Miele, cannella, chiodi di garofano, zenzero, macis, noce moscata, cardamomo, galanga, alloro, sambuco, lavanda, nocciole, aloe, zafferano.
Il sikbaj è un piatto arabo molto diffuso, ma anche un modo di cottura a base di aceto, derivato probabilmente dalla cucina greca e romana, e corrispondente alla scapece occidentale, usata prevalentemente con il pesce. Tagliare la carne in pezzi non troppo grossi e metterla in una pentola coperta con aceto, insieme all’uva passa sminuzzata. Aggiungere poi un trito di cipolla e aglio, pepe, coriandolo e sale. Lasciar cuocere a fuoco basso finché la carne non risulti tenera. A fine cottura, togliere dal fuoco e aggiungere dei rossi d’uova sode sminuzzati e pangrattato, fino a rendere la salsa omogenea e morbida. Mescolare bene e lasciar riposare qualche minuto prima di servire. Si può mangiare insieme al riso bianco scondito.
Tharidah Carne di pollo, agnello o capretto, ceci, brodo di carne, latte, cipolle, carote, mandorle, uova, aceto, coriandolo, pepe, cumino, galanga, cannella, olio, sale. Dal Kitab al-Tabikh di Ibn Sayyar al-Warraq, seconda metà del X secolo. Tagliare la carne in pezzi, metterla in una pentola con olio e lasciarla rosolare insieme ai ceci lessati. Aggiungere la galanga, la cannella e il sale. Lasciar cuocere a fuoco lento, aggiungendo brodo di carne. A metà cottura, aggiungere un po’ di latte, cipolle affettate e carote lessate. A parte preparare un trito di mandorle e batterlo con un uovo, aggiungendo un po’ di aceto. Verso la fine della cottura della carne, aggiungere l’intingolo con qualche seme di coriandolo, pepe e cumino. Mescolare il tutto e servire.
Anonimo Andaluso, XIII secolo. Mettere a bollire tre parti di acqua e una di miele, insieme a un sacchetto di stoffa contenente le spezie pestate grossolanamente in egual misura. Lasciar bollire a lungo fino a ottenere uno sciroppo, togliere dal fuoco eliminando il sacchetto e conservare. Per berlo, allungarlo ogni volta con acqua calda.
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Le pietanze dell’
D
amore
ea greca della bellezza e dell’amore, nata, secondo Omero, da Zeus e dalla ninfa Dione, Afrodite fu identificata dai
Romani con Venere. Strettamente legata alla spuma del mare (dal greco aphròs, schiuma) nella quale era nata, la leggenda narra che Afrodite venne portata da Zefiro prima a Citera e poi, su di una conchiglia, a Paphos, nell’isola di Cipro. E proprio nei due luoghi furono eretti altrettanti santuari in suo onore e forse il mitico viaggio non fa che ricordare il percorso originario del culto (anche se in senso inverso) che dall’Oriente arrivò nel Peloponneso tramite la rotta di Creta e Citera. La derivazione orientale della divinità è comunque ben testimoniata nella città di Afrodisia (Turchia occidentale): fondata dagli Assiri intorno al XIII secolo a.C. con il nome di Ninoe in onore della dea ‘Nin (Ishtar), antica divinità della guerra e del piacere, cambiò il suo nome allorquando, in età ellenistica, il precedente culto venne trasformato in quello di Afrodite. Euripide descrive cosí l’evento natale: «La potenza di Zeffiro, l’umido stormitore, duttile la rapí dalle onde del mare che sempre scroscia. Le Ore dal diadema d’oro salutanti la coprirono di vesti immortali, il capo le cinsero del serio d’oro mirabilmente intrecciato. Nel forellino del lobo d’orecchio le misero fiori preziosi d’oro e d’ottone, indi ornarono il delicato collo e il seno lucente di collane d’oro di cui esse stesse si fregiano, allorché, cerchi d’oro nei capelli, si recano all’amena danza degli dei e alla casa del padre. Compiuta l’opera, portarono Afrodite, tutta splendida com’era ornata, agli immortali». La nascita di Afrodite-Venere resta comunque uno dei miti piú celebrati nella letteratura e nelle arti di tutti secoli,
Afrodite (Venere per i Romani) sdraiata in una conchiglia spinta verso la costa, particolare dell’affresco che orna il peristilio della domus di Pompei che è stata perciò battezzata Casa della Venere in Conchiglia. I sec. d.C.
Particolare della decorazione di una coppa a figure rosse con scena erotica. VI sec. a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.
dalle raffigurazioni vascolari del VII secolo a.C. sino alla quella famosissima eseguita da Sandro Botticelli intorno al 1485 su richiesta di Lorenzo il Magnifico. Nata dal mare, Afrodite veniva dunque adorata dai naviganti come colei che rende il mare bello e tranquillo e a lei era sacro il delfino, ma non solo perché rende bella anche la terra in quanto dea della primavera, stagione dei fiori e degli amori. Le sono sacri il mirto, il melograno, la rosa e la mela. Da lei deriva anche il termine afrodisiaco che sta a indicare qualcosa che induce o accresce lo stimolo sessuale. Sin dall’antichità l’uomo ha associato il cibo all’eros e alla bellezza, attribuendogli in alcuni casi anche poteri afrodisiaci. Gli Egiziani erano convinti che la lattuga avesse effetti erotici tanto da considerarla sacra a Min, il dio della fertilità, cosí come la cipolla, che infatti era alimento vietato ai sacerdoti che avevano fatto voto di castità. Anche i Greci pensavano che le cipolle, insieme ad aglio, porri, tartufi, miele, uova, storione, pesci, crostacei, avessero effetti afrodisiaci. Ai carciofi riconoscevano la capacità di far nascere figli maschi. Le lenticchie, secondo Ippocrate, avevano il potere di mantenere inalterata la virilità maschile fino a età avanzata, mentre per Aristotele il potere stimolante delle stesse era dovuto alla combinazione con lo zafferano. Il precettore di Alessandro Magno riconosceva le stesse virtú anche alla menta, tanto da suggerire al grande condottiero di non distribuire ai soldati il tè aromatizzato con quella pianta durante le campagne militari. Plutarco poi credeva negli effetti dei fagioli e in particolare in quelli derivanti dalla zuppa di questi che ancora oggi è uno dei piatti nazionali greci (la fasolada). I Romani introdussero tra i cibi afrodisiaci anche gli organi genitali di alcuni animali come l’asino, il lupo, il cervo, ritenuti validi sotto il profilo sessuale. Molto apprezzati erano anche alcuni alimenti esotici a cui venivano attribuite proprietà speciali solo per il fatto di provenire da luoghi lontani. Plinio riconosceva particolari «effetti collaterali» alle triglie, alle anguille e alle murene mentre nell’Ars amatoria, Ovidio esalta l’azione afrodisiaca della rucola, «l’afrodisiaca erba d’eruca», come la chiamava il poeta, che, secondo
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una credenza popolare, cresceva spontanea intorno alle statue del dio Priapo. Ma l’alimento prediletto erano sicuramente i frutti di mare e in particolare le ostriche come ben descritto da Giovenale nella Satira VI che parla di un banchetto nel quale una donna «in piena notte affonda i denti in ostriche enormi, quando spumeggiano gli aromi infusi nel Falerno puro, quando la vertigine fa ondeggiare il soffitto e la mensa si anima di lucerne sdoppiate, [ella] non distingue piú tra la sua testa e il suo inguine».
Uno dei celebri affreschi a tema erotico che ornano le «stanze proibite» della Casa dei Vettii a Pompei. I sec. d.C.
Ancora Ovidio consiglia agli uomini di non far mancare a tavola uova di pesci, gamberi e granchi di fiume, da consumarsi 3 ore prima dell’incontro amatorio ed eventualmente da sostituire con i testicoli di gallo, pappagallo, agnello e toro, da assumere però a digiuno. Lo stesso poeta continua a trattare il delicato argomento vantando le proprietà dei lampascioni, che venivano infatti offerti come cibo augurale nei pranzi nuziali, dando loro addirittura un punteggio a seconda della provenienza: «Ecco, ti darò anche, per usare ogni dono della medicina, i cibi da evitare e da seguire. Il bulbo della Daunia o quello mandato a te dalle coste della Libia, ti sarà comunque nocivo. Nondimeno è opportuno evitare le afrodisiache ruchette e tutto ciò che prepara i nostri corpi all’amore, mettendo al primo posto quello derivante da Megara, poi quello della Libia e quindi quello della Daunia». Classificazione confermata anche da Plinio (Naturalis Historia) dove annota che «I bulbi di Megara stimolano al massimo grado il desiderio amoroso». È facile immaginare la corsa dei pazienti all’acquisto e la speculazione dei mercanti e venditori sul prodotto tanto che l’imperatore Diocleziano ne impose addirittura il prezzo nel 301 d.C. nella sezione «de oleribus et pomis». Nel Medioevo si ritenevano importanti allo scopo il frutto del fico, i funghi e il cervello di piccione ma anche i prodotti della natura che stimolavano fermentazioni intestinali, quali castagne, fave, ceci e tartufi. Alla trota si riconosceva la virtú di accrescere lo sperma mentre qualità rinvigorenti erano attribuite a luccio, storione, ombrina, dentice, cernia, carpione, orata, merluzzo, rombo, sgombro e razza. Anche molte culture extraeuropee hanno spesso associato alcuni cibi alle virtú amatorie, come per esempio Avicenna, medico e filosofo islamico, che raccomandava miele e zenzero per l’impotenza, o gli Aztechi, che esaltavano per questo il frutto degli dèi, il cioccolato. Ma il mito si spinge anche a piú recenti personaggi famosi come Giacomo Casanova, fan convinto delle ostriche, o Napoleone Bonaparte, che riconosceva tali proprietà al tartufo. | 141 |
Ricette «afrodisiache»
Pompei, Casa dei Vettii. Affresco raffigurante Priapo, dio della sessualità e della fertilità. I sec. d.C.
B
evanda alla rucola
Tre foglie di rucola, 1 cucchiaino di miele, acqua. Considerata altamente afrodisiaca a Roma, la rucola poteva essere usata anche come bevanda rinfrescante. Per prepararla, frullare le tre foglie di rucola con un po’ di acqua. Lentamente aggiungere ancora acqua fino ad arrivare a un litro e aggiungere il miele.
Bulbi lessi Lampascioni, olio d’oliva, aceto, sale e pepe. Pulite dei lampascioni e teneteli immersi in una terrina con acqua fredda per un paio d’ore, cambiando il liquido diverse volte affinché perdano il gusto amarognolo. Privateli della pellicina esterna, metteteli in un tegame, versatevi dell’olio d’oliva e aceto fino a coprirli, e portateli a ebollizione. Fateli cuocere, a tegame coperto e fuoco moderato per un’ora. Scolateli e insaporiteli con sale e pepe. I lampascioni possono essere serviti: freddi come antipasto, tiepidi o caldi per accompagnare carni d’agnello o manzo.
Chaudumé di luccio Un luccio di circa 1 kg, 1 fetta di pane di campagna, 20 cl di brodo di legumi (piselli, ceci o fagioli secchi), 15 cl di buon vino bianco, 10 cl di agresto oppure di succo di limone diluito in 3 cucchiai d’acqua, 1 cucchiaino di zenzero in polvere oppure, se è fresco, una bella fetta, 50 g di burro, 3-4 stigmi di zafferano. Ricetta molto apprezzata in Francia nel Medioevo. Arrostite il pane, tagliatelo a pezzi e mettetelo a bagno nel brodo. Pulite e lavate il pesce, tagliatelo quindi a pezzi piuttosto grossi, asciugatelo bene con un panno e spolveratelo di sale fine. Aggiungete al pane messo a bagno il vino bianco, l’agresto o il succo di limone e passare tutto al setaccio per ottenere una pappa. Arrostite il pesce e, nel frattempo, scaldate la salsa di pane e fatela bollire a fuoco lento per 10-15 minuti, finché non si addensi un po’. Salate e aggiustate il condimento. Aggiungete gli stigmi di zafferano, lontano dal fuoco, aggiungete il burro a pezzetti e mescolate rimestando bene il contenuto della casseruola perché l’emulsione diventi vellutata. Quando il pesce è cotto, metterlo nella salsa e irrorarlo con la stessa. Se necessario, scaldare sul fuoco senza far bollire e portare in tavola.
Bulbi dell’amore Enkhytos o encytum Miele, formaggio, farina di farro, strutto, mulsum. Pare che nella preparazione di questa torta vi fossero palesi allusioni alla sfera sessuale, come attesta Ateneo, citando Hipponax. L’enkhytos è il romano encytum, di cui Catone ci fornisce la ricetta: mescolare formaggio e farina di farro in parti uguali. Prendere un imbuto largo e far colare parti uguali di impasto a forma di spirali nello strutto bollente. Girare le spirali nello strutto con due palette. Togliere, spalmare di miele e mettere a dorare nello strutto meno caldo. Servire con miele o mulsum (vino bianco con miele).
Lampascioni, pinoli o succo di rughetta, pepe. Questa ricetta veniva servita ai novelli sposi in luna di miele, ma Apicio la suggerisce a tutti coloro che cercano le gioie di Venere. Lessate in acqua i lampascioni e condite con succo di rughetta e abbondante pepe.
Flan di cervella (patina comune) ½ kg di cervella, garum, cipolla, carota, aceto, pepe, un pizzico di cumino, uno spicchio d’aglio, vino dolce, ½ l di latte, 5 uova. Questa ricetta è stata suggerita da Apicio e rimanda quindi alla cucina romana. Lessate in acqua fredda salata, aceto e qualche fetta di cipolla e di carota le cervella, previamente tenute immerse per un’ora nell’acqua fredda. Portate l’acqua a ebollizione, poi abbassate la fiamma e lasciate bollire per una ventina di minuti. Appena le cervella saranno cotte, mettetele di nuovo in acqua fredda e quando saranno completamente raffreddate, spellatele e snervatele. Passatele a setaccio unendole un trito fatto con pepe, cumino e aglio e previamente diluito con vino dolce. Incorporate poi alle cervella il latte in cui si siano fatte sciogliere le uova. Ungete di olio uno stampo liscio e mettete a cuocere il flan a bagnomaria in un forno a 140° per un’ora, fino a che il composto non si sarà ben rassodato. Accertarsene infilando nel flan uno stecchino. Sformare su un piatto, spolverizzare di pepe e servire.
Lenticchie e frutti di mare 200 g di lenticchie verdi, sale, pepe, due porri piccoli, coriandolo, menta, aglio, 30 ml di aceto di vino rosso, un cucchiaino di miele, 600 g di frutti di mare puliti, olio extravergine d’oliva. Ricetta consigliata da Apicio. Innanzitutto, le lenticchie vanno fatte bollire per un’ora in abbondante acqua salata; di seguito, aggiungete il trito di sale, pepe, coriandolo, porri, menta, aceto, miele e due cucchiai di olio e fate continuare a cuocere per un’altra ora circa, finché non vi accorgerete che le lenticchie sono pronte. Preparate un soffritto, usando poco olio, aglio e prezzemolo e cuocetevi i frutti di mare aggiungendovi un po’ d’acqua, per tre minuti in tutto. Mettete ora le lenticchie in un’ampia terrina e versatevi sopra i frutti di mare con il loro condimento.
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Omelette d’arance per ruffiani e prostitute 6 uova, 2 arance e 1 limone, 2 cucchiai di zucchero, 2 cucchiai d’olio d’oliva e sale. Ricetta suggerita dal cuoco di papa Martino V, Giovanni di Bockenheim, che negli anni Trenta del Quattrocento scrive un originale libro di cucina nel quale si preoccupa di indicare i destinatari delle sue ricette, come in questo caso. Sbattere le uova aggiungendo lo zucchero, le scorze dell’arancio, le arance, il limone e un pizzico di sale. Cuocere in una padella con olio d’oliva e servire tiepido.
Fave d’Ercole 400 g di fave bianche (cioè secche, private della buccia), 1,250 l acqua, 1 kg di cicoria, olio extra vergine di oliva q.b., 1 spicchio d’aglio, 1 peperoncino, sale q.b. Nelle Rane, Aristofane racconta che, dopo aver gustato il suo cibo preferito, Ercole fece mutare stato a 10 000 vergini. Alcuni sostengono che abbia mangiato qualcosa di simile alla ‘ncapriata pugliese. Mondate le fave, mettetele a bagno per una mezz’ora. Scolatele e riponetele in una pentola, meglio se di terracotta, coperte d’acqua e cuocetele coperte per circa due ore. Raggiunta l’ebollizione, la cottura dovrà essere un sobbollire quasi impercettibile. Alla prima ebollizione, si produrrà della schiuma, che dovrà essere tolta. Rimestate spesso e fate attenzione, poiché le fave tendono ad attaccarsi sul fondo. Mentre le fave cuociono, pulite e nettate la verdura e sbollentatela in acqua salata non abbondante. A questo punto soffriggete in olio l’aglio e il peperoncino. Aggiungete la verdura al soffritto, regolate di sale, rimestate e cuocete a pentola coperta. A questo punto le fave dovrebbero essersi quasi spappolate, frullatele e aggiungete l’olio a crudo e potrete servirle, sistemandole accanto alle verdure e, se di vostro gradimento, accompagnando il tutto con cipolla rossa condita con sale, pepe e un po’ di aceto, meglio se rosso.
Pesce di Teodora Alcuni pesci (tonno, sgombro o rombo), foglie di fico o vite, olio, pepe, sale. Sembra che Teodora sia riuscita a conquistare Giustiniano e a diventare imperatrice, nel VI secolo d.C., grazie alle sue doti culinarie. Una ricetta a lei attribuita è quella che usa un particolare modo per cucinare il pesce. Prendere il pesce prescelto, insaporirlo con olio, sale, pepe e avvolgere i tranci o le fette nelle foglie di fico/vite (o carta di alluminio), fino a ottenere dei piccoli cartocci che saranno fermati con uno stecco. Fare uno strato di brace, porvi sopra i pesci incartocciati, ricoprirli di cenere e attendere la fine della cottura (fare attenzione che la brace non bruci le foglie).
Salsa di ricci di mare (salsa di Curtillo) 50-70 ricci di mare, 3 o 4 spicchi d’aglio, 4 acciughe, olio extra vergine di oliva. Orazio (I secolo a.C.), nelle Satire, racconta che tal Curtillo mostrò come fare una salsa molto saporita. Mettete abbondante olio in una padella e 3 o 4 spicchi d’aglio che fate cuocere fermandovi però prima che incomincino a colorire. Squagliate nell’olio le acciughe e alla fine aggiungete le uova di riccio ben sciolte, condendo poi immediatamente il pesce lesso o arrosto oppure la pasta.
Trote in carpione 6 trote, olio d’oliva, 100 g di sale, 30 cl d’acqua, 30 cl d’aceto. Questa ricetta è ispirata a Mastro Martino e si rifà al modo di preparare il carpione, un pesce che sopravvive solo nel lago di Garda. Pulire le trote e metterle in una marinata con acqua e aceto e sale per mezza giornata. Indi porre le stesse sotto un peso (1 kg) per 2 ore e friggerle in olio bollente.
Spiedini d’anguilla alla san Vincenzo 1,5 kg di anguilla, 5-10 cl di aceto, 2 cucchiai d’olio, 4 arance, 3 limoni, ½ melagrana, 1 rametto di rosmarino, una ventina di foglie d’alloro fresche, sale, cardamomo, zenzero, miscela di spezie in polvere (1/4 di cucchiaino ciascuno di: pepe, chiodi di garofano, cannella, zenzero) La ricetta è tratta da una novella narrata, ai primi del Quattrocento dal senese Gentile Sermini. Spellate l’anguilla, pulitela e tagliatela a pezzi che vanno infilzati sugli spiedini intercalandovi le foglie d’alloro. Preparate la miscela d’aceto, olio, pepe, chiodi di garofano, cannella e zenzero in polvere e versarla in un recipiente in cui poter tuffare il rametto di rosmarino. Cuocete gli spiedini un po’ lontano dalla brace e bagnate spesso con la suddetta miscela servendosi del rametto di rosmarino. Sorvegliate la cottura affinché l’anguilla non si disfaccia. Quando è cotta, disporre i pezzi in un piatto fondo e versatevi sopra il succo delle arance, dei limoni e della melagrana, spolverate con ¼ di cucchiaino di zenzero e cardamomo in polvere mischiati. Tenere in caldo e servire tiepido.
Teglia di bianchetto (Gonos) 1 Kg di bianchetto o novellame di pesce, olio, sale q.b., 1 pizzico di timo, 1 pizzico di maggiorana, 1 pizzico di origano. Semplice ma saporita ricetta proposta da Archestrato di Gela nel IV secolo a.C. Riscaldate l’olio, aggiungete il trito di erbe, gettatevi il bianchetto per un secondo. Al primo sfrigolio bisogna precipitarsi a scolare questi infinitesimali pesciolini. Poi mettete tutto nel piatto di portata, spolverizzate di sale e servite bollente.
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