Archeo Monografie n. 28, Dicembre 2018/Gennaio 2019

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MONOGRAFIE

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I

NEL MONDO DEI PRIMI CRISTIANI

cristiani

• Il primo Natale • Il piú antico presepe • La missione di Pietro e Paolo • Cosa sono i testi apocrifi • A pranzo con i primi cristiani • L’età delle persecuzioni • La basilica della Natività • Rivelazioni sulle catacombe • Quando Roma divenne cristiana

N°28 Dicembre 2018/Gennaio 2019 Rivista Bimestrale

Nel mondo dei primi € 7,90

IN EDICOLA IL 30 NOVEMBRE 2018

ARCHEO MONOGRAFIE

I N IA E T AL RIS T NA MI C I R P N O C



Nel mondo dei primi

cristiani

• Il primo Natale • Il piú antico presepe • La missione di Pietro e Paolo • Cosa sono i testi apocrifi • A pranzo con i primi cristiani • L’età delle persecuzioni • La basilica della Natività • Rivelazioni sulle catacombe • Quando Roma divenne cristiana testi di Fabrizio Bisconti, Danilo Mazzoleni, Barbara Mazzei, Lucrezia Spera, Umberto Utro e Alessandro Vella

6. Introduzione

Cittadini del cielo

8. Le origini del Natale Santa è la notte

22. Betlemme

Mistero a Betlemme

32. Pietro e Paolo La grande missione

50. I martiri

Morire di fede

88. Le catacombe Un mito da sfatare

94. L’arte delle catacombe Dall’oscurità alla luce

112. Roma cristiana

La grande metamorfosi


CITTADINI DEL CIELO P

er ben due secoli e oltre, il «popolo dei cristiani» sembra invisibile, poiché per tutto questo lungo periodo non si incontrano manifestazioni architettoniche, cimiteriali ed epigrafiche propriamente cristiane. E questo «assordante silenzio» sembra interessare anche l’espressione artistica, che pare «frenata» dai divieti veterotestamentari di rappresentare il sacro, cosí come accade nella cultura figurativa giudaica. Il divieto, che dall’Esodo (20,4-5) rimbalza nel Deuteronomio (4,14-19), riguarda però soltanto l’uso di rappresentare statue e idoli. Questo atteggiamento viene chiarito, alla fine del II secolo d.C., dal padre della Chiesa Minucio Felice, il quale, nel suo Octavius, scrive: «Pensate che noi teniamo nascosto l’oggetto del nostro culto solo perché non possediamo santuari o altari? E perché dovrei scolpire un simulacro di Dio, quando – se ben rifletti – l’uomo stesso è simulacro di Dio? Perché dovrei erigergli un tempio, quando tutto il mondo creato da lui non riesce a contenerlo? E mentre io, semplice mortale, ho bisogno di vivere in uno spazio, dovrei, per questo, circoscrivere l’immagine di Dio nello spazio di un modesto ambiente? Forse non è meglio dedicargli un altare nella nostra anima?». Questa fonte diviene preziosa quando apprendiamo che l’atteggiamento antidolatrico ostacola la creazione di ogni forma di edificio di culto e che il mito delle cosiddette «domus ecclesiae», ovvero delle abitazioni adibite a primitivi luoghi riservati alle prime manifestazioni liturgiche, sembra, pian piano, sgonfiarsi. In verità,

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Nella pagina accanto affresco raffigurante Cristo che guarisce il paralitico, dal battistero della cosiddetta domus ecclesiae di Dura Europos. 232 d.C. circa. New Haven, The Yale University Art Gallery. In basso Dura Europos (Siria). I resti dell’edificio di culto cristiano scoperto nel corso degli scavi condotti nella prima metà del Novecento e comunemente designato come domus ecclesiae.

resta importante un esempio – oramai celebre – noto come domus ecclesiae di Dura Europos, ossia un abitazione romana di una città carovaniera nell’attuale Siria, sulle sponde dell’Eufrate, fondata dai Seleucidi, diventata città di frontiera dell’impero parto nel I secolo a.C. e conquistata dai Romani nel 165 a.C.. Ebbene, questa colonia romana, nel 256 d.C., viene obliterata, in quanto vinta dai Sasanidi. La città, ricoperta di sabbia, rimase tale finché, negli anni centrali del Novecento, fu interessata da una campagna di scavo condotta da una missione statunitense, guidata da Carl Hermann Kraeling. Durante quegli scavi, emersero alcuni edifici templari dedicati a Zeus e agli dèi palmireni, un mitreo, una sinagoga e un edificio di culto cristiano, riconosciuto, appunto, come domus ecclesiae. Tutti questi edifici ci parlano di un clima multireligioso, che anima una città di frontiera negli anni centrali del III secolo. Mentre gli affreschi, che decoravano la sinagoga, furono sistemati nel Museo Archeologico di Damasco, quelli che interessavano un ambiente-battistero della cosiddetta domus ecclesiae furono strappati e musealizzati nella Yale University. La casa-chiesa di Dura Europos mostrò una importante fase costruttiva e decorativa da riferire agli anni Trenta del III secolo, con l’allestimento di un ambiente-battistero dipinto con scene cristologiche (Buon Pastore, Samaritana al pozzo, Pietro salvato dai flutti, la guarigione del paralitico, le donne al sepolcro) e veterotestamentarie (Adamo ed Eva e Davide e Golia). È sintomatico poter constatare che i temi proposti dal battistero di Dura Europos trovano motivi di confronto, quasi palmari, con i programmi decorativi di alcuni cubicoli della piú antica regione della catacomba romana di S. Callisto, del vestibolo inferiore delle catacombe di S. Gennaro a Napoli, di un arcosolio della necropoli di Cimitile (Napoli), di una pittura del cimitero cagliaritano di Bonaria, di un ambiente delle catacombe siracusane di Vigna Cassia. Simultaneamente, nella prima metà del III secolo, nasce una civiltà paleocristiana, sia per quanto riguarda gli edifici di culto, sia per quanto attiene le catacombe, che, alle origini, erano definite coemeteria, ossia luoghi di riposo, del sonno provvisorio in attesa della resurrezione. I cimiteri cristiani rappresentano una vera rivoluzione nella ritualità funeraria della tarda antichità, non solo e non tanto perché realizzati nel tufo, attraverso una escavazione verticale, che si organizza su piani diversi e con la moltiplicazione della tomba-base, ossia il loculo, ma anche per l’esclusività del monumento e per lo spirito di eguaglianza delle tombe, perlopiú semplici e assai sobrie, che rispecchiano un sentimento religioso nuovo, che sembra realizzare il pensiero della Lettera a Diogneto, un testo cristiano in greco di un autore anonimo della seconda metà del II secolo. Lo scritto prende avvio con queste suggestive parole: «I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti, non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio e non adottano uno speciale modo di vivere (…) Risiedono in città greche o barbare e, pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti pensano, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri, rispettano tutti i doveri dei cittadini e si sobbarcano tutti gli oneri come se fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera (…) vivono nella terra ma hanno la loro cittadinanza in cielo». Fabrizio Bisconti

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LE ORIGINI DEL NATALE

Santa è la notte Per alcuni la commemorazione della nascita di Cristo coincideva con l’inizio della creazione dell’universo. Per altri con la – pagana – festa del sole. E il 6 gennaio? Non segnava solo l’arrivo dei Magi d’Oriente… Indaghiamo, allora, le origini delle piú sentite celebrazioni della cristianità di Danilo Mazzoleni

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III kal(endas) ian(uarias). Natus Christus in Betleem Iudeae («25 dicembre. Nacque Cristo a Betlemme di Giudea»). Questa commemorazione, contenuta nel piú antico calendario della Chiesa di Roma pervenutoci, il Cronografo romano del 354, è la prima notizia delle fonti letterarie che riporti al 25 dicembre per la celebrazione del Natale. L’importante documento in cui essa è inserita è un elenco di feste di martiri (da cui il nome Depositio martyrum), compilato nel suo primitivo nucleo nel 336. Si può affermare, perciò, che solo nel IV secolo un documento ufficiale riporta, per la Natività, la data rimasta ancora oggi nella tradizione. Ci si può chiedere se essa fosse già accettata in età precedente e se in quell’epoca fosse ovunque diffusa, nel mondo cristiano antico. Per quanto concerne la prima questione, certamente la celebrazione della festa non si può attribuire a un periodo di molto anteriore, in base agli elementi a nostra disposizione; per la seconda, si sa che dovettero trascorrere in alcune regioni anche secoli prima che fosse festeggiata la nascita di Cristo il 25 dicembre. Ancora oggi, infatti, non tutte le Chiese cristiane concentrano in questo giorno il ricordo dell’evento prodigioso. Non esiste, comunque, per il Natale una

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tradizione di origine apostolica; tanto è vero che ben presto gli scrittori cristiani si posero il problema di determinare il giorno in cui era venuto alla luce il Salvatore. Clemente Alessandrino, vissuto all’incirca fra il 150 e il 215, già riporta tre diverse opinioni diffuse ai suoi tempi: alcuni pensavano al 20 maggio, altri al 10 gennaio, ma i piú al 6 gennaio. Ulteriori teorie furono certamente influenzate dal fatto che si riteneva l’equinozio di primavera (fissato prima il 25, poi il 21 marzo) come l’inizio della creazione dell’universo; simbolicamente la medesima data avrebbe segnato la concezione (per altri la nascita) del Figlio di Dio. In seguito a tali ragionamenti, in uno scritto sul computo pasquale attribuito a san Cipriano, si propone il 28 marzo, mentre sant’Ippolito si orienta per il 2 aprile.

Dopo il solstizio invernale Progressivamente, comunque, si affermò sempre piú il partito di coloro che indicavano il 25 dicembre; fra questi sant’Agostino, che riteneva il giorno storicamente sicuro. Non sembra sia senza significato, poi, il fatto che l’imperatore Aureliano, nel 274, fissò proprio al 25 dicembre la festa del sole (Sol invictus), che dopo il solstizio invernale a poco a poco riprendeva il sopravvento. Non erano estranei a

Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Mosaico parietale raffigurante l’Adorazione dei Magi. 561-568. I tre re, giunti a Betlemme dall’«Oriente» per rendere omaggio al «re dei Giudei», vestono abiti persiani e indossano il tipico berretto frigio.


questa celebrazione influssi del culto orientale di Mitra, che ebbe grande seguito nella Roma tardo-imperiale. Sostituire a una solennità profana una cristiana, legata all’incarnazione del Cristo, «sole di giustizia», fu certamente un’operazione carica di significati simbolici, oltre che polemici nei confronti del paganesimo, ormai al tramonto. Si può ricordare, a questo proposito, che l’imperatore Giuliano l’Apostata, tentando di ristabilire gli antichi culti di Roma, nel 362 tenne un discorso, da leggersi proprio il 25 dicembre in onore del sole; mentre, nel V

secolo, san Leone Magno in un suo sermone mise in guardia i cristiani a non confondere la nascita del Figlio di Dio con la celebrazione del sole naturale, che coincidevano nello stesso giorno. Il concetto di contrapposizione tra Cristo e il sole materiale fu sviluppato anche da altri autori cristiani di primo piano, come san Zenone di Verona (in un’omelia del 380) e lo stesso sant’Agostino. Si può, perciò, affermare che si giunse progressivamente a fissare la data tradizionale del Natale per un insieme di motivi e di considerazioni di carattere astronomico,

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LE ORIGINI DEL NATALE

profetico, scritturistico e simbolico, nonché probabilmente per la coincidenza di una festa civile profana da poco istituita. Quando ciò avvenne in Oriente è difficile precisarlo, mentre – come si è detto – per l’Occidente l’usanza si generalizzò nel corso del IV secolo. Una prova in questo senso è fornita da una lettera di papa Siricio sullo scorcio dello stesso secolo, che ne parla come di una consuetudine ormai generalizzata fra i cristiani. Si sa comunque da san Gregorio Nazianzeno che la festa fu introdotta per la prima volta a Costantinopoli, capitale dell’impero d’Oriente, nel 380; san Giovanni Crisostomo afferma che la cosa avvenne invece ad Antiochia di Siria sei anni dopo. La pellegrina Egeria, d’altra parte, attesta che nel 381, proprio nella basilica della Natività a Betlemme, si celebrava ancora soltanto l’Epifania, mentre a Gerusalemme la solennità fu temporaneamente introdotta al tempo del vescovo Giovenale, nel 439, ma divenne fissa solo col patriarca Sofronio, circa duecento anni dopo, fra il 634 e il 638. Giustiniano un secolo

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prima aveva, comunque, proclamato già il 25 dicembre solennità civile. Se il Natale fu una festa celebrata prima in Occidente e poi passata in Oriente, per l’Epifania avvenne esattamente il contrario.

La divinità rivelata Il termine «epifania» già nella mitologia greca stava a indicare qualsiasi manifestazione della presenza di una divinità; in senso cristiano esso passò a designare in un primo momento (probabilmente agli inizi del IV secolo) l’incarnazione del Figlio di Dio, poi le rivelazioni piú significative della sua divinità, ricordate in un unico giorno, il 6 gennaio. Si riteneva comunemente che esse fossero soprattutto tre: in primo luogo il battesimo del Cristo nel Giordano, durante il quale il Signore aveva esplicitamente dichiarato la presenza di Suo Figlio in terra; poi l’adorazione dei Magi; infine il primo miracolo, quello delle nozze di Cana. Anche se in seguito, specialmente in Occidente, prese il sopravvento la

Fronte di sarcofago infantile decorata con due scene bibliche che alludono alla salvezza del piccolo defunto. IV sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano. Sulla sinistra, il profeta Ezechiele, figura di Cristo, richiama in vita una distesa di ossa secche, immagine del popolo d’Israele; sulla destra, l’Epifania: Maria tiene in braccio il piccolo Gesú al cospetto dei tre Magi, che, guidati dalla stella, giungono con cammelli, portando i loro doni.


A destra frammento del rilievo di un sarcofago raffigurante la Vergine con il Bambino che riceve l’omaggio dei Magi, dal Campo Santo Teutonico (Città del Vaticano). 320-350 d.C. Monaco di Baviera, Sammlung C.S.

commemorazione dell’atto di omaggio compiuto dai Magi, rimasto ancora oggi legato alla festa, in Oriente prevalse sugli altri il ricordo del battesimo del Giordano. Per ciò che concerne l’origine e la diffusione della ricorrenza, non si hanno notizie antiche a disposizione: ne parla Clemente Alessandrino all’inizio del III secolo, riferendo che gli gnostici di Basilide celebravano il 10 gennaio il battesimo di Gesú. La scelta della data poté, secondo alcuni, essere anche in questo caso influenzata dalla preesistenza di una solennità mitologica profana. Riferimenti si trovano anche negli scritti di Ippolito di Roma, mentre dell’argomento non fa alcun cenno il già ricordato Cronografo romano del 354, che d’altronde è un calendario occidentale. La documentazione diviene piu abbondante verso la fine del IV secolo, con le testimonianze di sant’Efrem Siro e di altri, fra cui san Girolamo, san Gregorio di

Nissa e san Gregorio di Nazianzo. Sant’Agostino scrive che gli eretici donatisti in Africa (cosí chiamati da Donato di Cartagine, primo loro capo e animatore, n.d.r.) si rifiutavano di celebrare l’Epifania, che ritenevano aggiunta arbitraria della Chiesa orientale, mentre rimanevano molto legati alla tradizione del Natale. Giovanni Cassiano scrive che, nel 420, in Egitto il 6 gennaio si commemoravano insieme la nascita e l’Epifania, cioè le manifestazioni del Cristo che altrove erano celebrate separatamente. Quando la festa si diffuse in Occidente, però (dalla metà circa del IV secolo), il ricordo dell’adorazione dei Magi alla divinità di Cristo in pratica fece passare in secondo piano quello del Battesimo, come pure non si usarono battezzare in quel giorno (cosa che invece avveniva in Oriente) i catecumeni, né compiere particolari riti di benedizione dell’acqua. Si può perciò affermare che l’Epifania subí una trasformazione – anche concettuale – nel suo significato interiore, fissandosi poi nelle forme e nei modi con cui è giunta, dopo tanti secoli, fino

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LE ORIGINI DEL NATALE

a noi. Natale ed Epifania continuano a essere in tante nazioni le feste piú sentite dell’anno, anche se in genere si è perduto gran parte dell’originario significato delle due solennità, come le sentivano i cristiani dei primi secoli.

Ma quanti erano i Magi? Narra Matteo che, al tempo di re Erode, dei Magi arrivarono dall’Oriente a Gerusalemme per cercare il re dei Giudei. La stella che li aveva guidati e preceduti nel loro cammino, riapparve e si fermò sul luogo dove era il Bambino. «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre e prostratisi lo adorarono; quindi, aperti i loro tesori, gli presentarono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non ritornare da Erode, per un’altra via fecero rientro al loro paese». Cosí l’Evangelista presenta i Magi (2, 1-12), con una prosa

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precisa, ma sintetica; nessun ulteriore riferimento al riguardo si trova negli altri tre Vangeli e ben poco di preciso e di storicamente attendibile aggiungono gli scritti apocrifi di epoca successiva. Non si precisa, perciò, il numero, la qualifica, la provenienza, né in fondo l’esatto motivo della visita di questi personaggi a Betlemme, primi rappresentanti dei «gentili», cioè dei pagani, a rendere omaggio al Redentore. Di non univoca interpretazione è prima di tutto il termine greco màgos, che secondo varie opinioni sarebbe derivato dal sanscrito o dal persiano (entrambe antiche lingue indoeuropee), dal significato di «grande» oppure di «dono». D’altronde, se nel Vecchio Testamento «mago» era sinonimo di stregone o fattucchiere e aveva quindi un senso prevalentemente negativo, in Matteo esso diviene positivo, applicato a persone sagge e

Roma, catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro. Cubicolo nel quale è raffigurata la Madonna con il Bambino e due Magi ai lati. IV sec.


Roma, catacomba di Priscilla. Un’altra raffigurazione dell’adorazione dei Magi. III sec.

pie. Comunque, i Magi erano certamente astrologi, probabilmente appartenenti a una casta sacerdotale diffusa da tempo nella Media, in Mesopotamia e in Persia, che seguiva gli insegnamenti di Zoroastro, fondatore del mazdeismo. Nei primi secoli della nostra era si avanzarono, però, numerose e contrastanti ipotesi su di loro; alcune di esse ebbero maggiore fortuna e andarono fissandosi nella tradizione, nella letteratura e nella stessa iconografia. Riguardo all’origine di questi personaggi, Matteo – come si è visto – scrive che essi giunsero «dall’Oriente», ma molti autori cristiani ritennero che fossero persiani. In questo senso si pronunciano Clemente Alessandrino (all’inizio del III secolo), Diodoro di Tarso, Cirillo di Alessandria, Giovanni Crisostomo e Prudenzio, mentre sarebbero stati arabi per Giustino e per Tertulliano, caldei o babilonesi per Massimo di Torino. Con molta probabilità, comunque, non erano re, come oggi comunemente si crede. Se è vero che Tertulliano scrive che erano frere reges, cioè «quasi re», ma nel senso di personaggi ritenuti di grande autorità, nessun altro autore fa cenno alla loro presunta regalità, eccezion fatta per sant’Agostino nel V secolo e per san Cesario di

Arles nella prima metà del VI. Anche l’iconografia non Ii presenta mai come sovrani, almeno fino al pieno Medioevo, quando cominciano a essere raffigurati con la corona sul capo: si tratta evidentemente di una tradizione tarda, priva di fondamenti storici.

Il significato dei doni Anche se ormai da tempo si ritiene che i Magi fossero tre, in realtà Matteo non ne fa alcun cenno, riferendo unicamente che «dei magi» arrivarono dall’Oriente. È logico pensare che il numero ternario fin dall’antichità fosse desunto da quello dei doni che essi portavano, anche se proprio l’iconografia attesta che doveva vigere qualche incertezza in merito, visto che in alcune raffigurazioni (qualche pittura, una scultura, alcuni vetri dorati e un reliquiario argenteo) essi compaiono in numero variabile di due, quattro, o addirittura – in un caso – sei. Si è detto che ciò è dovuto perIopiú a motivi di simmetria delle composizioni; e questo può essere in parte valido per la riduzione a due, ma riesce difficile per l’aumento a quattro o piú. In ogni caso, è pur vero che si tratta di esempi abbastanza sporadici e che già la piú antica pittura conservata, cioè quella della

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Cappella greca nella catacomba di Priscilla a Roma, dell’inizio del III secolo, riporta i Magi nel consueto numero di tre. II primo autore che accetta questa tradizione è Origene; dopo di lui la confermano san Massimo di Torino e san Leone Magno in diversi suoi sermoni. Mentre sant’Agostino collega i Magi simbolicamente alla Trinità, gli autori posteriori concordemente li pongono in relazione con le loro offerte, per cui essi sono ritenuti sempre tre. Anche i doni avrebbero, per i padri della Chiesa, un preciso significato: per sant’Ignazio di Antiochia «recarono mirra, dovendo il Cristo morire per il genere umano ed essere sepolto; oro, essendo Egli re, il cui regno non ha fine; incenso, perché Egli è Dio e si è manifestato a coloro che non lo cercavano». Con talune varianti, questa interpretazione viene ripresa da altri esegeti, e in particolare da Prudenzio.

Portatori di offerte Le raffigurazioni piú antiche mostrano i Magi, proprio nell’atteggiamento (comune già nell’arte egizia e poi in quella romana) dei portatori di offerte, che essi recano con le braccia protese in avanti, raramente porgendole con le mani nude, piú spesso su vassoi. I contenitori hanno forma molto varia: coppe, cornucopie, vasi, anfore, cofanetti, pissidi. Cosí l’oro è rappresentato perlopiú sotto forma di una corona, e solo raramente ha aspetto di monete. È stato notato che l’atteggiamento in cui gli artisti dei primi secoli effigiarono i Magi non segue fedelmente il testo evangelico: essi appaiono nell’atto di avvicinarsi con i loro doni e non sono quasi mai inginocchiati ad adorare il Bambino. Matteo scrive, invece, che prima «prosternatisi» resero omaggio al Salvatore e poi, «aprendo le loro cassette», presentano le offerte.

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Rovescio di medaglione bizantino in oro con l’Adorazione dei Magi. VII sec. Londra, British Museum. Sopra la Vergine è raffigurata la stella.

Forse si vollero rendere in modo compendiario, come altre volte accade, due momenti successivi dell’episodio. Da notare, ancora, che secondo l’uso orientale talora le mani degli oblatori sono dissimulate sotto le vesti, in segno di omaggio e di rispetto. È interessante inoltre osservare in quale abbigliamento sono raffigurati questi personaggi fin dalle pitture piú antiche. Nel gran numero delle scene poche sono le varianti significative: essi indossano quasi sempre il costume persiano, composto dal berretto frigio, floscio e a punta, da cui fuoriesce spesso la capigliatura (ma in taluni casi il capo è scoperto), da una tunica corta manicata cinta in vita, da pantaloni aderenti o a sbuffo larghi superiormente e stretti alla caviglia (gli anaxyrides o «saraballe»), da una clamide e cioè da un corto mantello, in molti casi svolazzante; spesso calzano stivaletti o alti gambali. È un vestito molto simile, per esempio, a quello dei tre giovani ebrei di Babilonia nella fornace, episodio narrato nel libro di Daniele, al quale quello dei Magi è


spesso associato. Probabilmente anche a causa del ritmo ternario delle due scene. Con questi abiti appaiono anche i sacerdoti addetti al culto di Mitra, nelle rappresentazioni di molti santuari dedicati a questa divinità orientale, pure di origine persiana. Proprio nell’arte paleocristiana, poi, si può agevolmente osservare che i Magi, almeno fino al VI secolo, hanno quasi sempre uguali fisionomie: il loro aspetto è giovanile e sono imberbi.

Il mistero dei nomi La tradizione ha da tempo dato ai Magi i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ma questi si sono fissati solo a partire dal XII secolo, con l’espansione del culto delle loro presunte reliquie. Il piú antico documento noto che riferisca come si chiamavano questi personaggi è tardo, risalendo a un’epoca compresa fra la fine del VII e il IX secolo. Si tratta di un manoscritto conservato a Parigi, che riporta i nomi di Bithisarea, Melchior e Gathaspa. Un altro testo, in passato ritenuto opera del Venerabile Beda e quindi datato al VII secolo, riferisce la versione oggi piú diffusa; ma in realtà lo scritto – noto come Collectanea – è di discussa cronologia, oltre che attribuzione. Di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre parla anche il ravennate Agnello nel IX secolo, nel Liber Pontificalis della Chiesa locale,

Coperchio di sarcofago con scene della Natività e dell’Adorazione dei Magi. IV sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano.

accreditando in tal modo una tradizione che sarà poi comune in tutto l’Occidente. Piú o meno in quell’epoca sorse la leggenda che i tre Magi rappresentassero le tre razze umane che resero omaggio al Figlio di Dio: Gaspare quella europea, Melchiorre quella africana, Baldassarre quella asiatica. Per tale motivo a partire dal tardo Medioevo essi sono raffigurati con caratteristiche somatiche diverse. Una scoperta molto importante è avvenuta alla metà degli anni Ottanta del Novecento nel complesso monastico delle Kellia, in Egitto. Su un muro si sono letti, dipinti in rosso da qualche monaco, i nomi: Gaspar, Belchior e Bathesalsa. Visto che l’iscrizione si data tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo, si tratta della piú antica attestazione nota nei monumenti della presenza di tale tradizione. Di questi personaggi «venuti dall’Oriente», di cui Matteo ben poco diceva, si impossessò ben presto la leggenda e nacquero, soprattutto a partire dal VI-VII secolo, narrazioni che arricchivano in modo fantasioso il testo evangelico, introducendo fatti, situazioni nuove e non di rado eventi miracolosi: un gruppo di questi scritti fu elaborato in Occidente, un altro in Oriente. Nel primo si può ricordare almeno la Cronaca di Zuqnin dell’VIII secolo. In questo testo, fra l’altro, si riporta la leggenda secondo cui Adamo stesso avrebbe prescritto al figlio

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Seth e ai suoi discendenti di prelevare oro, incenso e mirra nascosti in una leggendaria Caverna dei Tesori, a Gerusalemme, solo quando fosse apparso un prodigioso segno celeste. Vista la stella, dodici sapienti avrebbero perciò seguito il volere del progenitore, prendendo i doni e recandosi quindi a Betlemme ad adorare il Figlio di Dio. Anteriore alla Cronaca, e probabilmente del VI secolo, è il Libro della Caverna dei Tesori, che narra un fatto simile. Adamo ed Eva stessi avrebbero nascosto nell’antro sul monte Nud (o del Paradiso) i famosi doni. I tre Magi hanno qui nomi diversi, Hormizd, Jazdegerd e Peroz, e provengono da differenti paesi. A Betlemme si fermano per tre giorni, riconoscendo nel Bambino il Messia e tornando poi alle loro terre d’origine. Da notare che, in qualcuno dei testi ora ricordati, i tre personaggi ricevono a loro volta dalla Madonna dei regali simbolici che possono essere un pane, un sasso o alcune fasce del Bambino, dotate di effetti prodigiosi.

La versione di Marco Polo A una di queste tradizioni si riferisce anche Marco Polo nel Milione, quando afferma che le tombe dei Magi erano ancora venerate a Savah, in Persia; una notizia confermata poco tempo dopo (nel 1320) da un altro viaggiatore, Odorico da Pordenone. Ciò contrasta, però, con una parallela tradizione occidentale, secondo la quale le reliquie dei Magi avrebbero subito ben diverse vicissitudini. Ritrovate da Elena, madre di Costantino, sul monte Vittoriale, le spoglie dei tre personaggi sarebbero state portate a Costantinopoli, dove sarebbero rimaste fino al VI secolo, quando l’imperatore Manuele, non essendo esse oggetto di un culto particolarmente sentito, le avrebbe cedute all’arcivescovo di Milano Eustorgio. Lí rimasero fino al 1164, quando Federico Barbarossa, conquistata la città, donò le reliquie al cancelliere imperiale Rainaldo di Dessel, arcivescovo di Colonia. Ivi furono solennemente traslate, nella cattedrale di S. Pietro. In Germania si diffuse la loro venerazione e ben presto i Magi furono addirittura ritenuti martiri.

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Ancora oggi il 24 luglio si festeggia la ricorrenza dell’arrivo dei corpi dei tre sapienti nel centro tedesco. È di fatto impossibile, in mancanza di fonti veramente attendibili, stabilire la veridicità di queste due leggende relative alle spoglie dei Magi. È forse saggio ricondurle entrambe nell’ambito delle pie tradizioni, sorte nel corso del Medioevo. Indipendentemente dalle leggende fiorite intorno a loro, l’importanza di questi personaggi, che pure appaiono quasi fuggevolmente nel testo evangelico, è notevole, come si sforzarono di mettere in rilievo gli scrittori cristiani fin dai primi secoli in tante loro opere. Come scrisse, per esempio, Cromazio di Aquileia nella seconda metà del IV secolo, «i Magi furono scelti per primi tra i pagani a conseguire la salvezza, affinché per loro mezzo venisse spalancata la porta della salvezza a tutte le genti» (Trattato, cap. 4). È logico che le precipue fonti d’ispirazione per le rappresentazioni della nascita e dell’infanzia di Cristo siano i Vangeli di Matteo e Luca, gli unici che si soffermino, sia pure in modo

Una delle facce del reliquiario in argento sbalzato dei Ss. Nazaro e Celso. IV sec. Milano, Museo del Tesoro del Duomo. È raffigurata la Vergine con il Bambino, affiancati da due personaggi, due apostoli o santi, che ricevono dal Re dei Re i missoria, piatti d’argento che l’imperatore, a partire dal IV sec., donava ai capi militari e ai dignitari di alto rango in occasione della sua proclamazione, di anniversari o di altre ricorrenze solenni. I personaggi alle loro spalle sono invece angeli.


Rilievo raffigurante un banchetto degli adepti del dio Mitra, il quale presiede al convivio ed è ritratto con la testa raggiata, che evoca la sua natura di dio del sole, da Fiano Romano (Roma). II-III sec. Parigi, Museo del Louvre.

diverso, sull’argomento. Il primo fu scritto originariamente in aramaico, il secondo in greco, entrambi prima del 70. È stato giustamente osservato, comunque, che non si potrebbero capire molte scene e molti particolari, inseriti in raffigurazioni del ciclo della Natività nell’arte paleocristiana e altomedievale, senza conoscere gli Apocrifi.

Gli Apocrifi, «Libri di origine sconosciuta» Ma che cosa si intende comunemente con questo termine? «Apocrifo» in greco significa letteralmente «nascosto» o «segreto»; in tal modo erano denominate nel mondo pagano quelle dottrine che richiedevano particolari cerimonie di iniziazione e che non potevano essere intese da tutti. Per i cristiani, invece,

«apocrifo» assume ben presto il senso di «falso», o «contraffatto» e in questo modo si indicano quegli scritti, che pur pretendendo di essere equiparati a quelli biblici, in realtà furono riconosciuti già nell’antichità come extracanonici, non ispirati e quindi ufficialmente rifiutati dalla Chiesa. Secondo i Padri, erano libri di origine sconosciuta, o attribuiti indebitamente ad autori o a sètte eretiche, che intendevano proprio con essi dare un fondamento alle loro dottrine. In questo genere letterario, noto anche nel giudaismo a partire dal II secolo a.C., furono comprese numerose opere; Ireneo di Lione scrive che, già nel II secolo d.C., la loro quantità era quasi incalcolabile. A queste compilazioni fanno riferimento anche altri scrittori dei primi secoli del cristianesimo, fra i quali Giustino, Clemente

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LE ORIGINI DEL NATALE

e Origene, che in genere sono portati a sottovalutare il loro valore storico, oltre che a condannare il contenuto dottrinale. Si distinguono Apocrifi del Vecchio e del Nuovo Testamento e fra questi ultimi, Vangeli, Atti, Lettere e Apocalissi. Nel primo gruppo, diversi scritti riguardano proprio la giovinezza di Maria, la nascita e i primi anni di vita di Gesú e le vicende terrene di san Giuseppe: si è soliti denominarli Vangeli dell’Infanzia. Ma perché sorsero tali opere e quali furono i motivi che spinsero gli anonimi autori a cimentarsi in queste leggende romanzate, le piú antiche della letteratura cristiana?

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Particolare della cattedra in avorio di Massimiano, arcivescovo di Ravenna. 546-556 circa. Ravenna, Museo Arcivescovile. Sulla sinistra, si riconosce l’episodio della levatrice, Salome, la cui mano si paralizza per aver messo in dubbio la verginità di Maria.

C’era prima di tutto il vivo desiderio di supplire alla sobrietà dei Vangeli canonici sulla vita di Gesú e soprattutto sulla sua infanzia e giovinezza, sulla sua famiglia terrena e sull’azione missionaria degli Apostoli. Si crearono, quindi, racconti fantasiosi per appagare la curiosità dei fedeli, animati da una devozione talora ingenua ma fervida. Il linguaggio usato, perlopiú scarno, mirava a stupire il lettore con situazioni non di rado inverosimili, inventando miracoli e aggiungendo particolari minuziosi, e i Vangeli apocrifi furono a loro volta fonti di innumerevoli leggende; essi rivelano in molti casi


scopritore), giuntoci in molti manoscritti di differenti epoche e in varie lingue. Cosí come ci è pervenuto, è un’opera composita, il cui nucleo originario, però, risale certamente al II secolo, mentre una redazione organica sembra sia da attribuirsi al IV. Lo stile ricorda quello dei romanzi ellenistici, invece il testo si può suddividere in tre parti: la prima, dedicata alla vita di Maria fino alla nascita di Gesú; la seconda, incentrata proprio sugli eventi legati alla Natività; l’ultima, culminante con la strage degli Innocenti, ordinata da Erode, e con l’uccisione di Zaccaria, padre di san Giovanni Battista. Nel capitolo conclusivo, l’autore afferma di essere Giacomo (verosimilmente il Minore, l’Apostolo vescovo di Gerusalemme). In realtà, gli studiosi ritengono che il Protovangelo sia opera di un cristiano di origine ebraica, forse di ambiente egiziano, che rivela in molte occasioni la sua ignoranza della geografia palestinese.

La mano inaridita

inserzioni successive, sovrapposizioni e interpolazioni, che rendono molto arduo riferirli a un preciso ambito cronologico. Sul reale valore di questi scritti molto si è discusso; l’analisi critica del loro contenuto può comunque portare all’acquisizione di molti elementi sull’ambiente in cui essi furono composti, sulla mentalità religiosa di allora, su una predicazione e un’istruzione in parte diverse da quelle canoniche. Proprio gli Apocrifi hanno inoltre contribuito a fissare alcune tradizioni poi accettate dalla Chiesa, per esempio per quanto concerne i genitori di Maria, la grotta della Natività, il bue e l’asino, gli stessi Magi. La loro influenza fu cospicua, oltre che nel repertorio figurativo, anche nella drammaturgia liturgica e nella letteratura popolare. Il piú antico scritto del gruppo dei Vangeli dell’Infanzia è il cosiddetto Protovangelo di Giacomo (il titolo fu dato nel 1552 dal suo

Pagina miniata con episodi relativi alla Natività, dall’Antifonario di San Pietro. XII sec. Vienna, Österreichischen Nationalbibliothek. In basso, a sinistra, si vede la scena del bagno del Bambino, descritta nel Vangelo arabo dell’Infanzia del Salvatore.

Il Protovangelo di Giacomo ebbe una grande influenza sulle posteriori leggende mariane e sull’iconografia paleocristiana e altomedievale. Basti ricordare l’episodio della mano inaridita della levatrice Salome, che si ritrova in pitture, mosaici e avori. Si legge infatti nei capitoli 19-20 che san Giuseppe aveva condotto nella grotta una donna, quando il Bambino era già venuto alla luce. Constatato l’evento prodigioso, ella ne informò una sua collega, appunto Salome, che non credette alla verginità di Maria e, volendo sincerarsene personalmente, per questo fu punita con la paralisi della mano. Pregò allora Dio e un angelo le consigliò di avvicinare l’arto offeso al Bambino, cosa che le procurò la prodigiosa e immediata guarigione. Il Protovangelo di Giacomo (che per alcuni sarebbe piú giusto denominare Natività di Maria) è, inoltre, la prima fonte che ci tramandi i nomi e la storia completa dei genitori della Madonna, Gioacchino e Anna. L’autore conosceva sicuramente i Vangeli di Luca e di Matteo, ai quali in parte si rifà, pur non avendone la completezza e l’eleganza formale.

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LE ORIGINI DEL NATALE

Qualche episodio, però, si fa apprezzare per la finezza dei toni, come quello della consacrazione di Maria fanciulla e della sua presentazione al Tempio all’età di tre anni. Altro scritto che ha diversi riflessi in iconografia è il Vangelo dello Pseudo-Matteo, o Libro della Nascita di Maria e dell’Infanzia del Salvatore, il cui contenuto sembra risalire al IV secolo, mentre la forma attuale fu data probabilmente nel VI. La prima parte riprende in pieno, rielaborandolo, il Protovangelo di Giacomo; la seconda, suddivisa a sua volta in due, sembra rifarsi liberamente al Vangelo di Tommaso, unendo, però, molti elementi leggendari e popolari. Questo testo fu conosciuto piú in Occidente che in Oriente, soprattutto nel Medioevo, durante il quale fu ampiamente utilizzato come fonte ispiratrice in campo artistico. Nuovi particolari ed episodi vengono introdotti anche nelle vicende della Natività. Si legge, per esempio, che il terzo giorno dopo la nascita Maria uscí dalla grotta ed entrò nella stalla, dove depose in una mangiatoia il Bambino, che fu adorato anche dal bue e dall’asino. Sono particolari, questi, resi già con precisione in pitture e sarcofagi del IV secolo. Si dice, poi, che i Magi arrivarono solo dopo due anni e offrirono, oltre ai consueti doni, ognuno una moneta d’oro (dettaglio altrove sconosciuto). Si parla, inoltre, dell’annunzio, dato dagli angeli ai pastori, di una stella luminosa che rimase sopra la grotta della Natività; e viene poi ripreso l’episodio delle levatrici incredule, con l’aggiunta di qualche dettaglio nuovo. Si specificano, fra l’altro, i nomi di entrambe le donne (Zelomi e Salome); quanto al miracolo della guarigione della mano, esso avviene al contatto con i panni del Bambino. Nel capitolo 24 si narra dell’incontro della Sacra Famiglia col governatore della città egiziana di Sotine, Afrodisio, tema reso in immagini dagli artisti che decorarono l’arco trionfale della basilica di S. Maria Maggiore a Roma, nel V secolo. Una parte almeno del Vangelo dello Pseudo-Tommaso doveva essere composta nel II secolo, se è vero che Origene ne contrastava già la canonicità; la redazione

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latina è stata attribuita al V secolo, ma ne esistono diverse versioni posteriori in varie lingue. Vi si narra l’Infanzia di Gesú fino al dodicesimo anno, con abbondanza di aneddoti sulla sua prodigiosa scienza e sui suoi poteri taumaturgici; emergono, però, anche taluni aspetti apparentemente negativi e sconcertanti, legati ad alcuni prodigi operati.

Fatti nuovi e singolari Lo Pseudo-Tommaso e il Protovangelo di Giacomo furono certamente le fonti principali utilizzate nel Vangelo arabo dell’Infanzia del Salvatore, che introduce numerosi fatti nuovi e talora singolari, come per esempio l’affermazione fatta già dal Bambino nella culla della sua identità di Figlio di Dio. Si legge che, invece della stella, fu un angelo a guidare i Magi verso il luogo dove era nato Gesú. È incluso anche qui l’episodio della levatrice, che però in questo caso è vecchia e già soffre di paralisi; ponendo le mani sul Bambino viene guarita. Ai Magi poi Maria dona – particolare nuovo – una fascia di Gesú, che essi riportano in patria, osservandone con stupore gli effetti prodigiosi. La scena del bagno del Bambino, ricorrente in pitture e mosaici, è desunta probabilmente da un episodio riportato in questo Vangelo, nel quale, però, non si fa cenno alle due donne, che invece compaiono sulle figurazioni. Affine a quello arabo è il Libro armeno dell’Infanzia, eterogeneo e dipendente da diverse fonti, fra cui un libro di antiche leggende sull’infanzia e la fanciullezza di Gesú. Vengono ripresi episodi già noti, ma con qualche particolare inedito, come la permanenza dei Magi per tre giorni nella grotta della Natività. Il personaggio su cui forse i Vangeli sono piú sobri è san Giuseppe; è logico, quindi, che si sentisse il bisogno di imbastire un racconto sulla vicenda terrena del padre putativo di Gesú, molto venerato dal popolo. Si tratta della Storia araba di Giuseppe il falegname, forse originariamente compilata in lingua greca intorno alla fine del IV secolo in Egitto, che dipende soprattutto dal Protovangelo di Giacomo e dallo Pseudo-Tommaso. Anche in

Miniatura raffigurante la Natività e l’annuncio ai pastori, da un Exultet dell’XI sec. Gaeta, Museo Diocesano.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.

questo caso si possiedono varie versioni del testo con aggiunte posteriori. La prima parte si sofferma sugli eventi che precedettero la nascita e l’infanzia di Gesú; la seconda sulla sua morte a Nazareth, all’età – piuttosto inverosimile – di centoundici anni. Si consolida, fra l’altro, la tradizione del mestiere di falegname svolto da Giuseppe, che ebbe i suoi riflessi in campo iconografico. La narrazione è in prima persona come se fosse lo stesso Cristo a tessere i propri elogi. Le vicende della Natività sono esposte in modo molto sintetico rispetto agli altri Apocrifi; essa avviene in una grotta e si aggiunge il particolare che anche l’ostetrica Salome accompagna la Sacra Famiglia nella fuga in Egitto, per sfuggire alla collera d’Erode. Come si è visto, sia pure a grandi linee, gli Apocrifi ebbero grande importanza nella formazione di determinate raffigurazioni del ciclo della Natività, dalla presenza del bue,

dell’asino alla vicenda di Salome, dal bagno del Bambino all’episodio del governatore Afrodisio. Si discute ancora, in qualche caso, se in realtà le piú antiche scene conservateci siano precedenti rispetto alla compilazione di questi testi, che peraltro spesso fissarono tradizioni popolari diffuse da tempo. C’è da aggiungere, comunque, che gli artisti e gli artefici cristiani talora si mostrano incerti nel rendere qualche particolare, come per esempio l’età del Bambino nell’episodio dei Magi, presentandolo neonato avvolto nelle fasce, oppure già grandicello. Anche questo dipende da differenti opinioni delle fonti esaminate, che ponevano l’arrivo dei personaggi dall’Oriente, pochi giorni dopo la nascita, o solo dopo due anni. Ancora una volta, quindi, il corretto uso parallelo di documenti letterari e monumenti può essere illuminante per una migliore interpretazione delle scene.

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BETLEMME

Mistero a Betlemme La basilica della Natività fu costruita intorno al 330, su iniziativa dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena, «che ebbe cura di far risplendere la grotta del parto». L’insigne edificio sorge, infatti, in corrispondenza di un articolato sistema di cavità, ancora oggi ben individuabile e, verosimilmente, utilizzato in età precristiana, per celebrarvi piú antiche devozioni di Danilo Mazzoleni

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La chiesa della Natività a Betlemme, olio su tela di Maxim Nikiforowitsch Worobjew. 1833. Pskov, Museo Storico.

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etlemme (Beit Lahm, cioè «casa del pane»), è la città da cui, secondo la profezia di Michea, sarebbe uscito Colui che doveva regnare (Michea, 5, 1). Nei testi biblici è menzionata per la prima volta nelle storie dei Patriarchi, che vi collocano la morte di Rachele (Genesi, 35, 19), sepolta a circa due chilometri dal villaggio, lungo la via dove un cippo ancora oggi ricorda il sito della sua tomba. Ed è inoltre il luogo in cui si svolge l’idillio fra Rut e Booz (Rut, 2, 8-22): Rut la Moabita è legata alla genealogia di Davide, che qui nacque e fu consacrato re dal profeta Samuele, dando inizio alla stirpe da cui discese il Messia, come narra Matteo (1-17). Betlemme è detta dal profeta Michea anche Efrata (vale a dire «la fruttifera»), «piccola fra le migliaia di Giuda»; tale è ancora oggi, arroccata con le sue abitazioni di pietra a 777 m di altezza, sulle pendici settentrionali dei monti di Giuda, a pochi chilometri da Gerusalemme. Giuseppe, che lí era nato, vi giunse portando con sé Maria, provenendo da Nazareth di Galilea, per farsi registrare insieme alla sua sposa che era incinta (Luca, 2, 4-6). Luca si riferisce probabilmente al censimento ordinato da Quirino, alto rappresentante imperiale in Siria, Asia Minore e in Giudea. Esso avvenne nell’8 o nel 7 a.C., secondo complessi calcoli elaborati in base a diverse fonti. Nonostante la grande fama che il miracoloso evento subito le attribuí e la costruzione della basilica costantiniana, nonché di numerosi monasteri fondati da san Girolamo e dalle sue seguaci fra la fine del IV e i primi decenni del V secolo, Betlemme rimase umile e di piccole proporzioni. Lo stesso Girolamo, autore di una lettera a una sua discepola romana, Marcella, la descrive come «una villicciola, dove tutto è rusticità e, all’infuori dei salmi, silenzio, e dove si conduce una vita dedita tutta all’agricoltura e alla pastorizia». Nel 440 Eucherio la dirà «circondata in angustissimo spazio, con muro umile e senza torri». Perciò la città ebbe a subire un durissimo saccheggio durante la rivolta dei Samaritani, fra il 521 e il 530, quando Giustiniano provvide a

ricostruire la basilica e a munire la città di nuove mura. Nel 1099 un imponente sistema di fortificazione fu costruito dai crociati, che al comando di Tancredi erano stati chiamati dai Betlemiti per soccorrerli dagli invasori musulmani. Con alterne vicende, la città – e con essa la basilica – furono preda di varie scorrerie e di vere e proprie occupazioni: Saladino nel 1187, i Carismini nel 1244; e soltanto con l’insediamento francescano del XIV secolo essa poté rifiorire, anche se continuò a essere esposta alle lotte egemoniche fra Greci e Latini.

Valorizzare i luoghi sacri L’unico monumento ricordato dalle fonti letterarie è proprio la basilica che sola, a Betlemme, costituiva il centro dell’attenzione mondiale, meta di continui pellegrinaggi fin dal IV secolo. La piú antica notizia che documenti la sua esistenza risale al 333 e ci è data dall’Anonimo di Bordeaux, che in quell’anno la vide già costruita «per ordine di Costantino», Due anni dopo, Eusebio di Cesarea, nel De Laudibus Constantini, precisa che essa fu eretta su di una grotta mistica; e lo stesso autore poco tempo dopo unirà all’opera di Costantino anche il nome di sua madre Elena, «che ebbe cura di far risplendere la grotta del parto». Essi svolsero in Terra Santa un intenso programma di valorizzazione dei luoghi sacri, edificando grandiose basiliche sul Golgota, sul Santo Sepolcro e sul Monte degli Ulivi. Lo splendore di questi monumenti è descritto nel diario di viaggio della pellegrina Egeria, redatto probabilmente fra il 382 e il 384. Della basilica della Natività essa scrive: «Non si vede altro che oro, gemme e sete; se guardi i paramenti, sono in seta ricamata con oro, cosí le tende». Egeria poi descrive il gran numero di lumi, torce, candelabri, arredi liturgici tempestati di pietre preziose. Fa anche riferimento a mosaici, probabilmente pavimentali, poiché non accenna a immagini figurate. Il complesso ebbe due fondamentali momenti costruttivi, quello costantiniano e quello giustinianeo. Esistono, però, tuttora disparità di

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BETLEMME

A sinistra la stella che segna il luogo in cui, secondo la tradizione, Gesú sarebbe venuto alla luce. In basso assonometria della basilica della Natività di Betlemme: 1. piazza della Natività; 2. porta dell’Umiltà; 3. navata principale; 4. Grotta della Natività; 5. scala che porta alla Grotta; 6. basilica greco-ortodossa; 7. convento francescano; 8. Grotta di S. Girolamo; 9. chiesa di S. Caterina; 10. convento greco-ortodosso; 11. cortile dei Greci ortodossi; 12. cortile degli Armeni; 13. convento armeno.

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1 A sinistra la scala e la porta che danno accesso alla Grotta della Natività.

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A destra il piazzale antistante la basilica della Natività in una foto dei primi del Novecento. Qui sotto assonometria ricostruttiva del complesso della Natività e del piazzale antistante, che coincide con l’atrio della basilica costantiniana.

In basso la porta d’accesso alla basilica della Natività, alta appena 1,20 m, in una foto dei primi del Novecento. È detta «dell’Umiltà», perché le sue dimensioni obbligano a piegarsi per poterla varcare. 12

vedute tra gli studiosi riguardo alla strutturazione del primitivo impianto, specie per quanto concerne la zona presbiteriale a est. Si tratta di un organismo ottagonale, fornito all’intorno di gradini d’accesso a una piattaforma circolare, munita di una balaustra o cancellata metallica, i cui fori d’incasso sono tuttora visibili. Tale ottagono fu messo in relazione dagli scavatori inglesi con un presunto foro, che sarebbe stato ricavato per consentire ai pellegrini di vedere la sottostante grotta venerata. Questa opinione fu confutata dal padre Bagatti, il quale non la ritenne possibile poiché ammetterebbe l’esistenza di un espediente estraneo alla coeva architettura cristiana e mai ricordato da alcuna fonte. Lo studioso suppose piuttosto che nell’area circolare si trovasse un altare, sormontato da un ciborio con un piccolo cancello intorno. Si può comunque ritenere che l’originaria basilica costantiniana appartenesse al tipo diffuso in quell’epoca anche a Roma. L’aula, di dimensioni leggermente minori dell’attuale, era a cinque navate, scandite da una selva di colonne e preceduta da un vasto atrio quadriportico, utilizzato probabilmente per la raccolta e il ricovero dei fedeli.

Mosaici ricchi e variegati 13

La pavimentazione musiva, di cui vasti lacerti furono individuati nelle campagne di scavo condotte nel XX secolo (1932, 1934 e 1949-50), comprende svariati motivi decorativi: geometrici, a fasce, cerchi, nastri; vegetali, con tralci di vite, volute di acanto, frutta. Nell’area ottagonale la trama musiva è particolarmente ricca: entro medaglioni sono raffigurati animali, fra cui la pernice, il gallo, e altri volatili; vi sono inoltre tralci e grappoli d’uva, cornucopie, pomi e fiori. Vicino all’accesso alle scale che

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BETLEMME

conducevano alla grotta sottostante, infine, è stata rinvenuta l’iscrizione greca Ichtús, cioè «pesce», allusiva al Cristo. Il centro ideale del santuario era ed è, come ricordano le fonti, il luogo tradizionale della Natività, su cui si impiantò la basilica. Al primitivo ingresso alla grotta venerata, situato a est, si sostituí un’abside a uso liturgico probabilmente già nel IV secolo, se non all’epoca di Giustiniano due secoli dopo. Nel fianco nord-occidentale della grotta è scavata una nicchia, il «presepio» vero e proprio, in cui la tradizione vuole sia avvenuto il miracoloso evento. L’intervento di Giustiniano, effettuato nella prima metà del VI secolo, trova riscontro nelle parole del patriarca di Gerusalemme Sofronio, che fra il 603 e il 604 descrive la basilica come preceduta da un avancorpo e «con tre splendidissime absidi», che sostituirono l’ottagono precedente. In questa occasione si ampliarono le dimensioni delle cinque navate e fu sopraelevato il pavimento di circa 80 cm, verosimilmente riutilizzando i fusti delle colonne della precedente aula e modificandone solo basi e capitelli. È però certo che a questa epoca debbono risalire i mosaici parietali attualmente perduti, che ancora una volta ci vengono descritti dalle fonti.

Lo stupore dei Persiani Da un documento greco relativo al concilio svoltosi a Gerusalemme nell’836, durante l’iconoclastia, apprendiamo che i Persiani di re Cosroe, giungendo a Betlemme nel 614 animati dalla loro furia devastatrice, si arrestarono con stupore di fronte alle immagini dei Magi loro compatrioti; e per rispetto ai loro antenati osservatori degli astri, abbigliati alla loro stessa maniera, li venerarono come fossero vivi e risparmiarono la chiesa. Il medesimo atteggiamento, come racconta Eutichio, patriarca di Alessandria, ebbe il califfo Omar quando giunse nel 638 nella città: «Si fermò a pregare presso l’abside meridionale, che era coperta di mosaici». Il tema musivo dell’Adorazione decorava con ogni probabilità il

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In basso l’interno della basilica della Natività a Betlemme. Sulla sinistra è l’area in cui si apre la grotta.

presbiterio, dato che alle pareti delle navate dovevano essere infisse lastre marmoree. Durante la dominazione dei crociati, il santuario venne ulteriormente abbellito con mosaici e pitture, di cui però non sussistono che scarse vestigia. Persino le colonne furono dipinte con immagini di santi alla maniera bizantina; a ciò si aggiunse una nuova pavimentazione e l’imponente sistema difensivo delle mura. Oggi la facciata è fiancheggiata dai conventi francescano, greco e armeno e da massicci contrafforti. Nel nartece rimane una sola piccola porta d’accesso, notevolmente ristretta già all’epoca dei crociati per evitare che i Turchi facessero entrare i loro cavalli nella chiesa, trasformandola in una stalla. Nell’atrio che lo precede si notano tre bocche di cisterne, che originariamente raccoglievano le acque piovane per la fontana delle abluzioni liturgiche. Alla grotta sottostante si accede da due scale


situate nel coro della basilica: essa è costituita da un piccolo ambiente rettangolare largo circa 3,5 x 4 m e lungo 12. C’è da notare, però, che i Vangeli non specificano il luogo preciso in cui avvenne l’evento. Matteo infatti parla solo della città, Betlemme di Giuda e Luca racconta: «Mentre si trovavano là si compirono i giorni in cui Ella doveva avere il Bambino, e diede alla luce il suo primogenito; lo avvolse in fasce e lo adagiò in una mangiatoia, perché all’albergo per loro non c’era posto» (Luca, 2, 6).

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Lo stesso tetto per uomini e animali La parola greca katàlyma, tradotta con «albergo», sta a indicare il luogo dove si ricoveravano le bestie, o dove si disfacevano i bagagli prima di prendere alloggio. Secondo gli esegeti, il termine potrebbe anche riferirsi alla sala di una casa privata, riservata agli ospiti, o alla camera di una modesta dimora: iI fatto di

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Le grotte sotto la basilica Planimetria delle grotte: 1. scale d’accesso alla Grotta della Natività; 2. Grotta della Natività; 3. Altare della Natività; 4. Grotta della Mangiatoia; 5. corridoio di collegamento; 6. Altare di S. Giuseppe; 7. Grotta grande; 8. Grotta degli Innocenti; 9. Altare della Vergine; 10. Grotta di Eusebio di Cremona e delle SS. Paola ed Eustochio; 11. Grotta di S. Girolamo e cenotafio; 12. arco a volta precostantiniano e fondamenta costantiniane; 13. grotte con tombe ad arcosolio e altare degli Innocenti; 14. uscita verso la chiesa di S. Caterina; 15. abside orientale della basilica.

vederla accomunata a una mangiatoia non esclude che quest’ultima potesse essere situata in un locale comunicante, o in ogni caso vicino. Una tale sistemazione può bene aderire a certi tipi di abitazioni note proprio in Palestina e soprattutto nei dintorni di Betlemme. Sono case rurali – come ha fatto notare Albert Storme – in cui persone e animali dividono lo stesso tetto, anche se con qualche precaria separazione degli ambienti. Questo potrebbe spiegare le parole di Matteo (2, 11), quando narra la venuta dei Magi, i quali «entrati nella casa, videro il Bambino con Maria sua madre e, prostratisi, l’adorarono». Dunque si parla di casa. I racconti apocrifi diffusero la tradizione: nel

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BETLEMME

San Girolamo biasimò la profanazione della grotta, convertita dai Romani al culto di Adone dopo avere represso la rivolta giudaica del 132-135 Vangelo dell’Infanzia del Salvatore si parla di una stalla isolata, che Giuseppe pensò essere un ricovero per pellegrini, piccola, adatta ai poveri. Nello Pseudo-Matteo la nascita avviene in una grotta «sotto una caverna, nella quale non entrava mai la luce» e che si illuminò di divino splendore all’ingresso di Maria. Alla

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metà del II secolo Giustiniano, nel suo Dialogo con Trifone, conferma la tradizione della grotta situata nei pressi del paese; e nel 248 Origene farà precisa allusione alla venerazione, di cui il luogo era oggetto: «Conformemente a quello che il Vangelo racconta, si mostra a Betlemme la grotta dove Egli è nato e nella grotta la


Il chiostro del convento francescano annesso alla basilica della Natività.

mangiatoia dove fu fasciato. Quello che si mostra è ben noto a questi luoghi (...), e cioè che in questa grotta è nato Gesú, adorato e ammirato dai cristiani». San Girolamo recrimina sul fatto che «dove Cristo aveva emesso i suoi vagiti di Bambino, si piangeva l’amante di Venere», poiché Adriano, dopo la repressione giudaica del 132-135, profanò il luogo instaurandovi il culto di Adone. Lo stesso Girolamo mostra ancora punte di risentimento, descrivendo la nuova e ricca sistemazione della mangiatoia, rivestita di lastre d’argento, a cui egli preferiva invece l’originale povertà. Già nel corso del IX secolo il luogo della nascita e la greppia vennero distinte com’è ai giorni nostri: a ovest il presepio e a oriente il luogo della nascita, presso il quale venne eretto un piccolo altare dove si celebra tuttora la messa. Mosaici e pitture, col tempo, ornarono ulteriormente l’ambiente che già Giustiniano aveva provvisto di rivestimenti marmorei. Una grande stella d’argento a quattordici punte, collocata nel XVIII secolo, tolta dagli ortodossi nel 1847 e in seguito restituita, sostituisce ancora oggi quella in marmo che gli antichi pellegrini raccontavano di aver visto nel Medioevo, lí collocata a ricordo di quella che apparve ai Magi e che sulla grotta si fermò. Ai tre saggi orientali è dedicato un piccolo altare, eretto nel XVI secolo di fronte alla mangiatoia a ricordo della loro venuta. Non poche sono le «memorie» di eventi che si svolsero durante la nascita e subito dopo l’Adorazione dei Magi e dei pastori; esse sono sparse nei paraggi della grotta, quasi a segnare diverse «tappe» del miracoloso evento. A un miglio circa da Betlemme, numerosi testi antichi indicano, per esempio, il Campo dei pastori, dove essi ricevettero l’Annuncio dell’angelo (Luca, 2, 8). Qui, nel IV secolo, si trovavano una chiesa e un convento, poi denominato Poimènion, già caduto in rovina prima dell’arrivo dei crociati. Altro luogo venerato dalla tradizione popolare è il pozzo presso il quale Maria e Giuseppe sostarono a bere, a Beit Sahur, lungo la via per Betlemme. II pozzo della stella invece, di cui dà notizia san

Gregorio di Tours nel VI secolo, si localizza vicino alla parte settentrionale della grotta della Natività: è un pozzo profondissimo nella cui acqua, secondo la leggenda, si trova la stella che fu compagna e guida ai Magi e che si rivelerebbe miracolosamente ai fedeli.

Roccia bianca come il latte Non lontano dal santuario si trova poi una grotta scavata nel tufo, detta «del latte», dove un giorno Maria si fermò ad allattare il Bambino, sempre secondo la leggenda che attribuisce inoltre il colore bianco del tufo a una goccia del suo latte cadutavi. Poco oltre vi è una cappella dedicata a san Giuseppe, detta comunemente «la casa» del santo, forse in memoria di quella in cui la Sacra Famiglia abitò dopo la Nascita. Accanto alla grotta principale, ce ne sono diverse altre, in cui sono indicati i presunti sepolcri di san Girolamo, delle sue discepole Paola ed Eustachio, madre e figlia, e di sant’Eusebio di Cremona. Una cavità piú bassa e stretta delle altre è nota come la «grotta degli Innocenti»: il supposto luogo di sepoltura delle piccole vittime di Erode. Nel XIV secolo queste tombe furono descritte come mangiatoie di cavalli, di ridotte dimensioni e accostate le une alle altre. Sul lato nord dell’abside della basilica, l’architetto di Giustiniano lasciò aperto un pertugio che dava accesso a una grotticella con una vaschetta nel mezzo e numerosi graffiti devozionali sull’intonaco delle pareti. Essa è ricordata dalle fonti come grotta della «vasca del lavacro di Gesú». Arculfo, pellegrino del VII secolo, scrive che l’acqua «fu gettata dall’alto del muro in una vasca in occasione della prima abluzione del Signore»; essa si raccolse in una fossa e – a detta dello stesso Arculfo – era ancora purissima, «senza mancanza o diminuzione». In realtà, quando l’ambiente venne scoperto sul finire del XIX secolo, di tale vasca non si trovò traccia; deviate le acque una volta che si perse la tradizione leggendaria, la grotta fu adibita a luogo di sepoltura. Tuttavia, i numerosi graffiti devozionali stanno a confermare la venerazione del sito in età bizantina.

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IL PRESEPE DI ARNOLFO

Il presepe di S. Maria Maggiore Pochi sanno che, nella basilica di S. Maria Maggiore a Roma, all’interno della cappella del Sacramento – opera dell’architetto Domenico Fontana dell’epoca di Sisto V – si conserva un insigne monumento, un gruppo statuario che si deve a Arnolfo di Cambio, al quale fu commissionato da papa Niccolò IV nel 1288. L’artista toscano ultimò l’opera nel 1291. Le figure dei profeti Davide e Isaia sono scolpite sui pennacchi dell’arco di ingresso di un piccolo ambiente: al

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centro di una nicchia sono disposti la Vergine e il Bambino con a fianco Giuseppe e i tre Magi, di cui il piú vecchio è inginocchiato e gli altri, in piedi, poco discosti; a sinistra spuntano le teste del bue e dell’asino. L’antica denominazione della basilica, attestata già dal VII secolo, era proprio S. Maria ad praesepe. Tale titolo ricorre anche in documenti successivi, e in particolare nella lunga iscrizione, conservata all’interno della basilica, di fronte al sepolcro del cardinale Gonsalvo, in cui sono menzionate donazioni fatte alla chiesa dalla nobile Flavia Xanthippe. L’epigrafe, incisa su una lastra di marmo nero, è datata al IX


secolo ed è la trascrizione di un precedente testo del VI, da cui perciò si desume che l’appellativo ad praesepe era già in uso. Esso fu attribuito alla basilica in relazione alla presenza di un oratorio, in cui si conservavano le reliquie tradizionalmente venerate come quelle della mangiatoia di Gesú. Per questo motivo si volle che l’oratorio assumesse l’aspetto della grotta di Betlemme; la notorietà e la venerazione di cui doveva godere fecero sí che vari papi lo abbellissero con nuovi preziosi arredi dall’VIII secolo in poi. Forse in origine l’ambiente si trovava nella zona presbiteriale della basilica, in un vano sotterraneo, una cripta, abbastanza

spaziosa però per consentire la celebrazione della messa la notte di Natale. In questo luogo, fra l’altro, papa Gregorio VII fu preso e imprigionato il 25 dicembre del 1075, proprio mentre celebrava il rito. Sisto V (1585-90) si limitò – a quanto pare – a far collocare sotto l’altare del Sacramento il complesso originario a opera dell’architetto Domenico Fontana, il quale, comunque, trasferí la cappella, lasciandola com’era. Le presunte reliquie della mangiatoia sono oggi conservate in un cofanetto d’argento, nella cripta sottostante l’altare maggiore della basilica. Danilo Mazzoleni

Roma, S. Maria Maggiore. Il gruppo della Natività realizzato da Arnolfo di Cambio. 1291. La statua di Maria con il Bambino è una replica cinquecentesca dell’originale, andato perduto.

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La grande

missione

Fra i piú ferventi seguaci di Cristo, Pietro e Paolo svolsero un ruolo determinante nella diffusione della sua dottrina. La loro impresa segnò un’epoca e si concluse, come noto, con la fine tragica, e al contempo gloriosa, dei due protagonisti di Fabrizio Bisconti

L

a grande avventura dell’evangelizzazione del mondo antico iniziò tra il 45 e il 48 d.C. quando Paolo, con il fedele Barnaba, mosse alla volta di Antiochia di Siria. Da qui raggiunse Seleucia e poi l’isola di Cipro. «Giunti a Salamina – ricordano gli Atti degli Apostoli (capp. 13-14) – annunziarono la parola di Dio nelle Sinagoghe (…) attraversata tutta l’isola, fino a Pafo, vi trovarono un tale, mago e falso profeta giudeo, di nome Bar-Iesus, al seguito del proconsole Sergio Paolo, che aveva fatto chiamare a sé Barnaba e Saulo e desiderava ascoltare la parola di Dio». Quel primo viaggio continuò, sino a raggiungere l’Asia Minore, toccando le importanti città di Perge, di Antiochia di Pisidia, di Listra, di Derbe e dintorni. In tutte queste tappe, la dinamica dell’evangelizzazione prevede sempre un primo impatto con le comunità giudaiche per poi rivolgersi ai pagani; ma, quasi in tutti i casi, proprio i Giudei accolsero piú tiepidamente gli evangelizzatori, tanto che Paolo e Barnaba furono spesso costretti a fuggire, braccati dalle autorità e dalle popolazioni istigate dagli ambienti ebraici. Nonostante queste fughe improvvise, le città toccate da Paolo conobbero presto la genesi e

l’evoluzione di comunità vive e guidate da anziani prescelti dall’apostolo delle genti, come era già successo ad Antiochia e a Gerusalemme. I Giudei divenuti cristiani, in seguito all’attività evangelizzatrice di Paolo, crearono il primo grave problema interno della Chiesa nascente. Alcuni Giudei gunti da Gerusalemme, infatti, pretendevano che i pagani divenuti cristiani fossero circoncisi; ma, in una solenne assemblea, che si tenne proprio a Gerusalemme e durante la quale presero la parola anche Pietro e Giacomo, si decise, secondo il giudizio paolino, di lasciar liberi i cristiani di osservare le leggi del giudaismo.

I viaggi di Paolo Mentre le comunità nascenti soffrivano per questi precoci problemi di coesione interna, nei primi mesi del 50 d.C. Paolo intraprese il secondo viaggio: questo durò circa tre anni e toccò, in un primo tempo, le città già evangelizzate durante il primo viaggio, per portarlo infine in Europa. Paolo, accompagnato da Sila, Timoteo e Silvano, fondò alcune chiese in Macedonia e in Acaia e, segnatamente, a Filippi, Tessalonica, Berea, Atene e Corinto. Di questo secondo viaggio rimane indelebile il ricordo del discorso che Paolo fece dinnanzi

La predicazione di san Paolo a Efeso, olio su tela di Eustache Le Sueur. 1649. Parigi, Museo del Louvre.

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PIETRO E PAOLO

all’Areopago di Atene, incalzato da alcuni cittadini che avevano chiesto: «Che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?», e ancora: «Sembra essere un amministratore di divinità straniere!». Paolo provò a spiegare i dogmi fondamentali della nuova dottrina, ma quando sentirono parlare di resurrezione di morti alcuni lo deridevano e altri dissero: «Ti sentiremo su questo punto un’altra volta» (Atti degli Apostoli 17). Nella primavera del 53 d.C. iniziò il terzo viaggio di Paolo che attraversò la Galazia e la Frigia, alla volta di Efeso, dove soggiornò tre anni, per recarsi quindi a Corinto, a Filippi e poi raggiungere di nuovo Gerusalemme. Qui l’atmosfera si rivelò subito difficile, come gli comunicarono Giacomo e gli anziani della comunità, tanto che Paolo, per le accuse dei Giudei, fu arrestato dai soldati romani e trasferito a Cesarea, dove fu processato dal procuratore Felice che, pur ritenendolo innocente, lo fece recludere per due anni. Nel 59 d.C. i Giudei reclamarono presso il nuovo procuratore Festo affinché Paolo fosse estradato a Gerusalemme, ma l’apostolo si appellò alla sua cittadinanza romana e fu inviato

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a Roma. Nel settembre dello stesso anno iniziò un viaggio pieno di insidie, che culminò con il terribile naufragio sull’isola di Malta. Qui Paolo soggiornò per alcuni mesi, compiendo molti miracoli, ma poi si imbarcò per Siracusa e di lí mosse verso Pozzuoli.

L’incontro con i «fratelli» Il viaggio continuava per via di terra. Il porto campano rappresentava uno scalo fisso per tutti i naviganti che, provenendo dall’Africa o dall’Oriente, si dirigevano a Roma, e lí Paolo trovò un gruppo di «fratelli», dunque dei cristiani (Atti degli Apostoli 28, 14). Il cristianesimo si era propagato precocemente in Campania, forse per la vicinanza con Roma, forse per i contatti che i porti campani avevano con tutte le genti del Mediterraneo. A Pompei, d’altra parte, come dimostrano le pitture di una domus con la rappresentazione del giudizio di Salomone, era già attestata una comunità giudaica, mentre è piú difficile dimostrare archeologicamente la presenza in zona di cristiani nel I secolo d.C., in quanto il celebre segno cruciforme rinvenuto nella Casa del

A destra i resti di un piccolo impianto termale riferibile alla mansio (stazione di posta) romana di Tres Tabernae, al XXXIII miglio della via Appia, nei pressi dell’odierna Cisterna di Latina. I sec. d.C. Insieme al vicino centro di Forum Appii, probabilmente nella primavera del 61, il sito fu teatro dell’incontro tra alcuni cristiani di Roma e l’apostolo Paolo, condotto prigioniero nella capitale dell’impero per essere processato con l’accusa di aver provocato gravi disordini a Gerusalemme (Atti, 21-26).


A sinistra affresco da Pompei nel quale è rappresentato il giudizio di Salomone. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La raffigurazione indica la presenza nella città di una comunità giudaica.

Miracolo a Malta Questo è il resoconto del naufragio di Paolo tramandato negli Atti degli Apostoli (28, 1): «Una volta in salvo venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti intorno a un grande fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe prendergli la mano, gli indigeni dicevano tra loro: “Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere”. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patí alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma dopo aver atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio».

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PIETRO E PAOLO

Mar Nero Macedonia

Po n t o

Bitinia

Roma Tres Tabernae (Tre Taverne) Terracina

Forum Appii (Foro di Appio)

Pozzuoli

Galazia

Tessalonica

Acaia

Asia Efeso Reggio

Corinto

Atene

Sicilia

Fenice (Loutro) Creta

Te

O

Tarso

Antiochia

Salmone

Pafo Sidone Cesarea Antipatride Gerusalemme

E

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0

mp esta

Buoni Porti (Kaloi Limenes) Lasea Clauda (isola di Gavdos)

Mar Mediterraneo

NE

Cilicia

Cipro

Malta

N

Antiochia di Pisidia

Miloro L i c i a Cnido Mira

Siracusa

NO

Commagene

Adramitto

Sardegna

SE

S

320Km

Bicentenario a Ercolano altro non sembra che l’incavo di un mobile ligneo. Piú evidenti, ma piú tarde di oltre un secolo, paiono le testimonianze archeologiche sicuramente cristiane riferibili alla città di Napoli, in quanto, intorno alla fine del II secolo, furono scavate e decorate con temi cristiani le catacombe di S. Gennaro a Capodimonte. Allo stesso frangente cronologico possiamo, infine, riferire gli scritti di un autore di ambiente campano, noto come il Pastore di Erma. Paolo attraversò la Campania alla volta di Roma. Sono ancora gli Atti degli Apostoli (28, 14-15) a riferirci la dinamica di queste ultime tappe del viaggio della cattività: «E cosí arrivammo a Roma. E di là i fratelli, che avevano sentito le

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Cartina che riproduce l’itinerario che, stando alla narrazione contenuta negli Atti degli Apostoli, san Paolo seguí nel viaggio in cui fu scortato come prigioniero da Gerusalemme a Roma.

nostre peripezie, ci vennero incontro fino al Foro Appio e alle Tre Taverne. Quando li vide, Paolo ringraziò Dio e prese coraggio». I cristiani di Roma conoscevano molto bene Paolo, non solo per la fama del suo pensiero e della sua attività missionaria, ma perché, già nel 57 d.C., erano stati i destinatari di una lunga lettera dell’apostolo che manifestava il desiderio di incontrarli (Rm 1, 11). Per questo motivo un cospicuo gruppo di fedeli gli si fa incontro lungo la regina viarum, la via Appia, e alcuni raggiunsero addirittura la statio di Tres Tabernae, che distava oltre cinquanta chilometri da Roma; addirittura alcuni si inoltrarono sino a Forum Appii, a sessantacinque chilometri dalla città.


Roma al tempo di Pietro e Paolo di Fabrizio Bisconti

C

hi erano quei cristiani che, con tanto entusiasmo, erano andati incontro all’apostolo delle genti? Come e quando si era diffuso il cristianesimo a Roma? Certa storiografia riferisce la prima evangelizzazione dell’Urbe a san Pietro, interpretando un passaggio veloce degli Atti degli Apostoli (12, 17), nel quale si racconta la rocambolesca fuga dal carcere del principe degli apostoli, che, comunque, non si sentiva piú sicuro a Gerusalemme, sicché tra il 41 e il 44 «Pietro se ne andò in altro luogo». All’arrivo di Paolo la capitale dell’impero ospitava un nutrito numero di Giudei; almeno 42 000 persone – secondo alcuni storici – erano organizzate in comunità definite sinagoghe, disseminate un po’ in tutta la città, da Trastevere alla Suburra. I Giudei svolgevano specialmente attività commerciali e rappresentavano, dunque, una componente fondamentale nella dinamica sociale ed economica, sin dai tempi di Augusto. All’epoca di Caligola (37-41 d.C.) l’ebreo Filone

In alto epigrafe ebraica, da Roma. IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano. In basso lapide sepolcrale di Calevius. IV sec. d.C. Urbino, Museo Archeologico.

di Alessandria cosí descrive la comunità giudaica di Roma: «Abitano un grande quartiere della città, nel Trastevere; perlopiú, sono vecchi prigionieri di guerra, liberati dai loro padroni. Con il benestare di Augusto, hanno costruito le sinagoghe, dove tengono le loro riunioni, specialmente il sabato, apprendono la legge dei loro padri, raccolgono del denaro, che inviano a Gerusalemme» (Legatio ad Gaium 23). Svetonio, il biografo degli imperatori romani, ricorda un grave episodio capitato alla comunità giudaica al tempo di Claudio, il quale «cacciò da Roma gli Ebrei continuamente in tumulto per le istigazioni di Cristo» (Claud. 25). Nonostante alcuni storici abbiano tentato di individuare nel Cristo – menzionato nel testo come Chrestus – un sobillatore qualsiasi, è evidente che l’importante provvedimento imperiale fu preso per i dissidi che la nuova religione cristiana provocava nelle comunità giudaiche. Gli Atti degli Apostoli ci parlano continuamente dei problemi di convivenza tra gli aderenti alle due religioni, sino a giungere all’uccisione di Stefano a Gerusalemme, alla lapidazione di Paolo a Listra, alle fughe di questi da Filippi e da Corinto. Alla notizia ricordata da Svetonio non si è attribuita sempre molta affidabilità, in quanto non è menzionata da altri importanti storici, come Tacito, Giuseppe Flavio e Dione Cassio, ma sull’episodio abbiamo un’ulteriore testimonianza, proveniente ancora dagli Atti degli Apostoli, relativa al soggiorno di Paolo a Corinto: «A Corinto Paolo trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e, poiché erano del medesimo mestiere, si stabilí nella loro casa e lavorava. Erano infatti di mestiere fabbricanti di tende.

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religione e poi molti altri, per delazione. Alcuni di questi furono giustiziati nel circo Vaticano: furono avvolti con pelli di fiera, perché fossero divorati dai cani, o furono usati come «torce umane» per illuminare i giardini adiacenti. L’imperatore stesso partecipò in prima persona a questi giochi, travestito da auriga (Tacito, Annali 15, 44).

L’uno crocifisso e l’altro decapitato Ogni sabato poi discuteva nella sinagoga e cercava di persuadere Giudei e Greci» (18, 1-4). Questi fatti possono essere collocati tra il 49 e il 50 d.C., ma piú tardi i due Romani salveranno la vita a Paolo, durante alcuni disordini a Efeso e, infine, li ritroveremo a Roma, quando soggiornerà Pietro nella città. Una decina di anni dopo l’editto di Claudio, a Roma si era ricostituita una cospicua comunità, tanto che l’apostolo delle genti, soltanto tre giorni dopo il suo arrivo, ebbe un incontro con i rappresentanti giudei della città. L’atmosfera si era placata e gli Ebrei sembravano desiderosi di conoscere le peculiarità della nuova religione e, anzi, alcuni di essi, insieme a qualche pagano, aderirono subito al cristianesimo che, d’altra parte, era già una consistente realtà di fatto. Di lí a qualche anno, la comunità cristiana di Roma – secondo quanto ci ricorda Tacito – sarà un’«ingente moltitudine», tanto che neppure la violenta persecuzione neroniana riuscí a decimarla. A quest’ultimo proposito, dobbiamo ricordare la notte fra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C., quando a Roma scoppiò il piú tremendo degli incendi della sua storia. Il terribile evento è intimamente legato alla fine tragica e gloriosa di Pietro e Paolo. Mentre gli storici attribuirono, quasi all’unanimità, la responsabilità del disastro all’imperatore, le colpe furono addossate ai cristiani. La persecuzione fu istantanea e tremenda e interessò prima coloro che confessavano di aver aderito alla nuova

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In alto ex voto in oro con croce e occhi, trovato nella confessione di S. Pietro. VI-VII sec. Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro.

Tra i supplizi contemplati dalla persecuzione neroniana emerge, per la similitudine con la morte del Cristo, quello della crocifissione, che, secondo le fonti e la tradizione, venne riservata anche a Pietro. Agli esordi del III secolo, Tertulliano ricorda: «Pietro fu crocifisso, Paolo decapitato» (Scorpiace 15, 3). Alla fine del II secolo furono redatti gli Atti di Pietro, uno scritto apocrifo (non incluso, cioè, tra i testi canonici), in cui si


puntualizza la modalità di questa crocifissione. Pietro prega, cosí, i suoi aguzzini: «Io vi scongiuro, o carnefici, crocifiggetemi cosí: con la testa in giú». È difficile risalire alla data precisa del martirio di Pietro. Mentre Clemente di Roma e Ireneo sembrano fissarla all’anno stesso dell’incendio neroniano, sull’onda delle prime esecuzioni, lo storico della Chiesa Eusebio di Cesarea e san Girolamo collocano il martirio dei principi degli apostoli nel 67 d.C. Per quanto riguarda la fine tragica di Paolo, essa comportò il supplizio della decapitazione che, secondo le norme riservate ai cittadini romani, fu eseguita fuori della città. La tradizione vuole che la decollatio sia avvenuta al III miglio della via Ostiense, in un sito definito «ad aquas Salvias», dove si può ancora ammirare un complesso di santuari.

In basso fronte di sarcofago con vittorie, geni stagionali e la menorah (il candelabro ebraico a sette braccia), da una catacomba ebraica. Fine del IIIinizi del IV sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

Un disastro epocale Cosí Tacito racconta lo spaventoso incendio scoppiato a Roma nel luglio del 64 d.C.: «L’inizio dell’incendio avvenne in quella parte del circo Massimo che è prossima al Palatino e al Celio: qui il fuoco avvolse le taverne colme di merce infiammabile e subito si estese, alimentato dal vento, invadendo il Circo in lungo e in largo. Né lo bloccarono le case fortificate, i templi circondati da recinti, né altre strutture. Il fuoco si propagò prima nella zona pianeggiante e poi sui colli, avendo facile presa per la conformazione dell’antica Roma, tutta vicoli stretti e tortuosi». «Tutto era reso piú difficile dalle grida delle donne spaventate, dall’immobilità degli anziani, dall’impaccio dei bambini e, mentre alcuni pensavano soltanto a salvare loro stessi, altri tentarono di aiutare gli inabili. Non appena pensavano di essere ricorsi ai ripari ecco che il fuoco li avvolgeva di nuovo. Alla fine tutti scesero in strada e si sdraiarono nei campi; alcuni si lasciarono morire per aver dovuto abbandonare i loro cari e le loro proprietà; altri si resero conto quanto fosse inutile tentare di bloccare il fuoco perché gli “sciacalli” alimentavano le fiamme» (Annali 15, 38-40). Nerone, che si trovava ad Anzio, tornò a Roma quando il fuoco cominciava a lambire la sua dimora. Ma quando arrivò, tutto era ormai distrutto. L’imperatore aprí il Campo Marzio e i suoi giardini, per ricoverare i senza tetto, fece portare vini da Ostia, ribassò il prezzo del frumento. Tali provvedimenti, tuttavia, non servirono a frenare le voci, che subito avevano cominciato a circolare, secondo le quali proprio lui, mentre la città bruciava, si era recato nel suo teatro per cantare la fine di Troia, paragonandola alla fine di Roma. Delle quattordici regioni in cui l’Urbe si divideva, soltanto quattro erano rimaste integre, tre erano state rase al suolo, nelle altre sette non rimanevano altro che pochi edifici bruciati. Fu uno dei maggiori disastri nella storia della città.

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Il volto antico delle basiliche Purtroppo le basiliche dedicate ai santi patroni di Roma non sono conservate nelle forme originarie paleocristiane e sono conosciute essenzialmente da disegni e piante. La basilica di S. Pietro, infatti, fu ricostruita completamente nel corso del Rinascimento. S. Paolo, che non aveva subito modifiche altrettanto radicali, venne invece distrutta da un terribile incendio nel 1820 e fu ricostruita nelle forme attuali relativamente fedeli, ma assai fredde, tra il 1825 e il 1854. Per avere un’idea attendibile degli assetti originari, occorre dunque affidarsi alle ricostruzioni grafiche e ai plastici realizzati sulla base di attente ricognizioni condotte nel corso degli ultimi due decenni. Tali indagini hanno

Ricostruzione grafica del trofeo edificato sulla via Ostiense, in corrispondenza del sepolcro di san Paolo.

Schizzo ricostruttivo della basilica di S. Pietro, cosĂ­ come doveva presentarsi nel VI sec.

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Assonometria ricostruttiva della necropoli che si estende al di sotto dell’abside della basilica di S. Pietro.

permesso di scoprire numerosi essenziali dettagli relativi all’architettura della basilica di S. Paolo, mentre l’esame puntiglioso delle quote del colle vaticano nelle diverse epoche fa comprendere meglio l’evoluzione di quella di S. Pietro e degli edifici che vi si sono addossati nel corso dei primi due secoli di vita.

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PIETRO E PAOLO

Un luogo simbolo di Fabrizio Bisconti

A

l III miglio della via Appia si conserva uno dei complessi archeologici cristiani piú ricchi e articolati della tarda antichità. In questo particolare sito si utilizzarono, forse già dai primi anni del II secolo d.C., alcuni cunicoli di una miniera esaurita e, dunque, abbandonata. Qui furono sistemate tombe sparse e colombari, che si inserirono in un paesaggio urbano densamente costellato di abitazioni rustiche, tanto che, anche nel nostro complesso, sono state rinvenute due ville delle quali una di grandi dimensioni e dall’arredo tanto ricco da tradire una committenza estremamente elevata. L’altra villa propone dimensioni meno importanti e alcuni ambienti – decorati secondo lo stile lineare rosso-verde,

lo stesso che interessa le catacombe a cominciare dalla fine del II secolo d.C. – sembrano essere stati utili alle riunioni conviviali in onore dei defunti. Non possiamo accettare le ipotesi del passato, secondo cui queste ville fossero le dimore dei custodi delle catacombe: esse vanno piuttosto interpretate come semplici domus rustiche situate, per caso, in corrispondenza del complesso monumentale di S. Sebastiano. Tra la fine del II e gli esordi del III secolo, nelle pareti dell’arenario vengono sistemate alcune sepolture che propongono i primi segni del cristianesimo. Specialmente gli epitaffi, affissi ai loculi, presentano i simboli dell’ancora e del pesce che, pur denunciando una valenza apotropaica pagana, mostrano un arricchimento semantico in senso cristiano, rappresentando rispettivamente la sicurezza nella nuova fede e il Cristo stesso.

Tavola in avorio con scena di abbraccio tra Pietro e Paolo, dagli scavi della cattedrale di Castellammare di Stabia. VI sec. d.C. Stabia, Antiquarium.

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Nella pagina accanto, in alto, a sinistra disegno ricostruttivo della basilica Apostolorum. Nella pagina accanto, in alto, a destra plastico della basilica Apostolorum. Roma, Cimitero di San Sebastiano.


Roma, Cimitero di San Sebastiano. Veduta della cosiddetta triclia (un ambiente per metĂ cortile e per metĂ portico, usato per i rituali banchetti funebri del 29 giugno in onore di Pietro e Paolo) e delle strutture sottostanti. III sec. d.C.

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PIETRO E PAOLO

Intorno alla metà del III secolo il sepolcreto sorto ad catacumbas (cosí era definito il luogo dove era sorta la necropoli mista che latinizzava l’espressione greca «presso l’avvallamento») subí un importante interramento di almeno 6 m, su cui venne costruito un singolare apparato strutturale, caratterizzato da un portico fornito di un bancone in muratura, di una fontanella e

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di un cortile piú basso, con una scala che conduceva a un pozzo. Gli studiosi del secolo scorso definirono questo particolare organismo triclia, per richiamare l’idea di un ambiente semiaperto, per metà cortile e per metà portico. La struttura doveva servire per i refrigeria, i rituali pic nic funerari che si svolgevano in questa sede in onore dei

In alto iscrizione sepolcrale di Asellus, dal cimitero di S. Ippolito sulla via Tiburtina. IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano.


In basso Roma, Cimitero di San Sebastiano. Particolare della parete della triclia con i graffiti che menzionano Pietro e Paolo.

Ss. Pietro e Paolo nel giorno anniversario del 29 giugno, talché il complesso assunse anche la suggestiva definizione di memoria apostolorum, proprio in relazione a questo culto di tipologia certamente funeraria, che si istituzionalizzò presumibilmente nel 258, stando alla data dei consoli Tusco e Basso.

Un culto congiunto Tale data appare nella depositio martirum, il prezioso elenco dei martiri che confluisce nel Cronografo del 354, ma anche nel Catalogo Liberiano e nel Martirologio Geronimiano, documenti di grande autorevolezza, affidabilità e antichità. Stando ai rinvenimenti archeologici e alle testimonianze letterarie, quindi, il 29 giugno, sin dalla metà del III secolo ma forse anche precedentemente, si celebrava il culto congiunto – nello stesso giorno – ai principi degli apostoli, in una sede unica e diversa dai siti ove erano stati sepolti i loro corpi, ossia la necropoli ostiense per san Paolo e l’ager vaticanus per san Pietro. È difficile stabilire i motivi profondi della genesi di questo culto cosí particolare, ma non è escluso che qui si venerassero proprio i corpi dei due apostoli, o parti di essi, sistemati nel complesso temporaneamente, in seguito al grave episodio persecutorio dovuto all’imperatore Valeriano. Ciò portò alla eliminazione fisica della piú alta gerarchia della

Chiesa, a cominciare dal pontefice Sisto II e dai suoi diaconi, trucidati nel complesso di S. Callisto il 6 agosto del 258. Non dobbiamo dimenticare che di lí a qualche giorno fu ucciso anche il suddiacono Lorenzo e, nel mese di settembre, il vescovo di Cartagine Cipriano. Al di là dei diversi significati che possono essere attribuiti al culto, è innegabile il respiro tutto popolare che esso assume, quando leggiamo lungo le pareti della triclia le centinaia di invocazioni graffite dai pellegrini, giunti alla memoria apostolorum da ogni dove. L’esame attento di quelle «scritte devozionali» tradisce un pellegrinaggio già internazionale, nel senso che molti nomi mostrano origini africane e orientali. Inoltre, si può osservare come la grafia dei diversi graffiti sia spesso ripetuta in punti diversi del suggestivo palinsesto devozionale: questa caratteristica lascia ipotizzare che, già in quel tempo, esistettero dei preposti al santuario, forse dei presbiteri o dei semplici «ciceroni» che si prestavano a scrivere i nomi dei fedeli analfabeti. Il culto proseguí sino a quando la triclia venne obliterata, con un ulteriore interramento, al tempo di Costantino, allorché venne costruita una basilica «circiforme» (a forma di circo), ovvero uno di quei particolari edifici di culto che rappresentano simultaneamente un contenitore funerario e la sede di una venerazione martiriale.

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Uscire dall’anonimato di Fabrizio Bisconti e Barbara Mazzei

L’

arte cristiana, quando si caratterizzò nell’ambito del piú ampio fenomeno figurativo tardo-antico, non propose immediatamente un immaginario iconografico puntuale per quanto attiene all’identificazione dei singoli personaggi. Pur traducendo in figura gli episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, i pittori, gli scultori e i mosaicisti diedero vita a personaggi dai volti anonimi, che niente avevano a che fare con le regole fondamentali della ritrattistica. Questo atteggiamento approssimativo e censorio nei confronti della riproduzione dal vero dei principali protagonisti della storia della salvezza si inquadra perfettamente nella tendenza che proviene dal divieto giudaico di rappresentare immagini sacre con funzione propriamente devozionale. Eppure Eusebio di Cesarea, il biografo di Costantino, ricorda che in antico, in certi luoghi dell’Oriente cristiano, circolavano delle icone del Cristo, di Pietro e di Paolo, ma questa notizia – peraltro proiettata in un tempo oramai libero dai divieti veterotestamentari – riflette un’eccezione, piuttosto che una norma. Mentre la costituzione dei ritratti dei principi degli apostoli sembra difficile ed estremamente lenta, appaiono i primi episodi figurati ispirati alle storie del Nuovo

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In basso sarcofago di Astorga. IV sec. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Il rilievo mostra, da sinistra: la resurrezione di Lazzaro, l’arresto di san Pietro, il miracolo della roccia (san Pietro, nel Tullianum, il carcere di Stato presso il Foro Romano, fa sgorgare dell’acqua con cui battezza due soldati), il peccato originale con Adamo ed Eva e la moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Testamento, dove Pietro e Paolo risulteranno come coprotagonisti. Tutto inizia con un affresco che decorava, insieme ad altre scene, l’ambiente-battistero, scoperto in una domus ecclesiae (chiesa domestica) a Dura Europos, una colonia romana fondata ai confini dell’impero, lungo l’Eufrate, nell’attuale Siria. La decorazione pittorica sembra risalire alla prima metà del secolo III. La rappresentazione riproduce, secondo una


L’arresto dell’apostolo. Il miracolo della fonte compiuto da san Pietro mentre era rinchiuso nel Tullianum.

In alto sarcofago di Giona. 300 d.C. circa. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano. L’opera raffigura appunto la storia di Giona: in basso, sulla sinistra, i marinai gettano il profeta dalla nave, in pasto al «grosso pesce», divenuto qui un mostro marino. Quest’ultimo poi, rigetta il profeta su una roccia abitata da animali, sulla quale infine, piú in alto, egli riposa disteso sotto la «gran pianta di ricino» che Dio fa crescere per ristorarlo.

narrazione abbreviata e un linguaggio elementare, l’episodio in cui Pietro viene salvato dai flutti e comporta unicamente la presenza di Gesú sulle acque davanti all’apostolo che lo implora, mentre sullo sfondo si riconosce la barca degli apostoli.

Un significato fortemente salvifico La scena si sviluppa accanto alla rappresentazione del miracolo del paralitico, mentre nelle altre pareti sono ben individuabili la figura del Buon Pastore, la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, la lotta tra Davide e Golia, la Samaritana al pozzo, le pie donne al sepolcro. Tutte queste scene si inseriscono in modo coerente in un contesto battesimale e attingono in maniera evidente a un significato fortemente salvifico. La critica iconografica del passato ha ritenuto che la presenza dell’episodio nel programma decorativo del battistero di Dura Europos non deve essere intesa come la nascita di un’iconografia petrina, non solo e non tanto per il fatto che Pietro non assume ancora la tipica

fisionomia che lo caratterizzerà nelle successive raffigurazioni, ma anche per la convinzione che tutta l’arte cristiana piú antica è portatrice di un significato esclusivamente cristologico, per cui i personaggi che affiancano l’immagine di Gesú avrebbero un ruolo soltanto secondario o di coprotagonisti. Dopo questo antefatto orientale, l’iconografia petrina approda a Roma soltanto nei primi anni del IV secolo, in significativa corrispondenza con la cruenta persecuzione dioclezianea. A quest’epoca va infatti riferito il cosiddetto sarcofago di Giona, rinvenuto proprio nell’area della necropoli vaticana e ora conservato al Museo Pio Cristiano. Ridotto alla sola fronte il celebre rilievo è organizzato in due registri interrotti dalla storia di Giona, che dilaga diagonalmente nei due campi. Nel registro superiore, tra le altre scene, riconosciamo il miracolo della fonte operato da Pietro e la sua cattura. Queste scene ci introducono nell’area degli scritti apocrifi che – come è noto – ampliarono, durante i primi secoli, le notizie tramandate

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PIETRO E PAOLO

Un’innovazione coraggiosa Se si analizza con maggiore attenzione la pittura di Dura Europos, soffermandosi sugli atteggiamenti o sui gesti che assumono i due protagonisti nella scena, la lettura proposta sino a questo momento può cambiare. Pietro e il Cristo appaiono isolati e il primo viene come attratto da Gesú, il quale lo avvicina con un atteggiamento solenne che sembra quasi un’investitura. Per questo l’affresco di Dura Europos non segna l’esordio della tematica petrina, ma può ben essere considerato come l’audace introduzione di Pietro in una tematica cristologica. Se la rappresentazione non costituisce ancora – come è chiaro – un argomento a favore del primato di Pietro che, anzi, proprio in quell’episodio viene redarguito dal maestro per la sua incredulità, possiamo comunque affermare che la scena inaugura, anche se sommessamente, la storia dell’iconografia dell’apostolo, tanto che questo episodio verrà introdotto nella liturgia della festa del 29 giugno.

dalle fonti canoniche. Per quanto riguarda il miracolo della fonte scolpita nel sarcofago di Giona, la scena si ispira agli Atti di Pietro, laddove si narra la conversione e il battesimo dei carcerieri dell’apostolo. Questa scena apparirà, in seguito, in molti altri sarcofagi, in pittura e nelle arti minori, recuperando il prodigio veterotestamentario operato da Mosè per gli Israeliti nel deserto (Es 17, 6).

Il miracolo nel carcere Per distinguere le due situazioni prodigiose si usa un espediente tecnico-figurativo: nelle scene riferite al miracolo operato dal principe degli apostoli nel Tullianum (il carcere di Stato presso il Foro Romano) gli uomini che si

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In alto Dura Europos. Particolare della pittura che decorava il battistero in cui si riconosce Pietro che cammina sulle acque. Prima metà del III sec. d.C. New Haven, Yale University. In basso rilievo di un sarcofago con Cristo tra Pietro e Paolo. 500 d.C. circa. Ravenna, S. Apollinare in Classe.

abbeverano vestono un abbigliamento militare, con berretti del tipo pannonico. Al miracolo della fonte e alla scena della cattura si associò l’episodio canonico della negazione, che rappresenta l’apostolo triste, con la mano portata al mento, mentre ascolta la profezia della triplice negazione annunciata dal Cristo che, per questo, leva le tre dita della mano destra, mentre un gallo appare sullo sfondo. La scena assume un significato particolare proprio agli esordi del IV secolo, quando, in seguito all’ultima grande persecuzione, si ripropose il grave problema dei lapsi, cioè di coloro che, non avendo avuto il coraggio di affrontare il martirio, desideravano rientrare in seno alla Chiesa. Alla trilogia petrina, nel corso del IV secolo, viene aggiunta una quarta scena, che raffigura Pietro seduto e ancora attorniato dai due carcerieri Processo e Martiniano, che ascoltano attentamente la lezione dell’apostolo. Dal ciclo petrino viene spesso stralciata la scena dell’arresto, per essere introdotta nei cosiddetti «sarcofagi di passione», a cominciare da un esemplare del Museo Archeologico di Madrid, dove Pietro e Paolo sono condotti al cospetto di Nerone. A parte questo unicum, la scena canonica dell’arresto di Pietro, insieme alla decollatio Pauli e alle scene di arresto e del giudizio di


Cristo, si affollano attorno al segno simbolico della croce trionfante. Da questi contesti emergono presto le fisionomie dei principi degli apostoli che servono a significare le due entità della Chiesa, nel senso che Pietro rappresenta l’ecclesia ex circumcisione (la Chiesa giudeo-cristiana) e Paolo quella ex gentibus (la Chiesa di matrice pagana): con questi significati essi vengono raffigurati nei mosaici che si possono tuttora ammirare nelle basiliche romane di S. Pudenziana e di S. Sabina. Il collegio apostolico subisce riduzioni che danno luogo a una significativa e simbolica «immagine abbreviata», per isolare, con un audace processo riassuntivo, il perno centrale della rappresentazione.

Ai fianchi del Cristo Il gruppo Cristo-Pietro-Paolo viene utilizzato per esprimere la potenza esercitata da Gesú attraverso l’esercizio della catechesi, tanto che questi assume le sembianze e gli atteggiamenti del maestro; in questo è coadiuvato dai due principi degli apostoli, nel senso che Pietro e Paolo si situano simmetricamente ai fianchi del Cristo, riproponendo l’assetto della corte imperiale. Con la pace della Chiesa, infatti, nell’iconografia paleocristiana si fa strada una tendenza che affianca le situazioni celesti a quelle che si svolgevano alla corte dell’imperatore, quasi per esprimere una polemica anti-imperiale che non si esaurí con l’editto di tolleranza, ma che proseguí sino ai secoli del Medioevo. In questo contesto Pietro assume quasi sempre il ruolo di primo dignitario, soprattutto nelle scene della traditio legis (trasmissione della legge), dove il Cristo, in piedi su un monte paradisiaco o seduto sul trono o sul globo celeste, offre un rotolo svolto a Pietro che lo riceve con le mani velate. Pur ispirandosi genericamente

Vetro dorato con i ritratti di san Pietro e san Paolo. Seconda metà del IV sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Cristiano.

alla consegna della legge a Mosè, la scena della traditio legis non corrisponde ad alcun passo delle Sacre Scritture, anche se vuole esprimere il concetto del primato petrino, ma vuole specialmente rappresentare il concetto della continuità del potere e, in questo senso, il Cristo assume il ruolo del promulgatore della legge e, allo stesso tempo, quello dell’imperatore, del re e del giudice. Rispetto alla fortuna riservata a Pietro, la figura di Paolo in un primo tempo venne disattesa e soltanto alla fine del IV secolo diventò un elemento determinante della politica imperiale che desiderava rinnovare le coordinate amministrative dell’impero (renovatio Urbis). Questo concetto è reso con i principi degli apostoli situati in un suggestivo «faccia a faccia», nei medaglioni, nei vetri dorati e in un singolare rilievo aquileiese. Sempre nello scorcio del IV secolo, la figura di Paolo, rappresentato come un filosofo, serví anche come elemento trainante per attrarre nelle compagini del cristianesimo quel gruppo senatoriale e intellettuale che si era arroccato intorno ai revival della religione pagana. Il gesto piú ricorrente nella figura di Paolo è quello dell’acclamazione, con la mano destra levata verso un perno centrale, che replica spesso il gesto di Pietro, come nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna. Tra gli attributi che definiscono o aiutano a riconoscere la figura di Paolo, al di là dell’inconfondibile fisionomia, quello piú caratteristico è sicuramente il codice, ma talora appaiono anche la corona del trionfo e la spada che, dall’epoca bizantina, diventa il vero segno distintivo dell’apostolo delle genti, corrispondente alle chiavi per san Pietro. Con questi attributi i principi degli apostoli appariranno come suggestive icone per tutti i secoli del Medioevo, sino all’età moderna.

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Morire di fede

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Motivazioni politiche, sociali e giuridiche indussero le autoritĂ di Roma ad arginare la diffusione della nuova religione. Il mezzo per mettere in atto questo programma fu violentissimo. Ma quale fu la vera storia delle persecuzioni? di Danilo Mazzoleni e Fabrizio Bisconti

Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico raffigurante una teoria di santi martiri. 561-569.

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Q

uali furono i motivi determinanti delle persecuzioni? A questo interrogativo, che può sembrare banale a un primo impatto, gli studiosi non rispondono ancora in maniera univoca. Le cause puramente religiose sembrano intrecciarsi e combinarsi con quelle di ordine politico; ma sentiamo dalla viva voce dei contemporanei quali erano le accuse piú ricorrenti nei confronti dei cristiani. Se Tacito e Svetonio definiscono in modo generico i cristiani rispettivamente «odiosi per le loro nefandezze» e «razza di uomini appartenenti a una setta superstiziosa nuova e malefica», piú esplicita e circostanziata è la testimonianza di Minucio Felice, un avvocato e scrittore che, tra il II e il III secolo, si convertí al cristianesimo e che, per questo motivo, dovette meglio conoscere le accuse assurde rivolte agli aderenti alla nuova dottrina dalla parte avversa. «I cristiani – egli scrive – non sono altro che un gruppo di ignoranti, di donne credulone; si riuniscono notte tempo, digiunano e poi consumano pasti mostruosi. Si chiamano fratelli e sorelle, per cui i normali amplessi si trasformano in incesti (...) venerano una testa di asino (...) adorano i genitali del loro sommo sacerdote (...) venerano un uomo punito con il supplizio della croce (...) Cosí avviene la loro iniziazione: un bambino viene infarinato, poi viene ucciso e mangiato». Le accuse di ateismo, infanticidio, cannibalismo, incesto ritornano ossessionanti in tutti gli autori antichi e tradiscono voluti fraintendimenti di pratiche rituali, come i banchetti eucaristici, e della effettiva consuetudine dei cristiani di chiamarsi fratelli; non manca poi il sospetto che talune sette eretiche commettessero veramente alcuni di questi sacrilegi. L’odio per i cristiani era gratuito e incondizionato, tanto che Tertulliano tristemente osserva: «Di ogni pubblico disastro, di ogni disgrazia collettiva fin dall’inizio dei tempi sono accusati i cristiani. Se il Tevere inonda la città, se il Nilo non irriga i campi, se il cielo è fermo, se la terra si muove,

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se accadono carestie ed epidemie, subito si grida: “I cristiani al leone!”». L’odio per i cristiani viene da lontano, dai processi sommari e dalle rapide esecuzioni nei confronti di Cristo, Stefano, Giacomo, che vedono lo Stato romano corresponsabile in quei primi episodi con le autorità giudaiche. Gli evangelisti dipingono Ponzio Pilato come l’involontario esecutore di una condanna montata dai sommi sacerdoti contro Cristo con grande abilità, in quanto combinava l’accusa politica (quella di essersi proclamato re) con quella di essersi definito figlio di Dio.

La lapidazione di Stefano Secondo gli Atti degli Apostoli, anche le morti violente di Stefano (Atti, 6-7) e Giacomo (Atti, 12, 1-3) dipesero dall’odio degli Ebrei, che non cessarono mai d’imbastire accuse di ogni tipo contro i cristiani: prima fra tutte quella di pronunziare espressioni blasfeme nei confronti di Dio. Per questo, contro Stefano si scagliarono i Giudei mentre, tre anni dopo la morte di Gesú, predicava e faceva miracoli; lo trascinarono fuori della città e Io lapidarono dinanzi a Saulo, il futuro principe degli apostoli, che in quel periodo guidava in prima persona la persecuzione, cercando i cristiani nelle loro case per farli imprigionare. Un altro episodio di grave intolleranza si verificò tra il 41 e il 44, quando il governo della Giudea venne affidato al re locale, Erode Agrippa I, il quale cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni; vedendo che questo era gradito ai suoi sudditi, decise di arrestare anche Pietro. Tutti questi episodi ci fanno capire che l’impero romano si mostrò sostanzialmente favorevole L’attore statunitense Victor Mature, nei panni dello schiavo greco Demetrio, ai piedi del Cristo crocifisso, nel film La tunica, diretto nel 1953 da Henry Koster. La pellicola è ambientata agli esordi dell’era cristiana e il suo protagonista, il tribuno Marcello, dopo aver vinto ai dadi la tunica di Gesú e aver irriso la nuova dottrina, vi si converte e finisce con l’essere messo a morte dall’imperatore Caligola.


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nei confronti dei cristiani e che le cause dei primi provvedimenti vanno piuttosto ricercate nei dissapori all’interno delle comunità giudeocristiane. Anzi, i Romani vedevano nel «messianismo» (= attesa del Re dei re) tutto spirituale dei cristiani uno strumento per attuare un programma di pacificazione in una provincia da sempre turbata da «messianismi» piú pericolosi, come quello ideato dagli Zeloti, sicuramente piú rivoluzionario e antiromano. Un unico episodio sembra disturbare questa generale tendenza: la presunta espulsione dei Giudei da Roma avvenuta nel 49, quando era imperatore Claudio, per motivi di ordine pubblico, in quanto causavano continui tumulti per istigazione di un certo Cresta (sic!). La notizia ci viene da Svetonio (Annali, 70) e può essere collegata a un passo della Storia di Dione Cassio (40, 6, 6), dove si fa riferimento a un primo provvedimento che Claudio, già nel 41, avrebbe voluto prendere per il numero in continua crescita dei Giudei in Roma: un fenomeno, questo, che avrebbe potuto dar luogo a una forza cospicua e compatta difficile da controllare.

Una conversione incerta In questo senso parlano anche gli Atti degli Apostoli (18, 2), quando riferiscono di Aquila e Priscilla, i due Giudei che proprio nel 49 fuggirono dall’Italia alla volta di Corinto, dove incontrarono Paolo. Se gli autori antichi, tra cui Giuseppe Flavio e Orosio, riconobbero nel Crestus ricordato da Svetonio Gesú Cristo, la critica moderna fa notare che tale nome nell’antichità era molto diffuso (chrestos significa «buono, giusto»), specialmente in ambiente giudaico, per cui non disponiamo di elementi sicuri per affermare che i Giudei furono espulsi per i conflitti con i cristiani. Qualche anno piú tardi, e precisamente nel 57, si svolse a Roma un misterioso processo intentato nei confronti della nobildonna Pomponia Graecina, appartenente all’aristocrazia senatoria. Ce ne dà notizia Tacito (Annali, XIII, 32, 3): tra l’altro egli ricorda che la donna fu accusata di «superstizione straniera»

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per cui, secondo un costume antichissimo, fu deferita al tribunale del marito Aulo Plauzio, il quale, dopo aver attentamente esaminato la sua condotta e le dicerie che circolavano sul suo conto, la proclamò innocente dinanzi a tutti i parenti. Dopo il processo domestico, con cui si cercò di tacitare uno scandalo nei confronti di un uomo famoso come Plauzio, che era ex console e aveva ricevuto grandi onori per aver riportato una vittoria in Britannia, Pomponia mantenne una condotta di vita all’insegna di una grande austerità, trascorrendo quarant’anni in continua tristezza e giustificando questo suo atteggiamento con il lutto per la sua amica Giulia, figlia di Druso, morta per colpa di Messalina nel 42, lo stesso anno in cui la tradizione pone l’arrivo di Pietro a Roma. È suggestivo pensare, a questo punto, che Pomponia avesse aderito alla religione cristiana, anche perché alcuni discendenti della sua famiglia furono sepolti durante il II secolo nel cimitero di Callisto; ma è anche


strade strettissime e irregolari si propagò rapidamente, mentre le donne gridavano impaurite e i vecchi con i bambini rimanevano impietriti. Era difficile domare l’incendio, perché alcuni lo impedivano. Nerone era ad Anzio e ritornò appena in tempo per veder bruciare la sua dimora; ma si preoccupò di assistere i superstiti con cibo e ripari di fortuna nei suoi giardini. Tutto questo non impedí la voce che, proprio mentre Roma era avvolta dalle fiamme, egli, nel suo teatro privato, cantasse l’incendio di Troia paragonando la presente calamità a quell’antico disastro. Dopo sei giorni, proprio quando tutto sembrava finito, il fuoco riprese vigore e distrusse quel poco che era rimasto intatto, cosí che, alla fine, restarono in piedi pochi edifici diroccati e bruciacchiati. Nerone, per soffocare le voci che correvano circa una sua responsabilità nell’incendio, fece ricadere la colpa sui cristiani che, a Roma, soffrivano di cattiva fama.

Morte nel circo Le torce di Nerone, olio su tela di Henryk H. Siemiradzki. 1876. Cracovia, Museo Nazionale d’Arte. L’artista ha immaginato l’episodio, tramandato da varie fonti, secondo il quale, all’indomani dell’incendio che aveva devastato Roma nel 64 d.C., l’imperatore ne addossò la responsabilità ai cristiani, molti dei quali furono crocifissi e arsi vivi.

possibile che Tacito con il termine «superstizione» voglia alludere alla religione ebraica, che però, a quanto sembra, era ben vista alla corte di Nerone, se la stessa Poppea vi aveva aderito. Non è escluso, infine, che la nobildonna sia stata seguace di una qualche setta religiosa o che abbia sofferto di un disturbo mentale, manifestatosi con una curiosa forma di religiosità. Al di là di tutti questi dubbi rimane il grande coraggio della donna, che non ebbe timore di sfidare la violenta Messalina, mimetizzando il suo segreto dietro al lutto per l’amica e fornendo un emblematico esempio dello stile di vita di certa nobiltà romana, che in quegli anni si preparava a ricevere i principi degli apostoli. Durante la notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 scoppiò a Roma l’incendio piú violento della sua storia. È ancora Tacito a riferircene (Annali, XV, 44). L’incendio iniziò nel cuore della città, tra il Circo Massimo, il Palatino e il Celio, e con l’aiuto del vento e per la conformazione delle

Dapprima vennero arrestati coloro che confessavano di essere cristiani; poi, per delazione di alcuni di loro, vennero catturate moltissime altre persone, accusate non solo dell’incendio, ma di odio verso l’umanità. Se Tacito è incerto nell’accusare Nerone di tutta questa messa in scena, altri autori antichi, come Plinio, Stazio e Dione Cassio, sono piú espliciti. Svetonio racconta questo particolare illuminante nella vita dell’imperatore (Vita di Nerone, 38): «Un giorno un tale aveva citato il motto: “Morto me vada pure in fiamme tutta la terra”; Nerone aggiunse: “Anzi, vivente me!”». Sicuro è il fatto che le conseguenze per la comunità cristiana di Roma furono spaventose. L’imperatore organizzò giochi grandiosi e atroci nel circo del Vaticano. Per quei condannati a morte – continua il racconto di Tacito – sopraggiunse il momento della derisione: vennero fatti sbranare dai cani, dopo essere stati travestiti da animali selvatici, oppure furono crocefissi e bruciati vivi, al tramonto, per illuminare sinistramente quel terribile spettacolo in notturna. Nerone prese parte

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personalmente ai giochi, mascherandosi da auriga e guidando un carro in corsa: alla fine quei condannati che, anche se colpevoli, venivano trucidati non per pubblica utilità ma per il sadismo di un singolo, provocavano sentimenti di pietà. Anche un pagano, dunque, provava compassione per quelle morti inutili e cruente. Ma sentiamo una testimonianza cristiana, quella di Clemente Romano che, scrivendo alla comunità di Corinto, ricorda il grande coraggio dei primi martiri (l Epistola ai Corinti, V-VI): «Fu per la gelosia che le massime colonne della Chiesa dovettero affrontare la persecuzione e la morte; primi fra tutti Pietro e Paolo, ma a questi si uní una fitta schiera di eletti. Fragili donne subirono i supplizi delle Danaidi e di Dirce». Con queste parole Clemente allude a una tremenda consuetudine,

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In basso, a sinistra affresco raffigurante il supplizio di Dirce, mitica moglie di Lico, re di Beozia. La donna custodiva come schiava Antiope, i cui figli, Anfione e Zeto, dopo essere riusciti a liberarla, fecero strazio della regina, legandola alle corna di un toro, che la trascinò fino a ucciderla. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

quella di mettere in scena episodi mitologici a carattere tragico durante i giochi nel circo, come quello di Ercole che bruciava sul monte, o quello di Marsia scorticato vivo, o quello di Adone sbranato dai cinghiali, o infine quello di Icaro che precipitava dal cielo. Alle cristiane fu, appunto, riservato il supplizio di Dirce, regina di Tebe, legata alle corna di un toro, o quello delle figlie di Danao, costrette a sopportare innumerevoli pene nell’Ade.

Alla mercé delle belve Alcune rappresentazioni pagane ci parlano di questi atroci supplizi; cosí il crocefisso graffito nella taberna di Pozzuoli, o il gruppo monumentale del Museo Nazionale di Napoli con il supplizio di Dirce, o i famosi mosaici di Zliten ed El Djem in Africa, con dettagliate e impressionanti scene di damnationes ad


bestias (condanna alle bestie feroci). Le vittime piú importanti di quella persecuzione furono sicuramente Pietro e Paolo, anche se è difficile stabilire la data esatta e la dinamica del loro martirio. Le fonti in nostro possesso sono laconiche e imprecise al riguardo: Tertulliano (Scorpiace, XV, 3), per esempio ricorda solamente che Pietro fu crocefisso e Paolo ucciso; scritti píu tardi – e perlopiú apocrifi – aggiungono i particolari della testa in giú per Pietro e della decapitazione per Paolo, la prima eseguita direttamente nel circo del Vaticano, l’altra sulla via Ostiense in un luogo chiamato ad aquas Salvias. Per quanto riguarda la data del loro martirio, alcuni pensano all’autunno del 64 per Pietro, altri ritardano le esecuzioni dei due sino al 67, mentre il giorno preciso della loro morte oscilla tra il 29 giugno in Occidente e il 28 dicembre in Oriente. Piú sicure, come è

In basso Una Dirce cristiana, olio su tela di Henryk H. Siemiradzki. 1897. Varsavia, Museo Nazionale. Il pittore immagina che al supplizio inflitto alla donna, condannata a morire come la mitica regina di Tebe, abbia assistito l’imperatore Nerone.

noto, sono le sedi delle loro deposizioni: il Vaticano per Pietro, non lontano dal luogo del suo supplizio, e la via Ostiense per Paolo.

Una testimonianza preziosa Seguire l’interminabile itinerario costruttivo e cultuale dei monumenti sorti in corrispondenza delle loro tombe ci porterebbe molto lontano e dentro polemiche antiche e recenti, che qui non vogliamo riproporre. Basterà quindi menzionare le fasi salienti, cominciando dal momento della deposizione avvenuta, in tutti e due i casi, in sepolcreti pagani, dove ben presto la comunità romana si preoccupò di segnalare quelle tombe eccezionali con monumenti piú dignitosi. Ce ne fornisce una testimonianza preziosa lo storico Eusebio (Storia Ecclesiastica, II, 25, 6-7), il quale, riferendosi ai tempi di papa Zefirino (199-217), ricorda che un

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certo Gaio, in quel periodo, poteva mostrare i «trofei» degli apostoli: «Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla strada per Ostia, incontrerai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa». Il monumento della via Ostiense fu appena intravisto durante i lavori di ricostruzione a seguito dell’incendio che nel 1823 distrusse la basilica di S. Paolo. Un’idea piú precisa si ha per il trofeo di S. Pietro, in quanto gli scavi degli anni Quaranta del Novecento hanno messo in luce parte di un’articolata necropoli con molti mausolei disposti lungo un diverticolo della via Cornelia: qui venne sepolto Pietro; qui venne costruito il piccolo trofeo di cui si è detto durante il II secolo, inserito in seguito in un contenitore marmoreo e segnalato da un meraviglioso organismo provvisto di una pergula da cui pendeva una corona preziosa; qui fu eretta la splendida e monumentale basilica voluta da Costantino; qui si susseguirono gli interventi di Gregorio Magno (590-604 ), Callisto II (1119-1124) e Clemente VIII (1592- 1605).

Un giardino per i pasti devozionali

Processo in piazza Lo scrittore cristiano Eusebio di Cesarea ci tramanda una commovente lettera, nella quale si narrano le torture e la morte dei martiri di Lione e di Vienne, processati in piazza nel 177 (Storia Ecclesiastica, V, 1,3). L’intera comunità viene colpita: dal vescovo Potino al medico Alessandro, alla schiava Blandina, al novizio Mauro, al diacono Santo. Quest’ultimo fu irremovibile durante tutto l’interrogatorio. I pagani non riuscirono a farlo parlare; a ogni domanda rispondeva: «Sono cristiano!». I carnefici si accanirono contro di lui e, non sapendo piú come torturarlo, gli applicarono lame arroventate nelle parti piú delicate del corpo. Blandina venne legata a un palo per farla sbranare dalle fiere, che subito l’assalirono. Vedendola sospesa a quella sorta di croce e sentendola pregare, i suoi compagni presero coraggio. Poiché nessun animale osò mangiarla, fu slegata e rigettata in prigione. Per ultimo fu trascinato in piazza il vescovo Potino, di novant’anni. Al governatore, che gli aveva chiesto chi fosse il Dio dei cristiani, rispose coraggiosamente: «Se ne sarai degno lo conoscerai». La folla lo copri di pugni e calci, senza rispetto per la sua età, e i piú lontani cominciarono a tirare sassi: fu riportato in carcere che appena respirava; dopo due giorni morí.

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Il grande culto che Pietro e Paolo ricevettero nelle sedi delle loro sepolture si estese a interessare, già anticamente, la cosiddetta Memoria Apostolorum (Memoria degli Apostoli), sulla via Appia, in corrispondenza del complesso di S. Sebastiano dove, secondo le opinioni dei diversi studiosi, possiamo collocare la presunta abitazione dei due martiri eccellenti, ovvero una sistemazione temporanea e forse parziale delle loro reliquie al tempo della persecuzione di Valeriano. Al di là di queste incertezze, è invece sicura l’esplosione di un culto di cui restano tracce inconfondibili nella cosiddetta triclia, una sorta di giardino con una tettoia dove i fedeli si recavano per consumare pasti devozionali (refrigeria) in onore dei due santi; molte firme e iscrizioni-ricordo graffite sui muri di questo cortile rendono una testimonianza viva e suggestiva di quei mistici conviti. Dopo la morte di Nerone, i cristiani godettero di un momento di relativa tranquillità sino agli


Nella pagina accanto Martirio di santa Blandina, olio su tela di Emilio Magistretti. 1900. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

ultimi anni dell’impero di Domiziano, e precisamente sino all’anno 95, quando, secondo quel che riferisce Dione Cassio (Storia Romana, LXVII, 14, 1-3), subirono la pena capitale in molti, oltre al console in carica Flavio Clemente, parente dell’imperatore e marito di Flavia Domitilla, anch’essa sua parente. Essi furono condannati per ateismo; e anche molti altri che tendevano verso le pratiche giudaiche furono uccisi e privati dei loro beni. Domitilla fu deportata nell’isola di Ventotene: una condanna attestata anche in altre occasioni, quando si voleva punire una dama appartenente all’alta società. Eusebio (Storia Ecclesiastica, III, 18, 4) riporta la stessa notizia, specificando però il grado di parentela con l’imperatore, in quanto ricorda che Flavia Domitilla era nipote per parte di sorella di Flavio Clemente: insieme con altre persone – continua il racconto di Eusebio – fu esiliata a Ponza per aver confessato il Cristo. Le piccole varianti e le incongruenze hanno fatto pensare all’esistenza di due Domitille; ma sembra forse piú semplice attribuire tali confusioni alle fonti che, in sostanza, modificano il grado di parentela e scambiano due isole con la stessa caratteristica: quella di essere luoghi di confino.

Confessare e abiurare Una famosa lettera, inviata agli inizi del II secolo da Plinio il Giovane a Traiano, e una risposta tanto secca quanto precisa dell’imperatore, ci fanno rivivere la pesante atmosfera che si doveva respirare tra i cristiani delle province posti di fronte al problema dell’abiura. Plinio, in quegli anni, era legato della Bitinia e del Ponto e si trovava alle prese con una comunità cristiana molto viva e numerosa, per cui dovette ben presto risolvere la delicata questione dei procedimenti contro gli aderenti alla nuova dottrina, dei quali si confessava del tutto inesperto (Epistola, X, 96). «Per ora – egli scrive – mi comporto cosi: chiedo loro se sono cristiani; se rispondono affermativamente, li interrogo una seconda e una terza volta,

minacciando di punirli; coloro che perseverano sono condannati (...) Mi è stato consegnato un dossier anonimo con i nomi di molte persone: coloro che affermano di non essere cristiani e invocano gli dèi con vino e incenso dinanzi alla tua immagine e maledicono Cristo sono liberati». Ed ecco la pronta risposta dell’imperatore: «I cristiani non devono essere ricercati (...) Se invocheranno i nostri dèi siano perdonati (...) Le denunzie anonime non devono essere prese in considerazione». Invidie, denunce anonime, odi personali, controversie politiche sono, dunque, alla base dei primi processi contro i cristiani. Problemi personali diedero luogo, forse, al primo maxiprocesso, che si tenne a Roma tra il 163 e il 167 contro il filosofo cristiano Giustino, accusato, assieme a un folto gruppo di compagni, dal filosofo cinico Crescente. Dagli Atti del martirio sappiamo che il processo si tenne dinanzi al prefetto della città Giunio Rustico, che a uno a uno interrogò tutti gli accusati. Sentiamo alcuni passi del processo. Il prefetto chiese: «Dove vi riunite?». Giustino rispose: «Dove si può e dove preferiamo. Pensi che ci possiamo riunire tutti in uno stesso luogo?». Rustico chiese: «Dunque sei cristiano?». Giustino rispose: «Sí, sono cristiano». Rivolgendosi agli altri accusati, il prefetto disse: «È Giustino che vi fece diventare cristiani?». Uno di loro, Gerace, rispose: «Da tempo ero cristiano». Un altro, di nome Peone, si alzò e disse: «Anch’io sono cristiano». Rustico chiese: «Chi ti ha istruito?». Peone rispose: «I miei genitori». Ad altri il prefetto chiese: «Dove sono i vostri genitori?». Risposero: «In Cappadocia (...) Sono morti da molto tempo». Rustico pronunciò la sentenza: «Chi ha rifiutato di sacrificare agli dèi sia flagellato e condotto al supplizio secondo la legge». Dagli Atti si comprende il tentativo di accusare Giustino di proselitismo, un fenomeno che i Romani temevano anche tra gli Ebrei, in quanto capivano la forza e la compattezza che le nuove comunità stavano progressivamente acquisendo.

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Una breve storia delle persecuzioni di Danilo Mazzoleni

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econdo un’opinione diffusa, ma storicamente inesatta, i cristiani dall’epoca di Nerone a quella di Diocleziano, per circa due secoli e mezzo, furono ininterrottamente oggetto di persecuzioni da parte delle autorità romane. Tale asserzione viene smentita da numerose fonti letterarie e storiche, oltre che dai monumenti, e va indubbiamente ridimensionata. Cosí pure è completamente destituita di fondamento l’altra credenza popolare, difficile da estirpare, secondo la quale i fedeli, per sottrarsi alle ricerche dei pagani, si «rifugiavano» nelle catacombe. È noto ormai da tempo che questi cimiteri sotterranei, ben conosciuti ai Romani come tutte le altre aree funerarie, ebbero unicamente la funzione per cui furono creati, ospitando cerimonie liturgiche in occasione degli anniversari dei martiri in esse deposti. Fra l’altro, si tratta di ambienti in cui una lunga permanenza da parte di gruppi numerosi di persone sarebbe stata impossibile sotto tanti punti di vista. Qual è dunque la verità storica riguardo alle persecuzioni?

I momenti piú critici A tale domanda si può rispondere sinteticamente che tre furono i periodi veramente critici per tutte le comunità cristiane che vivevano all’interno dei confini dell’impero: sotto Decio nel 250-251, sotto Valeriano fra il 257 e il 260, sotto Diocleziano in special modo nel 312. Per il resto si trattò di provvedimenti temporanei e sporadicamente applicati, magari dall’eccessivo zelo di qualche governatore provinciale, ma che pure fecero vittime, soprattutto fra il clero. I fedeli, tuttavia, godettero di periodi abbastanza lunghi di relativa tranquillità, che consentirono una loro organizzazione piuttosto capillare, anche prima del celebre editto di Milano del 313, che ufficialmente liberalizzò la loro religione.

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Piú di uno studio ha cercato di far emergere le esatte motivazioni che indussero le autorità a perseguitare i cristiani: probabilmente – come si è detto – un insieme di cause di natura politica, sociale e giuridica, connesse con la credenza che essi minassero con la loro dottrina e i loro principi le basi dello Stato. Si credeva inoltre, specialmente in un primo momento, che essi fossero solo una setta giudaica con idee sovversive. Successivamente si videro in loro i nemici dichiarati delle divinità tutelari di Roma, che costituivano un pericolo per la stabilità politica e per il potere ufficiale. Costantino invece, da abile stratega qual era, comprese che anche il tramonto del mondo pagano poteva essere visto in funzione di una nuova concezione cristiana dell’impero e tentò di farsi divinizzare come sovrano assoluto in terra.

Nella pagina accanto Martirio di San Sebastiano e San Policarpo, olio su tavola di Pedro García de Benabarre. 1470 circa. Madrid, Museo del Prado. In basso testa di una statua forse raffigurante l’imperatore Decio. III sec. d.C. Bucarest, Museo Nazionale di Storia.

contro i cristiani, fomentata da frange di fanatici pagani. Episodi dolorosi come questi si alternarono, però, con periodi di relativa tranquillità, in cui la Chiesa poté mantenere e accrescere le sue proprietà, ivi comprese le catacombe, aumentate notevolmente di numero. Sporadici fatti repressivi avvennero sotto Massimino il Trace (235- 238), al quale seguí però un periodo di calma nei rapporti tra impero e cristianesimo, protrattosi fino all’avvento di Decio, fautore della prima grande persecuzione, iniziata dal gennaio 250. L’editto imponeva sacrifici pubblici ai sudditi anche nelle province, con commissioni statali

Verso una maggiore tolleranza Dopo i discussi provvedimenti neroniani e domizianei, Adriano e i suoi successori adottarono una linea di maggiore tolleranza; ma alcuni tumulti popolari e rancori personali causarono qualche vittima illustre, come Policarpo vescovo di Smirne sotto Marco Aurelio, durante il 165. Proprio in questo periodo nasce il culto dei martiri, che poi avrà un organico sviluppo nel III secolo. Importanti riferimenti si colgono, per l’appunto, nella narrazione del martirio di san Policarpo, descritto dai suoi confratelli alla comunità di Filomelio di Frigia. Recuperato il corpo di quel «testimone della fede», «lo deponemmo – si legge nel documento – in un luogo conveniente. Là, come possibile riuniti in gaudio e allegrezza, il Signore concederà a noi di celebrare il giorno natalizio del suo martirio, perché si mantenga il ricordo di coloro che già hanno combattuto e per esercitare e preparare coloro che si apprestano a combattere» (Martirio di Policarpo, 18). Solo all’inizio del III secolo, sotto Settimio Severo, ci fu una recrudescenza della reazione

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che rilasciavano attestati liberatori, chiamati «libelli», o sentenze di condanna. Lo stesso papa Fabiano fu processato e messo a morte, come – fra gli altri – il vescovo di Antiochia, Babila. Scopo del provvedimento imperiale non era tanto di bandire il cristianesimo, quanto di far adeguare i suoi adepti alla religione ufficiale. L’anno seguente vide la fine di questa terribile prova per la Chiesa. Solo nel 258 Valeriano riprese la politica del suo predecessore, anzi con piú vigore, cercando di colpire gli esponenti di maggiore prestigio del clero, per decapitare le comunità ed eliminare dalla burocrazia statale i seguaci della nuova religione. Essi venivano privati dei beni e ridotti in schiavitú, quando non avessero comminata la pena capitale. Fra le vittime di quell’anno spicca la figura di san Cipriano, vescovo di Cartagine. Ripristinata la tregua religiosa con Gallieno e restituiti i luoghi di culto alle comunità, fu loro concessa anche la libera esistenza: si ebbe quindi un quarantennio di convivenza pacifica, che coincise con una piú capillare diffusione del cristianesimo in tutte le classi sociali, nei piccoli centri e in ambito rurale in taluni territori.

L’ultima prova

In alto Viterbo, S. Maria della Verità. Affresco raffigurante papa Fabiano. XV sec. Eletto al soglio pontificio nel 236, rimase in carica fino al 250, quando fu messo a morte durante le persecuzioni dei cristiani promosse dall’imperatore Decio.

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Nella pagina accanto Roma, catacombe di S. Callisto. Affresco raffigurante Cipriano, vescovo di Cartagine, martirizzato nel 258, e Cornelio, eletto papa nel 251, ma costretto all’esilio al tempo delle persecuzioni di Gallo e morto nel 253, a Centumcellae (Civitavecchia).

Si giunse cosi all’ultima grande prova: la terribile persecuzione scatenata da Diocleziano, in Occidente fra il 303 e il 305 e in Oriente fra il 303 e il 312, a causa dell’ostilità di Galerio. Furono confiscate o distrutte le aule adibite a riunioni liturgiche, proibito ogni atto di culto, sequestrati e bruciati i libri sacri, incarcerati e martirizzati moltissimi ecclesiastici e fedeli di tutte le età fra i tormenti piú atroci. Quietatasi la situazione nelle province occidentali dell’impero all’indomani dell’abdicazione di Diocleziano, successivamente altre vittime si ebbero soprattutto in Palestina e in Egitto, per il fanatismo di Massimino. Egli, infatti, non aveva accettato di applicare quanto aveva stabilito pochi giorni prima di morire Galerio, il 30 aprile 311. Le disposizioni erano quanto mai significati


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A sinistra l’impero romano dall’età di Costantino alla vigilia delle invasioni barbariche (306-401). In basso statua in marmo di Costantino, proveniente dalle terme dell’imperatore erette sul Quirinale, oggi nell’atrio della basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. IV sec. d.C.

ve, proclamando: «Esistano di nuovo i cristiani e si restituiscano le loro chiese». Formalmente, però, solo con l’editto di Milano, emanato nel 313 da Costantino, iniziò un’epoca nuova per la Chiesa, divenuta finalmente «religione lecita» la dottrina che essa professava. In seguito solo Giuliano l’Apostata cercherà, invano, di turbare la pace instaurata, facendo un ultimo vano tentativo di restaurazione del paganesimo, appoggiato da una ristretta cerchia di aristocratici conservatori. Forse ci fu qualche altro martire anche in questo breve periodo; ma si trattò di rari eccessi di funzionari troppo solerti. La nuova fede si avviava a divenire la religione di Stato dei Romani; ma nei secoli futuri avrebbe sempre ricordato il sacrificio dei suoi martiri.

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Alla scoperta dei luoghi di culto a Roma di Danilo Mazzoleni

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hi studia la topografia delle catacombe romane sa bene che gli Itinerari, le antiche guide dei pellegrini, sono documenti preziosi e ricchi di notizie per conoscere il cospicuo numero di santuari martiriali, sparsi lungo le principali vie consolari che si diramavano dalla città. I martiri erano molto spesso originari dell’Urbe, ma altre volte stranieri, che a Roma avevano raccolto la palma della loro vittoria cristiana, a cominciare dagli stessi santi Pietro e Paolo. Un’altra fonte singolare e importante, pervenutaci in originale, è la cosiddetta

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Nota degli oli, compilata da un abate, Giovanni, che fu incaricato alla fine del VI secolo di raccogliere in alcune ampolline, per poi farne dono alla regina Teodolinda, alcune gocce degli oli che alimentavano le lampade devozionali poste sulle tombe dei martiri. Giovanni svolse puntualmente il suo compito e riportò a Monza quanto gli era stato richiesto, testimoniando ulteriormente quanto fosse diffusa la pia pratica della visita ai sepolcri venerati. Se alcune fonti letterarie sono ricche di dati interessanti sull’esistenza di tanti santuari romani, tuttavia gli archeologi, scavando e studiando le diverse catacombe, o le aree funerarie a cielo aperto in cui i martiri erano stati deposti, hanno dovuto risolvere molte complesse questioni. In primo luogo,


Roma, ipogeo di via Dino Compagni (complesso noto anche con la denominazione di «catacombe di via Latina»). Affresco raffigurante il passaggio del Mar Rosso. IV sec.

si sono a poco a poco riconosciuti molteplici indizi che aiutano a identificare questi sepolcri privilegiati, oggetto di tante cure e di tanta devozione fino alla traslazione delle reliquie che essi avevano per secoli contenuto.

Iscrizioni e pitture Fra tali elementi, indizi di situazioni monumentali particolari legate all’installazione di un culto, si può ricordare la presenza di basiliche o cripte sotterranee; di iscrizioni lapidarie o di graffiti tracciati da fedeli (perlopiú pellegrini) sulle pareti intonacate di gallerie e cubicoli; e ancora l’esistenza di altari, di pitture raffiguranti martiri, di percorsi obbligati predisposti ampliando

scale e sbarrando gallerie per evitare inconvenienti facilmente comprensibili. Quando si ha la convergenza di due o piú di questi indizi, maggiore diviene la probabilità di localizzare tali santuari, che spesso si mostrano oggi sconvolti e spogliati di ogni elemento decorativo. In diversi casi, invece, l’identificazione resta ipotetica; in altri, infine, mancano totalmente elementi per proporne una. San Gregorio di Tours, nel suo scritto La gloria dei Martiri (cap. 27), narra che molte cerimonie si svolgevano nei santuari martiriali e che a Roma particolare devozione si dimostrava ai santi Pietro, Paolo, Lorenzo e Pancrazio. Certamente il culto di questi eroi del cristianesimo richiamava folle da ogni parte,

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specialmente nel giorno anniversario della loro morte, ossia della nascita alla nuova vita nella beatitudine celeste. In tale ricorrenza i sepolcri venerati erano ornati con candelabri, lucerne, piatti su cui ardevano fiammelle, serti e festoni floreali. Si spandevano poi profumi ed essenze, anche per purificare gli ambienti, particolarmente frequentati. Papa Damaso (366-384) volle salvaguardare quelle memorie, cosi importanti per la Chiesa, che era da pochi decenni uscita dall’ultima persecuzione; e ricercò, restaurò, decorò le tombe di tanti martiri, componendo egli stesso decine di epigrammi in loro onore, che invitavano i fedeli a seguirne l’esempio e a venerarne il ricordo. In seguito, nell’area di catacombe e cimiteri all’aperto cominciarono a sorgere strutture di servizio utili per i devoti, impianti termali, ospizi, biblioteche, poi monasteri e residenze per il clero. Sono complessi che si dilatano e danno luogo talora – come nel caso di S. Pietro – a vere cittadelle autosufficienti.

Un caso unico Un caso finora unico nella Roma sotterranea è quello di san Giacinto, nella catacomba di S. Ermete sulla via Salaria vecchia. L’eccezionalità consiste nel fatto che la sua tomba è la sola trovata integra, ancora chiusa dalla lastra marmorea originaria, con un’iscrizione molto semplice che toglie ogni dubbio su identità e qualifica del defunto: «Deposto l’11 settembre il martire Giacinto». Pur non essendo specificato l’anno, si risale facilmente, tramite altre fonti, al 258, e alla persecuzione di Valeriano. Egli era stato sepolto vicino al fratello Proto, ma la sua tomba si trovava in basso, al livello del pavimento della cripta, spesso soggetta ad allagamenti per infiltrazioni idriche. Si pensò quindi di rialzare il piano con terra e calcestruzzo, cosí che il sepolcro venne occultato alla vista. All’epoca delle traslazioni, pur essendo la presenza di quel loculo segnalata da un’epigrafe fatta apporre dal prete Leopardo alla fine del IV

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secolo, erroneamente si portarono via le reliquie di un fedele comune, che giaceva vicino a san Proto, scambiandole per quelle di san Giacinto. Solo nel 1845, ritrovata la catacomba, riportando la galleria al suo livello primitivo, si vide con grande sorpresa la tomba integra con l’iscrizione al suo posto. Le spoglie del martire furono allora solennemente trasferite: dapprima nella cappella dell’Istituto di Propaganda Fide e poi al Gianicolo, nella chiesa annessa all’Università Urbaniana. Se la clamorosa scoperta fosse avvenuta in anni piú recenti, certamente si sarebbe preferito rispettare una situazione monumentale conservatasi integra, lasciando i resti di san Giacinto nella loro collocazione originaria.


Dentro una catacomba, olio su tela di Nikolai Alexandrov. 1900. Nižnij Novgorod, Museo Statale d’Arte. Nella pagina accanto fiaschetta da pellegrino raffigurante la Crocifissione. 600 circa. Cleveland, Cleveland Museum of Art.

Un’altra delle tre catacombe della via Salaria vecchia è quella di Panfilo. Abbandonata definitivamente nel IX secolo, essa venne in pratica riscoperta ed esplorata interamente solo a partire dal 1920 da Enrico Josi, che la trovò – soprattutto nel piano inferiore – senza segni di devastazione e di rovina e con moltissimi loculi ancora integri. Proprio in questo livello, al termine di un percorso piuttosto lineare che partiva da una grande scala, si trova un cubicolo doppio, formato da due camere sepolcrali comunicanti, con chiare tracce di un culto sviluppatosi in epoca tarda.

Fra queste sono di particolare rilievo un piccolo altare, con un vano ricavato per custodire evidentemente reliquie; alcune tombe scavate nel pavimento, ricoperto da lastre marmoree di spoglio; un rivestimento di intonaco, successivo alla prima utilizzazione dell’ambiente; una serie di fori per ganci di lampade, che pendevano dall’arcosolio di fondo; molti nomi e invocazioni, tracciate da fedeli e pellegrini sulle pareti dell’ambiente. Tutto portava a riconoscere in questo cubicolo un luogo venerato del cimitero; ma mancava ancora la prova che rivelasse l’identità del

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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.

personaggio ivi venerato, anche se si ipotizzava che fosse stato quel Panfilo che aveva dato il nome al complesso. Fortunatamente, questo tassello mancante è stato trovato in occasione di un’approfondita indagine epigrafica nella catacomba: un minutissimo graffito, non visto da chi si era occupato in precedenza del monumento, invoca proprio san Panfilo, e toglie ogni dubbio in merito. Restano tuttavia altri problemi aperti sulla precisa identità del santo. Si può supporre che fosse un Africano, le cui reliquie potrebbero essere state portate a Roma in questo cimitero forse nel corso del V secolo da esuli, in seguito alla violenta persecuzione scatenata contro i cattolici dai Vandali ariani in quelle regioni. Fra l’altro, alcuni nomi di fedeli incisi sulle pareti dell’ambiente rivelano una probabile origine africana; e questo fatto potrebbe in qualche modo avvalorare la teoria ora esposta. La figura di san Valentino, oggi ritenuto – ma senza una ragione connessa in qualche modo con le sue vicende storiche o leggendarie – patrono degli innamorati, è al centro di un’intricata questione agiografica.

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A lui è intitolata l’unica catacomba (con accanto una basilica all’aperto) che le fonti ricordano sulla via Flaminia. Ma era un martire romano o un vescovo di Terni, il cui culto si sviluppò anche a Roma? Oppure ancora si tratta di due personaggi che la tradizione poi fuse? Gli studiosi hanno cercato argomentazioni sempre piú sottili per sostenere l’una o l’altra ipotesi, talora con una punta di campanilismo.

Un’identità sfuggente C’è anche un’ulteriore soluzione, che pare a molti piú verosimile, secondo la quale Valentino era un prete ternano, martirizzato a Roma e sepolto nel cimitero della Flaminia, successivamente ritenuto vescovo senza precisi dati storici. In base al racconto leggendario della sua passione, i fatti sarebbero avvenuti sotto l’imperatore Claudio il Gotico (268-270); ma la cosa appare tutt’altro che sicura. Non si hanno altri ragguagli certi sulla sua vita e sulla sua personalità, ma si può dire che il suo culto era già diffuso a Roma nella prima metà del IV secolo, circa cento anni prima delle piú

La catacomba di S. Valentino, sulla via Flaminia, in una tavola relizzata per l’opera Roma sotterranea di Antonio Bosio. 1632.


Roma, catacomba di S. Valentino. La nicchia situata nella parete opposta all’ingresso, nella quale è dipinta un’immagine della Vergine con il Bambino. VIII sec.

antiche attestazioni finora note per l’omonimo santo ternano nella città umbra. Fra il 336 e il 352, infatti, papa Giulio I fece erigere sulla primitiva memoria eretta sulla tomba del martire una basilica a tre navate scandite da colonne, che inglobò l’edificio precedente, demolendone in parte le strutture. Le vestigia di questa chiesa si sono ritrovate; ma in parte esse si trovano sotto una strada moderna, che corre immediatamente vicino al monumento. Dopo la prima fase del IV secolo, papa Onorio I (625-638) promosse notevoli lavori di ricostruzione e rimaneggiamento; e Teodoro I (642-649) edificò una cripta a corridoio con presbiterio rialzato, che consentiva ai fedeli di avvicinarsi al sepolcro venerato. La scoperta di alcuni frammenti d’iscrizione negli inconfondibili caratteri detti filocaliani attesta che anche papa Damaso, pio cultore dei martiri, si interessò di questo santuario; ma non si può precisare quali furono i suoi interventi in merito. C’è ancora da aggiungere che accanto alla basilica si sviluppò, almeno fino al VI secolo, un vasto cimitero all’aperto, che ha restituito un cospicuo numero di epigrafi, oltre a una catacomba su tre livelli (la cui origine deve porsi in epoca anteriore all’erezione dell’edificio di culto), che occupò però un’area abbastanza limitata. Il vano subito dopo l’ingresso fu decorato, probabilmente nel corso del VII secolo, da una serie d’interessanti affreschi, uno dei quali doveva raffigurare proprio Valentino insieme ad altri santi.

Sepolto in una «spelonca» Fra i tanti martiri di cui oggi si è generalmente perso il ricordo, ma che furono grandemente popolari nell’antichità cristiana, si può annoverare san Crescenzione, deposto nella catacomba di Priscilla sulla via Salaria. Il piú antico documento che fa riferimento a questo personaggio è il Libro Pontificale della Chiesa di Roma, in cui si legge che papa Marcello (307-308) fu sepolto a Priscilla «in una cripta presso il corpo di san Crescenzione». Uno degli Itinerari piú antichi indica la sua

tomba in una «spelonca», ossia in un ambiente sotterraneo che era collegato tramite una scala alla superiore basilica di S. Silvestro, nella quale erano pure deposti i martiri Felice e Filippo (secondo la tradizione, due dei sette figli di santa Felicita). Vari indizi concomitanti portano a identificare il cubicolo in un vano affrescato con scene di soggetto biblico, sulle quali furono tracciati molti graffiti con nomi di fedeli e di membri del clero, nonché acclamazioni e auguri di vita eterna. In particolare, un’iscrizione incisa con altre su una nicchia intonacata vicina a questo luogo invoca proprio Crescenzione, implorando la sua intercessione per ottenere la salvezza. Inoltre, un’epigrafe funeraria trovata in zona si riferisce a due coniugi, Felicissimo e Leoparda, che si erano acquistati un bisomo, ossia un sepolcro a due posti, «vicino all’ingresso del cubicolo di Crescenzione»; e questo fatto dovette essere stato per loro motivo di particolare gioia. La catacomba di S. Callisto, sull’antica via Appia, assume indubbiamente un ruolo di primo piano a Roma, oltre che per essere stata il primo cimitero ufficiale della Chiesa

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dell’Urbe, anche per il gran numero di santuari martiriali che comprendeva, a cominciare dalla celebre «cripta dei papi», in cui furono deposti, fra gli altri, tre pontefici martiri del III secolo: san Ponziano, san Fabiano e san Sisto Il. Proseguendo l’itinerario lungo le gallerie della catacomba, non lontano dalle cripte dei Ss. Gaio ed Eusebio si trova un cubicolo, in cui due loculi ospitarono le spoglie dei Ss. Partenio e Calocero, martiri della persecuzione dioclezianea nel 304. Sulla parete sinistra dell’ambiente, che subí vari rimaneggiamenti e fu restaurato in parte già nel VI-VII secolo, in parte dal de Rossi nel 1853, si legge fra gli altri un importante graffito di un fedele che ricorda proprio i nomi dei due santi. Una nicchietta per le lampade a olio e la presenza di numerosi sepolcri di devozione nel pavimento costituiscono ulteriori indizi per riconoscere in questo vano un luogo venerato, nel quale lo stesso papa Damaso compí interventi costruttivi, anche se molto probabilmente non rilevanti come accade

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Nella pagina accanto, in alto Roma, catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro. Affresco con il Cristo tra i santi Pietro e Paolo e, in basso, l’agnello divino acclamato dai santi Tiburzio, Gorgonio, Pietro e Marcellino. Fine del IV sec. In basso lastra iscritta sulla tomba del martire Giacinto, deposto nella catacomba di S. Ermete sulla via Salaria Vecchia a Roma. Fine del IIIinizi del IV sec.

altrove. Un secondo cubicolo, immediatamente di fronte a questo, mostra un’intensiva utilizzazione funeraria, per cui si è pensato che si tratti di una sorta di «retrosanto», sviluppatosi proprio in relazione con il culto di Calocero e Partenio.

Felice e l’«Aggiunto» A partire dalla seconda metà del IV secolo, almeno fino a tutto il VII, fu molto viva la devozione nei riguardi di Felice e Adautto, sepolti in un’unica tomba a due posti nella catacomba di Commodilla, nei pressi dell’antica via Ostiense. Forse fu proprio papa Damaso a riscoprire e a valorizzare questi due martiri, facendo apporre un’iscrizione che celebrava «Felice, tale di nome e di fatto, poiché avendo reso testimonianza a Cristo raggiunse la reggia celeste con fede intrepida, senza cedere alle lusinghe terrene; con lui ascese vittorioso al cielo Adautto». Quest’ultimo nome in latino significa «aggiunto» e si connette con la tradizione agiografica, secondo la quale mentre il prete Felice veniva condotto al martirio si staccò dalla folla un giovane di identità sconosciuta – perciò chiamato poi Adautto – che volle seguirne la sorte, dopo aver confessato il proprio credo. Prova del culto dei due martiri è la basilichetta di pianta irregolare che si creò, sfondando alcune gallerie preesistenti, dinnanzi al loro sepolcro. Bisogna ricordare, inoltre, alcune pitture devozionali di questo stesso ambiente, che effigiano i due martiri mentre acclamano un cristogramma, simbolo di Cristo ottenuto incrociando le prime due lettere del nome greco Christòs; in un altro pannello con la vedova Turtura, nell’atto di presentarla al cospetto di Maria col Bambino; poi con un’altra martire del medesimo cimitero, Merita, e con santo Stefano, san Paolo e san Pietro in una scena della consegna delle chiavi da parte di Cristo a quest’ultimo. Inoltre, i santi Felice e Adautto ritornano all’interno del cubicolo di un funzionario dell’annona, Leone. Quelle ora menzionate sono tutte pitture riferibili a un arco


cronologico compreso fra gli ultimi decenni del IV e la seconda metà del VI secolo. Per di piú, nell’area limitrofa alla basilichetta s’impiantò un vero e proprio «retrosanto», ossia una zona fittissima di sepolture di fedeli, desiderosi di essere deposti il piú vicino possibile ai martiri di cui erano devoti.

Il presbitero e l’esorcista «Sul vostro sepolcro, o Marcellino e Pietro, mi riferí quando ero bambino lo stesso carnefice (...) che la vostra decapitazione avvenne tra siepi e rovi, cosí che nessuno potesse conoscere il sito della vostra tomba. Voi stessi, alacremente e serenamente scavaste le fosse, dopo di che giaceste in un antro». Cosí Damaso, evocando ricordi d’infanzia personali, celebra in un epigramma altri due martiri molto venerati, eponimi del piú importante cimitero dell’antica via Labicana (oggi Casilina), Marcellino e Pietro, l’uno presbitero e l’altro esorcista, stando al racconto della loro passione.

Vittime anch’essi della persecuzione dioclezianea, il 2 giugno del 303 furono deposti in due semplici loculi al primo piano della catacomba, intorno ai quali successivamente sorse una basilichetta con abside. Ulteriore prova della frequentazione di pellegrini in quel

A sinistra particolare dell’altare a blocco nel cubicolo della catacomba di Panfilo a Roma, con la fenestella confessionis, la piccola nicchia che probabilmente custodí le reliquie del martire. L’iscrizione pagana di epoca imperiale, utilizzata internamente come rivestimento, si riferisce a una Pompeia Tyche, morta a poco piú di ventitré anni. V-VI sec.

sito sono, anche in questo caso, i numerosi graffiti tracciati sull’intonaco delle pareti: uno, in particolare, invoca l’intercessione dei due martiri per «Gallicano cristiano». Marcellino e Pietro sono poi raffigurati in un affresco tuttora conservato nel cimitero che porta il loro nome, datato alla fine del IV secolo. Essi compaiono con altri due santi venerati in quel luogo, Tiburzio e Gorgonio, ai lati del mistico Agnello, immagine del Cristo, raffigurato sul monte paradisiaco. Quelli passati brevemente in rassegna sono solo alcuni fra i numerosi martiri dei quali la Chiesa romana conservava le spoglie, ma già dalle vestigia monumentali – spesso esigue – conservate fino ai giorni nostri, dall’intensità delle pitture, dal contenuto delle iscrizioni, ci si rende agevolmente conto della funzione essenziale che ebbero coloro che gli autori cristiani definirono «atleti della fede», non solo nella società dei fedeli, ma anche nell’evoluzione del tessuto urbanistico di Roma nel Medioevo.

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Il martirio nell’arte paleocristiana di Fabrizio Bisconti

L’

arte cristiana delle origini, come si esprime negli affreschi delle catacombe e in quelli degli edifici di culto, nei sarcofagi e nelle cosiddette «arti minori», adotta un linguaggio gioioso, estremamente positivo, nel quale vengono accuratamente trascurate situazioni violente che, in qualche modo, intacchino quest’atmosfera di serenità. Si scelgono simboli come l’orante, il pescatore, il buon pastore, il filosofo; e segni ancora piú semplici

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e trasparenti, come il pesce, l’ancora, la nave, la palma, la colomba, il pavone, l’agnello: tutti elementi, questi, che riconducono immediatamente al concetto di pace paradisiaca raggiunta o desiderata. Si rappresentano poi scene desunte dal


Roma, catacomba dei Giordani. Affresco raffigurante la benedizione dei pani. IV sec.

Vecchio Testamento, dove è sempre evidente il significato della salvezza divina. Anche quando le figurazioni rappresentano episodi drammatici, si coglie il momento in cui il grande pericolo è passato: cosí Daniele non è sbranato dai leoni, Noè saluta la colomba che annuncia la fine del Diluvio Universale, i tre giovani ebrei di Babilonia non sono bruciati dalle fiamme della fornace, Susanna viene giudicata innocente dopo l’accusa infamante mossa contro di lei dai vecchioni. Criteri analoghi vengono adottati per la storia di Gesú, della quale si selezionano gli episodi positivi e con significato salvifico. Vengono rappresentati i suoi miracoli piú famosi (la moltiplicazione dei pani, le guarigioni, le resurrezioni), il colloquio con la Samaritana al pozzo, piú raramente le sue parabole, piú spesso le «foto di gruppo» assieme ai suoi discepoli o con Pietro e Paolo o con altri santi e martiri. Dobbiamo, invece, attendere l’epoca della pace per incontrare le prime scene relative alla sua passione, che appaiono in un gruppo di sarcofagi che accolgono anche episodi relativi all’arresto di Pietro e alla decapitazione di Paolo. Degli ultimi momenti della storia terrena del Cristo vengono scelti l’episodio della preghiera nel Getsemani, quelli dei processi di fronte al Sinedrio e a Ponzio Pilato, quello dell’arresto, quello della coronazione di spine; quest’ultimo episodio sembra apparire in un affresco del cimitero di Pretestato già agli inizi del III secolo, ma l’interpretazione è ancora controversa.

La prima scena di crocifissione Tutte queste scene si avvicinano molto al momento della crocifissione; ma non lo rappresentano mai, presumibilmente anche per l’accusa che aveva ossessionato i cristiani durante i primi secoli, che li dipingeva come adoratori di un uomo in croce. La prima scena di crocifissione articolata si data alla prima metà del V secolo: si tratta della figurazione scolpita in una formella della porta lignea di S. Sabina dove, comunque, non sono ancora presenti il dramma e il dolore

delle rappresentazioni medievali. Qui il Cristo, con i due ladroni, assume quasi un atteggiamento di orante, annunciando cosi il momento della resurrezione, mentre lo strumento del supplizio, la croce, sembra scomparire dietro alla sua persona. Ancora piú rare e discusse risultano le rappresentazioni di martirio ordinario. Preziose appaiono le testimonianze di alcuni autori antichi, che descrivono monumenti iconografici oggi perduti. Asterio di Amasea in Cappadocia alla fine del IV secolo, per esempio, narra (Omelia XI) di essersi recato presso la tomba della martire Eufemia, dove vide le rappresentazioni della donna in tribunale neI momento in cui era uccisa dai carnefici, che, precedentemente, le avevano strappato i capelli e i denti, e, infine, nell’atto di essere accolta in paradiso. Anche Gregorio di Nissa, in un’omelia dedicata a san Teodoro di Amasea, ricorda negli stessi anni le imprese eroiche del martire, cosí come erano dipinte sul suo sepolcro: dalle immagini si apprendono la sua fermezza, il suo dolore, le terribili sembianze dei persecutori, le fiamme vive del rogo ove il martire finí di soffrire. Per quanto riguarda Roma, una narrazione dettagliata delle figurazioni che decoravano la tomba del martire Ippolito nella catacomba della via Tiburtina fu redatta da Prudenzio alla fine del IV secolo (Corone, XI, 123-134): «Il corpo insanguinato del martire è trascinato dai cavalli; anche le rocce e i cespugli sono macchiati di sangue; le membra sono sparse in pezzi sul suolo e sono raccolte dagli amici del martire impazziti dal dolore». Rarissime sono le scene di martirio giunte sino a noi. La lacuna sembrava colmata da una «medaglia devozionale» scoperta a Roma nel 1700. Il piccolo tondo bronzeo, conservato in un calco di piombo nel Museo della Biblioteca Vaticana e oggi scomparso, rappresentava singolari figurazioni nelle due facce. In un lato, sotto l’iscrizione augurale Sucessa vivas, era effigiato un martire sistemato su una graticola da due carnefici al cospetto del giudice, mentre una figura orante era coronata

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I MARTIRI

dalla mano divina tra le lettere apocalittiche A e Q e il cristogramma: vi fu riconosciuto il martirio di san Lorenzo, con l’anima del martire che sale in paradiso. Nell’altra faccia, invece, era figurata una scena di venerazione di un tabernacolo: forse quello costruito sulla tomba di Pietro in Vaticano o, per rimanere in tema, su quella di Lorenzo.

Un falso settecentesco? La concentrazione di situazioni iconografiche cosi rare e singolari, per di piú rappresentate su un oggetto che è un unicum per Roma (in quanto queste medagliette-ricordo erano tipiche dei santuari orientali e specialmente di quelli costruiti in onore di santi stiliti, che vivevano in ascesi su colonne) fanno sospettare una falsificazione del manufatto, operata nel 1700, ispirandosi da un lato al mosaico ravennate del mausoleo di Galla Placidia con la rappresentazione del martire san Lorenzo dinanzi alla graticola e dall’altro

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In alto Roma, basilica di S. Sabina. Formella della porta lignea della chiesa raffigurante la Crocifissione. Prima metà del V sec. A destra particolare dell’affresco della cosiddetta confessio (piccolo ambiente creato per il culto dei martiri) nella basilica dei Ss. Giovanni e Paolo a Roma, con una violenta scena di martirio. Si notano tre figure inginocchiate con le mani legate dietro al dorso mentre sopraggiungono i carnefici. Inizi del V sec.

alle fonti storiche, che descrivevano il baldacchino fatto costruire sulla tomba di san Pietro in Vaticano da Costantino. Altri monumenti ci conducono con piú sicurezza verso l’iconografia martiriale propriamente detta. Fra tutti è bene ricordare un affresco che decora un arcosolio del Cimitero Maggiore sulla via Nomentana a Roma, databile alla seconda metà del IV secolo. La pittura rappresenta due soldati


romani mentre conducono al martirio un uomo, a cui sono state sciolte le vesti in segno di «degradazione» militare, il tutto al cospetto del Cristo munito di virga, lo strumento che indica che si sta per attuare un prodigio. Narra, infatti, una passione piuttosto tarda che due soldati di nome Papia e Mauro, mentre assistevano all’interrogatorio del cristiano Sisinnio, si convertirono. Il prefetto li fece torturare e li chiuse in carcere, dove furono battezzati. Portati in tribunale ed esortati al sacrificio, si rifiutarono e furono flagellati. La scena rappresenterebbe proprio il momento della conversione miracolosa.

Martiri soldati Un altro prezioso documento iconografico ci parla di altri martiri militari, dando conforto alla notizia di Eusebio (Storia Ecclesiastica, VIII, 1,7), che ricorda come la persecuzione si iniziò tra i fratelli che erano nell’esercito. Ci riferiamo alla colonnina del ciborio fatto erigere da papa Siricio (384-399) nella basilica semiipogea dei Ss. Nereo e Achilleo nelle

In alto Roma, catacomba di Calepodio. Frammento di affresco con il martirio del papa san Callisto, gettato in un pozzo. VII-VIII sec.

catacombe romane di Domitilla, sulla via Ardeatina. Sul marmo è scolpito un soldato discinto (Acilleus, come ci ricorda la didascalia iscritta) con le mani legate dietro al dorso, mentre sta per essere finito da un carnefice con un colpo di spada. Nereo e Achilleo furono probabilmente uccisi durante la persecuzione dioclezianea, che agli inizi si consumò proprio nell’esercito, dove si verificavano molti casi di obiezione di coscienza. Al martirio dei due soldati s’interessò Io stesso papa Damaso, che dedicò loro uno dei suoi epigrammi piú suggestivi: «Si erano arruolati nell’esercito e svolgevano un terribile mestiere / eseguendo gli ordini del tiranno, pronti a servirlo, per paura. / Non ci si crederà, ma all’improvviso smettono di essere crudeli / e, convertiti, abbandonano i tristi accampamenti del loro comandante, / gettano gli scudi, i vessilli di battaglia e le armi insanguinate, / sono felici di riportare vittorie, ma per Cristo. I Credete a Damaso su quanto sia grande la gloria di Cristo». Un ciclo agiografico dipinto in un piccolo ambiente del complesso romano dei Ss. Giovanni e Paolo al Celio, riferibile agli esordi del V secolo, sembra ispirarsi a una passione molto romanzata, che noi conosciamo in una tarda redazione del VI-VII secolo. A sinistra Roma, Cimitero Maggiore. Affresco raffigurante il probabile martirio di Sisinnio. IV sec.

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I MARTIRI

Specialmente uno dei quadretti in cui è organizzato il ciclo riporta una violenta situazione di martirio: si scorgono tre personaggi in ginocchio, bendati e con le mani legate dietro al dorso, mentre stanno per essere uccisi da due soldati che stanno sopraggiungendo. Nelle tre figure devono essere riconosciuti Crispo, Crispiniano e Benedetta, che secondo il fantasioso romanzo furono associati al martirio dei nobiluomini Giovanni e Paolo, suppliziati nella loro casa del Celio per essere stati sorpresi mentre elargivano le loro ricchezze ai poveri cristiani. Un frammento d’intonaco dipinto fu rinvenuto durante alcuni lavori sulla via Cristoforo Colombo a Roma. L’affresco, riferibile al tardo IV secolo, è ora conservato nelle vicine catacombe di S. Tecla, presso S. Paolo fuori le Mura. Al centro del quadro è rappresentata una donna sontuosamente vestita di tunica e palla (la sopravveste femminile) nell’atteggiamento della preghiera, mentre un uomo la tira violentemente per un braccio. L’immagine è stata ipoteticamente legata al martirio di una Tecla romana che, forse, morí durante la persecuzione di Diocleziano e fu sepolta nell’omonimo cimitero della via Ostiense. Purtroppo, nessun’altra fonte ci soccorre per delineare meglio la sua personalità e per comprendere la dinamica del supplizio.

Da schiavo a pontefice Sulla via Aurelia antica fu scoperta, negli anni Sessanta del Novecento, la tomba di papa Callisto; e precisamente nelle catacombe di Calepodio, dove in corrispondenza del sepolcro, erano affrescati alcuni momenti salienti della vita e della morte del pontefice. Di quella decorazione restano oggi alcuni esigui frammenti, tutti relativi a un ciclo eseguito tra il VI e il VII secolo; tra gli altri, uno risulta molto interessante in quanto vi è rappresentato il pontefice nel momento in cui viene gettato in un pozzo, come ricorda anche l’iscrizione dipinta, in perfetta sintonia con le notizie che ci forniscono le fonti piú tarde.

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Sulla vita e sulla morte del papa, che pontificò a Roma tra il 217 e il 222, abbiamo notizie tanto dettagliate quanto sconcertanti, tutte dovute al presbitero romano Ippolito, che nei Filosofumena lasciò una biografia scritta sicuramente con molto astio nei confronti di Callisto. Questi nacque, dunque, alla metà del II secolo nel quartiere piú popolare di Roma, il Trastevere, da un certo Domizio, forse già convertito, e fu schiavo del cristiano Carpoforo, che gli affidò l’amministrazione delle proprie ricchezze. Secondo Ippolito, il giovane Callisto cercò di fuggire con la cassa e arrivò fino a Ostia, dove però il suo padrone lo raggiunse e lo condannò a girare la macina di un mulino. Carpoforo cercò di riavere il danaro; Callisto non riuscí a restituirlo, per cui fu condannato dal prefetto Fusciano a lavorare nelle miniere della Sardegna. Assieme ad altri cristiani fu liberato per interessamento di Marcia, la concubina dell’imperatore Commodo, e poté cosí fare ritorno a Roma. In quegli anni era papa Zefirino (199 -217), che accolse Callisto nel suo clero, affidandogli la sovrintendenza del cimitero della via Appia che, per questo, prese il suo nome. Nel 217 morí Zefirino e Callisto fu eletto papa con grande invidia di Ippolito, che convinse un piccolo gruppo di cristiani a eleggerlo vescovo e dunque antipapa, mascherando la gelosia con motivi teologici relativi ad alcune eresie che si stavano diffondendo a Roma. Callisto morí il 14 ottobre del 222, presumibilmente nel corso di una sommossa popolare che lo sorprese in Trastevere; per questo, verosimilmente, non venne deposto nel suo cimitero dell’Appia, in quanto i cristiani, impauriti dalla sedizione, evitarono di passare al di là del Tevere con il corpo del papa e cercarono di fuggire dalla porta piú vicina, risalendo il Gianicolo e raggiungendo il cimitero di Calepodio, al III miglio della via Aurelia. Tutte queste notizie, in parte riferite da una passione tarda e romanzata, hanno ora acquisito un certo valore grazie al ritrovamento della tomba del pontefice.

Ritratto di papa Callisto I, olio su tela di Giuseppe Franchi. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.


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Anche le donne nella «candida schiera» di Danilo Mazzoleni

I

l piú antico calendario della Chiesa di Roma, ossia l’elenco delle commemorazioni dei martiri (Depositio martyrum) redatto nel 336, contiene anche sei nomi di donne. È una presenza significativa, che documenta il rilevante apporto femminile a quella che san Gregorio di Tours denominò «la candida schiera degli eletti». In particolare, nel documento ora ricordato si segnala l’indicazione relativa a Perpetua e Felicita, due africane di Cartagine, il cui culto era tanto diffuso da avere raggiunto la stessa Roma nella prima metà del IV secolo. A loro e ai loro compagni, poi, si riferisce uno dei piú antichi testi agiografici che ci siano pervenuti, definito prototipo degli atti dei martiri cristiani. A Cartagine, in seguito a un editto imperiale del 202, tutti coloro che erano sospettati di aderire alla nuova religione dovevano compiere un atto simbolico di sacrificio agli dèi. Fra gli arrestati c’erano Vibia Perpetua, giovane madre di ventidue anni, di famiglia nobile, «di brillante educazione e matrimonio»; una schiava, Felicita, e altri catecumeni che si preparavano a ricevere il battesimo. La loro fede era però già salda e il martirio era motivo di gloria, strettamente connesso al loro impegno cristiano. Perpetua, dapprima trattenuta solo in «custodia libera» (una sorta di arresti domiciliari), viene scongiurata dal padre di recedere dal suo atteggiamento, ma resta salda nei suoi

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propositi, si fa battezzare con Felicita e con gli altri compagni, quindi subisce il giudizio e viene incarcerata in attesa della condanna capitale.

Eroine del cristianesimo Il martirio di Felicita, Perpetua e dei loro compagni avvenne il 7 marzo del 203 e suscitò l’ammirazione di personalità quali Tertulliano e sant’Agostino. A riprova della popolarità del loro culto, si possono ricordare mosaici che raffigurano le due africane nella Cappella Arcivescovile e a S. Apollinare Nuovo a Ravenna, oltre che nella Basilica Eufrasiana di Parenzo, in Istria: tutti documenti riferibili alla prima metà del VI secolo. Il Calendario romano sopra ricordato (noto anche come Cronografo del 354) ricorda il 21

In alto Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico raffigurante una teoria di sante martiri. 561-569. In basso Roma, catacomba di S. Callisto. La tomba di santa Cecilia, le cui spoglie furono traslate da papa Pasquale I nell’821 e deposte nella basilica a lei intitolata nel rione di Trastevere.


gennaio quella che è ritenuta «una delle piú celebri eroine del cristianesimo», sant’Agnese, patrona di Roma con san Pietro, san Paolo e san Lorenzo. Non si hanno molte notizie sicure sulla sua personalità e sulla data esatta del suo martirio, che comunque dovette avvenire durante la persecuzione di Diocleziano. Nel 1728 si scoprí, riutilizzato nel pavimento della basilica dedicata alla santa sulla via Nomentana, un carme fatto incidere da Damaso, il papa poeta, nel quale si riferiscono circostanze rivelate dai genitori di Agnese, giovinetta dodicenne che volontariamente aveva voluto manifestare la proptia fede dinnanzi al magistrato. Condannata a essere arsa viva, la fanciulla rivelò un eccezionale coraggio, difendendo anche il proprio pudore con la lunga capigliatura, che coprí il suo corpo dagli sguardi dei presenti. In tal modo, Agnese divenne anche modello e simbolo di verginità; e in questo senso, la santa viene celebrata da sant’Ambrogio e dallo spagnolo Prudenzio, i quali peraltro alludono a una sua decapitazione e quindi mostrano di rifarsi a una fonte diversa da quella damasiana.

Un culto molto sentito La tomba della martire è localizzabile al primo piano della catacomba della via Nomentana, che poi fu da lei denominata. Agnese fu molto venerata a Roma, ma anche a Ravenna, in Gallia, in Germania e in Africa. Papa Liberio (352-366 ) costruí un oratorio sul suo sepolcro, distruggendo parte delle gallerie cimiteriali circostanti per isolarlo. Alla fine del V secolo il santuario primitivo fu sostituito da una chiesa a unica navata, a sua volta soppiantata dalla basilica a tre navate con abside e preceduta da un nartece, che gli Itinerari medievali definiscono «di mirabile bellezza» e che fu voluta da papa Onorio I (625- 638). Accanto al primitivo oratorio Costantina, figlia di Costantino, aveva fatto edificare una seconda aula cultuale di tipo funerario, a pianta circiforme, ed essa stessa desiderò che il suo mausoleo sorgesse vicino al sepolcro della martire.

La diffusione del culto di sant’Agnese ha anche precisi riscontri iconografici: basti ricordare i numerosi vetri dorati che la ritraggono orante, una pittura della catacomba di Commodilla che la effigia in compagnia di un agnello e il mosaico di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, in cui compare nella processione delle sante. Particolare interesse riveste inoltre una lastra scolpita con la sua immagine a bassorilievo, facente parte verosimilmente di un altare eretto sulla sua tomba e datata all’incirca alla metà del IV secolo. Molto venerata a Roma fu ugualmente santa Cecilia, oggi ritenuta patrona della musica, ma senza un preciso riferimento storico. Festeggiata il 22 novembre e deposta nelle catacombe di S. Callisto, sulla via Appia, la santa è titolare anche di una basilica, attestata

Roma, catacomba di Panfilo. Vetro dorato con l’immagine di sant’Agnese in paradiso, fra stelle colombi e rotoli della Legge. IV sec.

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I MARTIRI

In questa pagina reliquiario argenteo con le immagini dei santi Canziani. V sec. Grado, basilica di S. Eufemia. Nel particolare in basso, il busto di santa Canzianilla.

nel quartiere di Trastevere almeno dalla metà del V secolo. Esiste un racconto della sua passione; ma esso è ritenuto in gran parte leggendario e non specifica nemmeno la data esatta della sua morte. L’identificazione della cripta, accanto a quella dei papi, con il suo sepolcro, si deve a Giovanni Battista de Rossi, maestro dell’archeologia cristiana. Si ha notizia di una traslazione del suo corpo nell’821 a opera di papa Pasquale I; e alcuni graffiti, letti sulle pitture di una parete vicina alla tomba, riportano nomi di esponenti del clero e di un notaio che – secondo una suggestiva ipotesi del de Rossi – avrebbero assistito all’operazione. Indizi di culto della santa si possono ritenere le molte sepolture di devozione trovate nell’ambiente (i cristiani ambivano a essere deposti il piú vicino possibile ai martiri) e in special modo alcuni interessanti affreschi: nello

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spazio della svasatura del lucernario che rischiarava la cripta, restauri condotti negli anni Ottanta del Novecento hanno consentito di recuperare un’immagine di santa Cecilia orante, attribuita al V secolo. Un’altra figura simile, ma piú tarda, si trova sulla parete sinistra rispetto al sepolcro venerato, al di sopra di un busto del Cristo dipinto in una nicchietta e vicino a sant’Urbano I, pontefice dal 222 al 230, che la tradizione agiografica leggendaria accomunava alle vicende della martire. È stato anche notato che quest’ultima pittura di santa Cecilia fu fatta su un mosaico precedente, del quale si conservano unicamente le impronte di alcune tessere.

Una parentela discussa Madre di sette figli, che come lei testimoniarono la propria fede con la vita sotto l’imperatore Antonino Pio: cosí una passione presenta la vedova Felicita, deposta nella catacomba di Massimo sulla via Salaria. Pur essendo tale narrazione di buona cronologia (la fine del IV o l’inizio del V secolo), gli studiosi l’hanno giudicata in genere poco attendibile, non tanto per ciò che concerne l’esistenza storica dei personaggi, provata anche archeologicamente, ma per il loro presunto legame di parentela, che sembra ricalcare vicende già note nell’Antico Testamento e relative ai sette fratelli Maccabei. Comunque, secondo tale tradizione, santa Felicita e suo figlio Silano furono sepolti nel medesimo cimitero di Massimo (che in seguito sostituí il nome con quello della santa stessa); gli altri figli Vitale, Marziale e Alessandro nella catacomba dei Giordani; Felice e Filippo a Priscilla, sempre sulla Salaria; e infine Gennaro a Pretestato sull’Appia. La tomba di Felicita fu oggetto di lavori di abbellimento da parte di papa Bonifacio I (418422), mentre in precedenza Damaso aveva fatto apporre un’iscrizione in versi in onore della martire. Bonifacio fece costruire anche un oratorio, nel quale volle essere sepolto. In catacomba si conserva inoltre un affresco, parzialmente rovinato, nel quale si riconoscono


la madre con i suoi sette figli incoronati dal Redentore, opera datata al VII secolo. Anche al di fuori di Roma il numero delle martiri venerate nell’antichità cristiana è tutt’altro che esiguo. Nel territorio di Aquileia, nella località anticamente nota come Aquae Gradata e – oggi San Canzian d’Isonzo, in provincia di Gorizia – fu molto diffuso il culto di tre fratelli, Canzio, Canziano e Canzianilla. Fortunate campagne di scavo consentirono di individuare a nord-ovest della moderna Parrocchiale una basilica rettangolare priva di abside, sorta nella seconda metà del V secolo su una precedente costruzione memoriale della prima metà del IV. All’interno di una tomba nella zona dell’altare si trovarono i resti di tre scheletri, due maschili e uno femminile: evidentemente si trattava dei tre martiri. Questa scoperta rivalutava documenti prima ritenuti leggendari, come le passioni e testimonianze iconografiche come il celebre reliquiario argenteo di Grado, in cui santa Canzianilla e i due fratelli appaiono racchiusi all’interno di tondi. In particolare, il volto della santa appare ieratico e rigido, simile a quello di un’imperatrice bizantina. Probabilmente i santi Canziani furono vittime delle persecuzioni dioclezianee, considerato anche il fatto che l’imperatore soggiornò proprio ad Aquileia fra il 303 e il 304. Un’altra martire che ancor oggi gode di grande venerazione presso i fedeIi è santa Lucia, morta

Siracusa, catacomba di S, Lucia. Particolare del ciclo affrescato che raffigura i Quaranta Martiri di Sebaste. Prima metà dell’VIII sec. Vittime del martirio furono alcuni soldati cristiani di stanza in Armenia che si erano rifiutati di rinnegare la propria fede.

anch’essa sotto Diocleziano il 13 dicembre del 304. La sua tomba è tuttora visibile nella catacomba di Siracusa che da lei prese il nome, ma le sue reliquie furono disperse nel Medioevo fra Venezia, Corfinio e Metz. La piú antica testimonianza del suo culto è costituita da un’iscrizione funeraria siracusana dell’inizio del V secolo, nella quale una fedele, Euskia, ricorda che «morí nella festa della sua signora Lucia», ossia proprio il 13 dicembre. Santa Lucia compare poi fra le sante di S. Apollinare Nuovo a Ravenna e nell’abside della Basilica Eufrasiana di Parenzo; ma si sa anche che papa Onorio I (625-638) le dedicò una chiesa a Roma, mentre un monastero a lei intitolato esisteva a Siracusa nell’epoca di Gregorio Magno (590-604). Purtroppo, la narrazione del suo martirio è ritenuta romanzesca e quindi le circostanze esposte non sono giudicate attendibili.

Fioritura miracolosa Al di fuori dell’Italia, a Merida, in Spagna, si venerò sant’Eulalia, la piú celebre martire della penisola iberica, alla quale Prudenzio dedicò il terzo inno della sua opera Sulle corone. Proprio il poeta parla diffusamente del sepolcro della santa, sito sotto l’altare di una basilica impreziosita da mosaici e decorazioni floreali. Secondo la passione tardiva a lei dedicata, Eulalia si sarebbe offerta volontariamente al martirio a dodici anni, morendo arsa viva il 10 dicembre del 304. Una pia tradizione, riferita da Gregorio di Tours, narra la miracolosa fioritura in inverno di alcuni alberi vicino al suo sepolcro. La traslazione del suo corpo dalla chiesa extraurbana a una urbana ritenuta piú sicura dovette avvenire nell’877, di fronte alla minaccia d’invasioni musulmane. Nella parte orientale dell’orbe cristiano antico si possono almeno ricordare santa Tecla di Seleucia (nell’odierna Turchia), il cui santuario fu molto frequentato dai pellegrini, e le sante Agape, Chione e Irene di Tessalonica (oggi Salonicco, in Grecia): tre sorelle morte il 25 marzo del 304, per le quali ci è stato tramandato il racconto degli atti del martirio in un codice greco della Biblioteca Vaticana.

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VITA QUOTIDIANA

A tavola... senza peccare I pasti degli antichi cristiani non differivano troppo da quelli dei loro contemporanei, fatta eccezione per una maggiore frugalità e per la scelta dei cibi poveri: ce lo ricorda, già nel II secolo, Clemente Alessandrino in un intero capitolo del Pedagogo, una sorta di manuale di comportamento del buon cristiano: «Se gli altri uomini vivono per mangiare – scrive Clemente – noi (cristiani) mangiamo per vivere; per questo la nutrizione deve essere sempre estremamente semplice, mai raffinata, facile da assumere e propizia alla digestione, per evitare qualsiasi indisposizione e per mantenersi sani e sobri». Di conseguenza la vita dei ghiotti è considerata scandalosa, cosi come è condannata ogni scorrettezza nella maniera di comportarsi a tavola,

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ricordando alcune norme elementari ancora valide presso i moderni galatei: astenersi da ogni gesto grossolano o intemperante; non sporcare il letto tricliniare, le mani e il mento; non provocare rumori e non fare smorfie deglutendo; non tendere la mano per avere il cibo se non quando è il proprio turno; non parlare con la bocca piena; non mangiare e bere allo stesso tempo. Il Pedagogo suggerisce anche i cibi base che i cristiani devono consumare: innanzi tutto il pane, che è alla portata di tutte le borse, e il pesce arrostito, in memoria del miracolo della moltiplicazione. Ci si doveva guardare da tutti quegli alimenti che stuzzicavano l’appetito, ma era permesso far uso di cipolle, olive, legumi, latte, formaggio e di vivande cotte, ma senza salse.

Il vino doveva essere bevuto con moderazione: san Paolo raccomanda il vino a Timoteo, ma solo come medicina; il piacere del vino – scrive san Giovanni Crisostomo (IV secolo) – non è male o peccato, mentre lo sono l’intemperanza e l’ubriachezza; san Basilio Magno (IV secolo) ricorda che il vino è dono di Dio e deve essere usato convenientemente. In sintonia con il costume di allora il vino veniva usato in miscela con acqua: berlo puro – come sentenzia ancora san Giovanni Crisostomo – era sinonimo di ubriachezza. Non mancarono taluni movimenti rigoristi che proibirono l’uso del vino, in quanto considerato opera diabolica, e per questo vennero ironicamente definiti aquarii. Presso i cristiani delle origini assunsero un’importanza particolare i


banchetti funebri. Già nel mondo romano – secondo una consuetudine diffusa presso genti e culture di ogni epoca – si usava versare latte e vino sulle tombe o addirittura si immettevano alimenti solidi all’interno di esse mediante un tubo o un foro. Fra i pagani, quindi, per praticare questi riti, amici, colleghi e parenti del defunto si riunivano presso il sepolcro, su una terrazza costruita al di sopra di esso, ovvero sotto tettoie o pergolati, a cui erano annessi pozzi, bancali, giardini e recinti di protezione, come risulta dai rinvenimenti avvenuti presso la necropoli di Porto all’Isola Sacra (vicino all’odierna Fiumicino), sotto la basilica e sotto l’autoparco in Vaticano e sotto il complesso di S. Sebastiano sull’Appia antica. Dopo i riti indirizzati al defunto si iniziava il banchetto vero e proprio, o in onore del defunto stesso o in occasione di ricorrenze comunitarie, che ricordano molto le nostre attuali commemorazioni dei defunti. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, era bandita da questi conviti ogni forma di tristezza; e anzi si coglieva l’occasione per ristabilire la pace in famiglia, tra gli amici e tra gli aderenti a una medesima corporazione. Una ritualità cosí radicata non poteva essere soppressa con l’avvento del cristianesimo, specialmente se si tiene conto che la nuova dottrina si diffuse precocemente presso le classi meno abbienti e piú legate a tradizioni, credenze e superstizioni. I cristiani definirono tali pasti refrigeria: un termine che nel senso stretto e primitivo voleva significare «rinfreschi» per il fisico, ma che presto passerà a indicare il riposo e il sollievo spirituale, per esprimere, infine, la felicità futura, quella paradisiaca. Ma dove si svolgevano questi banchetti? Una pittura del cimitero dei Ss. Marcellino e Pietro sulla via Labicana, datata agli anni 280-300, sembra rappresentare il convito all’aperto, ma con ogni evidenza si tratta di una proiezione simbolica dell’evento nell’aldilà.

Infatti chiare prove archeologiche dimostrano che i banchetti si svolgevano presso la tomba del defunto: nelle catacombe sono tornati alla luce banchi per i commensali, pozzi e condutture d’acqua (come nel cimitero romano di Domitilla sulla via Ardeatina) e speciali tavole rotonde per i conviti comunitari (come nelle catacombe di Malta). Manufatti fissi vennero costruiti anche nei cimiteri all’aperto: mense circolari, lunate e rettangolari in muratura, in marmo scolpito o mosaicate, sono state scoperte nei cimiteri cristiani dell’Africa romana e nel complesso funerario di Camus in Sardegna. Il convito cristiano, pur mantenendo la dinamica e le manifestazioni esteriori di quello pagano, acquista però un nuovo spirito, quello di giovare all’anima del defunto. Per questo i pasti venivano praticati nella ricorrenza della morte dei propri cari: ricorrenza che i cristiani definivano dies natalis, cioè «giorno della nascita» alla nuova vita, quella eterna. La presenza del defunto durante questo pranzo era vivamente sentita: lo dimostrano alcune cattedre scavate nel

tufo nel cimitero Maggiore sulla via Nomentana a Roma. Esse indicavano, con ogni probabilità, il posto riservato al defunto durante il pasto celebrato in suo onore. Ancora piú esplicita risulta, in questo senso, una testimonianza iconografica che ci viene dal già citato cimitero di Domitilla. Si tratta di una incisione su una lastra per la chiusura di un loculo. Un padre vi è colto nel momento in cui brinda in onore della piccola figlia defunta. Anche la bambina compare, ma già in atteggiamento di orante e tra due colombe, quasi per indicare che essa è nello stesso tempo presente simbolicamente al banchetto offerto dal padre, pur avendo già avuto accesso in paradiso. Il padre, inoltre, offre un avanzo del pranzo a un cane, forse particolarmente affezionato alla padroncina. Il pasto (agape) alle origini era molto frugale, una sorta di «pic nic», dove si dovevano consumare prevalentemente pani e pesci, in perfetta sintonia con quanto le fonti indicano per i pasti quotidiani e con le testimonianze iconografiche. In una pittura del cimitero dei Ss.

Sulle due pagine Roma, catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro. Pitture murali con

scene di banchetto, databili tra la fine del III e gli inizi del IV sec.

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VITA QUOTIDIANA

Marcellino e Pietro (III secolo), infatti, una famigliola di tre persone sta per consumare un grosso pesce sistemato su un tripode; in un solo caso a un banchetto funebre, ancora dipinto nel cimitero dell’antica via Labicana (inizi del IV secolo), oltre a un piccolo pane, sta per essere servito un volatile arrostito. Nello stesso affresco e in quelli già considerati si notano servitori e ancelle intenti a portare in tavola o a scaldare il vino, evidentemente già miscelato con acqua entro anfore situate su appositi scaldabevande. Questa pratica è resa esplicitamente in figura, ancora in un affresco della catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro, dove compare un’ancella mentre attinge il vino dallo scaldabevande. In tutti questi affreschi i commensali, posti dietro alle mense semicircolari o sdraiati su lettucci, impartiscono ordini agli inservienti chiamandoli per nome. È il caso di un affresco, sempre del cimitero della Labicana (320-350), che rappresenta il convito di un’intera famiglia, composta da coniugi e da tre figlioletti, i cui gesti vivaci rivolti alla ancelle sono sottolineati dalle didascalie Agape mesce nobis («Agape versaci da bere») e Irene porge calda («Irene servi i cibi caldi» o «la bevanda riscaldata»). Col tempo, questi pasti riservati esclusivamente alla famiglia del defunto, o a un gruppo di fedeli appena piú esteso, divennero un rito ufficiale della comunità per commemorare anche i martiri e assunsero un ruolo di carità pubblica verso gli indigenti. Lo ricorda san Paolino di Nola, riguardo a un invito esteso dal nobile Pammachio a vedove, orfani e poveri, in occasione di un banchetto che egli organizzò a S. Pietro in Vaticano nel 397, in suffragio dell’anima della moglie. Ben presto, però, i conviti funebri raggiunsero eccessi e abusi che misero in guardia la Chiesa, tanto che sant’Agostino, allo scadere del IV secolo, provò a ridimensionare il fenomeno, ma però prendere provvedimenti definitivi che avrebbero presumibilmente causato

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l’esito contrario di un ritorno alle antiche credenze e agli usi pagani. Da allora e sino al VI secolo i banchetti funebri furono praticati con una certa regolarità: mentre l’uso sopravvisse piú sporadicamente in Oriente, sino al XIII secolo. Ma torniamo agli affreschi precedentemente considerati per un esame piú attento. Ci accorgiamo che i nomi attribuiti alle inservienti alludono ai concetti di pace, eternità e convivialità e che il paesaggio campestre, talora scelto per allestire i banchetti, richiama il mondo dell’aldilà. Per questi elementi le scene, pur rispecchiando pratiche quotidiane , assumono anche un carattere simbolico e vogliono esprimere lo stato di benessere spirituale che il defunto è destinato a provare in paradiso. Alcuni affreschi risultano molto espliciti in tal senso: basti pensare alla scena di banchetto dell’ipogeo degli Aureli in viale Manzoni a Roma (240-250), dove un gruppo familiare o religioso è ritratto nel mondo ultraterreno mentre banchetta. In casi simili, il tema del banchetto si allontana dal livello del reale e sospende il linguaggio figurativo tra la pratica quotidiana e la vita eterna. Ciononostante, le scene di convito costituiscono riferimenti figurativi molto preziosi ed estremamente rari alla società cristiana piú antica. Il repertorio iconografico paleocristiano, infatti, se escludiamo alcune scene di mestiere e i ritratti, difficilmente accoglie rappresentazioni della vita reale ed è essenzialmente costituito da scene bibliche e da figure simboliche, in perfetta coerenza con il messaggio salvifico che vuole esprimere la nuova spiritualità cristiana. Fabrizio Bisconti Roma, catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro. L’affresco che rappresenta il convito di un’intera famiglia, composta dai coniugi e da tre figlioletti, i cui gesti vivaci rivolti alla ancelle sono sottolineati dalle didascalie Agape mesce nobis («Agape versaci da bere») e Irene porge calda («Irene servi i cibi caldi»). 320-350 d.C.


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LE CATACOMBE

Un mito da sfatare

L’uso di seppellire i propri morti in cimiteri sotterranei, le «catacombe», fu un tratto distintivo delle prime comunità cristiane. Eppure, quei luoghi sacri e solenni alimentarono, sin dal Medioevo, suggestioni e racconti fantasiosi… di Danilo Mazzoleni

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moderne ricerche archeologiche, che hanno consentito di individuare, lungo le vie consolari che si dipartivano da Roma, una sessantina di nuclei cimiteriali, fra comunitari e privati, completamente indipendenti tra di loro. È impensabile, poi, che masse di cristiani potessero trovare rifugio e sopravvivere, durante le persecuzioni, in ambienti angusti con scarsità di luce e di aria e che per giunta erano ben noti alle autorità, come tutti i luoghi di sepoltura disseminati intorno al centro abitato. Le catacombe, quindi, furono essenzialmente cimiteri, in cui i fedeli andavano a compiere i riti in onore dei propri defunti e a venerare i martiri Ií deposti, nel giorno anniversario della loro morte.

I primi nuclei cimiteriali

I martiri nelle catacombe, olio su tela di Jules-Eugène Lenepveu. 1855. Parigi, Museo d’Orsay.

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el tardo Medioevo e soprattutto nei secoli XVI e XVII, in seguito alle prime esplorazioni, fiorí attorno alle catacombe, ormai da lungo tempo abbandonate, una serie di leggende, alcune delle quali persistono tuttora. In questi ambienti sotterranei i cristiani avrebbero trovato rifugio per scampare alle persecuzioni; lí si sarebbero svolte le loro riunioni liturgiche e si sarebbe organizzata la vita delle antiche comunità. Secondo altre tradizioni, il sottosuolo di Roma sarebbe stato percorso da un’unica fitta trama di gallerie comunicanti tra loro. Quest’ultima falsa credenza è stata smentita proprio dalle

Occorre inoltre tenere presente che le grandi persecuzioni, che interessarono tutto l’impero, furono in realtà solo tre e infierirono sotto Decio nel 250, sotto Valeriano fra il 257 e il 258 e sotto Diocleziano tra la fine del III e i primi anni del IV secolo. A parte fatti episodici, in genere limitati nel tempo e nello spazio, la Chiesa poté godere di lunghi periodi di relativa tranquillità e sviluppare la propria organizzazione. A partire dalla seconda metà del II secolo, ma soprattutto nel corso del III, si svilupparono infatti intorno a Roma, con maggiore o minore intensità, i primi nuclei cimiteriali ipogei (ossia sotterranei), spesso in seguito a donazioni di privati, che misero a disposizione della comunità le loro proprietà. Un’eco di questa usanza si può riconoscere, a quanto pare, proprio nella denominazione di diverse catacombe, come è il caso di Domitilla sulla via Ardeatina, di Priscilla sulla Salaria nova, di Commodilla sull’Ostiense, o di Pretestato sulla via Appia. Potrebbero essere questi, quindi, i nomi dei donatori dei fondi, in cui si svilupparono i cimiteri. In altri casi il sorgere dei nuclei ipogei poté essere favorito dalla preesistenza di gallerie appartenenti a cave abbandonate, o da ipogei pagani già scavati, o ancora dalla presenza di ambienti sotterranei anche di uso residenziale,

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opportunamente adattati (per esempio, il cosiddetto «criptoportico» di Priscilla). Molti cimiteri nascono, però, secondo un piano ben definito, come comunitari, cioè a uso dei fedeli, specie bisognosi, ai quali era necessario garantire una dignitosa sepoltura. È noto anche il caso di aree funerarie meno estese e in genere con particolari caratteristiche, che sorsero e si svilupparono rimanendo sempre proprietà private, come l’ipogeo degli Aureli, quello di via Paisiello o quello di via Latina. Mentre nei primi secoli, per designare i sepolcreti sia all’aperto che sotterranei, fu usato prevalentemente il nome di coemeterium, estraneo al vocabolario pagano, ma che per i cristiani bene definiva il «luogo del riposo» in attesa della resurrezione, il termine «catacomba» (come sinonimo di cimitero) non fu introdotto fino al pieno IX secolo, epoca in cui è attestato in un documento napoletano. In realtà, il toponimo ad catacumbas indicò in origine solo il complesso funerario della via Appia, noto oggi col nome di S. Sebastiano. Di derivazione chiaramente greca (da kata kumbas), l’espressione significherebbe per alcuni «presso l’avvallamento» (una depressione ancora oggi caratterizza il luogo).

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Secondo un’altra teoria, lí sarebbe invece sorto un posto di ristoro con un’insegna, che avrebbe raffigurato due o piú barchette (la parola greca ha, infatti, anche questo significato). Dal cimitero dell’Appia il termine per antonomasia fu applicato in seguito a tutti gli ipogei cristiani. Il sistema di seppellire collettivamente sotto terra non fu certo sconosciuto nel mondo precristiano: lo troviamo, infatti, ampiamente documentato presso gli Etruschi e i Romani. Contemporaneamente agli usi cristiani, si svilupparono poi a Roma e in altri centri catacombe giudaiche con caratteristiche affini.

Sepolcreti comuni In precedenza i fedeli usarono seppellire in aree cimiteriali comuni con pagani (e talvolta con gli ebrei), secondo una consuetudine attestata anche per i due principi degli apostoli, Pietro e Paolo, che furono deposti nelle necropoli subdiali (cioè, all’aperto), rispettivamente della via Cornelia, sul Vaticano e della via Ostiense. Questa costumanza perdurò in alcune zone fino al VI-VII secolo: a tale periodo risalgono sepolcreti comuni ritrovati in Cilicia, nell’odierna Turchia. Sia pure in zone funerarie distinte, i cristiani continuarono a praticare l’usanza di inumare a cielo aperto, anche contemporaneamente all’utilizzazione del sottosuolo (ma questi cimiteri sono oggi perIopiú perduti). È il caso dell’area callistiana, sulla via Appia, che costituisce, fra l’altro, il primo esempio di cimitero, posseduto e amministrato direttamente dalla Chiesa. A esso fu preposto dal papa Zefirino, sullo scorcio del II secolo, il diacono Callisto (in seguito divenuto pontefice), da cui poi l’area funeraria prese il nome. La topografia cimiteriale non presenta caratteri di uniformità, essendo legata a molti elementi condizionanti. In genere, le catacombe urbane sono definite, oltre che da una maggiore estensione, anche da una maggiore regolarità d’impianto delle gallerie, rispetto a quelle suburbane. Spesso articolate su piú piani, fino a raggiungere profondità considerevoli (anche

A sinistra Roma, catacomba di Panfilo. Statuina in osso infissa nella calce di un loculo. III sec. circa.


In alto Roma, catacombe di S. Callisto, la cripta dei Papi. Situate sulla via Appia Antica, le catacombe prendono nome dal diacono Callisto, al quale, all’inizio del III sec., papa Zefirino affidò l’amministrazione del cimitero, che divenne il sepolcreto ufficiale della Chiesa di Roma.

circa 20 m dal livello di campagna), le catacombe solitamente si sviluppano partendo da scale, alle quali si collega la rete delle gallerie, larghe in media all’incirca 1 metro e di altezza variabile, in origine, fra i 2 e i 3 metri, con volta piana o leggermente arrotondata. L’unica fonte di luce e di aria proviene dai «lucernari», pozzi adibiti anche all’estrazione delle terre al momento dello scavo. Il tipo di tomba piu diffuso negli ambulacri è costituito dai loculi, disposti orizzontalmente sulle pareti in diversi ordini sovrapposti e chiusi da materiali di vario genere: lastre di marmo, laterizi, o blocchetti di tufo, in seguito sigillati con calce. In alcuni casi, sulla chiusura veniva steso uno strato di intonaco, su cui poteva essere dipinta in rosso l’iscrizione funeraria; il nome del defunto in altri casi era inciso con

una punta dura sulla calce ancora fresca. Molte volte, però, i sepolcri erano anepigrafi, cioè privi di epitaffi, e questa è una ulteriore prova della grande incidenza dell’analfabetismo nella società antica. In tali frangenti, i parenti dei defunti fissavano sulle tombe dei loro cari, per riconoscerle, oggetti di vario tipo, talora appartenuti allo scomparso, come vetri dorati, giocattoli, statuine d’osso o di avorio, monete fuori corso, recipienti di pasta vitrea, campanelli o conchiglie. Agli angoli delle gallerie, per ovvi motivi di statica, erano di preferenza collocati i sepolcri dei bambini, in grande abbondanza presenti in tutte le catacombe, a ulteriore prova dell’alta percentuale di mortalità infantile che si registrava nell’antichità. I visitatori, oggi, vengono colpiti dall’esiguo

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spessore dei loculi, dovuto al fatto che i corpi vi erano deposti avvolti semplicemente in lenzuola, nelle cui pieghe talora veniva posto uno strato di calce, per ottenere un tipo economico di imbalsamazione parziale. In occasione della sepoltura, veniva fatto largo uso di unguenti e profumi, i cui resti in qualche caso si sono conservati, lasciando impronte nerastre e oleose. Quando si sono trovate gallerie intatte, e non devastate successivamente, si è constatata anche la presenza di lucerne, fissate su piccole mensole all’esterno delle tombe per rischiarare fiocamente le gallerie. Un tipo di tomba piú monumentale, spesso affrescato, è formato da un sepolcro (a uno o piú posti), sormontato da una nicchia arcuata o rettangolare, che prende il nome di arcosolio. Piú raramente sono attestate altre caratteristiche sepolture: a forno (ricavate in profondità nella parete e piú comuni nei cimiteri giudaici); a pozzo (con numerose deposizioni); a baldacchino e a finestra (diffuse in Sicilia e a Malta); a «pila» (formate da piú loculi sovrapposti). Sono da ricordare, infine, le «forme», tombe terragne ricavate nel pavimento delle gallerie. Gruppi familiari o corporazioni potevano disporre di camere sepolcrali semplici o

doppie, di pianta varia, che si aprivano lungo gli ambulacri, con volte e pareti per lo piú dipinte. All’interno di questi vani, elementi architettonici o di suppellettile potevano essere ricavati nel tufo: colonne angolari, mensole, cornici, bancali per pasti funebri. In qualche catacomba, come nel Cimitero Maggiore e a Panfilo si trovano poi le cosiddette «cattedre», ugualmente scavate nel tufo; sedie simbolicamente legate alla presenza del defunto in occasione dei riti funerari in suo onore. Essi consistevano essenzialmente in banchetti, che si riallacciavano alla piu antica tradizione pagana, ma che comprendevano anche celebrazioni liturgiche e la recita di preghiere e salmi, al fine di portare giovamento all’anima del defunto. Queste consuetudini hanno un riflesso anche in molte epigrafi, che parlano di «refrigeri» compiuti con formule beneauguranti per i propri cari (oppure per martiri).

Nei luoghi piú venerati Una delle principali cause di sviluppo di determinate regioni delle catacombe e delle numerose trasformazioni avvenute negli ambienti sotterranei fu proprio la presenza di tombe di martiri, intorno alle quali si sviluppò la venerazione e si addensarono le sepolture.

Roma, catacombe di Domitilla. Il cubicolo di Veneranda e Petronilla. L’intero complesso conta 12 chilometri di gallerie e oltre 26 000 tombe ed è il piú grande e piú antico cimitero sotterraneo dell’Urbe.

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Già papa Damaso, nella seconda metà del IV secolo, particolarmente attivo nell’opera di valorizzazione dei luoghi venerati, creò percorsi speciali per i pellegrini, ampliando le scale già costruite, o costruendone di nuove, e creando basilichette semiipogee o ipogee, per la celebrazione del culto. Quando, nella prima metà del V secolo, in coincidenza con le invasioni barbariche, cessò l’uso di seppellire in catacomba, perdurò

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I piú importanti luoghi del primo cristianesimo a Roma: 1. S. Pietro; 2. Ss. Cosma e Damiano; 3. S. Pudenziana; 4. S. Maria Maggiore; 5. S. Giovanni in Laterano; 6. S. Stefano Rotondo; 7. Ss. Giovanni e Paolo; 8. S. Sabina; 9. S. Paolo fuori le Mura; 10. catacombe di Commodilla; 11. catacombe di Domitilla; 12. catacombe di S. Callisto; 13. S. Sebastiano; 14. catacombe di Pretestato; 15. catacombe della via Latina; 16. catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro; 17. S. Lorenzo; 18. S. Agnese fuori le Mura; 19. Cimitero Maggiore; 20. cimitero anonimo di via Anapo; 21. catacomba di Priscilla; 22. catacomba dei Gordiani; 23. catacomba di Panfilo; 24. ipogeo degli Aureli; 25. ipogeo di via Dino Compagni; 26. catacombe di S. Tecla.

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invece la frequentazione di questi santuari martiriali. Gli Itinerari del VII-VIII secolo, redatti per coloro che si recavano a Roma in visita ai luoghi santi, lo documentano esplicitamente. Il lento, ma progressivo abbandono delle catacombe si attuò a partire dal IX secolo, quando le reliquie dei martiri furono traslate nelle chiese urbane e quegli antichi cimiteri persero, perciò, il loro principale motivo d’interesse.

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L’ARTE DELLE CATACOMBE

Veduta esterna del cubicolo degli Apostoli, nella catacomba di S. Tecla a Roma. Restauri eseguiti con l’ausilio del laser hanno portato alla scoperta di una sorprendente decorazione pittorica risalente alla fine del IV sec.

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Dall’oscurità alla luce

Cosa si nasconde dietro il grandioso patrimonio pittorico racchiuso nelle catacombe cristiane d’Italia? Decenni di indagini e di restauri consentono oggi di scrivere un nuovo, straordinario capitolo della storia artistica tardo-antica: illuminando, cosí, l’evoluzione di un genere in grado di coniugare la tradizione classica con le istanze della nuova religione di Fabrizio Bisconti

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L’ARTE DELLE CATACOMBE

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a piú di un ventennio, i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra (la Sovrintendenza della Santa Sede che, dal 1852, si occupa della tutela delle catacombe cristiane d’Italia), hanno intrapreso un coraggioso progetto di restauro, che ha recuperato gli affreschi catacombali, con particolare riguardo per quelli romani – che ammontano a circa 400 unità monumentali –, ma anche per quelli siciliani e napoletani. Il progetto ha interessato piú della metà del patrimonio pittorico cimiteriale paleocristiano, restituendo un vero e proprio capitolo della storia dell’arte della tarda antichità e, segnatamente, di quella produzione figurativa – perlopiú di ispirazione cristiana – da sempre disattesa oppure studiata da pochi addetti ai lavori che, per troppo tempo, hanno guardato a queste manifestazioni artistiche come a pedisseque traduzioni figurate della fede cristiana, affidando a tali monumenti iconografici un ruolo apologetico e confessionale.

Tutta la città ne parla Tutto ha inizio nel tardo pomeriggio del 31 maggio 1578, quando alcuni cavatori di pozzolana intercettano la galleria di una catacomba, in una vigna romana che apparteneva allo spagnolo Bartolomeo Sanchez. La notizia della scoperta

Una nuova filosofia del restauro La produzione pittorica delle catacombe ha sofferto, nei secoli, offese di ogni tipo, che hanno compreso puliture piú o meno energiche, tali da danneggiare le pellicole pittoriche, ma anche veri e propri distacchi, che hanno provocato perdite, frammentazioni o decontestualizzazioni gravi e irreversibili. D’altra parte, queste pratiche, ben collocabili nell’atmosfera e nella cultura controriformista e nella mentalità, ancora assai confessionale, del Sei e Settecento, sono perdurate sino agli anni Novanta del secolo scorso. Sino a quel tempo, infatti, le pitture furono lavate con acqua e acidi, quando non furono addirittura staccate, ridotte in pannelli e ridipinte da pseudo-pittori o da improvvisati restauratori. Ancora negli anni Settanta del secolo passato, alcuni affreschi romani e napoletani sono stati devastati da queste deleterie operazioni, che ci hanno privato di alcune importanti testimonianze dell’arte cristiana della tarda antichità. Nei primi anni Novanta, con la strutturazione organica della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, nacque una rinnovata coscienza conservativa, che mutava l’atteggiamento cognitivo e scientifico nei confronti dell’immenso patrimonio pittorico delle catacombe cristiane. Facendo tesoro delle esperienze che, attraverso i responsabili

Qui sopra Roma, catacombe di S. Callisto, cubicolo dei Sacramenti A5. Affresco con scena di banchetto. III sec. A sinistra acquerello (non finito) di Carlo Tabanelli per Joseph Wilpert, che riproduce l’affresco della defunta Turtura, nella catacomba di Commodilla. VI sec.

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dell’allora Istituto Centrale del Restauro (oggi Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro), erano state fatte in occasione dei restauri delle tombe etrusche dipinte di Tarquinia e dunque degli interventi eseguiti sugli affreschi conservati in ambienti ipogei con alto tasso di umidità, si iniziarono gli esperimenti, assai cauti e circoscritti, che interessarono alcuni affreschi catacombali, primo fra tutti quello della Madonna con il profeta a Priscilla, una delle immagini piú celebri e piú antiche dell’arte delle catacombe, che risale agli anni Trenta del III secolo. Questi interventi comportarono, innanzitutto, l’asportazione dei «restauri» del passato, che avevano comportato la mutazione cromatica delle pellicole pittoriche, per l’uso indiscriminato di collanti o altri prodotti, che avevano provocato alterazioni di ogni tipo, comunque sempre assai dannose. Si è, poi, proceduto all’asportazione delle patine grasse, dovute all’uso prolungato di torce e lampade dei visitatori, e delle formazioni calcaree prodotte dall’umidità e dalle percolazioni idriche. Queste pratiche sono state effettuate con impacchi brevi e ripetuti di carta giapponese imbevuta di acqua demineralizzata, aiutandosi, poi, con il bisturi per asportare le concrezioni e le patine. Le lacune sono state colmate con materiali naturali in sottosquadro, con colorazioni neutrali, che facilitassero la lettura dell’opera. A questa prassi, nel corso degli ultimi anni, è stato affiancato l’uso della strumentazione laser, già impiegata con buoni risultati per i materiali lapidei. Questa pratica – quando le condizioni microclimatiche lo permettevano – consisteva nella concentrazione del raggio laser sulla patina o sulla concrezione per infrangere la formazione, che obliterava le pitture. Ebbene, molti affreschi catacombali sono stati recuperati nella loro integrità e molte inaspettate e sorprendenti scoperte hanno arricchito il giacimento artistico delle catacombe.

Nella pagina accanto, in alto Roma, catacombe di Domitilla. Affresco nell’arcosolio del cubicolo del fossore (addetto allo scavo delle fosse sepolcrali) Diogene, rappresentato con gli strumenti del mestiere. IV sec. A destra Roma, ipogeo di via Dino Compagni. Il sacrificio di Isacco. Seconda metà del IV sec.

origine spagnola, e il fiammingo Philippe de Winghe, che riprodussero gli affreschi che decoravano gli ambienti ipogei. Quei disegni confluirono nella Roma Sotterranea di Antonio Bosio (1575-1629), l’archeologo maltese che studiò e scoprí molte catacombe romane, ma che al momento della scoperta aveva appena tre anni. Tutte queste figure vanno calate nell’atmosfera controriformista che, a Roma, faceva capo al cardinale Cesare Baronio (1538-1607) e all’oratorio di S. Filippo Neri. Ed è proprio il cardinal Baronio che, facendo riferimento alla subterranea civitas e agli ampliora spatia che stavano tornando alla luce, rileva come questi labirinti ipogei fossero sanctorum imaginibus exornata, fornendo una prova autorevole di

fece il giro della città e una vera e propria folla accorse presso la voragine, che si era aperta sulla via Salaria Nova, tanto che il cardinale Giacomo Savelli – secondo quanto ricordano le cronache dell’epoca e, in particolare, gli Avvisi Urbinati e gli Annales – fece recingere la cava di pozzolana. Il provvedimento, preso dal vicario di papa Gregorio XIII, fu però inutile, in quanto il 2 agosto dello stesso anno, come rievoca uno degli Avvisi Urbinati, laddove erano stati scoperti «alquanti cappelletti e oratori con vaghissimi lavori furono rotti gli steccati fatti lí attorno per ordine del Cardinal Savello». Tra i primi a scendere nella catacomba appena scoperta furono i copisti Alfonso Ciacconio, di

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L’ARTE DELLE CATACOMBE Glossario Arcosolio tipo di tomba monumentale, scavata nel tufo e composta da una sepoltura in piano, incassata in una nicchia generalmente arcuata. Catechesi istruzione religiosa compiuta già nelle antiche comunità cristiane, prima e dopo il battesimo dei fedeli. Cattedra seggio vescovile in legno, marmo o avorio, in genere collocato nell’abside della chiesa che perciò, in quanto sede episcopale, prende il nome di Cattedrale. Ciborio organismo archittettonico normalmente sostenuto da quattro colonne, contenente l’altare nelle antiche chiese cristiane; poteva avere terminazione a volta o a calotta. Cloisonné tecnica di lavorazione dello smalto consistente nella colatura di pasta vitrea in alveoli incisi sulla lamina metallica, cosí da formare motivi decorativi a piú colori. Cubicolo ambiente catacombale di varia dimensione e forma, spesso decorato, in cui erano disposte le sepolture, non di rado appartenenti a famiglie o ad associazioni di mestiere. Eburneo dal latino eburneus, fatto d’avorio. Iconoclasta relativo all’iconoclastia, ossia alla dottrina sorta nell’VIII secolo nella Chiesa orientale, contro le immagini sacre e il loro culto. Iconografia disciplina ausiliaria della storia dell’arte, che studia il significato storico, allegorico, mitologico e religioso delle immagini e ne interpreta il piú profondo significato. Ipogeo ambiente sotterraneo di non estese dimensioni, generalmente a uso sepolcrale, spesso di proprietà privata. Miniatura tecnica pittorica per l’illustrazione di codici su pergamena, eseguita col minio, cioè col colore rosso – da cui sarebbe derivato il termine – e con altri colori vivaci. Monogramma simbolo di un nome formato dalle iniziali o da tutte le lettere che lo compongono, intrecciate fra loro. Il piú noto è quello cristologico, composto dalle prime due lettere greche di Christòs. Musivo relativo a un’opera a mosaico. Nartece avancorpo aderente alla facciata di una chiesa, su colonne o pilastri, coperto da tetto. Niello tecnica orafa consistente nell’incisione del metallo, in cui viene inserita una pasta scura, formata da argento, rame, piombo e zolfo. Pallio sopravveste drappeggiata, portata sopra la tunica nell’abbigliamento maschile, a cui corrisponde in quello femminile, la palla. Paratattico (ordine) composizione figurata in cui gli elementi si affiancano gli uni agli altri sullo sfondo, secondo uno schema rigido. Pisside sorta di cofanetto in argento o avorio, perlopiú per conservare le specie eucaristiche. Presbiterio area degli edifici di culto, che occupa lo spazio circostante l’altare maggiore ed è riservata al clero officiante. Reliquiario cassetta di varia forma e materiale, di solito prezioso, munita di coperchio e adibita a custodia delle reliquie.

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quel culto per le immagini appena definito dal Concilio di Trento (1545-1563). Nei secoli seguenti quelle pitture, tanto preziose per il dibattito controriformista, soffrirono per l’eccessiva attenzione dell’uomo, tanto che, tra il 1600 e il 1700, molti affreschi furono addirittura staccati, sull’onda di un collezionismo nascente e per un insano desiderio di musealizzare queste primitive testimonianze del cristianesimo in luoghi meno angusti e oscuri. Artefici di queste discutibili operazioni, da inquadrare nel piú largo fenomeno legato al traffico dei «corpi santi», furono addirittura i Custodi delle Sacre Reliquie Marcantonio Boldetti e Giovanni Marangoni, i quali presero di mira in particolare le catacombe di Domitilla sulla via Ardeatina. A questo proposito, lo stesso Boldetti ricorda che, mentre si tentava di staccare un’immagine del Cristo, «l’operazione riuscí infruttuosa, essendosi la pittura spezzata in minutissime parti».

Una nuova attenzione Dobbiamo attendere gli anni centrali dell’Ottocento e l’attività del grande archeologo romano Giovanni Battista de Rossi (1822-1894) per rilevare nuova attenzione e rispetto per i monumenti catacombali e anche per gli apparati pittorici che li decoravano. Ma il vero curatore e studioso di questi affreschi, fino ad allora disattesi e manomessi, fu Joseph Wilpert (1857-1944). L’iconografo tedesco si avvalse del contributo dell’acquarellista Carlo Tabanelli, che si occupò di colorare le foto di Pompeo Sansaini, offrendo una documentazione iconografica ancora insuperata. Se le 600 tavole fatte eseguire dal Wilpert rappresentano un gesto documentario all’avanguardia, il pensiero dello studioso tedesco, che si era specializzato in teologia, risentiva ancora pesantemente di quella interpretazione spirituale e catechetica che aveva connotato gli esordi dell’archeologia cristiana. Solo negli anni centrali del Novecento, alcuni studiosi della scuola di Bonn, primo fra tutti Theodor Klauser (1894-1984), liberarono l’arte


Tavola a colori che mostra l’archeologo Giovanni Battista de Rossi mentre mostra a papa Pio IX la cripta dei papi, da lui scoperta nel 1852 nelle catacombe di S. Callisto. 1923.

paleocristiana e, dunque, anche la pittura delle catacombe, da quelle superfetazioni ideologiche che ne avevano fatto una vera e propria «espressione artistica» dei dogmi e dei misteri del cristianesimo controriformista.

Fra tradizione e innovazione Oggi si guarda all’arte delle catacombe come a una manifestazione figurativa che si cala coerentemente nella produzione artistica della tarda antichità, attingendo alle stesse maestranze, allo stesso stile, talora agli stessi schemi e perfino ai medesimi temi. I fondali dei cubicoli e degli arcosoli dipinti, infatti, accolgono elementi desunti dal piú tradizionale repertorio ellenistico a carattere cosmico, dionisiaco, filosofico e pastorale, anche se, a partire dai primi anni del III secolo, entrarono, prima con cautela e, poi, in maniera esplicita i simboli, le personificazioni, i temi ispirati propriamente al cristianesimo. Per l’intero corso del III secolo, le pitture delle catacombe mostrarono una declinazione

figurativa complessa, che faceva convergere i grandi temi della tradizione romana, riferibili alla vita quotidiana, ma anche alla dimensione oltremondana. La grande rivoluzione tematica, però, è rappresentata dall’introduzione delle scene bibliche, che colgono l’esito positivo della soluzione salvifica: Daniele tra i leoni, Noè nell’arca, Susanna tra i vecchioni, il sacrificio di Abramo, i fanciulli nella fornace, la storia di Giona, la resurrezione di Lazzaro, la Samaritana al pozzo, la guarigione del paralitico, il battesimo di Cristo, la moltiplicazione dei pani, Mosè che batte la rupe. Non mancano però personificazioni e simboli che alludono in maniera allegorica al largo concetto della pace e della condizione paradisiaca, a cominciare dall’orante e dal Buon Pastore e concludendo con l’ancora, il pesce e la colomba. Tutte queste immagini rappresentano un vocabolario figurativo, a un tempo rivoluzionario e innovativo, ma anche sensibile al piú largo repertorio iconografico che caratterizza la civiltà artistica della tarda antichità.

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Quando il laser «scoprí» i volti degli apostoli...

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el tardo pomeriggio del 19 giugno del 2009, mentre i restauratori della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra stavano recuperando la decorazione pittorica di un cubicolo delle catacombe di S. Tecla sulla via Ostiense, obliterata da una inattaccabile patina nera, i lunghi e, fino a quel momento, poco fortunati lavori, furono fermati per una sensazionale scoperta. Da qualche giorno erano stati abbandonati i materiali tradizionali che avevano solo alleggerito lo strato scuro, senza però giungere alla superficie pittorica, per sperimentare, per la prima volta in catacomba, l’uso del laser. Con questo nuovo strumento, che asportava

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rapidamente la patina scura, si riscoprirono, finalmente, le pitture blindate da secoli, seppur intraviste sin dal Settecento e «lavate» durante gli anni Settanta del secolo scorso, con minimi impercettibili risultati. Già nella mattinata di quel venerdí estivo, nella volta del cubicolo era tornato alla luce il volto intimidente dell’apostolo Paolo, circoscritto da un clipeo giallo oro, su un intenso fondo rosso cinabro (vedi foto qui sotto). Il viso

Sulle due pagine immagini del cubicolo degli Apostoli nella catacomba di S. Tecla, a Roma. In alto, gli affreschi «riscoperti» nel 2009; in basso, una fase dell’intervento di restauro sul volto di san Paolo, condotto con l’ausilio del laser; nella pagina accanto, il maestoso affresco del collegio apostolico, all’ingresso del cubicolo.


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Catacomba di S. Tecla Opus reticulatum del I secolo Mausolei pagani Muro di recinzione e sostenimento dell’area cristiana Murature della Basilica sotterranea Muro di chiusura dell’ingresso primitivo Mausoleo cristiano addossato alla Basilica Restauri antichi della Basilica Muretti delle forme Muri di chiusura dei cameroni cimiteriali CUBICOLO DIPINTO

Il cubicolo interessato dal restauro venne realizzato da una ricca famiglia cristiana, desiderosa di riposare nei pressi del luogo in cui si venerava la martire Tecla dell’apostolo delle genti, riconoscibile dalla calvizie e dalla scura barba, impressionò i restauratori, che si sentirono osservati da uno sguardo bruciante ed estremamente espressivo, tanto che avvertirono i responsabili della Commissione, che accorsero per verificare l’importanza della scoperta.

Un’area periferica Per un anno intero i lavori dei restauratori, che avevano raffinato l’uso del laser, interessarono l’apparato pittorico di tutto l’ambiente dipinto, che si presentava come un cubicolo doppio, realizzato in un’area periferica della catacomba negli ultimi anni del IV secolo. Qui una ricca famiglia cristiana volle allestire la propria tomba

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presso il centro cultuale di S. Tecla, una santa che dobbiamo identificare piuttosto con una martire romana che con la seguace dell’apostolo delle genti. L’intervento conservativo ha restituito un complesso progetto decorativo, che denuncia due fasi ben distinte. Il primo ambiente, che presentava due arcosoli e che prevedeva un intonaco di fondo chiaro, venne affrescato in maniera molto naïve in età tardo-costantiniana, con l’immagine di un Cristo maestro, una resurrezione di Lazzaro, un Daniele tra i leoni e il Buon Pastore. Di lí a poco, nell’ultimo scorcio del IV secolo, questa camera funeraria fu dotata di un ampio lucernario e fu allargata tramite l’apertura di un secondo ambiente.


La porzione inferiore del lucernario fu decorata con un maestoso collegio apostolico, sistemato in un ambiente ameno, attraversato dalle acque del fiume Giordano (vedi foto a p. 101). La scena, molto frequente nelle catacombe romane, costituisce un potente manifesto politico-religioso antiariano, creato seguendo lo schema aulico dell’arte imperiale, nonché del consesso filosofico e inventato, con tutta probabilità, per decorare le absidi dei primi edifici di culto. Ma le grandi sorprese sono venute dal restauro del cubicolo piú interno, che, dopo il trattamento al laser, ha mostrato una delle manifestazioni piú vivaci, festose e preziose della pittura cimiteriale romana, soprattutto per la scelta cromatica, che include il rosso cinabro e il rarissimo nero fumo, accanto al giallo oro, all’azzurrite e al verde smeraldo (foto a p. 100, in alto). Questo intenso spettro di colori dipende dall’emulazione degli arredi dei monumentali mausolei del sopratterra che costellavano le aree circostanti le necropoli sorte attorno ai santuari del suburbio romano: In questa pagina altre immagini della catacomba di S. Tecla. In alto, la volta del cubicolo degli Apostoli: al centro, il Buon Pastore; nei clipei laterali, gli apostoli Pietro, Paolo, Giovanni e Andrea; a sinistra, arcosolio affrescato con l’immagine del Cristo Maestro.

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L’ARTE DELLE CATACOMBE

Una signora della «Roma bene» Nelle pareti del cubicolo degli Apostoli, nel cimitero di S. Tecla, sfilano le tradizionali scene bibliche: dalla storia di Giona all’adorazione dei Magi, dalla condanna di Daniele ad bestias al prodigio della fonte provocato da Pietro nel carcere Tullianum per i suoi carcerieri (foto a sinistra), ispirato agli scritti apocrifi, sino al classico sacrificio di Isacco. Nell’arcosolio destro, infine, nonostante il cattivo stato di conservazione, si riconosce la rappresentazione della defunta, che si presenta sontuosamente abbigliata e ingioiellata, in compagnia della giovane figlia in atteggiamento di orante, tra i principi degli apostoli (foto nella pagina accanto). Il rango e il potenziale economico, che appartengono all’anonima matrona romana per la quale fu commissionato il doppio cubicolo dipinto, ci accompagnano verso l’aristocrazia romana della fine del IV secolo e, in particolare, verso quel gruppo di signore romane, che, proprio in quel frangente, inaugurarono nell’Urbe una forma di «ascetismo domestico». Queste matrone della «Roma bene», in particolar modo vedove e vergini, formarono una specie di «circolo culturale» e cultuale nei sontuosi palazzi dell’Aventino, dove si dedicano allo studio dei Sacri Testi e da dove si dirigono, ispirate da san Girolamo, verso la Terra Santa, per conoscere i luoghi evocati dalla Bibbia, ma anche i luoghi degli apostoli. Per questo, presumibilmente, la matrona di S. Tecla vuole che si rappresentino nel suo cubicolo le immagini di quattro apostoli, che assurgono a suoi protettori e che traducono in figura una devozione apostolica, che aveva avuto avvio con la basilica che Costantino fece costruire e dedicò agli apostoli a Costantinopoli. Quest’ultimo santuario, a pianta cruciforme, accolse, oltre alle reliquie apostoliche, anche il corpo dell’imperatore e divenne modello per altri edifici di culto sparsi nel mondo cristiano antico, a cominciare dalla basilica Apostolorum, pur essa a pianta cruciforme, voluta a Milano da sant’Ambrogio.

primo fra tutti quello dedicato a san Paolo, di impianto costantiniano, ma ampliato e ristrutturato tra la fine del IV e gli esordi del V secolo, proprio in concomitanza con la decorazione del nostro cubicolo.

A immagine delle grandi basiliche Quest’ultimo, infatti, presenta, negli spazi aniconici, festoni di frutta e di fiori popolati di volatili, ma anche riquadri di finto marmo, come per imitare le decorazioni in opus sectile del tempo, prime fra tutte quelle della domus ostiense di Porta Marina e della basilica romana di Giunio Basso. Anche il soffitto a cassettoni dipinti ricorda le

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coperture delle grandi basiliche del IV secolo, a cominciare da quelle del complesso di Treviri e delle aule teodoriane di Aquileia. Il cassettonato dipinto sembra emulare il soffitto prezioso ammirato dal poeta iberico Prudenzio quando visitò la basilica di S. Paolo, voluta dai tre imperatori Teodosio, Valentiniano II e Arcadio negli ultimi anni del IV secolo. Purtroppo quella basilica è stata completamente distrutta dal rovinoso incendio del 1823, ma dalle testimonianze grafiche e dalle poche porzioni pittoriche superstiti sappiamo che le pareti del santuario paolino erano interessate da cicli biblici e da una interminabile teoria di clipei,

Affresco raffigurante la scena del miracolo della fonte, con san Pietro che fa scaturire l’acqua mentre un milite si disseta, che fa parte anch’essa delle pitture conservate nel cubicolo degli Apostoli della catacomba di S. Tecla.


L’arcosolio destro del cubicolo con rappresentata la defunta (un’anonima matrona) in compagnia della figlia, tra Pietro e Paolo.

in parte ancora conservati, con le immagini dei pontefici romani.

Nuove fisionomie Ebbene, anche nel complesso catacombale di S. Tecla, nella volta decorata dal finto cassettonato di cui si diceva, si incontrano cinque clipei, dei quali il centrale e piú grande accoglie l’immagine cristologica del Buon Pastore e i quattro laterali le effigi di Pietro, Paolo, Giovanni e Andrea (foto a p. 103, in alto). Se la fisionomia dei principi degli Apostoli era già definita, nota e diffusa, quella di Andrea – dal volto maturo e corrucciato –, e quella di Giovanni – giovane ed esangue –

rappresentano vere e proprie novità. Essi, infatti, fecero la loro comparsa, solo molto piú tardi, nell’arte musiva ravennate e, segnatamente, nell’oratorio di S. Andrea e nella basilica di S. Vitale. La scoperta degli affreschi riveste perciò un doppio motivo di interesse: da una parte appaiono, per la prima volta, i busti di ben quattro apostoli, dimostrando il crescente culto per queste figure sante; dall’altra si dà inizio alle teorie apostoliche, incluse entro il segno antico, ma simbolico, del clipeo, il cui significato apoteotico conferí a queste immagini una potenza esponenziale, capace di attrarre culti e devozione.

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L’ARTE DELLE CATACOMBE A

B

FILOSOFO Ipogeo degli Aureli

C

ABRAMO Catacombe di Priscilla

Volti e sguardi di un’epoca travagliata Il ritratto della matrona di S. Tecla introduce un argomento affiorato negli ultimi anni. Gli iconografi del passato erano cosí impegnati a comprendere i significati simbolici delle singole scene da porre pochissima attenzione agli aspetti stilistici di questa «pittura nel buio», realizzata rapidamente e poco sensibile alle coordinate figurative emergenti nelle diverse stagioni della pittura catacombale. Eppure, a un esame analitico, sono ben evidenti i tracciati figurativi di questa particolare produzione artistica, tanto che le evidenze formali possono assurgere a veri e propri indicatori cronologici. È evidente, per esempio, l’armonia che connota la pittura del III secolo e, dunque, gli affreschi della prima età delle catacombe romane. Le espressioni piú significative di questo primo segmento dell’arte dei Severi provengono dalle fisionomie e dai ritratti e, in particolare, dai volti di alcuni personaggi defunti nell’ipogeo degli Aureli in viale Manzoni (vedi alle pp. 110-111), che non può essere considerato un monumento cristiano. Il volto di uno di questi personaggi è diventato un emblema del III secolo,

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DEFUNTA Catacombe di Priscilla

quasi per tradurre in figura un tempo di crisi economica, politica e spirituale (A). L’espressione pensosa di questo personaggio fece ipotizzare, in passato, che nella figura doveva essere riconosciuta la complessa personalità di san Paolo. L’uomo è anziano, con calvizie incipiente e barba incolta, ma tutta l’intenzione espressiva, che oscilla tra l’atteggiamento patetico e quello ispirato, quasi pneumatico, si concentra in quello sguardo inquieto, obliquo, puntato verso un luogo lontano e indefinito. Quegli occhi, quasi dolenti, sono il fuoco di una serie di pennellate che creano linee concentriche, come per sottolineare, con lumeggiature chiare, quello sguardo concentrato e volitivo. La composizione sapiente di questo volto rivela l’attività di pittori estremamente disinvolti e sapienti, che adattano la loro tecnica rapida e sicura nell’habitat particolare e difficile delle catacombe, dove si inaugura un’inedita «pittura della penombra». Questo primo segmento dell’arte delle catacombe, che, dal tempo dei Severi giunge all’impero di Gallieno, propone volti coerenti nell’espressione e nelle fisionomie. Talora, tali realizzazioni provengono da una scomposizione della pittura, approdando a una sorta di divisionismo cromatico, che si apprezza e ricompone proprio con la luce tremula delle lucerne. È questo il caso dei volti

D

PIAGNONA Catacomba dei Giordani

della decorazione pittorica del cubicolo della Velata nella catacomba di Priscilla e, segnatamente, del viso di Abramo nella scena del sacrificio di Isacco (B). L’anziano patriarca mostra un’espressione addolorata e compresa, attraverso un gioco sapiente di sovraccoloriture che segnano, con tratti incisivi e forti, il carnacino di fondo per mezzo della calce candida. Nello stesso complesso troviamo i volti della defunta (C), colta in tre momenti del suo percorso terreno, con i tratti, la fisionomia, l’espressione e lo sguardo delle dame di corte del tempo di Gallieno. Quiete e tensione si intrecciano, pacatezza e spiritualità interagiscono, dando luogo a volti tesi e intensi, a espressioni contenute, ma pronte ad aprirsi verso un ragionamento religioso, che sfocia nel pensiero cristiano. Passa il tempo e i ritratti diventano piú forti, sino a raggiungere i livelli alti, quasi imbarazzanti dell’espressionismo. Siamo al tempo dei Costantinidi e i defunti mostrano espressioni tirate, occhi maggiorati, dal taglio obliquo, rughe d’atteggiamento profonde, acconciature ricche e turrite, sontuose, quasi volgari. In questo senso vanno considerate le «piagnone» del cimitero dei Giordani (D) e la Severina dell’ex Vigna Chiaraviglio (E). Quest’ultima defunta, rappresentata


E

F

SEVERA Catacomba dell’ex Vigna Chiaraviglio

nello scorcio del IV secolo, mostra una folta acconciatura «cotonata» e azzurrina, per attutire la canizie. Nello stesso contesto, il marito (F) e il figlio (G) presentano ovali allungati ed espressioni languide, quasi per emulare i ritratti ufficiali del tempo di Teodosio. Ma torniamo alla matura età costantiniana e all’ipogeo di via Dino Compagni, che conserva una vera e propria galleria di ritratti e fisionomie di varia ispirazione e diversa tipologia. Da una parte, apprezziamo lo sguardo DEFUNTA Ipogeo di via Dino Compagni

PRIMENIO Catacomba dell’ex Vigna Chiaraviglio

ispirato della fanciulla dall’acconciatura a melone (H), dall’altra intercettiamo il volto glabro e la corta acconciatura del Cristo (I) a colloquio con la Samaritana al pozzo, che ricordano, l’uno e l’altra, i ritratti ufficiali dei Costantinidi. Da un lato, rimaniamo sorpresi dall’ovale della personificazione della Tellus (L), un tempo considerata Cleopatra, con gli occhi bistrati e l’espressione fissa, come i ritratti africani del Fayyum, dall’altro spunta il volto severo e

CRISTO Ipogeo di via Dino Compagni

H

I

G

FIGLIO Catacomba dell’ex Vigna Chiaraviglio

graffiante di Sansone (M) che uccide i Filistei, con uno sguardo funesto e icastico, che sembra preparare le effigi intimidenti delle icone. Nei labirinti delle catacombe, dunque, si accendono sguardi ed espressioni d’epoca, che, imitando i ritratti imperiali, ma anche le fisionomie private, propongono un ricco spettro di volti e atteggiamenti, i quali esprimono sentimenti e storie di un’epoca travagliata, complessa, tesa verso una dimensione altra, lontana, indefinita.

TELLUS Ipogeo di via Dino Compagni

SANSONE Ipogeo di via Dino Compagni

L

M

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L’ARTE DELLE CATACOMBE

Lazzaro e la matrona

N

egli ultimi mesi del 2013, i tecnici della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, mentre allestivano il museo dei marmi nella basilica di S. Silvestro, soprastante le catacombe di Priscilla, si proposero di restaurare un cubicolo dipinto nell’area cosiddetta di Crescenzione, non lontano dalla basilica che accoglieva le spoglie del pontefice Silvestro, vissuto al tempo di Costantino. Il cubicolo era completamente ricoperto da una spessa patina nera, che solo l’uso del laser riuscí ad aggredire. In pochi mesi tornarono alla luce alcune suggestive pitture riferibili agli ultimi anni del IV secolo, che testimoniavano il culto per i martiri Felice e Filippo, seppelliti proprio nella basilica, presso i sepolcri pontifici. Sulla parete di ingresso è oggi evidente una maestosa resurrezione di Lazzaro, già intravista da Joseph Wilpert, che la aggredí con energici lavaggi, danneggiandola, senza riuscire ad arrivare alle pellicole pittoriche (foto nella pagina accanto).

Martiri e apostoli come protettori Ma le vere novità sono venute dalla volta, dove, con colori vivaci, assai prossimi a quelli del cubicolo di S. Tecla, si riconosce, al centro, un clipeo campito da una matrona velata e orante. Ai suoi lati, si riconoscono i principi degli apostoli, un fanciullo e una fanciulla, sontuosamente vestiti e anch’essi oranti, e due figure maschili in tunica e pallio chiari, da

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riconoscere con i santi Felice e Filippo (foto in alto, sulle due pagine). A questi due martiri il papa Damaso (366-384) dedicò un solenne epigramma inciso, oggi perduto. I due santi, nel tempo, entrarono nel gruppo agiografico di Felicita e dei suoi sette figli, ispirato alla storia dei Maccabei. La defunta, sepolta nel cubicolo di Lazzaro insieme ai figli, scelse come santi protettori, oltre ai principi degli apostoli, i due martiri. Essa, però, sembra rispettare anche l’altro martire sepolto nella regione, quel Crescenzione che venne ucciso durante la persecuzione dioclezianea e deposto non lontano dal nostro cubicolo dipinto.


Sulle due pagine immagini delle catacombe di Priscilla, situate sulla via Salaria, a Roma. Dalla pagina accanto, in senso orario, una galleria con loculi; la volta affrescata di Priscilla del cubicolo di Lazzaro, con un clipeo centrale che rappresenta la defunta, velata e orante, attorniata da oranti e santi; a destra, la parete d’ingresso del cubicolo, con la scena della resurrezione di Lazzaro.

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L’ARTE DELLE CATACOMBE

Fra tradizione aristocratica ed egualitarismo

A destra, sulle due pagine I cubicoli B e C dell’ipogeo di via Dino Compagni (Roma), decorato con scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. Databile al IV sec., il complesso appartiene alla categoria degli ipogei di diritto privato.

La tecnica del restauro condotto con l’ausilio del laser è stata sperimentata con successo anche nell’ipogeo degli Aureli, situato in viale Manzoni. Questo complesso sotterraneo si propone come un esempio emblematico del sistema funerario di diritto privato, cosí come si configura nella tarda antichità. Queste piccole realtà funerarie ipogee, riferibili a singole unità familiari o a gruppi appena allargati, costituiscono spesso i nuclei genetici delle grandi catacombe comunitarie, come succede con l’ipogeo degli Acilii nella catacomba di Priscilla o con l’ipogeo dei Flavii nel complesso di Domitilla. Tra gli ipogei di diritto privato e le catacombe comunitarie emergono differenze intuitive, nel senso che i sistemi privati mostrano caratteri e tipologie funerarie ancora legate alla tradizione aristocratica pagana, mentre i complessi comunitari mettono in pratica quella legge dell’uguaglianza delle sepolture e del concetto dell’abbraccio largo di tutta la A destra ipogeo degli Aureli, Roma. Il primo ambiente del complesso sotterraneo, con il mosaico sul quale si possono leggere i nomi dei proprietari. In basso affresco del primo ambiente dell’ipogeo con una scena di prothesis (esposizione) dei fratelli defunti di Aurelia.

comunità, che rappresentano la vera rivoluzione dell’ideologia funeraria cristiana. Queste differenze rimbalzano sulle caratteristiche architettoniche e decorative. Gli ipogei di diritto privato mostrano piccole estensioni, architettura negativa articolata, apparati decorativi originali e piú liberi nella selezione dei temi, che tengono

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conto delle esigenze della committenza e degli artifices. Le catacombe comunitarie sviluppano – come detto – grandi aree interessate da casellari quasi anonimi di loculi, con poche eccezioni monumentali. Le decorazioni sembrano rispondere alle esigenze della gerarchia, che gestisce il cimitero e che apre presto le porte al


repertorio biblico, simbolico e salvifico. Gli ipogei di diritto privato non vogliono sempre esprimere una fase antica e genetica rispetto alle catacombe comunitarie e anzi, ancora nella seconda metà del IV secolo, l’ipogeo di via Dino Compagni sulla via Latina (vedi foto in alto, sulle due pagine) dimostra come un ipogeo

privato, seppure presumibilmente riferibile a un gruppo di famiglie, propone ancora tutti i caratteri tipologici, architettonici e decorativi di questa tipologia funeraria. Ma questo ipogeo racconta una storia piú complessa, ovvero il travaglio e la laboriosità della conversione degli ultimi pagani: i vari cubicoli sono

decorati con cicli veterotestamentari, scene del Nuovo Testamento, storie di eroi pagani, miti e contesti cosmici. Tutto questo suggerisce un’atmosfera di grande tolleranza (che ancora si «respira» nell’ipogeo), forse riferibile, nella sua genesi e nel primo sviluppo, al tempo che vede il revival pagano di Giuliano l’Apostata.

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grande metamorfosi La

A Roma, l’avvento del cristianesimo ebbe effetti vistosi e profondi anche sul piano urbanistico e architettonico: la città fu in larga parte rimodellata e vide sorgere nuovi e spesso grandiosi luoghi di culto. Trasformandosi al contempo in una meta irrinunciabile per pellegrini provenienti da ogni parte del mondo testi di Lucrezia Spera, Umberto Utro e Alessandro Vella

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A

chi vi fosse giunto durante il regno di Carlo Magno, Roma sarebbe apparsa completamente trasformata nel paesaggio urbano: una fitta rete di chiese era sorta nel corso dei secoli, dentro e fuori le mura, a partire dagli anni della «svolta» con cui Costantino, promulgando l’editto di tolleranza del 313, aveva favorito la definitiva visibilizzazione del cristianesimo. L’antica capitale dell’impero si era trasformata nella città degli apostoli e dei martiri. Alle soglie del IX secolo, la sua immagine esterna e la sua perimetrazione – ancora costituita dalle mura volute alla fine del III secolo dall’imperatore Aureliano e continuamente restaurate – si conservavano pressoché intatte, interventi di manutenzione avevano garantito il funzionamento dei principali acquedotti e di alcune infrastrutture e il tessuto urbanistico risultava ancora segnato da molti edifici antichi (terme, teatri, circhi e stadi, l’Anfiteatro Flavio), non piú in funzione e prestati a riutilizzi di vario tipo. In questo quadro, le novità piú significative erano le numerose fondazioni ecclesiali e gli organismi di servizio a queste afferenti – il quartiere episcopale, le chiese titolari e le diaconie, i monasteri, i centri per l’assistenza a poveri, malati e stranieri, le basiliche e gli oratori devozionali e martiriali –, che riassumevano i caratteri della rinnovata identità cittadina. Durante il Medioevo, nell’immaginario collettivo recarsi a Roma arriva significativamente a identificarsi con l’«andare alle tombe degli apostoli» (ire ad limina apostolorum), espressione ricorrente nelle fonti letterarie coeve. Pochi secoli per attuare il sogno di Costantino. O addirittura per superarlo.

Città del Vaticano, Stanze di Raffaello, Sala di Costantino. Particolare della Battaglia di Costantino contro Massenzio, affresco eseguito dagli allievi di Raffaello, sulla base di disegni del maestro, morto prematuramente prima della fine dei lavori (1520).

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ROMA CRISTIANA

Da capitale dell’impero a città di Pietro di Lucrezia Spera

A

ll’indomani della sconfitta di Massenzio (312), Roma era libera e pronta per essere rimodellata dal vincitore, Costantino. Nell’edilizia pubblica, il legittimo imperatore non interviene con intenti innovativi: i suoi progetti tendono perlopiú a sovrapporsi a quelli di Massenzio e, cosí, anche l’espressione piú eloquente dell’impresa di rilancio monumentale dell’Urbe attuata dal secondo, la grande aula giudiziaria della prefettura urbana sulla Velia, venne affidata ai posteri con l’etichetta di «basilica costantiniana». Gli elementi di novità del progetto di Costantino si riconoscono nella promozione dei cantieri per la costruzione di chiese, che, per alcuni decenni dopo il 313, interessarono Roma e il suburbio. La biografia di papa

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Plastico del mausoleo di Elena, madre di Costantino, innalzato lungo la via Labicana, a Roma.

Silvestro compresa nel Liber pontificalis (VI secolo) attribuisce all’imperatore e alla sua famiglia la realizzazione di varie basiliche («fecit Constantinus Augustus basilicas istas»): la chiesa episcopale del Laterano con l’annesso battistero (S. Giovanni in Laterano), la basilica sulla tomba dell’apostolo Pietro, quella, piú piccola, sul sepolcro di Paolo, su espresso suggerimento del papa, l’oratorio per il culto della Croce nella residenza costantiniana del Sessorium, presso l’odierna porta Maggiore (S. Croce in Gerusalemme); ancora, le basiliche suburbane attratte dalla presenza di tombe di martiri venerati, cioè la chiesa della Nomentana dedicata ad Agnese, per esaudire la richiesta della figlia Costantina, quelle sulla Tiburtina di S. Lorenzo e sulla Labicana (attuale Casilina) dei Ss. Marcellino e Pietro, costruita insieme al mausoleo della madre Elena. A tali opere va affiancata, con buona sicurezza, malgrado il silenzio


della biografia, la realizzazione della basilica dedicata a Pietro e Paolo al III miglio della via Appia (l’odierna S. Sebastiano), progetto capace di concedere migliore rilievo monumentale a un piú antico luogo per il culto congiunto dei due apostoli, senza poi dimenticare anche il contributo dell’imperatore nelle imprese edilizie del successore di Silvestro, il papa Marco, la chiesa urbana presso le pendici del Campidoglio (S. Marco a piazza Venezia) e l’impianto cimiteriale della via Ardeatina, con la sepoltura dello stesso vescovo.

Espressioni di potere Ciascun progetto portava, ben impresso, il marchio imperiale. Ogni nuova chiesa rievocava, nelle dimensioni smisurate e nelle forme delle architetture, nei programmi decorativi, nei preziosissimi arredi donati, d’oro e d’argento, valori e significati ben presenti nell’immaginario collettivo come espressioni di potere. L’intento primario di

Il monumentale sarcofago in porfido rosso destinato ad accogliere le spoglie di Elena, morta intorno al 335 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino.

Costantino, scrive Eusebio di Cesarea, suo biografo (e apologeta), era quello di attribuire una monumentalità senza precedenti agli edifici per il culto cristiano. Le basiliche romane, con le loro volumetrie del tutto inedite nell’architettura cristiana (basilica lateranense: 100 x 56 m, h. 27 m; S. Pietro: 123 x 66 m; complesso dei Ss. Marcellino e Pietro: basilica, 65 x 29 m, mausoleo Ø 20 m; complesso di S. Agnese: basilica, 98 x 40 m, mausoleo Ø 37 m; basilica Apostolorum: 73 x 30 m), ingombravano ampi spazi dei quartieri nei quali erano state erette, mostrandosi capaci di rivoluzionare la configurazione del paesaggio urbano; esse, in fondo, non sfiguravano affatto – anche per le ricche decorazioni interne e i preziosi arredi –, al confronto con le piú prestigiose architetture imperiali del periodo, come la monumentale basilica della Velia (100 x 65 m; h. 35 m) o l’aula palatina di Treviri (67 x 28 m; h. 30 m). Anche la scelta di specifiche forme architettoniche va letta entro il programma di attribuire valori indiscussi ai nuovi edifici dei cristiani: l’adozione del modello basilicale in navate con terminazione absidale – al Laterano e nell’impresa sul colle vaticano –, se da una parte prende in prestito dall’architettura civile una soluzione funzionalmente adatta a grandi riunioni e alle esigenze della liturgia, richiama l’immagine delle aule di ricevimento dei palazzi imperiali, i migliori scenari studiati per la manifestazione dell’imperatore nelle sue qualità di essere divino. Le stesse chiese funerarie circiformi, cioè «a forma di circo», rievocavano i luoghi piú direttamente correlati ai rituali del cerimoniale imperiale, compresi quelli per la celebrazione della morte e il culto della memoria, grazie al richiamo alla ciclicità del tempo, e perciò all’eternità, attribuito alle corse e alle strutture che le accoglievano. In alcuni di questi complessi la presenza imperiale è resa piú esplicita dalla scelta di associare alle nuove basiliche funerarie, valorizzate dal legame con un culto martiriale, mausolei destinati a membri della famiglia regnante, previsti, per i promotori

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ROMA CRISTIANA

dell’impresa edilizia, già in fase progettuale: è il caso, per esempio, del monumentale edificio per la sepoltura di Elena, connesso alla chiesa in onore di Marcellino e Pietro sulla via Labicana, che avrebbe forse dovuto accogliere, prima della fondazione della città sul Bosforo, lo stesso Costantino (al quale meglio si addice il prestigioso sarcofago di porfido con scene di battaglia contro i barbari); allo stesso modo, Costantina e sua sorella Elena, entrambe figlie dell’imperatore, avevano scelto per la propria sepoltura nella sede romana il sito presso la basilica dedicata ad Agnese, sulla via Nomentana.

Il «ritorno» degli imperatori Per la famiglia imperiale si tratta di una scelta ideologicamente assai significativa: dopo una fase di grande dispersione (Diocleziano aveva preferito Spalato, Massimiano Milano, Galerio Romuliana, nell’attuale Serbia, Costanzo Cloro, piú logicamente, Treviri), Roma rivendicava il ritorno degli imperatori almeno nella morte, ed è ancora Eusebio di Cesarea a raccontare la delusione dei Romani al desiderio di Costantino di non tornare nell’Urbe, ma di affidare la propria tomba e il culto a essa correlato alla città che ne portava il nome. Anche gli interni delle chiese costantiniane vanno rivisitati all’insegna dei significati nuovi indotti dal protettorato dell’imperatore: acquistarono un ruolo di primo piano programmi iconografici inediti, conformati all’arte di corte. Nell’abside della chiesa costruita sul sepolcro di Pietro venne con ogni probabilità elaborata per la prima volta la scena dell’affidamento della Legge di Cristo all’apostolo (traditio Legis), scena che con sicurezza, sulla base di disegni, la decorava nel Medioevo e che ebbe immediatamente una straordinaria fortuna sia sui sarcofagi, sia in altri monumenti, come il mausoleo di Costantina sulla via Nomentana. Nell’insieme, tuttavia, tale programma di promozione del cristianesimo è stato, fino agli studi piú recenti, da una parte valutato come l’effettivo tentativo di realizzare il «sogno» di

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una Roma cristiana, dall’altra sminuito, attribuendo a Costantino qualche remora e timore nei confronti della parte pagana dell’aristocrazia – giudicata la piú consistente –, tanto da circoscrivere gli interventi costruttivi, pure grandiosi, perlopiú in terreni di proprietà del fisco o direttamente della casa imperiale (cosí alcune delle basiliche «circiformi») o in aree comunque non troppo esposte. Soprattutto, la realizzazione del complesso episcopale in un settore non centrale della città, nella periferia sud-est, a ridosso delle mura aureliane, è apparsa l’atto di un imperatore attento «a non offendere la sensibilità pagana, pur continuando a promuovere la nuova religione» (per usare le parole del grande storico dell’arte tedesco

La scena dell’affidamento della Legge di Cristo a Pietro – la traditio Legis – venne con ogni probabilità elaborata per la prima volta nell’abside della chiesa costruita sul sepolcro dell’apostolo Richard Krautheimer, 1897-1994). Solo a Costantinopoli, si è pensato per molto tempo, nella «sua» città, Costantino avrebbe in pieno realizzato il sogno di una città cristiana. A un’osservazione piú accurata, il significato risulta però ben diverso. Intanto, se un’ulteriore testimonianza di Eusebio di Cesarea si considera affidabile, all’indomani della vittoria su Massenzio l’imperatore avrebbe fatto collocare «immediatamente» nella mano di una propria statua il vessillo della vittoria, descritto come «un’alta asta a forma di croce», in un luogo in cui potesse avere la massima visibilità e pubblicità, probabilmente proprio il Foro Romano, non tradendo, appunto, alcun imbarazzo in un intervento che lo rivelasse (segue a p. 120)


Una scena dal forte valore simbolico e politico Per traditio Legis (letteralmente «consegna della Legge»), si intende un tema iconografico dell’arte paleocristiana che ebbe una straordinaria diffusione per il suo alto valore simbolico e perché una delle sue prime rappresentazioni era quella scelta per decorare il catino absidale dell’antica basilica di S. Pietro. La scena ebbe immediatamente una straordinaria fortuna sia sui sarcofagi, sia in altri monumenti, come nel caso del mausoleo di Costantina sulla via Nomentana (vedi l’immagine qui sotto), dove venne realizzata, a mosaico, alla metà del IV

secolo. Secondo lo schema canonico, il Cristo-imperatore figura al centro della composizione, nell’atto di passare un rotolo all’apostolo Pietro, pronto a riceverlo con le mani coperte dal pallio, alla presenza di Paolo acclamante (meno diffusa, ma attestata, è anche la versione in cui il Salvatore affida la Legge a quest’ultimo). Non sfugge il valore politico della rappresentazione: l’affidamento del rotolo a Pietro sottintendeva, infatti, la scelta di riconoscere alla sede petrina il primato sulle altre Chiese.

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I PROTAGONISTI IV SECOLO

IMPERATORI

PAPI

Massenzio (306-312) Costantino (306-337)

Costantino II (337-340) Costante (337-350) Costanzo II (337-361) Magnenzio (350-353) Giuliano (361-363) Gioviano (363-364) Valentiniano (364-375) Valente (364-378) Graziano (367-383) Valentiniano II (375-392) Teodosio (379-395) Eugenio (392-394)

V SECOLO

Occidente Onorio (395-423)

Marcellino (296-304) Marcello I (308-309) Eusebio (309) Milziade (311-314) Silvestro I (314-335) Marco (336) Giulio I (337-352)

Grande persecuzione (303-311) Editto di Serdica (311) Battaglia di Ponte Milvio (312) Cosiddetto «Editto di Milano» (313) Concilio di Nicea (325) Fausta, moglie di Costantino († 326) Costantina, figlia di Costantino († 354)

Liberio (352-366) Felice II (356-365)

Elena, figlia di Costantino († 360) Sinodo di Antiochia (378) Battaglia di Adrianopoli (378) Editto di Tessalonica (380) Concilio di Costantinopoli (381) Decreti di Teodosio (391-392) Stilicone, generale dell’esercito romano († 408)

Damaso I (366-384) Ursino (366-367)

Siricio (384-399)

Oriente Arcadio (395-408)

Anastasio I (399-401) Innocenzo I (401-417)

[…] […] Valentiniano III (425-455)

Petronio Massimo (455) Avito (455-456) Maggiorano (457-461) Libio Severo (461-465) Antemio (467-472) Glicerio (473-474) Giulio Nepote (474-475) Romolo Augustolo (475-476)

Teodosio II (408-450)

Marciano (450-457)

Celestino I (422-432) Sisto III (432-440) Leone I (440-461)

Ilaro (461-468) Leone I (457-474) Simplicio (468-483) Zenone (475-491) Anastasio I (491-518)

VI SECOLO

Simmaco (498-514) […]

Giustino (518-527) Giustiniano (527-565)

[…] Maurizio Tiberio (582-602)

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EVENTI E PERSONAGGI NOTEVOLI

Giovanni I (523-526) Felice IV (526-530) Bonifacio II (530-532) […] Vigilio (537-555) Pelagio I (556-561) […] Pelagio II (579-590) Gregorio I (590-604)

Maria, moglie di Onorio († 408) Sacco di Alarico (410) Alarico, re dei Visigoti († 410) Ataulfo, re dei Visigoti († 415) Concilio di Efeso (431) Galla Placidia, figlia di Teodosio, madre di Valentiniano III († 450) Concilio di Calcedonia (451) Attila in Italia (452) Sacco di Genserico (455) Eudocia, moglie di Teodosio II († 460) Deposto Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’Occidente (476) Eudossia, figlia di Teodosio II, moglie di Valentiniano III († 493) Teoderico, re degli Ostrogoti (474-526)

Sinodo di Roma (531) Guerra greco-gotica (535-553) II Concilio di Costantinopoli (553)

Gregorio di Tours († 594) Sinodo di Roma (595)


DEL CAMBIAMENTO IMPERATORI

Teodoro I (642-649) Martino I (649-655) […] Vitaliano (657-672) […]

Giustiniano II (669-695)

Sergio I (687-701)

Leonzio (695-698)

Osuiu, re di Bernicia e di Northumbria (642-670) III Concilio di Costantinopoli (680-681) Caedwalla, re del Wessex (685-688) Ina, re del Wessex (688-726)

Tiberio III (698-705)

Cenred, re di Mercia (704-708) Editto iconoclasta di Leone III: rottura tra Roma e Bisanzio (730) Beda († 735) Ratchis, re dei Longobardi (744-749) I Longobardi conquistano Ravenna (751) Desiderio, re dei Longobardi (756-774) Offa, re dei Sassoni (757-796) Cade il regno longobardo (774) II Concilio di Nicea (787) Paolo Diacono († 799) Leone III incorona Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero (800)

VIII SECOLO

[…]

Carlo Magno: re dei Franchi dal 768, dei Longobardi dal 774, imperatore dall’800 († 814)

IX SECOLO

Giustiniano II (705-711) […] Leone III Isaurico (717-741) Costantino V (741-775)

Fine dell’iconoclastia (842) Incursione saracena a Roma (846) Civitas Leoniana (853) IV Concilio di Costantinopoli (869) Fondazione della Giovannipoli (872-882)

Giovanni VI (701-705) […] Zaccaria (741-752) Stefano II (752-757) Paolo I (757-767) Stefano III (768-772) Adriano I (772-795)

Leone IV (775-780) Costantino VI (780-797) Irene (797-802)

Leone III (795-816)

Bisanzio

EVENTI E PERSONAGGI NOTEVOLI VII SECOLO

[…] Costante II (641-668)

PAPI

Sacro Romano Impero

Niceforo I (802-811)

Carlo Magno (800-814)

[…]

Ludovico il Pio (814-840)

Michele III (842-867)

Lotario (840-855)

Basilio I (867-886)

[…]

Leone IV (847-855) Benedetto III (855-858) Niccolò I (858-867)

[…]

Carlo II il Calvo (875-877) Carlo III il Grosso (881-887) […]

Adriano II (867-872) Giovanni VIII (872-882) […]

I nomi in corsivo indicano imperatori usurpatori o antipapi; i puntini di sospensione sono stati inseriti laddove le liste sono solo parziali e riportano imperatori e papi principali.

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ROMA CRISTIANA

vicino al Dio dei cristiani. Il Laterano, poi, doveva configurarsi come lo spazio migliore per l’esecuzione di un progetto di tale ambizione. Era un’area particolarmente estesa, progressivamente acquisita dal demanio e già occupata da prestigiose residenze e dalle due importanti caserme (i castra priora e nova) degli equites singulares; ora, con Costantino, lo scioglimento del corpo della guardia imperiale, gli equites, appunto, e il piú generale programma di demilitarizzazione dell’Urbe avevano determinato la brusca dismissione di edifici e la disponibilità immediata di spazi costruttivi, che sarebbe stato ben piú difficile rintracciare in aree centrali a continuità di uso. Il progetto di Costantino è in effetti duale: da

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Nella pagina accanto affresco raffigurante l’interno della basilica di S. Pietro prima della sua ricostruzione cinquecentesca. Inizi del XVII sec. Città del Vaticano, Grotte Vaticane. In basso plastico dell’area vaticana prima della costruzione della basilica: la zona era ancora in gran parte occupata dal circo di Nerone. Roma, Museo della Civiltà Romana.

una parte la grande chiesa dei cristiani, edificio monumentale al centro di una serie complessa di strutture – un vero e proprio quartiere –, dall’altra la residenza imperiale del Sessorium, sede preferenziale dei soggiorni a Roma della madre Elena, che ripristinava l’antica proprietà dei Severi con splendide nuove costruzioni di rappresentanza e un oratorio con funzione di cappella palatina dedicato alla Croce.

Un modello operativo inedito La chiesa del vescovo e il palazzo dell’imperatore: un binomio che forniva alla prima una chiara etichetta di privilegio e protezione, secondo un progetto che sarebbe stato attuato, anche in altre città «capitali», forse a Tessalonica e ad Antiochia, sicuramente a Treviri e a Costantinopoli.

A Costantino va dunque riconosciuta la capacità di introdurre un modello operativo inedito, di stabilire un sodalizio duraturo tra i regnanti e la Chiesa, quest’ultima favorita dagli interventi evergetici dei primi (ben presto emulati dalla classe aristocratica): quasi tutte le piú eccellenti imprese di edilizia chiesastica attuate a Roma fino al V secolo si avvalgono del supporto diretto dell’imperatore o di un membro della sua famiglia. Con un rescritto del 383, i tre imperatori in carica – Teodosio, Valentiniano II e Arcadio –, indirizzavano il prefetto Sallustio a intraprendere il progetto di riedificazione ben piú monumentale della prima chiesa sul sepolcro dell’apostolo Paolo, pianificando un’opera di grande rilevanza: la realizzazione di una basilica a cinque navate, per la cui

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ROMA CRISTIANA

n

prima del 384 384-483 483-555 556-642 642-752 752-882

CHIESE TITOLARI CHIESE DEVOZIONALI MONASTERI DIACONIE XENODOCHIA, HOSPITIA VIE PORTICATE SUBURBIO - CHIESE MARTIRIALI SUBURBIO - BATTISTERI CIMITERI E IPOGEI SUBURBIO - RESIDENZE EPISCOPALI SUBURBIO - HABITACULA PAUPERIBUS SUBURBIO - BALNEA SUBURBIO - BIBLIOTECHE MAUSOLEI

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Oro e argento a profusione Le chiese costantiniane di Roma vennero valorizzate soprattutto con dotazioni di straordinaria ricchezza: beni immobili (terreni, case, servizi commerciali e strutture produttive) da cui ricavare rendite tali da garantirne l’autosostentamento e il funzionamento degli apparati di illuminazione, ma anche donativi di oggetti in metalli nobili da arredo e per la liturgia. Nella biografia di papa Silvestro le notizie di fondazione sono corredate da elenchi dettagliati dei manufatti elargiti, perlopiú in oro e argento, raramente in oricalco, dei quali si precisa anche il peso in libbre (1 libbra= 327,168 g): altari, candelabri, lucerne e ceri e vasellame liturgico – calici, patene, tazze (scyphi), contenitori per il vino (amulae) –, incensieri, oggetti in qualche caso impreziositi da gemme o contrassegnati da iscrizioni del donatore. Sulla croce d’oro del peso di circa 50 kg fatta pendere nel presbiterio della chiesa dedicata a Pietro, in corrispondenza del sepolcro, splendevano i nomi di Costantino e di Elena, i dedicanti dell’edificio che sembrava rifulgere come una «casa regale», recitava la stessa iscrizione. Il progetto piú impegnativo, dalla descrizione del Liber pontificalis, interessò il complesso episcopale, con la realizzazione, nella basilica, di un baldacchino monumentale (fastigium) in argento massiccio, decorato da due distinte composizioni figurate: verso l’aula una scena di magistero con Cristo tra i dodici apostoli e, verso l’abside, Cristo in trono tra quattro angeli. In dettaglio vengono precisati i singoli valori ponderali: 662 kg per la struttura, rispettivamente circa 39 e 46 kg per le due immagini di Cristo, 353 kg d’argento per gli apostoli, 137 kg per gli angeli, per un totale complessivo pari a oltre 1237 kg di argento. Anche nel battistero lateranense la munificenza dell’imperatore aveva impreziosito gli addobbi della vasca con statue realizzate in metalli preziosi, un agnello d’oro, dal peso di 10 kg, tra Cristo e Giovanni Battista (rispettivamente di 55 e quasi 41 kg d’argento), mentre sette cervi, anch’essi argentei, per un peso complessivo di circa 184 kg, erano disposti intorno al bacino per l’adduzione dell’acqua battesimale; la colonna di porfido posta al centro della vasca era poi sormontata da una lucerna di 17 kg d’oro. Quantità spropositate di metalli nobili, insomma, quantificabili, nei totali complessivi – se si presta piena attendibilità ai dati registrati dal biografo di Silvestro –, in oltre 812 kg di oro e circa 6110 kg di argento.

costruzione, condizionata dalla posizione della tomba originaria e dalla presenza del Tevere a ovest e di una prominenza rocciosa a est, si rivelava necessaria la risistemazione della viabilità circostante. Un lungo cantiere architettonico, con interventi topografici su ampia scala, dunque, che rispondeva al diretto interessamento di Teodosio e dei figli Onorio e Galla Placidia, prosecutori del progetto, e correlato forse a un proposito, mai piú attuabile in senso definitivo, di ricentralizzare Roma come fulcro dell’impero d’Occidente. Negli anni successivi può in qualche modo apparire come un novello Costantino Valentiniano III, il figlio della stessa Galla Sulle due pagine pianta di Roma e del suburbio con l’indicazione dei principali luoghi legati alla cristianizzazione della città e sorti fra il IV e il IX sec. In basso ricostruzione grafica della possibile disposizione della decorazione del battistero lateranense nella risistemazione di Sisto III (432-440). Il monumento era ornato da statue realizzate in metalli preziosi: un agnello d’oro, tra Cristo e Giovanni Battista, e sette cervi in argento. E la colonna di porfido al centro della vasca era sormontata da una lucerna d’oro.

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ROMA CRISTIANA

La valorizzazione dei sepolcri Con la significativa eccezione dei «principi degli apostoli», gli interventi imperiali che all’epoca di Costantino andavano mutando il volto di Roma interessarono solo marginalmente i luoghi di sepoltura dei martiri. Divenuti precocemente oggetto di devozione e di pellegrinaggio, si trattava spesso di tombe di tipo comune, talvolta collocate nelle regioni sotterranee dei cimiteri comunitari («catacombe»), nelle quali gli stretti ambulacri mal si prestavano ad accogliere flussi crescenti di fedeli, desiderosi di un contatto con le sepolture venerate. A Costantino si attribuisce un solo intervento di valorizzazione nelle catacombe, relativo alla sepoltura di Lorenzo presso il cimitero «di Ciriaca» sulla via Tiburtina, consistente nella realizzazione di un percorso di visita «a senso unico», con scale per la discesa e per la risalita, cosí da limitare l’assembramento legato al «viavai» dei fedeli; il sepolcro stesso, enfatizzato dall’aggiunta di una struttura absidata, venne ornato di marmi e metalli preziosi. Solo pochi anni dopo, con papa Liberio, i lavori di monumentalizzazione del sepolcro della martire Agnese, nell’omonimo cimitero della via Nomentana, appaiono legati all’iniziativa del pontefice, benché ancora inquadrabili nella ristrutturazione degli edifici del sopratterra che,

tramite la realizzazione di un sontuoso mausoleo imperiale, vennero predisposti ad accogliere le sepolture di Costantina ed Elena, figlie del defunto Costantino: il sepolcro di Agnese venne allora cinto di plutei marmorei, di cui si conserva uno splendido esemplare decorato con la raffigurazione della giovane martire. L’attenzione della Chiesa al culto dei martiri raggiunse uno dei culmini della sua intensità con Damaso, l’energico papa successore di Liberio. Questi avviò la sistematica ricognizione e valorizzazione dei sepolcri martiriali, impreziosendo le tombe con apparati

Nella Roma dell’epoca tardo-antica, le numerose chiese costituiscono presenze straordinariamente vitali nella connotazione dei nuovi quartieri, urbani e suburbani Placidia e imperatore dal 425 al 455, diretto promotore della ricostruzione della chiesa titolare di Lucina (S. Lorenzo in Lucina) e, forse, dell’edificazione del prestigioso edificio dedicato al protomartire Stefano sul Celio (S. Stefano Rotondo), consacrato piú tardi da papa Simplicio, sorto in un terreno pubblico precedentemente occupato da una caserma di soldati peregrini. Soprattutto, all’imperatore si deve un’attività munifica allargata, con consistenti donativi di manufatti preziosi, rivolta a sanare le gravi conseguenze dei saccheggi dei Goti nelle chiese di Roma, in particolare a S. Pietro, S. Paolo e S. Lorenzo, oltre che nella basilica lateranense, dove, sulla base del Liber pontificalis, fu necessario

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In alto Roma. I resti della basilica circiforme voluta da Costantino in onore della martire Agnese, sulla via Nomentana. Qui sopra Roma. L’interno del mausoleo di Costantina (poi S. Costanza).

ripristinare anche il fastigium argenteum costantiniano distrutto dai barbari. Alla moglie di Valentiniano III, Eudossia, si deve invece il finanziamento del progetto della chiesa degli apostoli sul colle Oppio (S. Pietro in Vincoli), con il quale l’imperatrice scioglieva il voto del padre Teodosio II e della madre Eudocia.

Una città profondamente modificata Nella Roma alle soglie del Medioevo, la cristianizzazione degli spazi appare compiuta, radicale e, per certi versi, ridondante. In una città profondamente modificata, con una popolazione scesa dai circa 800 000 abitanti dell’età costantiniana a meno di 100 000, con i grandi edifici pubblici dismessi, con


architettonici e con monumentali iscrizioni commemorative in versi; gli ambienti che ospitavano le sepolture vennero talvolta allargati, predisponendo percorsi «agevolati» per la visita dei fedeli e creando nuove aree sepolcrali destinate a chi desiderava acquistare una tomba prossima a quella del martire «patrono». Nel corso del VI secolo, la prassi di far coincidere il luogo della celebrazione eucaristica con la tomba venerata di un martire diede avvio a una nuova stagione per i santuari delle catacombe che, a prezzo di vasti sbancamenti, videro spesso sorgere vere e

l’introduzione, dentro le mura, di funzioni inconsuete (le attività produttive, l’uso sepolcrale) e con l’adozione di nuovi modelli abitativi, le numerose chiese sono presenze di straordinaria vitalità nella connotazione dei nuovi quartieri, urbani e suburbani. All’interno delle mura erano sorte numerose chiese «titolari» (dal termine titulus, che ne indicava forse il titolo giuridico di proprietà originario, n.d.r.) – venticinque alla fine del VI

proprie basiliche «ad corpus», cioè realizzate a diretto contatto con i sepolcri venerati. Ben presto, però, motivi di sicurezza legati alle incursioni longobarde e saracene suggerirono, con poche eccezioni, di rinunciare alla frequentazione dei santuari extraurbani: in molti casi, tra il VII e il IX secolo, le spoglie dei martiri furono trasferite nelle chiese all’interno delle mura, contravvenendo cosí per la prima volta in modo sistematico al tradizionale precetto dell’inviolabilità del sepolcro. Alessandro Vella

Roma, S. Agnese. Uno dei plutei (lastre marmoree) posti da papa Liberio sul sepolcro della santa: la martire è ritratta come una bambina, poiché fu messa a morte in giovanissima età. IV sec.

secolo sulla base di un elenco delle firme dei partecipanti a un sinodo –, alle quali, su delega episcopale, era affidata la cura delle anime (la catechesi e il battesimo, la penitenza, la liturgia settimanale) e perciò ben radicate nelle zone residenziali, a servizio diretto delle comunità afferenti. Molti altri edifici religiosi, sorti nell’arco di circa quattro secoli, avevano poi assecondato (segue a p. 128)

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ROMA CRISTIANA

«Tu sei Pietro e su questa pietra...» «Ignazio (…) a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesú Cristo suo unico figlio: la Chiesa amata e illuminata (…) che presiede (prokáthetai) nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità (prokatheméne tês agápes), che porta la legge di Cristo e il nome del Padre». Nei primi anni del II secolo Ignazio, vescovo d’Antiochia, cosí scrive ai cristiani romani avvicinandosi alla capitale dell’impero, condannato a subirvi il supplizio ad bestias, durante il regno di Traiano (la locuzione latina, letteralmente, «alle belve», indicava la condanna a combattere senza armi contro le fiere nell’anfiteatro, che venne inflitta soprattutto ai cristiani, n.d.r.). Molto è stato scritto su questa «presidenza» della Chiesa romana e sul senso da dare alla parola agápe, qui forse riferita alla «carità» esercitata verso le Chiese piú povere con la raccolta di offerte. In ogni caso, com’è evidente dalle parole di Ignazio, il primato della Chiesa romana sulle altre Chiese del mondo antico nasce proprio da questa venerazione per la comunità generata dalla

testimonianza degli apostoli e dal sangue dei martiri. Cosí come esistette un mito di Roma, capitale «colossale» e magnifica dell’impero, cosí ci fu un mito di Roma fra i cristiani dei primi secoli, denso di ammirazione per l’eroismo della sua testimonianza a Cristo. Questo primato fu alimentato anche dalle controversie dottrinali che molte Chiese locali sottoponevano, proprio per la sua fama, alla Chiesa dell’Urbe, in cerca di un arbitro imparziale. Papa Stefano (254-257) per primo rivendicò tale autorità dottrinale per il vescovo di Roma in rapporto alla «successione a Pietro, sul quale furono poste le fondamenta della Chiesa» (Cypr., epist. 75,17), con rimando esplicito a Mt 16,18 («Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»). Il graduale trasferimento del primato della comunità cristiana romana al suo vescovo, il papa (il termine, di origine orientale, «padre», è attestato per la prima volta in riferimento a Marcellino, 296-304) avviene proprio durante il III secolo e si accentuerà nel secolo della Pace, già durante l’impero di Costantino, quando la Chiesa romana vide trasformarsi la sua identità e la sua presenza nel territorio urbano ed assunse, soprattutto in occasione delle sempre piú complesse controversie che dilaniavano la comunità cristiana da Oriente a Occidente, un ruolo di arbitro talvolta anche contraddittorio nei confronti del potere imperiale. Dopo la metà del secolo, fu papa Damaso a ribadire decisamente il primato del vescovo di Roma sugli altri vescovi dell’orbis christianus. Al fine di combattere le eresie e riaffermare la fede proclamata nel Concilio di Nicea, fece approvare in un sinodo delle Chiese orientali ad Antiochia la norma per la quale la nomina di un vescovo fosse valida solo se approvata dal vescovo di Roma. Dopo Damaso, anche il suo successore Siricio riaffermò costantemente un primato, quello petrino, che si andava ormai caratterizzando come una supremazia giuridica del vescovo di Roma su tutte le Chiese. Umberto Utro


Ricostruzione dei percorsi di visita alle chiese e ai santuari di Roma menzionati nell’Itinerario di Einsiedeln (800 circa).

Nella pagina accanto, in alto Roma, basilica di S. Paolo fuori le Mura. Il mosaico dell’arco trionfale è attribuito alla committenza di Galla Placidia, durante il pontificato di Leone I (metà del V sec.). Nella pagina accanto, in basso frammento del mosaico realizzato per l’abside di S. Pietro al tempo di Innocenzo III (1198-1216): la figura coronata viene tradizionalmente identificata con una personificazione della Chiesa di Roma. Roma, Museo Barracco.

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ROMA CRISTIANA

Per accogliere i pellegrini Persino l’imperatore Giuliano, detto l’Apostata, fiero avversario della Chiesa, individuò la chiave del successo dei cristiani nell’attitudine ad accogliere e ad assistere stranieri e indigenti (Epist. 84). A Roma, l’attività caritativa era gestita dal vescovo, affiancato da sette diaconi, con competenza territoriale su altrettanti comparti cittadini (le regiones). Tra la fine del IV e gli inizi del V secolo sono attestati nella città i primi organismi espressamente dedicati all’assistenza dei bisognosi, indicati nelle fonti con il nome greco di xenodochia (latino: hospitalia, da cui l’italiano «ospedali»). Si tratta di fondazioni pietose destinate all’ospitalità di stranieri indigenti, categoria «marginale» per eccellenza. Alla categoria degli istituti assistenziali possono ricollegarsi anche gli «alloggi per i poveri» (habitacula pauperibus) predisposti da papa Simmaco presso S. Pietro, S. Paolo e S. Lorenzo. Il provvedimento nasce dall’esigenza dei principali santuari suburbani di gestire i cospicui flussi del pellegrinaggio. Dagli anni centrali del V secolo, infatti, e nei decenni successivi, i martyria di Lorenzo e di Paolo, come probabilmente anche il santuario petrino, furono dotati di servizi igienici (balnea); nel contempo, a partire dal pontificato di Sisto III, alcuni monasteri sorsero a fianco delle basiliche degli Apostoli sulla via Appia (oggi S. Sebastiano), di S. Pietro e di S. Lorenzo, a cui seguí, entro la fine del VI secolo, la prima fondazione monastica presso S. Paolo: i monaci erano chiamati a garantire il servizio liturgico delle grandi basiliche (piú tardi, anche di quello della cattedrale e delle chiese urbane) e, contemporaneamente, a farsi carico del servizio

esclusivamente programmi devozionali entro cornici di politica religiosa man mano aggiornata, alimentata dal dibattito teologico (come nel caso della basilica di S. Maria Maggiore, sull’Esquilino, fondata dopo il concilio di Efeso del 431 che aveva definito la maternità divina di Maria Theotókos) o dai cambiamenti istituzionali; a questi ultimi si lega, in particolare, il gran numero di chiese dedicate a santi orientali tra il VI e il VII secolo, sotto il governo bizantino.

Occasioni di rilancio Le fondazioni devozionali potevano anche trasformarsi in occasioni di rilancio per spazi urbani altrimenti destinati al degrado, anche

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assistenziale nei confronti dei pellegrini e delle masse di indigenti che i santuari quotidianamente richiamavano. Il servizio centralizzato dell’assistenza caritativa legata all’episcopio lateranense (che pure contava quattro monasteri e un proprio xenodochium, lo Ptochium) prese nel tempo il nome di «Diaconia» (dal greco diakonéo, «servire»); in età avanzata, entro gli inizi dell’VIII secolo, esso venne affiancato da istituti «satellite» denominati, a loro volta, singolarmente, «diaconiae». L’origine di queste ultime resta un problema non risolto: alcuni dati suggeriscono un legame con l’Oriente greco e il coinvolgimento finanziario di ricchi laici legati ai vertici della politica romana, in un momento in cui l’Urbe era soggetta all’amministrazione del governo bizantino e la città pullulava di monaci greci. Tra i compiti delle diaconie risaltava la distribuzione di cibo agli indigenti, ai quali veniva garantito anche l’adempimento delle pratiche igieniche. L’importanza delle diaconie romane crebbe nell’VIII

In alto rilievo di epoca romana che raffigura un viandante seduto. Firenze, Galleria degli Uffizi.

per la diffusa tendenza a installarsi in edifici preesistenti non piú in uso. Molte costruzioni, di diretta committenza papale o promosse dall’evergetismo (elargizione di doni alla collettività da parte di un privato, n.d.r.) della classe aristocratica, avevano nel corso del tempo assicurato l’accoglienza dei poveri e degli stranieri e la cura dei malati (originariamente gli xenodochia), funzione espletata anche da piú d’uno dei numerosi monasteri, sia latini che greci – cinquantasei documentati entro l’VIII secolo –, che avevano gradualmente assunto un efficace ruolo di primo piano nel culto, nella liturgia, nel supporto alla popolazione, nella gestione di attività produttive.


secolo, quando la rottura con Bisanzio fece ricadere sui papi l’onere dell’amministrazione civile e del vettovagliamento della città: i patrimoni pontifici dell’area laziale vennero riorganizzati con la fondazione di vaste aziende agricole (le domuscultae papali), destinate a garantire i rifornimenti alimentari e l’assistenza ai bisognosi attraverso i granai ecclesiastici e i magazzini del Laterano. Nuovi equilibri politici portarono contemporaneamente Roma a gravitare piú decisamente verso l’Europa continentale: agli occhi dei sovrani carolingi, nuovi «sponsor» del papato, l’importanza della città era ormai legata al prestigio del santuario petrino, che attirava enormi masse di pellegrini, soprattutto dai Paesi del Nord. Ciò impose ai pontefici il potenziamento dei servizi assistenziali: entro gli inizi del IX secolo, la basilica di S. Pietro era contornata da ben cinque monasteri (Ss. Giovanni e Paolo, S. Stefano Maggiore, S. Martino, S. Stefano Minore e Hierusalem), un balneum, alloggi per i poveri, due ospedali (S. Gregorio iuxta grados e S. Pellegrino) e cinque diaconie (Ss. Sergio e Bacco, S. Silvestro, S. Martino, S. Maria in caput portici, S. Maria in Hadrianio), a cui Stefano II associò due nuovi xenodochia. Contemporaneamente, l’importanza delle comunità straniere stanziate per motivi devozionali attorno a S. Pietro crebbe fino a stimolare la nascita di istituti «nazionali», le Scholae Peregrinorum. Oltre Tevere, attorno alla tomba dell’apostolo Pietro, era ormai sorta una vera e propria «città dei pellegrini», che, alla metà del IX secolo, papa Leone IV provvide a cingere di mura. Alessandro Vella

Con l’accentuarsi delle responsabilità del vescovo in relazione alla città e ai cittadini e, dunque, ai problemi dell’assistenza – che un tempo venivano prevalentemente affidati all’annona civica –, erano poi nate, a partire dall’VIII secolo, le diaconie (funzione spesso attribuita a chiese già esistenti, soprattutto devozionali): complessi articolati, con un’aula cultuale (si tratta, in genere, della sola parte ben nota), strutture di servizio, magazzini e ambienti di accoglienza. Riutilizzando spesso monumenti antichi, esse sorsero perlopiú in siti centrali, presso strade agevoli e di grande percorrenza e nell’area tiberina, favorita dalla comodità dei rifornimenti. Anche il suburbio, nei secoli dopo Costantino,

Pianta di Roma a volo d’uccello, miniatura su pergamena di Pietro del Massaio. 1469. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La «città» del Vaticano stessa compare in basso, a destra.

si era arricchito di chiese e oratori: una guida destinata ai pellegrini dei primi decenni del VII secolo, il De locis sanctis, annovera ben 170 santuari che vengono ritenuti meritevoli di una visita! Solo pochi di essi, tuttavia, sopravvissero al tempo, ai saccheggi e alla massiccia traslazione delle reliquie nelle chiese intramuranee. Primi fra tutti i grandi santuari apostolici di Pietro e di Paolo, trasformati da semplici tombe in «città»: la civitas leoniana, dal nome di papa Leone IV, quella del Vaticano, e la Giovannipoli, per il fondatore Giovanni VIII, quella dell’Ostiense. Due siti originariamente sepolcrali che il cristianesimo aveva reso, definitivamente, «spazio dei vivi».

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MONOGRAFIE

n. 28 dicembre 2018/gennaio 2019 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Fabrizio Bisconti è professore ordinario di archeologia cristiana e medievale all’Università degli Studi Roma Tre. Barbara Mazzei è officiale della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Danilo Mazzoleni è rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. Lucrezia Spera è professore ordinario di archeologia cristiana e medievale all’Università di Roma Tor Vergata. Umberto Utro è curatore del reparto di Antichità Cristiane dei Musei Vaticani. Alessandro Vella è assistente del reparto di Antichità Cristiane dei Musei Vaticani. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: pp. 52/53; Album/Fine Art Images: copertina (e pp. 68/69) e pp. 56/57; Erich Lessing/Album: e pp. 14, 17, 32/33, 88/89; AKG Images: pp. 7, 10-11, 12, 14/15, 16, 22, 48, 54/55, 61, 62, 73 (alto), 74, 85-87, 92; Leemage: pp. 19, 21, 66/67, 99; Album/Prisma: pp. 56, 63, 80 (basso); ©Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Paolo Manusardi: p. 58; Album/Oronoz: p. 60; ©Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 79 – Yale University Art Gallery: p. 6 – Shutterstock: pp. 8/9, 26/27, 28/29, 50/51, 80 (alto) – Doc. red.: pp. 24-25, 30/31, 34-35, 37, 38-41, 42/43, 43, 44-47, 49, 65, 70-71, 72, 73 (basso), 76 (basso), 77, 81, 82-83, 84, 90, 94-97, 100-129 – DeA Picture Library: p. 76 (alto); V. Pirozzi: p. 13; G. Dagli Orti: pp. 42, 90/91 – Bridgeman Images: pp. 18, 68 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 36, 64/65, 93. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: Dentro una catacomba, olio su tela di Nikolai Alexandrov. 1900. Nižnij Novgorod, Museo Statale d’Arte.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno

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