Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
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di Giulia Salvo
N°35 Febbraio/Marzo 2020 Rivista Bimestrale
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INTRODUZIONE ALLA PITTURA ROMANA
pittura Romana IN EDICOLA IL 4 FEBBRAIO 2020
introduzione alla
pittura Romana di Giulia Salvo, con contributi di Clelia Sbrolli
6. introduzione L’arte di un impero 8. ...un puzzle da ricomporre 12. La storia dipinta 14. L’affresco Creatori di bellezza 24. Nel blu dipinto di blu 43. Una decorazione da...restare di stucco! 48. gli antecedenti La lezione greca 50. Le tombe regali di Macedonia 60. i sistemi decorativi Questioni di stile 62. Marmi e alabastri per le case di Pompei 68. Una variopinta dimora per gli dèi 70. Pitture in 3d. La villa
di Poppea a Oplontis 74. Filosofi e prodigi alla corte dei re 78. La Villa della Farnesina 82. In viaggio con Ulisse 83. Miti cretesi a Pompei 87. Un gioco di riflessi 88. Mens sana in corpore sano... 92. Paese che vai... pitture che trovi! 94. Le pitture di Ostia 96. La moda romana in Oriente: le pitture di Efeso 102. i soggetti Il mondo in una stanza 108. Case come pinacoteche? 113. Lungo il corso del Nilo... 117. Il giardino di Livia 128. bibliografia
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L’ARTE DI UN IMPERO | PITTURA ROMANA | 6 |
Oplontis, Villa di Poppea (Villa A). Particolare dell’affresco di II stile che orna la parete orientale dell’ampio salone di soggiorno, utilizzato anche come sala da pranzo. La composizione è arricchita dall’inserimento di alcuni elementi ornamentali, quali pavoni e maschere teatrali.
I magnifici affreschi di Pompei ed Ercolano sono la testimonianza piú nota della pittura romana. Un fenomeno che si espresse anche in altre forme, prima fra tutte quella dei dipinti su tavola. Dei quali, però, ci restano soltanto le descrizioni degli autori antichi | PITTURA ROMANA | 7 |
«M
a in verità non c’è gloria se non per gli artisti che dipinsero quadri»: cosí Plinio il Vecchio, in un passo della sua Naturalis Historia (35, 118), ci informa sull’importanza della pittura su tavola nel mondo antico e di come in essa si dovesse addirittura riconoscere la grande arte. Le parole del naturalista ci offrono inoltre alcune indicazioni sul ruolo dell’artista e sulla sua influenza all’interno della società: dapprincipio legati esclusivamente all’attività politica e sociale, tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C. i pittori divengono figure sempre piú autonome, di spicco e di una certa rinomanza pubblica. Il cambiamento di percezione della figura dell’artista avviene soprattutto con Zeusi di Eraclea (425-397 a.C.) e con Parrasio di Efeso (420-370 a.C.), i due principali esponenti della cosiddetta scuola ionica (fine del V-inizi del IV secolo a.C.): se Zeusi aveva accumulato cosí tante ricchezze grazie alle proprie opere da ostentare mantelli con intessuto il proprio nome in lettere di placche d’oro (Plin. nat. 35, 62), dal canto suo anche Parrasio, ben consapevole della qualità della sua arte, amava portare addirittura corone d’oro in testa e vestire lussuosamente di porpora («nessuno si vantò con piú arroganza di lui della fama artistica; infatti si dette anche dei soprannomi, chiamandosi “L’uomo dalla dolce vita” e in altri versi “Principe dell’arte pittorica”, da lui portata alla massima perfezione: ma
...un puzzle da ricomporre
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e modalità con cui gli affreschi giungono sino a noi sono molteplici: essi si possono infatti conservare in situ, ossia ancora attaccati alle originarie pareti, oppure in frammenti, a seguito del crollo o della distruzione dei muri che fungevano da supporto. In questo secondo caso, il piú frequente, al momento della raccolta degli intonaci sparsi sul terreno è importante cercare di mantenere le connessioni tra i vari frammenti, documentando fotograficamente lo strato ed eseguendo il rilievo dei pezzi, cosí da agevolare le successive operazioni di ricomposizione. Come in un puzzle, per ricostruire le pareti dai frammenti recuperati, è fondamentale saper individuare tutti gli indizi possibili: sulla superficie si distinguono le striature lasciate dal pennello, che indicano la direzione delle pennellate, o i segni preparatori
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eseguiti per facilitare la stesura della decorazione; sul retro si possono vedere le tracce della muratura o degli espedienti utilizzati per favorire l’aggrappo dell’intonaco alle coperture. In quest’ultimo caso, infatti, sono di grande aiuto i solchi in negativo delle canne dell’intelaiatura alla quale aderivano gli affreschi del soffitto. Per riconoscere i motivi decorativi complessi o solo parzialmente conservati, l’archeologo fa ricorso alla sua esperienza e alla sua conoscenza delle pitture antiche, come se sfogliasse mentalmente un catalogo di immagini. Una volta ricomposte, le superfici pittoriche vengono documentate graficamente e fotograficamente e restituite, quando possibile, nella loro interezza tramite ricostruzioni digitali. Clelia Sbrolli
Nella pagina accanto affresco con paesaggio idillico-sacrale, dalla sala «rossa» della Villa di Boscotrecase (nei pressi di Pompei) di Agrippa Postumo. 20 a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso quadretto ad affresco raffigurante una pittrice, dalla Casa del Chirurgo di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La protagonista della scena, seduta su uno sgabello ligneo, intinge il pennello in una scatola di colori poggiata sopra un rocchio di colonna rovesciato, mentre un bambino inghirlandato le regge un quadro, appoggiato alla base di un’erma.
soprattutto diceva di essere nato dalla stirpe di Apollo»; Plin. nat. 35, 71). Zeusi e Parrasio dunque, ricchissimi e con vesti sfarzose boriosamente sfoggiate in pubblico, diventano il simbolo di un netto cambio di status sociale dei pittori: da artigiani ad artisti, finanche a veri e propri «sapienti», equiparabili ai poeti in quanto esperti di un’arte creativa e conoscitiva.
La nascita delle collezioni I quadri dipinti dai grandi maestri suscitano presto sentimenti di ammirazione, divenendo oggetti di pregio, tanto da entrare nelle prime collezioni che, già nel mondo greco, si vanno costituendo sia nei luoghi pubblici (templi e santuari) sia nelle corti dei grandi sovrani ellenistici. Successivamente, con le guerre di conquista romane, pitture e altre opere d’arte greca affluiscono in maniera massiccia nella capitale, contribuendo alla diffusione non solo di un nuovo gusto estetico tra le classi colte, ma anche alla nascita delle collezioni pubbliche e alla formazione di un mercato dell’arte dove – allora come oggi – i grandi capolavori vengono spesso venduti a prezzi esorbitanti; tali processi alimentano presto il desiderio di possesso dei singoli e contribuiscono, parallelamente, alla creazione delle raccolte private. Eppure della pittura su tavola – la forma artistica del mondo antico piú apprezzata dagli intenditori del tempo – nulla è sopravvissuto sino a noi, a differenza di altre classi di materiale, come per esempio la scultura. La grande arte da cavalletto è stata infelice protagonista di un completo naufragio, dovuto in buona parte ai capricci del caso, certo, ma soprattutto alla fragilità del supporto (il legno), nonostante già nell’antichità si cercasse di salvare le delicate tavole dall’inclemenza dello scorrere del tempo attraverso opere di restauro. Dalle fonti letterarie sappiamo infatti di casi in cui, laddove i quadri piú celebri mostravano segni di degrado, si procedeva a un loro restauro, cosí da conservarli e restituirli al pubblico godimento: per esempio, il dipinto con Afrodite Anadiomene («che esce dalle acque») opera di Apelle (maestro di scuola attica attivo tra il 360 e il 300 a.C.), eseguito per l’Asklepieion di Cos, fu portato a Roma da Augusto ed esposto nel Foro di Cesare; all’epoca di Nerone venne sostituito da una copia di un
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certo Doroteo, giacché ormai deteriorato. Nella volontà di restituire ai cittadini l’originale del grande maestro, Vespasiano ne pagò il restauro a cifre esorbitanti (Plin. nat. 35, 91; Svet. Vesp. 18). Ciò che dal passato è giunto sino a noi, pur con alterne vicende, legate anch’esse all’arbitrarietà del destino, è la pittura ad affresco: a partire dal XVIII secolo, quando fu avviata l’esplorazione dei siti del comprensorio vesuviano – Pompei ed Ercolano soprattutto, ma anche Stabia e Oplontis – vennero infatti alla luce case private – di semplici cittadini o di ricchi esponenti dell’élite – e complessi pubblici tutti unanimemente decorati da dipinti parietali variopinti, secondo un gusto di cui si aveva avuto già una vaga idea dai resti scoperti qualche secolo prima nella Domus Aurea neroniana. Si trattava tuttavia, è bene ricordarlo, di una documentazione eccezionale, sopravvissuta a seguito di una delle piú grandi tragedie del mondo antico (ossia l’eruzione del Vesuvio) e, proprio per questo motivo, parziale, essendo limitata a un preciso contesto geografico e a un determinato periodo storico (tra la fine del II secolo a.C. e il 79 d.C.). Anche grazie ai continui rinvenimenti di intonaci dipinti dai numerosi scavi archeologici condotti in Italia e nei territori provinciali dell’impero romano (vedi box a p. 8), oggi possiamo affermare con certezza che centinaia, migliaia di famiglie avessero pareti affrescate con profusione di motivi ornamentali, di colori e di immagini. Una produzione che però, a differenza dei capolavori su tavola, è di tipo artigianale, eseguita cioè da maestranze di bottega piú o meno esperte, solo in casi eccezionali d’autore. Ed effettivamente dipinti, verisimilmente eseguiti ad affresco, dei piú noti artisti avevano arricchito le dimore signorili già in età classica: per esempio, Plutarco (Alc. 16, 5) ricorda come Alcibiade, per punirlo della relazione con la sua concubina, avesse costretto il pittore Agatarco di Samo (460-420 a.C.) a dipingergli casa; dal canto suo, Archelao I di Macedonia offrí a Zeusi una somma ingente per la decorazione del proprio palazzo.
Le testimonianze piú antiche Nel mondo romano una delle piú antiche testimonianze di pittura «d’autore» probabilmente ad affresco sarebbero i pannelli nel Tempio di Giunone ad Ardea, attribuite a Marco Plauzio (Plin. nat. 35, 17 e 115), maestro oriundo di origine ionica, fuggito dalla sua terra natale sotto l’incalzare dei Persiani, che la critica ritiene attivo intorno alla metà del VI secolo a.C. Da Plinio (nat. 35, 17-18) sappiamo poi che prestigiosi affreschi raffiguranti Atalanta ed Elena dovevano essere presenti in un tempio non altrimenti definito di Lanuvio; secoli dopo, l’imperatore Caligola avrebbe addirittura tentato, vanamente, di strapparli e, in forma di quadri mobili, di inserirli nelle proprie collezioni. Autore della decorazione del Tempio della Salus verso la fine del IV secolo a.C. è invece Fabio Pittore noto, come informa Dionigi di Alicarnasso (16, 3.6), per la qualità del disegno e le mescolanze cromatiche; le pitture, probabilmente parietali, dovevano mettere in scena alcuni episodi della seconda guerra sannitica. Una pallida eco delle composizioni di Fabio Pittore si può forse riconoscere in alcuni frammenti di intonaco dipinto provenienti da un sepolcro dell’Esquilino, databili nel corso del III secolo a.C., con la
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Pompei, Casa dei Vettii. Uno scorcio della sala da ricevimento (oecus), con decorazioni in IV stile. 75-79 d.C. circa. Sulla sinistra, è un quadro con l’episodio di Ercole bambino che strozza i serpenti inviatigli da Giunone, mentre il tema del quadro visibile sulla destra è il supplizio di Penteo.
rappresentazione di eventi ed episodi bellici; l’immagine è articolata in fasce sovrapposte, con quinte architettoniche appena delineate e lumeggiatura a macchia (vedi box alle pp. 12-13). A Pacuvio, tragediografo e poeta oltreché pittore, è invece attribuita, nella seconda metà del II secolo d.C., la decorazione del Tempio di Ercole nel Foro Boario (Plin. nat. 35, 19), in cui doveva essere presente una pittura che solo ipoteticamente possiamo immaginare parietale e avente forse per oggetto la battaglia di Pidna (168 a.C.), che vide la vittoria di Lucio Emilio Paolo contro i Macedoni. Al di là di questi esempi del tutto particolari, la pittura parietale è essenzialmente un lavoro d’artigianato, certo gradevole, spesso ammirato dagli studiosi moderni per la sua originalità e fantasia, ma che – ben lungi dall’essere per gli antichi una forma d’arte – aveva un carattere puramente decorativo. Gli affreschi sono infatti parte integrante dell’arredo di edifici pubblici o di dimore private e sono uno dei pochi elementi, insieme ai mosaici che appaiono come veri e propri «tappeti di pietra», a sopravvivere della decorazione delle case romane. I cicli pittorici non si limitano quasi mai, se non negli ambienti di servizio, a semplici decorazioni monocrome, secondo il gusto tipico dei giorni nostri, ma risultano sempre sovrabbondanti, ricchi di colori diversi e contrastanti, impreziositi dai piú svariati motivi ornamentali che vanno a riempire sia le pareti, sia le volte e i soffitti. Si tratta di una produzione che riveste, per gli studiosi moderni, un valore immenso per comprendere la vita e la quotidianità dei Romani.
Composizioni ripetitive Ma il dato piú interessante è che i dipinti eseguiti su intonaco sono fortemente debitori alla pittura su tavola, giacché alle origini delle composizioni affrescate devono con ogni probabilità esserci stati i perduti capolavori greci, presi a modello dai decoratori romani, che estrapolano semplici figure o piú complesse composizioni per inserirle in nuovi contesti figurativi. Una prova importante in tal senso è fornita proprio dalla ripetitività delle pitture parietali, che presentano spesso somiglianze profonde negli schemi dei personaggi e nelle iconografie. Non bisogna però pensare a un semplice lavoro imitativo, presupponendo la pedissequa ripetizione dell’arte greca da parte degli artigiani romani: essi attingevano da una comune tradizione culturale, si rifacevano a un repertorio diffuso in tutto il Mediterraneo che, parallelamente, consentiva ai diversi proprietari delle dimore private – siano esse domus di città o villae di
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La storia dipinta
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l frammento di affresco proveniente dalla Necropoli Esquilina, a Roma, rappresenta una delle attestazioni piú importanti della pittura romana di carattere storico. Le raffigurazioni infatti illustrerebbero alcuni episodi legati alla seconda guerra sannitica (ultimo quarto del IV secolo a.C.). Le scene, su fondo bianco, sono organizzate con particolare gusto narrativo in quattro registri sovrapposti. Il primo conserva solamente la porzione inferiore di una figura. Nel secondo si riconoscono le mura di una città di fronte alle quali si affrontano due personaggi: uno connotato come sannita con abiti militari, elmo e scudo; l’altro identificato come un Romano con toga e lancia. I due sono colti nel momento dello scambio dei doni militari. Nel terzo registro sono ricordati due episodi: quello a sinistra, solo in parte leggibile, mostra un combattimento; quello a destra, ritrae, come il fregio precedente, due individui identificabili come un Sannita e un Romano, accompagnati da un drappello di soldati.
Nell’ultima porzione del frammento, il quarto registro mostra uno scontro tra due personaggi appartenenti agli schieramenti nemici. Pur nella sua lacunosità e difficoltà di lettura, il
campagna – di manifestare, tramite immagini selezionate con cura, la propria appartenenza culturale. La diffusione nel tempo (dalla metà del II secolo a.C. circa fino al III-IV secolo d.C.) e nello spazio (tutto l’impero romano e tutte le classi sociali) della moda di abbellire le proprie abitazioni con affreschi variopinti, che implicavano peraltro un certo impegno economico da parte dei committenti, suggerisce come le pitture parietali avessero acquisito un significato ben piú profondo del semplice valore estetico-decorativo. Se facciamo riferimento al nostro contemporaneo, non è infatti uso comune impegnare tante risorse nella decorazione delle pareti della propria casa, nemmeno per i personaggi piú facoltosi; forse il migliore termine di confronto con il mondo antico è offerto dalle lussuose e sfarzose decorazioni ad affresco dei palazzi rinascimentali e barocchi, appartenenti però a nobili e principi o a rappresentanti delle alte gerarchie ecclesiastiche, non certo ad arrivisti membri della classe media di città provinciali (quali erano le stesse Pompei ed Ercolano). La quantità di tempo e di risorse investite, nonché l’importanza degli apparati pittorici nell’economia delle diverse dimore sono da connettere all’importanza che l’abitazione assume nella vita sociale romana di tutte le classi: fulcro dei rapporti interpersonali, la casa diventa la quinta scenografica in cui si svolgono ricevimenti e si intrecciano relazioni politiche che determinano l’ascesa sociale, diventa il palcoscenico sul quale il proprietario si autorappresenta. Come ha sottolineato lo storico e archeologo inglese
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Affresco con scene militari dalla tomba dei Fabii, scoperta nella Necropoli Esquilina, a Roma, nel 1875. Prima metà del III sec. a.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.
dipinto offre un riverbero della pittura trionfale romana, ossia di quelle tavole, dipinte su legno o tessuto, con le quali i generali illustravano al Senato e al popolo gli episodi salienti delle
Frammento di fregio ad affresco con scena di fondazione di città (Alba Longa?), dalla parete meridionale di un colombario scoperto nel 1875, nell’area di Porta Maggiore, a Roma. Età augustea. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
campagne militari e che rappresentarono un momento fondamentale nella creazione di un linguaggio artistico propriamente romano. C. S.
Andrew Wallace-Hadrill, «la decorazione delle case ha un effetto grazie al suo visibile eccesso, grazie a una spesa esagerata su quello che è un semplice sfondo (...) è lo spreco a rendere efficaci le spese».
Cifre da capogiro per colori particolari La decorazione pittorica è dunque un momento essenziale dell’architettura romana e implica un investimento importante da parte dei proprietari, sia in termini di tempo che di denaro, per procurarsi non solo gli artigiani migliori, ma anche i materiali da utilizzare: era innanzitutto necessario che l’intonaco fosse di buona qualità e che fosse steso sui muri in strati progressivamente piú fini, operazione che richiedeva da una parte abilità e, dall’altra, anche una certa velocità dovendo lavorare sull’intonaco ancora umido. E poi c’erano i colori: accanto alle versioni economiche, di cui quella piú nota è il rosso acceso, detto «pompeiano», vi erano preparazioni che impiegavano sostanze talmente pregiate da raggiungere cifre da capogiro ed essere per questo escluse dai contratti base dei decoratori e contate come supplementi. Parimenti, se per eseguire sfondi monocromi potevano essere impiegate maestranze poco qualificate o addirittura apprendisti, per eseguire raffinati decori geometrici, lussureggianti tralci vegetali, articolati elementi architettonici, magari intervallati da volatili, nonché piú complesse composizioni figurate era necessaria la mano di un artigiano di maggiore esperienza, che però esigeva per il suo lavoro cifre piú elevate.
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REGIO I 1 Casa del Citarista 2 Casa di Casca Longus o dei Quadretti teatrali 3 Fullonica di Stephanus 4 Casa del Larario di Achille 5 Casa del Criptoportico 6 Casa dei Ceii 7 Casa del Menandro 8 Casa di Paquius Proculus 9 Casa dell’Efebo 10 Casa di Fabius Amandio 11 Casa del Sacerdos Amandus 12 Casa e Thermopolium di Vetutius Placidus 13 Casa del Frutteto o dei Cubicoli Floreali 14 Caupona di Sotericus 15 Casa della Nave Europa 16 Orto dei Fuggiaschi 17 Casa con botteghe
REGIO II 1 Casa di Octavius Quartio 2 Casa della Venere in Conchiglia 3 Praedia di Giulia Felice 4 Foro Boario 5 Anfiteatro 6 Palestra Grande 7 Casa del Triclinio all’aperto o estivo 8 Casa del Giardino di Ercole 9 Porta Nocera e cinta muraria 10 Necropoli di Porta Nocera SUBURBIO MERIDIONALE 11 Casa del Larario fiorito
REGIO III 1 Casa di Trebio Valente 2 Schola Armaturarum 3 Casa del Moralista 4 Porta Nola e cinta muraria 5 Necropoli di Porta Nola SUBURBIO ORIENTALE
REGIO VI 1 Casa del Fauno 2 Casa dell’Ancora 3 Casa della Fontana Piccola 4 Casa del Poeta Tragico 5 Thermopolium 6 Casa di Pansa 7 Casa del Forno 8 Casa di Sallustio 9 Casa di Adone ferito 10 Casa dei Dioscuri 11 Casa dei Vettii 12 Casa degli Amorini Dorati 13 Casa dell’Ara Massima 14 Castellum Aquae 15 Casa del Principe di Napoli 16 Porta Ercolano e cinta muraria 17 Necropoli di Porta Ercolano - SUBURBIO NORD-OCCIDENTALE 18 Villa di Diomede - SUBURBIO
REGIO V 1 Caserma dei Gladiatori 2 Casa di Marco Lucrezio Frontone 3 Casa delle Nozze d’Argento 4 Casa di Cecilio Giocondo 5 Necropoli di Porta Vesuvio SUBURBIO SETTENTRIONALE
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PIANTA DEGLI SCAVI DI POMPEI | PITTURA ROMANA | 14 |
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NORD-OCCIDENTALE 19 Villa dei Misteri - SUBURBIO NORD-OCCIDENTALE 20 Casa della Fontana Grande 21 Casa del Labirinto REGIO VII 1 Terme Suburbane - SUBURBIO 2 Porta Marina e cinta muraria 3 Casa del Marinaio 4a Casa di Ttrittolemo 4b Casa di Romolo e Remo 5 Santuario di Apollo 6a Foro 6b Mensa Ponderaria 7 Granai del Foro 8 Tempio di Giove 9 Archi Onorari
10 Terme del Foro 11 Tempio della Fortuna Augusta 12 Macellum 13 Santuario dei Lari Pubblici 14 Tempio del Genius Augusti (Tempio di Vespasiano) 15 Portico della Concordia Augusta (Edificio di Eumachia) 16 Terme Stabiane 17 Casa di Sirico 18 Lupanare 19 Casa dell’Orso ferito 20 Panificio di Popidio Prisco 21 Casa della Caccia Antica 22 Case di Marco Fabio Rufo e del Bracciale d’Oro, Insula Occidentalis
REGIO VIII 1 Santuario di Venere 2 Basilica 3 Comitium ed Edifici Municipali 4 Casa di Championnet 5 Casa dei Mosaici Geometrici 6 Terme Private (Palestra «degli Iuvenes») 7 Casa delle Pareti Rosse 8 Foro Triangolare e Palestra Sannitica 9 Tempio Dorico-Santuario di Atena ed Eracle 10 Teatro Grande 11 Quadriportico dei teatri o Caserma dei Gladiatori 12 Teatro Piccolo-Odeion 13 Tempio di Asclepio
o di Giove Meilichio 14 Tempio di Iside 15 Casa dei Cornelii 16 Casa del Cinghiale 17 Casa della Regina Carolina 18 Villa Imperiale 19 Antiquarium REGIO IX 1 Casa di Marco Lucrezio sulla Via Stabiana 2 Terme Centrali 3 Casa di Obellio Firmo 4 Casa dei Pigmei 5 Casa degli Epidii 6 Thermopolium di Asellina 7 Insula dei Casti Amanti 8 Casa di Giulio Polibio
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L’AFFRESCO
CREATORI DI BELLEZZA
Roma, Casa di Livia. Particolare della decorazione della parete destra del tablino con un quadretto avente per soggetto una scena di culto. II stile, 30 a.C. circa.
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Le pitture parietali vedevano la luce grazie all’attività di un «esercito» di decoratori e artigiani, impegnati nelle varie fasi di lavorazione e con compiti ben precisi. Secondo il grande architetto Vitruvio, infatti, la tecnica dell’affresco necessitava di un’esecuzione attenta e meticolosa
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itruvio, trattatista latino di architettura, dedica alla pittura parietale un intero libro del suo manuale De Architectura, il VII, fornendo preziose indicazioni per la tecnica, cosí come per i caratteri compositivi e i gusti dell’epoca; questo testo rappresenta, insieme al già piú volte citato libro XXXV della Naturalis Historia di Plinio, la fonte principale per ricostruire, insieme alle numerose testimonianze archeologiche, la storia e le tecniche della pittura romana. L’affresco prevede che i colori, mescolati all’acqua, siano stesi «a fresco» (da cui il nome) direttamente sull’intonaco di calce e sabbia; questo, asciugandosi, imprigiona i pigmenti in una pellicola di carbonato di calcio compatta e resistente, come ci istruisce Vitruvio: «Quanto ai colori, quando si è avuta l’accortezza di spalmarli sul rivestimento ancora umido, non si staccano, ma restano fissati per sempre» (arch. 7, 3, 7). Si tratta del processo di carbonatazione della calce, prodotta dalla reazione della calce spenta dell’intonaco con l’anidride carbonica presente nell’aria, secondo la seguente formula: Ca(OH)2 + CO2 = CaCO3 + H2O. L’evaporazione dell’acqua dalla miscela dell’intonaco fa migrare l’idrossido di calcio [Ca(OH)2] verso la superficie della parete e, attraversando la pellicola pittorica, reagisce con l’anidride carbonica [CO2] producendo carbonato di calcio [CaCO3].
Sul muro ancora umido L’affresco è dunque una tecnica che, se da una parte consente la conservazione delle pitture in maniera duratura, dall’altra richiede una realizzazione piuttosto rapida, dovendo necessariamente avvenire sul muro ancora umido. Esecuzioni grossolane o errate, opera
di artigiani poco attenti oppure semplicemente inesperti, che realizzano una decorazione su un intonaco ormai già troppo asciutto, portano al deterioramento progressivo della superficie pittorica, che tende cosí a scrostarsi piuttosto facilmente e a perdere la brillantezza dei colori; un fatto di cui si lamenta anche lo stesso Vitruvio: «I rivestimenti che sono stati realizzati correttamente non diventano ruvidi con il passare del tempo né quando li si pulisce lasciano che i colori si stacchino, a meno che questi ultimi non siano stati spalmati con scarsa cura e sulla superfice già asciutta» (arch. 7, 3, 8). Per la realizzazione di dettagli di completamento della decorazione o di piccole porzioni della parete si faceva ampio ricorso alle sovradipinture, che potevano essere eseguite in due modi: «a mezzo fresco», quando mediante opportune lisciature della parete si riattivava in parte il fenomeno di carbonatazione dopo la stesura del colore; oppure con la tecnica della tempera e quindi «a secco», giacché le dipinture venivano realizzate sull’intonaco completamente asciutto. In quest’ultimo caso, per applicare i colori erano impiegate diverse tipologie di leganti, soprattutto di natura organica, alcuni decisamente particolari come il latte di fico; e del resto, l’uso di sostanze insolite all’interno della produzione pittorica è confermata da Plinio, il quale riferisce come nel Tempio di Minerva a Elide, nel Peloponneso, Paneno (il fratello di Fidia, 450-430 a.C.) avesse applicato un intonaco lavorato con latte e zafferano tanto che «se vi si strofina il pollice umettato di saliva, dà l’odore e il sapore dello zafferano» (nat. 36, 177). Va da sé come sia la tecnica «a mezzo fresco» sia, soprattutto, quella «a secco» realizzata a tempera siano decisamente meno resistenti rispetto alle stesure «a
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fresco», giacché, non essendo perfettamente imbrigliate nella trama cristallina del carbonato di calcio della parete, tendono a distaccarsi piuttosto facilmente e a lasciare cosí lacune importanti nella sintassi decorativa.
Arriccio, intonaco e intonachino L’intonaco, il tectorium, veniva steso sulle murature da artigiani chiamati tectores – coadiuvati da ragazzi di bottega che si preoccupavano di impastare la calce – in strati successivi: l’arriccio, funzionale a regolarizzare la superficie muraria (il livello posto a diretto contatto con la parete è definito trullissatio, ossia rinzaffo), piuttosto grossolano e costituito
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da calce mescolata a sabbia o pozzolana con inclusi vari come paglia, ghiaia, frammenti fittili e ceramici utili a preservare la preparazione dall’umidità; l’intonaco, strato intermedio costituito da calce e sabbia, spesso mescolate a calcite, con una granulometria piú fine rispetto all’arriccio; l’intonachino, livello superiore molto sottile con una composizione estremamente fine, spesso arricchita da calcite e polvere di marmo. Proprio sull’intonachino, opportunatamente levigato con uno strumento simile alla spatola (il liaculum), in modo da creare una superficie liscia e lucida, veniva finalmente stesa la pellicola pittorica («ma una volta che la loro compattezza è stata
In basso, sulle due pagine Pompei, Palestra (VIII 2, 23), ambiente (f). Particolare delle sovradipinture eseguite a secco e delle linee preparatorie incise.
In basso, a destra Pompei, Terme del Sarno (VIII 2, 17-21), corridoio zeta. Particolare dello zoccolo con sovradipinture eseguite a secco.
consolidata, strofinandola con spianatoi, e levigata con il marmo lucente e duraturo, le pareti irradieranno la piú smagliante lucentezza dopo che, assieme alla rifinitura finale, vi saranno spalmati i colori», Vitr. arch. 7, 3, 7). Secondo le raccomandazioni di Vitruvio, il rivestimento preparatorio doveva essere steso in ben sette livelli (arch. 7, 3, 5-6), mentre per Plinio erano sufficienti cinque strati («l’intonaco non ha mai sufficiente lucentezza se prima non si sono passati tre strati di malta di sabbia e due di malta di marmo», nat. 36, 176). A dispetto delle rigide direttive imposte dalle fonti letterarie, va detto che è piuttosto difficile riconoscere sulle pareti antiche dalle cinque alle sette progressive stratificazioni di intonaco: sei livelli sono stati individuati al di sotto delle decorazioni di edifici prestigiosi di proprietà imperiale, come nel tablino della Casa di Livia sul Palatino oppure nella Villa della Farnesina a Roma o ancora nella Villa di Livia a Prima Porta, mentre nell’Aula Isiaca sul Palatino gli strati individuati sono solo quattro. Normalmente, come ampiamente attestato, per esempio, in
area vesuviana, i livelli di intonaco sono tre e corrispondono alle tre tipologie di rivestimento differenti per funzione e composizione (arriccio, intonaco e intonachino); non mancano tuttavia casi in cui siano documentati solo due livelli, di arriccio e di intonaco, generalmente indicativi di un lavoro mediocre.
I sistemi di adesione Prima di procedere alla stesura del tectorium, gli artigiani romani si preoccupavano di preparare le pareti e migliorare cosí l’aggancio dell’intonaco al muro – in modo da evitare spiacevoli distacchi – attraverso diversi sistemi di adesione, che sono oggi riconoscibili dagli archeologi grazie all’attenta osservazione delle impronte che rimangono sul retro dei frammenti pittorici. Per consentire innanzitutto l’aggancio dell’intonaco ai soffitti in particolare, ma anche alle pareti nel caso di muri costruiti in graticcio, era necessario ricorrere al sistema dell’incannucciata. Si tratta di una orditura di canne o di altri vegetali legati in fasci uniformi tramite corde, sulla cui esecuzione Vitruvio non
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manca di fornire preziosi precetti. Per le coperture, l’architetto-trattatista suggerisce come «una volta sistemate le capriate (...) vi si legheranno delle canne greche, schiacciate nella forma richiesta (...) in mancanza di canne greche, se ne raccoglieranno di sottili fra quelle palustri, le si sistemerà in fasci della lunghezza adatta e di spessore uniforme legandole per mezzo di una corda di filo» (arch. 7, 3 2); in questi casi le armature di canne servivano sia per alleggerire il peso dell’intonaco, sia per dare una forma curva in caso di volte. Le impronte lasciate dalle fascine sul retro delle pitture consentono addirittura di risalire al volume dei mazzi e di ricostruire l’intreccio degli spaghi: uno degli esempi piú emozionanti è offerto dal retro delle pitture in crollo della volta del criptoportico della Villa di Dar Buc Ammera a Zliten (in Libia), con l’intonaco che appare letteralmente inciso da solchi paralleli molto profondi (le canne) e da una serie di tracce perpendicolari che corrispondono ai segni prodotti dalla legatura delle corde. Per le murature, i consigli di Vitruvio sono i seguenti: «Quando tutto il muro sarà impiastrato di malta d’argilla, allora vi si fisseranno delle canne in fila continua con chiodi a capocchia larga, poi si stenderà un secondo strato di argilla e se le canne precedenti sono state fissate per mezzo di canne piú grandi trasversali la seconda serie sarà fissata per mezzo di canne verticali» (arch. 7, 3, 11). Un bell’esempio è rappresentato dalla Casa a Graticcio di Ercolano, che conserva all’esterno tracce di canne orizzontali a copertura di un opus craticium, secondo le descrizioni del nostro architetto. Il piú diffuso sistema di adesione in tutto l’impero romano, eseguito sui livelli di preparazione ancora freschi per una migliore presa dei successivi strati di intonaco, sono le spatolature, ossia scanalature realizzate ora manualmente, e dunque piuttosto irregolari, ora attraverso l’uso di appositi strumenti, a creare cosí una trama decisamente piú ordinata, con i solchi disposti a spina di pesce oppure secondo un ordito geometrico. Un
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mezzo decisamente meno impegnativo, quasi a buon mercato, è invece quello di tappezzare il primo strato di intonaco con frammenti di ceramica, come testimoniato nel salone (46) della Casa dei Dioscuri a Pompei (VI 9, 6.7): oltre a garantire una maggiore impermeabilità alla parete, questa soluzione consente di creare una superficie scabra leggermente in rilievo su cui poi ancorare i successivi strati di preparazione.
Una tecnica dal successo duraturo La tecnica di adesione piú nota e che perdura ben oltre il mondo antico per essere ampiamente utilizzata anche negli affreschi di età moderna dal Cinquecento all’Ottocento, è però la picchiettatura, che consiste nello scalpellare la superficie di una vecchia decorazione pittorica per renderla idonea a ricevere un nuovo rivestimento ad affresco migliorandone l’aderenza. Si tratta di un sistema impiegato durante lavori di rinnovamento degli ambienti, siano essi pertinenti a complessi pubblici o privati, ed è quindi particolarmente utile per ricostruire le diverse fasi edilizie: la presenza di segni di picchiettatura indica infatti lo smantellamento di cicli pittorici ormai datati, e verosimilmente fuori moda, che vengono tuttavia riutilizzati come utile base per i nuovi ornati. Un buon esempio, ancora in situ, è offerto dal Caseggiato degli Aurighi di Ostia (III, X): nell’ambiente 9 il decoro ad architetture sottili su fondo bianco è stato completamente picchiettato per essere sostituito da una nuova partitura ornamentale. Le diverse stesure pittoriche sovrapposte implicano altrettanti lavori, se non proprio di restauro, quanto meno di rinfresco dei muri in epoche diverse: nella Villa di Zliten è stato possibile riconoscere ben cinque strati di intonaco dipinto tutti picchiettati per assicurare ogni volta la nuova preparazione. La possibilità di procedere per semplici sovrapposizioni di partiture ad affresco, consentiva agli artigiani e ai committenti di ridurre rispettivamente i tempi e i costi della messa in opera dei nuovi apparati decorativi.
Ercolano, Casa a Graticcio. L’esterno dell’edificio, con tracce di canne orizzontali a copertura di un opus craticium, tecnica edilizia che consiste in un’intelaiatura a traliccio riempita di una miscela di calcinacci, malta e argilla.
Una volta preparata la parete e steso con dovizia il tectorium, prima di iniziare a dipingere, era necessario che gli artigiani inserissero dei punti di riferimento delle decorazioni – spesso molto articolate – direttamente sulla superficie liscia dell’intonaco ancora fresco; a seconda dei casi e del tipo di ornamento, l’artigiano poteva decidere di usare diverse tecniche. Per abbozzare le principali linee delle partizioni decorative si ricorreva in genere alla corda battuta: corde o cordini, in taluni casi imbevuti di colore o di polvere di pigmento (in genere l’ocra), venivano fissati e
tesi alla parete tramite chiodi, tirati con un certo vigore e subito dopo rilasciati in modo da imprimere sull’intonaco le linee guida verticali od orizzontali. Si tratta di una tecnica generalmente applicata anche per disegnare la cosiddetta quadrettatura, ossia un tracciato guida per la preparazione di schemi ornamentali geometrici a moduli ripetuti. Per delineare preliminarmente le linee principali di intere composizioni figurate oppure i contorni di singole figure o di elementi decorativi complessi, si era invece soliti eseguire un disegno preparatorio, realizzato a
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pennello direttamente sull’intonachino (quindi immediatamente prima della stesura pittorica), in genere in ocra rossa o in nero fumo. È in certa misura paragonabile a quello che, nel lessico della storia dell’arte rinascimentale, viene definito come sinopia, ossia lo schizzo, piú o meno accurato, tracciato sullo strato di arriccio oppure direttamente sul muro. Un esempio straordinario di disegno preparatorio si ritrova nel peristilio (2) della Casa V 3, 12 di Pompei: nella zona mediana della parete est, all’interno di un piú ampio pannello monocromo rosso, è stato inserito un quadro dipinto entro bordure decorate con motivi geometrici ripetitivi (i cosiddetti «bordi di tappeto»), terminato però solo nella porzione superiore. Si riconosce in maniera netta la delimitazione che divide la parte alta del quadro, diligentemente dipinto, da quella inferiore, resa a mo’ di schizzo tramite un abbozzo, che avrebbe poi dovuto essere completato con la ripresa del lavoro. La composizione raffigura una scena mitologica di
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difficile interpretazione, probabilmente l’arrivo dell’eroe Pelope alla corte del re Enomao per conquistare la mano della figlia Ippodamia attraverso una corsa di carri. Nella parte inferiore della parete sono inoltre visibili due mezze lune incise, eseguite con il compasso, interpretabili forse come delle prove fatte dagli artigiani e destinate a essere mascherate dalla successiva rifinitura della decorazione.
L’«ultimo giorno» di Pompei Una rifinitura che però non avvenne mai, probabilmente a causa dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.: ci troviamo quindi di fronte a un dipinto eseguito «l’ultimo giorno» di Pompei, o comunque bruscamente interrotto, e che ci restituisce cristallizzata per secoli una fase del lavoro di creazione degli affreschi. Un abbozzo di prova, molto suggestivo, si ritrova anche nel cubicolo (k) della Casa di Cerere a Pompei (I 9, 13-14): nella parete sud parte dell’intonaco affrescato è caduto, lasciando cosí affiorare lo strato di preparazione
A sinistra Ostia Antica, Caseggiato degli Aurighi, vano 9. Decoro ad architetture sottili su fondo bianco picchiettato e sostituito da una nuova partitura ornamentale. Nella pagina accanto Ercolano, Casa del Tramezzo di Legno. Particolare della parete nord del vestibolo d’ingresso (fauces). Nel fregio compare una piuma di pavone (foto in alto) della quale, nella zona mediana, l’erosione della pellicola pittorica ha portato alla luce lo schizzo di prova, eseguito a carboncino (foto in basso).
sottostante sul quale erano stati velocemente tracciati in ocra rossa e gialla, a scopo di prova, alcuni capitelli corinzi; non si tratta, in realtà, di un disegno preparatorio preciso, essendo i capitelli di modulo maggiore rispetto a quelli raffigurati in pittura e soprattutto disassati, ma semmai di un abbozzo eseguito evidentemente dall’artigiano per calibrare le forme e gli spazi degli elementi decorativi. Che le maestranze potessero ricorrere anche a disegni preliminari eseguiti sulle pareti come
prova o modello di un motivo decorativo oppure di un elemento figurato che avrebbero poi realizzato altrove sulla parete è testimoniato dal muro nord del vestibolo d’ingresso (fauces) della Casa del Tramezzo di Legno a Ercolano, dove l’erosione della pellicola pittorica nella zona mediana ha portato alla luce uno schizzo di prova, realizzato a carboncino, di una piuma di pavone poi eseguita nel fregio. Talvolta il disegno preparatorio si trova in combinazione con l’incisione preliminare: si tratta di un tracciato realizzato con uno strumento appuntito sull’intonachino o sulla parete già affrescata. Le incisioni possono essere di due tipi: dirette, realizzate cioè a mano libera o, al piú, con l’aiuto di strumenti come la riga, la squadra e il compasso, funzionali a trasporre sulla parete le linee guida di motivi decorativi oppure figurati, ma anche per tracciare elementi lineari; in particolare, l’uso del compasso è spesso ben riconoscibile per la regolarità della forma e talora per il
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Nel blu, dipinto di blu
I
l blu egiziano (o fritta egizia) è il primo colore sintetico della storia, attestato già dalla IV dinastia dei faraoni (2613-2494 a.C.). Scoperto in maniera casuale, si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo come economica alternativa al ben piú raro e costoso lapislazzuli, godendo di grande fortuna fino alla caduta dell’impero romano (476 d.C.), che ne decretò la scomparsa. Il colorante si otteneva attraverso il riscaldamento, a temperatura controllata (tra 850° e 950°), di una miscela di sabbia (silice), calce (o di una sabbia calcarea), soda (funzionale all’abbassamento del punto di fusione) e rame, responsabile della colorazione bluastra. Una volta prodotta la massa vetrosa, la fritta, essa veniva macinata e ridotta in grani, badando a non esagerare nella triturazione, poiché altrimenti se ne sarebbe perso l’effetto colorante. Il pigmento aveva uno scarso potere coprente e il pictor, al momento di utilizzarlo, dapprima
segno del punto di rotazione dello strumento. Le incisioni indirette, invece, sono eseguite tramite l’interposizione di un supporto, una sagoma, e sono utili soprattutto per delineare il contorno delle figure o per definire alcuni dettagli iconografici (come per esempio le linee di un panneggio). L’incisione indiretta è caratterizzata da contorni nitidi e arrotondati, nonché da un tracciato regolare e continuo. Nella «cassetta degli attrezzi» di un buon artigiano non potevano dunque mancare una livella, un filo a piombo, una squadra falsa articolata, una squadra a
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preparava la porzione da affrescare stendendovi un fondo di colore nero, atto a esaltare il tono del blu, e poi applicava il colore, che, non essendo solubile in acqua, veniva fatto aderire alla superficie muraria con l’ausilio di leganti, generalmente gomma arabica, che ne garantivano il fissaggio. Clelia Sbrolli
Coppette con colori, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In alto, resti di ceruleum, pigmento azzurro di origine minerale, noto anche come azzurro pompeiano o fritta di Alessandria; in basso, grumi di colore bianco costituito da creta calcarea e avanzi fossili che recano il bollo Attiorium, genitivo di Attii, nome dei fabbricanti che avevano la propria bottega nell’Insula IX della città vesuviana.
spalla e una riga graduata; tutti strumenti utili soprattutto per eseguire le linee di costruzione: si tratta di tracciati realizzati a incisione o a pennello perlopiú con riga e squadra (raramente a mano libera) sull’intonachino, per definire schematicamente i contorni delle decorazioni architettoniche, tra cui anche le linee di fuga tipiche dei sistemi ornamentali di moda tra la fine del II e il I secolo a.C.
Una tavolozza ricca di colori Mescolati all’acqua, i pigmenti venivano stesi dagli artigiani sull’intonachino ancora fresco. Vitruvio ci informa del fatto che potevano essere indifferentemente utilizzati sia colori reperibili in natura, sia preparati in maniera artificiale attraverso procedimenti di miscela oppure tramite la trasformazione di elementi naturali in seguito al trattamento con altre sostanze («Quanto ai colori, ve ne sono alcuni che si producono spontaneamente in zone determinate e che lí si estraggono, alcuni invece sono composti artificiali che si ottengono da altre sostanze, trattate e mescolate secondo le dovute proporzioni in
modo da essere altrettanto utili», arch. 7, 1). Con maggiore acribia, Plinio distingue tra pigmenti austeri (ossia scuri, opachi e coprenti) e floridi (quelli vivi, freschi e trasparenti), che in virtú dei loro costi elevati venivano acquistati direttamente dal committente e forniti al pittore, stilando un lungo e articolato elenco: «Sono floridi (...) il minio, l’armenio [un blu di azzurrite], il cinabro, la crisocolla, l’indaco, il purpurissum, gli altri sono austeri. In ogni tipo alcuni si trovano allo stato naturale, altri si fabbricano. Si trovano allo stato naturale la terra di Sinope, la rubrica, il bianco Paretonio, la terra di Melo, la terra di Eretria, l’orpimento; tutti gli altri si fabbricano, e in primo luogo quelli menzionati tra i metalli, poi, tra i piú comuni, l’ocra, la biacca e la biacca bruciata, la sandracca [un rosso di solfuro di arsenio], la sandyx [un rosso esito della fusione in parti uguali di rubrica e sandracca], il Siriaco [un rosso costituito da sandyx e terra di Sinope], l’atramento» (nat. 35, 30). Al di là della classificazione pliniana, che sembra riferirsi a una distinzione oggettiva dei colori sebbene non ne sia chiaro il criterio (se, per esempio, sulla base della qualità dei pigmenti, della reperibilità in natura, del procedimento di produzione e dei costi…), possiamo affermare come in generale i colori antichi fossero nella maggior parte dei casi di origine minerale, seppure ne esistessero anche di provenienza vegetale e animale. Tra quelli di origine minerale, ottenuti in genere per decantazione o calcinazione di terre naturali che contengono vari ossidi di metallo, si annoverano i gialli ricavati soprattutto dalle ocre, come il sil, terra naturale colorata da idrossido di ferro, di cui esistevano diverse qualità e varie provenienze (il sil atticum da Atene, il sil scyricum dall’isola di Sciro nel Mar Egeo e dall’Acaia, il sil lucidum o Gallicum dalla Gallia, il sil marmorosum dall’Italia); oppure i minerali a base di solfuro di arsenico giallo, come l’orpimento (l’auripigmentum). Alcuni rossi si ottenevano mediante calcinazione dell’ocra gialla, attraverso la sua cottura in vasi privi di incrinature o lesioni per
Coppetta con colore, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il vasetto contiene grumi amorfi di rubrica, cioè di ocra rossa a base di ossidi di ferro.
non disperdere il colore e compromettere cosí il risultato. I toni gialli, utilizzati con grande frequenza, erano combinati soprattutto con il bianco o con terre scure per rendere le architetture illusionistiche in composizioni a trompe-l’oeil. Anche molti pigmenti rossi derivano da ocre a base di ossidi di ferro, come la rubrica o la sinopis, estratta a Sinope nel Ponto, oppure il cinabro (il minium), piuttosto pregiato e ottenuto mediante l’estrazione di un solfuro di mercurio.
Quel rosso che si fa scuro Proprio il rosso cinabro, particolarmente apprezzato per la resa calda e brillante delle sue tonalità, era però piuttosto instabile, giacché, una volta esposto all’azione congiunta dell’aria e della luce, tendeva a trasformarsi in metacinabro, assumendo una colorazione scura. Tale fenomeno era ben noto ai Romani e allo stesso Vitruvio che, ad ammonimento, riporta la disavventura di Faberio, segretario particolare di Cesare durante la dittatura, la cui
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decorazione domestica era stata completamente rovinata: «È per questo che, quando viene applicato nella decorazione parietale degli ambienti che sono coperti, esso mantiene il suo colore senza alterarsi, mentre negli spazi aperti (...) esso si altera, perde la vivacità del colore e annerisce. Ed ecco, fra i molti possibili esempi, quello dello scriba Faberio: poiché voleva che la sua casa sull’Aventino fosse elegantemente decorata, nei peristili fece ricoprire di cinabro tutte le pareti, ma dopo 30 giorni queste assunsero un colore sgradevole e screziato. E cosí immediatamente fece un contratto per avere applicati altri colori» (arch. 7, 9, 2). Per ovviare a questo inconveniente, era sufficiente intonacare le pareti dipinte di rosso cinabro con uno strato di cera fusa punica addizionata con olio, secondo un procedimento di encausticatura del dipinto (diverso dalla
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A sinistra calibro in bronzo, dall’area vesuviana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Simili strumenti venivano utilizzati per misurare lo spessore degli oggetti. A destra peso per filo a piombo, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
pittura a encausto, dove i colori venivano mescolati alla cera dopo essere stati liquefatti dal calore) di cui sempre Vitruvio ci offre precise indicazioni: «Ma chi fosse piú accurato e volesse una decorazione col cinabro che conservi il colore originario, dovrà applicare con un pennello, dopo che la parete sarà stata dipinta e sarà asciutta, della cera punica liquefatta al fuoco e stemperata con un po’ d’olio. Poi continuando, servendosi di carboni messi entro un recipiente di ferro, porterà questa cera a trasudare assieme alla parete, riscaldandola da vicino, in modo da uguagliarne la superficie, infine la strofinerà con una candela e con panni di lino puliti (...) in questo modo il rivestimento protettivo di cera punica, facendo da ostacolo, impedisce tanto allo splendore della luna quanto ai raggi del sole di portar via a queste decorazioni, sfiorandole, il colore» (arch. 7, 9, 3-4; i medesimi suggerimenti vengono forniti anche da Plinio in nat. 33, 122). La cera e l’olio che venivano aggiunti saponificavano la calce delle pitture, neutralizzandone cosí la causticità, che avrebbe agito sul colore del cinabro. I colori bianchi, facilmente reperibili in natura,
erano perlopiú realizzati con sostanze a base di carbonato di calcio: il Paretonio (Paraetonium), piuttosto stabile e cosí chiamato dal luogo di estrazione in Egitto (l’odierna Marsa Matrouh), conteneva, oltre che carbonato di calcio, anche silice, magnesio, fosfati e altri elementi organici marini, che confermano le parole di Plinio sul fatto che il colore «sia la schiuma del mare rappresa con il limo, e infatti in esso si trovano piccolissime conchiglie» (nat. 35, 36); ma vi erano anche il Melinum, una terra bianca estratta dall’isola di Melo; l’Eretria, una creta che prende anch’essa il nome dalla regione di provenienza. Anche alcuni verdi erano ottenuti da argille contenenti celadonite o glauconite (creta viridis e appianum) oppure, anche se piú raramente, malachite (la chrysocolla); da Plinio (nat. 35, 48) sappiamo che il verde appiano (ottenuto da un tipo purificato di creta viridis) era spesso utilizzato in maniera truffaldina, per contraffare e imitare la piú costosa crisocolla. Infine vi erano gli azzurri: il caeruleum scythicum era costituito da lapislazzuli, mentre il caeruleum cyprium, composto da azzurrite, era poco stabile, giacché, assorbendo con il tempo l’umidità, tendeva a trasformarsi in malachite e a virare nelle tonalità del verde. I colori di origine vegetale erano invece ottenuti dalla combustione di materie resinose, quali aghi o cortecce di pino, o ancora attraverso la combustione di legno o di vinacce: cosí, in particolare, veniva prodotto il nerofumo (l’atramentum).
«Farine fossili» e alghe Decisamente piú pregiati e costosi erano i pigmenti di origine animale. Il piú noto era il porpora (il purpurissum), derivato dalla macerazione di molluschi (myrex) sulla creta argentaria, una sorta di «farina fossile» a base di alghe silicee e materiale organico. Particolarmente raro era poi il nero prodotto dalla calcinazione dei residui della lavorazione dell’avorio (l’elephantinum). Realizzato artificialmente a partire da minerali che contengono un metallo raro era invece il blu egizio (caeruleum aegyptum), un colore
A destra riga pieghevole in bronzo, dall’area vesuviana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Si tratta di un modulus, ovvero di uno strumento avente una lunghezza equivalente all’unità di misura lineare romana, il piede, pari a 29,45 cm. In basso compasso in bronzo, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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Affresco raffigurante Perseo e Andromeda, dal peristilio della Casa dei Dioscuri di Pompei. 62-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il soggetto mitologico fu particolarmente apprezzato nella pittura domestica pompeiana, come testimoniano altri dipinti del tutto simili a questo e che lasciano supporre il riferimento a un modello circolante nelle botteghe, probabilmente basato su un originale di Nicia, pittore ateniese di epoca tardo-classica.
sintetico prodotto mescolando un minerale di rame, sabbia di quarzo e fiore di nitro (miscela di carbonati e bicarbonato di sodio) secondo un processo di cui ci offre un’attenta descrizione Vitruvio: «Si pestano insieme sabbia e fiori di nitro tanto finemente da ottenere una specie di farina, e su questa si cosparge rame ciprio, ridotto a limatura con lime spesse, fino a formare un impasto. Poi mediante manipolazioni si ricavano delle palline e si legano insieme in maniera tale che si
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asciughino. Una volta asciutte si dispongono in una brocca di terracotta e le brocche si mettono in forno. Non appena il rame e la sabbia scaldandosi sotto l’azione della forza del fuoco si fondono, scambiandosi reciprocamente gli umori trasudati cedono le loro peculiarità e una volta che i loro elementi essenziali sono stati consumati per oggetto dell’intensità del fuoco, assumono un colore azzurro» (arch. 7, 11); la spiegazione del nostro architetto-trattatista è cosí precisa che è stato
Affresco raffigurante Io e Argo, dalla Casa di Meleagro di Pompei. IV stile, 62-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La scena ritrae la mitica figlia di Inaco, signore di Argo, che, amata da Zeus, era stata trasformata in vacca per la gelosia di Era – da cui le piccole corna che spuntano dalla sua fronte – e quindi posta sotto la custodia di Argo, il pastore dai cento occhi, armato di spada e lancia. La composizione, replicata identica in altri affreschi pompeiani, deriva probabilmente da un modello ben noto, che alcuni studiosi hanno identificato in un celebre quadro di Nicia raffigurante Io.
possibile riprodurre in laboratorio questo colore (vedi box a p. 24). Alla fine dell’età repubblicana, Gaio Vestorio promosse a Pozzuoli la fabbricazione di una varietà di blu egizio, allora solo di importazione, il caeruleum vestorianum, che da lui prese il nome. Il colore malva era invece ottenuto piú semplicemente tramite una miscela di blu e di rosso (piú o meno rosato a seconda dell’eventuale aggiunta in esso di bianco), cosí come il grigio, ricavato mescolando il verde e il rosso o il bianco e il nero; ai toni arancioni, piuttosto rari, si arrivava miscelando i gialli e i rossi. Le pareti affrescate erano – e tuttora cosí ci appaiono – sicuramente d’impatto: variopinte,
brillanti, eccessivamente colorate, giocate su contrasti cromatici arditi, forse troppo nette e crude. Eppure, non bisogna dimenticare che nel mondo antico l’illuminazione naturale era decisamente scarsa, fornita solo da piccole aperture che davano perlopiú su peristili o cortili interni; inadeguata doveva parimenti essere anche la luce artificiale, creata da lucerne che, pur numerose, non riuscivano certo a «illuminare a giorno» gli ambienti.
Atmosfere particolari Era quindi grazie ai colori netti che i dettagli figurativi potevano essere visti e capiti alla luce soffusa; e proprio al tremulo bagliore delle
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candele i dipinti dai vivaci toni contrastanti e le figure ivi cristallizzate dovevano quasi prendere vita, emergere dal fondo e contribuire a creare un’atmosfera del tutto particolare. Anche il trattamento superficiale dell’intonaco, a seconda che fosse liscio oppure striato, assorbiva e rifletteva diversamente la luce. Va detto, però, che l’uso dei colori e delle diverse tonalità non è legato soltanto alla visibilità delle pitture, ma è anche strettamente dipendente dalle mode e dai gusti d’epoca. Cosí, per esempio, nel corso del I secolo a.C. sono ampiamente utilizzate tinte forti e sature, rese tuttavia tramite pennellate
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delicate, come esemplificato nel santuario repubblicano di Brescia: predominano in particolare il rosso cinabro, il bordeaux, il verde e il viola. Colori piú delicati iniziano a diffondersi tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del successivo, cioè durante il regno di Augusto, giacché viene impiegata una ricca gamma di blu, di viola, di rosso purpureo, di malva e di rosa, spesso utilizzati in contrasto vivace con i gialli o con i verdi poco accesi. Sotto l’imperatore Nerone, alla metà del I secolo d.C., è di moda l’uso del rosso su fondi bianchi e neri, spesso con vividi e accesi contrasti cromatici, secondo un gusto ben esemplificato nelle pitture della Casa di
Le pitture parietali del cubicolo B della Villa della Farnesina, a Roma. 30-20 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Sulla sinistra, è raffigurata la toletta della dea Venere; sulla destra, è invece il quadro con Dioniso fanciullo tra le ninfe di Nisa.
Meleagro (VI 9, 2.13) o in quelle della Casa di D. Octavius Quartio (II 2, 2) a Pompei. Tonalità contrastate, dall’armonia spesso violenta, si ritrovano anche nel corso del II secolo d.C., come suggerisce per esempio il forte cromatismo giocato sull’accostamento di pannelli dai colori vivaci, rosso (ocra o bordeaux) e giallo in prevalenza, che caratterizzano le pitture dell’Insula delle Muse di Ostia (III, IX, 22); in questo periodo il colore viene steso con impasti piuttosto spessi, il cui rilievo anima le superfici pittoriche. Nel III secolo d.C. diventa invece di moda l’uso del fondo bianco e la decorazione sembra ridursi a
una paletta limitata di terre, che vanno dal bruno al giallo passando attraverso il rosso, talvolta con aggiunte di verde e di blu; i motivi ornamentali appaiono lineari e fortemente schematici. Nella tarda età imperiale, durante il IV secolo d.C., la gamma cromatica torna a vivacizzarsi, ancorché in maniera cruda e netta, senza l’uso di toni intermedi.
Gli artigiani In generale, vista la complessità e la diversità dei lavori necessari alla realizzazione di un affresco, è probabile che i decoratori fossero organizzati in modo
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stabile in quelle che potremmo definire delle «botteghe» ante litteram: si trattava di squadre di artigiani aggregati all’interno di strutture definite sia dal punto di vista dei rapporti sociali, che della produzione. Non è però da escludere che in alcuni casi – comunque poco frequenti, se non addirittura abbastanza rari – le maestranze si potessero anche riunire, in base alle specifiche capacità e competenze, in gruppi di lavoro appositamente formati per soddisfare specifiche richieste di particolari committenze. La necessità di lavorare a piú mani contemporaneamente, per esigenze di rapidità legate all’asciugatura dell’intonaco, implicava il coordinamento dei vari artigiani e la precisa suddivisione dei compiti in base sia alla capacità dei singoli sia alla loro esperienza.
La «fotografia» di un cantiere La decorazione veniva realizzata su indicazione del maestro-progettista (il redemptor), colui che sovrintendeva all’organizzazione del lavoro e coordinava l’operato dei pittori, intrattenendo al contempo i rapporti con i committenti.
In una stele di Sens (l’antica Agedincum, in Gallia), databile al II-III secolo d.C., troviamo un’interessante riproduzione di una squadra di decoratori in un cantiere in corso: sulla sinistra, seduto sulla scala, si trova il capomastro, colto nell’atto di consultare un rotolo contenente forse lo schizzo generale della decorazione da eseguire sulla parete. In basso a destra, vicino all’impalcatura, un manovale con la tunica corta, forse un semplice aiutante o un ragazzo di bottega, miscela con attenzione – e forse anche con un po’ di fatica – la calce spenta, la sabbia e l’acqua; si tratta dell’intonaco, quello stesso intonaco che il tector sopra di lui sull’impalcatura sta già stendendo con uno strumento appiattito che dobbiamo immaginare simile al frattazzo (strumento utlizzato in edilizia per spianare e lisciare, n.d.r.). Immediatamente vicino a lui un altro artigiano si sta preoccupando, sul tectorium appena steso e quindi ancora ben umido, di tracciare in alto con il pennello le linee iniziali della decorazione, a cui forse alludono i due tratti incisi nella pietra. La stele ci restituisce dunque
Foto e restituzione grafica della stele di Sens, l’antica Agedincum, in Gallia. II-III sec. d.C. Sens, Museo comunale. Il rilievo offre l’eccezionale «fotografia» di una squadra di decoratori al lavoro: sulla sinistra, seduto, sta il capomastro, che consulta un rotolo forse contenente lo schizzo generale della decorazione da eseguire; in basso a destra, vicino all’impalcatura, un manovale con la tunica corta miscela la calce spenta, la sabbia e l’acqua; si tratta dell’intonaco, lo stesso intonaco che il tector sopra di lui sull’impalcatura sta già stendendo. Immediatamente vicino a lui un altro artigiano, sul tectorium appena steso e quindi ancora ben umido, traccia con il pennello le linee iniziali della decorazione, a cui forse alludono i due tratti incisi.
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Affresco dalla Casa di Meleagro di Pompei. 62-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La scena viene tradizionalmente identificata con l’abbandono di Didone da parte di Enea, la cui nave si vede sullo sfondo, mentre s’allontana; la mitica regina siede al centro, accompagnata, a sinistra, dalla personificazione dell’Africa e, a destra, da quella dell’Asia, come suggeriscono la pelle e le zanne di elefante sul capo. Piú discussa è l’interpretazione come personificazione dell’Europa della terza fanciulla, dietro al trono, che regge un flabello.
l’immagine di un cantiere in cui il lavoro era caratterizzato da operazioni eseguite simultaneamente, dove ciascun artigiano aveva la propria specializzazione, conosceva perfettamente il proprio compito e lo eseguiva senza ritardi, per poter cosí ottenere un affresco di buona qualità. Una squadra di artigiani, oltre al redemptor che
sovrintendeva a tutte le operazioni e ai «ragazzi di bottega» che affiancavano gli artigiani piú esperti in compiti di maggiore semplicità, era di base composta da: i tectores, ossia gli addetti alla preparazione e alla stesura dell’intonaco; i pictores parietarii, che, dopo aver scandito la parete secondo la sintassi decorativa scelta tramite diversi strumenti come il filo a piombo
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e la corda battuta, iniziavano a dipingere muovendosi dall’alto verso il basso, in modo tale che eventuali sbavature non rovinassero porzioni di parete già terminate. Partendo dal presupposto che, come si può certo immaginare, era impossibile terminare in una sola giornata la decorazione non solo di un intero ambiente, ma anche della medesima parete, era necessario procedere per zone, stendendo a mano a mano l’intonaco fresco per la porzione che si era certi di poter terminare in quella stessa giornata; porzione la cui ampiezza, ovviamente, variava a seconda della complessità della decorazione.
Una pontata al giorno I limiti di stesura giornaliera dell’intonaco sono definiti pontate e seguono il posizionamento dei ponteggi dettato dal tempo di esecuzione della pittura sull’intonaco umido. Gli artigiani tentavano poi di dissimulare i giunti tra le pontate con la decorazione, cercando, ove
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Sulle due pagine Pompei, Casa dei Pittori al lavoro, ambiente (12). Panoramica della parete est, la cui decorazione è rimasta incompiuta a causa dell’eruzione del 79 d.C. Eccezionale testimonianza del «lavoro in corso» bruscamente interrotto dalla catastrofe è il riquadro (foto in basso) nel quale si può vedere lo schizzo degli scorci architettonici previsti dal decoratore.
possibile, di farli coincidere con le zone di passaggio tra un registro e l’altro della parete (per esempio, tra la parte alta e quella mediana oppure tra la zona mediana e quella inferiore); proprio in queste porzioni la presenza di elementi ornamentali come fregi, predelle e cornici consentiva di mascherare al meglio le fasi di stacco e di successiva ripresa del lavoro. Tuttavia, a uno sguardo attento le pontate sono ancora oggi riconoscibili sui muri antichi, grazie alla presenza di una cesura orizzontale e di un leggero dislivello sotto la pellicola pittorica. Quando si dipingevano spazi particolarmente grandi o elementi figurativi molto complessi, era necessario procedere piú lentamente ed eseguire ripartizioni ad hoc dell’intonaco, dette giornate: con questo termine si indica il limite della superficie che poteva essere affrescata in un giorno e può avere andamento lineare verticale, quadrangolare (nel caso, per esempio, della riproduzione di un quadro) oppure corrispondere al profilo di un personaggio o di un altro elemento iconografico entro grandi composizioni figurate. Pontate e giornate spesso si riconoscono e si integrano all’interno di una medesima decorazione, a seconda della velocità con cui hanno operato gli artigiani, vincolati dalla complessità delle rispettive porzioni di ornamentazione. Una volta eseguito lo schema principale della decorazione parietale, in genere si procedeva alla realizzazione del «pezzo forte», ossia i quadri centrali con diverse raffigurazioni, spesso di carattere mitologico, che ancora oggi possiamo osservare sbiadite sui muri delle città vesuviane. Questa operazione era riservata al pictor imaginarius, l’artigiano-artista che poteva lavorare o in bottega o direttamente sul cantiere. Nel primo caso egli eseguiva i dipinti su telai lignei che venivano poi incassati, all’interno di spazi risparmiati nei muri, a filo dell’intonaco, assicurandoli con chiodi e mascherando l’alloggiamento con cornici marginali, anche di stucco dipinto. Esemplificativi sono i sei pannelli raffiguranti scene di palestra e gineceo inseriti
nell’intonaco della sala (A) di Villa Imperiale a Pompei, quale completamento e al contempo arricchimento della decorazione della stanza; alla medesima tecnica sono da ricondurre pure i quadri nell’atrio (64) della Villa dei Misteri, sempre a Pompei, probabilmente evocativi della virtus militare del proprietario o dei suoi avi, come farebbero supporre gli elaborati fregi con armi che delimitano i dipinti.
Spazi risparmiati per gli affreschi Nel primo piano della Casa V, 18 di Ercolano un quadro, raffigurante Amorini al lavoro, realizzato su intonaco è alloggiato entro cassa lignea e inserito nel sistema decorativo della parete; ma alloggiamenti risparmiati per le tavole lignee con le pitture eseguite ad affresco sono ancora visibili sui muri di diverse dimore di Pompei. Si tratta in tutti i casi di spazi risparmiati per l’inserimento di quadri eseguiti ad affresco a completamento della decorazione parietale. Ma l’artigiano-artista poteva anche lavorare direttamente sulla parete, all’interno di un’area appositamente risparmiatagli in sottosquadro. In questo caso, il pictor imaginarius assisteva personalmente alla stesura dell’ultimo strato di malta (l’intonachino), preparato e applicato ad hoc, e, prima di procedere alla dipintura, solitamente realizzava un disegno preparatorio, sovente in ocra gialla, che gli permetteva di abbozzare sin dal principio i volumi e i giochi di luce del dipinto; in alternativa, soprattutto nel caso di raffigurazioni poco impegnative, poteva anche decidere di procedere piú speditamente e realizzare veloci incisioni con uno stiletto a mo’ di disegno preparatorio, per delineare il contorno degli elementi figurativi. Nella Casa dei Casti amanti di Pompei (IX 12) è possibile avere un’idea di quello che doveva essere un cantiere in corso e delle diverse fasi di creazione di una decorazione parietale. Qui infatti il lavoro è stato improvvisamente interrotto a causa della catastrofe dell’eruzione del Vesuvio: il quadro centrale nella zona mediana della parete, solo abbozzato in ocra gialla, non è stato terminato e cosí pure il plinto non ha ancora ricevuto l’ultimo strato di
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preparazione, che avrebbe dovuto essere steso una volta terminata la decorazione nella porzione mediana. Nei quadri centrali eseguiti dai pictores imaginarii è possibile scorgere l’imitazione di modelli famosi, derivati dalla grande arte su tavola tanto apprezzata dagli antichi
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e di cui anche i meno facoltosi volevano poter godere all’interno delle proprie dimore. Gli artigiani si basavano infatti su modelli grafici mobili (cartoni e libri di schizzi) desunti da rinomate opere su cavalletto e li riproducevano anche grazie all’uso di un compasso di proporzione, che
Pompei, Casa dei Vettii. Affresco con amorini che lavorano come orefici. Poco dopo il 62 d.C.
consentiva loro di duplicare in scala la medesima composizione a dimensioni diverse. I modelli grafici su supporto mobile utilizzati nelle diverse botteghe potevano prendere la forma di singoli fogli di papiro sciolti oppure raccolti in varie forme (insieme di fogli o rotoli), dove erano
riportati schizzi, disegni abbozzati con maggiore o minore cura, schemi iconografici o piú complete composizioni. Simili intermediari tecnici circolavano nelle diverse officine e permettevano la propagazione, nel tempo e nello spazio, dell’una o dell’altra raffigurazione e delle
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rispettive modalità di rappresentazione, nonché di singoli schemi iconografici. Da uno o piú modelli pittorici di origine greca potevano essere desunti i disegni, piú o meno sommari, che avrebbero costituito la base per la creazione di un quadro ad affresco. Vale la pena ricordare che per gli originali pittorici non esistevano, come per altre classi di materiali (per esempio la scultura, il bronzo, la ceramica a rilievo), procedure meccaniche attraverso cui ricavare una riproduzione fedele; si potevano al piú trarre schizzi o disegni. Ciò provocava, per ovvie ragioni, un sensibile aumento della possibilità di variazioni delle copie redatte graficamente. I quaderni di bottega costituivano una sorta di campionario da mostrare ai diversi committenti, per decidere il tipo di raffigurazione con cui decorare le pareti della dimora. Si trattava di un repertorio di officina che passava di mano in mano e che poteva anche essere arricchito sulla scorta di nuove composizioni. Pur utilizzando schemi circolanti e impiegando i disegni di bottega, i pittori non mancavano di apportare anche personali aggiunte o varianti al modello base, varianti e modifiche che potevano anche essere richieste direttamente dalla committenza per «personalizzare» la composizione. La presenza di «intermediari grafici» ci spiega il ricorrere di tipi figurativi e composizioni simili in epoche e contesti differenti. Il pictor imaginarius era l’artigiano piú apprezzato e meglio pagato: in un importante documento, l’Editto sui prezzi (Edictum de pretiis rerum venalium) emanato da Diocleziano nel 301 d.C. per calmierare le tariffe in una fase di forte svalutazione della moneta, vengono indicate le retribuzioni giornaliere degli artigiani, consentendoci cosí anche di valutare lo status sociale di ognuno: 50 denari per il fornaciaio, 60 denari per l’intonacatore, 70 denari per il decoratore, 75 denari per lo stuccatore e per il mosaicista, (ben!) 150 denari per l’artista-pittore, oltre ovviamente ai pasti, che erano a carico dei committenti. Alla realizzazione della
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decorazione potevano poi contribuire occasionalmente, a seconda delle necessità, anche altre figure – che tuttavia non compaiono nell’editto di Diocleziano – variamente specializzate come: il pictor scaenarius, impiegato per la realizzazione di scorci architettonici e quinte scenografiche; il pictor coronarius, ossia il pittore di cornici che dovevano circondare i quadri realizzati ad affresco, facendoli cosí illusionisticamente apparire come vere e proprie realizzazioni su tavola appese ai muri e riccamente incorniciate; o ancora il pictor quadrigularius, pittore (ma anche verniciatore) di carrozze.
«Gianni Veloce» e «Pietro Pignolo» La realizzazione di una pittura parietale implicava dunque un lavoro di squadra, di artigiani con differenti competenze, piú o meno esperti, piú o meno specializzati e retribuiti, ma che restano per noi quasi sempre anonimi. Eppure, dietro a queste pareti affrescate si nascondono personalità ben distinte di decoratori, il cui «stile» nelle stesure pittoriche è a volte riconoscibile. In alcuni casi è stato infatti possibile individuare due o tre mani differenti su una medesima superficie pittorica, soprattutto grazie alla diversa «indole», ora piú attenta e meticolosa ora piú rapida e negligente: cosí, in particolare, è accaduto nella Casa di M. Lucretius Fronto a Pompei (V 4, a), dove Wilhelmus J.Th. Peters ed Eric M. Moormann si sono divertiti a nominare i diversi decoratori in base all’accuratezza nella realizzazione del tratto, riconoscendo la mano di «Gianni Veloce» e «Pietro Pignolo». Non è solo una bizzarra e ironica trovata, ma si tratta di inserire le diverse realizzazioni ad affresco all’interno di un contesto reale, di vita e operato quotidiani, nel quale agivano personalità definite di artigiani e decoratori di cui noi nulla sappiamo, ma dei quali ancora osserviamo gli affreschi sui muri di Pompei ed Ercolano. Né sappiamo alcunché dei piú «rinomati» pictores imaginarii, che peraltro non erano soliti apporre il proprio nome al margine del quadro. Fanno eccezione solo quattro firme di artigiani,
Pompei, Casa di M. Lucretius Fronto (V 4, a). Particolare della decorazione del tablino con il trionfo di Bacco e Arianna.
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i quali, con orgoglio, hanno legato il proprio nome alla pittura muraria da essi realizzata: Alexandros, Seleukos, Silvanus e Lucius, tutti ignoti alle fonti letterarie antiche, che ricordano solo i nomi di artisti rinomati. Ma il fatto che anche questi, pur ambiziosi, pittori appartengano a una classe di decoratori artigianali, impiegati soprattutto a soddisfare le esigenze di privati cittadini della classe media, ci è confermato proprio da Lucius e da un suo evidente fraintendimento. L’artigiano ha inserito la propria firma sotto l’immagine da lui realizzata nel biclinio (k) della Casa di D.
Octavius Quartio a Pompei (II 2, 2): in prossimità della raffigurazione con il mito di Piramo e Tisbe, nel letto tricliniare sottostante, compare la scritta Lucius pinxit.
Come Romeo e Giulietta Piramo e Tisbe erano il Romeo e la Giulietta dei tempi romani: essendo costretti dall’odio dei parenti a parlarsi attraverso una crepa del muro che separava le loro case, i due giovani decidono di fuggire per coronare il loro amore. Tisbe arriva per prima al luogo dell’appuntamento, ma vi trova una leonessa e
Nella pagina accanto Pompei, Casa di D. Octavius Quartio (II 2, 2), biclinio (k). Quadro con la raffigurazione del mito di Piramo e Tisbe firmato, sul letto tricliniare sottostante, Lucius pinxit. A destra Pompei, Casa di M. Lucretius Fronto (V 4, a), cubicolo. Affresco raffigurante Narciso che si mira in uno specchio d’acqua.
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fugge terrorizzata perdendo il velo. Quando Piramo sopraggiunge, vedendo le tracce della belva e il mantello dell’amata insanguinato, la crede morta e si toglie la vita con la propria spada; Tisbe, una volta tornata, trova il giovane morto e si uccide a sua volta. L’affresco mette in scena proprio l’epilogo della drammatica vicenda: Piramo è raffigurato steso a terra, ormai esanime dopo essersi dato la morte con il pugnale; immediatamente sopra di lui, Tisbe è pronta ad affondare il ferro nel proprio petto per seguire l’amato nell’aldilà. Accanto ai due giovani, quale muto testimone della vicenda, si erge l’albero di gelso i cui frutti, dopo essersi impregnati del loro sangue, da bianchi muteranno il loro colore in rosso vermiglio. Ora, che la raffigurazione sia copia di un piú noto modello pittorico è evidente non solo dall’esecuzione decisamente modesta, come suggeriscono le proporzioni delle figure o gli scorci non perfettamente riusciti, ma
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soprattutto dal fatto che il nostro decoratore sta copiando un modello senza capirne o senza conoscerne il senso. L’equivoco appare evidente analizzando da vicino la figura di Piramo: il giovane mostra infatti, sull’intera superficie del corpo, vari tagli. Un Piramo suicida che si dà la morte ferendosi su ogni parte del proprio corpo è decisamente poco realistico e denuncia la mancata comprensione della raffigurazione da parte del suo esecutore, che dunque non sta creando, ma sta copiando: Lucius probabilmente, osservando il modello originale, ritenne erroneamente che la causa della morte di Piramo non fosse dovuta alla volontà del giovane di togliersi la vita con il pugnale, ma fosse da imputare a quella leonessa che fugge sullo sfondo dopo aver fatto scempio del suo corpo, giustificando cosí le numerose ferite visibili sul giovane. La storia di Piramo e Tisbe era in effetti piuttosto innovativa all’epoca, giacché non è
Una decorazione da...restare di stucco!
I
l tablino della Casa di Meleagro, a Pompei, conserva, nella porzione superiore della parete, la decorazione in stucco policromo riprodotta in queste pagine, che testimonia l’adozione di un tipo di rivestimento prevalentemente impiegato in edifici termali anche in un contesto domestico. Si tratta di una complessa e variopinta scenografia, che si articola in padiglioni e finestre dai quali si affacciano figure di varia grandezza, sia a rilievo che dipinte. Ugualmente decorati da una commistione di stucco e pittura sono i numerosi quadretti a tema mitologico, disseminati qua e là nella composizione. Al centro della parete nord, all’interno di un’edicola a fondo rosso, si scorge un personaggio di grandi dimensioni, ubriaco (forse Ercole o Bacco) e sorretto da due compagni; a questi fa eco, sulla parete dirimpetto, un pingue Sileno, anch’egli vinto dal vino e accompagnato da due satiri. Ai lati, in entrambi i perimetrali, avanzano figure maschili e femminili di offerenti, questa volta dipinte con tinte decise sul bianco dell’intonaco. Sotto di esse si trovano quadretti a fondo rosso popolati da piccoli personaggi realizzati in stucco, pertinenti a diversi episodi mitologici: il giovane Ila e una Ninfa delle acque; Atteone che, avendo spiato Diana al bagno, sarà da lei trasformato in un cervo e sbranato dai suoi stessi cani, resi furiosi dalla dea; Mercurio e una figura femminile inginocchiata che stringe due bambini; una Ninfa in compagnia del cavallo alato Pegaso che si abbevera alla fonte. Al centro delle pareti, pannelli stretti e allungati a fondo bianco mettono invece in scena giocose cacce di amorini. La ricchezza del rivestimento, dovuta all’uso combinato di stucco e pittura e all’articolata composizione architettonica a piú piani prospettici, è il felice esito della stretta collaborazione tra artigiani esperti in diverse tecniche decorative, che sapevano dare vita a vivaci arredi, sempre nuovi e di grande impatto visivo. C. S.
Pompei, Casa di Meleagro (VI 9, 2.13). La ricca decorazione del tablino.
attestata nel repertorio iconografico precedente al nostro affresco (età neroniana, intorno alla metà del I secolo d.C.); e parimenti, anche nella tradizione letteraria il mito diviene celebre solo con le Metamorfosi di Ovidio (4, 55-166). Una possibile spiegazione della presenza della firma, altrimenti ingiustificata, va probabilmente ricercata nella novità del soggetto e nel conseguente orgoglio dell’artigiano Lucius che lo ha eseguito, ma che tuttavia non ne conosceva appieno la trama.
Lo stucco Anche lo stucco fu particolarmente diffuso nell’ambito della decorazione parietale di età romana. Lo stucco è un intonaco fine lavorato a tre dimensioni, generalmente impiegato nelle architetture romane sulle pareti, sulle colonne, sulle volte o sui cassettoni di soffitti non solo per scopi funzionali di protezione delle superfici, ma anche per motivi puramente decorativi
legati all’abbellimento degli edifici, sia all’interno che all’esterno. Lo stucco venne anzitutto utilizzato per migliorare o trasformare l’architettura esistente: cosí, per esempio, molte colonne degli edifici domestici, realizzate semplicemente in tufo o in mattoni, vennero modificate rivestendole di intonaco (spesso colorato nei toni del bianco e del rosso) lavorato in forma di scanalature a evocare piú pregiate colonne in marmo, come accadde nell’atrio (d) della Casa delle Nozze d’Argento di Pompei (V 2, i) o nell’atrio (2) della Casa del Rilievo di Telefo a Ercolano (Insula Orientalis I 2-3). Tuttavia, il piú importante impiego dello stucco nel mondo romano si ebbe proprio nella pittura parietale: gli artigiani vi fecero infatti ampiamente ricorso per completare e abbellire le decorazioni eseguite ad affresco. L’arte dello stucco si sviluppò in Italia nel corso del I secolo a.C. e venne in seguito trasmessa, nel I e nel II secolo d.C., nelle province occidentali
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Rilievo in stucco raffigurante Narciso, dalla Villa rustica in località Petraro (Stabia). 60-79 d.C. Castellammare di Stabia, Antiquarium stabiano.
dell’Impero e in Africa, sebbene le tecniche impiegate e la finezza nella realizzazione non raggiunsero mai i livelli degli artigiani che operavano in Italia, in particolare a Roma e nell’area campana. Grazie alla finezza dell’intonaco, lo stucco si prestava bene a essere lavorato a imitazione di elementi architettonici, quali conci murari, bugnati e ortostati (riquadri di grandi dimensioni, spesso in aggetto, che simulano una struttura muraria), ma anche cornici, finte colonne, pilastri e capitelli; tutti elementi ampiamenti impiegati nelle decorazioni parietali, secondo una moda imperante tra la fine del II e il I secolo a.C. La tecnica dello stucco offriva inoltre la possibilità di meglio rifinire le pitture tramite,
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per esempio, la realizzazione di cornici in rilievo che mascheravano i raccordi tra le diverse zone della parete, nascondendo cosí le eventuali giunture delle pontate e sottolineando al contempo le linee base della decorazione.
Per arricchire gli affreschi Oltre a questi scopi, che potremmo definire «funzionali», di correzione e perfezionamento delle partiture pittoriche, lo stucco venne utilizzato anche per arricchire e impreziosire gli affreschi tramite l’esecuzione di fregi – con elementi geometrici, vegetali oppure figurati – o di piú complesse composizioni in rilievo; tali decorazioni venivano poi rifinite tramite l’applicazione del colore per marcare
Stabia, Villa San Marco. Particolare del ninfeo situato in corrispondenza della parete di fondo del giardino, decorato da stucchi.
ulteriormente i dettagli iconografici e sottolineare i passaggi di piano, aiutando cosí al contempo le figure a «emergere» dal fondo. Se Vitruvio e Plinio ci hanno fornito numerose e importanti informazioni sulla tecnica dell’affresco, sullo stucco hanno invece soffermato ben poco o per nulla la loro attenzione, cosicché le tecniche di esecuzione sono state ricostruite dagli archeologi in base all’analisi e allo studio delle testimonianze materiali. La realizzazione dello stucco prevedeva che l’intonaco molto fine fosse, come già negli affreschi, steso sulla parte e lavorato ancora umido in maniera meccanica, modellando rientranze e sporgenze secondo la forma architettonica desiderata oppure tramite
l’uso di strumenti diversi, a seconda del tipo di decorazione. Stampi di legno o di terracotta venivano utilizzati per realizzare fregi decorativi ripetuti (come ovuli e frecce oppure motivi figurativi miniaturistici, quali per esempio lire, cigni o delfini), imprimendoli nell’ultimo strato di intonaco ancora umido, tanto che, spesso, è ancora oggi possibile riconoscere la linea di giuntura tra uno stampo e l’altro; sagome con scanalature erano invece impiegate, imprimendole sempre sullo stucco, per creare cornici caratterizzate da una piú semplice modanatura. Cosí per esempio, nella Villa di San Marco a Stabia (metà del I secolo d.C.), la cornice dal motivo ripetuto proveniente dagli ambienti 62 e 63 è stata ottenuta mediante l’uso di uno stampo, mentre il colore applicatovi sopra rafforzava i giochi di rilievo. A seconda della complessità delle decorazioni, gli stuccatori, prima di apporre lo strato finale di intonaco, potevano realizzare linee guida, a mo’ di disegno preparatorio: una volta approntata la superficie, questa era scandita in pannelli o campi tramite l’applicazione di strisce di stucco. Sulle pareti queste strisce di intonaco fine erano lavorate in forma di elementi architettonici, come snelle colonne che reggevano leggeri fregi o trabeazioni. Per eseguire complessi motivi figurativi, in forma di bassorilievi, si operava direttamente a mano libera sul cantiere, lavorando una piccola porzione di intonaco umido, appositamente stesa, con strumenti simili a spatoline e stiletti. Nel larario (e) della Casa del Sacello Iliaco a Pompei (I 6, 4) è possibile ammirare un bellissimo fregio stuccato e dipinto, racchiuso tra due cornici con motivi ornamentali ripetuti, raffigurante due episodi cruciali della guerra di Troia, ossia il duello tra Achille ed Ettore e il riscatto del corpo di Ettore. Le varie porzioni di questo fregio, molto articolato, sono state eseguite in modi diversi: per le cornici inferiore e superiore è stato utilizzato uno stampo, mentre i bassorilievi sono stati modellati a mano libera; infine, il colore è stato impiegato per sottolineare i dettagli (specie gli elementi in secondo piano, resi in bianco e in rosso) e
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marcare lo sfondo nei toni del rosso e dell’azzurro. In casi complessi come questo, caratterizzati dalla presenza di elementi figurati a rilievo e dipinti, generalmente si procedeva innanzitutto a stendere il colore di fondo, poi a incidere le linee guida degli elementi figurati e, infine, a picchiettare leggermente la superficie interna alle figure in modo da renderla scabra e migliorare cosí l’adesione dell’ultimo fine strato di intonaco, che sarebbe poi stato modellato nel disegno voluto. La successione delle operazioni è ricostruibile da un attento esame delle decorazioni in stucco, soprattutto di quelle porzioni in cui le ornamentazioni in rilievo sono cadute lasciando a vista la superficie sottostante. Non è da escludere che, per realizzare motivi ripetuti di tipo vegetale (come rosette) o figurativi (quali delfini o piccoli animali), gli stuccatori potessero servirsi di appositi stampi; piú difficile è invece credere che tali stampi fossero impiegati, se non eccezionalmente, per creare figure piú grandi o complesse. In ogni caso, se è possibile che gli stampi fossero effettivamente adoperati per ottenere i contorni generali delle figure, è fuor di dubbio che la maggior parte dei dettagli fosse modellata a mano libera dagli stuccatori. E proprio questi dettagli realizzati a mano libera dagli artigiani sono il tratto distintivo e piú vitale delle opere in stucco: qui, infatti, è possibile riconoscere la freschezza e l’originalità del lavoro delle maestranze (vedi box a p. 43). Sulle volte le ornamentazioni sono caratterizzate da una maggiore varietà e ampiezza, con motivi composti da un reticolo di quadrati, che possono unirsi a formare rettangoli larghi e oblunghi, i quali, a loro volta, possono essere riempiti con elementi decorativi geometrici, come losanghe o medaglioni; oppure si realizzano schemi caratterizzati da quadrati concentrici, da elementi curvilinei, o ancora da intrecci di motivi geometrici costruiti attorno a un medaglione centrale. Tra gli esempi piú celebri di soffitti o volte realizzati interamente in stucco, vale certo la pena ricordare la ricca
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decorazione della Basilica sotterranea di Porta Maggiore a Roma: si tratta di un’aula di tipo basilicale a pianta rettangolare, divisa in tre navate, di cui la centrale conclusa in un’abside e datata nella prima metà del I secolo d.C. (probabilmente durante il regno di Tiberio). Le raffigurazioni, che secondo alcuni componevano un ciclo dal complesso simbolismo neopitagorico, mostrano scene di educazione intellettuale, immagini di genere e quadri mitologici affiancati da una selva di motivi figurativi minori, come raffigurazioni di divinità e di devoti, paesaggi sacri, tavole (trapezai) con oggetti di culto.
Paesaggi e quadri mitologici Ma altrettanto raffinati sono gli stucchi che decorano, sempre a Roma, i soffitti della Villa della Farnesina, in cui, accanto a motivi ornamentali (elementi egittizzanti, medaglioni con teste di Medusa detti gorgoneia, motivi floreali, cariatidi, cornici a onde correnti), predominano raffigurazioni di paesaggio, immagini con scene di culto e scene narrative di
Riquadro della volta del cubicolo E della Villa della Farnesina con la raffigurazione del Sole. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
Ancora un particolare degli stucchi della Villa della Farnesina, con un paesaggio idillico-sacrale. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
tipo mitologico (nello specifico Fetonte che chiede al padre Sole di poter guidare il suo carro nel cielo e le Ore intente a preparare il cocchio). Cosí come per gli affreschi, è da credere (anche se non abbiamo testimonianze precise al riguardo) che gli stuccatori lavorassero in squadre organizzate e che, all’interno di un medesimo ambiente, la decorazione fosse realizzata da piú artigiani, che operavano simultaneamente su diverse porzioni. In base allo «stile» con cui è stato realizzato il decoro, nella volta della Basilica sotterranea di Porta Maggiore è possibile riconoscere diverse mani: lo schema base – pur rispettato nelle sue linee essenziali – è stato variamente interpretato, a volte con una notevole libertà, a seconda del gusto personale della maestranza all’opera o della sua personale competenza/esperienza. Allo stesso modo, anche i raffinatissimi stucchi della Villa della Farnesina mostrano l’intervento di piú artigiani, anche se qui sembra predominare
una sola mano, probabilmente quella del «maestro»; questa sorta di artigiano-artista potrebbe essere responsabile del disegno generale riprodotto sulla volta oppure potrebbe aver eseguito personalmente, con l’aiuto di altre maestranze, un disegno poi messo in opera da terzi, come nel caso degli allievi di Raffaello, che procedevano alla realizzazione dei disegni del maestro. E proprio la decorazione della Villa della Farnesina, in cui è possibile riscontrare una forte coerenza tematica e stilistica tra le ornamentazioni ad affresco e quelle in stucco, suggerisce non solo l’appartenenza delle diverse maestranze a un comune ambiente artistico, ma anche la stretta collaborazione tra stuccatori e pittori; è quindi possibile che uno o piú artigiani possano aver operato in entrambi i sistemi decorativi, secondo un uso ben noto nel post-antico (basti per esempio ricordare Giovanni da Udine, pittore oltre che decoratore, attivo nella prima metà del Cinquecento).
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L’AFFRESCO
LA LEZIONE GRECA | PITTURA ROMANA | 48 |
Verghina (Macedonia, Grecia), Tomba di Persefone. Affresco interno alla camera funeraria con Ade che rapisce Persefone. L’opera è stata attribuita alla bottega di Nicomaco, o da alcuni allo stesso Nicomaco, pittore greco attivo fra il 390 e il 340 a.C.
Gli artisti romani si avvalsero largamente delle creazioni elaborate, prima di loro, in terra ellenica. Quelle repliche e quelle rivisitazioni sono oggi la testimonianza piú vivida e attendibile di un patrimonio in larga parte perduto
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ttestazioni di decorazione parietale di edifici privati e di complessi pubblici o di culto antecedenti il II secolo a.C. sono decisamente molto rare, anche a causa delle lunghe vicende di cambiamenti e di spoliazioni subite dai monumenti nel corso del tempo. La maggior parte della documentazione archeologica è pertinente ad alcuni complessi funerari dell’Italia centro-meridionale e della Macedonia, espressione di una committenza regale o comunque elitaria: all’interno delle camere sepolcrali vengono dipinti motivi ornamentali e figurati scelti perlopiú in relazione al significato del luogo. Nella decorazione delle tombe si afferma un’architettura illusionistica prima in facciata e, progressivamente, anche nelle pareti interne, come è evidente soprattutto negli esempi provenienti dalla Macedonia, da Napoli e dall’Apulia. In particolare, nel ricco ventaglio di pitture macedoni (a oggi ne sono note piú di 70, per un arco di tempo che va dalla metà del IV sino al II secolo a.C.), è possibile scorgere un’eco delle coeve conquiste pittoriche, permettendo di seguire le acquisizioni nella resa dello spazio e negli effetti di luce, nelle tecniche preparatorie e nei colori.
Celebrazione e autorappresentazione I temi figurativi sono desunti sia dal repertorio funerario, come dimostra il bell’esempio con il ratto di Persefone da parte di Ade nella cosiddetta Tomba di Persefone a Verghina (l’antica capitale della Macedonia), sia da quello dell’autorappresentazione dei defunti (scene di
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GLI ANTECEDENTI
Le tombe regali di Macedonia
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estinate ad accogliere le sepolture degli illustri defunti della famiglia reale macedone, le tombe di Verghina rappresentano la piú diretta testimonianza delle conquiste tecniche e artistiche a cui erano approdati i pittori del IV secolo a.C. Il monumento sepolcrale attribuito a Filippo II, padre di Alessandro Magno, mostrava sulla facciata, al di sopra della porta di ingresso, un fregio in cui compare una serie di personaggi, a piedi o a cavallo, impegnati in concitate attività di caccia: a partire dall’estremità sinistra, si riconoscono una caccia al cervo, una al cinghiale, una al leone e una all’orso, in un progressivo crescendo di pericolosità. Prendono parte alle imprese anche Alessandro e suo padre Filippo, riconoscibili rispettivamente nel giovane cavaliere che brandisce la lancia e nel piú anziano cacciatore, sempre a cavallo, che colpisce mortalmente il leone. Scandite da una vegetazione abbozzata e sintetica, le scene sono ambientate in un boschetto sacro (con alberi spogli o frondosi, pilastri con bende appese), la cui profondità è suggerita dal fondo neutro. Contribuiscono a creare un senso di spazialità le posizioni anche ardite dei personaggi, visti frontalmente o addirittura di spalle, e dei cavalli resi di scorcio.
La drammaticità degli eventi è espressa dai concitati gesti degli uomini e dei destrieri imbizzarriti, mentre la complessa composizione è sapientemente realizzata con toni sfumati e abile uso degli effetti chiaroscurali. L’assenza di un disegno preparatorio, a eccezione delle linee oblique delle lance dei cacciatori, suggerisce che l’artista probabilmente dipingeva ispirandosi a un modello o a un cartone di riferimento. Con tutt’altra tecnica, di gusto «impressionistico», sono invece realizzati i dipinti della Tomba di Ade e Persefone, in cui il forte dinamismo e l’atmosfera luttuosa della scena del rapimento sono costruiti mediante l’uso di un tracciato preparatorio velocemente inciso sull’intonaco fresco e il ricorso a brevi e rapide pennellate di colore. Il fulcro della scena è rappresentato dal momento in cui Ade, dio degli inferi, afferra la sciagurata Persefone (figlia della dea Cerere) e la trascina con sé nel regno dei morti. L’impeto del momento è indicato dalla resa prospettica delle ruote del carro, dalle chiome e dalle vesti sconvolte dalla corsa. La fanciulla, disperata, tende invano le braccia, mentre la compagna, atterrita, assiste impotente al rapimento. Clelia Sbrolli
caccia, cortei, banchetti), ma non mancano anche motivi a carattere prettamente decorativo. Le facciate monumentali delle tombe rispecchiano spesso le partiture architettoniche contemporanee: pensiamo per esempio alla cosiddetta Tomba di Filippo, sempre a Verghina, la cui facciata presenta un ordine dorico (colonne e fregio a triglifi in stucco blu e metope bianche) sormontato da un lungo fregio
dipinto ad affresco raffigurante scene di caccia (vedi box in questa pagina). Nella Tomba del Giudizio di Lefkadia (III secolo a.C., nel Nord della Grecia) la facciata a due piani evoca, secondo un’impostazione illusionistica, la porta di una città in cui, al di sopra dell’ingresso alla camera funeraria scandito da colonne doriche, si sovrappongono due fregi: un fregio dorico dipinto con l’imitazione di
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Verghina (Macedonia, Grecia). La facciata monumentale della tomba attribuita a Filippo II, padre di Alessandro Magno. Sopra l’ingresso, corre un fregio con scene di caccia, del quale, nella pagina precedente, è riprodotto il disegno ricostruttivo. Alla battuta partecipano anche Alessandro e suo padre Filippo, riconoscibili, rispettivamente, nel giovane cavaliere che brandisce la lancia e nel piú anziano cacciatore, a cavallo, che finisce il leone con un colpo di lancia.
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GLI ANTECEDENTI
metope contenenti immagini di lotta tra Lapiti e Centauri; un fregio ionico in stucco su fondo azzurro con scene di battaglia tra cavalieri e opliti (macedoni e persiani). L’illusionismo arriva addirittura a interessare le tecniche di realizzazione dei due fregi: le figure di quello ionico, a rilievo, all’occhio dell’osservatore producono l’effetto di una pittura su fondo
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azzurro, mentre le figure delle metope, dipinte con un colore beige-dorato, sembrano emergere dalla superficie quasi fossero a rilievo. Nella parte inferiore, tra gli intercolumni, sono dipinti, a sinistra, il defunto in abiti militari ed Ermes, il dio che conduce i morti nell’Aldilà, mentre a destra i giudici infernali Eaco seduto e Radamante stante; all’interno della camera sepolcrale
Lefkadia (Macedonia, Gecia), Tomba del Giudizio. Facciata con fregio dorico dipinto con l’imitazione di metope con lotte tra Lapiti e Centauri e fregio in stucco con scene di battaglia tra cavalieri e opliti.
la decorazione è ad architetture (bianche) eseguite in stucco a rilievo su fondo blu e rosso e finti blocchi isodomi: questa maniera di scandire la parete si rifà a quella propria delle case private – e prima ancora dei palazzi reali –, secondo una moda che si andrà sempre piú diffondendo in tutto il bacino del Mediterraneo. Sempre a Lefkadia, nella Tomba di Lisone e Callicle, si osserva invece un gusto per il trompe-l’oeil, giacché le pareti della camera sepolcrale hanno una decorazione architettonica con pilastri, che reggono in maniera illusionistica un architrave e dai quali pendono ghirlande dipinte, che a loro volta definiscono la funzione di corredo dell’ambiente funerario. Nel tempo, questo tipo di decorazione diventa dominante nelle sepolture, in quanto si tende progressivamente a sostituire le scene figurate con motivi ornamentali e vegetali, secondo un gusto ben attestato a Taranto e a Napoli. Alcune tombe di Taranto mostrano infatti finte lesene dalle quali pendono ghirlande disposte a festone, inserendosi cosí nel solco di una moda ampiamente diffusa a partire dal III secolo a.C. e convenzionalmente chiamata «ghirlandomania»: i festoni tarantini restituiscono un ampio spettro di forme e sono spesso arricchiti da bende od oggetti pendenti, come quadretti, coroncine, strumenti musicali e maschere teatrali. Peculiari sono poi le raffigurazioni di finte porte, che riproducono in maniera illusionistica due battenti, con pannelli a riquadri di diversi colori e finte inferriate. Nella cosiddetta Tomba delle Danzatrici di Ruvo di Puglia, con le sue teorie di giovani donne danzanti, si riscontra ancora un interesse per la pittura monumentale nella quale predomina l’immagine figurata, cosí come succede in alcuni esempi di Egnazia (in Puglia), dove i temi figurativi coprono interamente le pareti. Le monumentali tombe di Napoli,
collocabili tra la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C., testimoniano una raffinata decorazione pittorica che elimina piú complesse composizioni figurate e predilige, semmai, la riproduzione di finte architetture, arricchite da motivi vegetali e oggetti di carattere rituale a simulare materiali diversi: candelabri, lucerne, patere, talvolta addirittura abbelliti da miniaturistiche scene a rilievo e illusionisticamente appesi a chiodi dipinti. Nella straordinaria tomba C dell’Ipogeo dei Cristallini le pareti sono scandite da paraste a rilievo con capitelli figurati, dalle quali pendono eleganti festoni e fasce dorate impreziosite da bende; le ghirlande, collocate illusionisticamente in secondo piano dietro alle paraste, creano un forte effetto di spazialità. Nella parte inferiore delle pareti si addossano una serie di klinai (i letti funebri) completamente dipinte.
Figure a grandezza naturale Leggermente diverso è il panorama offerto dalle tombe di Paestum, databili tra il V e il III secolo a.C., in cui la perizia tecnica degli artigiani si manifesta ora nella padronanza della linea di contorno e nei giochi cromatici, ora nell’uso sapiente del chiaroscuro e nella capacità di realizzare figure a mano libera. Sebbene le camere sepolcrali contengano elementi architettonici in forma di modanature e non manchi una certa sensibilità per l’architettura stessa come fonte di ispirazione, le pitture tendono perlopiú a riprodurre figure a grandezza naturale, che occupano l’insieme dello spazio da decorare senza alcuna delimitazione. Negli esempi della necropoli di Spinazzo predominano vivaci scene realistiche che raffigurano la vita quotidiana o i banchetti funebri, immagini volte a celebrare l’ideologia di un gruppo famigliare. La scena principale è di solito incentrata sull’incontro tra due personaggi dipinti sulla parete di fondo, generalmente seguiti da
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GLI ANTECEDENTI
cortei, che si dispiegano sulle pareti laterali, composti in maniera differente a seconda del rango e dell’età della persona scortata; in particolare, il corteo per i personaggi femminili annovera tra le sue schiere non solo i membri della famiglia, ma anche ancelle che recano oggetti funzionali. I contorni delle figure sono delineati in maniera precisa con una sottile linea nera, tocchi di colore rosa a densità variabile modellano le carni accentuando, con giochi di tono, la plasticità delle forme. Tutti i personaggi, soprattutto quelli maschili, sono in genere individualizzati con peculiari caratteri ritrattistici, tanto da costituire una sorta di grande album di famiglia. Le ombre portate mettono in risalto i chiodi dipinti sulla parete cui sono appesi in maniera fittizia corone, strigili, vasi e ventagli, a simulare una sorta di trompe-l’oeil; minuta è inoltre l’attenzione per i dettagli, con particolare riferimento alla rievocazione di oggetti di metallo e di corone, per la resa dei quali gli
artigiani fanno ricorso a tratti profondamente incisi nell’intonaco fresco, successivamente ravvivati da colori intensi e rari come il blu cielo.
L’affollato oltretomba degli Etruschi Meritano poi di essere ricordate anche le pitture delle tombe etrusche, che potrebbero in certa misura riflettere la decorazione – completamente perduta – delle abitazioni private. Le composizioni, che occupano per intero le camere funerarie, mettono in scena banchetti o cortei, evocativi al contempo di processioni di magistrati e dell’ultimo viaggio nell’Aldilà; un oltretomba popolato da demoni o da immagini dei propri defunti. Si tratta evidentemente di raffigurazioni volte alla celebrazione dei grandi gruppi famigliari. Anche in questi contesti si sperimentano rappresentazioni illusionistiche, con particolare attenzione alla resa dei volumi. I motivi decorativi delle tombe, soprattutto nel caso di quelle di Tarquinia, sono del tutto Nella pagina accanto particolare del fregio della Tomba delle Danzatrici di Ruvo di Puglia (Bari). Fine del V-primo quarto del IV sec. a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra lastra tombale dipinta raffigurante il ritorno di un cavaliere, accolto dalla moglie, dalla necropoli scoperta in località Andriuolo, a Paestum. IV sec. a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale.
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GLI ANTECEDENTI
In alto lastra tombale dipinta raffigurante un cavaliere, da Paestum. IV sec. a.C. A destra lastra tombale dipinta raffigurante una corsa di bighe, dalla tomba n. 4 della necropoli scoperta in località Vannullo, a Paestum. Metà del IV sec. a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale.
diversi da quelli romani, tanto da suggerire che i pittori della tarda età repubblicana e della prima età imperiale non si siano poi molto ispirati a questi antecedenti: l’importazione di materiali di lusso e di forme culturali dalla Grecia e dall’Oriente ellenistico ha influito maggiormente sullo sviluppo del design romano rispetto al ruolo, forse piú marginale, giocato dal mondo etrusco.
Il Masonry Style o sistema strutturale A partire dalla metà del III sino alla fine del II secolo a.C. iniziano a essere documentate case caratterizzate da un nuovo genere decorativo, con schemi e composizioni parietali che si inseriscono nella tradizione del cosiddetto Masonry Style, nome convenzionale utilizzato per indicare il sistema strutturale: si tratta di uno stile che riproduce negli interni privati l’apparato architettonico dei monumenti pubblici. Al progressivo affievolirsi dell’uso della pittura in ambito funerario, fa da contraltare la sua prorompente affermazione
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GLI ANTECEDENTI
nei contesti pubblici e domestici, tanto da divenire presto espressione peculiare della decorazione di età romana. Va precisato che il Masonry Style è già noto a partire dalla fine del V secolo a.C., come attestano alcuni frammenti rinvenuti nell’agorà di Atene, anche se la documentazione piú consistente si colloca proprio a partire dalla fine del IV secolo a.C., come dimostrano gli esempi provenienti dalle case di Pella (Macedonia), da Kerç (nella zona di Panticapeo nella Russia meridionale), da Arpi (Apulia), nonché da Gela e Morgantina (Sicilia). Le decorazioni parietali realizzate nello stile strutturale imitano i rivestimenti, perlopiú marmorei, che dovevano risplendere all’interno dei templi e dei palazzi ellenistici, come quelli di Pergamo e di Alessandria, giocando sia sui colori monocromi volti a riprodurre la struttura di un muro in blocchi – con la delineazione in filari di ortostati e placche, specchiature e bugne rese anche a rilevo tramite l’uso dello
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stucco –, sia contrapponendo tinte forti, organizzate in maniera geometrica e imitative di reali rivestimenti in marmo prezioso. Particolarmente raffinata è la soluzione adottata per la parete della Casa degli Intonaci dipinti di Pella, datata alla fine del III secolo a.C. e straordinariamente conservata per tutta la sua altezza: la metà inferiore è caratterizzata da uno zoccolo grigio su cui si imposta una fila di ortostati, con grandi riquadri bianchi separati da fasce verticali rosse e azzurre; gli ortostati sono a loro volta sormontati da una fascia in rosso ocra e da una gialla, alternate a fasce bianche aggettanti impreziosite da stucchi. La metà inferiore della parete serve, in maniera fittizia, da basamento alla decorazione della porzione superiore, realizzata come fosse un finto porticato aperto illusionisticamente verso l’esterno: i riquadri grigio-azzurri, posti sopra scomparti rossi che fungono da balaustra, simulano infatti
Sulle due pagine pitture murali provenienti da case di Delo. II sec. a.C. Delo, Museo Archeologico.
altrettante aperture. Il tutto è scandito da una serie pilastri bianchi aggettanti, che paiono reggere l’architrave soprastante.
Buen retiro per mercanti facoltosi L’apparato decorativo delle case di Pella costituisce un antecedente delle abitazioni di Delo, isola che fiorisce proprio nel corso del II secolo a.C., quando, dopo essere stata dichiarata porto franco dal senato romano, diventa sede di ricchi mercanti di origine italica. Le pareti delle case, ricoperte da un intonaco molto fine, mostrano generalmente decorazioni a blocchi sagomati, simili a un bugnato, evocative di reali apparati architettonici: sopra uno zoccolo su cui poggiano gli ortostati, si sovrappone un fregio che segna il passaggio tra la parte bassa e quella alta del muro; la zona superiore è caratterizzata da una decorazione in bugnato sormontata da una cornice che corrisponde
alla sommità della parete fittizia, a cui fa seguito una campitura blu che si estende fino al soffitto a rievocare il cielo. I colori utilizzati – il rosso, il nero e il giallo – aumentano la vivacità delle decorazioni pittoriche. In partiture cosí rigidamente definite, la zona piú soggetta a fantasiose variazioni è quella del fregio mediano, in cui possono variamente comparire: modanature con motivi geometrici; ovuli e trecce che inquadrano una successione di fasce, a volte policrome, a imitazione delle venature del marmo; decorazioni a meandro; motivi floreali e finanche scene figurate. Tra i temi rappresentati si annoverano scene di genere (bighe guidate da Vittorie o da Amorini), oppure raffigurazioni piú complesse – ricche di spunti per ulteriori sviluppi posteriori – aventi per oggetto immagini tratte dalla commedia o dalla tragedia oppure episodi mitologici (tra cui Bacco che trova Arianna addormentata).
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QUESTIONI DI STILE La distinzione di quattro «sistemi» decorativi elaborata da August Mau alla fine dell’Ottocento costituisce ancora oggi la griglia di riferimento per lo studio della pittura romana. Uno strumento, quello proposto dallo studioso tedesco, rivelatosi capace di scandirne con efficacia l’evoluzione
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ome abbiamo detto, a partire dal II secolo a.C. irrompe nel mondo romano la moda di decorare gli interni delle case con pareti sfarzosamente affrescate: si tratta, in generale, di ornamentazioni che riproducono elementi architettonici, sia tramite l’imitazione di materiali pregiati o di oggetti reali, sia attraverso la creazione di uno spazio illusionistico; e difatti la «finzione» era un motivo costante delle realizzazioni pittoriche. Occorre tuttavia considerare che, allora come oggi, le ornamentazioni erano soggette a repentini cambiamenti di gusto. Per suscitare ammirazione e conquistare cosí un nuovo status sociale era necessario essere sempre
Roma, Casa di Augusto. Uno scorcio della Sala delle Maschere, la cui decorazione pittorica simula una complessa architettura, ispirata alle scenografie teatrali. II stile, 30 a.C. circa.
aggiornati con le nuove tendenze, fatto che comportava una spesa non indifferente di tempo, di energie e di denaro. La scelta di un decoro, magari eccessivo o che non si inseriva pienamente nella moda all’epoca imperante, poteva anche cadere nel ridicolo e rovinare la tanto agognata ascesa sociale: la padronanza delle «linee guida» delle ultime tendenze culturali era dunque un elemento importante di distinzione. In questo quadro di riferimento ben si comprende la grottesca figura di Trimalchione (Petronio Satyricon 59), il ricco liberto che cerca di conquistare il rispetto sociale con eccessiva e pacchiana ostentazione di ricchezze all’interno della propria dimora; il tutto condito da una
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I SISTEMI DECORATIVI
scarsa conoscenza culturale, come dimostrano i suoi improbabili sproloqui mitologici a partire dalle raffigurazioni ivi dipinte, allorché, per esempio, non distingue le varie figure eroiche o confonde celeberrimi episodi leggendari.
Le pitture come riflesso delle mode Quando si parla di «pittura romana», la mente si volge direttamente alle città del comprensorio vesuviano, che ci hanno restituito una enorme quantità di apparati decorativi (pubblici e privati) per un arco di tempo che va dal II secolo a.C. al 79 d.C.; apparati decorativi caratterizzati da schemi e sintassi tra loro molto diversi, che riflettevano tuttavia le mode in voga a Roma. Proprio le pitture parietali provenienti principalmente da Pompei ed Ercolano sono state classificate, sulla scorta delle trasformazioni nello stile, nei motivi decorativi e nelle scelte cromatiche, in 4
Marmi e alabastri per le case di Pompei
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a Casa del Fauno è una delle piú antiche e illustri dimore di Pompei e costituisce una delle piú pregiate attestazioni di I stile pompeiano. Il vestibolo d’ingresso (fauces), che appunto costituiva il diaframma tra l’esterno e l’interno della casa, era visibile dalla strada e accoglieva una sontuosa
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Nella pagina accanto, in alto e in basso due immagini delle pitture che ornano gli ambienti della Casa del Fauno, a Pompei. Nella pagina accanto, in basso la «divinazione», vale a dire la proposta di ricostruzione grafica della Casa del Fauno elaborata da Pasquale Maria Veneri. 1855. Napoli, Museo di San Martino.
grandi sistemi cronologicamente definiti, i cosiddetti 4 stili pompeiani, individuati dallo studioso tedesco August Mau (1840-1909) alla fine del XIX secolo (1882) e ancora oggi in uso dagli archeologi per tutto il materiale romano dalla fine del II a.C. alla metà del I secolo d.C. Nel solo arco di un secolo e mezzo è stato infatti possibile osservare una serie importante di cambiamenti di tendenza nella decorazione degli interni; cambiamenti che riflettono non già una differenza nella maniera di dipingere o nelle tecniche di esecuzione, quanto piuttosto un modo diverso di concepire lo spazio e la parete, che, a loro volta, riecheggiano i sistemi culturali di riferimento di un mondo allora in rapida espansione. La distinzione convenzionale operata da Mau si basava sul confronto fra i dati archeologi visibili – e in costante, progressiva scoperta – e le fonti letterarie, in particolare il capitolo V del libro VII
decorazione a finte incrostazioni litiche, in cui bugne, ortostati e pilastri erano realizzati tridimensionalmente in stucco. I pannelli della zona mediana ricordavano le venature del prezioso alabastro, seppur in
del già piú volte ricordato De architectura, in cui Vitruvio sviluppa riflessioni teoriche, che potremmo definire storico-artistiche ante litteram, sulle modalità decorative a lui coeve in rapporto a quelle precedenti. Ma se le città campane sono un vero e proprio scrigno di tesori, anche Roma stessa è una fonte interessante di dati (pensiamo solamente alle pitture della Domus Aurea), sebbene la forte frammentarietà dei ritrovamenti renda piú difficile la possibilità di tracciare un quadro complessivo delle attestazioni. Sono inoltre numerosi gli esempi di partiture ad affresco, rinvenute in stato frammentario o (piú raramente) ancora in situ sulle pareti, provenienti dalle zone provinciali, prima fra tutte la Gallia (Francia); ma importanti occorrenze sono note anche in Spagna, in Svizzera o in Austria (famose, in particolare, sono le pitture degli inizi del I secolo d.C. da
redazioni di fantasia, non rispondenti cioè a screziature e litotipi esistenti in natura. Le bugne del filare sovrastante evocavano brecce variopinte, con grande effetto decorativo. La zona superiore, che poggiava
su una elaborata cornice a cassettoni fortemente aggettante, era invece fastosamente allestita, in stucco a rilievo, come la facciata di un tempietto corinzio con quattro colonne sulla fronte. Attraversate le fauces, si accedeva poi al grande atrio (alto ben 16 metri!), anch’esso impreziosito da una decorazione in I stile, il cui registro superiore riproduceva, come pertinente a una sorta di secondo piano, una galleria cieca, scandita da semicolonne ioniche di stucco. Al momento della fatale eruzione del 79 d.C., le pitture di questi ambienti di rappresentanza avevano almeno duecento anni e per i proprietari rappresentavano certamente un segno di prestigio. Clelia Sbrolli
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I SISTEMI DECORATIVI
Magdalensberg). Queste pitture ci illustrano come i sistemi decorativi sviluppati nella capitale, il centro propulsore delle mode, si fossero diffusi in tutto l’impero. Per i periodi successivi alla seconda metà del I secolo d.C. significative attestazioni archeologiche sono offerte da siti che, per condizioni storiche particolari, hanno conservato importanti complessi pittorici, primo fra tutti Ostia, dove i caseggiati, abbandonati tra l’età tardo antica e il primo Medioevo, furono gradualmente ricoperti dal fango del Tevere e vennero poi nuovamente in luce solo a partire dall’Ottocento. Le pitture di Ostia sono uno dei riferimenti principali per un arco cronologico che va dal II al IV secolo d.C., anche se la documentazione risulta molto frammentaria. Circostanze altrettanto
favorevoli di conservazione presenta Efeso (sulle coste della Turchia), giacché in età medievale la città romana venne abbandonata e subito ricoperta da masse di terra e fango provocate dall’erosione delle due montagne fra le quali si estendeva: un quartiere di abitazioni poste sul pendio, definite per questo motivo dagli scavatori austriaci Hanghäuser (Hang= pendio e Häuser= case), hanno restituito raffinate e colorate pitture che vanno dalla fine del I al V secolo d.C. e i cui motivi ornamentali non hanno nulla da invidiare alle pitture di Pompei ed Ercolano. In generale gli schemi decorativi rispettano, come regola canonica, la suddivisione della parete in tre fasce orizzontali: inferiore (plinto e/o zoccolo), mediana e superiore. Di fatto nel mondo romano non esistono due pareti perfettamente identiche per sintassi e dettagli. Al piú, può essere comune lo schema utilizzato – che varia in base al periodo storico di esecuzione –, ma gli elementi ornamentali in esso contenuti sono quasi sempre differenti, giacché gli artigiani, partendo da moduli prefissati, sceglievano la soluzione migliore in base a: capacità personali; richieste dei committenti, che potevano anche voler riproporre quanto avevano visto nella casa del vicino in una tenzone «artistica» molto singolare; ambiente da decorare, secondo un principio di convenienza tra funzione della stanza e tipo di decorazione, già caro alle fonti antiche.
Il I stile o sistema strutturale Il I stile, altrimenti detto sistema strutturale, si sviluppa tra la fine del II e il I secolo a.C. ed è direttamente legato alla tradizione del cosiddetto Masonry Style, che aveva caratterizzato gli apparati decorativi delle case di Pella e di Delo. Esso prevede l’imitazione, tramite l’uso congiunto di pittura e stucco, di un paramento murario reale di ortostati e bugne marmorei; va precisato che lo stucco utilizzato per la creazione delle decorazioni serve non tanto a mascherare i muri, quanto piuttosto a creare architetture fittizie, che amplificano o «rielaborano» quelle esistenti.
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Sulle due pagine Ercolano, Casa Sannitica (II 1-2). Veduta d’insieme (a sinistra) dell’atrio e particolari della decorazione parietale (nella pagina accanto) realizzata secondo i canoni del cosiddetto sistema strutturale, in pittura e stucco.
decoravano i fastosi edifici del IV secolo a.C. (primo fra tutti il Mausoleo di Alicarnasso) e poi i palazzi dei regni ellenistici; alcuni di questi, soprattutto quelli ubicati sulle coste asiatiche, potrebbero anche essere stati visti e conosciuti da altolocati cittadini di Pompei, che proprio con l’Oriente avevano stretti rapporti. Particolarmente interessante è il fatto che Vitruvio, che vive nella seconda metà del I secolo a.C., riconduca l’uso di tale ornamentazione agli «antichi»: il confronto tra la decorazione in sistema strutturale che si sviluppa a partire dal III secolo a.C. e il I stile ci permette da una parte di identificare gli «antichi» vitruviani e, dall’altra, di individuare nel sistema strutturale la variante regionale di uno stile ampiamente diffuso (il Masonry Style) in tutto il bacino del Mediterraneo, riconoscendo al contempo l’importanza delle esperienze tardo-classiche ed ellenistiche nella genesi delle decorazioni di epoca romana. Va però precisato che gli elementi architettonici riprodotti sulle pareti – ortostati e bugne in particolare, ma anche cornici, pilastri o colonne – venivano privati della loro originaria funzione di sostegno, ridotti com’erano a puri elementi decorativi. I muri si presentavano perlopiú come facciate cieche, solo all’apparenza realistiche perché giocate sulla giustapposizione di marmi veri e pietre inventate, riprodotte mediante la pittura e lo stucco; queste tecniche, che pure presupponevano una particolare capacità e Vitruvio descrive la nascita e lo sviluppo di questo primo tipo di sistema ornamentale: «muovendo da tale principio, quegli antichi che inaugurarono l’uso delle decorazioni parietali imitarono inizialmente l’aspetto variegato la disposizione degli stucchi marmorizzati» (arch. 7, 5, 1). Tale tipologia decorativa prevedeva dunque la scansione plastica della parete, attraverso l’imitazione con lo stucco di rivestimenti marmorei policromi (crustae). Il punto di riferimento, culturale prima ancora che ornamentale, è da ricercare nei costosi pannelli policromi in pietra pregiata che
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I SISTEMI DECORATIVI
raffinatezza di esecuzione, permettevano una maggiore libertà nell’uso di colori non comuni e nell’associazione di elementi piú o meno fantastici, come fregi o cornici con diversi motivi ornamentali. I proprietari delle ricche dimore di Pompei ed Ercolano si fregiavano cosí della possibilità di evocare, anche con soluzioni molto ardite, lo sfarzo di quei marmi preziosi e colorati che cominciavano a essere effettivamente importati su larga scala all’inizio del secolo sotto il controllo imperiale: cosí accade, per esempio, negli ambienti affacciati sull’atrio della Casa di Sallustio a Pompei (VI 2, 4) o nel vestibolo d’ingresso della Casa Sannitica di Ercolano (cosí chiamata perché databile nella sua fase originaria al periodo sannitico), dove ortostati poggianti su uno zoccolo connotato come un largo basamento sono sormontati da filari di bugne imitative di lastre di marmo policromo, a cui si sovrappongono diverse cornici aggettanti alternate. In genere le pareti sono caratterizzate da una forte verticalità, spesso accentuata dalla presenza di pilastri aggettanti. La parte superiore dei perimetrali poteva anche essere costruita come un finto porticato con pilastri o semipilastri in rilievo a scandire i diversi piani.
Tra gli esempi piú spettacolari bisogna ricordare il vestibolo della Casa del Fauno di Pompei (VI 12, 2): nella zona superiore quattro piccole colonne corinzie, poggiate su mensole molto sporgenti, si innalzano davanti a una facciata eseguita in trompe-l’oeil con un portale monumentale al centro a evocare la facciata di un tempio (vedi box alle pp. 62-63). Ma altrettanto articolata è la decorazione dell’atrio tuscanico della già ricordata Casa Sannitica, con un finto loggiato (è aperto solo sul lato meridionale) composto da una successione di semicolonne ioniche tra loro collegate da transenne a reticolo eseguite in stucco; la parte inferiore delle pareti è invece stata ridipinta alla metà del I secolo d.C., durante lavori di rinnovamento degli ambienti.
Il II stile o sistema architettonico-illusionistico A un certo punto, intorno al 100 a.C., le modalità ornamentali del sistema strutturale perdono probabilmente la loro efficacia e passano velocemente di moda. Si assiste in questo periodo a una vera e propria rivoluzione nella decorazione degli interni delle case, giacché si abbandona la resa plastica del sistema strutturale, in cui la parete era A sinistra uno dei grifi realizzati in stucco nella Casa che da questi animali fantastici ha preso nome, scoperta a Roma, sul Palatino, nelle fondazioni della Domus Flaviana.
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In alto, sulle due pagine una delle pareti dipinte della Casa dei Grifi (Roma). La decorazione è giocata su architetture in trompe-l’oeil e pannelli in finti marmi policromi.
concepita come uno spazio «chiuso», per abbracciare un nuovo stile esclusivamente pittorico (e dunque bidimensionale), ma con forti spinte prospettiche. I motivi ornamentali tipici del I stile, eseguiti in rilievo, vengono ora realizzati in maniera illusionistica su pareti lisce; evidentemente, la pittura consentiva una maggiore inventiva e libertà espressiva da parte degli artigiani. Questo nuovo stile decorativo, non a caso detto sistema architettonico-illusionistico e che rimane in voga sino al 30 a.C. circa, si contraddistingue per l’imitazione delle reali strutture architettoniche, rese in prospettiva e distribuite sull’intera parete, con crescente effetto di sfondamento illusivo. I primi affreschi restituiscono dunque la traduzione pittorica, potremmo dire la
«versione piatta», degli stucchi tipici del I stile. La piú antica testimonianza è offerta dalla Casa dei Grifi a Roma, venuta alla luce nelle fondazioni della Domus Flaviana sul Palatino e cosí chiamata per la presenza di questi animali fantastici che decorano, in posizione araldica, la lunetta di una delle stanze della casa. Le pareti, con un sapiente gioco illusionistico rafforzato dalla luminosità cangiante dei colori e, soprattutto, dalle ombreggiature, mantengono ancora tutta la loro materialità: il podio dell’ambiente II riproduce in trompe-l’oeil una decorazione in cubi prospettici con pietre e marmi policromi (scutulatum) e immediatamente davanti, eseguiti sempre in trompe-l’oeil, sono ben visibili i piedistalli aggettanti delle colonne che si distaccano su di (segue a p. 73)
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I SISTEMI DECORATIVI
La ricca decorazione pittorica del Capitolium di Brescia, l’antica Brixia. II stile.
Una variopinta dimora per gli dèi
A
l di sotto del Capitolium (il tempio di Giove, Giunone e Minerva), oggi visibile nel centro religioso e civile dell’antica Brixia (l’odierna Brescia), si trovava il santuario di età repubblicana, di cui la collettività si dotò nel I secolo a.C. Il monumento era costituito da quattro aule disposte in successione, ognuna delle quali
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ospitava al suo interno la statua di una divinità ed era sontuosamente affrescata con vivaci decorazioni di II stile. Nelle aule piú esterne, la parte inferiore della parete era ornata da un tendaggio dipinto, illusionisticamente appeso tra le colonne in primo piano, il quale, increspandosi, in parte disvelava lo
zoccolo retrostante decorato a imitazione di bugne marmoree. In tutti gli ambienti, la zona mediana delle pareti era scandita in grandi ortostati disposti di testa e di taglio, riproducenti ora litotipi evocativi brecce, ora tipologie di alabastri. L’intero apparato decorativo, sapientemente allestito, in cui le semicolonne dipinte riflettevano
quelle reali dilatando illusionisticamente lo spazio, contribuiva a guidare l’osservatore verso l’edicola centrale, la cui decorazione, articolata in specchiature monocrome, pregevoli, ma piú sobrie, fungeva da appropriato fondale per la statua di culto ivi collocata. C. S.
Pitture in 3d. La villa di Poppea a Oplontis
C
on i dipinti che ne arricchiscono le aree di rappresentanza, la villa di Oplontis è uno degli esempi piú significativi della pittura di II stile. Gli affreschi erano ritenuti di grande prestigio già in antico: ogni volta che la dimora subí interventi di ristrutturazione e ampliamento nel corso della sua lunga vita (dal I secolo a.C. al 79 d.C.), i diversi proprietari che si avvicendarono nel tempo (tra i quali si annovera addirittura Poppea, moglie dell’imperatore Nerone) scelsero sempre di preservare gli originari arredi pittorici. Nell’atrio e nelle stanze di ricevimento le pareti erano decorate da complesse quinte architettoniche, le
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cui sporgenze e rientranze, grazie a giochi di luci e ombre che definivano plasticamente i volumi, sembravano emergere tridimensionalmente dalla superficie piana del muro. A dilatare lo spazio della parete provvedevano poi gli scorci prospettici che si aprivano in secondo piano e che, come attraverso altrettante finestre, mostravano vedute di edifici sullo sfondo azzurro del cielo. Cosí, attraverso il cancello socchiuso del santuario di Apollo, nella stanza di soggiorno (d), sembrava di entrare nel retrostante peristilio ed esplorarne lo spazio colonnato; oppure, all’interno dell’atrio, si aveva l’impressione di trovarsi di
Oplontis. L’atrio della Villa di Poppea, decorato da quinte architettoniche. Le pitture della magnifica residenza costituiscono uno degli esempi piú significativi del II stile.
fronte alla facciata di un palazzo ellenistico, illusionisticamente accessibile da imponenti porte a doppio battente posizionate in cima a tre gradini. Tutta la decorazione era inoltre arricchita da un tripudio di oggetti simbolici (maschere, tripodi, torce, scudi...), animali e architetture, resi plasticamente e cosí attentamente caratterizzati nei volumi e nei materiali da sembrare reali. Con grande maestria sono rese la lucentezza della coppa vitrea ricolma di frutta nel lussuoso ambiente da ricevimento (f) e la trasparenza del velo leggerissimo che copre il cesto di primizie nel medesimo vano, o anche, su piú larga scala,
l’imitazione delle varietà di marmi pregiati con cui sono realizzate le colonne nel triclinio (c), tanto splendenti da riflettere la luce fittizia che le colpisce. Ogni dettaglio della decorazione, in un’inesauribile ricerca di sfarzo e di rimandi allegorici, traduceva in pittura materiali preziosi ed elementi architettonici e contribuiva cosí a realizzare un’atmosfera di lusso e abbondanza, come ben dimostrano le colonne dorate del triclinio (c), ornate da tralci vegetali metallici che si avvolgono lungo il fusto e sbocciano in fiori i cui pistilli sono gemme variopinte. C. S.
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I SISTEMI DECORATIVI
Due immagini del cubicolo M della Villa di P. Fannius Synistor a Boscoreale, ricomposto all’interno del Metropolitan Museum of Art di New York. La decorazione parietale presenta scenografie architettoniche ed è un esempio tipico del II stile.
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un fondo scuro in maniera illusionistica; le colonne, con ricchi capitelli compositi ionicocorinzi, reggono a loro volta un architrave reso in prospettiva, il cui rilievo è riprodotto in modo realistico tramite raffinati giochi di luci e ombre. Nella parte centrale delle pareti, dietro alle colonne aggettanti, larghi riquadri raffigurano imitazioni di marmi policromi di cui è addirittura possibile, grazie alla puntuale resa delle venature e dei colori, individuare i diversi tipi mineralogici rappresentati: il cipollino e il porfido. Anche nella stanza IV la decorazione parietale riproduce elementi architettonici realisticamente resi, tra cui colonne scanalate, modanature e muri in bugnato; ritornano qui i cubi prospettici, che vanno tuttavia a riempire i pannelli della zona mediana dei muri. Nel panorama della documentazione dell’Italia settentrionale, arricchitasi negli ultimi anni grazie ai continui rinvenimenti da scavo, una precoce attestazione in II stile si ritrova addirittura in un edificio pubblico, il santuario repubblicano di Brescia: numerosi sono gli elementi di collegamento con il precedente sistema strutturale, tra cui soprattutto l’austerità delle pareti chiuse che riproducono in pittura, con attenzione minuziosa, gli elementi architettonici e strutturali principali
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I SISTEMI DECORATIVI
FILOSOFI E PRODIGI ALLA CORTE DEI RE
U
na magnifica megalografia, dispiegata su un fondo rosso cinabro e di poco piú grande del vero, si trova all’interno dell’ambiente di ricevimento piú importante della villa di P. Fannius Synistor, a Boscoreale. Benché l’identificazione dei singoli personaggi sia tuttora discussa, si tratta con ogni probabilità della commemorazione, in chiave allegorica, della conquista dell’Asia da parte di Alessandro Magno e, piú in generale, della celebrazione della dinastia macedone. Si riconosce infatti la Macedonia, impersonata da una figura equipaggiata di lancia, copricapo con diadema tubolare e scudo adornato dalla celeberrima stella macedone, verso la quale volge lo sguardo una donna seduta abbigliata all’orientale, personificazione dell’Asia (vedi foto alla pagina accanto).
Accanto alle due figure femminili, si trova un vecchio, avvolto in un mantello, che la lunga barba e il bastone nodoso al quale si appoggia contribuiscono a caratterizzare come un filosofo (del quale non è però possibile stabilire l’identità; vedi foto in questa pagina, in basso). La sua presenza è probabilmente da ricondurre al rilievo che tali figure ebbero all’interno della corte macedone. Sulla parete dirimpetto (oggi al Metropolitan Museum of Art di New York) si trovavano invece: il padre di Alessandro Magno, Filippo II, insieme a sua madre Euridice; una figura seduta, identificata come Olimpiade, madre di Alessandro, intenta a suonare la lira e assistita da una ancella; una sacerdotessa che, leggendo il futuro attraverso il riflesso di uno specchio (la pratica divinatoria della katoptromanthía) profetizza la nascita di Alessandro, materializzandone l’immagine in uno scudo dorato. C. S.
(vedi box alle pp. 68-69). Il fatto di ritrovare tale soluzione decorativa in un complesso religioso suggerisce come la creazione degli apparati ornamentali degli spazi domestici sia stata mutuata dalle architetture pubbliche, i cui elementi principali venivano cosí simbolicamente piegati alle esigenze di rappresentanza dei privati. In un secondo momento, negli anni centrali del I secolo a.C., la porzione mediana dei muri si apre verso vedute architettoniche: su pareti solide, inizialmente concepite come spazi chiusi e definiti, si inseriscono a poco a poco vivaci giochi illusionistici e sfondamenti prospettici, come finestre e aperture attraverso le quali fanno capolino ulteriori spazi dominati da vedute architettoniche (cittadine, santuari, palazzi) oppure paesaggistiche, con porticati e giardini spesso popolati da uccelli. Si tratta, come scrive Vitruvio, di «imitare anche le forme degli edifici, le sporgenze in rilievo delle
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Sulle due pagine particolari della megalografia che ornava l’ambiente di ricevimento piú importante della villa di P. Fannius Synistor, a Boscoreale, oggi esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. In questa pagina, le personificazioni della Macedonia (a sinistra) e dell’Asia; nella pagina accanto, un filosofo.
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Pompei, Villa dei Misteri, salone (oecus) 5. Particolare della megalografia raffigurante una scena di educazione di lettura. II stile, I sec. a.C.
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colonne e dei frontoni» e di «raffigurare nei luoghi aperti quali le esedre, in ragione dell’ampiezza delle pareti, sfondi scenici di genere tragico o comico o satiresco, e nelle passeggiate coperte, in ragione della loro estensione in lunghezza, [di] fare decorazioni attingendo alla varietà dei paesaggi, rappresentando immagini conformi agli elementi paesaggistici peculiari» (arch. 7, 5, 2). Rese in maniera prospettica, le architetture risultano vertiginose e appaiono caratterizzate da un complesso gioco di spazi aperti e chiusi, di linee di colonnati stagliati contro l’infinito dei fondali blu del cielo e di campi chiusi alla vista da portali o sportelli, come accade nella Villa di P. Fannius Synistor a Boscoreale oppure nella Villa di Poppea a Oplontis (Torre Annunziata Napoli; vedi box alle pp. 70-71). Ma in questi mondi diversi e immaginari non c’è posto per la figura umana: la volontà è quella di creare uno spazio altro, connotato spesso da un vago carattere sacro, come suggerisce la presenza di luoghi e oggetti di culto. Lo scopo è di far apparire piú ampio l’ambiente decorato, pur se appesantito dalla profusione di elementi architettonici: colonne, nicchie o architravi; e ancora pareti esterne di palazzi, edifici sacri, porte monumentali...
Echi ellenistici Lo sviluppo del sistema architettonicoillusionistico verso queste nuove forme coincide peraltro con un periodo nel quale la decorazione dei teatri lignei temporanei (a seguito del divieto di edificare teatri in pietra, aggirato solo da Pompeo nel 55 a.C.) diviene un elemento importante nell’evergetismo politico, dando vita a un artigianato di arti effimere che affonda le proprie radici nel lusso delle corti ellenistiche. Le sintassi parietali si ispirano dunque alle scenografie teatrali e, del resto, la sceanographia costituisce di per sé un genere pittorico, alla pari del ritratto, del paesaggio o della natura morta. Essa trova un precedente illustre in Agatarco di Samo (460-420 a.C.), pittore appunto di scenografie teatrali: per una tragedia di Eschilo, creò infatti
prospettive architettoniche e paesistiche, realizzate sulla base della convergenza delle linee orizzontali verso un fuoco centrale; una sorta di antecedente ante litteram delle realizzazioni prospettiche rinascimentali. Le pitture architettoniche in II stile erano talvolta arricchite dalle cosiddette megalografie, di cui Vitruvio sottolinea la relativa rarità «alcuni inoltre usano la megalographia al posto delle statue» (arch. 7, 5, 2). Si tratta, stando a quanto ci dice il nostro architetto-trattatista, di raffigurazioni aventi per oggetto racconti epico-mitologici, direttamente legati alla tradizione culturale greca e a Omero in particolare; tali composizioni trasferiscono nel mondo privato la decorazione monumentale degli edifici pubblici. Il termine megalografia designa probabilmente non solo la dimensione delle immagini, eseguite su larga scala, ma anche la nobiltà del soggetto rappresentato. Una delle testimonianze piú note ed emozionanti è il salone (oecus) 5 della Villa dei Misteri di Pompei: al di sopra di un podio continuo in trompe-l’oeil, corre un sistema di paraste sul quale agisce una selva di personaggi riprodotti in dimensioni vicine al vero, mentre nella zona superiore dei muri un ricco fregio vede in successione: un motivo geometrico di meandri prospettici, una serie di riproduzioni di lastre marmoree, un tralcio vegetale su fondo scuro. Immagini di vita «reale» (scene di lettura e di toletta) si combinano con personaggi del corteggio bacchico (Sileno, giovani satiri e menadi, insieme all’epifania di Bacco stesso, raffigurato abbandonato sul seno di Arianna o della madre Semele nella parete di fondo della stanza), fondendo cosí insieme una dimensione sociale e una iniziatica legata ai misteri dionisiaci. Se nella Villa dei Misteri prevalgono le allusioni metafisiche, nella megalografia del salone (H) della Villa di P. Fannius Synistor a Boscoreale ha la meglio l’aspetto trionfale, con la rappresentazione di Venere ed Eros davanti al proprio tempio, Bacco e Arianna, le tre Grazie, unitamente a una scena allegorica, sulla parete sinistra, che raffigurerebbe il trionfo della
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Macedonia sull’Asia (vedi box a p. 74). Queste grandi composizioni sono solitamente collocate in ambienti spaziosi e di una certa importanza: non a caso, dunque, negli esempi appena citati di Pompei e Boscoreale le ritroviamo nelle sale da banchetto.
Quella «moda depravata»... Nella fase piú tarda del II stile, dopo la metà del I secolo a.C., gli elementi architettonici si fanno sempre piú fantasiosi, discostandosi dalle forme reali e assumendo semmai quell’aspetto immaginifico che Vitruvio critica con toni piuttosto accesi: «Ma questi soggetti figurativi, che erano desunti come copie a partire da elementi reali, ai nostri giorni meritano disapprovazione per colpa del diffondersi di una moda depravata. Sugli intonaci si dipingono infatti mostruosità piuttosto che immagini precise conformi a oggetti definiti: al posto delle colonne, cioè, si dispongono calami, al posto dei frontoni motivi ornamentali con foglie arricciate e volute, e poi candelabri che reggono immagini di tempietti, con teneri fiori che spuntano sopra i frontoni di questi ultimi (...), con all’interno, senza una spiegazione razionale, figurine sedute, ed ancora piccoli steli che recano figurine divise in due metà, una a testa umana l’altra a testa animale. Ma queste figure non esistono, non possono esistere, non sono mai esistite. Come può infatti un calamo sostenere davvero un tetto o un candelabro gli ornamenti di un frontone o un piccolo stelo tanto gracile e flessibile reggere una figurina seduta, o come è possibile che dalle radici e dai piccoli steli nascano ora fiori ora figurine divise in due?» (arch. 7, 5, 3-4). I motivi ornamentali acquisiscono dunque sempre piú importanza: le colonne si vegetalizzano o vengono sostituite da erme, i frontoni sono composti da girali, animali fantastici prendono il posto di telamoni o cariatidi. Si tratta di una moda ben documentata nella capitale in complessi di committenza imperiale, come la Casa di Livia o la Casa di Augusto sul Palatino, ma anche la Villa della Farnesina (vedi box in queste
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La Villa della Farnesina
G
li arredi pittorici della Villa della Farnesina, a Roma (oggi conservati presso la sede del Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo alle Terme), si configurano come esempi di eccezionale valore all’interno del panorama pittorico di età tardo-repubblicana e protoaugustea (fine I secolo a.C., inizio I secolo d.C.), perché di qualità altissima e perché mettono in scena un repertorio pressoché inesauribile di forme e motivi decorativi. Non mancano richiami alle atmosfere d’Egitto sia attraverso ambientazioni esotiche, sia attraverso il ricorso a elementi caratteristici, quali sfingi, fiori di loto e divinità delle terre nilotiche; vi sono poi citazioni di pitture greche di età classica (seconda metà del V secolo a.C.), come
pagine): qui si assiste alla progressiva chiusura della parete e alla tendenza a inserire all’interno delle finte architetture, nella zona mediana, pannelli con scene figurate; la policromia, meno accesa nei contrasti, tende a porre l’attenzione dell’osservatore sulle rappresentazioni volte a suggerire specifici messaggi di natura politica e celebrativa. L’importanza acquisita dalla scena figurata nelle decorazioni domestiche, perlopiú nelle forme di un quadro centrale, è una delle innovazioni principali della pittura romana del periodo, che segnerà in maniera sostanziale lo sviluppo del genere per tutto il secolo successivo. Il nuovo gusto si diffonde presto nelle altre città
Particolare della decorazione su fondo nero del triclinio C della Villa della Farnesina II stile, I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
testimoniano i dipinti all’interno di uno dei cubicoli (B) in cui si scorgono quadretti con fanciulle suonatrici su fondo bianco, o la raffigurazione, di piú grande formato, con la toletta di Venere (foto in alto). Adornava invece il triclinio (C) una decorazione a fondo nero scandita in larghi pannelli in cui sembrano fluttuare paesaggi, ora monumentali ora agresti, sapientemente abbozzati con pochissimi colori, ma dall’effetto estremamente suggestivo. Sopra di essi correva un fregio figurato con scene di giudizio, realizzato con pennellate dense e colori pastosi, che contribuiva ad aumentare il senso vertiginoso di varietà stilistica e di ricchezza decorativa. C. S.
In alto particolare della decorazione dell’ambulacro G della Villa della Farnesina raffigurante maschere teatrali. II stile, I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
«di provincia», tra cui la stessa Pompei, come dimostra l’esempio della Casa del Criptoportico (I 6, 2): nel salone (22) le pareti sono scandite da una successione di erme (piccoli pilastri desinenti in una testa umana), maschili e femminili, con differenti attributi di culto (flauto doppio, patera e bacile, cornucopia), che reggono le mensole di un soffitto a cassettoni sul quale sono sospese, in maniera illusionistica, maschere e vasi di vetro; le erme, in aggetto davanti a un paramento murario composto da finti marmi gialli, sono unite tra loro da festoni di ghirlande. Sopra una cornice ionica si sussegue una serie di quadretti, con ante ripiegate a libro, in cui sono raffigurate nature morte e scene di
culto legate ai misteri dionisiaci. Il criptoportico della stessa casa propone il medesimo schema parietale, ma qui si trovano riquadri in cui, in sessantacinque episodi, sono raffigurati eventi della guerra di Troia. Le scene si susseguono secondo un preciso ordine narrativo e temporale, che parte dalla peste nel campo degli Achei per proseguire con vari episodi, tra cui quelli legati al ciclo di Achille (dalla fabbricazione delle armi da parte di Vulcano alla morte di Patroclo) o alla fondazione di Roma (come il combattimento tra Enea e Achille oppure la fuga dell’eroe troiano con il padre Anchise e il figlio Ascanio). La predilezione della clientela per rappresentazioni ispirate ai racconti omerici è confermata da un ciclo di affreschi scoperti nel XIX secolo in via Graziosa a Roma, nella cosiddetta Casa dell’Esquilino: i riquadri, che riproducono personaggi di piccolo formato che si muovono entro sfondi naturalistici variamente organizzati, mettono in scena le avventure di Ulisse nei paesaggi visitati durante le sue peregrinazioni per tornare nell’agognata patria (vedi box a p. 82).
Il III stile o sistema ornamentale Alla fine del I secolo a.C., durante il principato di Augusto, si assiste a un ulteriore cambio nel gusto pittorico, che riflette il nuovo sistema culturale e politico: il III stile, o sistema
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ornamentale, è infatti caratterizzato dalla stilizzazione delle forme, ormai prive di corposità, che traducono graficamente il classicismo tipico dell’età augustea. In generale, le decorazioni sono organizzate in pannelli monocromi separati da elementi a candelabro o vegetali, con resa miniaturistica, oppure da architetture fortemente stilizzate; spesso il pannello centrale prevale sugli altri e ospita un ampio quadro figurato. Le costruzioni
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Particolare della decorazione parietale in III stile della cosiddetta Sala «nera» della Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase. New York, Metropolitan Museum of Art.
architettoniche, che tanta parte avevano avuto nei sistemi di II stile, non vengono del tutto rinnegate, ma continuano a costituire un elemento importante negli schemi decorativi, pur rivisitate con una nuova sensibilità: senza piú rievocare forme realistiche o tridimensionali, le architetture appaiono ora fortemente semplificate, ridotte perlopiú a una struttura con edicola centrale, fiancheggiata da pannelli laterali. Le rappresentazioni
prospettiche sembrano essere relegate nella parte superiore delle pareti, ma anche in questo caso la loro leggerezza e schematicità grafica ne sottolinea l’aspetto irreale. Predomina, pur in subordine rispetto all’effetto d’insieme, l’elemento ornamentale, eseguito con minuzia calligrafica: particolarmente diffusi, soprattutto agli inizi, sono i motivi derivati dall’Egitto, riconducibili alla vittoria ottenuta da Ottaviano (il futuro Augusto) ad Azio, nel 31 a.C., su Antonio e Cleopatra, e alla conseguente conquista di questo paese, da molti ritenuto «fantastico». E cosí le colonne si trasformano in esili fusti vegetalizzati o in tralci germoglianti, oppure si tramutano in candelabri dalle fogge variegate; proprio i candelabri sono talmente diffusi e utilizzati da divenire elemento connotante del III stile.
«Chiudere» lo spazio Le pareti perdono dunque l’idea di sfondamento illusivo e di profondità che le caratterizzava: in questo momento la tendenza è quella di definire, potremmo quasi dire di «chiudere», lo spazio reale dell’ambiente e le uniche fughe sono costituite dai campi centrali, dove i grandi quadri introducono in un mondo altro e meraviglioso, nel mondo rocambolesco del mito, degli dèi e degli eroi. Lo stile ornamentale produce all’interno delle dimore un’atmosfera leggiadra, certo adatta a un ceto ricco e raffinato che ricrea nello spazio privato un ambiente forse meno sontuoso e monumentale, ma piú intimo e racchiuso. E proprio la presenza di ampi quadri mitologici collocati al centro delle pareti è la vera e propria rivoluzione del III stile. In una società in cui la comunicazione visiva rivestiva un ruolo fondamentale, le storie degli dèi e degli eroi greci contribuivano alla costruzione di programmi figurativi non solo frivoli, ma connotati anche da messaggi morali, politici e ideologici. Di particolare fortuna in questo periodo godono anche le pitture di giardino, come testimonia il bel triclinio estivo (31) della Casa del Bracciale d’oro di Pompei (VI 17 Ins. Occ., 42), in cui la precisione del disegno e la
Quadro con il mito di Polifemo e Galatea dal cubicolo (19) della Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase. New York, Metropolitan Museum of Art.
minuzia di dettagli consentono di riconoscere senza difficoltà le varie specie di piante, arbusti, fiori, frutti, ma anche uccelli variopinti, che compongono una veduta quasi esotica. Eppure, questi giardini sono dipinti su pareti chiuse e appaiono piatti nonostante la resa naturale, senza alcun effetto di sfondamento illusivo. Accanto alle vedute naturalistiche, si affermano anche le scene bucoliche, con elementi genericamente cultuali, che danno vita a un nuovo genere, il cosiddetto paesaggio idillico-sacrale, testimonianza visibile di quella devozione verso le divinità (pietas) tanto esibita nella politica di Augusto.
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I SISTEMI DECORATIVI
In viaggio con Ulisse
N
el 1848-49 gli scavi condotti in via Graziosa, sul colle Esquilino, portarono alla luce alcune porzioni di una ricca domus situata nel cuore di Roma. Da uno degli ambienti rinvenuti furono distaccati otto dipinti parietali che, come in una sorta di galleria fittizia aperta tra pilastrini, permettevano all’osservatore di affacciarsi in una dimensione oltremondana, fiabesca, popolata dagli eroi del mito. Nei quadri si riconoscono infatti, come in un fermo immagine, alcuni episodi dell’Odissea, ossia quelle rappresentazioni che Vitruvio definiva Ulixis errationes per topia («le peregrinazioni di Ulisse di luogo in luogo»). In questi paesaggi naturali, abilmente costruiti in piú piani prospettici e drammatizzati dal sapiente uso di luce e ombreggiature, si muovono piccole figurine, appena abbozzate, di volta in volta identificate da didascalie in caratteri greci, come Ulisse, i suoi compagni e i personaggi incontrati durante il burrascoso ritorno a Itaca. In una serie di scorci si distingue l’episodio dell’approdo della
flotta di Ulisse nella terra dei Lestrigoni, esseri giganteschi e feroci che, lanciando massi e tronchi d’albero contro le imbarcazioni riparatesi nel porto, ne trucidano l’equipaggio. Al luttuoso evento segue lo sbarco dell’eroe con la sua compagnia, unica scampata all’attacco dei giganti, sull’isola della maga Circe. Infine, due pannelli raccontano la Nekyia, ossia la discesa di Ulisse nel regno dei morti per interrogare l’indovino Tiresia. Qui, fedelmente al passo omerico, Ulisse e i compagni compiono il sacrificio rituale e, rischiarato dalla soffice luce che penetra dalla bocca dell’Ade, vedono lo stuolo di anime dei defunti e, piú oltre, scorgono gli eroi colpevoli di arroganza (hybris): Orione, identificato come cacciatore; Sisifo, costretto a spingere sulla cresta di un pendio un macigno destinato a scivolare a valle appena raggiunta la cima; Tizio, sventurato, che giace al suolo incatenato, mentre un avvoltoio gli divora senza sosta il fegato. C. S.
Ulisse nel paese dei Lestrigoni, particolare del fregio con scene dell’Odissea proveniente dalla cosiddetta Casa dell’Esquilino in via Graziosa a Roma. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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miti cretesi a Pompei
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on le sue decorazioni e la sua imponenza, la Villa Imperiale è uno dei complessi piú significativi dell’antica Pompei. I raffinati arredi pittorici in III stile della sala (a) destinata a funzioni di ricevimento (oecus) resistettero in larga parte al devastante terremoto del 62 d.C., a differenza dei rivestimenti della zona superiore e della volta che, crollati con la copertura, furono riallestiti in IV stile. Ogni parete è scandita in pannelli rossi da esili colonnine e ospita, nella porzione centrale, un’edicola che, ormai priva della plasticità tipica del II stile, funge da cornice per un grande quadro a soggetto mitologico. Piú in alto, fanno da rimando alle colte citazioni mitiche del registro mediano sei quadretti raffiguranti un ciclo di poeti, fedelmente riprodotti con sportelli aperti e ripiegati, che, alla stregua di tavole reali, sembrano appoggiati su piccole mensoline di sostegno. Tutti gli episodi del mito confluiti nella decorazione del sontuoso ambiente, verosimilmente su diretta richiesta del proprietario, sono legati al mondo cretese e riflettono la volontà di dotare la sala di un apparato decorativo estremamente raffinato e ricercato. L’osservatore antico, guardandosi intorno, avrebbe potuto riconoscere: l’infausto volo di Icaro, che, avendo ignorato la raccomandazione del padre Dedalo di non volare troppo vicino al sole con le ali impastate di cera, giace ormai esanime al suolo sotto lo sguardo addolorato di una Ninfa (foto qui accanto); l’impresa cretese di Teseo, che uccide il feroce Minotauro e libera cosí i fanciulli ateniesi (pasto della mostruosa creatura), i quali, festosi, baciano con riconoscenza l’eroe; l’abbandono
Il III stile, che rimane in voga sino alla prima metà del I secolo d.C., conosce due grandi fasi di sviluppo: quella iniziale, databile nei regni di Augusto e Tiberio (fine del I secolo a.C.-primo trentennio del I secolo d.C.), è caratterizzata da una forte sobrietà classicistica, che si esprime nell’uso di colori delicati sui quali viene esaltata la preziosità degli elementi decorativi, resi tramite un disegno calligrafico; nella seconda fase, che va dal regno di Claudio a quello di Nerone (prima metà del I secolo d.C.), si nota
nottetempo della principessa cretese Arianna sull’isola di Nasso da parte dell’infedele Teseo, che salpa di nascosto per fare ritorno in patria. La scelta, fortemente coerente, dei soggetti mitologici e la loro organizzazione nell’impianto decorativo della sala indicano l’elaborazione di un preciso programma decorativo, colto e sapientemente strutturato come una pinacoteca privata. C. S.
Villa Imperiale, Pompei. Il quadro con gli episodi del mito di Icaro.
una maggiore esuberanza decorativa e il contrasto cromatico si fa piú acceso. La diffusione del sistema ornamentale verso il Sud della penisola italiana ha inizio con la precoce applicazione di questa nuova moda nella dimora di un membro della corte imperiale: si tratta della Villa di Boscotrecase (nei pressi di Pompei) di Agrippa Postumo, nipote di Augusto in quanto nato dal matrimonio tra la di lui figlia Giulia Maggiore e M. Vipsanio Agrippa, il fedele amico e generale.
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predominano le componenti d’ambientazione, tanto da divenire una quinta scenografica unificante, variamente popolata da figure rese in maniera miniaturistica. Un’impostazione simile si ritrova in un altro importante complesso, quello di Villa Imperiale a Pompei: anche qui, oltre a essere mantenuta una coerenza tematica in ogni stanza, si ritrovano paesaggi mitologici e scene monumentali, in cui comunque predomina sempre la componente paesistica (vedi box a p. 83).
Le testimonianze dalle province
Sulle due pagine affreschi da Magdalensberg, città che in epoca imperiale fu un importante centro della provincia del Norico, territorio compreso fra il Danubio, la Rezia, la Pannonia e le Alpi Carniche. I sec. d.C. Klagenfurt, Landesmuseum Kärnten.
Le decorazioni parietali della ricca residenza, databile intorno al 20 a.C. e andata poi distrutta nel 1906, sono conservate in parte al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e in parte al Metropolitan Museum of Art di New York. Ogni stanza si distingueva per la presenza di un colore di fondo dominante: nella cosiddetta Sala «nera», le tinte cupe erano ravvivate da candelabri dorati che reggevano pannelli allungati con scene egittizzanti, mentre l’edicola centrale racchiudeva una veduta paesaggistica miniaturistica; nella Sala «rossa» la monotonia del colore vermiglio è interrotta, nel pannello centrale, da un’ampia composizione con paesaggio idillico-sacrale dipinta su fondo chiaro; l’ultimo ambiente, probabilmente bianco, esibiva, nelle edicole centrali, due grandi quadri mitologici raffiguranti l’uno Perseo e Andromeda, l’altro Polifemo e Galatea. In queste pitture
Da Roma e dalle città campane il sistema ornamentale si diffonde rapidamente anche nelle altre zone dell’impero, pur con adattamenti locali. Particolarmente raffinati nell’esecuzione sono gli affreschi provenienti dalla Cisalpina, ossia il settore dell’Italia settentrionale (tra cui Aquileia, Torre di Pordenone, Sirmione e Verona), che testimoniano non solo l’alto livello delle maestranze attive sul territorio, ma anche la conoscenza delle «ultime mode» in fatto di decorazioni. Si ritrova il repertorio ornamentale del periodo, ricco di motivi vegetali resi in maniera calligrafica e minuziosa, unitamente a elementi riconducibili al mondo egittizzante. Ma pitture di alta qualità sono testimoniate anche in Francia (l’antica Gallia), con particolare riferimento a Nîmes, e soprattutto in Austria, nel Magdalensberg, dove gli artigiani rielaborano anche in maniera fantasiosa gli stilemi del sistema ornamentale. In queste zone si riscontra una certa predilezione per un decorativismo piú accentuato e per una proliferazione dei motivi vegetali, che tendono a sovraccaricare le decorazioni parietali, a cui si associano cromatismi piú arditi, giacché accanto all’uso di campiture nere, rosse e bianche tipiche della fase augustea, iniziano a comparire anche pannelli gialli e verdi; nelle fasi piú avanzate del III stile tendono a essere nuovamente create architetture fittizie, prima relegate nella zona superiore delle pareti e poi chiamate a decorare anche la parte mediana.
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Il IV stile o sistema ad architetture fantastiche Anche il IV stile, come i precedenti, si è sviluppato ed evoluto a Roma intorno alla metà del I secolo d.C., ma l’effettivo passaggio dal sistema ornamentale al nuovo gusto decorativo cosiddetto ad architetture fantastiche non è definibile con precisione. La datazione del IV stile è stata infatti per lungo tempo oggetto di accesi dibattiti tra gli studiosi: c’è chi sostiene che il III e il IV stile siano pressoché contemporanei; certa parte della critica ritiene invece che il sistema ad architetture fantastiche, in apparente rottura con gli stili precedenti, sia stato introdotto da una personalità artistica molto forte, perlopiú identificata nell’imperatore Nerone e nel pittore
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Nella pagina accanto Roma, Domus Aurea. Particolare della decorazione pittorica del controsoffitto del corridoio 118. In basso Roma, Domus Aurea. La Sala di Achille a Sciro. Al centro della volta compare Achille che, brandendo lo scudo, parte per Troia e abbandona l’isola di Sciro, dov’era stato nascosto dalla madre.
che ne decorò la Domus Aurea, e che si sia poi ampiamente diffuso in area vesuviana dopo il terremoto del 62 d.C.; recenti lavori tendono invece a collocare le piú antiche testimonianze di IV stile prima del regno di Nerone, cioè verso gli anni 40 del I secolo d.C. e quindi a riconoscerne uno sviluppo piú graduale dal III stile nel corso del regno di Claudio. Ciò che appare abbastanza certo è che il carattere piuttosto innovativo degli apparati pittorici della Domus Aurea – uno dei pochi casi, dopo la Casa di Augusto, di un edificio residenziale sicuramente attribuibile alla proprietà di un imperatore – hanno condizionato la produzione ad affresco della seconda metà del I secolo d.C.; ed è probabilmente altrettanto vero che il favore
un gioco di riflessi
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ome le pareti, anche i soffitti erano decorati con rivestimenti pittorici che seguivano l’evolversi del gusto e delle mode. Inizialmente le decorazioni imitavano i reali cassettoni di legno o pietra, poi gli schemi si fecero sempre piú articolati e ricchi di ornamentazioni. Sui soffitti si potevano allora vedere forme e motivi di vario colore ripetuti in serie, oppure disposti geometricamente a reticolo o in composizioni ancora piú complesse, che mescolavano e intrecciavano riquadri di forme e grandezze diverse, in cui erano inseriti elementi vegetali, piccoli animali o personaggi. I pittori avevano già in mente lo schema di simili decorazioni e, prima
di iniziare a dipingere, tracciavano sull’intonaco le linee guida, creando una griglia che poi veniva camuffata con tralci vegetali, fiori e motivi di repertorio. I soffitti potevano però anche essere «a composizione libera», ossia decorati liberamente con fiori sparsi, visti da diverse angolature, che sembravano letteralmente cadere dal cielo, o a imitazione di un pergolato di vite, dando l’impressione di trovarsi in uno spazio esterno. Molto spesso, le decorazioni dei soffitti, con fronde e fiori, «riflettevano» quelle dei pavimenti eseguite in mosaico e immergevano l’antico osservatore in un suggestivo gioco di specchi. C. S.
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accordato dagli abitanti del comprensorio vesuviano a questa nuova moda sembra tanto piú grande, giacché, proprio a seguito del terremoto del 62 d.C., si avviarono su larga scala, nelle dimore danneggiate dal sisma, numerosi interventi di restauro, che rimasero poi cristallizzati con l’eruzione del 79 d.C.
Pompei, Terme del Sarno (VIII 2, 17-21). Particolare degli affreschi del frigidario con figure di pigmei.
Ritorno alle architetture Il nuovo gusto pittorico si contraddistingue per un massiccio ritorno all’uso delle architetture per creare l’illusione del tridimensionale e alla conseguente apertura delle pareti, soprattutto nella zona superiore; e tuttavia gli scorci architettonici, che si alternano a campi continui, sono ormai del tutto irreali e spesso popolati da piccole figure che sembrano quasi spiare l’osservatore. Caratteristico del IV stile è l’uso di motivi ornamentali a incorniciare i pannelli monocromi, o un settore particolare della decorazione, oppure un elemento specifico: non a caso, tali bordure vengono definite «bordi di tappeto», giacché, delimitati solo sui lati esterni, presentano frange e
Mens sana in corpore sano...
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l piccolo impianto delle Terme del Sarno, a Pompei, faceva parte di un piú ampio complesso a destinazione abitativa, distribuito su piú piani e affacciato sull’antistante valle del Sarno. Degli arredi pittorici che ornavano gli ambienti termali restano oggi poche testimonianze, molto deteriorate. Grazie al meticoloso lavoro degli archeologi, che hanno studiato i rivestimenti parietali, è però possibile ricostruire gran parte della decorazione del frigidario, ossia l’ambiente dotato della vasca per i bagni in acqua fredda. Le pareti e la volta erano ornate da un apparato di IV stile, realizzato in pittura sui muri e in stucco policromo sul soffitto. Le pareti lunghe erano scandite in pannelli rossi alternati a prospetti architettonici abitati da figure umane e ospitavano piccoli quadretti con soggetti legati all’acqua: una Nereide (una Ninfa marina) su un mostro marino e una divinità fluviale intenta a purificare un uomo inginocchiato, versandogli sul capo dell’acqua da
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una brocca. La parete sovrastante la vasca si articolava in due soli pannelli, separati da un’architettura fittizia e percorsi dai caratteristici «bordi traforati», che davano l’impressione di merletti dorati. Al di sotto correva un lungo fregio ad ambientazione nilotica, i cui abitanti, i buffi pigmei, erano intenti a difendersi da un pericoloso coccodrillo. Le decorazioni in stucco dipinto della lunetta (la superficie a semicerchio tra la parete e la volta), tra cui spicca la personificazione del fiume Sarno che versa acqua da una brocca, cosí come quelle della volta, erano scandite in riquadri di varia forma, con al centro figurazioni a tema marino o genericamente acquatico (Nereidi, mostri marini, pesci e piccoli delfini), che partecipavano all’impianto decorativo del contesto termale proprio in virtú della loro connessione con l’acqua e istruivano in maniera ancor piú evidente sulla vocazione dell’ambiente. C. S.
A destra Pompei, Terme del Sarno. Gli affreschi del frigidario, e, in basso, la loro ricostruzione grafica. Le pareti lunghe erano scandite in pannelli rossi alternati a prospetti architettonici abitati da figure umane e ospitavano quadretti con soggetti legati all’acqua.
fiocchi che effettivamente rievocano la rifinitura esterna di un tappeto. Il riferimento è al mondo della tessitura, quasi si trattasse del ricordo di piú pregiati tessuti appesi alle pareti; seppure a noi le stoffe risultano praticamente ignote, esse dovettero giocare un ruolo tutt’altro che secondario nell’antichità (basti pensare all’importanza che gli arazzi assunsero in età moderna nella decorazione dei palazzi nobiliari). Il complesso che Nerone fece costruire nel cuore di Roma a partire dal 64 d.C., anno del famoso incendio della città, fino al suo suicidio avvenuto nel 68 d.C., è conosciuto fin dal 1400. A partire da quel secolo, vari artisti, penetrati attraverso i cunicoli, restituirono tramite disegni i decori delle volte che vennero
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Pompei, Casa dei Vettii (VI 15, 1). Uno scorcio dell’oecus (sala per ricevimenti). Sulla sinistra, il quadro con il mito di Issione, leggendario re tessalo che, reo di aver tentato di usare violenza a Era, fu punito da Zeus legandolo a una ruota in perpetuo movimento; sulla destra, Dioniso che incontra Arianna.
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riprodotti poi nei palazzi rinascimentali e sono oggi comunemente noti con il nome di grottesche (proprio perché rivenute in quelle che allora sembravano «grotte»). Gli scavi della dimora proseguirono nel Settecento e poi nei secoli successivi fino ad arrivare agli anni Settanta del Novecento e ai piú recenti interventi. Nonostante i numerosi scavi condotti nel corso del tempo, della Domus – che si estendeva per una superficie di circa 80 ettari dal Palatino fino all’Esquilino e che comprendeva anche buona parte del Celio e della Velia (dove si trovava il vestibolo di ingresso, in cui era sistemata una grande statua in bronzo dorato di Nerone stesso, nota come «colosso», che darà poi il nome all’Anfiteatro Flavio costruito lí vicino dall’imperatore Vespasiano e inaugurato dal figlio Tito, il Colosseo) – si conosce solo la porzione privata situata sul colle Oppio. E tuttavia la decorazione pittorica, in verità mal conservata e nota soprattutto grazie alle incisioni eseguite degli artisti rinascimentali e barocchi, non era certo il fiore all’occhiello di questo grandioso complesso, anzi proprio le stanze interamente ricoperte da affreschi si rivelano le meno importanti.
Lusso sfrenato La denominazione Aurea deriva non solo dalle numerose applicazioni in oro sulle decorazioni parietali, ma anche dal lusso sfrenato di tutto l’apparato ornamentale, perlopiú costituito da marmi pregiati che andavano a ricoprire le pareti da un paio di metri fino all’intera altezza dell’ambiente (che in alcuni casi poteva anche raggiungere i 10-11 m). Gli affreschi mostrano una stupefacente sovrabbondanza di elementi decorativi quasi vi fosse, nonostante la vastità degli spazi, una sorta di horror vacui: architetture fantastiche, edicole e fughe prospettiche ardite sono spesso popolate da vari personaggi isolati (esseri immaginifici, ma anche satiri, figure del corteggio bacchico, poeti o filosofi) e si affastellano a scene mitologiche o di genere, a immagini di paesaggi o elementi a carattere ornamentale
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(quali cetre, vasi, animali o semplici riempitivi), senza che sia però possibile rintracciare un filone tematico unitario. I colori vivaci, impiegati in contrasti arditi e d’impatto, sono esasperati dall’uso di applicazioni in oro e paste vitree. Elemento tipico della dimora neroniana è l’uso su larga scala dello stucco in combinazione con la pittura, soprattutto nelle volte (vedi box a p. 87); al centro di queste, organizzate in finti lacunari dalle geometrie complesse, compaiono piú articolate scene mitologiche che danno il nome agli ambienti, come Achille a Sciro o l’addio di Ettore e Andromaca. Nonostante sia certa la presenza di diversi decoratori, le fonti letterarie ci restituiscono il nome di un solo artista, Famulus (o Fabullus), il quale, secondo Plinio il Vecchio, era solito lavorare in maniera austera, vestito sempre con la toga e in momenti limitati della giornata («Dipingeva poche ore al giorno, ma anche questo con solennità; era sempre in toga, anche sulle impalcature. La Domus Aurea fu come la prigione in cui fu racchiusa la sua arte; perciò non ne esistono altri esempi»; nat. 35, 120). A lui si deve probabilmente l’uso di dipingere con rapide pennellate, quasi a «macchia», dal vago sapore impressionistico, in cui la vivacità cromatica era arricchita da giochi di luce resi in maniera sapiente mediante tocchi bianchi.
La pacchianeria dei nuovi ricchi Nelle città vesuviane le ultime tappe della produzione pittorica offrono un quadro certo molto ricco, ma al contempo piuttosto articolato ed eterogeneo, tanto che risulta difficile definire uno sviluppo interno del IV stile; il problema nasce probabilmente dal fatto che il sistema ad architetture fantastiche recupera e mescola diversi elementi tratti dagli stili precedenti. Nella diffusione del sistema decorativo si possono individuare due tendenze di base: da una parte il recupero ridondante di motivi architettonici, che divengono nuovamente l’elemento di partenza della costruzione dello schema decorativo della parete, ma elaborati ora in chiave
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Paese che vai... pitture che trovi!
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sistemi decorativi parietali di tradizione romana si diffusero piuttosto precocemente nel comparto settentrionale prima della penisola italiana, la Cisalpina, e poi in ambito provinciale, nella vicina Gallia. Ciò fu possibile grazie alla circolazione di genti e maestranze e alla presenza di notabili romani che, trasferitisi nei territori di nuova annessione, scelsero di ornare le proprie dimore secondo le ultime mode in voga a Roma. Alla propagazione del gusto ornamentale contribuirono poi le élite locali che, desiderose di conformarsi ai modelli romani, cercarono di emularli nel modo di vivere e di decorare gli spazi domestici. Una sostanziale adesione alle tendenze stilistiche centro-italiche caratterizzò cosí gli apparati decorativi della Cisalpina e dei territori d’oltralpe almeno fino alla metà del I secolo d.C., quando iniziò a svilupparsi un linguaggio espressivo locale, in parte slegato dalle esperienze pittoriche che, a Roma e nel Sud della penisola, stavano dando vita alle esuberanti decorazioni di IV stile. Da questo momento, dunque, i due territori (la Cisalpina e la Gallia), che sembrano intensamente dialogare tra loro, elaborarono composizioni originali e un gusto decorativo peculiare, destinato ad avere grande fortuna fino almeno al IV secolo
Sulle due pagine affreschi ascrivibili al cosiddetto sistema a pannelli, con la raffigurazione di elaborati candelabri a ombrelli negli interpannelli, da un edificio residenziale di Colonia, insula H/1. Colonia, RömischGermanisches Museum.
d.C. Esso si basava su schemi compositivi piatti e bidimensionali, in cui la parete, scandita in pannelli e interpannelli, ossia campiture ampie alternate a campiture strette, era vivacizzata dall’accostamento di colori a contrasto e, soprattutto, dall’inserimento di elementi vegetali e figurati, anche di particolare pregio. Tra i motivi piú apprezzati, perlopiú destinati ad arricchire la zona mediana, compaiono figure umane isolate o associate in vignette, paesaggi, vivai di pesci e, negli interpannelli, ora vero fulcro della decorazione, candelabri e ornamenti vegetali variamente rappresentati. C. S.
immaginifica; dall’altra, si sviluppa ulteriormente il gusto – già in voga nel III stile – di organizzare la decorazione in una sequenza di pannelli monocromi (accanto ai classici colori rossi, neri e bianchi si moltiplicano ora quelli a fondo giallo), intesi come rigide ripartizioni ornate lungo i bordi e arricchite al centro da figure volanti o da quadri figurati (vedi box a p. 88). Si tratta di un nuovo stile pittorico, che riflette non solo l’adozione di un nuovo linguaggio per l’autorappresentazione, ma soprattutto l’affermazione di nuovi valori all’interno di una società in cambiamento, sempre piú dominata
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da liberti (schiavi liberati) arricchiti, il cui gusto esuberante e un po’ pacchiano eguaglia di rado quello sobrio e raffinato dello stile precedente. Uno degli esempi piú compiuti è offerto dalla Casa dei Vettii di Pompei (VI 15, 1), realizzata poco dopo il 62 d.C.: nel salone (q) lo schema parietale si basa sul contrasto tra larghi pannelli monocromi rossi e bande nere verticali occupate da complessi candelabri con ricche decorazioni; nella predella a fondo scuro degli Amorini appaiono impegnati in diverse attività lavorative, tra cui la vendemmia, la profumeria, l’oreficeria e la tintoria. Nei due ambienti simmetrici che si affacciano sul portico orientale del peristilio (i triclini «n» e «p»), affrescati con quadri a soggetto mitologico, sono state addirittura riconosciute le rievocazioni fittizie di vere e proprie pinacoteche; nella parte superiore dei muri e agli angoli delle stanze scorci architettonici irreali, popolati da diversi personaggi, accentuano la sensazione di una ridondanza e di un eccesso decorativo.
Sulle due pagine Ostia, Insula delle Muse (III, IX, 22). Pitture caratterizzate da un forte cromatismo, giocato sull’accostamento di pannelli dai vivaci colori rosso e giallo.
Il sopravvento dei marmi Nella piú lussuosa e raffinata Ercolano è piuttosto diffusa la presenza di decorazioni marmoree combinate alla pittura, secondo una tendenza già sperimentata nella Domus Aurea neroniana e di cui in parte si lamenta Plinio: «Ora però è stata [la pittura] soppiantata completamente dai marmi» (nat. 35, 2). Nelle case si assiste dunque alla massiccia diffusione dei rivestimenti in pietre pregiate,
Le pitture di Ostia
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’insula ostiense delle Ierodule, o Casa di Lucceia Primitiva, faceva parte del complesso edilizio di età adrianea (prima metà del II secolo d.C.) cosiddetto delle Case a Giardino, ubicato nel settore occidentale della città. L’intero appartamento, sviluppato in lunghezza, si distribuiva alle spalle di un ampio corridoio, il medianum, che, aperto sull’antistante giardino attraverso numerose finestre, assicurava la giusta
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illuminazione agli ambienti della casa. Grazie alla conservazione degli arredi pittorici pertinenti alle pareti e ai soffitti, coevi ai mosaici pavimentali, la domus offre una preziosa testimonianza dell’apparato decorativo di cui poteva essere dotata l’abitazione di un cittadino di ceto medio, negli anni del boom economico ed edilizio della città (II secolo d.C.). All’interno della casa, la ricchezza della decorazione era modulata in
rapporto alla funzione dell’ambiente cui era destinata: nei vani di rappresentanza, nei quali si soggiornava, erano prediletti schemi piú complessi, che, attraverso sistemi architettonici, scandivano la superficie della parete e accoglievano al loro interno elementi figurati, quali animali e personaggi che sembrano fluttuare a mezz’aria; negli ambienti secondari erano invece adottate soluzioni semplificate, sia nello schema,
che nella selezione cromatica, come anche nella varietà dei motivi decorativi. Anche nei vani di passaggio, gli arredi parietali erano poco elaborati e, associando in maniera sequenziale campi monocromi gialli, riquadrati di rosso e attraversati da leggere decorazioni vegetali, davano origine a una composizione essenziale e dinamica che invitava l’osservatore a procedere nel cammino. C. S.
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La moda romana in oriente: le pitture di Efeso
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a città di Efeso, antico centro tra i piú importanti dell’Asia Minore, rappresenta l’osservatorio di riferimento per lo studio della produzione pittorica nel comparto orientale dell’impero tra il II e il III secolo d.C. Qui infatti, all’interno del complesso edilizio cosiddetto Hanghaus, si conservano sette abitazioni strutturate e riccamente decorate secondo i modelli provenienti da Roma. La prima fase, databile all’incirca all’età adrianea (120 d.C. ca.) si caratterizza ancora per apparati decorativi di gusto
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piuttosto tradizionale, legati alle esperienze pittoriche precedenti, in cui lo spazio della parete è ripartito in tre zone sovrapposte. La zona mediana, articolata in pannelli e interpannelli, è elegantemente ornata e ospita figurazioni varie eseguite sapientemente; al di sopra di essa, trovano invece spazio raffigurazioni mitologiche e partiti architettonici. Per la fase successiva, viceversa, si registra la crescente affermazione di un sistema decorativo a campi e lesene, riflesso di un gusto
elaborato localmente, declinato all’interno delle diverse abitazioni in base all’impegno economico e qualitativo richiesto. Nei pannelli, generalmente, compaiono figure umane o animali, mentre nelle lesene si ritrovano elementi vegetali o candelabri. Nel secolo successivo saranno invece le imitazioni di rivestimenti marmorei ad avere la massima diffusione, sia per la campitura delle porzioni inferiori della parete sia, addirittura, per la zona mediana. C. S.
Efeso. Veduta del cosiddetto Hanghaus, complesso edilizio nel quale si conservano sette abitazioni strutturate e riccamente decorate secondo i modelli provenienti da Roma. Centro tra i piú importanti dell’Asia Minore, Efeso rappresenta l’osservatorio di riferimento per lo studio della produzione pittorica nel comparto orientale dell’impero tra il II e il III sec. d.C.
utilizzate nelle combinazioni piú fantasiose, soprattutto nei fastosi saloni da ricevimento: alla zona superiore della parete dipinta ad affresco erano combinate alte zoccolature decorate con marmi policromi, come accade, per esempio, nel grande ambiente (18) della Casa del Rilievo di Telefo (Insula Orientalis I 2-3), non a caso rinominato dagli archeologi «Salone dei marmi».
Il sistema a pannelli Dall’area centro-italica e campana la maniera del IV stile si diffonde anche nel vasto orizzonte dei territori provinciali, con particolare riferimento a quelli nord-occidentali dell’impero, in cui tuttavia si riscontra un riadattamento al sentire locale: tendono infatti a scomparire le elaborate architetture e, in generale, le decorazioni sono costruite attraverso l’alternanza di piatti campi monocromi e di piú stretti scomparti, noti come interpannelli, con ripetizione seriale della sequenza per tutta la stanza; e proprio negli interpannelli si concentra l’attenzione decorativa, tramite la presenza di complessi candelabri e diversi elementi figurativi, ornamentali o vegetali. Si tratta di una tipologia decorativa che assume dei contorni talmente definiti da essere riconosciuta come uno stile a sé, detto appunto sistema a pannelli, destinato a trovare ampio sviluppo nelle aree settentrionali delle province a partire dal II secolo d.C. (vedi box alle pp. 92-93). Dalla metà del I secolo d.C. godono poi di una certa fortuna anche i sistemi decorativi cosiddetti a modulo ripetuto, basati cioè sulla ripetizione entro una griglia regolare di motivi decorativi geometrici o naturalistici, che vanno a occupare tutta la superficie muraria alla stregua di vere e proprie «tappezzerie»; la loro realizzazione si basa sull’applicazione di rigorose e precise griglie preparatorie, costituite da linee guida incise sull’intonaco. Simili rivestimenti sono caratteristici soprattutto delle pitture di soffitto, di cui si trovano molteplici esempi anche in Italia (tra cui
la Domus Aurea), ma ben documentato è il loro uso anche per le decorazioni parietali; si tratta di soluzioni funzionali al rivestimento di vani di prestigio, sebbene non si escluda un loro impiego, in forme decisamente piú semplici, in ambienti di servizio o di passaggio.
La media e tarda età imperiale Nell’immaginario comune, forse un po’ viziato dalla rigida classificazione di August Mau, il IV stile sembra terminare con il seppellimento delle città campane nel 79 d.C.; in realtà, la libera composizione di tipologie decorative diverse, tratte da stilemi ornamentali precedenti, continua per tutto il I secolo d.C. Nella media e tarda età imperiale la maggior parte delle attestazioni proviene da alcuni territori centro-italici (Ostia in particolare) e, soprattutto, dalle aree provinciali, sebbene in quest’ultimo caso la documentazione sia a carattere prevalentemente frammentario; tuttavia, in assenza di contesti chiusi e ampiamente conservati quasi per intero, come Pompei ed Ercolano, la ricostruzione delle tendenze e degli sviluppi pittorici di questi secoli risulta piú difficile. Nel II e nel III secolo d.C. gli schemi parietali precedenti non vengono abbandonati, ma sono rivisitati e semplificati, spesso travisati in soluzioni di sintesi che definiscono però un nuovo linguaggio espressivo. La mancanza di stimoli da parte della committenza fa diminuire la richiesta di affreschi di buona qualità (evidente non solo nella resa pittorica, ma anche nella realizzazione tecnica) e, di conseguenza, la professione di pittore tende progressivamente a diminuire di importanza. Va peraltro tenuto conto che in questo periodo la struttura della casa subisce un profondo mutamento, che riflette anche un cambiamento ideologico e sociale: alle domus tipiche dell’età repubblicana e della prima età imperiale, ormai divenute simbolo di agiatezza, si contrappongono complessi abitativi detti a insula, ossia edifici a piú piani suddivisi in appartamenti (coenacula), da affittare anche separatamente e in cui le
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realizzazioni ad affresco, ove presenti, si rivelano incoerenti e grossolane. All’interno delle proprie dimore i proprietari si dimostrano comunque, almeno all’apparenza, piuttosto conservatori, giacché continuano ad apparire, con maggiore o minore frequenza, vedute architettoniche combinate con pannelli. Si assiste tuttavia alla progressiva destrutturazione del sistema architettonico e alla tendenza alla stilizzazione delle forme: le pareti, sempre piú costruite attraverso l’uso di campi monocromi, accolgono aperture prospettiche soprattutto nelle zone di separazione verticale (gli interpannelli), senza che vi sia piú alcuna volontà di sfondamento illusivo. Le architetture appaiono ora semplificate, progressivamente prive di rilievo e completamente appiattite; i colori in voga sono soprattutto il rosso e il giallo per lo sfondo, a cui si affianca l’ampio uso del verde per i dettagli ornamentali. Gli elementi figurati, ormai secondari, appaiono perlopiú relegati entro vignette o piccoli quadretti e sempre piú raro è l’inserimento, nella zona mediana, di composizioni mitologiche di grandi dimensioni.
Soluzioni già viste... Fra i complessi piú rappresentativi del II secolo d.C. vale certo la pena di ricordare le case di Ostia, come la Casa delle Volte dipinte, la Casa delle Muse, o la Casa di Giove e Ganimede. (vedi box alle pp. 94-95). In tutti questi casi l’effetto complessivo che emerge dall’osservazione degli affreschi non è qualcosa di nuovo, ma qualcosa di già visto eppure di diverso al contempo, giacché gli artigiani tendono a lavorare con una certa libertà estrapolando elementi compositivi desunti dal ricco repertorio stilistico precedente e riunendoli in maniera del tutto innovativa. Un recupero piú concreto delle architetture intese come quinte scenografiche rese secondo effetti tridimensionali caratterizza invece la documentazione proveniente dai territori provinciali dell’impero, nei quali si assiste a una sorta di revival delle tendenze
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tipiche del II stile, con la creazione di composizioni strutturate in maniera prospettica o tramite la fusione di elementi architettonici entro un sistema a pannelli che gode di grande fortuna proprio a partire dal II secolo d.C.: tra gli esempi piú interessanti, si possono ricordare alcuni affreschi provenienti dai territori nordoccidentali della Gallia, come quelli della Maison à Portiques du Clos de la Lombarde a Narbonne e da un edificio di Famars, o della Britannia (Leicester); nel medesimo solco si inseriscono anche le pitture rinvenute in area nord-africana, come dimostra la Casa dell’Attore tragico di Sabratha in Tripolitiania, oppure nella parte orientale dell’Impero, dove spiccano le attestazioni di Efeso in cui gli elementi architettonici evocativi del II stile e realizzati su grande scala sono qui associati a un sistema a pannelli che sembra invece richiamare le tendenze piú tipiche del IV stile provinciale (vedi box a p. 96). A partire dal II secolo d.C. diventano comuni nelle province non solo i già ricordati sistemi a modulo ripetuto comparsi nel IV stile, ma, soprattutto, il motivo decorativo a finto marmo. Lastre (o crustae) marmoree vengono dipinte a imitazione di veri rivestimenti in pietra pregiata: esse vanno inizialmente a occupare il registro inferiore dei muri, per divenire, col tempo, l’elemento ornamentale primario dell’intera parete. Accanto alla sempre maggiore presenza di pitture che imitano le piú pregiate pietre, si assiste però al progressivo accentuarsi dell’aspetto estetico-decorativo a scapito di quello imitativo, sicché i giochi di colore e le venature dei marmi vengono ricreati in maniera del tutto fantasiosa.
...e nuovi linguaggi pittorici La documentazione databile al III secolo d.C. proveniente da Roma e dall’Italia si fa decisamente molto scarsa e analoga è la situazione per il secolo successivo, per cui dobbiamo rivolgerci alle testimonianze offerte dalle province, che ci hanno restituito moltissimi affreschi, sebbene in forma frammentaria e raramente in contesto
Roma, Villa Piccola sotto la basilica di S. Sebastiano. Panoramica della decorazione parietale nel cosiddetto sistema lineare: campi suddivisi da linee di colore rosso con all’interno elementi figurati si stagliano entro il fondo bianco.
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I SISTEMI DECORATIVI
Frammento di intonaco con la cosiddetta «Dea Barberini», dall’area del battistero di S. Giovanni in Laterano a Roma. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
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originale. Del resto, in questo arco di tempo, Roma perde progressivamente il suo ruolo politico di centro propulsore, mentre sono proprio le province a sviluppare e imporre nuovi linguaggi pittorici. Si affermano presto forme decorative locali e si va a frantumare la sostanziale unità decorativa tipica della prima età imperiale. Si osserva, in generale, il declino delle pitture nella qualità tecnica e nella loro progettualità: le tendenze ornamentali sviluppate nel II secolo d.C. vengono riproposte in soluzioni abbreviate e sintetiche. Non c’è piú attenzione alla resa dello spazio (e men che meno di uno spazio illusionistico), si abbandona ogni velleità di resa plastica e le figure sembrano quasi galleggiare entro fondali monocromi perlopiú di colore chiaro. Gli elementi architettonici vengono talmente stilizzati da essere ormai privi di significato strutturale, ridotti come sono a semplice motivo di riempimento di pareti e soffitti secondo uno schema decorativo convenzionalmente definito sistema lineare: la parete è infatti ripartita mediante linee oppure cornici semplici, di colore rosso o verde, su fondi tendenzialmente bianchi, in cui si inseriscono in maniera irrequieta figure isolate o animali; un ottimo esempio di questo stile è offerto dalla cosiddetta Villa Piccola, a Roma, sotto la basilica di S. Sebastiano (sulla via Appia), un probabile edificio di culto funerario funzionale alla vicina necropoli. Piú articolata è invece la soluzione dell’edificio H2/12 di Efeso, in cui l’organizzazione della sintassi parietale avviene tramite sequenze di pannelli realizzate mediante semplici fasce che racchiudono al centro immagini delle Muse, di Apollo e della poetessa Saffo; nella zona superiore della parete sono ancora dipinti scorci che riecheggiano vagamente le aperture tipiche del IV stile. Non mancano, tra il III e il IV secolo d.C., esempi di recupero classicistico, come dimostrano le pitture del triclinio della Domus Praeconum di via dei Cerchi, a Roma: su un fondale porticato, si stagliano, in primo piano, le figure di servitori (come suggerisce il loro abbigliamento) intenti
a portare ghirlande, drappi e cassette agli ordini del tricliniarca (il domestico deputato alla supervisione e all’organizzazione del banchetto), che sembra muovere verso i presunti ospiti; le architetture, prive in realtà di un effetto di sfondamento illusivo, occupano l’intera superficie muraria e inquadrano i personaggi di dimensioni vicine al vero. Nonostante l’insieme possa risultare di un certo effetto, a ben vedere l’esecuzione non è affatto accurata, ma risulta a tratti grossolana, come rivelano le figure dei servitori sbilanciate o protese in avanti che creano evidenti disarmonie nella composizione.
Una piú ampia paletta cromatica Con il IV secolo d.C., durante il regno di Costantino, si assiste al ritorno di un certo benessere e all’incentivo di nuove attività edilizie, che stimolano la produzione pittorica, legata perlopiú alla corte imperiale e alla classe dominante dei senatori proprietari dei grandi latifondi. In questo periodo gli affreschi mostrano l’uso di una piú ampia paletta cromatica e le composizioni tornano a essere ambiziose, caratterizzate dalla presenza di figure di grandi dimensioni e da cicli pittorici con soggetti mitologici, immagini allegoriche di tipo politico oppure di vivaci scene di ispirazione realistica (attività di campagna, di cantiere, processioni di servitori…); le rappresentazioni sono spesso rese in maniera semplificata e piuttosto grossolana, ma con genuini tratti popolareggianti. Diverso è lo stile, che potremmo definire aulico, che contraddistingue gli affreschi realizzati per le committenze di alto livello e direttamente legate alla corte imperiale, come il frammento con la cosiddetta «Dea Barberini», rinvenuto nel XVII secolo in un ambiente nei pressi del battistero di S. Giovanni in Laterano, a Roma, o il soffitto a cassettoni dipinti dal palazzo imperiale di Treviri: le pitture riecheggiano un gusto classico, le figure sono costruite tramite volumi solidi attraverso uno studiato gioco di luci e ombre, insieme al recupero di misurati effetti prospettici.
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I SOGGETTI
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IL MONDO IN UNA STANZA Storie di dèi e di eroi, amori leggendari, ma anche paesaggi esotici, vivaci ritratti e giardini lussureggianti: il repertorio delle immagini dipinte era vasto e variegato. Composizioni suggestive, nelle quali si mescolavano gli echi della tradizione mitologica, mode e, spesso, il desiderio di autocelebrarsi
Affresco raffigurante Teti nell’officina di Vulcano, dalla Casa IX 1, 7 di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il dio del fuoco e della metallurgia viene aiutato da un ciclope a sollevare il grande scudo destinato ad Achille per mostrarlo a Teti che, in tunica azzurra, siede su un trono d’avorio; al centro, lo scudo, su cui si nota il riflesso della Nereide; in primo piano, un ciclope di spalle cesella l’elmo dell’armatura deposta a terra, dove sono gli attrezzi utilizzati per la forgiatura del metallo.
N
ell’intimo della propria quotidianità, l’uomo romano era circondato da immagini: fin dagli inizi, infatti, la pittura parietale ha inserito almeno a partire dalla fine del I secolo a.C., composizioni figurate piú o meno ampie entro i sistemi decorativi, perlopiú in forma di pannelli quadrangolari; anche gli scorci o le prospettive architettoniche, con porte e finestre finte, si rivelavano funzionali ad accogliere immagini di diverso tipo. I dipinti, che un tempo abbellivano gli ambienti delle diverse dimore e che oggi arricchiscono le collezioni dei musei, erano concepiti come veri e propri quadri già dagli antichi, giacché con l’applicazione di cornici o di sportelli finti era evidente la volontà di imitare le grandi opere da cavalletto. Numerosi i soggetti messi in scena: scorci aperti su giardini rigogliosi; vedute di ville, paesaggi sacrali con tempietti, pastori e viandanti; immagini nilotiche; scene di genere o di vita quotidiana... Ma, soprattutto, a farla da padrone erano le numerose storie mitologiche. Per la creazione di composizioni a carattere narrativo, gli artigiani selezionavano una o piú scene, che dovevano essere necessariamente esplicative e riassuntive dell’intera vicenda mitica; il tema (o i temi) scelti dovevano essere semanticamente pregnanti per poter essere compresi dagli osservatori.
Il motivo della comunicazione nelle arti visive implica, a monte, la condivisione non solo di un medesimo orizzonte culturale (che oltre alla tradizione scritta, si formava anche grazie a diversi canali di diffusione quali le rappresentazioni teatrali o la tradizione orale, come canti e favole), ma anche dello stesso «codice visuale» che consentiva all’osservatore di decifrare il sistema di segni utilizzato dagli artigiani per costruire l’immagine.
Codici ben riconoscibili Se le composizioni pittoriche venivano in generale create, come abbiamo visto, tramite l’utilizzo dei medesimi cartoni, l’identificazione dei personaggi spesso effigiati in schemi identici avveniva grazie alla presenza di attributi: interni, relativi cioè al protagonista stesso (per esempio le lance per identificare un cacciatore, ma anche le acconciature, l’abbigliamento, gli ornamenti…); esterni, ossia quegli elementi secondari caratterizzanti a cui il protagonista è legato (oggetti o altre figure, ma anche iscrizioni) e atti a specificare il contesto in cui si svolge la vicenda oppure a evocare il prima e/o il dopo del racconto. Nel mondo antico le immagini e gli espedienti utilizzati per la loro creazione erano ben chiari agli osservatori contemporanei, perché alle spalle vi era una cultura comune e diffusa;
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I SOGGETTI
oggigiorno tali meccanismi vanno invece decifrati e vengono ricostruiti dagli storici dell’arte tramite l’utilizzo congiunto delle fonti letterarie e archeologiche.
Le immagini mitologiche Nel mondo antico si viveva attorniati da raffigurazioni di episodi leggendari, desunti in maggioranza dal grande patrimonio della mitologia greca. Ben poco spazio era invece lasciato ai temi relativi alle origini di Roma, di cui uno dei pochi esempi è l’articolata pittura che orna il triclinio della Casa di M. Fabius Secundus di Pompei (V 4, 13). Nel quadro sono illustrati tre distinti episodi, distribuiti su tre fasce: nella parte piú alta è raffigurato Marte in volo, che si dirige verso Rea Silvia addormentata; sul lato sinistro della fascia mediana è messo in scena l’omicidio della Vestale, spinta nel fiume Aniene dai sicari di Amulio; nella parte centrale della zona inferiore è presente la lupa che allatta i gemelli, a cui si avvicinano Ermes e un personaggio femminile. Probabilmente, la mitologia romana era meno funzionale alle necessità di autorappresentazione privata dei proprietari. Le immagini leggendarie proiettano in un mondo altro, un mondo appannaggio della fantasia, nel quale regnano sovrani, nel lusso e nella magnificenza, dèi ed eroi, ma anche ninfe, satiri, panisci, Centauri biformi o semplici mortali; protagonisti, rigorosamente giovani e belli, che rincorrono senza posa i propri desideri e le proprie passioni. E non stupisce dunque se a riempire le pareti delle case romane siano perlopiú miti a carattere erotico o scene di corteggiamento, in cui si amano tanto le grandi divinità quanto «coppie miste», nelle quali un dio è alle prese con una mortale: cosí Bacco, trovando la bella Arianna addormentata nella spiaggia di Nasso dove era stata abbandonata dall’ingrato e infedele Teseo, se ne innamora perdutamente facendola subito sua sposa; Apollo cerca di conquistare la riottosa Dafne; o ancora Giove, che possiede la bella Leda sotto le mentite spoglie di un candido cigno e riesce a rapire Europa nascondendosi nelle
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sembianze di un toro. E poi ci sono le scene in cui ad amarsi sono i mortali, come Perseo che si invaghisce di Andromeda incatenata allo scoglio da cui subito la libera, o Narciso, che rimane affascinato dalla propria immagine riflessa in una polla d’acqua. Ma all’interno di questo mondo, gaio e rocambolesco, un certo spazio è riservato pure a vicende drammatiche: cosí, su alcuni dei tanti affreschi, sono messi in scena miti di vendetta e di morte violenta, come lo sterminio da parte di Apollo e Diana dei sette figli di Niobe mentre cavalcano ignari in una pianura, ma anche leggende che hanno come soggetto un amore che termina in tragedia, di cui sono esempio Piramo e Tisbe o Adone, il bel giovane amato da Venere e morto durante una caccia al cinghiale. Tali immagini aiutano a ricordare, quasi in una sorta di consolazione delle pene umane, come
In alto affresco con scene riferibili alle origini di Roma, dal triclinio (R) della Casa di M. Fabius Secundus a Pompei (V 4, 13). 35-45 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto affresco con Bacco che trova Arianna addormentata sulla spiaggia di Nasso e se ne innamora perdutamente, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Nella pagina accanto, in alto e in basso due immagini delle pitture che ornano gli ambienti della Casa del Fauno, a Pompei. Nella pagina accanto la ÂŤdivinazioneÂť, vale a dire la proposta di ricostruzione grafica della Casa del Fauno elaborata da Pasquale Maria Veneri. 1855. Napoli, Museo di San Martino.
sulle pareti delle case romane predominano le rappresentazioni di miti a carattere erotico o scene di corteggiamento | PITTURA ROMANA | 105 |
I SOGGETTI
anche lo spensierato mondo degli dèi e degli eroi non sia affatto privo di dolore. Numerose sono poi le raffigurazionni riferibili ai grandi episodi dell’epos, come istruiscono le pitture legate alla saga della guerra di Troia, tra cui il giudizio di Paride sulla bellezza delle tre dee o il corteggiamento di Elena; oppure Teti nell’officina di Vulcano, in attesa che il fabbro divino le consegni le armi del figlio Achille; e ancora, Cassandra con il cavallo di legno o la sua successiva violazione da parte di Aiace dopo la presa della città, ma anche il Laocoonte avvolto con i figli tra le spire del serpente. Al cosiddetto «ciclo tebano» fanno invece riferimento i dipinti con Eteocle e Polinice sotto le mura di Tebe, mentre altre composizioni sono incentrate su personaggi specifici, quali Ercole oppure Enea. Molto diffuse sono anche le scene di carattere dionisiaco, variamente incentrate sia sul dio del vino, sia, piú in generale, sui membri del suo corteggio.
Amabili conversazioni Le raffigurazioni a carattere mitologico si dispiegavano dunque all’interno delle case a creare spesso vere e proprie «gallerie di quadri». E cosí in questi ambienti – giardini porticati (peristili), stanze da letto o salottini privati (cubicoli), sale conviviali (triclini) –, il padrone e i suoi ospiti discorrevano di mitologia nel corso di oziose passeggiate o nell’intermezzo di fastosi banchetti. Ma qual era il principio che sottostava all’accostamento delle diverse rappresentazioni? Si trattava perlopiú di scelte di carattere estetico, per certi versi casuali; ma ciò non escludeva affatto che in alcuni ambienti fossero presenti associazioni basate anche sul contenuto. Cosí, per esempio, coerenza tematica hanno i pannelli che mettono in scena, in un piú ampio ciclo, le vicissitudini di Ercole e del re di Troia Laomedonte presenti nel salone (h) della Casa di D. Octavius Quartio di Pompei (II 2, 2): la liberazione di Esione (sorella di Priamo) da un mostro marino, l’uccisione di Laomedonte da parte di Ercole, le nozze tra Esione e Telamone (un compagno di Ercole), l’investitura di Priamo
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Nella pagina accanto affresco raffigurante Europa sulla groppa del toro nelle cui sembianze si è nascosto Giove, dall’oecus (g) della Casa di Giasone a Pompei (IX 5, 18). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
giovinetto della regalità di Troia, il rogo sul monte Oeta, l’apoteosi di Ercole. Ancora, nel peristilio (D) di Villa Imperiale vengono affiancati episodi di arroganza punita: la strage dei Niobidi, uccisi a causa delle offese che la madre Niobe aveva rivolto a Latona (madre di Apollo e Diana); il castigo di Dirce, avente per oggetto l’atroce punizione della donna che si era permessa di maltrattare la madre di Anfione e Zeto, i figli di Giove. Nell’ambiente (4) affacciato sull’atrio della Casa del Menandro (I 10, 4) le pitture raffigurano episodi legati al ciclo troiano, inerenti rispettivamente Cassandra (il cavallo di legno, la violazione presso il simulacro di Atena) e la morte di Laocoonte. Di tipo «dionisiaco» sono invece i quadretti riprodotti nel cubicolo (8) della Casa dei Cubicoli floreali o del Frutteto (Pompei, I 9, 5), con coppie di figure che recano strumenti musicali, Bacco e Arianna, Satiro che sorprende una Menade dormiente; oppure i quadri con Bacco che abbevera una pantera e un Sileno ebbro che si ritrovano nel tablino (n) della Casa detta di Trebius Valens (Pompei, III 2, 1). Particolarmente interessante è poi la decorazione pittorica proposta nel triclinio della Casa del Sacerdos Amandus di Pompei (I 7, 7), in cui si ritrovano le immagini relative alle storie di Polifemo che corteggia Galatea e di Perseo che libera Andromeda, unitamente al disastroso viaggio nel cielo di Dedalo e Icaro, caduto per aver volato troppo vicino al sole, e a Ercole nel giardino delle Esperidi. In questo caso il significato dell’associazione dei quadri sarebbe da ricercare nel motivo dell’obbedienza verso gli dèi: agli esiti felici degli eroi che si mostrano rispettosi della volontà divina (Perseo e Andromeda, Ercole nel giardino delle Esperidi), fanno da contraltare le vicende tragiche di coloro che peccano di arroganza verso gli immortali (Polifemo e Galatea, Dedalo e Icaro che non rispettano i limiti che la saggezza divina ha imposto agli uomini). Pur senza rinnegare a priori un carattere vagamente intellettuale di alcuni ambienti, soprattutto quelli legati a una committenza
elitaria molto vicina al potere politico, non si deve necessariamente pensare che tutti i cicli decorativi, spesso pertinenti ad abitazioni di gaudenti borghesotti arricchiti (non sempre colti e raffinati), fossero portatori di messaggi politici o ideologici: l’otium della casa non era di certo il luogo piú adatto a questo. I dipinti che si susseguivano eleganti sulle pareti evocavano il mito in tutti i suoi aspetti, stuzzicando la fantasia, i sentimenti, le associazioni piú impensabili collegati al momento e alla situazione dell’osservatore. Problemi politici, morali e sociali potevano trovare ampio spazio in sedi sicuramente piú idonee, quali i monumenti pubblici. L’esibizione all’interno del contesto domestico di pitture mitologiche, spesso derivate da celebri originali greci, era un’operazione che consentiva ai ricchi domini di rievocare non solo il prestigio degli ambienti pubblici della capitale in cui gli originali erano effettivamente conservati, ma anche di sfoggiare la personale padronanza delle linee guida della mitologia greca e ostentare cosí la propria cultura.
Le nature morte Il gusto per la rappresentazione di oggetti inanimati si era affermato già nella tarda età classica (seconda metà del IV secolo a.C. circa), momento a partire dal quale l’attenzione di artisti e artigiani si volse ai soggetti «umili». Plinio ricorda come un certo Pireico (pittore probabilmente ateniese vissuto tra la fine del IV e il III secolo a.C.) avesse raggiunto la notorietà dipingendo «botteghe di barbieri e di calzolai, asini, vivande e simili» (nat. 35 112), motivo per cui venne chiamato rhyparographos, ossia pittore di cose spregevoli (da rhypos = sporcizia, bruttura). La moda di riprodurre generi alimentari si diffuse ben presto nella cultura figurativa romana, dando cosí il via allo sviluppo delle immagini di nature morte, che a parere di Vitruvio sarebbero da ricondurre alla consuetudine da parte dei padroni di casa di regalare agli ospiti cibi, bevande e prelibatezze di stagione, secondo un costume tipicamente greco dove
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I SOGGETTI
correntemente utilizzato per identificare questo particolare genere pittorico, sarà introdotto solo nel XVII secolo nell’arte europea.
Simboli di ricchezza e benessere
tali doni di ospitalità erano chiamati xenia («I Greci quando furono piú raffinati e di condizioni piú benestanti, per gli ospiti che arrivavano (...) il primo giorno li invitavano a cena, il seguente mandano polli, uova, verdura, frutta e altri prodotti agricoli. Pertanto i pittori con pitture si ispirano a quei doni che erano inviati agli ospiti e le chiamarono xenia»; arch. 6, 7, 4). Oltre ai commestibili venivano messi in scena pure altri oggetti della vita quotidiana (vasi, coppe, suppellettili, elementi per la scrittura) che, alla pari degli alimenti, venivano regalati a ospiti e amici. Va precisato che il termine «natura morta»,
Affresco raffigurante una natura morta con pesche e un vaso in vetro, dalla Casa dei Cervi di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Nella pittura romana le prime nature morte compaiono, tra la fine del II e il I secolo a.C., nelle partiture illusionistiche di II stile: all’interno delle complesse architetture dipinte, collocati in maggioranza al di sopra di mensole e cornici, si ritrovano grandi vasi di vetro o di metallo oppure canestri traboccanti di frutta (fichi, mele cotogne, uva, susine, melagrane), come accade nel salone (23) della Villa di Poppea a Oplontis o nel cubicolo della Villa di Fabius Synistor a Boscoreale. Cacciagione e volatili appaiono invece appesi ai fondali architettonici o accovacciati sulle mensole, come testimoniato nell’atrio della Villa dei Papiri di Ercolano dove, all’interno di una nicchia, compaiono quattro germani reali e due caprioli. L’uso di addossare alle pareti o a portali di edifici perlopiú di carattere sacro uccelli, pesci o piccola selvaggina è confermato dai frammenti provenienti dall’Insula Occidentalis (41) di Pompei: ai lati di una porta monumentale sono appesi, come doni rustici per le divinità, due grossi pesci (probabilmente orate) e tre pernici, unitamente a un leprotto sospeso per le zampe posteriori. Tali immagini, simbolo di
Case come pinacoteche?
L
e case romane decorate ad affresco producono un’atmosfera di vivacità e ricchezza. Uno sfarzo che, nelle dimore dei membri delle élite, doveva essere accresciuto anche dall’esposizione di quadri da cavalletto variamente esibiti, appendendoli ai muri o collocandoli su supporti. L’esistenza di quadrerie private nel mondo antico è sancita da un passo di Vitruvio (arch. 6, 5, 2), in cui nelle dimore di notabili si ricordano anche le pinacothecae. Tale costume è da porre in relazione con lo sviluppo del fenomeno del collezionismo: a partire dall’età ellenistica le opere dei piú
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importanti artisti greci, divenute ormai oggetti di pregio, iniziarono a essere custodite nelle prime «gallerie», che si formarono sia nei luoghi pubblici (templi e santuari), sia nelle corti dei grandi sovrani. Con le guerre di conquista romane, pitture e altre opere d’arte greca affluirono nella capitale contribuendo alla nascita delle collezioni pubbliche e alla formazione di un mercato dell’arte in cui i grandi capolavori erano venduti a prezzi esorbitanti. Parallelamente, si sviluppò il desiderio di possesso dei singoli cittadini, con la creazione delle grandi raccolte private.
ricchezza e benessere, costituivano un esercizio di bravura per gli artigiani, che con attenzione minuziosa, hanno saputo restituire puntualmente le caratteristiche delle diverse specie animali e vegetali. Nello stesso torno di tempo (metà del I secolo a.C.), si affermano le riproduzioni di quadretti, muniti di cornici o di sportelli a imitazione di quelli reali, con la rappresentazione di cibarie, frutta, animali. Tra i primi esempi del genere vi è la serie di pannelli del salone della Casa del Criptoportico di Pompei (I 6, 2), che inaugura una moda che godrà di ampia fortuna
Affresco raffigurante una natura morta con un vaso di vetro ricolmo di frutta, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
L’emulazione dei piú facoltosi e il gusto per il collezionismo di quadri coinvolsero presto anche chi quelle opere, materialmente, non se le poteva permettere. Ed ecco che nella pittura parietale si assiste, a partire dalla metà del I secolo a.C., alla comparsa di riproduzioni di dipinti mobili eseguiti con minuzia descrittiva nella puntuale delineazione di fittizie ante lignee (imitative di reali sistemi di protezione) o di cornici variamente sagomate. Questi pannelli, che a loro volta riproducono varie raffigurazioni (mitologiche, paesaggistiche, di natura morta, scene di
soprattutto nei decenni successivi. E cosí, all’interno di veri e propri quadretti illusionisticamente resi, si ritrova un’ampia gamma di prodotti alimentari, espressione di una passione per il buon cibo che diventa al tempo stesso segno di distinzione sociale e di ricchezza: ortaggi e frutta (tra cui fichi, mele, datteri, melograni, uva, pesche, ciliege, limoni, noci e nocciole; ma anche asparagi, rape e carote); animali vivi o pronti per essere cucinati (prediletti fra gli uccelli sono i tordi, le pernici e le quaglie; fra il pollame, i galli, le galline, le anatre e le oche; fra la selvaggina le lepri e i conigli selvatici, piú rari sono invece i caprioli e i daini; fra la fauna acquatica, le triglie, le seppie, i molluschi, le aragoste e le murene); e poi vi sono i formaggi (specialmente la ricotta), il pane e le uova; e ancora, vasellame (in vetro o in argento) od oggetti per la dispensa (come posate e canestri), strumenti per il sacrificio (coltelli cassette per l’incenso, bruciaprofumi); non mancano poi oggetti per scrivere (tavolette, stili, calamai) e monete. Tra gli esempi piú significativi vale certo la pena ricordare la serie di ampie tavole esposte nel tablino (92) dei Praedia di Iulia Felix di Pompei (II 4, 3): primizie vegetali e animali (uova, uccelli, frutta) sono esposti su vassoi o riempiono cesti e vasi di vetro oppure di terracotta e si accompagnano a oggetti del vivere quotidiano, come gli strumenti per la
genere…) e che sono dipinti sulle pareti a simulare delle vere e proprie raccolte anche coerenti da un punto di vista tematico, sono da interpretare come delle riproduzioni «economiche» della grande arte da cavalletto che solo i piú facoltosi potevano permettersi. Le partiture ad affresco restituiscono cosí visivamente l’immagine di raccolte di quadri, se non esistenti, comunque verisimili e ci permettono di avere un’idea di come si doveva presentare, agli occhi ammirati dei visitatori, un’antica pinacoteca. Giulia Salvo
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I SOGGETTI
In alto quadretti ad affresco con nature morte, dalla Casa dei Cervi di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra, prosciutti, un pollo sultano che zampetta e una coppa coperta da una brocca di vetro; al centro, conchiglie e un’aragosta, due seppie e una brocca d’argento su cui vigila un martin pescatore; a destra, una mela, una pernice e un coniglio che rosicchia un grappolo d’uva.
scrittura o i mucchi di monete, forse allusivi al modo di tenere una corretta contabilità. Una selezione di cibi, alcuni estremamente raffinati e costosi altri piú comuni, si ritrova nella raccolta di pitture documentata nella Casa dei Cervi di Ercolano: vi compaiono le pesche, particolarmente pregiate se frutto di innesti a fronte dello scarso valore che avevano quelle colte da alberi non innestati; i fichi secchi e i datteri, che rimandano alle abitudini delle festività invernali; il pollo, ormai già spennato e pronto per essere trasformato in gustosa leccornia; la lepre, vanto dei banchetti romani; e poi vi sono l’immancabile selvaggina e i pesci (tra cui le pregiate murene e le aragoste, oltre alle piú economiche seppie). Particolarmente suggestiva è la decorazione del peristilio (39) della Casa delle Vestali di Pompei (VI 1, 7), nota purtroppo solo attraverso riproduzioni ottocentesche eseguite da Giuseppe Chiantarelli: sostenuti con estremo realismo da cordicelle appese a chiodi entro sottili architetture, i quadri mostrano un vivace gioco nella posizione delle finte ante, che appaiono ora ripiegate ora completamente aperte ora, invece, semichiuse. Troviamo qui immagini di nature morte sia animali (vivi e morti, tra cui gallinacei, pesci, oche, conigli…) sia vegetali, che probabilmente alludono ai banchetti
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consumati nell’adiacente triclinio; fa invece riferimento ai sacrifici domestici il quadretto con un altarolo e una testa di bovino mozzata. A queste attestazioni si aggiungono anche le numerose immagini di volatili con le zampe avvinte da lacci, provenienti per esempio dall’ambiente (15) della Villa di Arianna a Stabia oppure il dipinto con coppia di anatre esposto sopra un pilastrino nell’atrio (2) della Casa di M. Lucretius Fronto di Pompei (V 4, a).
Raccolte a tema Pur nella varietà dei dettagli, la ripetizione di composizioni tra loro molto simili se da una parte è riferibile alla circolazione dei modelli e alle pratiche di bottega, dall’altra induce a riconoscere la volontà da parte dei committenti di creare, mediante la piú economica tecnica dell’affresco, collezioni con riproduzioni di prestigiosi originali su tavola aventi per oggetto immagini di nature morte. E in effetti, la possibilità che nel mondo antico esistessero vere e proprie raccolte a tema con rappresentazioni di xenia nei triclini sembra confermata da un passo di Varrone (De re rustica 1, 59, 2) relativo alle oporoteche (gli ambienti per lo stoccaggio del cibo). Del resto, che quadri di nature morte potessero entrare a buon diritto in una collezione è confermato da Filostrato
Particolare della decorazione dell’ambulacro F-G della Villa della Farnesina Secondo stile, I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Cariatidi reggono ghirlande floreali e dai loro copricapi fuoriescono candelabri che scandiscono il fregio sovrastante.
In basso affresco dalla Villa di Arianna a Stabia. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Al centro della scena, un piccolo tempio a cui si avvicinano alcune figure di offerenti; sullo sfondo, immersi nel paesaggio, si intravedono altri edifici sacri e una colonna al centro.
Maggiore (retore della fine del II-inizi del III secolo d.C.), il quale, in una immaginaria pinacoteca napoletana da lui descritta nelle Immagini, ricorda anche la presenza di due pitture con questo soggetto: in una comparivano noci, fichi, pere, ciliegie, uva con miele, formaggi e latte; nell’altra erano raffigurati due lepri (una viva e una morta), un’anatra già spiumata, diversi tipi di pane, castagne, fichi e altra frutta fresca.
La pittura di paesaggio Nella pittura di paesaggio rientrano tutte le composizioni in cui le vedute paesistiche sono il soggetto principale della rappresentazione e si offrono a uno sguardo panoramico, che richiede un certo grado di distanza nell’osservazione. Plinio attribuisce a Ludius (o Studius) – pittore attivo in età augustea – l’invenzione di decorare le pareti «raffigurandovi case di campagna, porti e temi paesaggistici, boschetti sacri, boschi, colline, peschiere, canali, fiumi, spiagge» (nat. 35, 116); si tratta dei topiaria opera, ossia dei diversi
paesaggi con gli elementi a essi tipici. In un passo dedicato all’evoluzione dei sistemi pittorici parietali, Vitruvio si sofferma sul tipo di decorazione piú idonea per ambienti estesi in lunghezza (gallerie e porticati), spiegando come gli artigiani possano attingere «alla varietà di paesaggi [varietatibus topiorum], rappresentando immagini conformi agli elementi paesaggistici peculiari. Si dipingono infatti porti, promontori, spiagge, fiumi, sorgenti, stretti di mare, santuari, boschi sacri, montagne, greggi, pastori» (arch. 7, 5, 1-2). È la nascita di una «pittura di genere», in cui si possono riconoscere diverse tipologie di paesaggi: idillico-sacrale, il tipo piú diffuso e dalle connotazioni anche simboliche; con vedute architettoniche, marine o fluviali; con scene agresti oppure con ville; ma elementi ambientali costituiscono anche lo sfondo «ingombrante» per narrazioni del mito o dell’epos giacché, prevalendo sulla raffigurazione, giocano un ruolo preponderante, in quanto costituiscono il fondale su cui si muovono figurine di ridotto formato.
In alto particolare della decorazione del cubicolo B della Villa della Farnesina raffigurante la toletta di Venere. Secondo stile, I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
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I SOGGETTI
In alto, sulle due pagine affresco dalla Villa di Arianna a Stabia. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Paesaggio nilotico popolato da pigmei, ritratti in momenti di vita quotidiana. In basso affresco con veduta di un porto, da Stabia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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In questa serie spicca il totale disinteresse dei Romani per la rappresentazione dal vero della natura incontaminata. Le raffigurazioni di paesaggio non riproducono mai luoghi realisticamente esistenti, ma sono vedute di fantasia costruite sulla base di schemi ricorrenti e pertinenti a uno specifico genere di paesaggio (idillico-sacrale, marino, con ville, ecc…); sono delle vedute tipizzate. Gli elementi con cui vengono create le pitture di paesaggio sono effettivamente realistici (siano essi naturali o architettonici), ma sono organizzati sulla scorta di schemi prefissati. Per esempio, i paesaggi idillico-sacrali ampiamente diffusi nel comprensorio vesuviano sono costruiti attraverso l’uso di una varietà di edifici sacri (spesso posti in stretto rapporto con gli alberi), a carattere ripetitivo, inseriti in ambiente pastorale o agreste. Le maestranze avevano a disposizione album di schizzi e di disegni con rappresentazioni di singoli monumenti, boschetti, vedute, ecc., che assemblavano e contaminavano tra loro «secondo i desideri di ognuno», come dice anche Plinio (nat. 35, 116), ma sempre all’interno di determinati schemi compositivi rispondenti alla tipologia
Lungo il corso del Nilo...
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del paesaggio che si era scelto di rappresentare (vedi box in questa pagina).
Spazi rigidamente circoscritti La pittura di paesaggio di età romana è costruita sulla base di codici visivi e di regole differenti rispetto a quelli di età moderna, che affondano le radici nelle acquisizioni (anche prospettiche) dell’arte rinascimentale: lo spazio è rigidamente circoscritto; la profondità di campo perde di importanza e viene perlopiú allusa con criteri differenti rispetto alla prospettiva lineare; le composizioni tendono in generale a negare la presenza di uno spazio infinito oltre esse. Prendono cosí forma vedute irreali, immaginifiche, sospese nello spazio e nel tempo. Guardiamo all’effetto, quasi visionario, suscitato dalla pittura di paesaggio con imbarcazioni su fondo nero proveniente da Pompei, dove peraltro la parte naturalistica è esplicitamente ridotta; oppure, agli affreschi paesaggistici, sempre su fondo nero, presenti nel triclinio della Villa della Farnesina a Roma. A una sorta di disinteresse per lo spazio e la profondità, fa da contraltare l’interesse minuzioso per la chiarezza e la precisione di
paesaggi che si dispiegano lungo le sponde del Nilo sono riconducibili a due differenti filoni narrativi: faraonico, evocativo della realtà esotica delle terre d’Egitto; nilotico, in cui il delta fluviale funge da ambientazione per scene di gusto grottesco e parodistico. In età romana grande fortuna ebbero le figurazioni di tipo nilotico, come rivestimento di spazi all’aperto o di ambienti termali. Qui il rivo egizio è ricordato da piante e uccelli acquatici, palme e isolotti, in cui si muovono animali esotici, ippopotami, coccodrilli e ibis, affiancati o in lotta con i caratteristici abitanti: i pigmei, dall’aspetto deforme e affaccendati nelle tipiche attività parodistiche (come la pesca a bordo di un’imbarcazione dalla prua a forma di fallo, o l’arrampicata sul fusto di una palma per sfuggire alle fauci spalancate di un coccodrillo). La loro diffusa presenza in atmosfere nilotiche ha avuto varie interpretazioni, tutte plausibili e non esclusive: a seguito della conquista dell’Egitto da parte di Augusto nel 30 a.C., essi si configurano come strumenti di denigrazione coloniale; legati alle piene del Nilo, divengono simboli di fertilità; infine, con le loro farsesche avventure e la deformità dei corpi (gobbi, nani e con il sesso ipertrofico), suscitano l’ilarità dell’osservatore e, insieme agli attributi apotropaici spesso branditi (quali verghette incrociate), provvedono ad allontanare il malocchio e le forze malvagie che, secondo la superstizione antica, avevano sede privilegiata proprio all’interno degli ambienti termali. C. S.
tutti gli elementi costitutivi della veduta paesistica. E tuttavia, il desiderio di costruire un’immagine tridimensionale su un piano bidimensionale porta gli artigiani romani a creare scorci audaci visivamente disarmonici, con uno squilibrio tra le forme e le misure delle figure dipinte. Cosí, per esempio, negli affreschi del corridoio F della Villa della Farnesina o nel Colombario di Villa Pamphilj a Roma emerge lo scarso o nullo interesse nei confronti del rapporto tra monumenti e personaggi, disposti in maggioranza in fasce parallele rispetto al piano di fondo. L’assenza di composizioni unitarie sotto il
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I SOGGETTI
profilo illusionistico-spaziale, porta all’espansione delle composizioni figurate in lunghezza, non in profondità; il sistema è dunque planare e non spaziale.
Questioni di «ruolo» e di gusto Nelle pitture parietali le raffigurazioni di paesaggio possono essere disposte in modi diversi, a seconda del «ruolo» che a esse viene dato. Immagini di paesaggio possono infatti comparire all’interno di riproduzioni di quadri mobili resi in maniera illusionistica, come accade nella Casa dei Ceii di Pompei (I 6, 15) o nella Villa di Poppea a Oplontis. Ma le vedute paesistiche possono anche essere dipinte in forma di fregi, ed essere quindi relegate in posizione secondaria come riempitivi, oppure in forma di pannelli, a occupare in tal modo maggiore spazio nella superficie parietale. Le modalità di riproduzione e disposizione dei paesaggi all’interno della sintassi parietale sono anche direttamente legate al gusto del sistema pittorico dominante. Cosí, per esempio, i fregi paesistici – caratterizzati da un ribaltamento delle immagini sul piano verticale di fondo al punto da sembrare disposti in file – si ritrovano soprattutto nei contesti di II stile, come esemplificato dalla veduta marina in monocromo giallo sulla parete di fondo del cubicolo della Villa di P. Fannius Synistor a Boscoreale, oppure dal cosiddetto fregio giallo presente nella Sala del Monocromo della Casa di Livia a Roma. Qui la veduta è dall’alto, ma non realmente a volo d’uccello, giacché i rapporti proporzionali appaiono sfalsati. Agglomerati di case e di edifici corrono in successione lungo il piano, entro un paesaggio dal sapore idillico-sacrale, con la presenza di una moltitudine di figurine operose che si muovono all’interno di uno spazio «realistico» (solo vagamente riconducibile a un paesaggio del Mediterraneo orientale). Nelle fasi finali del II stile il paesaggio diventa protagonista della parete: al centro del sistema decorativo si inseriscono ampi pannelli entro edicole con vedute ambientali, come accade
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per esempio nella Sala delle Maschere della Casa di Augusto a Roma. Con il III stile i paesaggi sono inseriti entro quadri di raffinata eleganza in sistemi parietali caratterizzati da una scansione chiara e ragionata, funzionali a evocare uno spazio bucolico e surreale, che diventa motivo di evasione: valga tra tutti il modello della Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase. A partire dalla metà del I secolo d.C. sembra farsi largo un maggiore interesse per il realismo descrittivo, giacché nella creazione delle pitture di paesaggio la prospettiva viene adoperata secondo un sistema piú unitario e meno eclettico.
Quadretto ad affresco raffigurante un paesaggio marittimo, con case lungo la costa, alberi e barche da pesca, da Boscoreale. Seconda metà del I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
La veduta, quasi sempre dall’alto, non è dunque costruita per poter esaminare nel dettaglio i singoli elementi architettonici nella loro specificità, ma è pensata per essere ammirata nel suo insieme.
La pittura di giardino
Si assiste alla comparsa di edifici e di ville desunti da modelli reali, inserite in un ambiente che appare molto piú plasmato dalla mano dell’uomo. Durante il IV stile la raffigurazione accurata di paesaggi architettonici e di ville continua, ma le immagini sono ormai trasformate in preziosi fregi o quadretti da riconoscere e scoprire nella ridondanza decorativa delle pareti. In questo periodo vi è poi un interessante cambiamento della tecnica pittorica: le immagini non sono definite nel dettaglio, ma sono ottenute con una resa che potremmo dire impressionistica e sono destinate a essere recepite da lontano.
La fortuna di composizioni aventi per oggetto piante e vegetali nel mondo romano è resa esplicita dalla ricca serie di pitture di giardino, ben note soprattutto dal comprensorio vesuviano e da raffinati esempi provenienti dalla capitale (come per esempio la Villa di Livia a Prima Porta o l’Auditorium di Mecenate); le testimonianze si concentrano in maggioranza nelle fasi di III e IV stile. In questo repertorio si assiste a un vivace gioco di rimandi tra la realtà naturale e l’immagine. La possibilità di stabilire una connessione tra il reale e ciò che è dipinto anche da parte dell’osservatore antico emerge in una epistola di Plinio il Giovane (nipote del piú volte citato Plinio il Vecchio, n.d.r.), dove, trattando della propria villa in Toscana, si sofferma nella descrizione del paesaggio: «Assaporeresti un vivo godimento se contemplassi dall’alto di una montagna la disposizione di questa contrada; avresti infatti l’impressione di scorgere non un paesaggio reale, ma una specie di quadro di stupenda bellezza» (5, 6, 13). Allo scenario naturale fa, poco piú oltre, da contraltare la descrizione della decorazione di una stanza che «grazie al platano che le è vicino, è tutta ricoperta di verde e di ombra; essa ha lo zoccolo adornato di marmo ed è decorata di una pittura – che non contribuisce meno del marmo a dare un senso di squisitezza all’ambiente – la quale raffigura dei rami con degli uccellini appollaiati sopra» (5, 6, 22). I giardini dipinti, tutti caratterizzati dall’esaltazione del rigoglio vegetativo, dovevano evocare per i proprietari e i loro ospiti i giardini reali modellati dalle sapienti mani dell’uomo. I muri si aprono in maniera illusionistica su spazi verdeggianti, dove erbe e fiori multicolori costituiscono la base di un fitto (segue a p. 118)
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Particolare dell’affresco della cosiddetta «sala del giardino», dalla Villa di Livia a Prima Porta. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Si riconoscono alberi da frutta e uccelli di varie specie.
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Il giardino di Livia
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l rigoglioso giardino della Villa di Livia a Prima Porta (situata nel quadrante settentrionale del suburbio di Roma, lungo la via Flaminia, al IX miglio, n.d.r.) è il piú antico e piú illustre esempio del genere dei giardini dipinti (horti picti). L’affresco ornava una sala semi-sotterranea, priva di finestre, probabilmente adibita a triclinio estivo. Come dall’interno di una grotta, suggerita dalle stalattiti che incorniciavano la parete, si spalancava la suggestiva visione di un lussureggiante giardino a grandezza naturale, immerso in una luminosa atmosfera cerulea. In primo piano è un prato verde, chiuso da una recinzione a incannucciata sulla quale si aprono alcuni ingressi che danno accesso alla passeggiata erbosa. Lungo il lato di fondo, fa da confine una balaustra marmorea, su cui poggiano gabbiette dorate abitate da uccellini. Oltre il limite della recinzione di marmo, la vegetazione si estende a perdita d’occhio: una grande varietà di piante verdeggianti e alberi carichi di fiori e frutti, in un tripudio vegetale, sono minuziosamente raffigurati nel pieno della fioritura. La riproduzione naturalistica di piante e uccelli, tanto accurata da permetterne l’analisi botanica e ornitologica, non vuole tuttavia evocare un giardino reale, in una determinata stagione, quanto piuttosto celebrare la bellezza della natura feconda. Dalla rappresentazione è esclusa la figura umana. Eppure, entrando nella sala l’osservatore antico era a tal punto immerso nella rigogliosa atmosfera, da diventare anch’egli protagonista della decorazione. C. S.
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I SOGGETTI
intreccio di cespugli, sul quale svettano contro il fondo blu del cielo gli alberi d’alto fusto. Spicca l’assenza della figura umana da una scena che è tuttavia opera evidente dell’uomo: non si tratta di aree verdi incontaminate, ma di giardini geometricamente ordinati, in cui anche l’aspetto curato delle piante denuncia una manutenzione attenta. Lo sfondo delle rappresentazioni varia dal naturale azzurro del cielo al nero riecheggiante il buio notturno, dal giallo al rosso allusivi probabilmente a un muro di fondo contro il quale si addossano le aiuole, i cespugli e gli alberi. Oltre alla vegetazione, concorre a ricreare uno spazio illusionistico la replica puntuale di quelli che erano gli elementi tipici dei giardini reali: balaustre, colonne, motivi di arredo (fontane, statue o altre suppellettili), ma anche piccoli animali e uccelli variopinti coerentemente organizzati e articolati in una profondità di campo tramite alcuni espedienti tecnici, come i giochi di chiaroscuro oppure l’uso di una vaga prospettiva lineare per gli elementi d’arredo, ma non per la composizione nel suo complesso.
Quasi un manuale di botanica Le vedute di giardini dipinti, che occupano spesso l’intera superficie delle pareti, vengono costruite secondo rigide norme di organizzazione dello spazio pittorico e convenzioni prospettiche che concorrono a ricreare un ambiente verde entro il quale si affastellano alberi, arbusti e fiori resi con una tale vivacità di dettagli da permettere di individuare senza fatica le diverse specie. Del resto, la presenza di pittori specializzati nella raffigurazione di alberi sembra essere suggerita da Orazio (De arte poetica, 19-21), che ne loda uno per la bravura nel riprodurre i cipressi. Non è infatti un caso se la pittura di giardino sia stata spesso presa quale punto di riferimento per la ricostruzione e la sistemazione dei reali giardini antichi, con particolare riferimento a Pompei. In quella miniera di documentazione che offre l’area vesuviana (le città di Pompei ed Ercolano sopra tutte), tra le diverse specie che animano
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le pitture di giardino è stato possibile riconoscere, in virtú della minuzia descrittiva con cui sono tratteggiate, palme da dattero, oleandri, allori, cipressi, pini, mirtilli, fichi. Vanto dei giardini romani erano poi le rose, i gigli e i papaveri, di cui abbiamo tante testimonianze dagli affreschi sulle pareti di domus e ville, cosí come il mirto, il corbezzolo, i limoni, i melograni o le prugne. Tra gli alberi da frutto sono poi prediletti il melo, il melograno, il ciliegio o la fragola; particolarmente suggestiva è la decorazione dei cubicoli della Casa dei Cubicoli floreali o del Frutteto (Pompei I 9, 5), dove si riconoscono ciliegi, limoni, un fico, un pero e un albero di prugne. Si tratta, in tutti i casi, di immagini di giardini che riecheggiano apparentemente quelli reali, ma non ne sono la riproduzione fedele. Se infatti gli elementi vegetali sono spesso delineati con estremo realismo, la dimensione in cui essi sono immersi è astratta: a essere «naturali» sono sí le singole piante, ma non le composizioni nel loro complesso; non vi è, in altre parole, la volontà di riprodurre un giardino effettivamente esistente. Sono giardini caratterizzati da una vegetazione tanto lussureggiante quanto varia e tuttavia le diverse specie sono sempre colte in una irrealistica contemporanea fioritura, come documenta il rigoglio di quelle «pareti ingannevoli» – cosí definite da Salvatore Settis – della sala sotterranea della Villa di Livia a Prima Porta (vedi box a p. 117). Qui i contrasti cromatici creano un’ambientazione suggestiva, con gli alberi d’alto fusto che si stagliano contro il cielo blu e svettano su un sottobosco fatto di arbusti, cespugli fioriti, rose e campanule. Lo stesso gusto per il lussureggiare della vegetazione si ritrova nella Casa del Bracciale d’oro di Pompei (VI 17 Ins. Occ., 42), in cui corbezzoli, oleandri, allori, viburni, palmizi e platani compongono una fitta ambientazione vegetale arricchita dai colori vivaci dei fiori, quali rose, gigli e papaveri. Grazie alla decorazione si ricrea cosí all’interno delle case un luogo ameno, pur addomesticato e disciplinato dalle mani dell’uomo, capace di sollevare l’umore e rigenerare lo spirito; uno spazio utile per
Pompei, Casa del Bracciale d’oro (VI 17, Ins. Occ., 42), triclinio (31). Pittura di giardino. Fra la vegetazione spiccano due erme a rilievo e una fontana, mentre tutto intorno volteggiano numerosi uccelli.
abbandonarsi, all’interno della quiete domestica, a una felice ammirazione della natura, stimolo per la meditazione. La fortuna di questo genere pittorico continua ben oltre il IV stile, perdurando ancora nel II e nel III secolo d.C., come dimostrano le case di Efeso e Ostia, in cui il motivo del giardino viene utilizzato per decorare intere pareti. Una variante particolare delle pitture di giardino è costituita dai paradeisoi (letteralmente i parchi di caccia), ossia paesaggi naturali popolati da animali di differenti specie, spesso intenti in attività di caccia; la maggior parte delle attestazioni, quasi tutte provenienti da Pompei, si concentra nel IV stile.
I Romani ci guardano Tra le raffigurazioni documentate nella pittura romana furono particolarmente apprezzate le immagini di personaggi reali, perlopiú inserite in
dipinti circolari nella zona mediana delle pareti. La ritrattistica sembra affermarsi come branca autonoma nel corso del I secolo a.C., sebbene affondi le proprie radici nella tradizione greca del IV-III secolo a.C.: basti pensare alla notorietà che certo ebbero le raffigurazioni di personaggi reali opera del famoso maestro Apelle, tra cui spiccano quelle di Alessandro Magno o del suo generale Antigono Monoftalmo (cioè monocolo). L’esistenza di pittori romani impegnati in via preferenziale, se non del tutto esclusiva, nella creazione di immagini ritrattistiche ci è confermata da Plinio, che ricorda il successo riscosso da Sopoli e Dionisio (attivi nella prima metà del I secolo a.C.), «i due piú famosi ritrattisti di quell’epoca (...) dei cui quadri sono piene le pinacoteche»; ma esperta nel genere era pure una donna, Iaia di Cizico, talmente capace «da superare di molto nei
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I SOGGETTI
le rappresentazioni delle figure umane presentano dettagli fisionomici talmente peculiari da poter essere considerate come veri e propri ritratti | PITTURA ROMANA | 120 |
prezzi di vendita» le opere dei contemporanei Sopoli e Dionisio (nat. 35, 147-148). Malgrado la perdita dei capolavori su tavola dei piú noti artisti, la pittura ad affresco fornisce una preziosa testimonianza del gusto della clientela romana per le rappresentazioni di personaggi reali. Le attestazioni, che provengono soprattutto dal comprensorio campano – anche se non mancano esempi dai territori provinciali – fioriscono nel corso del III stile per diffondersi ampiamente durante il IV stile ed essere note ancora nel III secolo d.C. I ritratti possono presentare attributi divini od oggetti volti a sottolinearne le virtú intellettuali (utensili per la scrittura, quali tavolette e stilo oppure rotoli con opere di celebri poeti), ma non mancano casi in cui le immagini siano prive di attributi specifici o di caratteristiche particolari. Si tratta in maggioranza di busti femminili e di giovinetti (indifferentemente maschi o femmine), mentre meno frequenti sono le raffigurazioni di uomini adulti oppure canuti; fa eccezione l’immagine di un anziano intellettuale raffigurato entro un medaglione nell’esedra distila (18) della Casa del Citarista di Pompei (I 4, 5.25).
Personaggi realmente esistiti Sebbene la critica non abbia ancora raggiunto un punto d’incontro sull’interpretazione dei busti individuali, nella maggior parte dei casi è da credere che le riproduzioni raffigurino, senza ulteriori pretese realistiche, personaggi viventi, perlopiú riconducibili ai proprietari delle domus. Talora è addirittura possibile individuare veri e propri ritratti, in virtú di un vago richiamo a caratteristiche fisiche peculiari: si pensi, a titolo puramente
Nella pagina accanto affresco che ritrae Terentius Neo insieme alla moglie, dal tablino della Casa VII 2, 6 di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
In alto tondo raffigurante il ritratto della cosiddetta Saffo, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
esemplificativo, al celebre dipinto raffigurante il ricco panettiere pompeiano Terentius Neo con la moglie o ai medaglioni recanti i busti di due giovani che mostrano orgogliosamente i rotoli di celebri poeti provenienti dal tablino (f) della Casa del Cenacolo a Pompei (V 2, h); ma ritratti maschili, forse riconducibili ai membri della famiglia augustea (Agrippa?), sono attestati anche nella cosiddetta Sala «nera» della Villa di Boscotrecase, cosí come pretese realistiche hanno l’immagine di fanciulla con stilo e dittico e il busto di un giovane con rotolo che si ritrovano nel triclinio (h) della Casa di L. Cornelius Diadumenos a Pompei (VII 12, 26). Accanto a raffigurazioni che, piú o meno marcatamente, alludono a personaggi reali legati alla famiglia del committente, si annoverano anche medaglioni con busti recanti figure di individui tipologicamente connotati (come filosofo o come poeta), che assumono un valore piú generale o ideale: si pensi, in particolare, al già ricordato tondo con l’immagine di un anziano poeta (o filosofo) coronato di edera nella Casa del Citarista di Pompei; solo genericamente atteggiato a filosofo è invece il busto-ritratto di giovane che compare nella corte al piano rialzato nella Hanghaus 2 di Efeso, una delle testimonianze piú tarde di questa moda, databile ormai nel solco del III secolo d.C. Non senza importanza nella trasmissione e diffusione dei ritratti di uomini illustri (tra cui filosofi, poeti e letterati) devono probabilmente essere state le Immagini redatte da Varrone (40 a.C. circa), una raccolta di ben settecento effigi di celebri personaggi della Grecia e di Roma, con relativi epigrammi e note biografiche.
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Sebbene l’opera sia andata perduta, da manoscritti tardo-antichi e medievali si sa che le immagini proposte dall’erudito erano di tre specie: il solo busto racchiuso entro un medaglione, la figura intera stante oppure assisa entro una nicchia o un’edicola. Ma tipologico è anche il celebre busto della cosiddetta Saffo: lungi dall’essere il ritratto della poetessa o un’immagine dai connotati fisionomici, il volto femminile, incorniciato da una chioma di ricci trattenuti con una cordicella dorata, è ideale. I tratti del viso vogliono evocare l’immagine di una persona di cultura, come dimostrano le tavolette cerate tenute nella mano sinistra e lo stilo portato alla bocca, il cui stato sociale elevato è sottolineato dai gioielli (la retina dorata, gli orecchini e l’anello). La frequenza, negli affreschi romani, di effigi individuali, siano esse reali o ideali, entro quadretti di forma circolare porta a credere che quella tonda fosse effettivamente la forma prediletta per la raffigurazione dei ritratti. Si tratta di un costume che affonda le radici nella tradizione delle cosiddette imagines clipeatae, cioè ritratti di appartenenti a famiglie aristocratiche eseguiti a rilievo su scudi, di cui è possibile scorgere una rievocazione nelle riproduzioni di clipei con teste femminili rilevate presenti nel registro superiore dell’atrio della Villa di Poppea a Oplontis o nel triclinio (e) della Casa IX 1, 7 di Pompei, dove i tre scudi restituiscono i volti della triade capitolina. Non mancano anche testimonianze piú tarde, databili tra la fine del II e il III secolo d.C., provenienti dalle zone provinciali, tra cui merita ricordare quelle francesi di Épiais-Rhus (clipeo con un busto femminile) e del cosiddetto Jardin-à-Pois di Femars, dove un busto maschile imitante il bronzo compare entro uno scudo.
Culto e teatro Abbastanza apprezzate dalla clientela romana erano poi le immagini legate al culto, note dalla metà del I secolo a.C. sino almeno al II-III secolo d.C. Si tratta perlopiú di scene di offerta o di pratiche religiose legate in alcuni
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casi al mondo orientale, tra cui in particolare quelle connesse a Iside, come mostra una serie di dipinti provenienti da Ercolano che raffigurano sacerdoti e fedeli, con le classiche vesti bianche, in vari passaggi del cerimoniale (chi porge all’adorazione degli astanti il vaso contenente l’acqua del Nilo; chi suona il sistro, lo strumento tipico dei culti isiaci dal suono metallico; chi si volge verso la folla alzando un braccio in maniera imperiosa; chi accende il fuoco sull’altare). Talora le composizioni sono riferibili, piú specificatamente, al mondo dei misteri dionisiaci. Uno degli esempi piú significativi è costituito dai ben 15 pannelli che del criptoportico A della Villa della Farnesina a Roma, trattandosi in tutti i casi di scene riconducibili a un ciclo di ispirazione filosofico-religioso. Nelle diverse raffigurazioni si riconoscono: coppie di personaggi, in genere femminili, in un contesto di culto; l’infanzia di Bacco; la toeletta preparatoria al rituale dei misteri dionisiaci; tre figure sullo sfondo di un velario, allusivo al cerimoniale; Bacco e il suo corteggio; un sacrificio davanti a un’erma di Priapo; una coppia di figure davanti a un simulacro di Diana; una scena di istruzione sacra (?); scene di culto; una conversazione o istruzione religiosa; un’iniziazione ai misteri di Bacco. Nel medesimo ambito possiamo anche inserire, sulla scorta di una evidente
Medaglione con cornice ad astragali con ritratto di anziano, dalla Casa del Citarista di Pompei. 55-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Su fondo rosso, il tondo propone l’immagine di un vecchio ed evoca il tipo del filosofo di età classica o del poeta greco.
Quadro con cerimonia di culto della dea Iside, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
omogeneità tematica, le figure di offerenti munite di attributi di culto note, per esempio, nel cubicolo (5) della Casa di Obellius Firmus a Pompei. Immagini femminili, forse riconducibili a generiche scene di culto, sono inoltre attestate nella sala H della Villa di P. Fannius Synistor a Boscoreale e nell’ambiente (g) della Villa dei Papiri di Ercolano, dove è ben visibile la silhouette di un personaggio muliebre: non è escluso che anche tali figure possano essere piú precisamente interpretabili come offerenti. Una scena di sacrificio si ritrova, ancora nel II secolo d.C., in un pannello ubicato nel registro superiore della cosiddetta «Sala verde» di Treviri,
confermando cosí la diffusione, nel tempo e nello spazio, di questo soggetto. All’interno del ricco repertorio tematico della pittura romana non mancano poi le raffigurazioni riconducibili al contesto teatrale. Uno degli esempi piú interessanti è costituito dalla Casa dei Quadretti teatrali di Pompei (I 6, 11), giacché sulle pareti dell’atrio (b) si dispongono pitture con immagini variamente tratte da commedie e tragedie, tra cui: scene desunte da alcune commedie di Menandro (La donna di Samo e L’arbitrato), scena comica con Lykomedeios, scena tragica da Gli Eraclidi di Euripide; vi sono poi altri pannelli pertinenti a scene comiche e tragiche non altrimenti
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I SOGGETTI
identificabili. La predilezione per iconografie strettamente legate al mondo delle rappresentazioni sceniche è ulteriormente ribadita dalla presenza, nel cubicolo (l) della stessa dimora, di un quadretto con la raffigurazione di una maschera di Menade. A una scena tratta dalla Theophorouméne (La fanciulla invasata) di Menandro sono probabilmente da ricondurre i musici ambulanti riprodotti in una pittura – derivata forse da un originale del III secolo a.C. – proveniente da un non meglio noto contesto di Stabia. Le maschere indossate dagli attori consentono di riconoscere i personaggi tipici della commedia
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greca: «il parassita» nel suonatore di tamburo, «l’adulatore» in quello che suona i cembali, «l’etera» nella donna con il doppio flauto, cui si aggiunge il piccolo schiavo posto leggermente in disparte rispetto al gruppo principale. A un piú generico ambito teatrale appartengono invece i dipinti con concerto e attore re pertinenti a un ambiente pubblico, ossia la Palestra di Ercolano (Insula Orientalis II 4, 19).
Scene di vita quotidiana Fra le numerose testimonianze pittoriche di epoca romana meritano di essere ricordate anche le raffigurazioni cosiddette «popolari»:
Quadro con una scena tratta dalla Theophoruméne (La fanciulla invasata) di Menandro, da Stabia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
propri manifesti elettorali sovrapposti su piú strati. Una delle piú famose è quella dipinta su uno dei pilastri d’ingresso dell’esercizio ubicato nella Regio VII 7, 8-12: l’affresco raffigura una processione di falegnami che portano a spalla un baldacchino (il ferculum) in forma di tempietto, sul quale i loro compagni segano e piallano assi di legno alla presenza della statua lignea di Minerva (dea protettrice delle arti e dei mestieri) e del mitico artigiano Dedalo, che allude alla professione del falegname.
Affresco raffigurante un attore e una maschera, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Insegne «parlanti»
immagini di vita quotidiana e di attività lavorative realizzate non solo, come di consueto, sulle pareti interne di domus e botteghe, ma anche e soprattutto sulle facciate di esercizi commerciali (taverne e lupanari), spesso con funzione di «insegna». Si tratta di una pittura caratterizzata da una fresca e immediata carica comunicativa, vivace e a tratti ingenua, svincolata da norme prospettiche o rigide costruzioni spaziali. I dipinti mettono in scena eventi di vita reale (processioni, arti e mestieri), utilizzando una paletta cromatica limitata all’essenziale (bruno, rosso, giallo e fondi neutri perlopiú di colore chiaro) attraverso una tecnica compendiaria, dal tratto veloce e a volte sommaria. Sono pitture spesso destinate ad avere vita breve giacché, specie per le insegne di bottega, facilmente sostituibili da nuove creazioni a seconda delle necessità; lo scavo del principale asse stradale di Pompei, via dell’Abbondanza, ha restituito una grande varietà di queste immagini di bottega dipinte sulle facciate (e oggi quasi completamente restaurate), molte volte associate a veri e
Anche l’officina coactiliaria (un laboratorio di feltrai, da cogere = strofinare, impastare) di Verecundus a Pompei (IX 7, 5-7) esibisce, sul pilastro principale a destra dell’ingresso, una bella insegna esplicativa di ciò che si svolgeva all’interno: alcuni operai seduti su bassi sgabelli cardano la lana su assi di legno; altri, di corporazione piú robusta, sono impegnati a lavorare attorno a una caldaia (e infatti appaiono nudi, fatta eccezione per un piccolo perizoma), manipolando su bacinelle rette da cavalletti un impasto lanoso bianco, da cui ricavano masse compatte in forma di strisce allungate; e poi c’è Verecundus in persona, con il viso dai lineamenti marcati incorniciato da una folta massa di riccioli scuri, che mostra con orgoglio al possibile acquirente il prodotto finito, una tunica marrone con fasce verticali rosse (i clavi, simbolo di rango elevato). Talvolta le pitture potevano essere collocate anche all’interno degli esercizi commerciali, con lo scopo di raccontarne la vita quotidiana e l’attività: cosí nel laboratorio specializzato nella lavorazione dei tessuti (fullonica), ricavato nell’ultimo periodo di vita di Pompei riadattando alla nuova funzione due case piú antiche, uno dei due pilastri che fiancheggiavano una fontana del peristilio è affrescato con diverse scene su fondo rosso, che mostrano i lavoranti impegnati in diverse attività. C’è chi spazzola una tunica bianca appesa a un palo ligneo, chi porta sulle spalle una gabbia di giunchi su cui venivano stesi i tessuti per la solforazione e su cui poggia una civetta (uccello sacro a
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I SOGGETTI
Affresco con scene di lavorazione di tessuti, dalla fullonica di Veranius Hypsaeus di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Minerva), chi è intento a pestare e lavare i panni nelle apposite vasche; e poi ci sono le operaie, indaffarate a consegnare la stoffa linda e pronta alla cliente o a pulire gli strumenti di lavoro oppure a osservare con attenzione un pezzo di stoffa per valutarne la bontà. In generale, ciò che interessa non è la creazione di un’immagine dall’armonica e ricercata costruzione compositiva, ma dall’efficace impatto comunicativo. Questa necessità porta le raffigurazioni popolari a essere spesso caratterizzate da evidenti distorsioni prospettiche, nonché dall’uso di una prospettiva gerarchica (figure piú grandi a seconda dell’importanza e del ruolo esercitato) e non spaziale. Eppure, come nel caso degli affreschi della fullonica, non si tratta di pitture scadenti, ma di pitture che usano un linguaggio diverso, di maggiore espressività, attento alla resa dei particolari figurativi.
Le fatiche dei putti Ma impegnati in una seria attività lavorativa sono anche gli Amorini profumieri raffigurati nella Casa dei Vettii di Pompei: alcuni putti sovrintendono al torchio per la spremitura delle olive (perché l’elemento base per la confezione di un profumo di buona qualità era appunto l’olio); altri Amorini sono indaffarati attorno a catini di metallo per mescolare le essenze e scaldare i composti, mentre poco piú in là c’è chi si occupa di dosare le quantità
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del prodotto finito con la bilancia accanto a un armadietto con i contenitori di profumo pronto per essere venduto. E in effetti c’è già un compratore: una giovane Psiche sta infatti provando l’essenza che un Amorino le ha appena versato sull’avambraccio. Particolarmente vivaci sono anche le immagini di vita quotidiana, come quelle dipinte sul fregio che decorava l’atrio dei Praedia di Iulia Felix a Pompei, da cui, nel 1757, furono ricavati ben 12 pannelli portati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sono qui ritratte scene di vita nel Foro, come dimostra il lungo colonnato che fa da sfondo alle diverse attività commerciali, artigianali e di vita vissuta: si assiste alla vendita di tessuti, di scarpe e di cibarie cotte; alla punizione di uno scolaro, trattenuto per le braccia sulla schiena di un compagno mentre il maestro è pronto a colpire con la verga le terga del discolo; si assiste all’arrivo di carri trainati da muli, di cavalieri e di una quadriga; poco piú in là alcuni passanti si fermano a leggere un editto affisso ai basamenti delle statue equestri, mentre altri si intrattengono chiacchierando. Difficile dire se il luogo rappresentato in queste «diapositive» sia effettivamente il Foro di Pompei, con i suoi porticati e le sue state equestri, oppure se sia stata semplicemente evocata una generica piazza forense tipizzata nei suoi elementi principali. Di certo, si tratta di un affresco realizzato da un artigiano in modo tutt’altro che
Pittura con la raffigurazione della rissa scoppiata nell’anfiteatro di Pompei tra Pompeiani e Nucerini nel 59 d.C., dalla Casa di Anicetus. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
mediocre o sommario, il quale si mostra attento alla proporzione delle figure e al loro inserimento nello spazio, oltre a essere capace di creare i volumi tramite spesse linee di contorno e ombreggiature.
Tifo violento Fa invece riferimento a un evento storicamente accaduto l’affresco con la rissa nell’anfiteatro tra Pompeiani e Nucerini proveniente dal peristilio della Casa di Anicetus (I 3, 23). Un tafferuglio scoppiato, come ci ricorda anche Tacito negli Annali (14, 17), per futili motivi nel 59 d.C. nel corso dei giochi offerti da Livineius Regulus. La violenza dello scontro aveva addirittura causato l’intervento del Senato di Roma, che decretò la sospensione per ben dieci anni dell’anfiteatro, l’esilio
dell’organizzatore Livineio e dei provocatori, nonché lo scioglimento delle associazioni illegali. Sarebbe interessante conoscere qualcosa di piú sul proprietario della casa che commissionò l’affresco: le modeste dimensioni della dimora non autorizzano a credere che possa trattarsi di un gladiatore, piuttosto si potrebbe pensare a un esponente di quelle associazioni (che oggi potremmo identificare nelle tifoserie) sciolte dal Senato, oppure all’organizzatore dei primi giochi dopo la forzata sospensione. Nella pittura troneggia al centro l’anfiteatro di Pompei, visto in una prospettiva a volo d’uccello, con le caratteristiche rampe di scale sorrette da arcate per accedere alla summa cavea; ma, a ben vedere, le rampe sono rese in una prospettiva falsata, giacché avrebbero dovuto essere dipinte di scorcio. Per costruire l’immagine l’artigiano ha usato, consciamente, piú punti di vista, combinando insieme prospettive multiple in modo che fossero visibili tutti i particolari piú importanti: l’esterno e l’interno dell’edificio di spettacolo dove ebbero luogo gli eventi; le mura cittadine con le torri; la palestra quadrangolare con la piscina al centro; il grande spazio antistante ombreggiato da alberelli e popolato da viandanti, facchini, venditori con i rispettivi banchetti. All’interno e all’esterno dell’anfiteatro si consuma la rissa violenta, che portò a diversi morti e numerosi feriti (soprattutto tra i Nucerini). Le figure, filiformi, sono rese con rapide pennellate, in maniera compendiaria, poco caratterizzate nei particolari. Dentro le proprie case o sulle facciate delle botteghe esponenti del ceto medio o liberti arricchiti utilizzarono dunque un linguaggio pittorico diverso rispetto a quello di piú ricchi cittadini o membri dell’élite per autocelebrarsi. Eppure i pittori che per decenni hanno lavorato a Pompei, pur numerosi, non erano migliaia. Certo, non mancavano le specializzazioni e diverse erano le competenze o la bravura dei singoli, ma gli artigiani dovevano comunque essere capaci di alternare stili, maniere e tecniche a seconda delle richieste della clientela e del genere da rappresentare.
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MONOGRAFIE
n. 35 febbraio/marzo 2020 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Giulia Salvo è dottore di ricerca in archeologia classica, Università di Padova. Clelia Sbrolli è dottoranda di ricerca in archeologia classica, Università di Padova. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 12, 20/21, 23 (alto), 39, 42/43, 45, 50, 52/53, 58-59, 66-69, 73, 88-89, 92-93, 94, 96, 99, 120, 124, 126-127 – Shuttertsock: pp. 6/7, 10/11, 64, 70/71, 86-87, 121 – Mondadori Portfolio: Electa/Luigi Spina: pp. 8, 33, 102, 104, 106, 110-111, 112/113, 122; Archivio Dell’arte Luciano Pedicini/Luciano Pedicini: pp. 9, 62 (basso), 83; Ann Ronan Picture Library/Heritage Images: p. 13; AKG Images: pp. 16, 30/31, 40-41, 44, 48/49, 54-55, 56/57, 60/61, 62 (alto), 63, 65, 72/73, 74-79, 81, 90/91, 100/101, 105, 116-119; Album: p. 28; Album/Prisma: pp. 29, 123; Art Media/Heritage Images: pp. 36/37; CM Dixon/Heritage Images: pp. 46, 56, 94/95; Werner Forman Archive/Museo Nazionale Romano, Roma/Heritage Images: p. 47; Mauritius Images/Walter Bibikow: p. 51; Album/The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 80; Album/Oronoz: p. 82; Erich Lessing/Album: pp. 84-85, 109, 114/115; Werner Forman Archive/Heritage Images: p. 108; Werner Forman Archive/Museo Archeologico Nazionale, Napoli/Heritage Images: p. 112; Index/Heritage Images: p. 125; Album/Joseph Martin: p. 129 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 14/15 – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 22, 23 (basso), 34, 34/35 – Da: Romana pictura, Electa, Milano 1999: pp. 24-27, 32 (basso, a destra) – Collection Musées de Sens: foto O. Harl: inv. J 115. Cl: p. 32 (basso, a sinistra). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: affresco che ritrae Terentius Neo insieme alla moglie, dal tablino della Casa VII 2, 6 di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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