AGRIGENTO 2600 ANNI DI STORIA
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N°38 Agosto/Settembre 2020 Rivista Bimestrale
IN EDICOLA IL 12 AGOSTO 2020
AGRIGENTO 2600 ANNI DI STORIA a cura di Giuseppe Parello testi di Gianfranco Adornato, Vincenzo Baldoni, Luigi Maria Caliò, Valentina Caminneci, Monica de Cesare, Armida De Miro, Giovanni Luca Furcas, Giuseppe Lepore, Donatella Mangione, Giuseppe Parello, Graziella Parello, Maria Concetta Parello, Elisa Chiara Portale, Federico Rausa, Maria Serena Rizzo e Michele Scalici con un reportage fotografico di Emanuele Simonaro
6. Presentazione
In nome di Empedocle 8. Introduzione
Le età di Agrigento 12. La
nascita della città
Magnificamente diversa 52. Storia
delle ricerche
Alle origini di un mito 60. Il Grand Tour
La «chiave di tutto» 70. Alla
scoperta del
Parco
Un inno alla bellezza 112. Le attività produttive
Una terra generosa 118. La
produzione artistica
Tutte le stagioni di un’arte sublime In copertina il tempio detto della Concordia (foto di Emanuele Simonaro)
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Rivista Bimestrale N°37 Giugno/Luglio 2020
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l Parco della Valle dei Templi, per definizione archeologico e paesaggistico, persegue l’obiettivo del recupero integrale del magnifico contesto secolare, naturale e storico, della città antica di Agrigento, coniugato alla forte istanza di coinvolgimento della comunità nei processi virtuosi di partecipazione al patrimonio. L’offerta culturale si ispira, infatti, alla magnanimità del ricco akragantino Tellias, nel segno dell’accoglienza e del dialogo. Una cura particolare è dedicata ai temi dell’accessibilità, scelta inclusiva per eccellenza, per garantire a tutti una fruizione di qualità. Anche l’attività di ricerca, condotta con il coinvolgimento di prestigiose Università italiane e straniere, si accompagna a iniziative rivolte alla comunità, come nel caso della recente scoperta del Teatro, che ha accresciuto in modo esponenziale l’interesse generale per la città antica. La pedagogia del patrimonio, rivolta soprattutto alle scuole, rappresenta, poi, uno degli strumenti privilegiati per ampliare la fruizione. Prioritario, insieme alla cura del patrimonio archeologico, il progetto di riqualificazione del paesaggio. Gli oliveti e i vigneti, decantati da Diodoro Siculo, coltivati nell’ampio territorio di pertinenza del Parco, hanno ricominciato a elargire i loro frutti, da cui si producono, grazie alle convenzioni con le aziende private, olio e vino d’eccellenza, commercializzati con il marchio Diodoros. Si tratta di una vera e propria rigenerazione del paesaggio storico, un esperimento virtuoso, che consegna al futuro l’imperitura bellezza di Akragas. Roberto Sciarratta Direttore del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento
IN NOME DI
EMPEDOCLE
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on questa nuova Monografia, «Archeo» intende celebrare la memoria di Agrigento in occasione dei 2600 anni dalla sua fondazione, proponendosi come invito e come guida alla visita di questo luogo straordinario, la cui parte piú monumentale – la cosiddetta Valle dei Templi – dal 1997 è inclusa nella lista del patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Alla realizzazione del numero hanno partecipato i principali protagonisti delle piú recenti indagini storiche e archeologiche di Agrigento, coordinati da Giuseppe Parello, che del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi è stato il direttore per lunghi e importanti anni. La «paternità» della Monografia spetta, però, a un ente pubblico intitolato a uno dei più celebri cittadini di Agrigento: L’Empedocle Consorzio Universitario Agrigento. Nato nel 1994, il consorzio promuove, nella provincia di Agrigento e senza finalità di lucro, l’istituzione di dipartimenti, corsi di studio, scuole di specializzazione, master, corsi di perfezionamento e corsi di dottorato. Ne abbiamo parlato con Antonino Mangiacavallo, con Giovanni Di Maida, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’ente, e con il consigliere Gioacchino Lavanco. «Il consorzio – spiega Antonino Mangiacavallo – da anni collabora strettamente con l’Università degli Studi di Palermo, con la quale sono stati avviati corsi di laurea in architettura e ambiente costruito, in economia e amministrazione aziendale, in servizio sociale, in scienze dell’educazione. Oltre all’istituzione e alla promozione dei corsi di laurea, il Consorzio ha nella propria mission istituzionale la promozione – sempre in collaborazione con università e altri enti nazionali e internazionali – del patrimonio culturale, tangibile e intangibile, della valorizzazione delle risorse umane, scientifiche e artistiche, dell’individuazione di nuovi sbocchi scientifici e professionali legati alle potenzialità offerte dal territorio». In questo contesto, non può che assumere un ruolo rilevante proprio l’archeologia di Agrigento, a cui è dedicata la Monografia di «Archeo»… «Con il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi – conferma Giovanni Di Maida – sono stati avviati rapporti di collaborazione volti a promuovere, da una parte, lo sviluppo di una cultura di tutela sostenibile del patrimonio monumentale, dall’altra, però, anche forme innovative di utilizzazione del patrimonio con finalità formative. A tal fine, per esempio, è stata di recente stipulata una convenzione con il Parco che regola i rapporti di collaborazione tra i due enti e prevede l’utilizzazione dei locali del Parco per finalità formative e culturali. Il Consorzio ha promosso, inoltre, l’istituzione di un Centro Studi del
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Una suggestiva veduta del tempio F, detto della Concordia, uno dei monumenti simbolo dell’antica Agrigento.
Mediterraneo, con l’obiettivo di diventare punto di riferimento delle istituzioni culturali del nostro mare per l’instaurazione di rapporti di collaborazione e partenariato nel settore culturale». Tra i piú importanti progetti internazionali di cui il Consorzio è capofila figura un accordo italo-tunisino, che vede tra i partner l’Università degli Studi di Palermo, il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi, l’Institute Nationale du Patrimoine di Tunisi, l’Agence de mise en valeur du patrimoine et de promotion culturelle di Tunisi, l’Institute Superieur des Metiers de l’Art de Tunis… «Si tratta di un grande progetto di archeologia pubblica, transfrontaliero e internazionale – prosegue Gioacchino Lavanco – finalizzato alla sperimentazione di sistemi innovativi per l’analisi dei fabbisogni formativi volti alla riduzione nel nostro settore, quello dei beni culturali legati all’archeologia, del fenomeno del mismatching nel mercato del lavoro». Vi sono poi i progetti ancora in attesa di approvazione e che riguardano il settore della formazione teatrale e delle tecnologie digitali, progetti avviati in collaborazione con il Teatro Stabile di Catania, la Cité de la Culture de Tunis e altri partner nazionali e internazionali… «Nel campo artistico – conclude Antonino Mangiacavallo – è stata, inoltre, avviata una collaborazione con associazioni culturali di riconosciuto valore sul piano nazionale per attuare un percorso volto alla valorizzazione dei talenti nel campo del teatro antico e moderno. Sotto tale aspetto è stato appena avviato, con il contributo dell’Assessorato Regionale per l’istruzione e la formazione professionale e la collaborazione dell’associazione culturale Casa del Musical, il progetto ARCHÉ, un corso di alta formazione teatrale volto alla ricerca, alla valorizzazione e alla formazione dei numerosi giovani talenti artistici offerti dal nostro territorio».
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LE ETÀ DI
AGRIGENTO
AKRAGAS CELEBRA I 2600 ANNI DALLA SUA FONDAZIONE. LA RICORRENZA SEGNA UNA TAPPA ESSENZIALE NEL PROCESSO DI DEFINIZIONE DELL’IDENTITÀ DELLA CITTÀ E DELLE FORME DELLA SUA RAPPRESENTAZIONE, A PARTIRE DA UNA RIFLESSIONE SUL SUO PASSATO di Giuseppe Parello
D
a sempre nota per la sua area archeologica, Agrigento si vuole raccontare attraverso un nuovo percorso che trova fondamento nella sua storia millenaria, spesso non adeguatamente conosciuta. Un racconto che si snoda attraverso alcuni dei momenti principali della sua storia, che hanno visto la città giocare un ruolo da protagonista in un contesto piú ampio di quello strettamente locale.
Da Minosse a Falaride Il racconto inizia con quella che definiremmo «l’età del mito», ovvero il tempo precedente la colonizzazione, avvolto nelle nebbie della leggenda, attraverso le quali trapela una realtà storica intessuta di relazioni sistematiche e costanti tra il territorio agrigentino e il mondo miceneo. Racconta Diodoro Siculo che il mitico artefice Dedalo, fuggito da Creta, giunse in Sicilia e fu accolto dal re sicano Cocalo, per il quale costruí a Camico una reggia inespugnabile. Sulle sue tracce, il re di Creta, Minosse,
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sbarcò nella località poi chiamata Minoa dal suo nome, e chiese a Cocalo di consegnargli il fuggitivo; all’indomani dell’uccisione di Minosse con l’inganno da parte delle figlie del re, i Cretesi, dopo averlo seppellito con grandi onori, si insediarono a Minoa. Il mito ricorda evidentemente, in forma leggendaria, i contatti che già in epoca preistorica e protostorica si svolgevano tra il nostro territorio e il mondo egeo, attestati archeologicamente dai vasi micenei rinvenuti nel villaggio dell’età del Bronzo di Cannatello.
La fondazione Nel 580 a.C. coloni provenienti da Gela, fondata un secolo prima da Rodii e Cretesi, guidati dagli ecisti Aristonoo e Pistilo, fondarono Akragas, cosí battezzata dal fiume omonimo. Le piú antiche tracce della presenza greca sono state riconosciute alla foce del fiume stesso, dove è stata scavata la necropoli arcaica dalla quale provengono reperti risalenti già alla prima metà del VI secolo a.C. Pochi decenni dopo la fondazione venne realizzata la grandiosa cinta muraria, lunga 12 km, e fu progettato il piano urbanistico regolare, che faceva tesoro delle esperienze sviluppate in ambiente coloniale.
L’età classica Il V secolo a.C. rappresenta indubbiamente il periodo storico di massima fioritura di Akragas: dominato da alcuni grandi personaggi, da Terone a Empedocle, e segnato da eventi bellici decisivi, dalla vittoria sui Cartaginesi nella battaglia di Imera nel 480 a.C. alla sconfitta e alla distruzione da parte degli stessi nel 406, il secolo vede lo sviluppo della grande architettura templare in stile dorico, che culmina nella costruzione dei templi di Giunone e della Concordia. Alla figura di Terone si devono, secondo la tradizione, due grandi opere, il colossale tempio di Zeus, che celebrava, anche attraverso le scelte architettoniche e figurative, la vittoria della grecità sui «barbari», e la realizzazione del complesso sistema idraulico affidato all’architetto Feace, che, grazie a un sistema di acquedotti sotterranei, pozzi e cisterne, garantiva l’approvvigionamento idrico della città e contribuiva al rifornimento del lago artificiale noto come Kolymbethra. Di un altro personaggio le fonti storiche hanno conservato il ricordo, il ricco agrigentino Tellia, che aveva nella sua casa una grande foresteria e teneva domestici davanti alla porta incaricati di invitare a ricevere ospitalità tutti i forestieri che passavano nella città.
La conquista romana
Uno scorcio della Valle dei Templi di Agrigento: sull’orizzonte blu del mare, si staglia la sagoma inconfondibile di uno dei monumenti piú celebri dell’antica Akragas, il tempio della Concordia.
Dopo gli esiti disastrosi della prima guerra punica, combattuta tra Romani e Cartaginesi, Akragas svolse un ruolo cruciale anche nella seconda. Secondo il racconto di Tito Livio, la presa della città, che i Romani chiamarono Agrigentum, avvenne in maniera drammatica e risultò determinante per la vittoria di Roma e per la successiva istituzione della provincia Sicilia. Da quella sconfitta Agrigentum si riprese abbastanza presto e ciò è confermato sia dalle fonti storiche, sia dalle testimonianze archeologiche. Si può dunque ragionevolmente pensare che al ripopolamento della città, subito dopo la fine della guerra – che portò nuova linfa in una comunità
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fortemente provata –, abbia fatto seguito una imponente riconfigurazione urbanistica, a partire dalla grande area pubblica centrale, dove viene risistemato il Bouleuterion, mentre l’Ekklesiasterion viene obliterato dall’impianto di un piazzale porticato con un tempietto centrale, oggi noto come Oratorio di Falaride. Nello stesso periodo viene eretto il cosiddetto santuario ellenistico-romano, preceduto dalla costruzione di un imponente sistema di terrazzamenti che danno al paesaggio costruito una chiara impronta di tipo ellenistico. In questo contesto si inserisce la costruzione del teatro, che chiude il fronte sud-est dell’agorà e che rappresenta l’ultima eccezionale scoperta archeologica del sito.
Il Medioevo Il lungo Medioevo agrigentino ha lasciato poche tracce materiali delle sue fasi piú antiche. Con la conquista araba, infatti, la città si ridusse sulla collina di Girgenti, dove già si trovava l’acropoli greca, e dove l’insediamento urbano ha continuato a svilupparsi fino ai nostri giorni, cancellando quasi ogni traccia precedente. Fu il primo vescovo, Gerlando, a costruire la cattedrale. I pochi dignitari normanni, asserragliati nella cittadella fortificata che si estendeva sulla sommità della collina, vissero con terrore la loro condizione di inferiorità numerica e continuarono a rafforzare le difese della cattedrale: inutilmente, se è vero che, sotto Federico II, i musulmani insorti contro l’imperatore rapirono il vescovo Ursone e lo rinchiusero nella fortezza di Guastanella, presso Santa Elisabetta, liberandolo soltanto dietro il pagamento di un riscatto. Le alture che si innalzano lungo il fiume Platani furono fortificate e divennero centri delle rivolte contro Federico II: il giovane imperatore, dopo aver tentato di convincere i rivoltosi ad abbandonare le fortezze, ne iniziò l’assedio. Sconfitti intorno al 1230, i musulmani furono in parte sterminati, in parte deportati in Puglia. Sono invece ben evidenti i segni impressi sulla città e sul territorio dall’azione della grande famiglia baronale dei Chiaramonte, che ebbe in Agrigento uno dei centri del proprio potere. Anzi, proprio dalla nostra città ebbe inizio l’avventura della potente famiglia, con il matrimonio di Federico con Marchisia Prefolio, rampolla di una importante famiglia agrigentina di rango comitale. I Chiaramonte detennero immensi possedimenti e signorie, che dal territorio agrigentino si estesero, sotto Manfredi, a Trapani, Caccamo, Mussomeli, Castronovo e Modica. Elaborarono un proprio stile architettonico, caratterizzato da un particolare modo di decorare le ghiere di archi e bifore a sesto acuto. E proprio ad Agrigento e nel suo territorio rimangono le tracce maggiori dell’attività edilizia della famiglia baronale, dal monastero di Santo Spirito all’Hosterium Magnum, al convento di S. Francesco, fino ai castelli di Favara, Naro, Palma di Montechiaro.
La stagione del Grand Tour C’è un momento della storia moderna in cui Agrigento gioca un ruolo fondamentale nella formazione dei miti e dei valori della cultura europea: è quando, tra fine del Settecento e l’Ottocento, il Grand Tour – il viaggio verso sud intrapreso dai rampolli delle ricche famiglie nordeuropee per completare la
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Veduta dell’antico porto di Girgenti, Sicilia, litografia. 1783. In secondo piano si riconoscono le case, le torri e il molo di Porto Empedocle, cosí come dovevano presentarsi ai viaggiatori dell’epoca. Fra di loro, sempre piú numerosi, vi furono i giovani esponenti dell’alta società nordeuropea, desiderosi di completare la propria formazione con la pratica del Grand Tour.
propria formazione – si spinge fino alla Sicilia e scopre le rovine dei templi greci. Insieme ai resti di Pompei ed Ercolano, i monumenti agrigentini contribuirono in modo determinante a formare l’immaginario europeo della classicità e a dar vita al grande movimento culturale del neoclassicismo. Dai loro viaggi, gli intellettuali nordeuropei riportarono in molti casi descrizioni e disegni, che circolarono ampiamente nel continente e sollecitarono ulteriori spedizioni, come quella progettata da Dominique Vivant Denon e guidata dall’abate francese Jean-Claude-Richard de Saint-Non, alla quale presero parte i migliori disegnatori dell’epoca. La presenza di tanti facoltosi estimatori dell’arte antica favorí naturalmente lo sviluppo di un florido commercio antiquario, alimentato da scavi clandestini che presero di mira soprattutto le necropoli, dalle cui tombe era possibile recuperare una quantità pressoché infinita di preziosi vasi attici, principale oggetto dei desideri dei ricchi acquirenti. Tra gli acquisti piú clamorosi, quello della collezione Panitteri da parte di Ludwig di Baviera, mediato e favorito dall’erudito agrigentino Raffaello Politi: 47 vasi, che costituiscono oggi il nucleo principale dell’esposizione dell’Antikensammlungen di Monaco di Baviera.
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LA NASCITA DELLA CITTÀ
MAGNIFICAMENTE DIVERSA A POLIBIO SI DEVE UNA DELLE PIÚ FEDELI DESCRIZIONI DELL’ANTICA AKRAGAS/AGRIGENTO. IN ESSA LO STORICO GRECO NE SOTTOLINEA LA SUPERIORITÀ RISPETTO ALLE MOLTE ALTRE, E PUR BELLISSIME, CITTÀ DEL TEMPO. ECCO UN VIAGGIO FRA LA STORIA E I PERSONAGGI CHE ISPIRARONO QUELLE PAROLE COSÍ PIENE DI AMMIRAZIONE di Maria Concetta Parello, Valentina Caminneci, Maria Serena Rizzo e Graziella Parello
Uno dei suggestivi confronti proposti nel 2011, quando la Valle dei Templi accolse una rassegna di sculture dell’artista polacco Igor Mitoraj (1994-2014): qui, il suo Icaro caduto si staglia sull’inconfondibile profilo del Tempio della Concordia.
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kragas fu una delle ultime fondazioni greche di Occidente: nel lungo excursus sulla colonizzazione greca di Sicilia contenuto nella sua opera storica dedicata alla guerra del Peloponneso e alla spedizione ateniese nell’isola, Tucidide afferma che la città fu fondata da Gela «circa centootto anni dopo la sua fondazione», a opera di due ecisti (capi di una spedizione coloniale, n.d.r.), Aristonoo e Pistilo «ed alla colonia vennero date le istituzioni che erano proprie di Gela». (segue a p. 17)
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LA NASCITA DELLA CITTÀ
FALARIDE Nel segno della spregiudicatezza e della crudeltà «Chi ha bisogno del toro di Falaride in una cultura che ha sviluppato le arti della camera a gas e della bomba atomica? O forse è meglio dire che questi fenomeni sono essi stessi la forma che il toro della distruzione ha preso nella nostra generazione scientifica; e la curva del mito continua intatta» (Oswyn Murray, Falaride: tra mito e storia, 1992)
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a figura di Falaride, tiranno che prese il potere nella città di Akragas subito dopo la sua fondazione (571-556 a.C.), costituisce uno degli esempi piú noti tra le tirannidi greche arcaiche. La sua storia semi-mitica è stata infatti oggetto di elaborazioni continue, fino ai tempi moderni. La fama del personaggio è indissolubilmente legata al toro di bronzo all’interno del quale bruciava le sue vittime, oggetto che tanto impressionò storici e filosofi da indurli a dedicare piú spazio alla sua descrizione che non a quella del tiranno stesso, il cui profilo rimane invece molto evanescente. Di questa pratica crudele ci parla per primo Pindaro, nella I Pitica, dedicata a Ierone, tiranno di Siracusa, in cui la figura del primo tiranno akragantino viene presentata come esempio di efferatezza e crudeltà. Discendente da Leodamante e proveniente da Astipalea, prese il potere escogitando una serie di tranelli: durante la costruzione del tempio di Zeus Polieo (protettore della città), «Falaride, che era l’appaltatore delle tasse civiche, promise che, se fosse divenuto il direttore dei lavori, avrebbe ottenuto i migliori artigiani, avrebbe procurato il materiale a buon mercato e fornito garanti affidabili per i prestiti» (Polieno V,1,1). Con un altro tranello egli riuscí poi a convincere gli Agrigentini a costruire le mura della città, simulando furti di materiali per le costruzioni. Approfittò delle feste Tesmoforie per fare strage degli uomini e rendere schiavi donne e bambini. Ordendo infine l’ennesimo inganno, organizzò le gare atletiche e, durante lo spettacolo, i suoi dorifori entrano nelle case e si appropriano delle armi dei cittadini agrigentini. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che la precocità dell’esperienza tirannica ad Agrigento, appena dieci anni dopo la fondazione, sia da ricondurre alla necessità di ricomporre le tensioni che si erano
sviluppate tra le diverse componenti etniche che avevano partecipato alla fondazione della città. Secondo le fonti antiche, negli anni in cui Falaride detenne il potere, la città visse un periodo di grande prosperità che vide la costruzione di edifici sacri e delle mura; in realtà l’analisi della documentazione archeologica dimostra che la città vide il suo sviluppo monumentale solo a partire dalla metà del VI secolo a.C., in un momento dunque successivo alla cacciata del tiranno. Sempre dalle fonti siamo informati sulla politica di espansione territoriale portata avanti da Falaride che comportò il controllo di tutto il territorio a est e a ovest di Akragas, compreso tra i fiumi Halycos, l’odierno Platani, e l’Imera Meridionale, attuale Salso, spingendosi anche in direzione nord-est verso il Tirreno e la città di Imera, dove però non arrivò. Sulla portata dell’espansione territoriale di Akragas negli anni della tirannide di Falaride, occorre considerare una testimonianza epigrafica particolarmente significativa, presente nella Cronaca di Lindo, riportata da alcuni autori antichi e ripresa dagli storici moderni. Si tratta dell’offerta di un cratere bronzeo da parte del tiranno nel santuario di Atena Lindia a Rodi, precedentemente donato da Dedalo a Cocalo. Secondo alcuni studiosi, il dono del cratere bronzeo di Dedalo a Lindo costituisce la testimonianza della supremazia di Akragas sulle popolazioni e sulle città dell’interno. Le fonti ricordano infatti le vittorie di Falaride su Ouessa e Camico, città nella quale è ambientato il mito di Dedalo e Cocalo. Con la dedica sul cratere e la dichiarazione che questo fosse opera di Dedalo, il tiranno avrebbe operato una rifunzionalizzazione del mito, per legittimare le operazioni militari che lo portarono al controllo del territorio e delle città ricadenti lungo la valle del Platani. Sulla fine della tirannide di Falaride alcune fonti letterarie raccontano che fu causata da una rivolta popolare, mentre altre ricordano che avvenne a opera di Emmene, o di Telemaco, entrambi progenitori della stirpe degli Emmenidi, da cui sarebbe nato Terone, il tiranno saggio e illuminato che rappresentò l’esatto contraltare dell’efferato e crudele Falaride di Astipalea. (M.C.P.)
Litografia di scuola francese raffigurante Falaride che condanna al terribile supplizio del toro di bronzo lo scultore Perillo, che era stato l’inventore della crudele macchina, da Les Arts au Moyen Age. 1873. Collezione privata.
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LA NASCITA DELLA CITTÀ
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A sinistra ricostruzione virtuale del cosiddetto Oratorio di Falaride. Si tratta, in realtà, di un tempietto su podio di età romana. In basso calcografia di Matthäus Merian, il Vecchio raffigurante la battaglia di Imera, che, nel 480 a.C. vide Akragas, alleata con Siracusa, avere la meglio sui Cartaginesi, dalla Historische Chronica di Johann Ludwig Gottfried (pseudonimo dell’erudito tedesco Johann Philipp Abelin). 1630. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte.
La notizia dello storico ateniese, soprattutto per il fatto che riporta i nomi di due ecisti, è stata oggetto di un dibattito storiografico molto serrato. In realtà, la tradizione sull’origine della città di Akragas non risulta affatto univoca, neanche nelle fonti antiche. Timeo di Tauromenio, storico dell’età ellenistica, concorda sul fatto che Akragas fu una colonia geloa, ma dice che la famiglia degli Emmenidi, da cui nacque Terone, giunse direttamente da Rodi, mentre Polibio la definisce una fondazione rodia, come suggerirebbe, tra l’altro, la presenza in città del culto di Zeus Atabyrios (dal nome greco del monte dell’isola su cui sorgeva un tempio dedicato al signore dell’Olimpo, n.d.r.).
Antiche incongruenze e nuove ipotesi Questa incoerenza delle fonti antiche ha indotto gli studiosi moderni ad avanzare varie ipotesi. Secondo alcuni l’indicazione dei due ecisti – come avviene per altre fondazioni coloniali – sarebbe riferibile alle due componenti etniche che parteciparono alla fondazione, quella dei Geloi e quella dei Rodio-cretesi, o, piuttosto, quella geloo-cretese
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LA NASCITA DELLA CITTÀ
e quella geloo-rodia. Piú recentemente, si è voluto vedere nelle diverse posizioni degli storici antichi l’esito di due tradizioni diverse, quella cittadina e quella familiare emmenide. La prima si ritrova in Tucidide, la seconda, che
avrebbe mirato a mettere in risalto soprattutto la componente rodia da cui discendono gli Emmenidi, viene presentata nella II Olimpica di Pindaro. La recente rilettura di Gianfranco Adornato dell’ode pindarica e, soprattutto, degli
La Valle dei Templi offre continui e suggestivi connubi fra natura e archeologia.
scolii, suggerisce una nuova e interessante proposta di interpretazione: dei Rodii parlano solo gli scoliasti di età ellenistica e a questa tradizione si rifanno prima Timeo e poi Polibio, mentre Pindaro, nel ricostruire la genealogia
degli Emmenidi, parte da Tebe e da Edipo e non fa riferimento a Rodi. Secondo Adornato, dunque, gli storiografi e gli autori del V e IV secolo a.C. distinguevano nettamente tra la (segue a p. 24)
La forza dell’amore
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a prodigiosa e precoce fioritura del mandorlo, che anticipa la primavera di diverse settimane nella Valle dei Templi, è all’origine di un mito assai romantico, quello di un amore sfortunato. La principessa Fillide, in pena per il suo amato Demofonte – mitico re di Atene, figlio di Teseo –
partito per la guerra, si lascia morire. Commossa, la dea Atena tramuta l’infelice fanciulla in un albero. Demofonte, di ritorno dalla guerra, appresa la tragica notizia, abbraccia con tutto il cuore la pianta, che, miracolosamente, si ricopre di delicati fiorellini bianchi. (V.C.)
LA NASCITA DELLA CITTÀ
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I resti del tempio di Eracle, il piú antico dei santuari dorici di Agrigento, edificato intorno alla fine del VI sec. a.C. La sua attribuzione all’eroe è ritenuta attendibile sulla base di un passo di Cicerone che ne ricorda la presenza.
TERONE Il piú nobile fra i Sicelioti «La fabbrica dei santuari e soprattutto del tempio di Zeus rappresenta visibilmente la magnificenza degli uomini di allora». (Diod., Bibl. Hist., XIII, 82)
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ebbene sia frutto di un’elaborazione a posteriori di fonti favorevoli al tiranno, questa immagine della città, proposta da Diodoro Siculo nel suo excursus sulla storia di Akragas, mette a fuoco uno degli aspetti caratterizzanti la città negli anni della tirannide di Terone (488-472 a.C.), ovvero la magnificenza degli uomini riflessa nella grandiosità dei monumenti. Appartenente alla famiglia degli Emmenidi, legittimata dalle odi di Pindaro come discendente dalla stirpe di Cadmo, Terone, già prima della presa del potere, è descritto nelle fonti come colui che «superava di molto, per nobiltà di stirpe, ricchezza e benevolenza nei confronti della moltitudine non solo i suoi concittadini ma tutti i Sicelioti» (Diod. X, 28,3). Il prestigio e la fama del suo ghenos (stirpe) furono suggellati dalle vittorie negli agoni panellenici celebrate da Pindaro. Terone e, prima di lui, il fratello Senocrate furono gli artefici di importanti vittorie nelle corse con la quadriga, investendo somme notevolissime per procurarsi i migliori cavalli e i migliori aurighi. Sulla presa del potere da parte di Terone le fonti ci dicono poco: l’Emmenide si sarebbe impadronito attraverso il figlio di una somma di denaro destinata dagli Akragantini alla costruzione di un tempio per pagare un gruppo di guardie del corpo che lo avrebbero sostenuto nel suo piano. Nei suoi anni di governo spinse Akragas a continuare la sua politica espansionistica fino alla conquista di Imera, situata sulla costa settentrionale dell’isola e proiettata sul Tirreno. All’interno della città sostenne un programma di monumentalizzazione che investí lo spazio urbano in tutti i suoi aspetti. Alle fasi iniziali della sua tirannide è riferibile la costruzione del Tempio di Eracle, espressione di una sperimentazione ancora in atto sulla sintassi e sulle proporzioni del tempio dorico e segno di una svolta «nel carattere e nell’impegno economico e monumentale dell’architettura pubblica locale rispetto alla fase piú antica». Con l’enorme bottino – costituito soprattutto da schiavi cartaginesi – che si era (segue a p. 22)
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procurato dopo la vittoria di Imera (480 a.C.), di cui fu artefice insieme a Gelone, tiranno di Siracusa, avviò un programma di interventi monumentali che cambiarono il volto della città. Le fonti (Diodoro XI, 25,3) ricordano l’avvio del cantiere per la costruzione del grandioso tempio di Zeus e la realizzazione degli imponenti condotti sotterranei chiamati Feaci, dal nome del soprintendente ai lavori, infrastrutture certamente connesse con la gestione delle acque e volte a innalzare gli standard di vita della comunità e, proprio per questo, non prive di un profondo valore politico. Dello stesso grande programma edilizio faceva parte anche la Kolymbethra, tradizionalmente individuata in una conca che si trova nell’estremo settore ovest della Collina dei Templi, la cui descrizione puntuale si ritrova ancora in Diodoro. La grandiosità dell’opera si inserisce a pieno nel progetto di trasformazione della città del tiranno e conferma il noto rapporto tra opere idrauliche e tiranni. Per completare il quadro della tirannide teroniana, bisogna citare una notizia, riportata anch’essa da Diodoro (Diod. 4,79), secondo la quale, negli anni in cui esercitò il potere, venne distrutta la tomba di Minosse, che si trovava a Camico, o, secondo altri studiosi, a Minoa, e le sue ossa furono rese ai Cretesi. All’episodio è stata data una doppia lettura politica: dal punto di vista degli Emmenidi, infatti, l’azione della restituzione delle ossa avrebbe comportato l’esaltazione di Terone quale figura di tiranno magnanimo e nobile, che concedeva ai Cretesi, legittimi proprietari, le ossa del loro re. Un’altra lettura vedrebbe nel gesto un’intenzionale presa di distanza dal mondo cretese. Con Siracusa il tiranno tesse fitte relazioni, dando in moglie a Gelone la figlia Demarete. L’alleanza fra Terone e Gelone fu determinante, come detto, per la vittoria dei Greci sui Cartaginesi, a Imera, nel 480 a.C., ma, all’indomani del successo, i rapporti tra le due città si fecero piú complicati: se da un lato continuarono a essere rafforzati i legami tra i due ghene (plurale di ghenos) attraverso la pratica dei matrimoni, dall’altro non mancarono occasioni di frizione, fino allo scontro tra Ierone e Trasideo, figlio di Terone, che aveva sostituito il padre alla guida degli Akragantini, ma che da questi fu cacciato dalla città. (M.C.P.)
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Uno scorcio della Kolymbethra, il magnifico giardino, oggi gestito dal FAI. In secondo piano, i resti del tempio dei Dioscuri, frutto della ricostruzione parziale eseguita fra il 1836 e il 1852, utilizzando elementi architettonici di varia epoca e provenienza.
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madrepatria di Akragas, ovvero Gela, e la provenienza e il viaggio degli Emmenidi, da Tebe ad Akragas, con una sosta, indicata da un unico scolio, a Rodi. In età ellenistica, quando prevale una tradizione filoemmenide, questi motivi vengono alterati o addirittura mescolati tra loro, e a questa tradizione si ricollega Polibio, facendo di Akragas una colonia di Rodi.
Una durezza imposta dagli eventi? Già pochi anni dopo la sua fondazione, la città viene descritta come prospera e in piena espansione territoriale. In questo contesto si colloca l’evanescente figura di Falaride di Astipalea (570-555 a.C.), noto dalle fonti soprattutto per la sua efferatezza (vedi box a p. 14). La sua tirannide tanto precoce, appena un decennio dopo la fondazione della città, è stata spiegata dagli storici moderni con il bisogno di sedare probabili conflitti che si sarebbero innescati tra le diverse etnie che avevano partecipato alla fondazione della polis. «Bruciando le tappe» rispetto ad altre colonie siceliote, già in questi anni Akragas si emancipa dalla madrepatria, Gela, ponendosi
In questa pagina un altro scorcio del giardino della Kolymbethra. Nella pagina accanto incisione di René Boyvin raffigurante Empedocle con lo sguardo rivolto verso un fuoco ardente, forse identificabile con un’allegoria dell’Etna, da un originale del Rosso Fiorentino (al secolo, Giovanni Battista di Iacopo de’ Rossi). 1543-1563 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.
La città felice
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n ampio preambolo precede il racconto drammatico della distruzione di Akragas, nel 406 a.C. da parte dei Cartaginesi, in cui Diodoro descrive la ricchezza degli Akragantini, grazie a un’economia fiorente: «C’erano vigneti eccezionali per estensione e bellezza e la maggior parte della regione era coltivata a olivi, da cui si ricavava tanto prodotto che arrivavano a vendere anche a Cartagine. Poiché, infatti, l’Africa non era coltivata, i coltivatori della terra agrigentina commerciavano con l’Africa e guadagnavano enormi ricchezze». A Empedocle si attribuisce una riflessione sulla felicità di Akragas: «Gli Agrigentini mangiano come se dovessero morire l’indomani e costruiscono come se non dovessero morire mai». (V.C.)
EMPEDOCLE La curiosità fatale
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a fonte piú importante sulla vita dei filosofi antichi è Diogene Laerzio, scrittore greco, forse originario di Laerte, in Cilicia, che visse in età imperiale, probabilmente verso la metà del III secolo d.C. A lui si deve una raccolta delle biografie dei piú illustri pensatori, il cui titolo è però incerto. Di Empedocle ci dice che era figlio di Metone, che ebbe un ruolo importante nell’allontanamento del tiranno Trasideo, succeduto a Terone. Per quanto di origine aristocratica, Empedocle fu vicino al popolo, contribuendo al rovesciamento del governo oligarchico dei Mille e alla instaurazione di un regime democratico. Gli si attribuiscono interventi per la salute pubblica, come la bonifica operata a Selinunte, afflitta da una pestilenza, con la deviazione del corso di due fiumi. Oggi è annoverato tra i filosofi pluralisti, in quanto individua l’origine delle natura nelle quattro
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«radici» – acqua, aria, terra, fuoco – eterne, immutabili e identiche a se stesse. Dalla loro mescolanza e separazione, regolata dalle forze cosmiche di Amore e Contesa (Philia e Neikos), si genera la molteplicità delle cose che sono nell’universo. Quattro divinità incarnano i singoli elementi naturali: Zeus splendente, Era ravvivatrice, Aidoneo e Nestis. Quest’ultima è la Ninfa, protettrice dell’acqua, venerata ad Akragas, «che di sue lacrime alimenta il flusso di sorgente imperitura». Un’aura leggendaria circonda la figura di Empedocle, a cui la tradizione riconosce poteri taumaturgici e addirittura magici. E, pare, che egli stesso alimentasse la fama delle sue doti soprannaturali. Fino alla sua morte, avvolta nel mistero. Curioso, secondo alcuni, desideroso di gloria, secondo altri, sarebbe caduto nel cratere dell’Etna: ma, a detta di Luciano, il vulcano, infastidito, ne avrebbe risputato il sandalo. (V.C.)
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Gli anni della tirannide
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a città di Agrigento (Akragas) fu fondata nel 581 a.C. da Geloi (abitanti di Gela) originari di Rodi e Creta; ecisti (capi-spedizione) furono Aristonoo e Pistilo. Si instaurò la tirannide fin dall’inizio, che ebbe come protagonisti: Falaride (570 a.C.-554 a.C.) Telemaco (554 a.C.- ?) Alcamene e Alcandro (?) Terone (489 a.C.-472 a.C.) Trasideo (472 a.C.) Nel 472 a.C. Trasideo venne sconfitto da Gerone di La Tomba di Terone ad Agrigento, acquaforte tratta dall’opera dell’abate di Saint-Non Voyage pittoresque, ou description des royaumes de Naples et de Sicile. Nouvelle edition (Parigi, 1829).
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Siracusa: Akragas istituisce cosí un governo democratico (retto tra gli altri da Empedocle), ma entra nella sfera dell’influenza siracusana. Nel 406 a.C. la città viene occupata dai Cartaginesi e, nel 339 a.C., fu assoggettata da Timoleonte e rientrò a far parte dello Stato siceliota con capitale Siracusa. Nel 277 a.C. la città fu presa da Pirro e poi restituita a Siracusa. Nel 262 a.C. venne conquistata da Roma e da quel momento seguí le sorti della Sicilia romanizzata.
nei suoi confronti in una posizione conflittuale, e ottiene il controllo di un ampio territorio. Tuttavia, le tracce archeologiche riferibili agli anni della tirannide falaridea sono quasi inesistenti, poiché la monumentalizzazione della città, a partire dalla costruzione delle poderose mura, è datata dagli archeologi dalla metà del VI secolo a.C. Secondo una delle fonti antiche che raccontano la fine della tirannide, Falaride concluse la sua esistenza vittima dello stesso strumento di tortura da lui voluto e ampiamente utilizzato, il toro di bronzo, simbolo di una terribile crudeltà amplificata soprattutto a opera di quegli autori che lo descrissero come l’esatto contraltare del tiranno Terone, di cui torneremo a parlare. Sappiamo davvero poco degli eventi che caratterizzarono la storia di Akragas nella seconda metà del VI secolo a.C.
PINDARO Il cantore aristocratico
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n contributo significativo alla cultura della Sicilia dei primi decenni del V secolo a.C. fu offerto da alcuni poeti greci che si stabilirono nell’isola alla corte dei tiranni, di cui celebrarono le vittorie nei giochi panellenici. Poeta lirico della Beozia (Cinocefale, 522 o 518 a.C.-Argo, 438 a.C.), Pindaro, della nobile famiglia degli Egidi, fu ospite di Terone di Agrigento e di Ierone di Siracusa, rivale di Bacchilide, a cui rinfacciò di dedicarsi alla poesia per interesse, e di Simonide, molto vicino alla famiglia degli Emmenidi, che morirà proprio ad Akragas. Lo schema generale dei componimenti di Pindaro prevede, dopo un’introduzione sull’occasione della vittoria, il racconto di un mito, connesso con la stirpe dell’atleta vincitore e quindi una riflessione moraleggiante (gnome), che riconduce l’evento contingente al destino dell’uomo. Per la celebrazione eroica di dèi e di uomini, Pindaro, cantore aristocratico, sceglie uno stile alto, «vola», ardito, tra i passaggi logici, non sempre facilmente comprensibili. (V.C.)
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Cosiddetta Agorà inferiore zona che comprende botteghe, la stoà (porticato) e un’area sacra.
Ricostruzione virtuale della città di Akragas, cosí come doveva presentarsi al momento della sua fioritura in età greca, occupando una superficie di oltre 450 ettari.
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Santuario delle Divinità Ctonie e Tempio dei Dioscuri cuore di una serie di aree sacre adiacenti, dedicate ai culti di carattere sotterraneo
Tempio di Giunone edificio di ordine dorico, databile intorno alla metà del V sec. a.C.
Tempio della Concordia databile intorno alla seconda metà del V sec. a.C.
Tempio di Eracle è il piú antico dei templi dorici di Agrigento: venne infatti edificato intorno alla fine del VI sec. a.C.
La prospettiva della bellezza
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li immortali versi di Pindaro contemplano la città dal mare: «Te invoco, città di Persefone, città la piú bella fra quante albergo, son d’uomini, o amica del fasto, che presso Agrigento ferace di greggi, ti levi su clivo turrito». Anche Enea guarda ammirato dalla nave: «Ostenta da lungi mura possenti l’alta Akragas, un tempo nutrice di vigorosi cavalli». Che la città fosse stata concepita per la bellezza è una suggestione indotta non solo dalle fonti letterarie, ma anche dalla prospettiva «esposta» verso la costa. Una città esibita, anche ai fini della propaganda politica, come magnifico spettacolo di potenza e di monumentalità, alla visione dei naviganti. (V.C.)
Tra gli autori del rovesciamento di Falaride vengono citati ora Telemano o Emmene, antenati di Terone, ora Alcamene e Alcandro, questi ultimi due indicati come promotori di un governo oligarchico che resse la città fino alla presa di potere da parte di Terone (488-472 a.C.), il cui intervento sulla città e nella storia dell’isola avrà un impatto dirompente (vedi box a p. 21): basti ricordare la vittoria sui Cartaginesi a Himera, nel 480 a.C., di cui il tiranno si rese protagonista.
Tempio di Zeus Olimpio costruito a partire dal 480 a.C. è uno dei piú grandi templi dell’antichità
Un filosofo riformatore
In alto testa di divinità ctonia, forse identificabile con Demetra, dal Santuario delle divinità ctonie. V sec. a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
Conclusa l’esperienza della tirannide teroniana e la brevissima avventura del figlio Trasideo, travolto da una sommossa popolare, nella città si instaura un regime democratico legato al nome del filosofo Empedocle, come sappiamo da Diogene Laerzio (vedi box a p. 24). Lo storico infatti ci racconta di un Empedocle autore di una riforma costituzionale, che favorí l’accesso alla partecipazione politica alle classi meno abbienti, e protagonista di un episodio che lo vide opporsi a un tentativo di presa del potere da parte dell’oligarchia. Sempre secondo
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L’importante è vincere
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he l’antica Akragas avesse una ragguardevole tradizione sportiva lo testimoniano le lodi entusiaste delle fonti antiche che celebrano gli atleti akragantini per le vittorie conseguite nei giochi panellenici. Cosí Esseneto, vincitore nello stadion, la corsa veloce, una delle discipline del pentathlon a Olimpia, che fu accolto con tutti gli onori al suo ritorno in città, trionfante su un carro tirato da cavalli bianchi. Pindaro, compositore di epinici per gli agoni disputati a Olimpia, Nemea, Isthmia e Delfi, celebrò il tiranno Terone, presso il quale aveva ricevuto ospitalità, con due odi olimpiche per la vittoria con la quadriga. Le scuderie degli Emmenidi conseguono un altro prestigioso trionfo a Delfi con Senocrate, fratello del tiranno, anch’egli magnificato da Pindaro con un’ode pitica. Ancora Virgilio ricordava Akragas come «generosa allevatrice di cavalli», ai quali, secondo Diodoro, gli Akragantini dedicavano persino sontuosi
Cratere raffigurante la consegna del premio a un atleta vincitore di una gara, da Gela. 500-450 a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
sepolcri. Degli edifici e degli spazi destinati alle attività sportive nessuna traccia archeologica si conserva nella città del periodo greco. In compenso, la ceramica attica a figure nere e a figure rosse rinvenuta nelle necropoli
Diogene, proprio dagli oligarchi venne definitivamente cacciato dalla città quando tentò di rientrare dopo un suo viaggio a Turi. In questo quadro politico Akragas accresce il suo splendore e si arricchisce di monumenti straordinari, tra cui i templi della Concordia e di Giunone, portati come esempio di ottima gestione delle finanze pubbliche dagli studiosi moderni, che li attribuiscono alle stesse maestranze che li costruirono con uno stesso progetto e un identico cantiere. Nella seconda metà del V secolo a.C. la storia politica della città non presenta episodi degni di particolare rilievo. Sul piano delle relazioni
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mostra numerose scene di palestra e di atleti nell’atto di lanciare il giavellotto o il peso, iconografie gradite alla ricca committenza akragantina, che scelse di farsi accompagnare da questi pregevoli vasi nell’ultimo viaggio. (V.C.)
esterne, un nuovo conflitto con Siracusa le precluse in maniera definitiva la possibilità di competere per l’egemonia sulle città greche di Sicilia. Durante la spedizione ateniese in Sicilia, nel 415 a.C., Akragas non si alleò né con Atene, né con Siracusa, richiudendosi in una posizione di immobilismo politico che determinò la diffidenza nei suoi confronti di entrambe le città pervenute allo scontro. Approfittando della situazione di crisi in cui si trovarono ancora una volta Segesta e Selinunte, entrarono in scena i Cartaginesi, che misero in atto un progetto di annientamento e di conquista dei principali centri greci.
Nella pagina accanto cratere raffigurante la celebrazione di un sacrificio in onore di una divinità, forse identificabile con Apollo, da Agrigento. 475-425 a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
MIDA Il flautista imperterrito
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ra i grandi di Akragas bisogna ricordare anche il flautista Mida, celebrato da Pindaro per la sua vittoria negli agoni pitici, nello stesso anno in cui Senocrate, fratello di Terone,
vinceva con la quadriga. L’ode si apre con la celebre invocazione ad Akragas, esaltata come la piú bella città dei mortali. Sembra che Mida avesse superato brillantemente
un piccolo incidente avvenuto durante la gara: pur essendosi rotta la linguetta del flauto (aulòs), continuò a suonare imperterrito, aggiudicandosi la vittoria finale. (V.C.)
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ANTISTENE Un matrimonio da favola
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ntistene, detto il Rodio, è un riccone akragantino che non bada a spese. Lo conosciamo grazie al racconto di Diodoro, che descrive la memorabile festa organizzata per le nozze della figlia, alla quale furono invitati tutti i cittadini, non solo di Akragas, ma anche delle città vicine. Un corteo composto da piú di 800
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bighe e una folla di cavalieri accompagnarono la sposa alla cerimonia. Ma a destare piú meraviglia furono le luminarie: per tutta la notte le vie di Akragas furono illuminate come fosse giorno, e, acceso il primo fuoco sull’acropoli, tutti gli altri falò sparsi tra gli altari e le strade furono incendiati simultaneamente. (V.C.)
TELLIAS Il magnanimo
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l piú ricco tra gli Agrigentini era però Tellias, proprietario di una grande azienda vinicola, che nelle sue cantine possedeva 300 botti tagliate nella viva roccia, ciascuna delle quali poteva contenere 100 anfore vinarie, e una vasca in muratura della capacità di 1000 anfore. Ma a tanta ricchezza corrispondeva altrettanta magnanimità. Un vero e proprio servizio di accoglienza veniva offerto a chiunque arrivasse da lontano: i servi, pronti alle porte della città, accompagnavano gli stranieri nelle case del padrone. Cinquecento cavalieri geloi sorpresi dal maltempo furono subito accolti e ristorati con cibo e abiti. Ma questa felicità viene tragicamente interrotta di lí a poco dall’invasione dai Cartaginesi, desiderosi di rivalsa dopo lo smacco subito a Himera: lo stesso Tellias non regge alla fine della sua amata città e si dà fuoco nel tempio di Atena. (V.C.)
Nella pagina accanto una veduta notturna del Tempio della Concordia. In basso cratere raffigurante una scena di simposio al quale partecipano Efesto, che si cimenta nel cottabo (gioco d’abilità consistente nel lanciare il vino contenuto in una coppa in modo da colpire un bersaglio), e Dioniso, da Gela. 425-375 a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
Nel 409 a.C. distrussero Selinunte, e poi, nello stesso anno, Himera. Nel 406 a.C. fu la volta di Akragas. L’assedio e la presa della città sono stati raccontati da Diodoro che fa precedere la narrazione degli eventi bellici da un lungo e notissimo excursus, nel quale parla del benessere e della ricchezza in cui vivevano gli Akragantini in quel periodo. Diodoro definisce Akragas «quasi la piú ricca delle città greche» e attribuisce tale ricchezza alla fertilità della campagna, che produceva vino e olio, e ai commerci. Viveva dunque un momento di grande floridezza Akragas, quando fu attaccata dai Cartaginesi, nonostante il tentativo di bloccare la loro avanzata da parte di un esercito mandato in soccorso da Siracusa. La città resistette all’assedio per otto mesi, alla fine fu presa anche per fame e un enorme numero di opere d’arte finí nelle mani dei nemici, tra cui anche il famoso toro di Falaride. (M.C.P.)
Da Akragas ad Agrigentum La durezza delle condizioni di pace dettate dai Cartaginesi interruppero bruscamente la crescita esponenziale della potenza e del prestigio di Akragas, che comunque, a differenza di altre poleis distrutte, come Selinunte, continuò almeno a vivere, tentando di recuperare e mantenere una sua autonomia, stretta da un lato da Cartagine e dall’altro da Siracusa. A Timoleonte, giunto dalla Grecia nel 339 a.C. per sedare i dissidi tra i discendenti di Dionigi I, si suole attribuire un momento di rinascita, con il ripopolamento delle città e delle campagne. Akragas fu rifondata con nuovi coloni giunti da Elea di Magna Grecia da Megello e Feristo. Ma solo alla morte di Agatocle, tiranno di Siracusa, la città sembra avere un ultimo sussulto di potenza, con la tirannide di Finzia (284-279 a.C.). Questi distrugge Gela e deporta gli abitanti in una nuova città, che prende il suo nome, identificata presso l’odierna Licata (vedi box a p. 46). Nel III secolo a.C. la Sicilia si ritrova però al centro di due delle tre fasi del conflitto epocale che si consuma tra Roma e Cartagine.
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Dotata di una posizione particolarmente strategica, Akragas fu scelta dai Cartaginesi come base per le operazioni già nella prima guerra punica (264-241 a.C.). I Romani riuscirono a espugnarla solo nel 262 a.C., al
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termine di un estenuante assedio, durato sei mesi. Tanti furono i prigionieri e ingente il bottino. Riconquistata dai Cartaginesi nel 255 a.C., finí nuovamente sotto il dominio di Roma, (segue a p. 39)
La facciata del tempio della Concordia, scandita da colonne d’ordine dorico.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
Un archeologo ante litteram
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ccanto alle fonti di età classica, anche l’opera di Tommaso Fazello (1498-1570), De rebus siculis (di cui, qui accanto, è riprodotto il frontespizio) costituisce una preziosa testimonianza per ricostruire il passato. Il monaco domenicano, originario di Sciacca, percorre la Sicilia a piedi piú volte per ritrovare i resti delle città citate dagli scrittori antichi, ma delle quali si è persa memoria. È lui a individuare i siti di Selinunte e di Eraclea Minoa ed è lui l’unico ad avere visto il teatro di Agrigento, non lontano dalla chiesa di S. Nicola. A Fazello, però, risale un errore clamoroso, l’attribuzione del tempio dorico del V secolo a.C. alla dea Concordia, sulla scorta di un’epigrafe di età romana. Nessuno, però, ha avuto mai il coraggio, nonostante l’anacronismo evidente, di proporre un’altra denominazione, pur sempre convenzionale. Il tempio con la sua armonia, in uno con il suo nome, è assurto ormai a simbolo della pace universale. (V.C.)
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LA NASCITA DELLA CITTÀ
I versi di Nevio
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ochi frammenti rimangono del poema epico sulla prima guerra punica composto da Nevio verso la metà del III secolo a.C. Secondo gli studiosi, interrompendo il racconto dell’assedio di Akragas del 262 a.C. e prendendo spunto dalla scena della distruzione di Troia su uno dei frontoni dell’Olympieion, il poeta apriva una digressione sulla leggenda troiana della fondazione di Roma, cantando anche l’amore infausto di Didone ed Enea, all’origine dell’imperitura inimicizia tra Cartagine e Roma. (V.C.)
Incisione di Rafael del Castillo raffigurante l’invasione della Sicilia da parte dell’esercito cartaginese, guidato dal generale Amilcare Barca, al tempo della prima guerra punica, dalla raccolta Historia de España Ilustrada. 1871.
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
Una voce fuori dal coro
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olti storici si cimentarono nel racconto delle guerre puniche, comprendendo la portata dello scontro tra le due potenze che si contendevano il dominio del Mediterraneo. Tra questi anche Filino di Akragas, che partecipò alla difesa della città, militando nell’esercito cartaginese. Al suo racconto attinsero Fabio Pittore e lo stesso Polibio, che però non gradí la scelta di campo. Nulla rimane dell’opera di Filino: si sa, la storia la scrivono i vincitori, per cui oggi conosciamo solo la versione «romana» dei fatti. (V.C.)
Tradimento
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Livio a raccontarci il retroscena della conquista di Agrigento durante la seconda guerra punica. Il comandante della guarnigione numida Muttine, che faceva parte del presidio cartaginese, geloso del generale maggiore Annone, decise di tradire la città, altrimenti inespugnabile. Una volta aperta la porta della strada che conduce al mare, l’assalto dei Romani è repentino e inarrestabile: in un attimo invadono il foro e Annone è costretto a darsi alla fuga. Durissimo contro gli sconfitti, il console Valerio Levino fa uccidere le personalità piú in vista. Per quanto favorevole a Roma, la scelta di consegnare la città al nemico suscitò disprezzo unanime: nella commedia Rudens (La gomena), scritta da Plauto in quegli anni, viene introdotto tra i personaggi un vecchio siculo scellerato, degno ospite di un lenone, agrigentino traditore della città. (V.C.)
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LA NASCITA DELLA CITTÀ
Identikit di una città
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accurato ritratto lasciatoci da Polibio fotografa Akragas proprio alla vigilia della conquista romana: «Akragas per tante cose differisce da molte altre città, ma anche per la sua potenza e per la sua bellezza e costruzione. Essa dista 18 stadi dal mare, sí che non v’è nessuno che non sia partecipe dei suoi benefici. Il suo circuito è munito eccellentemente sia per natura che per arte, poiché le mura girano su una roccia alta e scoscesa, la quale in parte era cosí per natura, in parte fu resa tale dalla mano dell’uomo; ed è circondata da fiumi: a mezzogiorno scorre quello che ha lo stesso nome della città, sul lato occidentale e di libeccio quello chiamato Hypsas. La parte alta della città sovrasta dal lato che guarda l’oriente estivo; è limitata all’esterno da un inaccessibile burrone, nella parte interna una sola strada conduce dalla città. Sulla cima c’è un santuario di Atena e di Zeus Atabirio, com’è anche in Rodi (...) La città inoltre è magnificamente ornata di templi e di portici». (V.C.)
Il porto
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lla foce dell’Akragas, su una costa caratterizzata da una duna sabbiosa, oggi solo parzialmente conservata, nacque il porto della città antica, detto anche Emporion dalle fonti, che in età medievale si sposterà presso l’odierna Porto Empedocle. Nell’area sulla sponda sinistra del fiume, oggi occupata dal quartiere di villeggiatura di San Leone, sono stati condotti, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, brevi e limitati interventi di scavo. Un recente studio geoarcheologico ha
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individuato il sito del porto antico alle spalle della costa, lungo il corso del fiume Akragas, dove si apriva un bacino, oggi non piú esistente, per il ricovero delle navi. Le recenti ricerche testimoniano che il quartiere sorto in prossimità dell’Emporion visse almeno fino al VII secolo d.C. Proprio all’ultima fase di frequentazione sono riferibili alcuni settori di necropoli con sepolture in anfora (enchytrismoi), i contenitori di terracotta per le derrate riutilizzati, segati e assemblati per accogliere i defunti. (V.C.)
Sulle due pagine veduta a volo d’uccello della Valle dei Templi. Nella pagina accanto la foce del fiume Akragas, presso la quale si sviluppò il porto della città antica.
dopo la battaglia delle Egadi (241 a.C.). Il fronte siciliano si riaprí nel corso della seconda guerra punica, quando le sorti di Roma vacillarono a causa dei colpi inferti dall’avanzata annibalica. Il partito filocartaginese ebbe il sopravvento nell’isola, ma il console Marcello, nel 212 a.C., conquistò e saccheggiò Siracusa. A determinare la resa di tutte le altre città siciliane, fu però la conquista di Agrigento, nel 210 a.C., a opera del console Valerio Levino. All’indomani di quella vittoria, la Sicilia divenne la prima provincia romana, governata attraverso un pretore, che risiedeva a Siracusa e due questori, uno a Siracusa e l’altro a Lilibeo.
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LA NASCITA DELLA CITTÀ I regali di Roma
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el violento attacco contro Gaio Verre, Cicerone non manca mai di ricordare ai Siciliani che, comunque, non potrebbe esistere destino migliore del dominio di Roma. Di ciò Agrigentum ha avuto esperienza diretta, quando Scipione l’Africano le ha restituito il toro di Falaride, sottratto dai Cartaginesi nel 406 a.C.: il simulacro dell’odiosa tirannide è divenuto il segno della benevolenza di Roma verso la città conquistata. (V.C.)
Marco Tullio Cicerone e la cacciata di Verre
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pprezzato durante la questura a Lilibeo nel 75 a.C., Marco Tullio Cicerone assume la difesa dei Siciliani nel processo per concussione contro il pretore Gaio Verre, governatore dell’isola tra il 73 e il 71 a.C., a sua volta difeso dal noto principe del foro, Quinto Ortensio Ortalo. Con grande intelligenza tattica, riesce a indebolire la rete di protezione di cui l’imputato godeva, raccogliendo prove schiaccianti, tanto da costringere il suo avversario a rinunciare al dibattimento e lo stesso Verre a fuggire in esilio. Anche se il processo non fu mai celebrato,
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l’oratore volle pubblicare le orazioni, riunite in due libri, preceduti da una introduzione. Nell’opera, l’Arpinate disegna un ritratto a tinte fosche del governatore, predone vorace delle ricchezze dei Siciliani e servo infedele della repubblica. Toccando tutte le corde del cuore, racconta il suo viaggio nell’isola per raccogliere prove e testimonianze: sbarcato all’imbrunire, a pochi chilometri da Agrigentum, alla foce del fiume Platani, venne accolto dalle madri in lacrime, che invocavano giustizia contro i soprusi subiti. (V.C.)
Nel nuovo assetto amministrativo la città, che prese il nome di Agrigentum, fu soggetta al versamento dell’imposta di un decimo del raccolto, la cosiddetta decima e sappiamo, però, che, all’indomani della conquista, intorno al 198 a.C., il console Tito Manlio la ripopolò con cittadini provenienti dai centri vicini. Nella seconda metà del II secolo a.C., la Sicilia fu teatro di due rivolte note come «guerre servili» e, nel corso della prima (135-132 a.C.),
Nella pagina accanto Cicerone accusa Verre, dipinto di Eugène Delacroix. 1847. Parigi, Palais Bourbon. In basso Eternal Love, un altro bronzo di Igor Mitoraj esposto ad Agrigento.
Agrigento e il suo territorio vennero saccheggiati dalle bande di schiavi ribelli, capeggiati da Cleone. Disponiamo di una discreta quantità di informazioni sulla città del I secolo a.C., grazie alla testimonianza delle Verrine, le orazioni scritte da Cicerone per il processo contro il governatore Gaio Verre, accusato di concussione (vedi box alla pagina precedente e in questa pagina). L’oratore (segue a p. 46)
Quegli antichi ladri di antichità
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el dossier preparato da Cicerone per ottenere l’incriminazione di Verre, un intero libro è dedicato ai furti di opere d’arte, che l’insaziabile governatore metteva a segno con le sue squadre di scagnozzi. Agrigentum è protagonista di uno degli episodi piú divertenti, in cui i ladri furono messi in fuga dalla reazione agguerrita dei cittadini. Dopo avere sottratto uno splendido Apollo scolpito da Mirone, la cui firma brillava in lettere d’argento, la cupidigia di Verre si rivolse verso la
veneratissima statua bronzea di Ercole, consumata dai baci devoti degli Agrigentini. Una notte, la banda assoldata per portare via il simulacro assalta il tempio, difeso strenuamente dai custodi. Intanto i cittadini, sentito il trambusto, si avventano armati di zappe e bastoni contro i ladri, costretti a darsela a gambe. A buon diritto, afferma sorridendo Cicerone, Ercole può annoverare il furto sventato tra le sue fatiche: dopo il cinghiale di Erimanto, aveva sconfitto anche un... verro! (V.C.)
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L’oro del diavolo
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a risorsa del sottosuolo piú importante dell’Agrigentino è certamente lo zolfo, il cui sfruttamento è durato fino al secolo scorso. Recenti ricerche hanno rintracciato i siti minerari attivi nel territorio fin dall’età romana, quando i preziosi panetti venivano esportati dal porto di Agrigento. Una singolare testimonianza epigrafica ci svela alcuni dei protagonisti di questo commercio. Si tratta delle cosiddette tegulae
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sulphuris, tavolette di terracotta inscritte in negativo, che venivano poste alla base della gavita, la cassaforma in legno nella quale si faceva colare lo zolfo fuso, che, una volta rappreso, portava impresso il testo dell’iscrizione, una sorta di marchio che reca i nomi degli impresari, come i membri della famiglia Annia e i loro liberti e, a partire dal IV secolo, lo stesso imperatore. (V.C.)
Sulle due pagine I carusi, olio su tela di Onofrio Tomaselli. 1905. Palermo, Galleria d’Arte Moderna Sant’Anna. Ispirata alla novella di Verga, Rosso Malpelo, l’opera, concepita durante un soggiorno dell’artista presso il barone La Lumia, suo amico, proprietario di miniere di zolfo, vuole denunciare le condizioni del lavoro minorile nelle solfatare siciliane alla fine del XIX sec. A sinistra una tegula sulfuris, lastra in terracotta rettangolare con i margini leggermente soprelevati, utilizzata come stampo per pani di zolfo. III-II sec. a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
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esprime tutta la sua stima per gli Agrigentini, zelanti coltivatori, che hanno saputo instaurare un’armoniosa convivenza con i molti Italici che vivono e commerciano nella città. Dal racconto di Cicerone emerge la fisionomia di un corpo civico coeso, ostinato custode delle memorie avite, che sa opporsi con determinazione al tentativo di Verre di predare la statua di Ercole, e che nel suo senato assegna, orgogliosamente, la maggioranza dei seggi agli antichi abitanti della polis. Per l’età imperiale le notizie storiche vanno via via diminuendo. Augusto non perdonò facilmente ai Siciliani l’appoggio dato al ribelle Sesto Pompeo e non fu benevolo con molte città. Ad Agrigentum, divenuta municipium, non andò poi cosí male. Nel III secolo d.C. fu riconosciuto alla città il prestigioso status di colonia da parte di Settimio Severo, che incentivò i rapporti tra la Sicilia e l’Africa settentrionale, confermati dall’evidenza archeologica della diffusione della ceramica africana nell’isola, una costante per tutto il tardo impero. In questi scambi è importante il ruolo svolto dal porto di Agrigentum, che in quegli anni conobbe un certo benessere, probabilmente grazie all’esportazione dello zolfo (vedi box alle pp. 42-43). (V.C.)
Dal tardo-antico alla conquista araba Nel corso del IV secolo, mentre l’impero romano d’Occidente viveva le fasi finali della sua crisi, anche la Sicilia fu coinvolta nello scontro tra la morente potenza e le popolazioni germaniche installatesi dentro i suoi confini. A partire dal 440, infatti, le coste meridionali dell’isola furono percorse dalle incursioni di una popolazione germanica, quella dei Vandali, che aveva creato un proprio regno nell’Africa settentrionale, impossessandosi presto anche della Sicilia. Falliti i tentativi di Roma di invadere il regno vandalo, la Sicilia fu ceduta nel 476 a Odoacre e successivamente, nel 491, agli Ostrogoti, che regnavano ormai sulla Penisola. Nel 535 ebbe inizio la campagna di riconquista dell’Italia, promossa dall’imperatore bizantino
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Giustiniano e condotta dal generale Belisario. La Sicilia fu presa rapidamente ed evitò cosí di subire le conseguenze di una lunga guerra, che devastò invece la Penisola. Entrata a far parte dell’impero bizantino, la Sicilia fu legata da rapporti particolarmente stretti con Costantinopoli e con l’imperatore, che si mantennero anche quando, alla fine del VII secolo, si diede vita al thema di Sicilia, istituto amministrativo che prevedeva l’unificazione dei poteri civile e militare nelle mani di un unico stratega. In quegli anni, accanto al potere imperiale divenne sempre piú forte il ruolo della Chiesa e del papa, che possedeva in Sicilia enormi proprietà terriere, e si consolidò la rete dei vescovati. Da una tarda fonte agiografica viene ricordato un primo vescovo agrigentino, Libertino, che avrebbe subito il martirio nei pressi della città; ma i primi nomi storicamente attestati sono quelli di Eusanio e Gregorio, menzionati nell’epistolario di papa Gregorio Magno, alla fine del VI secolo. Gli studiosi hanno opinioni discordanti sull’identificazione del vescovo Gregorio ricordato dalle lettere del pontefice con il protagonista del racconto agiografico scritto, intorno alla fine dell’VIII secolo, dal monaco Leonzio; a lui la Vita attribuisce la fondazione della nuova cattedrale con annesso l’episcopio, attraverso la riconversione di un tempio pagano. Scacciati i due demoni che abitavano l’antico edificio, la nuova cattedrale fu dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo. Gli studiosi concordano in genere nell’identificare il tempio pagano oggetto dell’intervento di Gregorio con il tempio della Concordia, in effetti trasformato in chiesa cristiana, che, intitolata a san Gregorio, funzionò fino al XVIII secolo. Per il periodo di cui stiamo parlando, le indagini archeologiche, soprattutto quelle condotte negli ultimi anni, disegnano l’immagine di una città in rapida trasformazione, che, come gran parte dei centri urbani del Mediterraneo negli stessi anni, si disgrega e sfilaccia, inglobando al suo interno ampi spazi ruralizzati, attività artigianali, la grande necropoli lungo il settore meridionale delle mura e sepolture diffuse nell’antico
Nella pagina accanto sepolture, dette arcosoli per la presenza di una nicchia ad arco, facenti parte della necropoli paleocristiana di Agrigento, che fu in uso fra il III e il VI sec. d.C.
GREGORIO Il patrono dei beni archeologici e architettonici «Quindi dopo aver pregato Dio scacciò i demoni che vivevano lí e che si nascondevano nel tempio idolatrico di Eber e Raps. E ricostruí quel tempio meravigliosamente e gli diede il nome dei Santi Corifei degli Apostoli, Pietro e Paolo». (Leonzio presbitero, Vita di San Gregorio di Agrigento)
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alla nebbia che avvolge l’Alto Medioevo agrigentino emerge la figura del vescovo Gregorio, protagonista di un racconto agiografico scritto dal monaco Leonzio, probabilmente agli inizi dell’VIII secolo. Nato in un villaggio del contado, Gregorio cresce e viene educato ad Agrigento. Si muove in una città che appare ancora vitale e articolata socialmente, strutturata urbanisticamente e delimitata dalle sue mura, con un Foro nel quale si riunisce la popolazione urbana e dei villaggi del contado; una città profondamente legata al suo porto, dal quale partono e arrivano navi mercantili, che il giovane Gregorio utilizza per i suoi viaggi. Dopo aver percorso il Mediterraneo da est a ovest, dopo essere stato ingiustamente accusato di fornicazione, imprigionato e riabilitato, Gregorio, nominato nuovamente vescovo, in un giorno di settembre, approda al porto di Agrigento,
l’Emporion, e, fatto il suo ingresso trionfale in città, vede, presso le mura meridionali, un antico tempio pagano e decide di costruire lí la nuova cattedrale. Con un rito esorcistico scaccia i demoni che lo abitavano, Eber e Raps, e dedica la chiesa agli Apostoli Pietro e Paolo. Gli studiosi non concordano sull’identificazione del protagonista del racconto con un vescovo omonimo menzionato da papa Gregorio Magno in una lettera del 591, né sull’epoca in cui sarebbe vissuto e su quella del racconto. La sua figura è comunque ancorata a uno dei piú celebri monumenti agrigentini, il tempio della Concordia, in cui si riconosce l’edificio pagano che Gregorio avrebbe trasformato in chiesa, conservatosi integro nei secoli grazie alla riconversione. Per questo, nel 2005, il santo è stato proclamato patrono dei conservatori dei beni archeologici e architettonici. (M.S.R.)
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quartiere residenziale. In alcuni momenti della sua storia potrebbe anche aver perso il ruolo di centro della diocesi, a favore della sede di Triokala, presso Caltabellotta, lontana dalla costa e in una posizione piú facilmente difendibile. Già nel VII secolo, infatti, la Sicilia subí le prime incursioni islamiche, che si intensificarono nel secolo successivo. La lunga guerra di conquista ebbe inizio nell’827, con lo sbarco a Mazara del Vallo e Agrigento fu una delle prime città a essere presa. (M.S.R.)
Dalla conquista araba ai Chiaramonte Nel Kitab al-Amval, un testo giuridico arabo composto intorno all’anno 1000, al-Dawudi descrive Agrigento come una fortezza «in rovina in una terra vergine» al
Nella città di Finzia
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ecenti scavi condotti dalla Soprintendenza di Agrigento e dall’Università di Messina hanno portato alla luce una vasta porzione di abitato sul Monte Sant’Angelo di Licata, identificato come il sito di Finziade, la città fondata da Finzia, all’indomani della distruzione di Gela. Inserite in un impianto ortogonale, le case sono articolate attorno a un cortile, con spazi dedicati ai culti e
decorazioni parietali dipinte e a stucco. Negli anni Novanta è avvenuto l’eccezionale ritrovamento di un tesoretto di gioielli in oro, tra cui bracciali, un anello e un sakkòs (una sorta di cuffia, destinata a raccogliere lo chignon) con testa di Medusa a sbalzo e doppia catena a maglie mobili di pregevolissima fattura e oltre quattrocento monete d’argento. (V.C.)
A sinistra sakkòs in oro con medaglione centrale decorato a sbalzo raffigurante una testa di Medusa, collegato a una catena mobile entro la quale si raccoglieva lo chignon, dal tesoretto rinvenuto negli scavi a Monte Sant’Angelo di Licata. Licata, Museo Archeologico della Badia.
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A sinistra, in alto resti delle strutture riferibili all’abitato sul Monte Sant’Angelo di Licata, identificato come il sito di Finziade. Sulle due pagine la cattedrale di Agrigento, intitolata a san Gerlando.
momento dell’arrivo dei coloni musulmani, mentre la città è definita, all’epoca della redazione del testo, come «la piú importante del paese, la città capitale e la piú prospera»: sembrerebbe, dunque, che sotto il dominio islamico essa abbia vissuto una fase di rinascita e rinnovamento, che pure non ha lasciato molte testimonianze materiali. Abbandonata la valle, infatti, il nuovo centro urbano si ritrasse sulla collina di Girgenti, dove poi si è sviluppata la città medievale e moderna, cancellando quasi ogni traccia degli insediamenti piú antichi.
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Il racconto dell’assedio e della non facile conquista da parte dei Normanni, che dobbiamo al cronista Goffredo Malaterra, legato alla corte del conte normanno Ruggero, trasmette l’idea di una città munita da difese difficilmente espugnabili. L’intervento dei Normanni, che già avevano tentato una incursione nell’isola, fu questa volta favorito dalle rivalità tra potenti signori locali,
In basso la facciata laterale della torre campanaria della cattedrale di S. Gerlando, costruita dal canonico Giovanni Montaperto Chiaramonte nel 1470.
impadronitisi delle principali città dell’isola. Fu Ibn al-Thumna, il cui potere era basato sulle città di Siracusa e Catania, a offrire al conte Ruggero la signoria della Sicilia, in cambio di un aiuto contro Ibn al-Hawwas, il cui emirato, che si estendeva nella Sicilia centrale, aveva i suoi centri chiave in Agrigento e Castrogiovanni. Iniziata nel 1061 con la presa di Messina, la conquista fu lunga e difficile: Agrigento cadde
soltanto nel 1087. Subito Ruggero rafforzò le difese della città, che fu munita di un castellum firmissimum, con torri e baluardi; da qui si volse alla conquista delle altre fortezze del territorio, costringendole alla resa. Accanto agli edifici militari, Ruggero fece rapidamente costruire la Cattedrale, simbolo del potere religioso e dell’azione di ricristianizzazione che il nuovo dominatore prometteva di avviare. In realtà, la popolazione
In alto lo Steri, residenza dei Chiaramonte a Palermo.
musulmana rimaneva numericamente predominante e agguerrita; l’impressione che si ricava dai documenti è che i Normanni abbiano fatto la scelta, nel territorio agrigentino, di consentire a molti notabili musulmani di mantenere il possesso dei propri beni, limitandosi a riscuotere le tasse. Ad Agrigento, come nel resto dell’isola, la situazione si fece difficile dalla seconda metà del XII secolo, quando, durante il regno e poi dopo la morte di Guglielmo I, si verificarono episodi di persecuzione nei confronti dei musulmani, che in gran numero fuggirono verso le roccaforti della Sicilia occidentale, ritenute piú sicure. Entrata l’isola a far parte dell’impero svevo, durante la minore età di Federico II la ribellione dei musulmani della Sicilia occidentale, concentrati nelle roccaforti lungo i fiumi Platani e Belice, si manifestò con sempre piú violenza, inducendo Federico ad agire con determinazione. La repressione delle rivolte si concluse nel 1246: molti musulmani furono uccisi, molti costretti a convertirsi per salvarsi, molti deportati a Lucera, in Puglia. Agrigento tornò a giocare un ruolo significativo sotto i Chiaramonte, una delle famiglie feudali che, nel corso del Trecento, dominarono la storia siciliana. Nel 1361 Federico IV concesse a vita a Federico Chiaramonte, conte di Modica, l’ufficio di capitano di guerra, castellano e rector di Agrigento, ufficio che passò poi al figlio Matteo e successivamente a Manfredi, ammiraglio e vicario del Regno di Sicilia, e ad Andrea. I Chiaramonte promossero un imponente sviluppo urbanistico ed edilizio, che portò all’ampliamento delle mura cittadine, costruendo il proprio palazzo, lo Steri, e numerosi nuovi edifici religiosi, chiese e monasteri, e sviluppando un proprio stile architettonico. Fecero anche edificare numerosi castelli nei principali centri del territorio agrigentino. La parabola della famiglia si concluse con la rivolta contro la monarchia aragonese, duramente repressa: Andrea Chiaramonte venne decapitato a Palermo il 1° giugno 1392. (M.S.R.)
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La monetazione
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kragas comincia a emettere monete nel 510 a.C., utilizzando, dal punto di vista metrologico, il didramma di circa 8,70 g, attestato anche a Selinunte e Gela. La prima monetazione è costituita da didrammi in argento con l’aquila al diritto e il granchio al rovescio. Fino al 483/480 a.C. i tipi rimarranno identici, anche se nelle emissioni si possono riconoscere 4 gruppi diversi con 78 conii di diritto e 134 di rovescio. L’immagine dell’aquila è un’evidente allusione a Zeus, venerato ad Akragas sia con l’attributo di Atabyros, sia come Zeus Olimpio. Il granchio, probabilmente di fiume, potrebbe essere l’emblema parlante della città. All’inizio della produzione il tondello appare piú largo, poi col tempo subisce una lenta evoluzione formale, divenendo piú stretto e spesso e compaiono simboli e nomi, che sono evidenti segni di controllo delle emissioni e indizio di una sempre maggiore attenzione verso l’organizzazione della zecca della città. Nel 483 a.C., dopo la conquista di Himera, a opera del tiranno Terone, la zecca di Akragas interrompe la sua attività. Di contro a Himera, dove governa Trasideo, figlio di Terone, viene abbandonato il sistema calcidese (basato su una dramma di 5,70 g circa) a favore del sistema di Akragas e In alto didramma di Akragas con l’aquila al dritto e il granchio al rovescio. 490-483 a.C. In basso trias, monete in bronzo prodotte per fusione, simili a pesetti a forma campaniforme. Seconda metà del V sec. a.C.
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vengono emesse serie monetali con i tipi delle due città: al diritto, il tipo imerese del gallo e, al rovescio, il tipo akragantino del granchio. Tali emissioni obbediscono probabilmente a nuove esigenze di circolazione e di mercato, dal momento che la conquista di Himera costituisce per Akragas l’apertura verso nuovi scambi commerciali attraverso il mar Tirreno. Il successivo conflitto tra Akragas e Siracusa, guidata da Ierone, che si risolse con la sconfitta di Trasideo nel 471 a.C., vede la caduta della tirannide ad Akragas e Himera e l’instaurazione di un governo democratico. Dopo la caduta della tirannide, la monetazione ad Akragas viene ripristinata con i tipi tradizionali dell’aquila al diritto e del granchio al rovescio ed è introdotto un nuovo sistema, basato sul tetradramma attico, sul modello di Siracusa. Dal punto di vista stilistico, si può rilevare una maggiore precisione nella resa dei dettagli e l’aggiunta di figure secondarie. Dalla seconda metà del V secolo a.C. è attestata una monetazione in bronzo prodotta per fusione, una sorta di pesetti a forma campaniforme, che recano su un lato un’aquila o una testa d’aquila e, sull’altro, il granchio, e sulla base il segno che indica il valore: 4 globetti indicano il tetras, 3 globetti il trias, 2 globetti l’hexas, mentre la litra, di forma amigdaloide presenta testa di aquila su un lato e chele di granchio dall’altro. L’ultimo quarto del secolo, periodo estremamente convulso dal punto di vista degli avvenimenti storici, è invece un momento di grandissimo splendore per le emissioni. Le serie databili in questo arco di tempo fanno registrare importanti mutamenti tipologici e un significativo aumento della produzione. Grazie al contributo di maestri incisori, che firmano le loro produzioni, la zecca di Akragas emette monete di squisita fattura, sostituendo il tipo canonico con diverse serie. Nel primo gruppo si ritrovano, al diritto, il motivo di due aquile che ghermiscono una lepre e, al rovescio, il granchio accompagnato da un pesce oppure da una
rappresentazione di Scilla. Una seconda serie, datata a partire dal 413 a.C., presenta al diritto il tipo siracusano della quadriga, mentre il tipo delle due aquile viene spostato al rovescio. Gli stessi tipi si ritrovano nella emissione del decadramma. Sono attestate anche due rare emissioni in oro: tetradrammi con l’aquila con lepre al diritto e al rovescio il granchio e il pesce, e un’altra serie con aquila e serpente al diritto e il granchio accompagnato dal nome di un magistrato al rovescio. La distruzione della città a opera dei Cartaginesi, nel 406, e il successivo rientro dei cittadini sotto l’egida di Dioniso I segnano un periodo di crisi politica ed economica, che si riflette nell’impoverimento della monetazione. Akragas continua a produrre, emettendo serie sporadiche, di difficile datazione. Intorno al 400 a.C. è attestata la circolazione di monete piú antiche, hemilitra della seconda metà del V secolo, rimesse in circolazione con diverse contromarche. A seguito del ripopolamento timoleonteo a partire dal 338 e fino al 287 a.C., momento dell’avvento al potere di Finzia, la città continua a battere moneta e sono attestate sia serie in argento – emidrammi che presentano il cavallo libero al diritto e il granchio al rovescio; stateri con testa laureata di Zeus al diritto e aquila frontale al rovescio; litre con testa barbata di dio fluviale al dritto e aquila frontale al rovescio –, sia in bronzo: emilitra con testa di giovane dio fluviale al dritto e aquila retrospiciente sopra una colonna al rovescio; trias con testa di Zeus al diritto e aquila e lepre al rovescio oppure con testa di Zeus al dritto e fulmine alato al rovescio. Dal 287 al 279 a.C. il tiranno Finzia, impadronitosi del potere, dopo la sconfitta subita dagli Agrigentini a opera dei Cartaginesi emette moneta bronzea con il titolo di re: tetras con al diritto testa di Apollo e cinghiale al rovescio, oppure con testa di Artemide al diritto e cinghiale al rovescio. Nel periodo convulso tra la distruzione della città, nel 265 a.C., durante la
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris In alto tetras emesso da Finzia. 287-279 a.C. rehenis A sinistra tetradramma di Akragas. 420-406 a.C. Al dritto,aspiciur l’aquila che ghermisce una lepre; al rovescio, il sincte seque con nusam fugit et qui granchio e la rappresentazione di Scilla. In basso tetradramma di Akragas. 410-406 a.C. bernate laborest, ut ut aliquam rentus Al dritto, la quadriga; al rovescio, l’aquila. magnim ullorepra serro dolum quis et prima guerra punica, e la ripresa dell’occupazione cartaginese, nel 255 a.C.,volenimenis dolorib ercillit fuga. vengono emesse litre in argento con testa di Zeus Accationes coronata di alloro al diritto e aquila con le ali reperiam res sa distese al rovescio e monete in bronzo: trias con conemolorum nis testa di Apollo al diritto e due aquile con una aliaepu danditatur lepre al rovescio. Diverse serie di emilitra: con sequae volore.
testa laureata di Apollo al diritto e tripode al rovescio, oppure con testa laureata di Apollo al diritto e guerriero nudo con la lancia al rovescio, oppure con testa di Zeus al diritto e verga con serpente al rovescio. Si tratta dell’ultima monetazione di Akragas. Dal 241 a.C. la città diventa parte integrante del mondo romano e, come tale, comincia a emettere moneta in bronzo con tipi molto semplici, con testa di Kore al diritto e Asklepios al rovescio, oppure con testa di Zeus al diritto e aquila con fulmine al rovescio o, ancora, testa di Asklepios al diritto e verga con serpenti al rovescio, oppure con testa femminile al diritto e tripode al rovescio e con una graduale trasformazione linguistica delle leggende dal greco al latino. La zecca continuerà a emettere sporadicamente moneta fino all’età augustea, quando è attestata un’emissione con testa di Augusto e legenda AVGS PP AGRIGENTI al diritto e SALASSO COMITIAE SEX RUFO II VR L CLODIO RVFO PRO COS al rovescio. (G.P.)
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STORIA DELLE RICERCHE
ALLE ORIGINI DI UN MITO LE PRIME DESCRIZIONI DEI MONUMENTI DI AGRIGENTO VENGONO PUBBLICATE NEL XVI SECOLO: INIZIA COSÍ UNA RISCOPERTA ALLA QUALE SI DEDICANO I GRANDI PROTAGONISTI DELL’«ANTIQUARIA» E POI STORICI E ARCHEOLOGI ITALIANI E STRANIERI di Federico Rausa
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l mito della grandezza dell’antica Akragas, «la piú bella città dei mortali», inaugurato da Pindaro e recepito poi nei secoli successivi da poeti e scrittori greci e latini, si perpetuò anche dopo la fine del mondo antico, quando la piú modesta Kerkent araba,
divenuta poi Girgenti, aveva preso il posto della città greca e romana. Nel XII secolo, agli occhi del geografo arabo Edrisi, Agrigento appariva, infatti, come «città tra le piú nobili metropoli» ricordando che «gli avanzi di questa antica [anzi] primitiva città, attestano [l’]alta potenza
Pianta e sezioni del tempio della Concordia realizzate per l’opera dell’abate di Saint-Non Voyage pittoresque, ou description des royaumes de Naples et de Sicile. Nouvelle edition (Parigi, 1829).
[alla quale arrivò] ne’ tempi andati». Quei resti, che disseminati a valle del colle dove la città antica era sopravvissuta rappresentavano la prova tangibile dell’illustre passato della città siciliana, trovarono tuttavia una loro prima circostanziata descrizione solo quattro secoli piú tardi. Non a opera di Lucio Cristòbal Scobar (1460-1525), erudito ecclesiastico di origine spagnola autore nel 1522 di un De antiquitate Agrigentina, sommaria sintesi di passi tratti dalle fonti letterarie, quanto piuttosto grazie al frate domenicano Tommaso Fazello (1498-1570), esponente di primo piano della storiografia siciliana del XVI secolo. Nelle sue De rebus siculis decades duae, pubblicate in latino nel 1558 e poi tradotte in volgare nel 1573, la storia passata dell’antica Agrigento è sostanziata da una descrizione dei monumenti, accuratamente osservati, e dei quali egli propose per primo un’identificazione, attribuendo loro i nomi che ancora oggi essi conservano. A Fazello si deve, tra l’altro, la precoce identificazione dei resti del teatro antico della città, rinvenuto solamente nel 2016. Tuttavia, a causa del sostanziale oblio dell’opera del Domenicano presso i contemporanei e per tutto il XVII secolo, i monumenti di Agrigento rimasero sconosciuti al di fuori dell’isola.
Sulla scia di Paestum Complice il generale clima di interesse verso l’architettura greca delle origini e delle sue forme doriche che, dopo un oblio secolare, si andavano riscoprendo a Paestum come in Grecia, i monumenti agrigentini trovarono una loro prima trattazione analitica e illustrata solo alla metà del XVIII secolo, nei due volumi delle Antichità siciliane spiegate (1751, 1752), espressione della cultura antiquaria agrigentina nell’età compresa tra la fine del vescovato di Lorenzo Gioeni (1730-1755) e quello di Andrea Lucchesi Palli (1755-1768). Nei progetti del loro autore, il padre teatino cortonese Giuseppe Maria Pancrazi (? -1764 circa), essi dovevano inaugurare una serie dedicata a tutti i monumenti antichi della Sicilia che tuttavia non
vide mai la luce. Sebbene ridimensionata, questa impresa editoriale, grazie alle tavole realizzate da Salvatore Ettore, collaboratore di Pancrazi, fu finalmente in grado di portare a conoscenza di un vasto pubblico, italiano ed europeo, le antichità agrigentine, sia gli edifici architettonici, sia gli esemplari di maggior pregio conservati nelle collezioni del vescovado. La sequenza delle tavole dei volumi di Pancrazi rivela l’adozione di un criterio tematico nella distribuzione della materia – topografia, architettura sacra, mura e acquedotti, necropoli e monumenti funerari –, ma sembra definire anche un itinerario di visita alle antichità secondo tappe che andranno progressivamente definendosi nei successivi decenni per le esigenze dei viaggiatori stranieri.
Una coincidenza singolare La crescente presenza di viaggiatori stranieri in Sicilia ebbe ampie ripercussioni sulla storia dello studio delle antichità siciliane e con esse di quelle agrigentine. Nel 1764, con singolare coincidenza con l’anno presunto della morte di Pancrazi, apparvero i Sicula quibus Siciliae veteris rudera, additis antiquitatum tabulis, illustrantur, opera postuma del filologo olandese Jacques Philippe d’Orville (1696-1751), risultato del suo viaggio di studio in Sicilia dal 1726 al 1728. Alla descrizione del sito dell’antica Akragas e dei resti dei suoi monumenti d’Orville dedicò parte del capitolo V. La modernità dell’opera, basata su un rigoroso metodo di discussione dei dati delle fonti e sul loro riscontro obiettivo, è ribadita dalla presenza, a corredo del testo, di tavole che illustrano i piú ragguardevoli monumenti, sia scultorei che architettonici, disegnati da Francesco Nicoletti (1703/09-1776). Le conseguenze della diffusione dell’opera di Pancrazi non tardarono a manifestarsi, ad Agrigento, in Sicilia e in un piú vasto panorama europeo. Tra il 1752 e il 1767 si datano le diverse redazioni – conservate in forma manoscritta ad Agrigento, Parigi e Londra – di una descrizione illustrata delle antichità locali, opera invero di modesta erudizione, dell’abate
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STORIA DELLE RICERCHE
agrigentino Michele Vella, antiquario dilettante e cicerone dei viaggiatori stranieri. Di ben diverso e piú profondo spessore scientifico fu, invece, la prima trattazione monografica dedicata nel 1773 a un antico monumento agrigentino da Vincenzo Gaglio (1735-1777), giurista e letterato agrigentino formatosi presso l’Accademia palermitana del Buon Gusto e il Seminario di Girgenti. Intitolata Dissertazione sopra un antico sarcofago di marmo, oggi battisterio del Duomo di Girgenti, è un’erudita riflessione sul sarcofago attico con il mito di Fedra, allora custodito presso il Duomo di Girgenti e a lungo oggetto di incondizionata ammirazione da parte dei primi grand tourists ai quali esso era noto attraverso le illustrazioni dell’opera di Pancrazi. Sebbene utile per la ricchezza di dati documentari, questa produzione nella quale si cimentò l’erudizione locale non seppe tuttavia emanciparsi da un’eccessiva pedanteria antiquaria e dalla costante tendenza alla sintesi e alla sistematizzazione di un patrimonio di conoscenze acquisito.
Il tagliente giudizio di Winckelmann Di ben altra natura fu l’impatto che l’opera di Pancrazi, ma anche quella di d’Orville, ebbero al di fuori della Sicilia. Echi immediati se ne colgono nell’opuscolo che, già nel 1756, Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) – al quale, come è noto, mancò l’esperienza del viaggio in Sicilia – aveva dedicato al tempio «della Concordia» e quello di Zeus e pubblicato piú tardi nel 1762 col titolo Anmerkungen über die Baukunst der alten Tempel zu Girgenti in Sicilien. Con esso l’autore, per sua esplicita dichiarazione, intendeva approfondire la materia piú prettamente architettonica del tempio «della Concordia», lasciata in ombra, a suo tagliente giudizio, nell’opera di Pancrazi, della quale poco apprezzava la qualità delle incisioni. La fortuna delle Antichità di Pancrazi trova un’ulteriore conferma alla fine del secolo con la riedizione delle tavole della sua opera nella Raccolta di antichità agrigentine pubblicata,
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postuma, nel 1794 a cura di Giovanni Cristoforo Amaduzzi (1740-1792), dove i monumenti agrigentini assumono, al pari degli esempi ateniesi e pestani, il valore imprescindibile di documento dello sviluppo storico dell’architettura greca. Ai repertori illustrati di Pancrazi e d’Orville guardarono, nella seconda metà del secolo, anche gli autori dei voyages pictoresques, accattivante formula dietro la quale si cela la volontà di offrire a un pubblico di lettori sempre piú vasto ed esigente «l’illusione perfetta di un itinerario» (Kanceff). Agrigento e le sue antichità rivestirono un ruolo importante nei due piú importanti repertori di questo
Nella pagina accanto la fronte del sarcofago di Ippolito e Fedra con la caccia al cinghiale a cui partecipa Ippolito (primo a sinistra). Inizi del III sec. d.C. Agrigento, chiesa di S. Nicola. In basso il sarcofago in una tavola dell’opera dell’abate di Saint-Non Voyage pittoresque...
STORIA DELLE RICERCHE
genere pubblicati entrambi nel 1781-1787 dai francesi Jean-Claude-Richard de Saint-Non (1727-1791) e Jean-Pierre Louis Laurent Houël (1735-1813): esito, il primo, della spedizione di un’équipe guidata da Dominique Vivant Denon nel 1778, il secondo del piú lungo soggiorno del regio pittore dal 1776 al 1779. Decisivi, per una svolta degli studi in senso archeologico, furono i primi decenni del XIX secolo, nel corso dei quali Agrigento si trovò al centro di un dibattito di portata internazionale. Protagonista di questa nuova fase fu il siracusano Raffaello Politi (1763-1870), che, da pittore «di storie», divenne il piú attento e prolifico studioso di antichità agrigentine della sua epoca, ricoprendo, dal 1826, la carica di «Custode delle antichità di Girgenti». La parabola ascendente di Politi ebbe inizio proprio in coincidenza con l’avvio di un’intensa stagione di studi sul piú controverso degli antichi monumenti agrigentini: il tempio di Zeus. Intorno al colossale edificio, ridotto a un immenso cumulo di macerie – cosí come lo aveva raffigurato Pancrazi –, erano state fino a quel momento proposte ricostruzioni puramente ipotetiche, basate soprattutto sulla descrizione fornita da Diodoro Siculo. Cosí Winckelmann, Denon e anche Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy (1755-1849), autore della memoria Sur la restitution du Témple de Jupiter Olympien à Agrigente, pubblicata nel 1805, ma basata sui personali riscontri dell’autore risalenti al suo viaggio in Sicilia del 1779.
Tra le macerie affiorano gli Atlanti L’avvio delle operazioni di sgombero dalle macerie nell’area del tempio, iniziate nel 1804 e, con alterne vicende, proseguite fino al 1814, dischiusero agli studiosi novità clamorose grazie alla scoperta, o se si vuole, alla riscoperta dei resti dei giganteschi Atlanti, già fugacemente ricordati da Fazello. Non è casuale, quindi, che tra il 1804 e il 1824, transitassero per Agrigento alcuni dei piú illustri architetti e studiosi dell’architettura antica nelle opere dei quali i templi agrigentini
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Pianta dell’antica Agrigento realizzata dal filologo tedesco Julius Schubring, al quale si deve il primo studio specificamente dedicato all’assetto topografico della città greca, dalla sua fondazione fino all’età romana, pubblicato nel 1870.
occupano un posto di assoluto rilievo: i britannici William Wilkins (1778-1839) e Charles Robert Cockerell (1788-1863), i tedeschi Karl Friedrich Schinkel (1781-1841) e Leo von Klenze (1784-1864) e il francotedesco Jakob Ignaz Hittorff (1782-1867). Politi entrò in contatto con quasi tutti costoro, ricavandone dati, spunti di riflessione e di metodo di indagine che gli consentirono di partecipare in prima persona alla querelle sulla ricostruzione della forma del tempio di Zeus che dal 1814 al 1828 infiammò il mondo dell’archeologia siciliana. Condotta senza esclusione di colpi, la polemica produsse in questo lasso di tempo una serie di opuscoli, contenenti proposte per la ricostruzione del tempio e la collocazione degli
In alto Tempio di Giunone Lacinia e muraglia sepolcrale in Girgenti, una delle tavole che corredano Il viaggiatore in Girgenti e il cicerone di piazza, la guida della città antica pubblicata da Raffaello Politi nel 1826. In basso Veduta delle rovine del tempio di Cerere nella Valle di Agrigento, gouache di Jean-Pierre Louis Laurent Houël. 1776-1779.
Atlanti, a firma dello stesso Politi e dei suoi «avversari», il marchese Jacob Joseph von Haus – precettore del principe ereditario e soprintendente alle collezioni reali borboniche –, Giuseppe Lo Presti, già custode alle antichità, e dello storico e letterato Nicolò Palmeri. Grazie a Politi, Agrigento, dopo un lungo periodo costellato di studi eruditi e antiquari, conobbe una guida alle proprie antichità destinata ai visitatori, pubblicata nel 1826. Il viaggiatore in Girgenti e il cicerone di piazza, titolo originale e dalle forti connotazioni autobiografiche, rappresentò un unicum nel panorama di guide e opere di storie erudite locali, per la scelta della forma dialogica tra il «milordo» (parodia del viaggiatore straniero) e il cicerone, scaltra guida turistica che trae dalla pratica quotidiana le sue conoscenze.
Attraverso queste figure, l’autore espone, volta per volta, le sue personali interpretazioni dei monumenti, antichi e non, della Girgenti della prima età della Restaurazione. I meriti di Politi nei confronti delle memorie antiche di Agrigento riguardarono anche un altro settore degli studi, finora trascurato nella città siciliana: gli antichi vasi dipinti, già nel corso del Settecento oggetto di interesse collezionistico e di ritrovamento a seguito di scavi clandestini nell’area delle vaste necropoli della città antica. Tra essi spiccava un cratere attico a figure rosse, noto come «cratere di Ulisse» – oggi scomparso – scoperto nel 1743, come attesta il Pancrazi, che lo illustra nella sua opera, e ammirato tra le antichità delle collezioni del vescovado di Agrigento. A partire dal 1826, quando Politi iniziò la pubblicazione della sua nutrita serie di articoli sui vasi dipinti, questi avevano perso il loro esclusivo valore di pezzi da Wunderkammer, per divenire oggetto di studio storico-artistico e iconografico.
Quasi come un notiziario In particolare, quelli provenienti dalla Sicilia, grazie al gagliardo contributo del gesuita Salvatore Maria De Blasi (1719-1814), erano stati finalmente emancipati dall’etichetta di
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«vasi etruschi» che a lungo li aveva connotati. In un arco di tempo compreso tra il 1826 e il 1849 le pubblicazioni di Politi, quasi con la cadenza di un notiziario archeologico, fornirono agli studiosi italiani ed europei della nascente «ceramografia» utili informazioni sui
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rinvenimenti, contesti e singoli esemplari. Ai testi, solitamente redatti in una prosa bizzarra e polemica, si accompagnano pregevoli tavole a silhouette, tramite le quali il pittore/archeologo illustra sapientemente gli esemplari. Pochi anni prima della
Un’altra immagine del tempio convenzionalmente detto dei Dioscuri, sulla base di un passo di Pindaro.
pubblicazione della Guida di Politi, nel 1823 Domenico Lo Faso Pietrasanta, duca di Serradifalco (1783-1863), figura di spicco dell’intellettualità liberale siciliana della prima metà dell’Ottocento e prossimo protagonista degli studi archeologici sulle antichità dell’isola, finanziò una campagna di rilievi dei monumenti di Agrigento. È l’importante preludio alla pubblicazione delle antichità agrigentine nel volume intitolato Antichità di Agragante (1836), terzo della serie delle Antichità di Sicilia (1834-1842), opera con la quale il duca di Serradifalco inaugura la fase archeologica dello studio dell’antico in Sicilia. Nate come strumento e, a un tempo, come diretta conseguenza della nuova politica di studio e tutela delle antichità della Sicilia da parte della Regia Commissione di Antichità e Belle Arti, istituita nel 1827 e della quale lo stesso duca di Serradifalco fu membro autorevole, le Antichità colmarono una lunga lacuna documentaria, raggiungendo l’obiettivo che, quasi un secolo prima, Pancrazi si era prefisso. Lontane dall’impostazione erudita, talvolta pesante, del padre teatino, esse si imposero come imprescindibile testo di riferimento per ogni futuro studio sui monumenti antichi della Sicilia. Il rinnovato interesse per l’antica Akragas e per i suoi monumenti che caratterizza, sia in Sicilia che fuori dall’isola, la prima metà dell’Ottocento fu determinante per la genesi di due fondamentali opere sulla storia della città, apparse in un contesto politico radicalmente mutato a seguito dell’annessione del regno delle Due Sicilie allo Stato italiano. Nel 1866, infatti, ad Agrigento si pubblicavano le Memorie Storiche Agrigentine dell’avvocato Giuseppe Picone (1819-1901) – benemerito promotore della nascita del locale Museo Civico –, frutto di un lungo e paziente lavoro di ricerca storiografica e archivistica. Una copia dell’opera, fresca di stampa, dovette certamente essere nota a Julius Schubring (1839-1814), filologo e archeologo tedesco, che nel 1865 aveva intrapreso il suo viaggio di studio in Sicilia con un lungo soggiorno ad Agrigento.
Lo studioso è ricordato soprattutto come autore della Historische Topographie von Akragas in Sicilien während der klassischen Zeit, edita nel 1870, primo studio specificamente dedicato all’assetto topografico della città greca, dalla sua fondazione fino all’età romana.
Un contributo prezioso Prodotto dell’archeologia filologica tedesca, l’opera di Schubring rappresenta ancora oggi un punto fermo nella storia degli studi soprattutto per il metodo adottato, incentrato sul valore conferito al dato archeologico, personalmente verificato e vagliato criticamente in relazione alle testimonianze di altre fonti, secondo i principi dell’archeologia filologica tedesca della fine dell’Ottocento. All’opera di Schubring tributarono un sincero attestato di ammirazione gli esponenti delle successive generazioni di studiosi dell’antica Agrigento, come Pirro Marconi (1897-1938) e Jozef Arthur de Waele (1938-2001), i cui contributi, in materia topografica ma anche architettonica e scultorea, hanno rimarcato l’incidenza dell’apporto del dato di scavo nella ricostruzione della storia dell’antica Akragas. Impegno nel recupero e nella valorizzazione di nuovi dati sulla conoscenza della città antica e dei suoi monumenti sono proseguiti, fino ai tempi recenti, grazie ai soprintendenti Pietro Griffo, Ernesto De Miro e Graziella Fiorentini, autori di articoli e studi su vari complessi monumentali e contesti topografici di Agrigento greca e romana. Nel 2000, l’istituzione del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi ha costituito l’ultima tappa di una lunga tradizione di ricerca e studio sui monumenti dell’antica città di Agrigento. A un ventennio di distanza, in occasione dei 2600 anni dalla fondazione della colonia di Akragas, l’istituzione, grazie a iniziative scientifiche e di ricerca, ha garantito la continuità negli studi e nelle ricerche sul campo, coronate da importanti risultati – tra tutti il rinvenimento del teatro antico –, frutto della attiva collaborazione con istituzioni italiane e straniere.
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Veduta dei templi di Agrigento, olio su tela di Jakob Philipp Hackert. 1778. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
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LA «CHIAVE DI TUTTO» LA SICILIA FU PER GOETHE UNA RIVELAZIONE: SECONDO LO SCRITTORE E POETA TEDESCO, SOLO LA CONOSCENZA DEI SUOI MONUMENTI POTEVA INFATTI SVELARE LA NATURA DELL’INTERA ITALIA. UN APPREZZAMENTO CONDIVISO DAI MOLTI VIAGGIATORI GIUNTI NELL’ISOLA AI TEMPI DEL GRAND TOUR di Matteo Nucci
IL GRAND TOUR
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utto ebbe finalmente inizio con un viaggio che non avvenne mai. Sembra una frase altisonante e paradossale, ma cosí stanno le cose per le rotte del Grand Tour su Akragas, «la piú bella fra le città dei mortali» stando alla celebre definizione di Pindaro. È il 1759, infatti, quando appare un breve testo, Annotazioni sull’architettura degli antichi templi di Girgenti, firmato da un personaggio che in Sicilia non è mai stato e non sarà mai. Si chiama Johann Joachim Winckelmann, ha quarantadue anni e il suo nome è destinato a sovrapporsi a una parola contemporaneamente semplice e complessa: neoclassicismo. Quando pubblica le sue note, lo studioso si trova da anni a Roma, è diventato soprintendente alle antichità ed è già una riconosciuta autorità nella riscoperta dell’antico. Ma su ciò di cui ora scrive non possiede conoscenze approfondite.
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Non solo perché non ha potuto vedere con i propri occhi, ma, soprattutto, perché la città dove nacque Empedocle è ancora pesantemente avvolta dalle nebbie dell’ignoto. La Sicilia tutta, del resto, è da pochi anni oggetto di riscoperta dopo secoli di oscurità che l’hanno fatta sprofondare in un incomprensibile e misteriosissimo mito moderno. Pochi sono gli studiosi, gli artisti o i semplici appassionati che hanno osato salpare verso l’antica Trinacria per gettarsi alla ricerca delle origini. Uno di questi è un padre teatino, Giuseppe Maria Pancrazi, il quale, con un lavoro sistematico sulla città antica e i suoi monumenti (1751) ha colpito l’immaginazione di Winckelmann. Il desiderio che travolge lo studioso adesso è scoprire il segreto dell’armonia a cui già Diodoro Siculo ha fatto allusione per le immense proporzioni del tempio di Zeus. Eppure Winckelmann non lascia Roma. Non scende piú a sud di Paestum,
Nella pagina accanto, a destra gli itinerari percorsi da Johann Wolfgang Goethe nel suo viaggio in Italia, dai quali scaturí l’opera omonima, pubblicata in due volumi, nel 1816 e 1817, seguiti da un terzo, di stampe, nel 1829. Nella pagina accanto, in basso Goethe e i suoi compagni di viaggio cavalcano verso Segesta, il 20 aprile 1787, disegno di Heinrich Kniep, il «fotografo» con il quale lo scrittore era sceso in Sicilia. In basso Goethe nella campagna romana, olio su tela di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein. 1787. Francoforte, Städel Museum.
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visitata con immensa meraviglia l’anno precedente. Chiede invece Piacenza al barone tedesco Johann Hermann von Riedesel se gli Parma sia possibile recarsi sul luogo e verificare le suggestioni di cui è preda. È la svolta definitiva, perché la divina Akragas diventi definitivamente meta ufficiale del Grand Tour. La pubblicazione di Viaggio attraverso la Sicilia e la Magna Grecia, che segue di quattro anni le esplorazioni compiute da von Riedesel in Sicilia nel 1767, sancisce infatti l’ingresso dei templi agrigentini fra i doveri assoluti per i giovani appassionati in cerca del mistero di una civiltà che è rimasta sotterraneamente in vita e percorre il loro stesso sangue. Il libriccino, infatti, crea da sé la sua fama e diventa irrinunciabile per qualsiasi Grand Tourist, al punto da essere citato con
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una sorta di devozione dallo scrittore, poeta e appassionato con cui la Girgenti settecentesca ritrova finalmente il suo ruolo dominante nello studio e nella comprensione dell’arte e dell’architettura antiche. «Riserbo e discrezione m’hanno impedito finora di nominare il mentore che guardo e
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IL GRAND TOUR
Palermo, Alcamo, Castelvetrano e Sciacca. Solo che adesso c’è qualcosa di enorme da scoprire. E come in ogni attesa che divora il nostro desiderio e ci spinge a dilazionare sempre piú il tempo che ci divide dal sogno che si fa realtà, Goethe viene spinto a rimandare la discesa verso le rovine antiche che intravede dalla sua finestra. Affacciandosi assieme a Heinrich Kniep, il disegnatore-«fotografo» con cui è partito, egli già ha avuto l’impressione di una mattinata di splendore primaverile inequiparabile, prima di poter spaziare con lo sguardo su quella che era la città antica, affondata in giardini e vigneti che si sporgono sulla pianura un tempo allagata dal mare. Leggendo queste pagine, abbiamo l’impressione che, in poche righe, ascolto di tanto in tanto: alludo all’eccellente von Riedesel, il cui libriccino custodisco in seno come breviario o talismano» scrive Johann Wolfgang Goethe nel testo definitivo: l’inarrivabile Viaggio in Italia.
Un percorso di liberazione Siamo ormai nel 1787 e molta acqua è passata sotto i mulini dacché i primi visionari, antiquari, viaggiatori, eruditi, iniziandi e via dicendo hanno cominciato a esplorare l’Italia, avventurandosi verso il suo Meridione e tuttavia rinunciando alla Trinacria che accolse Dedalo e respinse Minosse. Ma con Goethe il pericolo del viaggio per mare diventa un mostro psicologico che chiunque deve mettere in conto, se si vuole davvero trovare un briciolo di ciò di cui si è in cerca. Leggendo quello strepitoso libro che ancora oggi ci mostra il percorso di liberazione di un uomo, piú che il lavoro indomito di uno studioso o la curiosità odissiaca del viaggiatore, noi ritroviamo la chiave che fa cambiare completamente segno al Grand Tour, dando a esso la sua completezza. Sono giornate indimenticabili che possiamo ripercorrere minuziosamente. È un martedí. È il 24 aprile. La sofferta decisione di lasciare Napoli e imbarcarsi alla volta del mito ha già ricompensato Goethe con le meraviglie di
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Goethe abbia già saputo cogliere il cuore pulsante della città tanto a lungo perduta. Eppure il cicerone che ha accolto lui e Kniep non intende ancora lasciarli andare e Goethe, lungimirante, acconsente. Il «bravo preticello» è un tipo assai noto in città e stranoto fra chi ha già cominciato a sognare la meta di Girgenti per concludere quel viaggio iniziatico chiamato Grand Tour. Il suo nome è Michele Vella. Veste come un abate ma ha famiglia, si è formato da sé, i suoi schizzi dei monumenti agrigentini hanno illuminato eruditi e antiquari e di lui si scriverà molto, al punto che il suo ritratto oggi ci arriva per mezzo di penne raffinate come quelle di Jean-Marie Roland e di Georg-Arnold Jacobi. Nel primo fra i giorni decisivi e destinati a una
Nella pagina accanto la Tomba di Terone in un disegno a penna acquerellato di Johann Wolfgang Goethe. In basso, a sinistra Paesaggio siciliano, matita e acquerello su carta bianca di Joahnn Wolfgang Goethe. Aprile/12 maggio 1787. In basso, a destra ritratto di Christoph Heinrich Kniep (1755-1825).
specie di eternità in cui il poeta tedesco arriva a Girgenti, uno strano fuoco brucia dentro le viscere di Vella e lo spinge a portare Goethe e Kniep ovunque in città, fuorché a visitare i templi, come se temesse la delusione che spazza via tutto quando la realtà prende il sopravvento sulla vaghezza della dimensione onirica. Quella delusione che è capace di annichilire l’animo di chi si sente ormai detentore di un tesoro di incalcolabile valore.
Guidati dall’omettino Il giorno decisivo è dunque il 25 aprile 1787, quando Vella, scalpitante, spinge i due Grand Tourist a volare in discesa verso quella che oggi chiamiamo Valle dei Templi. «Consapevole di fare per il nostro meglio,
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l’omettino ci guidò attraverso la ricca vegetazione senza permetterci di sostare davanti a mille particolari, ognuno dei quali incorniciava una scena idillica» scrive Goethe. Ci sembra di vederlo, il piccolo abate che, nel momento in cui ha deciso di rompere la diga, si lascia travolgere e non reputa piú possibile alcuna sosta. Goethe e Kniep lo seguono senza fiatare per trovarsi di fronte ai templi di Era, della Concordia, di Zeus, di Eracle e di Asclepio, fino alla Tomba di Terone. Goethe annota ogni cosa minuziosamente ma lo stupore di fronte alla perfezione del tempio della Concordia («a paragone dei templi di
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Paestum lo si direbbe la figura di un dio di fronte all’apparizione di un gigante») sembra inferiore alla sensazione che lo prende mentre considera le proporzioni del tempio di Zeus. «Le rovine si stendono per un lungo tratto simili agli ossami d’un gigantesco scheletro (…) In questo cumulo di macerie ogni forma artistica è stata cancellata, salvo un colossale triglifo e un frammento di semicolonna d’uguale proporzione. Volli misurare il triglifo con le due braccia aperte, ma non riuscii a coprirne la superficie per intero; quanto alla scanalatura della colonna ne darò un’idea dicendo che, in piedi dentro un incavo, lo
Una veduta del Parco con il tempio di Giunone sullo sfondo.
personalità che posseggono ciò che manca alla mia, e precisamente, nel caso in questione, un calmo proponimento, la certezza dello scopo, strumenti nitidi e idonei, preparazione e conoscenza, intimo rapporto con un maestro impareggiabile quale Winckelmann».
Sotto la superficie dell’arte greca
riempivo tutto come una piccola nicchia, toccandone i lati con le spalle. Il perimetro di una colonna come questa corrisponderebbe pressappoco a un cerchio formato da ventidue uomini». Le dimensioni del tempio che fu costruito dopo la vittoria sui Cartaginesi a Imera nel 480 a.C. continuavano insomma a colpire l’immaginazione dei viaggiatori e forse non è un caso che sia proprio il giorno seguente che Goethe rivela a tutti l’identità dell’autore di quel libriccino che porta con sé quasi fosse un «breviario o talismano». Le parole che ho già citato proseguono cosí: «Ho sempre gradito specchiarmi in quelle
Il cerchio si andava chiudendo, insomma. Diventava definitivamente chiaro il senso di quella frase manifesto che avrebbe per sempre sancito l’importanza della Sicilia nel Grand Tour: «Senza vedere la Sicilia non ci si può fare un’idea dell’Italia. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto». E si faceva sempre piú pressante la domanda circa lo stupore suscitato da quel tempio immenso distrutto da un terremoto alla fine del 1401. A pensarci oggi, l’immensità che aveva spinto Winckelmann ad aprire le porte su Akragas si poteva rivelare l’arma piú dirompente proprio contro la visione neoclassica per cui lo stesso Winckelmann passò alla storia. Ne ebbe un’intuizione Goethe? Forse. Forse, professandosi non dotato delle capacità dei suoi «maestri», egli sentiva di poter cogliere qualcosa che via via è diventato piú evidente. Ossia che forze irrazionali e selvagge si muovono costantemente sotto la superficie «apollinea» dell’arte greca. Forze addirittura dirompenti nelle colonne gigantesche e in quelli che oggi ammiriamo come Telamoni. Tensioni cosí esplosive che avrebbero potuto polverizzare le fondamenta dell’ideale winckelmaniano. Un viaggiatore che secoli piú tardi concluse il suo «tour» italico in Sicilia, Guido Piovene, nel 1954 definí cosí – con la grazia dell’inesperto e l’acutezza dell’appassionato – il tempio da cui aveva avuto origine la riscoperta di Akragas: «un sogno di enormità e primato architettonico proprio dei Siciliani piú che dei Greci». Come se anche lui fosse stato costretto a credere che i Greci non oltrepassarono mai la misura, non conobbero la terribilità della hybris e non si confrontarono costantemente con quella che avevano rinominato «invidia degli dèi».
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UN INNO ALLA BELLEZZA L’ARMONIOSA IMPONENZA DEI SUOI MONUMENTI SUSCITA AMMIRAZIONE E STUPORE, OGGI COME AL TEMPO DEL GRAND TOUR: VI INVITIAMO ALLA VISITA DEL PARCO ARCHEOLOGICO E PAESAGGISTICO DELLA VALLE DEI TEMPLI di Maria Concetta Parello, Valentina Caminneci, Gianfranco Adornato, Giovanni Luca Furcas, Maria Serena Rizzo, Elisa Chiara Portale, Giuseppe Lepore, Luigi Maria Caliò, Donatella Mangione, Monica de Cesare
Strada di Agrigentum Là dura un vento che ricordo acceso nelle criniere dei cavalli obliqui in corsa lungo le pianure, vento che macchia e rode l’arenaria e il cuore dei telamoni lugubri, riversi sopra l’erba. Anima antica, grigia di rancori, torni a quel vento, annusi il delicato muschio che riveste i giganti sospinti giú dal cielo... (Salvatore Quasimodo, 1938)
C Veduta dall’alto del tempio D, detto di Giunone, che sorge sullo sperone roccioso piú elevato della Collina dei Templi.
hi voglia vivere la visita al Parco della Valle dei Templi come una vera esperienza dimentichi di poterlo fare in un paio di ore. La proposta mordi e fuggi della passeggiata lungo la Via Sacra lascia unicamente un’idea da cartolina, lontanissima dal lunghissimo racconto di una città che visse nella valle quattordici secoli prima di trasferirsi, in età medievale, sul Colle di Girgenti, dove vive ancora oggi. Gli ingressi al sito sono tre, due alle estremità della cosiddetta Collina dei Templi, l’altra in prossimità del Quartiere ellenistico-romano e del Teatro. L’ingresso del Quartiere/Teatro è quello che regala le maggiori suggestioni, anche nella percezione del magnifico paesaggio che si integra armoniosamente con il contesto monumentale. Dopo la visita al Quartiere, che conserva magnifici esempi di domus di età romana che hanno mantenuto le tracce delle loro trasformazioni fino all’età altomedievale e i resti di un impianto termale del IV secolo a.C. di recentissima scoperta, si procede verso il teatro ellenistico, ancora in corso di scavo, e quindi lungo il Cardo primo, uno degli assi principali della viabilità antica, che permette un percorso di avvicinamento alla Collina di fortissimo impatto emozionale. Scendendo verso la Valle, infatti, tornano in mente le parole di Goethe nella sua descrizione del paesaggio di Akragas: «Lo sguardo spazia sul grande clivo della città antica, tutto giardini e vigneti (...)
verso l’estremità meridionale di questo altipiano verdeggiante e fiorito si vede elevarsi il Tempio della Concordia, mentre a oriente stanno i pochi ruderi del Tempio di Giunone» e si capisce chiaramente da quale fascino furono conquistati i viaggiatori che dal Settecento vennero a visitare Agrigento e la sua Valle. Giunti lungo la Via Sacra, si può procedere andando prima verso est, fino al tempio di Giunone e poi, tornando indietro, fino al santuario delle Divinità Ctonie, passando per la passerella, realizzata pochi anni fa per risolvere la discontinuità della visita al sito, prima interrotta da un attraversamento della strada provinciale che collega Agrigento con la località balneare di San Leone. Consigliamo una deviazione verso il Ginnasio, di cui si conservano i ruderi all’interno di una bellissima campagna. Il percorso può essere rifatto all’inverso, magari spostando l’attenzione sulle tracce di frequentazione della Valle «dopo gli antichi», dagli ipogei agli arcosoli, passando per le Grotte di Fragapane, una piccola catacomba ricavata dalla rilavorazione di antiche cisterne greche, ripercorrendo all’indietro il Cardo, fino ad arrivare alla biglietteria da dove si è entrati; in alternativa, si può fruire di un servizio di navetta a pagamento che vi riporta indietro, fino al punto di partenza.
Una città in continua trasformazione Da lí è possibile spostarsi verso lo spazio pubblico della città antica, che comprende vari monumenti, tra l’altro ben conservati, come l’ekklesiasterion, il cosiddetto oratorio di Falaride – in realtà un tempietto su podio d’età romana – e il cosiddetto santuario ellenisticoromano, dove di recente è stata ricostruita, a fini didattici, una porzione del portico. Nell’area sono state conservate diverse tracce della trasformazione radicale che questa parte della città ha subíto in età tardo-antica, quando è diventata un’enorme discarica, testimonianza di una città che nel corso della sua lunga vita cambia aspetto. Non può mancare una visita al bellissimo Museo Archeologico Regionale,
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dedicato a Pietro Griffo, che racconta la storia della ricerca archeologica non solo di Agrigento, ma dell’intera provincia, e delle provincie di Caltanissetta ed Enna, un museo dell’archeologia di uno dei comprensori piú interessanti dell’intera isola, con pezzi straordinari, dall’Efebo di Agrigento al cratere di Kleophrades con la deposizione di Patroclo. Oltre al percorso che abbiamo proposto, molte sono le opzioni che permettono di godere di tanti altri aspetti del Parco: attraverso le green ways, per esempio, è possibile raggiungere l’area di Porta I e, salendo ancora, arrivare fino al tempio di Demetra sotto la chiesa di S. Biagio, da cui si gode di un panorama mozzafiato sulla città antica. Andando in direzione diametralmente opposta, si può raggiungere il tempio di Vulcano e da lí passare alla Kolymbethra, il magnifico giardino di aranci gestito dal FAI, dove si può visitare uno degli acquedotti di Feace, i condotti idraulici sotterranei che sono serviti all’approvvigionamento idrico della città. Ancora, il percorso delle green ways, costeggiando un lungo tratto delle mura meridionali, permette di vedere la città con una prospettiva insolita, ovvero dal basso verso l’alto. Informazioni utili per la visita sono disponibili all’indirizzo web: www.parcovalledeitempli.it/visita/.
Il racconto della città non finisce però alla Valle, ma prosegue verso la collina sulla cui sommità sorgeva in età greca l’acropoli, che divenne poi il cuore della città medievale e moderna. (M.C.P.)
La «via maestra» e il dedalo dei vicoli Entriamo nel centro cittadino dalla piazza della Stazione, realizzata negli anni Trenta insieme alla contigua piazza Vittorio Emanuele e al viale della Vittoria, una delle piú belle passeggiate d’Italia, da cui si può godere di una vista unica verso la valle e il mare. Attraverso la Porta di Ponte, che, abbattuta la porta medievale, ha assunto il suo aspetto attuale nell’Ottocento, si entra nella «via maestra», via Atenea. Da qui, attraverso una fitta e tortuosa rete di stretti vicoli e scalinate, penetriamo nel cuore del centro storico, tra cortili, palazzi maestosi e case dirute, eredità di un passato snodatosi tra periodi di splendore e altri di miseria e isolamento e di un presente in chiaroscuro, tra graziosi b&b appena ristrutturati e angoli ancora, purtroppo, abbandonati all’incuria. Il consiglio è di imboccare una qualunque delle viuzze che dalla via Atenea ascendono verso la sommità della collina, perdendosi nel dedalo di stradine e ripide scale, assaporando l’atmosfera di un tempo passato, tra panni stesi e profumi intensi di spezie esotiche Resti degli imponenti basamenti del tempio forse dedicato ad Atena, inglobati nella chiesa di S. Maria dei Greci, situata nel centro storico di Agrigento, sulla collina di Girgenti, un tempo l’area dell’antica acropoli.
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
La facciata della chiesa di S. Maria dei Greci, con il suo portale risalente al XIII sec.
emanati dalle cucine dei nuovi abitanti del centro storico, immigrati provenienti dall’Oriente e dall’Africa, che convivono serenamente con gli antichi residenti e con i turisti che popolano le strutture ricettive. La meta è il punto piú alto del colle di Girgenti, dove sorge la Cattedrale. Recentemente riaperta, dopo lunghi lavori di consolidamento e restauro, la cattedrale, fondata dal primo vescovo normanno Gerlando di Besançon e restaurata e modificata piú volte nel corso dei secoli, sorprende, appena vi si accede, per la grandiosità degli spazi interni e la maestosità dei volumi. Gli interventi succedutisi in epoche diverse hanno lasciato le loro tracce, visibili nella diversità delle strutture portanti e dei sistemi di copertura; colpisce il soffitto a cassettoni seicentesco, al cui centro campeggia l’aquila bicipite, stemma di Carlo V d’Asburgo. Si può scegliere di visitare la Cattedrale e i principali monumenti del centro storico con la guida dei giovani della
Cooperativa «Ecclesia Viva», che conducono il visitatore in un «percorso di arte e fede» sul colle di Girgenti. Oppure si può compiere da soli l’itinerario, che parte proprio dalla cittadella normanna e precipita giú, verso la Terranova, la città sviluppatasi nel Trecento entro la nuova cerchia delle mura, su impulso dei nuovi signori, i potenti Chiaramonte.
Da Atena alla Vergine Maria Da non perdere, in questo percorso, il Museo Diocesano e la Biblioteca Lucchesiana, lungo la via Duomo, e poi la chiesa di S. Maria dei Greci, costruita, probabilmente in epoca normanna, su un tempio dorico del V secolo a.C., forse dedicato ad Atena. Dal portico esterno si può accedere a un sotterraneo, in cui si ammirano basamento e colonne del tempio greco. E poi via, sulle tracce, numerose e imponenti, dei Chiaramonte: il bellissimo monastero di Santo Spirito e la chiesa annessa, riccamente decorata all’interno dagli stucchi della scuola
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del Serpotta, realizzati tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento; la meno nota chiesa di S. Giorgio; il monastero di S. Francesco, i cui resti sono visibili all’interno delle «Fabbriche Chiaramontane», oggi divenute uno spazio espositivo. Possiamo infine concludere il nostro viaggio lí da dove siamo partiti, nel luogo piú caro alla religiosità agrigentina: la chiesa di S. Calogero, sorta sul sito in cui la tradizione vuole che si trovasse la grotta che ospitò per alcuni anni l’eremita, morto poi sul monte Cronio, presso Sciacca. Calogero non è il patrono di Agrigento, ma è certamente il santo piú amato. Questo santo nero, taumaturgo, venuto d’oltremare durante una pestilenza, girava, secondo la tradizione, per le strade cittadine chiedendo cibo per i poveri. Temendo il contagio, gli Agrigentini lanciavano al pellegrino il pane dai balconi, proprio come avviene ancor oggi al passaggio della statua in processione. Chi capiti ad Agrigento nella prima settimana di luglio non potrà rinunciare a seguire le diverse fasi della festa principale della città, quando la processione, accompagnata da un suono ossessivo di tamburi, dalla chiesa dedicata al santo si snoda per le viuzze del centro storico, portata in spalla da portatori stremati dal caldo sole di luglio ed eccitati dal vino che scorre a fiumi. Caotica, rumorosa, colorata, la festa di San Calogero è l’espressione piú genuina dell’anima popolare degli agrigentini, che, piú che la loro devozione, esprimono in questo modo il loro amore per l’eremita vicino ai poveri, divenuto oggi simbolo della capacità di questa città di accogliere e integrare il diverso. (M.S.R.)
Le mura Polibio descrive il sito naturalmente munito della città, in cui l’opera dell’uomo si è limitata a integrare le lacune del costone roccioso. Le fortificazioni si estendono per 12 chilometri, intervallate da un numero imprecisato di porte, nove o dieci quelle piú grandi, accanto a una serie di postierle piú piccole. Mentre è quasi certo che non vi fossero porte sul lato nord,
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In Un’altra basso veduta et utemdel net laut tempio facient di Giunone: et quam fugiae officae gravemente ruptatemqui danneggiato consequedurante vite es la sae quis deris conquista rehenis cartaginese aspiciurdel sincte 406seque a.C., venne con nusam forse restaurato fugit et quiin bernate epoca laborest, romana. ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
difeso da un dirupo naturale, probabilmente invalicabile, sono riconoscibili sul lato est la Porta cosiddetta I, protetta da un poderoso bastione a tenaglia e la Porta II, detta di Gela, in quanto aperta sul vallone San Biagio, in comunicazione con la strada costiera che conduceva alla madrepatria. Sul lato meridionale, le mura offrono una singolare testimonianza del lungo uso delle emergenze di calcarenite sfruttate in età greca come baluardo, sul versante prospiciente il mare. Oltre alle sepolture paleocristiane, tagli, escavazioni e asportazioni furono eseguiti certamente anche in seguito, come provano le emergenze rocciose e i resti visibili in piú punti, in qualche caso attribuibili a fondi di cisterne, distrutte dai cavatori: verosimilmente, dunque, lo spessore del costone doveva essere di gran lunga maggiore rispetto all’attuale. Il toponimo «Latomia Mirabile», attribuito all’area delle camere funerarie presso l’edificio rurale di Casa Pace, a pochi metri dal tempio della Concordia, svela l’attività di cava, durata per secoli. I cosiddetti ipogei di Casa Malogioglio, poco distanti dal tempio di Giunone, sono quattro ambienti scavati nelle mura, destinati alla sepoltura, e sfruttati tra il XIX e il XX secolo come abitazioni rurali. Assai poco si può dire sulla Porta detta III, in prossimità del tempio di Giunone, la cui fisionomia fu stravolta dall’impianto di tombe e da un palmento in età postantica. Un’altra porta doveva aprirsi nell’area oggi occupata da Villa Aurea, magione in stile neoclassico eretta nel XIX secolo, mentre è probabile che la porta che conduceva al mare, citata da Tito Livio nel suo racconto della conquista romana della città, sia da riconoscersi nella cosiddetta Porta Aurea, sebbene sia stata profondamente alterata dalla realizzazione della strada moderna. Sempre sul lato sud, si conservano i resti della Porta detta V, una doppia porta, per frenare il potenziale invasore, probabilmente connessa al santuario dedicato alle Divinità Ctonie, che sorge proprio alla fine della strada d’accesso. Le fortificazioni sul lato ovest collegate alle porte, VI e VII, furono piú volte potenziate
durante la storia della città, a fronteggiare gli attacchi da parte dei Cartaginesi. (V.C.)
I templi «Amica di splendore, la piú bella tra le citta dei mortali, dimora di Persefone, che stai sopra l’altura bene edificata sulle rive dell’Akragas»: cosí Pindaro aveva celebrato Akragas nella Pitica 12, dedicata alla vittoria dell’auleta Mida nel 490 a.C. Una bellezza, naturale e antropica, che non sfuggí agli autori antichi, né a viaggiatori e intellettuali di età moderna. Lo storico Polibio, nel lodare le caratteristiche geomorfologiche uniche di Agrigento in un passo del libro 9 (27, 1-9), ne evidenzia la posizione particolarmente sicura e, soprattutto, la bellezza e la costruzione dei monumenti, dal circuito murario ai templi e ai portici, che decorano la città: «Il tempio di Zeus Olimpio – afferma – non è stato completato, ma per concezione (epibole) e grandezza (megethos) non sembra inferiore a nessuno di quelli della Grecia». Proprio il tempio di Zeus Olimpio è menzionato da un altro importante storico, Diodoro Siculo, il quale, collegando l’avvio del cantiere architettonico all’abbondante quantità di ricchezze e di prigionieri all’indomani della vittoria sui Cartaginesi nella battaglia di Himera (480 a.C.), fornisce una descrizione meticolosa della struttura: «La fabbrica dei santuari, e soprattutto del tempio di Zeus, rappresenta visibilmente la magnificenza degli uomini di allora. Degli altri santuari alcuni vennero incendiati, altri vennero completamente distrutti nel corso delle numerose espugnazioni della città; all’Olympieion mancava ancora il soffitto, e la guerra impedí di costruirlo: dopo la distruzione della città mai piú quelli di Akragas furono in grado di completare i lavori. Il tempio è lungo trecentoquaranta piedi, largo sessanta e alto centoventi senza il crepidoma, è il piú grande di Sicilia, e a ragione potrebbe essere paragonato anche con quelli di fuori per le dimensioni della struttura. E, anche se non si è potuto portare a compimento l’intero progetto, l’intenzione originaria è ben visibile. Inoltre,
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A sinistra ricostruzione virtuale del tempio di Zeus Olimpio.
mentre altrove i templi vengono edificati con un muro continuo, oppure sono cinti da un colonnato intorno alle celle, questo partecipa di entrambi i tipi di costruzione (...) la circonferenza della parte esterna è di venti piedi (e nelle scanalature potrebbe adattarsi comodamente un corpo umano), mentre il perimentro della parte interna misura dodici piedi. I frontoni sono di grandezza e altezza inusitate; nella parte orientale raffigurano la Gigantomachia (...) e in quella occidentale l’Ilioupersis, in cui si può vedere ciascuno degli eroi riprodotto convenientemente al ritmo della peristasi».
Piú bello della basilica di S. Pietro Dalla grandiosità e maestosità della pianta dell’edificio e delle sue componenti, dall’originalità della soluzione architettonica (i Telamoni o Atlanti), dalla bellezza del tempio rimase affascinato, tra gli altri, il barone Joseph Hermann von Riedesel, amico fraterno di Johann Joachim Winckelmann, che paragonò il tempio di Zeus Olimpio alla basilica di S. Pietro a Roma («la forma elegante del tempio stesso, molto piú bella di quella a pianta cruciforme di
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San Pietro»), e testimoniò di essere entrato agevolmente dentro una scanalatura della colonna a conferma del passo diodoreo. Il tempio dei Giganti – cosí era anche noto tra gli studiosi – divenne meta di generazioni e generazioni di intellettuali, viaggiatori e disegnatori europei, tra cui Goethe, Schinkel, Payne Knight, Houel, Wilkins, Vivant Denon, Cockerell, Hittorf, von Klenze che, tra Sette e Ottocento, giungevano a Girgenti per ammirarne la mole, disseppellire qualche frammento, disegnare i dettagli cosí poco canonici rispetto all’ordine dorico e, talora, riflettere sul senso di queste gigantesche rovine, sul colossale e sul sublime. L’architettura akragatina comincia a esprimersi in maniera originale, autonoma e indipendente dagli inizi del V secolo a.C. con il tempio A, attribuito erroneamente a Eracle (a partire da Fazello nel 1558, poi ripreso da Pancrazi e Serradifalco), molto piú probabilmente dedicato ad Apollo. Sul tempio A si riscontra, per la prima volta su un edificio templare della Sicilia, la soluzione del conflitto angolare attraverso una contrazione degli interassi angolari, anche
I resti del tempio di Zeus Olimpio. In primo piano, coricato si riconosce uno dei colossali Telamoni che in origine sorreggevano la trabeazione dell’edificio e che, in età moderna, valsero al santuario il soprannome di tempio dei Giganti.
se non ancora pienamente applicata. Con una peristasi di 6 x 15 colonne, il tempio si eleva sopra un crepidoma di tre gradini; il pronao e l’opistodomo risultano piú alti rispetto al piano di posa dell’elevato e la lunga cella è collocata ancora piú in alto. Si tratta del primo edificio periptero di Agrigento, che supera nella concezione dell’impianto e nella dispozione della cella le soluzioni architettoniche precedentemente adottate a Selinunte e Siracusa. Durante il VI secolo a.C., invece, gli edifici sacri akragantini sono caratterizzati da una comunanza di linguaggio architettonico e decorativo con le vicine maestranze di Gela e Selinunte. L’evidenza archeologica e architettonica è costituita da edifici sacri di
modeste dimensioni, che circondavano, quasi a mo’ di corona, la città sul lato meridionale: l’estremità occidentale della Collina dei Templi venne occupata intorno alla metà del VI secolo a.C. da altari e sacelli nell’area del santuario delle Divinità Ctonie. La struttura piú complessa è situata al limite nord dell’area e consta di un tempietto tripartito (15,52 x 10 m), affiancato sui lati lunghi da due vani con altari. Un secondo edificio lungo e stretto (5,40 x 6,70 m) è tripartito, con un altare quadrato sulla fronte e un pozzo esterno, sul lato meridionale. A protezione e in prossimità delle porte urbiche vennero realizzati altri edifici sacri, come quelli nelle vicinanze delle Porte I, IV e V, e il tempietto a SE del tempio B, databili intorno alla metà o nella seconda metà del secolo. Nello stesso arco cronologico, al di là della Valletta della Colimbetra, si può menzionare un tempietto bipartito (13,25 x 6,50 m), dalla esuberante decorazione architettonica, costruito nell’area del futuro tempio G e fuori
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Fra i rami d’un albero in fiore fa capolino il tempio A, detto di Ercole. Fine del VI-inizi del V sec. a.C.
dalle mura di fortificazione, un santuario extraurbano in località Sant’Anna, caratterizzato dalla presenza di materiali archeologici di matrice locale. Questi luoghi sacri servivano anche a definire meglio le aree di influenze e i confini della città rispetto al proprio territorio. Questa fase è caratterizzata da uno sperimentalismo di forme e soluzioni non solo nell’architettura, ma anche nella decorazione degli edifici sacri: a tal proposito si possono menzionare le terrecotte architettoniche rinvenute all’interno del tempio G e relative alla fase medio-arcaica del sacello. Anche i frontoni dei tempietti vengono decorati con figure mitologiche: a questo orizzonte cronologico si colloca il gruppo fittile di Medusa e Crisaore, oggi al Nationalmuseet di Copenaghen, che rappresenta la piú antica attestazione di soggetti mitologici ad Agrigento.
Un nuovo assetto urbanistico Due generazioni dopo la fondazione di Akragas, negli ultimi decenni del VI secolo a.C., si assiste a un rinnovamento della fisionomia della città: la struttura urbanistica, infatti, viene organizzata con griglie di isolati ortogonali caratterizzati da orientamenti differenziati. Questo ha un impatto anche sulla definizione delle aree sacre e sugli orientamenti degli edifici templari: sul terrazzo che si affaccia verso la valletta della Colimbetra venne monumentalizzata un’area destinata a ricevere donari di vario tipo; vengono costruiti il tempietto 1 e l’edificio sacro a nord del tempio I e, successivamente, il tempio L e l’Olympieion, ormai orientati secondo il nuovo schema ortogonale della pianta urbana. I cantieri architettonici dei templi A e B costituiscono segni tangibili non solo di monumentalità, originalità e sperimentazione, ma anche di ricchezza e di competizione con le città limitrofe e lontane, durante il periodo della tirannide di Terone (488-471 a.C.). Nella prima metà del V secolo a.C. si assiste
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principi di estrema razionalità e proporzione. Il tempio D venne particolarmente ammirato dai viaggiatori e vedutisti settecenteschi, perché rappresentava il perfetto equilibrio tra l’evidenza architettonica e il fascino delle rovine, svettando sullo sperone sud-orientale della Collina meridionale. Il tempio F, periptero esastilo, databile generalmente intorno al 440-430 a.C., si erge su un potente basamento, con una fondazione a vespaio; il suo ottimo stato di conservazione si deve alla trasformazione in basilica cristiana da parte del vescovo Gregorio, il quale, dopo In alto la chiesa di S. Biagio, che ha incorporato i resti del tempio C o di Demetra.
alla costruzione di altri edifici sacri, come il tempio C o di Demetra a San Biagio, quello attribuito ad Atena sulla Collina di Girgenti, i cui resti furono inglobati nella chiesa di S. Maria dei Greci, i templi I, detto dei Dioscuri, ed L nel santuario delle Divinità Ctonie. Il tempio B o di Zeus Olimpio si ergeva su un crepidoma di 5 gradini, su un rettangolo di base pari a circa 56,30 x 113,45 m; il colonnato aperto è sostituito da una pseudo-peristasi di mezze colonne (7 x 14), a cui corrispondono pilastri rettangolari nella parte interna. È stato calcolato che le semicolonne misurassero 18 m circa d’altezza. Sulla fronte orientale è presente l’altare, che occupa 54,50 x 17,50 m. In questo tempio l’architetto ha recepito e rielaborato le formule tipiche dei templi colossali della Ionia (come l’Heraion di Samo, l’Artemision di Efeso, l’Apollonion di Didima), successivamente riprese ad Atene (l’Olympieion) e a Selinunte (si tratta dei templi F e G), proponendo soluzioni innovative e peculiari sia nella pianta che nell’elevato. Subito dopo la caduta della tirannide emmenide, viene instaurato un regime democratico (471-406 a.C.): a questa fase vengono assegnati altri imponenti cantieri architettonici, come i templi «gemelli» D (detto di Hera Lacinia) e F (detto della Concordia), che elaborano compiutamente il canone dell’ordine dorico. Su entrambi gli edifici si applicano
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In bassoscacciato et utem neti demoni Eber e Raps, lo avere laut facient et quam dedicò ai santi apostoli Pietro e Paolo. fugiae officae All’ultimo terzo del V secolo si data il tempio G, ruptatemqui detto di Vulcano, periptero con 6 x 13 colonne. conseque vite es Ancora nella seconda metà del IV secolo a.C. sae quis deris le maestranze rehenis aspiciur akragantine sono capaci di sincte sequeecon elaborare proporre nuove soluzioni, come nel nusam fugit et qui H, dedicato al dio Asclepio, caso del tempio bernate laborest, ut distilo in antis, con due semicolonne a definire ut aliquam rentus la struttura di uno pseudo-opistodomo. In uso magnim ullorepra fino al periodo medio-ellenistico, collocato serro dolum fuori dal circuito di fortificazione, il santuario era accessibile da un propylon e
I resti del tempio I, detto dei Dioscuri.
prevedeva, oltre al tempio vero e proprio, varie strutture, come l’abaton, connesse ai riti salutari e incubatori del culto di Asclepio. Da questa panoramica, risulta che la «scuola» architettonica di Agrigento seppe maturare, dall’età arcaica fino a quella ellenistica e oltre, elementi stilistico-formali peculiari, distinguendosi nel contesto piú generale delle officine operanti in Sicilia, in Grecia e nel resto del Mediterraneo. Proponendo soluzioni sempre originali e, talora, ardite, ammirate ancora oggi da studiosi e visitatori. (G.A.)
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Akragas città delle acque
L
a «piú bella città dei mortali» dovette di articolate ramificazioni, aventi uno sviluppo che certamente la sua fama anche alle imponenti solitamente oscilla tra i 100 e i 250 m. Tra essi installazioni idrauliche, annoverabili tra le piú merita una particolare menzione il cosiddetto celebri realizzazioni dell’ingegneria greca, frutto Ipogeo di Bonamorone che, con una lunghezza di dell’ambizioso programma edilizio del tiranno 900 m circa, rappresenta il sistema di maggiore Terone all’indomani della battaglia che vide la estensione sinora riscontrato. Questi complessi, in città e l’alleata Siracusa precedenza ritenuti imporsi sui Cartaginesi a collegati a formare una Ipogeo «Santuario Rupestre» Imera nel 480 a.C. colossale rete unitaria, Diodoro Siculo, lo storico appaiono in realtà privi di siceliota vissuto nel I comunicazione tra loro; il secolo a.C., ricorda infatti sistema ipogeo di Ramo 2 che numerosi prigionieri approvvigionamento Ramo 1 cartaginesi catturati dopo risulta pertanto composto la battaglia furono da numerosi impianti impiegati per realizzare indipendenti, realizzati in opere di pubblica utilità; differenti punti oltre che per erigere nuovi dell’insediamento cosí da Imboccatura edifici sacri, l’ingente garantire il rifornimento manodopera sarebbe stata idrico ai diversi settori sfruttata per realizzare alcune opere idrauliche di abitativi. La grandiosità di questa infrastruttura assoluto rilievo: un imponente bacino sotterranea è documentata efficacemente dalla semiartificiale (la Colimbetra) e canali sotterranei, lunghezza totale dei cunicoli ancora percorribili, secondo lo storico funzionali allo «scolo delle pari a 2,5 km circa, una misura che, oltretutto, acque della città» e chiamati «feaci» dal nome del riflette solo parzialmente la reale estensione del soprintendente preposto ai lavori, tale Feace. sistema (numerosi cunicoli risultano, infatti, All’opera di Feace è solitamente associato un interrotti da dissesti). Nel tempo, il sistema fu complesso apparato di approvvigionamento oggetto di significative integrazioni; a una fase costituito da cunicoli di captazione, detti «ipogei» post-classica (periodo ellenistico o romano nella tradizione locale, di cui sussistono ampie imperiale) può essere ascritta, per esempio, la testimonianze nel sito. Questo ingegnoso sistema costruzione del suggestivo Ipogeo Giacatello, un di rifornimento si avvaleva di gallerie tagliate vasto serbatoio sotterraneo con pianta rettangolare nella roccia (ampie 0,50-1,10 m, alte 1,60-1,90 m) di 19 m circa per lato, ripartita in navate da 49 che penetrano nel sottosuolo del sito per captare pilastri, alimentato da un cunicolo di captazione. le acque sotterranee e lasciarle defluire verso lo Accanto alle opere di approvvigionamento, sbocco del tunnel, collocato in superficie, dando cosí origine a vere e proprie sorgenti artificiali. In corrispondenza dello sbocco doveva disporsi una vasca o una fontana, attraverso cui la popolazione poteva quotidianamente rifornirsi d’acqua (se ne ha un esempio monumentale nella grande fontana del cosiddetto «Santuario Rupestre» di San Biagio). Questa tecnica di approvvigionamento, relativamente diffusa tra i Greci, fu applicata ad Akragas con una capillarità difficilmente riscontrabile in altri contesti del mondo ellenico; nella Valle dei Templi recenti ricerche hanno permesso di censire 26 differenti complessi cunicolari, costituiti da un’unica galleria o dotati
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In alto l’interno dell’imponente serbatoio ipostilo denominato «Ipogeo Giacatello». Nella pagina accanto, in alto pianta del cunicolo che alimentava la fontana monumentale del «Santuario Rupestre» a San Biagio, articolato in due rami e indagabile per 130 m circa. Nella pagina accanto, in basso interno dell’Ipogeo Amela 2, ancora interessato da una cospicua attività idrica.
importanti lavori idraulici riguardarono inoltre la regimentazione delle acque e, in particolare, la sistemazione di alcuni torrenti che attraversano l’area occupata dalla città greca. Tali corsi d’acqua, oggi di portata decisamente modesta, furono soggetti nell’antichità a importanti esondazioni, rappresentando evidentemente per la città un elemento da tenere adeguatamente sotto controllo. In effetti, secondo una recente ipotesi, sembra che i torrenti siano stati oggetto in passato di un importante intervento di regimentazione, che portò a imbrigliare lunghi tratti dei corsi d’acqua all’interno di robusti canali coperti strutturati in massicci blocchi di pietra. Ancora visibili sino alla metà dello scorso secolo, i canali sembrerebbero oggi quasi totalmente scomparsi; ne sopravvive tuttavia un breve tratto che attraversa con percorso sotterraneo l’isolato occupato dal Ginnasio. Tali impianti risultano databili al V secolo a.C. e sono anch’essi da ricondurre al grande programma edilizio promosso da Terone (Diodoro, come detto in precedenza, parla infatti esplicitamente di canali «per lo scolo delle acque»). Destinati quindi a rimodernare profondamente le infrastrutture urbane, i lavori a cui Feace sovrintese trovarono il loro grandioso coronamento – la loro mostra d’acqua potremmo definirla – nella costruzione della Colimbetra, l’imponente bacino semiartificiale che, secondo Diodoro Siculo, aveva un perimetro di «sette stadi» (1250 m circa) e una profondità di «venti braccia» (9 m circa). L’impianto
doveva probabilmente collocarsi nella piccola valle posta tra la Collina dei Templi e il tempio detto di «Vulcano», oggi sede di un lussureggiante giardino irrigato dall’acqua proveniente dai numerosi cunicoli idraulici che si aprono nelle alte pareti rocciose che circondano l’area. Dell’opera, del resto già interratasi all’epoca di Diodoro, non è sinora emersa alcuna chiara traccia archeologica; osservando l’attuale natura del luogo e grazie alla descrizione dello storico, possiamo tuttavia immaginarla come uno splendido stagno artificiale, animato da cigni e popolato da pesci pregiati, uno specchio d’acqua circondato dalle fontane alimentate dai cunicoli e armonicamente integrato nel paesaggio. Si trattava quindi di un luogo ameno e rigoglioso forse ispirato, secondo un’affascinante ipotesi dell’archeologa francese Sophie Bouffier, ai paradeisoi, i meravigliosi parchi reali elaborati nell’impero persiano. È interessante notare che, a differenza delle altre opere idrauliche precedentemente ricordate, il grandioso invaso non sembrerebbe aver assolto a finalità strettamente pratiche, poiché difficilmente poté essere utilizzato come riserva d’acqua potabile o come bacino per l’irrigazione. Il suo scopo dovette piuttosto essere quello di celebrare il grande programma edilizio voluto da Terone e, attraverso questo, la figura stessa del tiranno, divenendo un emblema della ricchezza e della prosperità raggiunta dalla città nel V secolo a.C. (G.L.F.)
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L’abitato L’area cinta dalle possenti mura di Akragas sembra sia stata, in età arcaica e classica, interamente urbanizzata. Saggi archeologici in profondità effettuati nell’area dell’abitato di età ellenistica e romana hanno rintracciato piccole porzioni di muri del VI e V secolo a.C., orientati in modo simile alle strutture di epoca piú tarda. Una porzione di abitato, edificata, a quanto sembra, nell’ultimo quarto del VI secolo a.C., è
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stata recentemente messa in luce a nord della Collina dei Templi, tra il tempio di Giunone e quello della Concordia. L’impianto urbano appare già a quell’epoca definito, con le dimensioni degli isolati e gli orientamenti che manterrà successivamente. Quest’area rimane abitata fino al IV-III secolo a.C., mentre sarà poi abbandonata, cosí come avverrà per altre aree periferiche dell’insediamento urbano, disabitate o utilizzate per attività artigianali.
Ricostruzione virtuale dell’area urbana dell’antica Akragas.
Negli stessi anni, l’area centrale della città antica fu invece investita da un’intensa attività edilizia, che non riguardò soltanto gli spazi pubblici – con l’ampliamento e la monumentalizzazione dell’agorà e la costruzione del teatro –, ma anche le case dei privati cittadini. Nell’area di San Nicola, adiacente all’agorà ellenistica e al Foro di epoca romana, si estende il cosiddetto «Quartiere ellenistico-romano», un’ampia porzione dell’abitato di età ellenistica e romana.
Uno schema regolare, ma flessibile Si tratta di parte di tre isolati, messi in luce negli anni Cinquanta del Novecento, piú una piccola porzione di un quarto isolato, scavato negli ultimi anni. Gli isolati sono larghi 32/35 m e sono separati da strade (stenopoi/cardines), larghe m 5,50 circa, che corrono da nord-est a sud-ovest; a nord, strade e isolati incrociano perpendicolarmente una grande arteria con direzione NO-SE (plateia/decumano), in parte ripercorsa dall’attuale via Panoramica dei Templi. Sulla base dello scavo del quartiere e grazie alla lettura delle fotografie aeree, Giulio Schmiedt e Pietro Griffo proposero, nel 1958, una ricostruzione del piano urbanistico della città antica, basato su 5 o 6 plateiai con andamento NO-SE, incrociate ortogonalmente da 30 stenopoi, a delimitare isolati larghi 35 m circa e lunghi tra i 250 e i 340. Grazie ad alcuni saggi in profondità, è stato ipotizzato che l’impianto urbano sia stato definito tra la fine del VI e i primi decenni del V secolo a.C.: prima, comunque, della costruzione del tempio di Zeus Olimpio, il cui orientamento si adatta alla maglia regolare. Una ricerca recente ha però rivisto in parte questa ricostruzione, riconoscendo l’esistenza di altre due strade E-O, che dimezzerebbero la lunghezza degli isolati piú meridionali, mentre ipotizza che alcuni degli isolati potevano avere una larghezza maggiore dei 35 m canonici. Il sistema risulterebbe cosí piú flessibile, per meglio adattarsi all’orografia del sito e rendere piú agevole il passaggio tra gli isolati. Essenziale, nell’organizzazione del quartiere, è
il sistema di smaltimento delle acque reflue, che avveniva grazie a stretti canali che dividevano in due gli isolati nel senso della lunghezza e che li tagliavano trasversalmente, a separare tra loro le abitazioni. La rete dei canali aiutava anche a superare il dislivello tra le diverse terrazze sulle quali erano disposte le case, che si adattavano in questo modo alla pendenza naturale del declivio collinare, digradante da nord verso sud e da est verso ovest. Proprio per superare la differenza di quota tra le terrazze, le strade, si trasformano talvolta in scale, come avviene nel cosiddetto Cardo I, nel punto di raccordo tra il quartiere e la terrazza superiore del teatro. Scale vennero costruite anche per poter scendere dalla quota di calpestio della strada al vano di ingresso delle abitazioni, il cui piano inferiore era dunque parzialmente interrato, garantendo forse in questo modo una maggiore tenuta termica, soprattutto nelle calde estati agrigentine. Nella forma che si può ammirare attualmente, le case sono il frutto di restauri, ristrutturazioni, ampliamenti, trasformazioni realizzate nel corso di secoli, a partire dal II a.C., quando vennero costruite la maggior parte delle abitazioni del quartiere, assumendo i caratteri che, nelle linee generali, saranno rispettati anche dagli interventi successivi. L’elemento caratterizzante, dal punto di vista planimetrico, è il cortile centrale, intorno al quale si dispongono i diversi ambienti; sul lato nord della corte venne in molti casi collocato un porticato, che offriva agli abitanti della casa uno spazio coperto nel quale poter svolgere le attività quotidiane; sul portico, che gli studiosi chiamano, con un termine greco, pastàs, si affacciava in genere una serie di tre vani, un’esedra fiancheggiata da due sale di rappresentanza, destinate al ricevimento degli ospiti da parte del padrone di casa. Sugli altri lati si disponevano le altre stanze, destinate alle donne e alle attività degli schiavi domestici. Alcune abitazioni avevano anche un primo piano, del quale sono stati rinvenuti nello scavo i pavimenti crollati e le decorazioni
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dipinte delle pareti. Esempi di case che hanno mantenuto questo tipo di organizzazione anche attraverso i restauri successivi si possono osservare all’estremità settentrionale dell’isolato II e nell’isolato III, dove si trovano, tra le altre, le Case IIIA e IIIM, oggetto di scavi e approfondimenti recenti da parte dell’Università di Bologna. Successivamente, in molte abitazioni le corti centrali vennero ristrutturate, con l’erezione di portici colonnati su tutti i lati, che le trasformarono in peristili, secondo una moda ellenistica adottata anche in ambiente italico. Ciò è ben evidente, per esempio, nella Casa IIC o nella IIIA. Vi sono poi poche grandi case che si sviluppano sull’intera larghezza dell’isolato, oltrepassando anche, in lunghezza, i precedenti limiti segnati dai canali di scolo. Un esempio di particolare impegno è rappresentato dalla Casa IA/IB, che si estende per piú di 1800 mq e somiglia, per le soluzioni adottate, ad alcune delle piú prestigiose case pompeiane, tanto da far ipotizzare che il proprietario fosse un Romano stabilitosi ad Agrigento.
Mosaici simili a pitture Le abitazioni del quartiere conservano anche i resti degli elementi decorativi che le rendevano piú accoglienti e mettevano in mostra la ricchezza e il ruolo sociale del padrone di casa: pavimenti in cocciopesto decorati con tessere bianche che formano vari disegni, mosaici, pitture parietali. Tra i pavimenti piú elaborati, vi è certamente quello della Casa IIA, con cubi prospettici resi con marmi di diverso colore, al centro di una complessa cornice di girali e meandri. Per la ricchezza del suo apparato decorativo si distingue la Casa IE/IF: molti vani hanno infatti pavimenti a mosaico, con motivi floreali e geometrici, che circondavano in diversi casi un quadretto centrale, un émblema, realizzato con tessere di dimensioni piccolissime, che consentivano di ottenere immagini ricche di dettagli e con effetti di chiaroscuro che le fanno somigliare a pitture. Questi quadretti sono stati in genere asportati per poter essere meglio conservati e protetti e
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si possono ammirare all’interno del vicino Museo Archeologico «Pietro Griffo»: per il soggetto scelto e per l’accuratezza della sua esecuzione, spicca certamente l’émblema con la rappresentazione di una gazzella alla fonte, che dà il nome alla casa. Questa ricca domus conserva anche i resti della decorazione dipinta su intonaco delle pareti, sulla base della quale si può ricostruire un sistema decorativo ad ampie campiture, tipico del III secolo d.C. Ricchi mosaici policromi decorano anche la Casa IIL, detta del Maestro astrattista dal mosaico che decora il vano a nord del cortile centrale, che suggerisce a noi moderni l’idea di una pittura astratta, ma intendeva in realtà imitare, in materiale meno costoso, un pregiato pavimento in mattonelle esagonali di marmi policromi. Nella stessa casa si può ammirare anche un pavimento decorato con medaglioni contenenti rappresentazioni di animali selvatici, motivo sviluppato soprattutto dagli artigiani dell’Africa settentrionale. Gli scavi archeologici hanno dimostrato che dalla fine del IV secolo e soprattutto nel corso del V le case del Quartiere subirono un processo di degrado e di abbandono. Molte stanze, che evidentemente non venivano piú utilizzate, furono riempite di terra e pietrame; in altre si continuò a vivere, ma in forme molto piú impoverite: i bei pavimenti delle abitazioni piú antiche, per esempio, vennero nascosti da piani in semplice terra battuta. A partire dal VI secolo, gruppi di tombe costruite con lastre di pietra furono inseriti all’interno di alcuni vani, come avviene d’altronde nella stessa epoca in altre città del Mediterraneo: un segno del cambiamento di mentalità nei confronti della morte e dei defunti introdotto dal cristianesimo e della trasformazione dell’idea stessa di città alle soglie del Medioevo. (M.S.R.)
Uno scorcio del Quartiere ellenistico-romano, i cui edifici occuparono un’area adiacente all’agorà ellenistica e al Foro di epoca romana.
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I mosaici
A
d Agrigentum, come altrove, l’adozione di pregiate stesure pavimentali a mosaico è un fenomeno elitario. Quasi tutti gli esempi noti appartengono, infatti, a poche domus del nucleo residenziale limitrofo all’agorà-Foro (il Quartiere ellenistico-romano), che in genere spiccano anche per dimensioni e monumentalità dell’impianto; anche il mosaico con raffinata trama geometrica (150-180 d.C. circa) conservato in situ presso l’ex ekklesiasterion faceva parte di una domus confinante con l’area forense, da riferire presumibilmente a uno dei personaggi piú influenti in città. Ovviamente, anche per gli edifici pubblici si poteva ricorrere a simili decorazioni, insieme al piú lussuoso opus sectile, un rivestimento di tarsie marmoree policrome probabilmente prediletto in tali contesti ma spesso depredato in seguito per riutilizzarne i materiali, come nel frigidarium delle Terme nell’Insula IV (parte est del quartiere residenziale). Per esempio, un mosaico piuttosto grossolano, a fondo bianco con cornice a semplici
Case del Quartiere ellenistico-romano i cui ambienti conservano le pavimentazioni di pregio: in primo piano esempio di opus signinum a ornato geometrico-lineare.
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girali rossi, fu inserito nel bouleuterion/curia in un rifacimento dell’avanzato III secolo d.C. volto ad adattare la struttura per l’esecuzione di audizioni musicali e declamazioni: a questo ambito si confanno, invero, le figurazioni superstiti di un grifone e un tripode che alludono al culto di Apollo, patrono della poesia e della musica. Dalla tarda età ellenistica al periodo augusteo (II-I secolo a.C.-inizi del I secolo d.C.) sono appena quattro le case che presentano uno o piú pavimenti a mosaico e/o in opus sectile, le piú grandi della città (II B, II A, I E-F e I A-B, di tipologia romana ad atrio e peristilio). Piú diffuso invece, tra i rivestimenti di pregio, è l’opus signinum, un cocciopesto con inserite tessere bianche che creano raffinati ornati geometrici (meandri, punteggiati) o anche floreali, con gradevole effetto bicromo; lo stesso repertorio geometrico lineare può essere riprodotto in mosaici a tessere nere o blu su fondo bianco, apprezzati fra la tarda età repubblicana e gli inizi di quella imperiale (come
nel mosaico con reticolato di rombi nella sala d1 della Casa della Gazzella). Il genere piú prestigioso sembra essere l’opus sectile, con un peculiare schema a cubi prospettici ottenuti dalla giustapposizione di piastrelle romboidali di tre colori, riprodotto nel «quadro» centrale (emblema) al centro di un mosaico bianco, talvolta con cornice a motivi geometrici (cosí nella Casa del Mosaico a rombi, II A). Questo schema di ispirazione architettonica viene spesso impiegato per decorare edifici di culto, e sembra quindi adatto a conferire una particolare solennità all’allestimento. Se ne ritrova la riproduzione in pittura anche in decorazioni parietali di Secondo Stile (I secolo a.C.) da domus dello stesso quartiere (II E, III M, e I E-F), fra cui la Casa della Gazzella, che restituisce le testimonianze di maggior interesse per seguire lo sviluppo dei mosaici fra quest’epoca e la piena età imperiale. A sistemi decorativi di carattere ellenistico, basati sul suddetto principio del «quadro» inserito al centro del tappeto musivo, appartengono i tre emblemata rinvenuti nell’abitazione, tutti figurati e qualificati da una sensibile resa chiaroscurale grazie alla tecnica dell’opus vermiculatum: il quadretto figurato, cioè, è realizzato con tessere che misurano pochi millimetri (max. 5), in modo da camuffare la discontinuità del medium e dare l’impressione di una pittura, con tonalità degradanti, effetti luministici e minuziosità di dettagli. L’esecuzione di questi autentici tour de force dell’arte musiva era affidata ad artigiani specializzati, di formazione ellenistico-orientale, che operavano in atelier in grado di inviare a distanza i loro prodotti. Gli emblemata, infatti, erano perlopiú prefabbricati, montati su supporti rigidi quali tegole piane (come nel nostro caso) o lastre di travertino; giunti a destinazione, venivano incassati nell’apposito spazio loro riservato al centro del pavimento, che per il resto era costituito da un mosaico a tessere standard (opus tessellatum) o da un cementizio bianco o bicromo (opus signinum). Il valore di questi manufatti e la loro natura di inserti preziosi spiegano come mai, nel caso di rifacimenti dell’arredo, essi venissero spesso recuperati e riutilizzati nelle nuove stesure pavimentali. Questo è proprio il caso degli emblemata della Casa della Gazzella, risalenti a
età augustea o al piú giulio-claudia, ma reinseriti entro nuovi sistemi decorativi verso il 200 d.C., quando la sontuosa abitazione venne riqualificata e riallestita. In particolare, il quadretto che ha dato il nome alla casa – raffigurante una gazzella che si abbevera specchiandosi nell’acqua – era stato ricollocato al centro di un elaborato intreccio musivo a stelle tangenti date da moduli romboidali, che include negli spazi di risulta tra i «raggi» riquadri geometrici con motivi floreali e «nodi di Salomone» (vano g1). Il cromatismo delicato dell’emblema, con lo sfondo neutro su cui sono «ritagliati», con gusto classicheggiante, le figure e gli elementi di ambientazione (la roccia, la cascatella e lo speco con il riflesso dell’animale, l’albero e il prato su cui si proietta l’ombra), e il tono idillico della rappresentazione spiccano e contrario nella fitta trama del pavimento, dominata invece da scansioni precise e netti contrasti cromatici, tradendo l’innesto di un «oggetto d’arte» piú antico. Nel mosaico medio-imperiale, come in altri esemplari coevi nelle domus del Maestro astrattista (II L), delle Pelte (III H) e presso l’ex ekklesiasterion, l’impianto decorativo obbedisce a una stringente dinamica progettuale, assai diversa dallo schema centripeto a cui doveva essere destinato in origine il quadretto con la gazzella. Si tratta di scompartire lo spazio per calibrarvi la campitura a tappeto, creando multiple figure geometriche tramite la combinazione dei moduli, con alternanze/ rispondenze tra gli elementi ornamentali e i colori, ed effetti (talora tridimensionali) che «catturano» l’osservatore. Tale concezione e l’ornato ricco, spesso vivamente policromo, richiamano da vicino l’arte del mosaico africano coevo, di cui si può cogliere l’irradiazione nella prospiciente isola mediterranea (in forma di maestranze itineranti e perfino di «filiali» impiantate in Sicilia, o quanto meno come influenza e diffusione di modelli), dall’avanzato II e III secolo, ad Agrigento, Lilibeo, Centuripe, Siracusa, Palermo, fino all’eccezionale complesso costantiniano di Piazza Armerina. Gli altri due emblemata tardo- o sub-ellenistici della Casa della Gazzella, probabilmente abbinati ab origine, furono ricollocati in un nuovo pavimento musivo di impronta «africana» nel vano o, aperto a mo’ di esedra sul grande peristilio con
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Mosaico policromo con pannello centrale in opus sectile che orna un ambiente della Casa del Mosaico a rombi.
giardino. Nella trama regolare, creata da spessi festoni vegetali policromi con frutti e maschere, si ripartiscono sei pannelli quadrangolari (forse otto in origine). I due ancora in situ, con i busti delle personificazioni femminili rispettivamente della Primavera (con canestro di frutti e fiori) e dell’Estate (con corona e mazzo di spighe e falcetto), sono coevi alla restante stesura pavimentale e consentono di immaginare le effigi delle altre due Stagioni nei pannelli mancanti nella parte sinistra del mosaico; al centro erano gli emblemata piú antichi in opus vermiculatum, ciascuno con le figure di un gallinaceo e vari oggetti disposti su due livelli. Tale tema, ben noto in mosaici e pitture databili tra il II secolo a.C. e il I d.C. e riprodotto in forma piú astratta fino alla tarda antichità, si ricollega alla pratica dei doni (xenia) offerti dal padrone di casa all’ospite, ovvero vettovaglie e animali da cucinare (volatili, cacciagione, pesci), che, insieme a diversi oggetti simbolici e da mensa, ispirano un apprezzato filone della poesia epigrammatica e dell’arte figurativa. Nel nostro caso, le zampe legate dei gallinacei denotano la loro destinazione culinaria, cosí
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come la cesta rovesciata dalla quale sono fuoriusciti alcuni datteri e un fico o una castagna, nel quadretto con la gallina, mentre nel pendant sembra di scorgere anche un mazzo di asparagi e un cedro; contribuiscono all’effetto di «natura morta» la fiaccola (?) dietro la gallina e il borsellino in bella vista fra gli oggetti scivolati dalla cesta, nel primo emblema, e l’analogo portamonete (?) sul cestino, nel secondo. L’insieme assumeva connotazioni positive legate alla prodigalità del banchetto e al tenore di vita del proprietario, ma anche all’abbondanza della natura, evocata nella sua capacità di produrre nei diversi periodi dell’anno e di rigenerarsi: un concetto certamente sottolineato dall’associazione con i busti delle Stagioni e i festoni carichi di frutti nel nuovo contesto figurativo. In realtà, il tema della ricchezza della natura e del benessere può essere colto anche negli esuberanti intrecci geometrico-vegetali che includono medaglioni con cesti di frutta e fiori o con protomi di animali, o pesci, e, piú in generale, può riconoscersi come filo conduttore degli allestimenti musivi medio-imperiali. L’esempio meglio preservato è dato dalla Casa del
Maestro astrattista (II L), interamente ridecorata negli spazi di rappresentanza intorno al 200 d.C., a esclusione di un ambiente (f) fornito probabilmente già nel I secolo d.C. di un raffinato mosaico bianco-nero a meandri con svastiche e quadrati costituiti da spine rettilinee, secondo il gusto piú sorvegliato dell’epoca. Gli altri ambienti di ricevimento ripropongono gli stilemi «africani» già ricordati, con una sintassi piú serrata nel vano g, dove l’intreccio di figure geometriche con fastosi bordi policromi determina quattro grandi ottagoni, ciascuno dei quali comprende due quadrati allacciati e un grande medaglione con oggetti dal simbolismo beneaugurante: canestri con bouquet di fiori e coppie di volatili rinviano, anche qui, a concetti di benessere, ricchezza e armonia della natura. Cosí, nel vano trasverso c1, anteposto agli ambienti per banchetto sul lato nord, le maglie a sagoma geometrica (ottagonali, triangolari e rettangolari) recanti figure di anatre, pesci nuotanti, tralci con frutti, delimitano tre medaglioni cinti da spessi festoni vegetali con un
In alto il quadretto raffigurante una gazzella che si abbevera e che ha dato nome a una delle domus piú ricche del Quartiere ellenistico-romano. In basso uno degli eleganti mosaici che ornano il vano c1 della Casa del Maestro astrattista.
animale isolato al centro (pantera, cavallo in corsa). Invece, nel tappeto musivo delimitato da motivi «architettonici» (cornici a mensole prospettiche e a finto marmo) della sala mediana della suite (e), la rete di esagoni viene illusionisticamente trasformata, con l’imitazione delle venature e macule dei marmi policromi, in un opus sectile di prezioso marmo giallo numidico. Quest’insolita soluzione (il motivo è documentato piuttosto per porzioni limitate dello schema decorativo, in mosaici della Sardegna e dell’Africa) è apparsa non del tutto convincente in termini di realismo, sí da far tacciare l’esecutore come una sorta di «maestro astrattista» ante litteram. Di certo, però, essa è evocativa del benessere materiale e di uno status altolocato, prestandosi, insieme agli altri mosaici, a esaltare il dominus padrone di casa quale prospero e munifico possidente, forse perfino in grado di offrire ludi: l’esponente-tipo, si direbbe, di un’élite municipale ben inserita in circuiti, di merci e di idee, che travalicano ampiamente il quadro locale e in particolare connettono, con ulteriore intensità da quest’epoca, le sponde meridionali del Mare nostrum. (E.C.P.)
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I colori di Agrigentum
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el 2016, quando sono state avviate le attività nell’insula (isolato) III del Quartiere ellenistico-romano di Agrigento, nessuno dei ricercatori coinvolti poteva immaginare di dedicarsi allo studio della pittura ellenistica: in fase di programmazione, si erano presi in considerazione l’urbanistica, le strade, la dimensione degli isolati e dei lotti assegnati a ogni cittadino, gli ambitus (canali di deflusso che dividevano le case di abitazione) oppure le forme delle abitazioni. Invece, come spesso succede in archeologia, le indagini hanno imboccato una strada diversa e hanno condotto al recupero e allo studio di una cospicua mole di intonaci dipinti rinvenuti in un’abitazione del tutto nuova, denominata (seguendo la numerazione impostata da Ernesto De Miro) Casa III M.
L’area occupata dalla Casa III M ha subíto nel tempo una sorte particolare: destinata nel 1954, al temine dello scavo dell’insula III, a ricevere la terra di risulta degli altri scavi, non è stata piú intaccata dalla ricerche successive. Solo nel 2016, alla ripresa delle ricerche da parte dell’Università di Bologna, in Convenzione col Parco Archeologico e Paesaggistico Valle dei Templi di Agrigento, questo settore è stato compreso nelle indagini geofisiche sistematiche avviate nell’ambito del progetto di studio di questa porzione dell’abitato. I nuovi dati sono stati sorprendenti: è emersa una nuova abitazione, estesa per 500 mq circa, e strutturata secondo il ben noto schema della casa greca «a pastàs», ampiamente utilizzato in tutto il Quartiere ellenistico-romano. Si tratta, di norma, di una casa
In basso planimetria della Casa III M, oggetto di indagini sistematiche a partire dal 2016. Nella pagina accanto, in alto ricostruzione grafica del motivo decorativo che presenta un bugnato i cui elementi imitano marmi policromi. Nella pagina accanto, in basso ricostruzione grafica della sequenza secondo la quale si procedeva alla stesura delle pitture murali (da un vano del piano superiore della Casa III M).
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In realtà, il tema della pittura era già stato impostato pochi mesi prima dello scavo, ma solo per quanto riguarda i frammenti rinvenuti nei primi scavi degli anni Cinquanta del Novecento: un progetto, denominato «Pinxerunt» era stato da poco avviato, grazie alla grande disponibilità del Parco e delle sue archeologhe. Questa attività, che nasceva anche con la specifica volontà di formare giovani ricercatori sul tema della pittura antica, aveva dapprima lo scopo di schedare, utilizzando una banca dati messa a punto dall’Università di Padova (TECT), i frammenti pittorici emersi nel tempo dal Quartiere e conservati nei magazzini del Parco e del Museo Archeologico «Pietro Griffo» di Agrigento. Il progetto, al quale hanno aderito con entusiasmo ben sei Università italiane (oltre a Bologna, che ha coordinato tutte le operazioni, Padova, Palermo, Messina, Napoli Federico II, Enna), si è ben presto esteso a tutti i resti pittorici rinvenuti in Sicilia, trasformandosi sempre piú in un moderno collettore di informazioni per impostare caratterizzata da un cortile centrale e da un portico sul lato breve (la pastàs appunto), che disimpegna la parte piú prestigiosa della casa. Quest’ultima si dispone nel settore settentrionale del lotto e si articola in tre vani in sequenza: al centro un’esedra, dove il padrone di casa riceve gli ospiti ed espone gli arredi piú prestigiosi e lussuosi; ai lati due andrones, stanze destinate, secondo l’uso greco, alla pratica del simposio e della convivialità, sempre all’interno di gruppi ristretti di individui privilegiati e selezionati. Come già accennato, questa casa, a oggi solo parzialmente scavata, è stata denominata III M per seguire la numerazione data dall’archeologo che per primo ha indagato il Quartiere ellenisticoromano di Agrigento, Ernesto De Miro, e che si era fermato, nella sua numerazione, alla Casa III L. Nell’ottobre 2019, al termine dell’annuale campagna di scavi, si decide di dare comunicazione anche al grande pubblico dei primi risultati della ricerca, nell’ottica della piú moderna archeologia pubblica: il 1° dicembre 2019, infatti, si inaugura la mostra «I colori di Agrigentum» e viene distribuito il catalogo con le prime ricostruzioni dei contesti pittorici della Casa III M e dell’intero Quartiere ellenistico-romano.
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ALLA SCOPERTA DEL PARCO
lo studio e la valorizzazione di tutto il patrimonio pittorico siciliano. Ogni gruppo di ricerca, infatti, ha pulito, schedato e studiato un nucleo di intonaci dipinti provenienti dal Parco di Agrigento oppure da altri siti siciliani. Nel frattempo, la grande quantità di intonaci dipinti che emergevano dallo scavo della Casa III M imponeva una diversa progettazione, soprattutto per quanto riguarda il recupero delle pitture: si è pertanto deciso di dedicare due distinte Field School internazionali al recupero delle pitture (e delle cornici in stucco) che nel frattempo stavano emergendo dal terreno. La prima Field School, denominata «La pittura ellenistica dalla Macedonia alla Sicilia: il caso di Agrigento», si è svolta nell’ottobre del 2018 e, dopo una prima parte teorica – che ha visto la partecipazione di numerosissimi studiosi internazionali –, ha messo a punto il miglior sistema di recupero possibile, sia per le porzioni di pittura in crollo sia per le modanature in stucco. La seconda Field School, «Le forme dell’abitare nel Mediterraneo: il caso di Agrigento», si è svolta un anno piú tardi, nell’ottobre del 2019, e ha permesso la raccolta del crollo delle pitture del primo piano della Casa III M, avviando la ricostruzione dei principali insiemi decorativi. Al termine dei lavori, dopo appena due mesi di rielaborazione dei dati acquisiti, si è tenuto il convegno «Animum pictura pascit: abitare con le pitture nel Mediterraneo antico», interamente dedicato alla pittura. Al termine dei lavori è stata inaugurata la mostra ed è stata distribuita la versione a stampa del catalogo (la versione on line è liberamente scaricabile dalla rete, sul sito www.academia.edu). Allo stato attuale sono stati ricostruiti tre sistemi decorativi: uno riferibile al cosiddetto Stile Strutturale (o Primo Stile) e due al cosiddetto Stile Architettonico (o Secondo Stile). Nella pastàs b già Ernesto De Miro recupera numerosi frammenti di intonaco dipinto con bugne decorate a imitazione di marmi policromi: si tratta di un sistema decorativo ben noto, attestato in età ellenistica (tra il III e il II secolo a.C.) in molte località della Grecia e del mondo mediterraneo, in cui la parete è scandita, grazie a una modellazione dell’intonaco in tre dimensioni, da una sequenza di ortostati (blocchi verticali) al centro, blocchi a
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bugnato (nel nostro caso a imitazione di marmi policromi) e cornici a dentelli in alto. Dalla pastàs b si poteva raggiungere il vano a, aperto a sua volta sull’aulè (cortile): al piano superiore era sicuramente presente una stanza di grandi dimensioni (probabilmente divisa in due ambienti), con almeno due sistemi pittorici attribuibili all’orizzonte del cosiddetto Stile Strutturale (o Secondo Stile), nella sua versione iniziale. Da questo settore della casa, infatti, crollato sul pavimento della stanza sottostante, provengono la maggior parte dei frammenti pittorici e delle cornici in stucco, ancora in corso di scavo. Si tratta, anche se i dati non sono ancora completi, di un ambiente di grande prestigio, con pitture «aggiornate» alla moda della prima metà del I secolo a.C.: la parete si sta trasformando in uno spazio pittorico bidimensionale, anche se
Ricostruzione grafica del sistema architettonico illusionistico «chiuso» che decorava un ambiente del piano superiore della Casa III M.
restano ancora molti dettagli tipici dello Stile Strutturale, come le grandi cornici in stucco e alcune partizioni della zona superiore (mensole, piccoli capitelli), sempre realizzate in stucco. Per il resto le pitture recuperate restituiscono una parete ancora chiusa, con ortostati e blocchi in bugnato policromo, che si sta strutturando sempre di piú in profondità, sovrapponendo, con grande abilità pittorica, piani prospettici successivi. Non mancano dettagli di grande qualità pittorica, come, per esempio, lo schema architettonico di modulo maggiore (con capitelli corinzi) o un piccolo fregio figurato su fondo nero, che non possono non richiamare il piú noto modello della Villa dei Misteri di Pompei. Questa nuova casa, dunque, la cui decorazione pittorica è ancora in buona parte in corso di recupero da parte dell’Università di Bologna, ci
permette di proporre alcune brevi considerazioni preliminari: i dati stratigrafici finora recuperati (anche dalle indagini condotte nelle case vicine) consentono di collocare la costruzione dell’edificio tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. La casa originaria doveva avere, come è normale in questo periodo in tutto il Mediterraneo, una decorazione pittorica in Stile Strutturale (o Primo Stile) e una serie di pavimenti in cocciopesto, con decorazioni a motivi geometrici con tesserine di calcare bianco (esempi famosi sono ad Atene, a Delo e, naturalmente, a Pompei). Dopo circa ottant’anni la casa dovette cambiare proprietario (ne abbiamo una prova archeologica grazie ad alcuni rituali di «rifondazione» rinvenuti all’interno dei muri dell’abitazione, funzionali a propiziare e a «riattivare» la struttura al momento del cambio di proprietario), che aggiorna la decorazione pittorica alla nuova moda del Secondo Stile: con buona probabilità, il nuovo proprietario è un romano o comunque un personaggio che parla latino e questo dato, se confermato dalle prossime ricerche, ci permetterà di proporre nuove considerazioni sulle direttrici di diffusione dello Stile Strutturale (o Secondo Stile) in rapporto al nuovo centro del potere (e cioè Roma). La casa non «visse» a lungo: se le altre case dell’isolato sembrano attraversare tutti i secoli dell’impero e giungere, pur attraverso numerose trasformazioni, all’Alto Medioevo (i materiali piú tardi dell’insula III si datano tra il VII e l’VIII secolo), questa casa non sembra superare la fine del II secolo d.C. I dati in nostro possesso per spiegare questo fatto sono ancora incompleti, ma, se confermati, potrebbero farci ipotizzare una distruzione volontaria dell’edificio (come sembra potersi vedere dallo scavo del crollo, che ha restituito anche i mattoni in argilla cruda che di norma non si conservano), forse a causa di un qualche problema «politico» che può condurre, in età imperiale, alla confisca dei beni e magari alla loro distruzione. Una sorta di damnatio memoriae applicata a un’abitazione. (G.L.)
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ALLA SCOPERTA DEL PARCO
Il Ginnasio Il Ginnasio di Agrigentum si trova tra la grande area pubblica, al centro dello spazio urbano, e l’imponente area sacra che si sviluppa lungo tutto il settore sud-ovest della Collina dei Templi, alla base del sistema di terrazzamenti che, in età ellenistica, ha ridefinito i volumi delle pendici della collina su cui furono edificati l’agorà di età greca e, successivamente, il Foro della città romana. Il complesso si inserisce dunque in un paesaggio urbano costruito di grande impatto scenografico, i cui confronti sono stati trovati tra le città ellenistiche di ambito microasiatico e nei contesti urbani delle isole del Dodecanneso. La scoperta archeologica del Ginnasio risale agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando, a seguito dei dilavamenti che avevano interessato l’area, venne ritrovata parte del
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portico e di un lungo sedile che recava un’iscrizione incompleta con dedica a Eracle e a Ermes. Proprio questa dedica suggerí agli studiosi che dovesse trattarsi di un ritrovamento connesso a un Ginnasio, poiché, soprattutto a partire dall’età ellenistica, la coppia Eracle-Ermes riveste un ruolo di primo piano tra le divinità venerate nei ginnasi. L’indagine archeologica sistematica fu avviata agli inizi del 2000 e i risultati sono stati pubblicati da Graziella Fiorentini. Lo scavo ha riportato alla luce un ampio settore di un portico colonnato, per la lunghezza di 190 m, di cui si conserva lo stilobate, sul quale doveva svilupparsi un colonnato di ordine dorico, cosí come si desume dai numerosi elementi architettonici (rocchi di colonne, capitelli, elementi della trabeazione) ritrovati nell’area. Il portico si apriva su una pista scoperta, larga
A sinistra planimetria che mostra il rapporto spaziale fra il Ginnasio e le altre aree della città. In basso, sulle due pagine un settore dei sedili del Ginnasio, che erano stati intonacati e sui quali correvano varie iscrizioni.
I resti del Ginnasio, la cui indagine sistematica è stata avviata agli inizi del 2000. La struttura ha restituito numerosi dati di grande interesse, tra i quali spicca il perdurare di usi e costumi tipici del mondo greco anche quando Agrigento era una città ormai pienamente romanizzata.
9,50 m, la cui pavimentazione era costituita da un battuto di sabbia e argilla. Secondo la studiosa, la pista, nella parte terminale verso nord, si collegava a una rampa di lastre di tufo, oggi interrotta da un vallone, che doveva probabilmente essere in relazione con una vasca che si trova a nord del vallone.
Una dedica rivelatrice La vasca, di notevoli dimensioni, dunque adatta al nuoto atletico, era costruita in blocchi di arenaria e rivestita da uno spesso strato di malta idraulica e conserva le tracce di un sistema di adduzione delle acque, costituito da un canale realizzato con tubuli fittili, e di un sistema di deflusso, costituito da un poderoso canale realizzato in blocchi di tufo. Questo sistema di adduzione e di deflusso doveva permettere il riciclo continuo dell’acqua. La presenza di una vasca con acqua sempre pulita è un tratto degno di rilievo del Ginnasio di Agrigentum, segno di lusso, come è stato detto di recente. Tracce di un secondo percorso di canalizzazione funzionale ad alimentare l’articolato sistema idraulico composto da una serie di altri elementi, oltre che della piscina, sono state messe in luce in corrispondenza del
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ALLA SCOPERTA DEL PARCO
cardo che costeggiava a est il complesso monumentale. Il condotto serviva ad alimentare una vasca a esedra che si trovava a est della pista e, forse, una fontana monumentale, che si trovava a nord-est dell’esedra. Sempre a est della pista, è stato individuato il basamento di un grande altare a pianta rettangolare del tipo a pi greco, che doveva essere delimitato da transenne probabilmente marmoree. Alcuni incassi lineari su diversi blocchi del podio sono stati interpretati come sedi per tabelle bronzee che dovevano contenere iscrizioni pubbliche. A sud dell’altare e a ridosso della pista, infine, sono state trovate tracce riferibili alla sistemazione di un’area destinata agli spalti per il pubblico. Si tratta di una sorta di piano inclinato realizzato in arenaria ben compattata, sul quale dovevano essere impostati i sedili, presumibilmente in legno.
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L’ultimo elemento architettonico del ginnasio di grande interesse è costituito da due file contrapposte di sedili, poste nella parte terminale della pista, che presentano un’interessante iscrizione incisa nell’intonaco di rivestimento. La funzione degli ambienti riportata alla luce risulta abbastanza chiara. Secondo l’organizzazione del ginnasio greco il portico infatti sarebbe stato uno xystos, ovvero uno spazio per esercitazioni e per gare al coperto, mentre la pista scoperta sarebbe la paradromis, cioè il luogo in cui si svolgevano le gare di corsa veloce. A proposito del portico e della sua funzione, risulta interessante la presenza di piccoli contenitori di forma ovale e bocca circolare, scavati all’interno dei blocchi di arenaria che costituiscono lo stilobate del portico, posti negli intercolunni e alimentati da piccoli canali che dovevano accogliere l’acqua piovana che proveniva dal tetto.
Un’altra immagine dei resti del Ginnasio, le cui strutture, agli inizi del IV sec. d.C., furono obliterate dalla costruzione di tre edifici, interpretati come magazzini o mercati coperti.
Si tratta di piccole conserve d’acqua, indispensabile per le pratiche atletiche, che, come sappiamo da numerosi documenti epigrafici riferibili a inventari ritrovati in diversi contesti ginnasiali, erano presenti all’interno degli edifici come elementi di arredo mobile. Tornando ai sedili, risulta assolutamente interessante l’iscrizione che contiene importanti indicazioni sulla cronologia del monumento, sulle magistrature cittadine, sulle cariche connesse con il ginnasio, e, infine, sulla dedica del monumento. La prima notizia che si ricava è infatti di ordine temporale e permette di datare il monumento, o almeno una sua sistemazione, all’età augustea: «Durante il principato di Cesare Augusto» recita l’iscrizione, che riporta anche il nome del flamine allora in carica ad Agrigentum, Lucio Egnazio, della tribú Galeria, e cita anche i duoviri, Sesto Egnatio, figlio di Sesto, e Rufo Lucio, figlio di Lucio. Cita ancora il ginnasiarca degli Efebi e dei Neoteroi e riporta infine la dedica del monumento a Eracle ed Ermes, le divinità che, come già ricordato, detenevano il «patronato delle iniziazioni giovanili».
Nella città augustea Se ne ricava uno spaccato di grande interesse, non solo per la comprensione del monumento in sé, ma anche per tutte le sue connessioni con la città di età augustea, che, come sappiamo anche da altri contesti, vive un momento di grande vitalità. L’iscrizione attesta infatti l’esistenza della magistratura elettiva del duovirato in una città che, all’epoca di Augusto, aveva ottenuto lo status di municipium e, contestualmente, la presenza del flamen, una carica sacerdotale non meglio definita nell’iscrizione, ma identificata con il Flamen Augusti. Nell’orizzonte regionale, il Ginnasio di Agrigento, nella sistemazione a oggi nota, si configura come la realizzazione piú recente tra i ginnasi siciliani che, secondo un recente studio, si collocherebbero tutti in età tardoellenistica. Guardando alla cronologia del
monumento, ci sembra abbastanza interessante fare qualche considerazione sul significato che il monumento assume nel contesto dell’evoluzione e della diffusione del ginnasio «nell’ambito dell’Occidente mediterraneo antico». La lunga iscrizione in greco, in cui anche le magistrature romane vengono tradotte, il riferimento alle divinità di Eracle ed Ermes, la definizione del ruolo liturgico della ginnasiarchia – che, di fatto, sponsorizza la costruzione del grande sedile – costituiscono un rimando preciso all’orizzonte dei ginnasi ellenistici del mondo greco, di cui il ginnasio agrigentino ha tutte le valenze semantiche. La posizione enfatica all’interno dell’area urbana, cosí come avviene per tanti ginnasi costruiti a partire dal III secolo a.C., ne sottolinea la funzione di polo fortemente integrato nel tessuto cittadino. La dedica alle due divinità, Eracle ed Ermes, alle quali, come detto, furono dedicati gran parte dei ginnasi di età ellenistica – indicate appunto con i nomi greci – ne rafforza il significato, costituendo un ulteriore segnale di appartenenza all’ambito culturale ellenico. C’è dunque da chiedersi quale fosse la sua funzione nella comunità di Agrigentum, che in molti aspetti si presenta profondamente romanizzata. Nel I secolo d.C. i ginnasi hanno smesso la funzione di luoghi di addestramento militare, cosí come dimostrano diversi studi che hanno preso in considerazione soprattutto le fonti letterarie ed epigrafiche. In una provincia Sicilia ormai completamente pacificata e pienamente dialogante con il potere centrale le forze militari avevano perso gran parte della loro utilità. Rimane al momento, come unica ipotesi, quella dell’utilizzo del Ginnasio ancora e prevalentemente come luogo di educazione e di formazione atletica ispirata ai modelli della paideia greca all’interno di una città che, ancora in età imperiale e nonostante le profonde trasformazioni determinate dall’apporto culturale di Roma, rimane saldamente legata al suo passato e sente ancora fortissimo il suo legame con il mondo greco. (M.C.P.)
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ALLA SCOPERTA DEL PARCO
Il Teatro Le recenti ricerche sull’area monumentale di Agrigento ellenistica hanno contribuito a formare una nuova immagine della città antica tra il III secolo a.C. e l’età imperiale. Il lavoro di risistemazione dei dati noti in una pianta organica della città ha portato a identificare l’agorà nell’area tra il Museo Archeologico «Pietro Griffo» e il Quartiere ellenistico-romano e a proporre l’ipotesi di una nuova pianta della città di Agrigento. L’uso di strumenti digitali e l’analisi del territorio intorno al Poggio di San Nicola hanno infatti rilevato l’esistenza di una nuova plateia a sud di questo che ha permesso di ipotizzare la presenza di isolati lunghi 150 m contro i 300 della pianta precedente. Questo nuovo ritmo delle grandi strade che attraversavano la città da est a ovest non solo rende l’impianto urbano piú razionale e vicino alle altre città di matrice tirannica pianificate all’inizio del V secolo a.C., ma ha permesso di
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Il cantiere di scavo del Teatro, individuato nel giugno del 2016 poco a sud del Quartiere ellenistico-romano lungo il versante meridionale del poggio San Nicola.
isolare un’ampia area rettangolare nell’unica fila di isolati che allo stato della ricerca sembra mantenere la lunghezza di 300 m circa, quella del Quartiere ellenistico-romano. La nuova ipotesi di lettura planimetrica della città ha comportato una serie di verifiche che nel 2016 hanno permesso di intravedere alcuni resti, rivelatisi, a una piú attenta verifica, come le strutture in summa cavea di un edificio teatrale dal diametro di 95 m databile all’inizio del II secolo a.C. La scoperta del Teatro è stata importante non solo perché ha posto fine a una ricerca antica che si data almeno dalle esplorazioni cinquecentesche del domenicano Tommaso Fazello, ma anche perché ha permesso di comprendere i limiti e la monumentalità dello spazio agorale della città e del sistema monumentale che intorno a esso si organizza. Lo scavo dell’edificio ha risposto ad alcuni interrogativi e ne ha posti altri, ma ha permesso di costruire una lettura della città e dei suoi esiti monumentali piú organica. Lo scavo del Teatro è stato condotto in estensione, ma con alcuni approfondimenti mirati, che hanno fatto luce sulle diverse fasi della costruzione e dell’urbanistica dell’area in relazione alla definizione dello spazio che emerge alla fine del periodo ellenistico, dopo la conquista della città da parte dei Romani. Nella sequenza di edifici rinvenuti, la fase piú antica è costituita da un sistema di muri di terrazzamento che dovevano gestire il salto di quota tra la plateia immediatamente a sud dell’agorà e il livello di quest’ultima. Il sistema di terrazze era interrotto da rampe che seguivano il ritmo della pianificazione urbana degli inizi del V secolo a.C. Non è possibile stabilire con certezza la cronologia delle strutture, ma si devono presumibilmente collocare prima della distruzione della città da parte dei Punici alla fine del secolo. Questo insieme architettonico è stato profondamente ristrutturato all’inizio del III secolo a.C., quando è iniziata la costruzione del primo edificio teatrale. Si tratta di una costruzione con una cavea ampia 70 m circa, che si imposta sulle terrazze di età precedente, in parte
appoggiandosi, in parte smontando le strutture piú antiche. Il Teatro poggia su un sistema di terrazze in parte realizzate sulle pendici della collina dell’agorà e in parte costruite con imponenti strutture, composte da camere cieche e colmate di terra, che compongono l’ossatura sulla quale si dispongono i gradini per gli spettatori. L’edificio era monumentale soprattutto per l’altezza dei suoi muri aventi funzione di analemma – cioè quelli destinati a sorreggere la cavea dell’esterno –, irrobustiti da un sistema di contrafforti che costituivano una cifra stilistica ben precisa. Il Teatro fu poi ricostruito all’inizio del II secolo a.C. La nuova struttura sfrutta l’edificio precedente, che viene in questa fase ingrandito, con l’aggiunta di una nuova terrazza anulare e innalzato rispetto al periodo precedente. In facciata, le murature a contrafforti sono state foderate con un nuovo muro continuo che ne cambia radicalmente l’aspetto. Il nuovo edificio misura 95 m di diametro e, come il precedente, si affaccia direttamente sulla plateia est-ovest, che correva immediatamente a sud. La ricostruzione costituisce un episodio nell’ambito di una piú ampia ristrutturazione dell’intero complesso pubblico della città. Il Tempio ellenistico-romano e il cosiddetto Sacello di Falaride vengono realizzati nello
In alto ricostruzione grafica della pianta del Teatro di Agrigento, elaborata sulla base delle strutture localizzate nei saggi di scavo. In basso particolare delle strutture riferibili alla seconda fase del Teatro.
stesso lasso di tempo all’interno di due piazze porticate che dovevano affacciarsi sull’agorà. La realizzazione del Tempio ellenistico-romano nell’angolo nord-ovest dell’agorà coincide con un ripensamento generale della viabilità in questa zona, che prevede la chiusura della grande plateia a nord della piazza. Il Sacello di Falaride viene costruito obliterando l’Ekklesiasterion. Tra quest’ultimo e l’area dell’agorà si realizza un grande edificio templare, i cui resti sono ancora visibili sotto l’odierna chiesa di S. Nicola. Tuttavia, il dato piú significativo è forse la ristrutturazione dell’intero quartiere a sud del Teatro. Le prospezioni geoelettriche condotte in quest’area da Marilena Cozzolino (Università del Molise) hanno permesso di individuare isolati larghi 45 m, di misura decisamente piú ampia rispetto al resto della griglia urbana. Questo cambiamento nel passo degli isolati è dovuto probabilmente alla realizzazione del nuovo edificio teatrale e alla necessità di adeguarvi l’impianto urbano di questo settore. Infatti, due isolati piú lo stenopos di 5 m raggiungono la larghezza di 95 m. Il sistema di interventi edilizi concentrati in questa area lascia intravedere un progetto unitario, che ripensa totalmente il sistema degli spazi nel quartiere dell’agorà. La città romana si caratterizza per la profonda vitalità nel
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riorganizzare gli spazi comunitari tra la fine del III secolo a.C. e l’età augustea. Al momento, non è possibile sapere quanto sia durato il cantiere per la realizzazione della seconda fase del teatro, ma, per quanto riguarda il Tempio ellenistico-romano, è stata riconosciuta una fase proto-imperiale, che ci dà la certezza di come ancora in età augustea i lavori non fossero stati ultimati. Poco conosciamo delle fasi piú recenti dell’area. Nella zona della cavea sono stati rinvenuti pochi materiali posteriori al IV secolo d.C., e che potrebbero far pensare a una crisi strutturale dell’impianto, forse dovuta alla cattiva gestione delle acque, come suggeriscono gli strati alluvionali rinvenuti all’interno. In summa cavea, tuttavia, si nota una discreta attività fino a tutto il Medioevo. Le grandi strutture terrazzate sono state demolite in un momento imprecisato, ma prima del VII secolo, quando si notano tracce di frequentazione tarda al di sotto dei muri terrazzati. La spoliazione del Teatro è durata a lungo e, dopo aver smontato le parti ancora emergenti in summa cavea, sono state aperte imponenti fosse per il recupero di materiali da costruzione, attive almeno fino al XIII secolo, probabilmente in relazione con l’edificazione della chiesa di S. Nicola nella forma attuale. È invece migliore lo stato di conservazione delle strutture in ima cavea, al quale ha contribuito l’interro repentino. Anche in quest’area sono state rinvenute attività di spoglio, ma le strutture rimangono imponenti e si stima che l’altezza complessiva conservata tra la parte già messa in luce e quella ancora da scavare oscilli tra i 5 e i 6 m. Dal punto di vista dell’impianto urbano e architettonico, il teatro agrigentino si distingue per monumentalità ed estensione e si allinea ai piú importanti complessi ellenistici. Si tratta di una nuova concezione dell’architettura, che gestisce non piú singole costruzioni, ma ampi spazi monumentali, il cui valore è accresciuto dalle feste e dalle processioni pubbliche, sempre condivise dalle comunità di età ellenistica. (L.M.C.)
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Le Terme Le terme di Agrigentum, l’unico edificio per i bagni messo finora in luce nella città, si trovano nel Quartiere ellenistico-romano, precisamente nell’Isolato IV. L’edificio, il cui scavo è stato intrapreso a partire dal 2013, era organizzato intorno a un ampio cortile, intorno al quale erano disposti i diversi ambienti del percorso dei bagni, che partiva dal frigidarium e proseguiva attraverso una serie di tre vani caldi. Questi ultimi erano riscaldati grazie a fornaci, che producevano il calore che circolava al di sotto del pavimento, sopraelevato su suspensurae formate da pilae di mattoncini quadrati. Le fondazioni degli ambienti erano costruite in blocchi squadrati di arenaria, ma l’elevato doveva essere in
Resti dell’impianto termale scoperto nell’insula IV del Quartiere ellenistico-romano.
cementizio; la copertura era a volta, realizzata grazie all’uso di tubuli a siringa in terracotta che, inseriti l’uno dentro l’altro, formavano la struttura delle volte e, contemporaneamente, le alleggerivano. Lungo tutto il lato settentrionale del cortile si sviluppava il frigidarium, l’ambiente per i bagni freddi. Esso terminava con un’abside che conteneva la vasca, alla quale si accedeva grazie ad alcuni scalini. L’ambiente e la vasca erano pavimentati con crustae di marmo variopinto, in gran parte di riuso. Sul lato orientale del cortile si trovavano una grande vasca per la raccolta dell’acqua e altri ambienti di uso incerto; essi sono stati riutilizzati, quando le terme hanno smesso di funzionare, per impiantarvi un laboratorio artigianale per la fabbricazione di tegole e probabilmente anche di altri oggetti in terracotta. Dopo la dismissione dei bagni fu realizzata anche una fornace per calce, che probabilmente avrà utilizzato come materia prima gli ornamenti in marmo che dovevano abbellire le terme: tra gli altri, anche le tessere marmoree del frigidarium, staccate una a una per essere bruciate. La tecnica costruttiva utilizzata, le ridotte dimensioni dell’edificio, i confronti con altri complessi simili suggeriscono che le terme A destra particolare dei vani 1, 2, 3 e 4a dell’impianto termale di Agrigentum.
agrigentine siano state costruite agli inizi del IV secolo, e che siano state utilizzate fino alla metà circa del V. (M.S.R.)
Le necropoli Nel 1988, una grande mostra archeologica allestita ad Agrigento esponeva i corredi delle necropoli della città greca. Il titolo, «Veder greco», rimarcava la «grecità» dei magnifici reperti, offerti per la prima volta alla fruizione del pubblico, guidato, attraverso la cultura materiale e i beni dei defunti, alla conoscenza della piú bella città dei mortali. Le aree cimiteriali di Akragas si trovavano al di fuori delle mura, a cominciare dalla piú antica, quella di contrada Montelusa, giusto alle spalle della foce del fiume omonimo della città, che ha restituito corredi databili nella prima metà del VI secolo a.C., coevi alla fondazione della polis. La necropoli piú estesa, detta di contrada Pezzino, si trovava a ovest, servita da due assi stradali, di cui uno collegato con Porta VII, e caratterizzata da tombe rettangolari costruite in blocchi di arenaria locale, disposte fittamente l’una accanto all’altra e, talvolta, con evidenti raggruppamenti su base familiare. Le sepolture coprono un ampio arco cronologico, dal VI al III secolo a.C. Non mancano le tombe monumentali, come nell’area cimiteriale individuata in contrada Mosè, a est della città, della fine del V secolo. Qui, uno splendido cratere bronzeo a volute accoglieva le ceneri del defunto. I corredi testimoniano l’adesione ai valori della cultura greca incarnati dal simposio e dall’ideale atletico. Per il periodo romano, la necropoli, solo parzialmente indagata, si trova nel vallone di San Gregorio, proprio sotto le mura meridionali. Con le sue sepolture, spesso monumentali, chiuse da recinti, sembrerebbe confermare la presenza di gentes, famiglie aristocratiche, appartenenti al ceto benestante della città. Di quest’area funeraria farebbe parte anche la cosiddetta Tomba di Terone – un mausoleo a torre, privo della copertura a cuspide –, posta sulla strada che arriva dal porto, secondo il
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ALLA SCOPERTA DEL PARCO
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Nella pagina accanto la necropoli paleocristiana, che comprende sepolture databili tra IV e VI sec. d.C. A destra il mausoleo d’età ellenistica convenzionalmente denominato Tomba di Terone.
La Tomba di Terone
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urono i viaggiatori del Grand Tour a chiamare cosí questo monumento sepolcrale turriforme, sulla base di un passo di Diodoro a proposito dell’assalto cartaginese alla città nel 406 a.C. Un fulmine avrebbe colpito i nemici che volevano distruggere la tomba del tiranno piú amato dagli Akragantini. In realtà, si tratta di un monumento funerario di età ellenistica, costruito alcuni secoli dopo la morte di Terone. La sommità era coronata da una copertura a piramide, oggi perduta.
modello delle città italiche, dove i monumenti funerari sorgevano lungo le principali vie di accesso. Nel II secolo d.C. in tutto il mondo romano il rito della cremazione viene sostituito dall’inumazione, con l’uso di sarcofagi marmorei prodotti su vasta scala e presenti anche ad Agrigentum. A partire dal IV secolo d.C. si registra un significativo mutamento nel costume funerario, da mettere verosimilmente in relazione con il nuovo credo cristiano, con l’ingresso delle sepolture all’interno dell’area urbana. Le mura meridionali furono scavate per realizzare tombe ad arcosolio e camerette sepolcrali. Nel contempo, le numerose cisterne greche a campana presenti nell’area furono riutilizzate come rotonde funerarie e
integrate, attraverso corridoi di collegamento, in strutture sotterranee, le catacombe, piú o meno estese e articolate. L’ipogeo piú grande, noto come Grotta Fragapane, era probabilmente un cimitero comunitario. Il riuso funerario di età tardo-antica oltre a documentare la defunzionalizzazione delle strutture difensive e idrauliche del periodo greco, sembra attestare il restringimento della città, che non confida piú nella cinta muraria per fermare potenziali invasori. Altri nuclei di sepolture di età bizantina (VI-VIII secolo) sono stati indagati presso le case di età imperiale del Quartiere ellenistico-romano e presso la foce del fiume Akragas, dove sorgeva il quartiere del porto (V-VII secolo). (V.C.)
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ALLA SCOPERTA DEL PARCO
La via degli arcosoli
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ui resti del tratto di mura tra il tempio di Giunone e quello della Concordia sono visibili alcune sepolture, disposte a piú altezze, dette ad arcosolio per la presenza di una nicchia ad arco, secondo una tipologia funeraria riferibile alla prima età cristiana. Violate certamente già in antico e private della lastra di copertura, queste tombe, per il loro aspetto singolare, non sfuggirono all’osservazione dei viaggiatori dell’età moderna in visita alla Valle dei Templi, i quali, pur avendone riconosciuto il carattere funerario, ne diedero interpretazioni diverse circa la cronologia. Nel XVIII secolo, l’olandese Jacques Philippe D’Orville attribuisce gli arcosoli al periodo romano, mentre,
circa un secolo dopo, Giuseppe Maria Pancrazi, nella sua monumentale opera sulle antichità akragantine, si stupisce dell’usanza di Akragas di seppellire i defunti all’interno delle mura, inammissibile in ogni altra città greca, dove lo spazio riservato ai morti si trovava rigorosamente in area extraurbana. Altri illustri viaggiatori, come il barone von Riedesel e Johann Wolfgang Goethe, credono che le sepolture siano cenotafi, cioè monumenti funerari vuoti. Ancora all’età romana pensano, nell’Ottocento, il duca di Serradifalco e Raffaele Politi, per la forma arcuata delle nicchie, mentre Francesco Saverio Cavallari, direttore delle antichità di Sicilia,
afferma che gli arcosoli sono coevi con i templi greci. Julius Schubring, invece, autore della prima ricerca scientifica sulla topografia della città antica, preferiva non pronunciarsi sulla cronologia. Fu Giuseppe Picone, nella sua opera Memorie storiche agrigentine, a inquadrare correttamente le sepolture in età post-antica, seguito da Joseph Führer, che, agli inizi del Novecento fece la prima ricognizione archeologica dei cimiteri paleocristiani siciliani. Catullo Mercurelli, infine, nel volume Agrigento paleocristiana, pubblicato nel 1948, conferma la cronologia, sulla base dei confronti tipologici con gli arcosoli presenti nell’ipogeo Fragapane. (V.C.)
Un esempio di sepoltura paleocristiana detta ad arcosolio per la presenza di una nicchia ad arco.
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Agrigentum-Kerkent-Girgenti
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grigentum, Kerkent, Girgenti: cosí la città viene chiamata nel corso del Medioevo, quando, da romana, diviene araba e poi normanna, mutamenti che si riflettono sul nucleo urbano che dalla valle, dove si era sviluppato in età classica, si insedia sul colle di Girgenti. Alcuni ritrovamenti della fine dell’Ottocento attestano un abitato rupestre nella contrada Balatizzo, alle pendici sud-occidentali del colle, caratterizzato da grotte scavate nel tufo, usate per abitazioni, e da case addossate alla roccia, che i reperti rinvenuti datano dal VI al IX secolo e oltre. Proprio qui si potrebbe forse individuare l’anello di congiunzione tra l’abitato a valle e il nuovo insediamento collinare, che viene preferito per ragioni soprattutto di difesa, considerato che nuove genti, i musulmani, approdano lungo le coste della Sicilia già dal VII secolo, iniziando la conquista dell’isola nei primi decenni del IX. È probabile che proprio adesso gli abitanti preferiscano arroccarsi a nord, abbandonando l’antica urbe, poco difendibile, in cui rimangono solo comunità religiose e alcune attività commerciali. Idrisi, il geografo arabo-mazarese vissuto alla corte di Ruggero d’Altavilla nel XII secolo, descrive Kerkent (la Agrigento araba) come una «città fiorente, illustre, dall’alta rocca, ricca di prodotti agricoli e di giardini lussureggianti oltre che importante snodo commerciale». Conquistata nell’827-828, Kerkent è, oltre a Mazara, l’unico scalo del commercio musulmano lungo la costa meridionale della
La morfologia urbana del colle di Girgenti dall’età bizantina al XIV sec.
Sicilia e, tra IX e X secolo, vive un momento di grande prosperità: luogo di scambio dei prodotti interni, è un centro di irradiazione della civiltà islamica. Nulla resta, purtroppo, della presenza araba in città, se non nel suo tessuto urbano, soprattutto della sua zona occidentale, con l’assetto viario sinuoso e molto irregolare, quasi un vero e proprio labirinto, ricco di piccoli e angusti vicoli, spesso ciechi. Deve essere circondata da mura di difesa, se la porta che si apre a nord ha un nome arabo trasformatosi nel sicilianizzato bibirria. Nell’estrema zona occidentale del colle, in parte insistendo sulla contrada Balatizzo, si estende il quartiere popolare del rabadh, «u rabatu» per gli agrigentini; la città si allarga poi verso oriente e alcune fornaci per la produzione di ceramiche sono attive presso l’antica chiesa di S. Lucia. Al rabato, piuttosto povero, si contrappone lo hisn fortificato,
sulla collina, dove hanno dimora i ceti aristocratici e dove sorge già un castello, se le fonti lo ricordano vicino alla cattedrale voluta da Gerlando di Besançon, cugino di Ruggero d’Altavilla, a cui questi affida, subito dopo la conquista del 1087, la cattedra episcopale agrigentina. Il normanno Gerlando nei primi tempi si muove in un ambiente quasi interamente dominato dall’elemento musulmano, e colloca l’episcopio in una zona munita, facilmente difendibile. La città cristiana si restringe in un’area molto limitata, oggi chiamata terra vecchia, identificabile nel nucleo compatto che, dal ciglio nord della collina, giunge al primo tratto di via Garibaldi a sud e, dall’Istituto Gioeni a ovest, alla salita Bac-bac a est. I quartieri di San Michele a nord-est, San Pietro a sud-est e Santa Croce a ovest restano fuori dalla terra vecchia, circondata da mura. Qui, però, nei quartieri extramurari, fiorente dev’essere l’attività
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ALLA SCOPERTA DEL PARCO
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In alto, Girgenti vista dal tempio di Castore e Polluce, olio su tela di Régnault Sarasin (1866-1943). A sinistra sulle due pagine Veduta di Girgenti con, ben delineate, la terra vecchia a occidente e l’espansione chiaramontana a oriente. 1584.
mercantile e qui si consolidano consistenti fortune economiche, come quella dei Chiaramonte, che posseggono beni nei quartieri di San Michele e San Pietro. La città ruggeriana, dalle insulae allineate grosso modo in senso nord-sud e con il suo sistema chiuso e compatto – frutto della preoccupazione dei suoi abitanti di opporre una difesa contro l’ostile ambiente circostante –, appare decisamente diversa dai quartieri che coprono la parte orientale del colle, in cui le insulae sono distribuite lungo assi in senso est-ovest e con un sistema piú aperto, che tiene conto della necessità di favorire il traffico di uomini e merci dentro e fuori di esse. Le due zone obbediscono dunque a concezioni urbanistiche differenti, ascrivibili a due diversi momenti storici: la borghesia, cresciuta nei rabati, avrà sentito a un certo momento la necessità di proteggere i propri beni dal pericolo di scorrerie e, avendone la possibilità economica, avrà proposto ai cittadini della terra vecchia di rinunziare alla difesa della piccola zona da loro
abitata, immettendosi in una piú grande Girgenti, che comprende i quartieri orientali, da difendere con una nuova cinta muraria. Il processo di trasformazione urbanistica di Agrigento, iniziato con l’abbandono della Valle, si conclude cosí col costituirsi della città nell’ampio spazio del colle di Girgenti nel XIII secolo, alla fine del quale l’opera si compie col favore della famiglia feudale dei Chiaramonte, che, oltre alle mura, avviano la costruzione del monastero di S. Spirito e dei conventi di S. Francesco, S. Domenico e dei Carmelitani, insieme ad abitazioni civili delle quali rimane ancora qualche traccia: primo tra tutte lo Steri di Manfredi Chiaramonte, oggi Seminario Vescovile. L’assetto urbanistico di Agrigento non conosce variazioni fino al Novecento, quando le mura che per secoli l’hanno protetta non devono assolvere piú al loro compito e la città si espande verso meridione, coprendo le estreme pendici della collina di Girgenti, per secoli rimasta il centro del potere. (D.M.)
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ALLA SCOPERTA DEL PARCO
Agrigento fuori da Agrigento
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e necropoli greche di Agrigento hanno subíto nel tempo un pesante saccheggio, in particolare quella di contrada Pezzino, a nord-est della città antica. I vasi figurati importati da Atene, contenuti nelle tombe akragantine, erano noti per originalità e preziosità già ai viaggiatori settecenteschi stranieri del Grand Tour, attratti e incuriositi da questi oggetti: a cominciare da Johann Hermann von Riedesel, che nell’opera Reise durch Sizilien und Großgriechenland (Viaggio attraverso la Sicilia e la Magna Grecia), del 1771, elogiò il cratere attico visto nella Cattedrale della città, il «vaso di Ulisse» (raffigurante una scena di partenza di guerrieri; V secolo a.C.), scoperto nel 1743 e già illustrato dall’erudito Giuseppe Maria Pancrazi nelle sue Antichità siciliane (1751). Cosí la fama delle ceramiche figurate agrigentine travalica ben presto i confini della città siciliana e dell’isola, raggiungendo le corti e gli ambienti colti d’Europa. Viaggiatori e appassionati di antichità giungono ad Agrigento ed entrano in contatto con gli eruditi locali, alla ricerca di queste preziose ceramiche. I vasi antichi alimentano le trame di un articolato mercato antiquario e confluiscono in diverse collezioni italiane e straniere, attraverso complesse vicende di acquisto, che vedono l’esodo di tanti oggetti d’arte dall’isola e in cui sono coinvolti esponenti degli ambienti ecclesiastici e della nobiltà, eruditi e studiosi d’oltralpe e locali, e perfino diplomatici.
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Tra i collezionisti agrigentini si distingue l’erudito e ricco prelato Ciantro Giuseppe Panitteri, che delle ceramiche attiche recuperate dalle tombe akragantine aveva fatto il centro del suo interesse antiquario. Proprio la sua raccolta, «oltre cento squisite stoviglie agrigentine» (come scrive l’archeologo tedesco Eduard Gerhard nella memoria Intorno i monumenti figulini della Sicilia, del 1835), arricchí la collezione di antichità del principe Ludwig I, erede al trono di Baviera, costituita, all’origine, soprattutto da sculture greche e romane. Il principe affidò la trattativa per l’acquisto dei vasi all’architetto Leo von Klenze, che stava allora realizzando a Monaco la Gliptoteca, grazie anche all’intervento di Raffaele Politi, custode delle antichità agrigentine. La negoziazione si concluse nel 1824, con l’acquisto di 47 vasi, che, dopo un lungo viaggio per terra e per mare, fecero il loro ingresso nel 1825 a
Monaco, mentre Politi, dal canto suo, ottenne come ricompensa per la mediazione il titolo di viceconsole di Baviera ad Agrigento. Nel 1841 i vasi furono poi esposti nell’Alte Pinakothek su tavoli e scaffali aperti, mentre oggi possiamo ammirarli nelle vetrine delle Staatliche Antikensammlungen di Monaco. Tra questi spiccano in particolare due vasi databili all’età della tirannide di Terone, di cui già Klenze aveva rilevato il particolare pregio. Il primo è un vaso attico del Pittore di Brygos (480-470 a.C.), che ritrae Alceo e Saffo, i due poeti lirici dell’isola di Lesbo vissuti tra gli ultimi decenni del VII e gli inizi del VI secolo a.C., qui identificati da iscrizioni e ritratti con il barbiton (strumento a corde associato alla lirica lesbia) in mano. Si tratta di un vaso molto particolare per la forma – inusuale e di grandi dimensioni (oltre 50 cm di altezza) – e per la decorazione. Singolare è infatti il tema: sul lato principale,
Alceo è raffigurato nell’atto di cantare, come indicato dai cinque cerchielli dipinti davanti alla sua bocca, mentre Saffo, che ha appena terminato di suonare il suo strumento, è intenta ad ascoltarlo. Si mette in scena quindi la magia della parola e della musica, a cui erano dedite Saffo (la poetessa di Mitilene, che, secondo una testimonianza antica, fu in Sicilia, in esilio) e le fanciulle del suo famoso «tiaso». La figurazione richiama inoltre, insieme al tema dell’amore cantato dalla poetessa, quello del vino e l’esperienza del bere la bevanda di Dioniso, fonte di
oblio e di ristoro dagli affanni secondo Alceo, e mezzo di comunicazione e comunione con il dio stesso, che è ritratto sull’altro lato del vaso. Si tratta quindi di un vaso di indubbio pregio per una sepoltura di un certo rango, che evoca, con le sue immagini, la sessualità e l’ebrezza dionisiaca ovvero un’esperienza iniziatica che passa attraverso il mondo di Afrodite e di Dioniso. Degno di particolare attenzione è poi uno psykter (vaso per refrigerare il vino; 480-470 a.C.). Si tratta anche in questo caso di una forma non comune, strettamente connessa con l’uso
Sulle due pagine particolari di vasi attici provenienti da Agrigento e oggi esposti presso le Antikensammlungen di Monaco di Baviera. Nella pagina accanto, psykter raffigurante il rapimento di Marpessa (480-470 a.C.); in basso, vaso raffigurante Alceo e Saffo (480-470 a.C.).
del vino, l’unica di questo tipo dipinta dal pittore attico di stile arcaizzante a cui è stata attribuita (Pittore di Pan). Anche il soggetto, Marpessa contesa da Apollo e Ida, risulta poco esplorato dai pittori vascolari e poco noto nell’iconografia antica, e ripropone il tema dell’amore, e quindi del passaggio della fanciulla alla vita adulta, accompagnato da prospettive escatologiche. L’episodio mitico, che si dispiega sul corpo del vaso con figure dalle pose teatrali, fu cantato dai poeti Simonide e Bacchilide, che furono alla corte di Terone, e forse per questo era ben noto all’élite colta akragantina. Il mito narra che Marpessa, figlia del re dell’Etolia Eveno, fu rapita da Ida mentre partecipava a danze rituali in onore di Artemide, e fu poi oggetto di contesa tra questi e il dio Apollo (qui affiancato proprio dalla sorella Artemide e in atto di scoccare una freccia contro il suo avversario analogamente atteggiato). La disputa vide l’intervento risolutivo di Zeus, dipinto dal pittore con lo scettro in mano, rivolto verso il dio Ermes inviato dal re degli dèi a dirimere il conflitto e affiancato da un altro personaggio femminile (forse la consorte Era); Marpessa, lasciata libera da Zeus di scegliere tra i due suoi pretendenti, pensando che Apollo, in quanto immortale, l’avrebbe abbandonata quando sarebbe diventata vecchia, scelse Ida, al quale qui la fanciulla volge uno sguardo di assenso. (M.d.C.)
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Un pressoio da vino sulla Collina dei Templi. L’impianto si compone di due vasche a profondità differente: versando e schiacciando l’uva nella prima, si faceva defluire il succo nella seconda attraverso un collettore.
UNA TERRA
GENEROSA FIN DALLE PRIME FASI DI VITA, AGRIGENTO POTÉ CONTARE SU UNA RICCHEZZA DI RISORSE NATURALI STRAORDINARIA: E COSÍ LA CITTÀ DIVENNE UN FIORENTE CENTRO DI PRODUZIONE DI OLIO E VINO, BENI RICERCATISSIMI, A CUI SI AGGIUNSE UN «TESORO NASCOSTO»... di Michele Scalici
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LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE
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e fonti letterarie descrivono il territorio di Agrigento come particolarmente fertile: adatto alle colture di cereali, ulivo e vite e all’allevamento del bestiame. Le fattorie si dispiegavano nelle campagne al di fuori delle mura, oltre i fiumi Hypsas e Akragas, mentre nel territorio piú esterno si trovavano borghi rurali e piccoli centri. I luoghi di trasformazione si trovavano all’interno città oppure nelle immediate adiacenze. I pressoi, utilizzati per la pigiatura dell’uva, erano realizzati con un sistema di due vasche a profondità differente. Versando e schiacciando l’uva nella prima vasca, si faceva defluire il succo nella seconda, attraverso un collettore in pietra. I residui raccolti all’interno di un ricettacolo circolare venivano in seguito recuperati e sottoposti a ulteriore pressione con un torchio. Alcune vasche presentano l’incamiciatura originaria, in malta e cocciopesto. È probabile che le piú antiche risalgano all’epoca dei Greci, ma furono utilizzate a lungo, per tutto il Medioevo. Anche il ciclo di produzione dell’olio avveniva in città, testimoniato dalla presenza di frantoi. Sono caratterizzati da ampie basi di pietra, particolarmente robuste per reggere la pressione dei pensanti macchinari.
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A destra un forno per il pane del tipo tannur tuttora in uso e, qui sotto, resti di impianti analoghi individuati nel Quartiere ellenistico-romano. In basso, a sinistra ricostruzione grafica del frantoio oleario di cui sono stati scoperti i resti sulla Rupe Atenea.
Era necessario schiacciare e frammentare le olive con una mola per preparare una pasta che veniva poi sottoposta alla pressione del torchio. Alcune basi presentano una tipica incisione ad anello che consentiva al succo di essere raccolto e convogliato verso un grande contenitore o una cisterna. Nel pavimento, intorno le basi, è possibile riconoscere l’usura dovuta alla prolungata frizione dei piedi dello schiavo o dell’animale che azionava il macchinario con la propria forza. Olio e vino venivano commercializzati all’interno di contenitori di ceramica, le anfore. Le piú antiche realizzate ad Agrigento si datano a partire dall’ultimo quarto del VI secolo a.C. Anche in età romana imperiale si producevano anfore commerciali, ma di modulo piú piccolo rispetto alle precedenti. Quella dei cereali era una delle produzioni principali della Sicilia, ma, a differenza di altri prodotti, la sua
commercializzazione avveniva in contenitori deperibili e pertanto è oggi meno percepibile dagli archeologi. Gli impianti di trasformazione, invece, sono segnalati da numerosi resti di macine in pietra lavica all’interno di abitazioni private, laboratori e negli annessi dei santuari. Le piú semplici prevedono un piano di molitura sul quale si pestavano i chicchi con un macinello o un rullo, tramite frizione. Modelli piú elaborati disponevano di un elemento superiore cavo che ruotava al di sopra di una pietra conica. Sono stati individuati anche forni del tipo tannur per preparare il pane: poggiati a diretto contatto con il pavimento, di forma conica e aperti alla sommità. Le pagnotte piatte venivano inserite dall’alto e fatte aderire sulla parete calda del forno che le cuoceva. Molto poco è noto sulle produzioni collegate all’allevamento di animali e all’apicultura: carne, grasso, uova, latticini, miele, cera, ciclo del pellame risultano infatti pressoché invisibili archeologicamente. Appena piú leggibile è la
In basso scarti di lavorazione e prodotti semilavorati in osso. Si tratta di una produzione che ebbe una notevole rilevanza nell’antica Agrigento e alla quale si dedicava, fra le altre, una bottega scoperta nei pressi del Foro.
produzione tessile, indiziata ad Agrigento da numerosi pesi da telaio e qualche strumento in metallo, provenienti da diverse aree della città, senza che sia possibile precisare i luoghi deputati a questa attività, verosimilmente paraticata nelle case private. Importante era la lavorazione degli oggetti in osso di bovino a cui si è potuto collegare una bottega in prossimità del Foro. Dopo essere state accuratamente lisciate, le ossa venivano ridotte in placchette o rondelle e poi scolpite e incise al fine di creare aghi crinali, spille da vesti, cerniere e parti di mobilio in legno.
Anfore da trasporto e vasi per profumi Gli impianti per la fabbricazione e la cottura dei vasi si trovavano nella periferia della città, fuori le mura o immediatamente a ridosso. Di preferenza, all’attività di queste officine era riservata l’area a sud dell’abitato, tra questo e il porto, in prossimità dei fiumi. Un atelier con fornaci, oggetto di recenti indagini, si trova all’angolo sud-occidentale della città. Attivo tra il VI e il V secolo a.C., produceva vasellame acromo o decorato a fasce e motivi corsivi, destinato al consumo locale, ma anche suppellettili specializzate come le statuine di terracotta che venivano offerte nei vicini santuari. Una particolare forma ceramica, la lekythos, di cui sono stati rinvenuti scarti di fornace, testimonia la produzione di profumi. Nella stessa officina venivano cotte anche le anfore commerciali che, riempite con i prodotti del territorio e caricate sulle navi, erano destinate ai mercati di tutto il Mediterraneo. Le cinque fornaci portate alla luce sono inserite all’interno del percorso di visita. La piú grande è di forma circolare e molto ben conservata: è stata costruita scavando la roccia naturale, rivestendola con una camicia di argilla, affinché non disperdesse il calore e proteggesse la parete. Le camere interne sono delimitate da un muretto in pani di argilla. All’interno della camera inferiore veniva bruciato il combustibile e l’aria calda saliva verso la camera di cottura, dove, sopra un piano forato sostenuto da muretti di mattoni, venivano disposti i vasi,
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LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE
A sinistra resti di un forno per ceramica situato nel quartiere artigianale fuori Porta V. Al centro e in basso tracce dell’attività di cava localizzate sulla Collina dei Templi nella necropoli in contrada Pezzino. La pietra locale, una calcarenite, era assai apprezzata per le caratteristiche meccaniche e per la bellezza del tipico colore, un giallo intenso e caldo.
nel comprensorio, in quanto la calcarenite agrigentina è molto apprezzata per le caratteristiche meccaniche e la bellezza del suo colore giallo caldo. Tuttavia, è molto tenera e, per resistere all’azione degli agenti atmosferici – come pioggia e vento –, necessita di una protezione, che anticamente veniva assicurata da un rivestimento di calce bianca. Alcuni apprestamenti utilizzati per la realizzazione di questo materiale, come i forni di cottura delle rocce calcaree e le fosse di distanziati da appositi cilindri e cunei, perché la cottura fosse uniforme. La presenza di una discreta pietra da taglio, reperibile nel territorio della città e nelle immediate adiacenze, ha consentito lo sfruttamento intensivo e la costruzione di grandi edifici lapidei come i templi della collina meridionale o le domus del Quartiere ellenistico-romano. Le aree di cava sono riconoscibili dai solchi praticati per il distacco dei blocchi, ma non sempre è possibile stabilire il periodo nel quale sono state utilizzate. Lo sfruttamento si è infatti protratto fino a tempi molto recenti e viene ancora praticato
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A sinistra frammento di un pane di zolfo. Parco della Valle dei Templi, Antiquarium del Mare. In basso una fossa per la stagionatura della calce nel Quartiere ellenistico-romano.
stagionatura, sono stati individuati all’interno della città. Nel reidratare la calce viva, attraverso l’aggiunta di acqua e altri componenti – come sabbia o ceramica tritata –, era possibile realizzare materiali diversi utilizzati in edilizia: la malta, il cocciopesto per pavimenti e opere idrauliche, l’intonaco con cui rivestire pareti e statue di pietra come i Telamoni del tempio di Zeus.
nella lavorazione dei metalli. Apprezzato già da Micenei e Ciprioti che avevano installato fondaci per assicurarsene l’approvvigionamento, inizia a essere sfruttato intensivamente soprattutto in età romana. Uno straordinario indicatore di questa produzione è fornito dalle cosiddette tegulae sulphuris: lastre di terracotta rettangolari, con margini leggermente soprelevati, che venivano utilizzate come stampi per i pani di zolfo. Recano, infatti, iscrizioni formate da lettere a rilievo, in caratteri latini, che dovevano lasciare sul materiale l’impronta del responsabile della produzione, come le gentes degli Annii e degli Atinii. La produzione di questi stampi inizia nel I secolo d.C. e prosegue fino alla tarda antichità. È probabile che l’officina che le fabbricava sia da collocare in prossimità del Foro e che fosse posta sotto l’autorità di un funzionario imperiale.
Notizie preziose Se di molte produzioni abbiamo poche informazioni, talvolta vengono in soccorso le fonti letterarie, che raccontano di attività oggi invisibili sul piano archeologico. Plinio il Vecchio accenna al sale agrigentino, particolarmente rinomato al pari di quello tarantino per la sapidità e il basso grado di umidità. La produzione del sale è nota anche per l’epoca medievale e i periodi successivi. Allo stesso tempo, ancora Plinio dà conto dello sfruttamento di sorgenti di olii minerali, utilizzati come combustibile per l’illuminazione e a scopi medicali. In prossimità di queste sorgenti in età moderna sono sorti alcuni santuari mariani, come quelli di Blufi e Bivona, tra le province di Palermo e Agrigento. Tra le attività minerarie che hanno da sempre caratterizzato il territorio siciliano, c’è l’estrazione dello zolfo, particolarmente abbondante nel comprensorio agrigentino. Conosciuto e sfruttato fin dal II millennio a.C. trovava applicazione in campo medico, in agricoltura come antiparassitario e fertilizzante,
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LA PRODUZIONE ARTISTICA
TUTTE LE STAGIONI DI UN’ARTE SUBLIME LA GRECA AKRAGAS E POI LA ROMANA AGRIGENTUM FURONO CULLE DI UNA PRODUZIONE ARTISTICA DI ALTISSIMO LIVELLO. IN ESSA, SFRUTTANDO UNA VARIEGATA GAMMA DI MATERIE PRIME, SI FONDONO ARMONIOSAMENTE MODELLI DELLA TRADIZIONE GRECA E CREAZIONI ORIGINALI di Vincenzo Baldoni ed Elisa Chiara Portale
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er tracciare una sintesi della cultura figurativa di Akragas in età greca, occorre prendere le mosse dai documenti della prima metà del VI secolo a.C., quando nella polis giungono prodotti, influssi, conoscenze tecniche e, probabilmente, anche maestranze da piú parti del mondo greco: tutti questi elementi stimolano la nascita della produzione artistica della nuova colonia. Di lí a poco, tra il tardo arcaismo e la prima età classica (fine del VI-V secolo a.C.), Akragas divenne uno dei grandi centri dell’arte e della cultura dell’Occidente greco: artigiani e artisti locali dimostrarono di partecipare in modo attivo alla sperimentazione artistica di questo periodo, riuscendo a rielaborare gli stimoli venuti dall’esterno e a esprimersi con un linguaggio artistico originale. Il piú antico manufatto che ricordiamo risale alle origini della storia di Akragas: si tratta di una testa fittile deposta in una fossa votiva nel santuario delle Divinità Ctonie. La statuetta rappresenta una divinità
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femminile ed è databile ancora nel VII secolo a.C. o agli inizi di quello successivo: secondo una suggestiva ipotesi, si tratterebbe di una statua di culto (agalma) portata dai primi coloni in occasione della fondazione della polis. Lo stile del manufatto ci riporta all’ambito artistico delle origini dei coloni: la testa si può infatti confrontare con coeve realizzazioni da Creta o da Gela.
Influssi ionici e corinzi Ad Agrigento, già nella prima metà del VI secolo a.C., si avvia la produzione coroplastica, destinata a durare per lungo tempo e a costituire una delle espressioni piú genuine e significative dell’artigianato e della produzione artistica della colonia: se le piú antiche statuette che conosciamo sono ancora stilisticamente vicine all’esemplare appena ricordato (stile dedalico), nella produzione successiva del VI secolo a.C., che si fa via via piú cospicua, si avvertono gli influssi di matrice ionica e corinzia allora in voga. In questo periodo, forse anche In alto testa in terracotta di età tardo-arcaica (Persefone ?). Nella pagina accanto testa di una statuetta di divinità femminile, da una fossa votiva nel santuario delle Divinità Ctonie. VII-VI sec. a.C. A sinistra testa elmata di epoca tardo-arcaica, interpretata come un guerriero, un eroe oppure come Atena. I tre reperti sono esposti nel Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo» di Agrigento.
grazie allo stimolo delle sempre piú numerose importazioni di vasi figurati dalla Grecia e soprattutto da Atene, il racconto mitologico si diffonde su molti oggetti realizzati in terracotta come placchette fittili (pinakes), bacini con l’orlo decorato a matrice (louteria), piccoli altari (arule). I coroplasti sono impegnati anche nei grandi cantieri dei primi templi della colonia, eretti nel corso del VI secolo a.C., e realizzano la decorazione architettonica e scultorea di questi primi edifici. Tra le piú importanti opere in terracotta del tardo periodo arcaico vi sono due figure di notevoli dimensioni, riconducibili a gruppi frontonali, una rappresentante una divinità femminile, forse Persefone, l’altra una testa elmata, interpretata come un guerriero, un eroe oppure Atena. Per qualità e caratteri formali e stilistici, tali opere costituiscono il chiaro segno
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LA PRODUZIONE ARTISTICA
dell’apertura di Akragas alle piú recenti tendenze della scultura greca, in quanto sono avvicinabili ad alcuni capolavori della scultura di età tardo-arcaica: la statua di Persefone alle korai dall’acropoli di Atene, l’altra alle figure frontonali del tempio di Atena Aphaia a Egina.
Maestri itineranti
femminili stanti, con le braccia piegate e colte nell’atto di reggere un porcellino, l’animale offerto in sacrificio a Demetra: tali figurine sono dedicate nei santuari con la funzione di rappresentare simbolicamente il dedicante. La produzione coroplastica è molto ricca e variegata e prevede tra i tipi piú frequenti le protomi femminili, sostituite successivamente
Accanto a queste opere eccezionali – che si possono ragionevolmente assegnare ad artisti e artigiani che si spostavano di città in città per offrire le loro prestazioni alla realizzazione di statue, o per le decorazioni dei santuari del mondo greco – nella colonia continua abbondantissima la produzione in terracotta di statuette di piccole dimensioni, impiegate nelle pratiche di culto nei santuari e talvolta deposte anche nei corredi funerari. Tra i tipi piú diffusi, vi è quello che riproduce una divinità femminile (Demetra) con un alto copricapo (polos) o una corona (stephane) e con una collana/ pettorale che riproduce un sontuoso monile composto da ovuli, forse in ambra, metallo o altro materiale prezioso: si tratta di una realizzazione originale degli artigiani di Akragas (metà del VI-V secolo a.C.), ripreso poi anche in altre città coloniali della Sicilia. Ad Agrigento, fino a tutto il V secolo a.C., hanno molta fortuna anche le statuette di figure
Il cratere con il trasporto del corpo di Patroclo, forse opera del Pittore di Kleophrades. 490 a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
Il Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo»
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l Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo» di Agrigento, già Museo Nazionale, uno dei maggiori nel panorama italiano, è opera dell’architetto Franco Minissi (1919-1996) e fu inaugurato nel 1967. Oltre a raccogliere un inestimabile patrimonio archeologico è un importante esempio di architettura contemporanea inserita nello straordinario contesto archeologico e
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paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento. L’ordinamento scientifico, pressoché immutato nel tempo, ha accompagnato lo sviluppo della ricerca archeologica nel territorio di Akragas, come pure in quelli delle province di Caltanissetta ed Enna, sulle quali l’allora Soprintendenza alle Antichità di Agrigento esercitava, fino agli anni Ottanta, la sua competenza.
Il Museo è ubicato in posizione centrale nella Valle dei Templi, in un’area estremamente ricca di valenze storico-archeologiche che, a partire dal VI secolo a.C., accolse gli edifici di natura religiosa e pubblica di Akragas. La costruzione sorge, in parte inglobandoli, sui resti di un santuario greco e di un complesso monastico cistercense, del quale è elemento centrale l’austera
In basso un particolare della sala del Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo» nella quale è esposto uno dei Telamoni in origine facenti parte della decorazione del tempio di Zeus Olimpio.
dai busti, un tipo iconografico che simboleggia il ritorno stagionale della divinità dagli inferi e la sua condizione di mediatrice tra i due mondi. Il ritorno di Persefone rappresentava infatti il ritorno alla vita delle piante e delle colture. I busti sono prodotti per un lungo arco di tempo e alla seconda metà del IV-inizi del III secolo a.C. risalgono quelli rinvenuti nel Santuario Rupestre sulla Rupe Atenea, che mostrano i caratteri del revival dello stile classico in voga nel periodo timoleonteo. Accanto alla lavorazione dell’argilla, già nel corso del VI secolo a.C., si dà avvio nella colonia anche a quella della pietra (una testa di kouros è databile verso la metà del secolo), cosí come del bronzo (per esempio i manici configurati di specchi e patere).
La scultura al servizio dei templi Nel tardo arcaismo (fine del VI secolo a.C.-480 a.C.) e nel periodo «severo» o protoclassico (480-450 a.C.) la scuola di scultura che si sviluppa ad Agrigento realizza le sue opere piú significative. Tra queste vanno innanzitutto ricordate le decorazioni architettoniche, come le teste leonine delle grondaie del cosiddetto tempio di Eracle (fine del VI secolo a.C.), le piú antiche prodotte in Sicilia, o quelle del tempio detto di Demetra sulle pendici orientali della Rupe Atenea (470 a.C. circa). In questo
architettura gotica della chiesa di S. Nicola. L’area e gli edifici che ne facevano parte, con tutte le trasformazioni avvenute nel tempo, appartennero nell’Ottocento alla villa suburbana del ciantro Giuseppe Panitteri, noto collezionista di antichità agrigentine. Incuneato a sud tra l’ekklesiasterion – scoperto pressoché in coincidenza con la costruzione del Museo – e un
periodo, dalla Grecia giungono ad Akragas opere importanti: le fonti ricordano una statua di Apollo realizzata dal celebre scultore Mirone e negli stessi anni si ha notizia nei testi anche della presenza di uno dei piú importanti scultori del tempo, Pitagora di Reggio. Nel contempo, aumentano significativamente i vasi figurati da Atene e impiegati principalmente nelle necropoli (ma anche nei santuari e nelle case). Tra questi vi sono esemplari di altissimo livello, come il cratere a calice a figure rosse attribuito al Pittore di Kleophrades (o a un pittore vascolare della sua bottega, 490 a.C.), con la rappresentazione sul lato principale del trasporto del corpo di Patroclo – una scena che simboleggia l’ideale della morte eroica del guerriero –, a cui fa da pendant, sul lato opposto, la raffigurazione di una danza dionisiaca (komos), a evidenziare il valore salvifico del consumo del vino, dono di Dioniso. Si possono inoltre ricordare i famosi cinque vasi «di premio» prodotti dai piú importanti maestri del Ceramico ateniese del periodo severo (480-450 a.C.), impiegati nel rituale elitario della cremazione, con la funzione di evidenziare, attraverso le forme dei vasi (contenitori del vino nei simposi) e le immagini dipinte le credenze religiose di stampo salvifico dei defunti. Infine, tra le importazioni di età classica (440-430 a.C.), si ricorda il cratere a
tempio romano su podio, comunemente conosciuto come Oratorio di Falaride, e a nord tra i resti del bouleuterion e di un tempio romano entro piazza colonnata – forse un iseo –, ingloba nel percorso espositivo un chiostro medievale e i resti di un edificio conventuale, connessi al complesso monastico. Di quest’ultimo, alcune murature superstiti si integrano con le moderne (segue a p. 122)
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LA PRODUZIONE ARTISTICA
calice a fondo bianco del Pittore della Phiale di Boston con Perseo e Andromeda: un raro esempio dell’uso della raffinata tecnica policroma su un vaso di cosí grandi dimensioni, che ci permette di apprezzare l’uso del colore e del disegno all’epoca sperimentato anche dai maestri della grande pittura greca (muraria o su tavola), come Zeusi, che sappiamo dalle fonti aver realizzato opere anche per Agrigento.
L’Efebo di Agrigento. V sec. a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
Il capolavoro di un artista locale? Nel ricco panorama culturale e artistico del V secolo a.C. si collocano anche i capolavori della scultura in marmo di Agrigento, entrambi della prima metà del secolo: l’Efebo, trovato in un pozzo della Rupe Atenea e il cosiddetto Guerriero, rinvenuto in frammenti in piú punti della collina dei templi. L’Efebo è databile attorno al 480-770 a.C. e rappresenta un giovane nell’atto di incedere e di porre un’offerta con la mano destra. La postura e il movimento degli arti della figura rispecchiano le novità introdotte in quegli anni nella scultura greca (soprattutto nei bronzi) a seguito dell’ampia riflessione e della sperimentazione sul movimento e sulla resa del corpo nello spazio condotta dagli artisti del mondo greco tra la fine del In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro architetture che riutilizzano gli museo quale semplice dolum
antichi e originari volumi, recuperati e rifunzionalizzati per costituire, per esempio, la sala conferenze del Museo e, al piano superiore, la storica biblioteca intitolata a Pirro Marconi. Il complesso museale fu progettato per costituire un importante polo culturale da offrire alla città, in una prospettiva, per l’epoca senza dubbio ardita e innovativa, che, superando la concezione di
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VI e i primi decenni del V secolo a.C. Sebbene l’Efebo sia dunque avvicinabile per molti aspetti a coeve sculture greche (per esempio l’Efebo di Kritios), è stato giustamente osservato come in esso alcune caratteristiche anatomiche (resa dei capelli, del collo, delle orecchie) si discostino dalla statuaria attica e mostrino stringenti affinità soprattutto con la coroplastica prodotta nella colonia. Non è improbabile, dunque, che la statua sia stata realizzata proprio ad Agrigento e sia l’opera di un artista locale, fortemente permeato dello stile della coeva scultura attica, ma capace di rielaborare tali influssi in modo autonomo e in linea con la tradizione figurativa propria di Akragas. Allo stesso milieu artistico, forse alla stessa bottega, è attribuibile anche il cosiddetto Guerriero di Agrigento. Secondo alcuni studiosi, la statua rappresenterebbe un guerriero in combattimento e farebbe parte della raffigurazione di una impresa di Eracle (la lotta contro Cicno?) collocata sul frontone del tempio che la tradizione designa come intitolato al semidio. Le datazioni della statua proposte oscillano tra il 490-480 a.C. e il 470-460 a.C., sulla base dei possibili confronti e dell’analisi del rendimento
contenitore di reperti, ne esaltava la funzione di luogo di aggregazione sociale e offriva alla comunità locale e al territorio un’importante occasione di crescita. L’accesso si apre sul chiostro medievale: qui, in una suggestiva commistione di antico e moderno, si affacciano le architetture medievali dell’Auditorium Lizzi (il coro
della chiesa) e le moderne murature del Museo; queste comprendono, sul prospetto, oltre all’esposizione del sedile in pietra con dedica iscritta proveniente dall’area dell’antico ginnasio di età augustea, una interessante sequenza di elementi in laminato di rame battuto aggettanti dalla parete, singolarmente concepita quale proiezione esterna delle vetrine della Sala II. L’edificio, nel suo
dei dettagli anatomici. In merito all’identificazione della scultura, sono state avanzate altre opinioni da parte degli studiosi: secondo uno studio recente, infatti, la statua non raffigurerebbe un guerriero, ma un gigante caduto in una scena di gigantomachia su uno dei frontoni del tempio detto di Eracle; l’esecuzione di tali sculture sarebbe da ascrivere ad artisti chiamati dalla Grecia dal tiranno Terone per decorare il tempio. Secondo un’ulteriore ipotesi, che appare però poco convincente alla luce di studi recenti, la statua avrebbe invece fatto parte della decorazione scultorea del colossale tempio di Zeus Olimpio. Quest’ultimo, iniziato dopo il 480 a.C., viene riccamente decorato da una serie di sculture: i monumentali Atlanti in blocchi di arenaria, disposti sui lati lunghi, alti 7,65 m e rappresentati nell’atto di sorreggere la trabeazione; sui frontoni, lunghi oltre 50 m, enormi scene di Gigantomachia a est e della caduta di Troia a ovest, realizzate a rilievo. Insieme alle maestose proporzioni dell’edificio, ricco di novità architettoniche, anche i temi espressi nella decorazione scultorea appaiono particolarmente efficaci a esprimere il messaggio propagandistico della
insieme, presenta una complessa articolazione in diversi corpi di fabbrica tra loro collegati a segnare un percorso di visita particolarmente suggestivo, che accompagna il visitatore lungo itinerari al tempo stesso topografici e cronologici; tali percorsi, che riflettono l’ordinamento scientifico delle collezioni, si sviluppano e si integrano con le architetture museografiche e rappresentano
Il cosiddetto Guerriero di Agrigento. V sec. a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
tirannide di Terone, volto a evidenziare il prestigio e la potenza di Akragas che in quegli anni usciva vittoriosa dalla battaglia di Himera (480 a.C.).
La transizione verso l’ellenismo Della scultura di Akragas ascrivibile alla piena età classica si conoscono pochi documenti: tra questi una statua di Demetra, di cui si conserva solo la testa, rinvenuta nel santuario delle Divinità Ctonie e databile ai decenni finali del secolo. Le caratteristiche formali e stilistiche dell’opera rimandano agli influssi della scultura attica di età classica e, in particolare, alle opere della cerchia fidiaca, trovando confronti con lo stile di Agoracrito. Con la fine del V secolo a.C., la grande produzione artistica di Agrigento appare molto ridimensionata a causa dell’invasione cartaginese. L’attività delle botteghe riprenderà negli ultimi decenni del IV secolo a.C., con la rinnovata prosperità del periodo timoleonteo e proseguirà anche nell’epoca ellenistica, quando si esprimerà con i caratteri internazionali dell’ellenismo, come avviene anche in altre poleis dell’isola. (V.B.)
il frutto della sapiente collaborazione dell’architetto Minissi con importanti personalità di studiosi, gli archeologi Pietro Griffo – che del Museo fu il fondatore – ed Ernesto De Miro. Tra gli elementi essenziali della progettazione museografica un ruolo importante giocava certamente la luce naturale che, ancora oggi, si irradia all’interno degli spazi museali attraverso la
caratteristica sequenza di chiostrine intercluse sistemate a giardino: un tratto distintivo dell’architettura e dell’esposizione, che trova la sua piú singolare realizzazione nella sala delle collezioni vascolari (Sala III), dove rimane intatta l’originale sequenza di vetrine poste in posizione obliqua ai vertici dei cavedi, a segnare un singolare percorso a nastro intorno agli stessi. Cuore (segue a p. 124)
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LA PRODUZIONE ARTISTICA
La cultura figurativa di età romana Non è facile ricondurre a una cornice unitaria gli aspetti della cultura figurativa di Agrigentum. Nei cinque secoli in cui si distribuiscono le testimonianze (dal tardo II a.C. alla metà del IV d.C.) sono infatti molteplici, ovviamente, i fattori di cambiamento che via via trasformano la città, come la provincia romana di Sicilia e l’impero stesso. Un filo conduttore può scorgersi nella consapevole adesione della
del Museo è certamente la sala di Zeus e quella che vi ruota intorno (Sala V). Quest’ultima è una grande galleria con profondi ballatoi destinati all’esposizione museale che avvolgono su tre lati, sovrastandolo, l’enorme vuoto di una profonda cavea, sulla cui parete di fondo svetta il Telamone, figura di Gigante alta oltre 7 m, che apparteneva alla decorazione del colossale tempio di Zeus Olimpio ubicato
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committenza locale a idee, modelli e tendenze di una cultura sempre piú integrata e «globalizzata», qual è quella dell’impero romano, sfaccettata tuttavia secondo varie articolazioni geografiche, sociali, cronologiche. L’eredità di Akragas doveva essere ben percepibile per chi abitava o frequentava la città romana: basti pensare all’impatto dei templi classici ancora svettanti ai vertici sud-ovest (tempio «dei Dioscuri») e sud-est (tempio «di
nel settore occidentale della Collina di Templi. L’ideazione museografica è di straordinaria suggestione: la sala è l’ideale rappresentazione del tempio, intorno al quale si contestualizza, con la quantità di reperti esposti lungo le tre gallerie intorno alla grande cavea, la sequenza ininterrotta dei santuari demetriaci e dei grandi edifici di culto perlopiú ubicati sulla collina dei templi e
Sarcofago con il busto della defunta ritratto sul medaglione sollevato trionfalmente da due grandi Eroti in volo. 250 d.C. circa. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
sulle pendici della Rupe Atenea. Il senso di smarrimento che può cogliere chi arrivi impreparato alla sala si ricompone nella rapita contemplazione dell’insieme: cosí, alla grandiosità del Telamone e degli spazi fa da immediato contraltare la visione delle delicate e morbide fattezze dell’Efebo di Agrigento, originale del V secolo a.C., che si delinea sullo sfondo, in una posizione
In basso la sala del Museo «Pietro Griffo» nella quale sono riunite le ceramiche figurate di importazione greca. Sullo sfondo, si riconosce la statua del Guerriero.
Giunone») del perimetro urbano e al rapporto visivo tra il tempio «della Concordia» e l’area centrale, con le case signorili e il teatro ricostruiti in forme piú monumentali dal II secolo a.C. e i complessi su terrazze a ovest/ nord-ovest dell’agorà/foro, implementati fino ai primi decenni dell’impero. È peraltro possibile che si conservassero almeno parti degli arredi ed ex voto scultorei dei vecchi santuari, come attestato per l’epoca di Verre (73-71 a.C.: Cicerone menziona il celebre toro di Falaride, un Apollo opera di Mirone, un Ercole bronzeo).
Contesti pubblici e privati L’interesse per l’arte greca ad Agrigentum pare tuttavia incanalato nei canoni della cultura contemporanea e nelle coeve modalità di fruizione dei manufatti artistici, adeguate alle esigenze comunicative e ai valori del mondo romano. Cosí, nella sfera privata, a esprimere raffinatezza e amore per il lusso predomina il gusto ellenistico, che perdura fino alla prima epoca imperiale negli arredi delle case dell’élite, con statuette in marmo e terracotta (Domus dell’Atleta, delle Afroditi...) o finissimi quadretti a mosaico (Casa della Gazzella), e probabilmente suppellettili e ornamenti in metallo, legno, tessuto non pervenutici. Fa da contraltare per i complessi pubblici e religiosi l’impiego di statue in marmo di divinità
ricalcate su «originali» dell’arte greca «di madrepatria», prodotte da officine della Grecia, della Campania o di Roma, soprattutto dall’età augustea. Tali opere imitative, che sarebbe riduttivo etichettare con il nostro concetto di «copie», perché di volta in volta reinterpretate, apparivano impregnate di un’autorevolezza speciale proprio per la loro ascendenza prestigiosa (Asclepio dal tempio detto di Eracle, la cosiddetta Hera di Girgenti). Ma la categoria preminente nel nuovo santuario con tempio di tipo italico, inaugurato agli inizi dell’età giulio-claudia (14-68 d.C.) a nord-ovest dell’agorà/foro, e verosimilmente dedicato al culto imperiale, è la scultura iconica. Purtroppo, i dati rimasti non sono sufficienti per precisare i soggetti, né per ricostruire l’allestimento originario, certo piú ricco, del complesso, ma bastano a mostrare come le statue ritratto ne fossero una componente essenziale. Delle quattro figure maschili panneggiate scoperte, due furono rinvenute ai piedi dell’avancorpo frontale a mo’ di tribuna del tempio e, se era quella la loro collocazione originaria, potrebbero forse assegnarsi a membri della famiglia imperiale qui onorati; due erano invece già venute alla luce nell’Ottocento, come un torso virile in nudità, andato nel frattempo disperso, verosimilmente riferibile a un personaggio
che sollecita la contrapposizione tra la maestosità della costruzione architettonica rappresentata dal Telamone e la lievità di un’opera scultorea, pressoché contemporanea al grandioso tempio, espressione tra le piú significative della statuaria greca di stile severo in Sicilia. Completa l’insieme la presenza di un soffitto, a copertura della grande cavea, realizzato con semplici pignatte (segue a p. 126)
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LA PRODUZIONE ARTISTICA
eroizzato post mortem (Augusto o uno dei suoi nipoti?). Il dato interessante è che le statue conservate, sia che effigiassero personaggi della corte, sia che fossero ritratti di esponenti dell’élite locale, sono tutte in toga, la veste «d’ordinanza» del cittadino romano, e riproducono fin nei minimi dettagli il codice iconico stabilito nella Roma augustea. Ma come venivano rappresentati i maggiorenti locali nella sfera privata? Qualche ritratto rinvenuto nell’area dell’abitato, databile piú o meno alla stessa epoca, potrebbe in teoria appartenere a statue o busti dedicati, per esempio, da clienti e affiliati in contesto domestico o in sedi collegiali; tuttavia, non si può escludere che queste sculture fossero state spostate dalla vicina area forense in epoca tarda. Si penserebbe a un contesto primario pubblico, almeno per un frammento ridotto alla parte superiore del capo, che rappresentava forse uno dei figli di Costantino: per quanto mutila, va segnalata la qualità elevata di questa scultura, che è la piú recente fra quelle trovate ad Agrigento. Danno invece un’idea piú viva della mentalità e dei valori della committenza i manufatti di arte funeraria. Il piú antico sarcofago romano dalla città (130 d.C. circa),
a vista, capace di trasferire nel visitatore, con ardita intelligenza, un senso di indeterminatezza che ha forse la sua ragione nel ricordo delle fonti che narrano di una costruzione, quella del colossale tempio, mai portata a compimento. Il Museo accoglie numerose collezioni di diversa formazione, provenienti dal territorio; di queste, la piú consistente venne trasferita dal
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di alto livello qualitativo, appartiene a una delle serie piú precoci realizzate nella stessa Roma, dove si concentra la gran parte della produzione di sarcofagi, con scene sia di vita umana sia mitologiche, sia con decorazioni simboliche o motivi ornamentali piú semplici abbinati al ritratto del defunto o alla tabella con il suo nome.
Un linguaggio toccante Tutti i generi suddetti sono documentati ad Agrigento tra l’avanzata età adrianea e l’epoca tardo-imperiale (talvolta con prodotti di officine periferiche di ispirazione urbana), e sembrano spesso destinati a sepolture di fanciulli o giovani, da quanto si riesce a giudicare dalle dimensioni della cassa o dai soggetti. Nella categoria «vita umana» s’inserisce appunto il sarcofago di piccolo formato per l’inumazione di un bambino, che in origine doveva trovarsi in una camera-sacello funerario nella necropoli a sud del tempio della Concordia. Lo stile classicheggiante dell’età di Adriano è qui declinato in un linguaggio toccante nella sua sobrietà, senza filtri allegorici: sulla cassa sono composte alcune scene topiche del cursus vitae di un rampollo di famiglia agiata, che sarebbe stato votato a grandi cose, se il destino non l’avesse
In alto particolare di un sarcofago per l’inumazione di un bambino. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo». Nella pagina accanto, in basso il plastico del Museo, progettato e allestito dall’architetto Franco Minissi.
strappato ai suoi inconsolabili cari. Le Parche sullo sfondo della scena del primo bagno dell’infante, la lezione di lettura in cui il bambino dà prova delle proprie qualità intellettuali, il viaggio su una confortevole vettura guidata da arieti inquadrano la figurazione che ha il maggiore sviluppo sulla fronte, inequivocabile: il cadaverino panneggiato nella toga è disteso sul letto funebre, tra i familiari che compiono gesti di lutto e di affezione. L’accostamento a contrasto con la scena, assai piú contenuta, in cui lo scolaro è al centro degli sguardi
Museo Civico della città; alcune confluirono dai musei di Siracusa e Palermo, i piú antichi dell’isola, che, a partire dal XIX secolo, si erano arricchiti dei numerosi reperti restituiti dagli scavi condotti nella città e nel territorio di Agrigento. Altre, invece, sono il frutto della ricerca archeologica condotta ininterrottamente dalla Soprintendenza di Agrigento nel corso del secolo scorso e fino ai
ammirati del padre, del pedagogo e dei servitori esprime con efficacia il dolore bruciante della perdita e il rimpianto. In altri manufatti, il sepolto è contornato da immagini ispirate al repertorio mitologico, allusive alla felicità e al viaggio del defunto nell’aldilà (il thiasos delle Neredi e dei Tritoni che recano «in trionfo» il cartiglio con l’iscrizione funeraria, in un sarcofago infantile del 150-170 d.C. dalla stessa necropoli), all’amore, alla ricchezza della natura e al ciclo perenne delle stagioni. Questi due ultimi temi, tra loro intrecciati,
nostri giorni. La storia della polis vi è narrata a partire da quei territori piú o meno contermini già interessati da insediamenti preistorici e che, nella Media e Tarda età del Bronzo, come attestato da reperti dell’orizzonte miceneo, documentano scambi e rapporti con l’Egeo prima della colonizzazione (Sala II). L’itinerario espositivo – con pezzi di inusuale interesse come il noto dinos di fabbrica geloa
(fine del VII secolo a.C.) proveniente dal sito costiero di Monte Castellazzo di Palma di Montechiaro – include il vasto territorio toccato dai coloni rodio-cretesi nel cammino sino alla foce dell’Akragas, già all’indomani della fondazione entrato nell’orbita della nuova polis. La narrazione museografica, attraverso la quale si dispiega la storia della città sino alla conquista romana (segue a p. 128)
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LA PRODUZIONE ARTISTICA
costituiscono la versione in chiave funeraria di un leitmotiv dei mosaici delle domus agrigentine e mostrano una discreta longevità. Nel sarcofago «delle Donne coronarie», databile al III secolo avanzato, ne sono espressione i quattro «genietti stagionali» o amorini che recano canestri di frutti e reggono il medaglione col ritratto infantile sopra una vignetta con due donne che intrecciano corone (di qui il nome convenzionale dato al sarcofago). Un’allegoria piú complessa reca un esemplare di poco piú antico (250 d.C. circa) foggiato a mo’ di lenòs (vasca ovale per la pigiatura dell’uva), secondo un diffuso simbolismo dionisiaco. Il tripudio di immagini che esalta il busto della defunta, ritratto sul medaglione sollevato trionfalmente da due grandi Eroti in volo, include la coppia in abbraccio di Eros e Psiche, ripetuta due volte sulla fronte, e altre due figure infantili con canestri di frutta e fiori sui laterali; le vignette inferiori aggiungono motivi bucolici e giocosi, suggestivi di serenità idillica (animaletti, putti con maschera, Pan e caprette) con sfumature beneauguranti (la lotta dei galli, simbolo di vittoria e di vitalità). In un momento piú precoce, nell’età severiana (primo quarto del III secolo), abbiamo invece un’attestazione, estremamente rara nel contesto siciliano, della piú ricercata arte classicistica dei sarcofagi attici di tema
e oltre, si sviluppa attraverso l’esposizione dei reperti provenienti dalle aree sacre della Collina dei Templi e delle pendici della Rupe Atenea (Santuario di San Biagio), ma anche dall’abitato e dalle necropoli, la piú monumentale delle quali, in contrada Pezzino, in parte depredata nel XIX secolo, ha contribuito ad arricchire importanti musei stranieri. Gli aspetti del culto,
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particolarmente di matrice demetriaca, appaiono soprattutto esemplificati dalle terrecotte, perlopiú offerte votive – tra cui maschere, statuette e busti – che affollano la sequenza ininterrotta di vetrine della Sala V, cuore del Museo: una produzione corrente di officine locali alla quale si affianca quella di veri maestri coroplasti, esemplificata dalla testa di sfinge o kouros (ultimo quarto del VI secolo a.C.) e dalla
testa elmata (490 a.C. circa), forse Atena, probabilmente concepita per un gruppo scultoreo frontonale. La scultura in marmo vi è rappresentata da veri capolavori: il noto Efebo di Agrigento, rivenuto alle pendici della Rupe Atenea (Sala V bis) e la statua ricomposta di Guerriero (sala III) dalla Collina dei Templi – forse appartenente a una composizione frontonale – sono opere di grandi maestri partecipi
Nella pagina accanto uno dei lati principali del sarcofago in marmo bianco con scene che narrano il mito di Fedra e Ippolito. Inizi del III sec. d.C. Agrigento, chiesa di S. Nicola. Qui è ritratta Fedra, nel gineceo, afflitta dallo struggimento amoroso.
mitologico. Si tratta dell’opera ritenuta dai visitatori di Girgenti «uno dei piú eccellenti e forse il piú bel rilievo dell’antichità che si sia conservato nel marmo»: il sarcofago con scene del mito di Ippolito e Fedra oggi nella chiesa di S. Nicola (la citazione è tratta dall’entusiastica descrizione del barone Joseph Hermann von Riedesel, pubblicata nel 1771, che fomentò un vero e proprio pellegrinaggio di colti personaggi europei desiderosi di ammirarlo).
Un prodotto di prima qualità Contrariamente all’idea dei primi esegeti, il manufatto non è certo di età greca, né ha connessione alcuna con l’antica Akragas, ma risale alla produzione di lussuosi sarcofagi figurati fiorita nell’Atene del II-III secolo d.C., che mette modelli e cartoni figurativi ripresi dall’arte classica al servizio dell’ideologia funeraria e delle esigenze rappresentative delle clientele piú facoltose dell’impero. Esso testimonia, quindi, la ricchezza e il gusto di un ignoto committente agrigentino, che può acquisire un prodotto artistico di prima qualità (da immaginare completato da un coperchio in forma di tetto frontonato, o perfino di kline con coppia di sposi recumbenti), al pari dei possessori dei sarcofagi analoghi rinvenuti presso Cosa (Ansedonia, sulla via Aurelia), Tarraco (Tarragona, in Spagna), Arelate (Arles,
della temperie culturale che nell’arte, tra il 480 e il 470 a.C., segna, con il superamento del rigido linguaggio formale dell’arcaismo, il passaggio allo stile severo. Tra le raccolte piú significative è quella vascolare da contesti funerari, arricchitasi grazie a scavi regolari condotti nelle necropoli (Sala XI). Il nucleo piú consistente (Sala III), proveniente perlopiú dalle civiche collezioni, annovera
in Provenza, Francia), Apollonia (Cirenaica, Libia), Tiro (nel Libano). Purtroppo, avendo solo notizie molto vaghe sul rinvenimento, non possiamo dire come i messaggi evocati dalle immagini che avvolgono per intero la cassa venissero fatti propri dai congiunti. Sui due lati destinati a una visione privilegiata le figure della bella Fedra nel gineceo, afflitta dallo struggimento amoroso, e di Ippolito campeggiante fra i compagni di caccia in nudità, simili a statue di atleti, dovevano comunque rapportarsi all’esperienza e ai sentimenti dei fruitori, offrendo loro un modello consolatorio. Il parallelo che rendeva attuale ai loro occhi la storia narrata si fondava, probabilmente, sulla polarità fra una sposa innamorata o una madre straziata dall’affezione al figlio e un giovane uomo strappato inspiegabilmente alla vita: una valenza del mito che è sottolineata anche dalla cruda figurazione del cadavere dell’eroe nella scena contrapposta al delirio amoroso di Fedra, il bel corpo ormai disarticolato e calpestato dai cavalli imbizzarriti. Tuttavia nel nostro caso si è deciso di non dare pari risalto a questo lato e al retro con la caccia al cinghiale, lasciandoli non rifiniti, si direbbe con l’intenzione di imprimere nel ricordo dei superstiti solo l’immagine di un giovane bellissimo e degno di struggente nostalgia. (E.C.P.)
capolavori di grandi ceramografi, quali, per il V secolo a.C., il maestoso cratere a calice a figure rosse con scena di deposizione del corpo di Patroclo al cospetto di Achille, del pittore di Kleophrades (490 a.C. circa) e il raro cratere a fondo bianco del Pittore della Phiale di Boston con figure di Perseo e Andromeda rese con delicato tratteggio policromo (440-430 a.C.). Non proviene da
Akragas, ma dalla necropoli di Gela, il cratere attico del Pittore dei Niobidi (460 a.C.) che svetta nella sua maestosità al centro della Sala XV, dedicata appunto alla madrepatria Gela, che fa da cerniera nell’itinerario relativo al vasto territorio sul quale Akragas esercitò la propria egemonia politica e culturale, compreso tra i fiumi Platani a occidente e Salso a oriente. Armida De Miro
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MONOGRAFIE
n. 38 agosto/settembre 2020 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Gianfranco Adornato è professore aggregato di archeologia classica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Vincenzo Baldoni è ricercatore in archeologia classica presso l’Università di Bologna. Luigi Maria Caliò è professore associato di archeologia classica presso l’Università di Catania. Valentina Caminneci è funzionario archeologo del Parco archeologico e paesaggistico della Valle di Templi di Agrigento. Monica de Cesare è professore associato di archeologia classica presso l’Università degli Studi di Palermo. Armida De Miro è dirigente responsabile del Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo» di Agrigento. Giovanni Luca Furcas è dottore di ricerca in antichità classiche. Giuseppe Lepore è professore associato di archeologia classica presso l’Università di Bologna. Donatella Mangione è funzionario archeologo presso il Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo» di Agrigento. Giuseppe Parello è dirigente responsabile del servizio gestione dei parchi e dei siti UNESCO dell’Assessorato Beni Culturali ed I.S., Regione Siciliana. Graziella Parello è dirigente scolastico, I.C. De Cosmi, Casteltermini. Maria Concetta Parello è funzionario archeologo del Parco archeologico e paesaggistico della Valle di Templi di Agrigento. Elisa Chiara Portale è professore ordinario di archeologia classica preso l’Università di Palermo. Federico Rausa è professore di archeologia classica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Maria Serena Rizzo è funzionario archeologo del Parco archeologico e paesaggistico della Valle di Templi di Agrigento. Michele Scalici è dottore di ricerca in archeologia. Illustrazioni e immagini: Emanuele Simonaro: copertina e pp. 6/7, 8/9, 18/19, 24, 58/59, 66/67, 78/79 – Mondadori Portfolio: pp. 42/43; AKG Images: pp. 10/11, 17, 25, 40, 49, 50, 56/57, 60/61, 63, 104, 109; Album/Prisma: pp. 36/37; Album/Oronoz: p. 111; Age: p. 127 – Shutterstock: pp. 12/13, 20-23, 32, 34/35, 38/39, 41, 45, 46/47, 48, 52, 54, 70/71, 72-73, 74/75, 76/77, 80-81, 86-89, 90, 91 (basso), 105, 106 – Doc. red.: pp. 15, 26/27, 38, 46, 55, 62, 64-65, 91 (alto), 110, 118, 119 (alto), 128 – Altair4 Multimedia Roma, www.altair4.it: ricostruzioni virtuali alle pp. 16/17, 28/29, 76, 84/85 – Bridgeman Images: pp. 29, 30-31, 33 – da: Valentina Caminneci (a cura di), Le opere e i giorni. Lavoro, produzione e commercio tra passato e presente, Palermo 2014: p. 43 – Cortesia degli autori: pp. 50 (basso), 51, 124 – Alamy Stock Photo: The History Collection: p. 56 – Cortesia Giovanni Luca Furcas: pp. 82-83 – Cortesia Giovanni Lepore: pp. 92-95 – Cortesia Giuseppe Cavaleri: pp. 96/97, 97, 98 – Cortesia Giuseppe Grizzaffi: pp. 100, 101 (basso), 102/103 – Cortesia archivio fotografico del Parco archeologico e paesaggistico della Valle di Templi di Agrigento: p. 103 – Cortesia V. Cucchiara: p. 107 – da: Liliane Dufour, Atlante storico della Sicilia. Le città costiere nella cartografia manoscritta 1500-1823, Palermo-Siracusa-Venezia 1992: pp. 108/109 – Cortesia Michele Scalici: pp. 112/113, 114, 116-117 – da: Valentina Caminneci, Maria Concetta Parello, Maria Serena Rizzo (a cura di), La città che produce, Bari 2018: p. 115 – Archivio fotografico del Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo» di Agrigento: Angelo Pitrone: pp. 119 (basso), 122; Manlio Nocito-Angelo Pitrone: p. 120; Cucchiara: pp. 121, 123, 125; Fazio: p. 126 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 63, 68/69. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: il tempio della Concordia.
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