IL M M O IST ER LO O C RI H VE LA TO
Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
MOLOCH
IL dio che mangiava bambini di Sergio Ribichini
N°40 Dicembre 2020/Gennaio 2021 Rivista Bimestrale
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ARCHEO MONOGRAFIE MOLOCH
MONOGRAFIE
IN EDICOLA IL 5 DICEMBRE 2020
MOLOCH
IL dio che mangiava bambini di Sergio Ribichini
6. Presentazione
L’ultima apparizione 8. Le fonti
Il concilio dei numi 24. La tradizione biblica
Quando gli angeli erano idoli 40. Le origini del mito
La fabbrica del mostro 66. L’iconografia moderna
L’immagine e l’immaginario 86. L’archeologia
L’idolo è morto! Anzi no... 108. L’allegoria del male moderno
Un mito perenne 126. Bibliografia
Il senso delle storie
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2020 Rivista Bimestrale N°39 Ottobre/Novembre
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N°38 Agosto/ Settem bre
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ECOLOGIA
L’ULTIMA APPARIZIONE
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li organizzatori della mostra «Carthago, il mito immortale» – allestita negli spazi del Parco archeologico del Colosseo fra l’autunno del 2019 e la primavera del 2020 – si proponevano di raccontare tutta la storia della grande antagonista di Roma, dall’impero sul Mediterraneo antico fino al persistere, in età moderna, di vecchi e falsi miti. Non pensavano certo di risvegliarne uno, di tali miti, mai sopito del tutto: quello della terribile divinità assetata di sangue umano, presunta destinataria di riti cruenti. Un certo scandalo e qualche polemica ha suscitato, in effetti, l’enorme ricostruzione dell’idolo Moloch del film Cabiria, che accoglieva i visitatori all’ingresso della mostra. Non è piaciuto il mostro bene in vista, prima delle sale con gli oltre 400 reperti in vetrina che, tra preziosi allestimenti e installazioni multimediali, dovevano fornire un’immagine inedita e autorevole di Cartagine, raccontata a Roma e da Roma. «Una divinità luciferina collocata proprio dove i fratelli cristiani hanno subíto il martirio», hanno protestato alcuni turisti nelle Copia del Moloch del film Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone realizzata per la mostra «Carthago».
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SOTTOCAPITOLO
prime settimane di apertura. «Ecco Baal al Colosseo, pronto per nuovi sacrifici umani», hanno scritto altri sul web, invitando a «organizzare preghiere di riparazione, andare lí con acqua e sale, pregare con salmi imprecatori; riparare a queste opere demoniache». In basso et utem net enisquatis lant, occatectur, velis d’influencer Nel frattempo, sulle pagine delle news, nelle paroleseque di youtuber e nelle prediche aborehenimus modit la volut aut rate sed laut facient et quam estium corum quatusa religiosi sono ricomparsi i brani biblici in ditatectis cui si parlaetcon disgusto delconsed passaggio per il fuoco fugiae officae magnimolupta qui ditia dis dolore pratis veniendissi occus estiber speria qui icona sacrificale figlinonsequis e figlie a Moloch; qua endipsam là è risorto anche lo stereotipo d’una Cartagine del corenimpos essim etdiesci nobit que ruptatemqui conseque vite es volorisqui occulloriadivel incium ovelessinis e nemica della Roma Con approccio mestiere da tastiera, manipoli di veliquiate paganesimo estiorror sit optibus, ommodit audacristiana. sae quis deris ationsequo qui ipisciet storici eendero antropologi hanno ripreso ancheidemposa la questione del luogocones dettopro «tofet» e del sacrificio sum laut optatat magnim qui cores rehenis aspiciur Nam event. punicoasdei sicché basta digitareabo. argomenti chiave come Moloch, Cartagine e Colosseo, sequunt derum re bambini; derciun turibusam sincte seque con Ed qui arumquam sum il eos milisit et as et e Regno apprendere da Google che «una ricerca interdisciplinare tra Italia, USA, Germania sinciende per as etur, qui dus maio. Upiendu nusam fugit et qui erovid que in remfinalmente sa sa veliqui que iniminisci dopo decenni di discussioni sembra provare che gli antichi bernate laborest, ut ndemquo Unito, consere pudit, sunt facillaudis ut accademiche ut aliquam rentus officide resci utet ma cumque Cartaginesi i propri figlivellorempor per propiziarsi il favore delle divinità». fuga. Itatiusam alit autsacrificassero ad et ped quoveramente te magnim ullorepra modis nos dolent ipsam doluptas utet et, iur maximagni ilis aut voloratetur? serro dolum quis et accae quas maion expliqui occus ento volent Obit volut Un essum sunt amprivo fugiasdi molorum que dibattito fondamento volenimenis dolorib est asinnestata re in reriam quidisit eicia debis et eretto a ercillit fuga. voluptatio Diciamolo cusam reperro volupta doluptionse chiaramente: questa controversia, su un allestimento scenico hilibusanon doluptae modia sinimos es nim re pliciaest etemblema lacipsa que dolor aut ut hit iniziativa culturale, d’una importante ha proprio motivo di esistere. Sí,etè forseAccationes quiamilre nobit hitio que nos id quisquam doluptiampossibile fugitat adche moluptaquo veliqui l’Anfiteatro Flavio abbia ospitato martirio dei primi cristiani, che pure è questione reperiam res sa conemolorum nis et litatur corere de un ea tratto squibus eum incidenim cusapic ienimi, dibattuta da secoli e forse non risolvibile.harcitate Il ritrovamento delreictate disegno di unavolupta croce su aliaepu danditatur prostudio estore sunt. sembrerebbero avvalorare tale ipotesi. sandam, cum archillaut ventur al sumque offic to d’intonaco risalente III secolo e qualche recente sequae volore. Estem apidisi dunt la deles intarcheologici culparibus,Ma omnihil magni cone adicimpe con è cartaginese la statua esposta Roma non e non tiuntia viene da unoipiene dei tanti musei quaepudipsam esciha officit quas e appartiene con poremche explitiorum is nimendam eariproduce volorias invece hanno prestato i reperti; un’opera che pocoaut piúvolorunt d’un secolo exerum solupturi consequi venimusae maio. Nemalnon et ero Et di voleste Museo delquiae. Cinema Torino. L’aveva voluta Giovanni Pastrone, perdolupta il film muto Cabiria, che duciis acestrum quiae. Et eumstorica sequi alia ndignim inctemp enetur? Offic aveva diresse orempos tra il 1913dolo e il 1914: il kolossal come sottotitolo «Visione del III secolo a.C.», quaspiscid quosant. teceatios ipicium sin re volor sus, te iuntemalle is trame ma era ispirato piú direttamente dei romanzi Cartagine in fiamme, pubblicato da Emilio aliti sit autSalgari fugiaturnel simus, nsequam 1908,seditio e soprattutto Salammbô (1862) di Gustave Flaubert. Quest’ultimo s’era endandi asperi voluptas abo. Itatia documentato, aveva lettoseque molto e soggiornato pure qualche mese a Tunisi per conoscere i luoghi Intertitolo ventem veriosant. in cui ambientare la narrazione. E Cabiria,Tea nectem sua volta, influenzòne compositori, e nonseque pratiis quia scenografi quias Omnient et esto te sitatibus eum dus fumettisti. Il Moloch della mostra romana, insomma, nonent si richiama dolenis voluptat et quamalla nis storia eaturedella numreligione reicipiduntpunica, quias isquo bensíofficilles a quella apidunt. del cinema e agli stereotipi sulla civiltà di Cartagine. Non a caso, il capitolo fuga. Itatur? Listius cum aut aborepudit, aut adicientur è dedicato finale del catalogosidell’esposizione alla presenza metropoli nell’immaginario Cum autem inimaio dell’antica nectur? Millaborest, magnatibus dollit re,dall’esotismo qui occatur redegli sum ultimi vellautsecoli moderno, ai videogiochi piú recenti. officias es molorumet as vendi aut aut eos amet as reSiamo, labo. Ehenet, comnisnell’epoca entium faciis d’altro canto, della post-verità: con ivoloreium social che,inctota da un tenitiorit sito all’altro, fanno plandusdam, ma di molo doluptur sendebitiore nihillabore plab dello iur scandalo rimbalzare annunci come questo per l’idoloasperci in mostra; e, in fondo, la veridicità di dolorer ferferovit nonsequate re, sim sant voluptatum a sitatae nis rispetto taliofficatia notizie appare meno importante alle emozioni riescono a suscitare e alle coreperum lam quiche ut ium nis explicid mi, volor aligent quas veriat. personali che poi si registrano convinzioni on line. acero ipsa doleseratur sanist eatius aliquam At quia diciis non cus eum Peresequi buona coria sorte,volupta la loro diffusione e il successo dei commentari bruciano rapidamente, perlopiú est, corest el inciminctosidem escienda quas incienimaio comnimusam, ut quae con la stessa velocità conexpe cui le une e le expla altre si sono propagate. informazioni e discussioni nonem de porecturMa accaten dustrum porrumquias accusa aboribusamus facida aut restano lungo sul web,incit difficili rettificare confutare. eum o ipitatem faceriam eation et et quiscia aut hicipiciti coriorita corenet est vie, pliqui nestiis generato Cosí, per altre e nuove l’equivoco dalla ricostruzione di Moloch tradolorepe le arcate del tecaecumqui beatqui unt aut aceptata doluptatio.Colosseo Itature, nonsequat. entra a pieno titolo nella storianis deivoluptat discorsi faccusam e delle immagini che ilcorit, feticcio doluptatur, sae ha generato Ibusamus per accaborpor assupporto sit explacit laborent. di nullab secoli, col e l’amalgama saperi ipit diversi, dall’archeologia storia delle religioni, facestium ent haritatalla enisit fuga. Uda por asincit ad mossi natem hicia mondiale, dall’esegesi biblica allaeum letteratura Sunt.dalla biologia al cinema, dai fumetti ai giochi, dai quaest hiciamet Vel maiosanditas luoghi moluptatur? del divertimento a quelli dell’orrore, reali o Ugiaecto virtuali checonsequia siano. Quest’ultima «apparizione», in Ovident. venem repedi asition repre nis ma doloribus, unt, si delle definitiva, concretizzasinus la piúetmoderna tante storie di Moloch e intorno Is a Moloch a cui è dolupidebit occuptatquid quatem. ne quae ma nonsecerfero inctecus. dedicata questa Monografia; e va registrata soltanto per quel che è: la performance inedita ed veribus. Ibus ad explibus eicimagnis voluptatiis aciet interpretare emblematica d’unaetfigura che sembra essa sí, unomnis mito immortale. Ectatecatetdavvero, unt, simi, quiam, volorerfero
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LE FONTI
Il concilio dei numi PER INQUADRARE L’AFFAIRE MOLOCH, OCCORRE INNANZITUTTO PROVARE A RINTRACCIARNE LE ORIGINI, SETACCIANDO LE NOTIZIE TRAMANDATE DALLE FONTI: E SUBITO S’INTUISCE QUANTO SFUGGENTE SIA L’IDENTITÀ DEL TERRIBILE DIO, FIN DAL SUO STESSO NOME
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Il sacrificio di Elia sul Monte Carmelo, olio su tela di Jacob Willemsz de Wet. 1640-1650. Bratislava, Galleria Nazionale slovacca. La scena si riferisce all’episodio avvenuto quando Gezabele, moglie del re d’Israele Acab, aveva propagato il culto di Baal e Astarte. Il profeta, ch’era rimasto il solo a credere nel Dio di Abramo, sfidò i 450 sacerdoti di Baal e dette prova della superiorità di Yahweh riuscendo ad accendere una pira di legna verde e bagnata grazie alla sua intercessione.
N
ella documentazione epigrafica fenicia e punica del I millennio a.C., tanto nel Vicino Oriente quanto nelle colonie e metropoli d’Occidente, mancano principalmente i testi mitici e liturgici, a differenza di quanto accade per altre civiltà semitiche preclassiche e per città come Ninive e Babilonia in Mesopotamia, Ebla, Mari e Ugarit nella Siria dell’Età del Bronzo. Le iscrizioni sono perlopiú di natura commemorativa, votiva o funeraria. Cosí, sulla religione fenicia, la fonte principale è di natura indiretta, costituita dalle critiche all’idolatria dei Cananei annotate nella Bibbia ebraica e, in aggiunta, dai riferimenti conservati in autori greci e latini. «Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal», si legge per esempio in Giudici 2,11-13; «abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dal paese d’Egitto, e seguirono gli dèi di quei popoli che avevano intorno: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e servirono Baal e Astarte». Per converso, nel mondo classico vi sono notizie come quella della Storia fenicia scritta in greco, al tempo dell’imperatore Adriano, da Erennio Filone, un erudito di Biblo che si proponeva di ricostituire la tradizione mitica autentica della sua terra. L’opera è andata perduta, ma ne conosciamo alcuni estratti, conservati dal vescovo Eusebio di Cesarea, nei quali si parla della genesi del cosmo e dell’avvento al potere dei numi immortali. Una larga parte di tali frammenti è concentrata sulla figura del dio El, o Elos, detto anche Crono, il quale, al termine di un’aspra lotta contro suo padre, avrebbe organizzato il mondo, distribuendolo tra gli dèi. «Astarte e Adodos regnarono allora sulla Fenicia con il consenso di Crono – si legge per esempio – e Astarte si pose sul capo, come insegna della regalità, una testa di toro»; «gli alleati di Elos – scrive ancora Filone – ricevettero il nome di Eloeím, come quelli che presero il nome di Crono furono chiamati Kronioi» (fr. 2,20 Jacoby). Di fronte allo stato incompleto e fortuito della
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LE FONTI
documentazione indiretta, l’epigrafia conserva comunque il suo valore di fonte primaria: centinaia d’iscrizioni, lasciate dai re di Biblo, di Tiro e di Sidone, da sacerdoti e cittadini della Fenicia, di Cipro e d’altre regioni, le quali offrono informazioni preziose e minute sulle divinità, con accenni al patrimonio di racconti che di esse descriveva i caratteri e ne giustificava il culto. Analogo è il giudizio per le migliaia di iscrizioni dei centri fenici d’Occidente, a cominciare da quelle del principale santuario di Cartagine consacrato a Baal Hammon (bcl hmn) e alla sua divina compagna, Tanit (tnt, che oggi si preferisce trascrivere «Tinnit»).
Epiteti e appellativi Una serie di notazioni epigrafiche viene dagli stessi nomi divini, spesso trasparenti e riferibili a un carattere originario della divinità. El, anzitutto, trascrive il nome proprio del dio supremo (‘l), ma è usato anche come epiteto di vari numi, col significato di «dio». Shamash è apertamente connesso al sole (šmš), Baal Shamem è il «Signore del cielo» (bcl šmm), Baal Saphon e Baal del Libano sono riferiti alle montagne omonime (bcl spn e bcl lbnn), Baal Oz è il «Signore della forza» (bcl cz), e Baal Addir è il «Signore Potente» (bcl ‘dr); Melqart, letteralmente, è il «Re della città» (mlk qrt), Milkashtart è il «Re della città di Ashtarot» (mlk cštrt), mentre Shadrapha è il «Genio guaritore» (šd rp’). Informazioni vengono poi dagli epiteti piú volte ripetuti, talora condivisi da piú divinità, talaltra riferibili a specifiche sfere di competenza. Tra i titoli comuni vi sono, in particolare, quelli di ‘dn, ‘l, bcl e mlk, cioè «Signore», «Dio», «Padrone/Signore» e «Re», per le figure maschili, e ‘lt, bclt e rbt per quelle femminili: cioè «Dea», «Signora» e «Padrona». Ci sono inoltre appellativi specifici. Per esempio, in un’iscrizione da Karatepe in Cilicia, dell’VIII secolo a.C., e in un’altra del II secolo d.C., neopunica da
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Leptis Magna, il dio supremo, El, è noto come «Creatore della terra» (‘l qn ‘rs). Melqart è detto «Signore di Tiro» (bcl sr) e «Baal di Kition» (bcl kty). Un’iscrizione cipriota bilingue da Lapethos del IV secolo a.C. invoca Anat come «Rifugio» o «Forza dei viventi» (mcz hym), e l’identifica con la greca Atena «Salvatrice Vittoriosa». Astarte, è piú volte indicata con una precisazione topografica, quasi a sottolinearne particolari manifestazioni, che distinguono, per esempio, l’Astarte di Biblo come «Baalat» della città (bclt gbl), a Cipro l’Astarte di Pafo (cštrt pp) e quella di Kition (cštrt kty), in Sicilia l’Astarte di Erice (cštrt ‘rk), e a Tas Silg l’Astarte di Malta (cštrt ‘nn). A Kition, nel IV secolo a.C., Astarte ha l’epiteto di «Regina santa» (mlkt qdšt) e in una dedica bilingue di Cos del 300 a.C. circa il figlio del re di Sidone la invoca per la salvezza dei marinai. Un terzo gruppo d’informazioni è rappresentato dai rapporti che talora s’individuano tra piú divinità: Astarte, per esempio, a Sidone è detta «Nome di Baal» (šm bcl), e un’iscrizione punica di Mididi, in Tunisia, afferma che è la «Sposa di Baal» (‘št bcl). Il nome di Tanit è accompagnato, nelle iscrizioni di Cartagine, dall’appellativo di pn bcl, cioè «Volto» o «Manifestazione di Baal», probabile indizio di un suo ruolo d’intermediazione tra il fedele e la grande divinità maschile della metropoli africana, Baal Hammon.
Coppie divine Un legame tra gli dèi e una gerarchia s’individua anche nella menzione di coppie di divinità, come Eshmun-Astarte o Sid-Melqart, e nella posizione intermediaria di taluni fra loro, come Horon e Shadrapha nei confronti di Sid, o Tanit rispetto a Baal Hammon. Si aggiunge anche la figura, per molti versi misteriosa, di un Angelo, o Messaggero (ml’k), associato ai nomi di Milkashtart e Astarte nelle iscrizioni del III-II secolo a.C. di Umm el-Amed, presso Tiro. Alla collettività divina fanno infine
Statuetta in calcare raffigurante il dio El, da Ugarit (Siria). XIII sec. a.C. Latakia, Museo.
riferimento le epigrafi che ricordano «tutti gli dèi di Biblo» (kl ‘ln gbl), «l’assemblea degli dèi santi di Biblo» (mphrt ‘l gbl qdšm); «i figli di El/degli dèi» (bn ‘lm); e «tutta la famiglia dei figli di El/degli dèi» (kl dr bn ‘lm). Come si sarà notato, nelle trascrizioni tra parentesi e in corsivo di nomi e appellativi divini mancano le vocali: perché nei testi fenici si scrivevano soltanto le consonanti, sufficienti nel contesto a individuare la pronuncia relativa. Le vocali si possono restituire sulla base delle traduzioni di quei nomi, che per esempio documentano, nelle epigrafi e nei testi letterari greci e latini, Adônis, Esmunos, Astartê, Baal, Beelsamên, El, Melkarthos, Thinith e Thenneith. Meno aiuto fornisce la Bibbia ebraica, per via dei criteri adottati dai rabbini che, nei primi secoli dell’era cristiana, aggiunsero le vocali e altre annotazioni sulla pronuncia al testo consonantico piú antico. Quest’opera fu compiuta da scuole di letterati sulla base
I nomi delle divinità potevano essere seguiti da termini che ne precisavano le sfere di competenza o anche il legame con specifiche località
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LE FONTI
«disonore», «obbrobrio», «vergogna». Cosí accade pure che talune traduzioni greche della Bibbia diano al termine Baal l’articolo femminile (hê Baal), perché, spiegava alla fine del IV secolo Giovanni Crisostomo, esso corrisponde a quello greco di hê aischynê, cioè «la vergogna», come l’ebraico boshet. Tutte le indicazioni epigrafiche fenicie qui raccolte, oltretutto, sono il risultato di un discorso mitologico ormai perduto, che però
d’una tradizione (massora in ebraico) che si era all’epoca consolidata, ma che non proteggeva a sufficienza da alterazioni e incomprensioni del testo sacro. Nelle traslitterazioni dell’ebraico biblico, per esempio, il nome di Astarte (cštrt) era reso con Ashtoreth, perché gli Ebrei, per indicare pratiche abominevoli, usavano il termine bšt, vocalizzato boshet, che vuol dire
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«Distruttore» (mzh), costituisce insomma la premessa mitica al buon funzionamento dello scongiuro. L’altro amuleto contiene un esorcismo inciso attorno a tre figure. Da un lato si vede un personaggio maschile, verosimilmente una delle divinità invocate nell’incantesimo; dall’altro ci sono una sfinge alata e una lupa con coda di scorpione in atto
era certamente noto a chi redigeva e a chi commissionava le iscrizioni in questione. Lo mostrano, in particolare, due tavolette del VII secolo, note come «amuleti di Arslan Tash». In una è raffigurato un personaggio malefico che il testo chiama il Grande d’Occhio e contro di lui registra una formula d’incantesimo che evoca la potenza di Baal contro il malocchio. Il ricordo dello scontro avvenuto nel lontano tempo delle origini, tra il dio e questo demone Sulle due pagine cartina della regione mediterranea con le principali città fenicie: un’ampia rete di scali e di insediamenti venne creata in ondate successive, tra l’VIII e il VII sec. a.C. Nella pagina accanto e a destra figurine in oro forse raffiguranti divinità cananee, da Gezer (Israele). XIV sec. a.C. Gerusalemme, Rockefeller Archaeological Museum.
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LE FONTI
SCONGIURO CONTRO LE VOLANTI (primo incantesimo di Arslan Tash, traduzione di Giovanni Garbini) Recto Scongiuro contro le Volanti (?) / – Patto di Sasm figlio di Pdr – Volgiti a lui, e alle Strangolatrici dí: «Nella casa in cui vengo, voi non verrete Verso e nella dimora in cui entro, voi non entrerete». Egli ha sta-bilito con noi il patto eterno che hanno stabilito con noi anche tutti i figli degli dèi e l’insieme della comunità di tutti i santi. Per il patto del cielo e della terra, testi-moni eterni. Per il patto di Baal Bordo inferiore [signore di tutta] la terra. Per [questo pa]tto.
Bordo superiore e delle sette sue concubine e delle otBordo destro -to spose del Signore santo Sfinge (Incantesimo) contro le Volanti: / Dalla stanza l’oscurità è andata via a poco a poco, / al trascorrer della notte Lupa dalla casa ... è uscita per le strade. Guerriero L’aurora è alla sua por-ta, e la luce agli stipiti ha fatto uscire il sole. Si è attenuata (l’oscurità), è passata e per sempre è volata via.
Bordo sinistro Scongiuro di Horon che lega la bocca
d’ingoiare un essere umano (vedi foto a p. 14). Anche qui, trattandosi di un formulario magico, e come tale volutamente poco comprensibile, il testo presenta particolarità sintattiche tali da renderne complessa la lettura e l’interpretazione. Si comprende però che scopo dello scongiuro è tenere lontano da una casa, forse dalla dimora di una partoriente, demoni malefici e divoratori di esseri umani. A tal fine s’invocano varie divinità, tra le quali paiono essere in primo piano Sasm e Horon, che altri documenti ci dicono essere specialmente attivi nelle operazioni di magia. Il riferimento ai poteri degli esseri sovrumani chiamati in causa e alle rispettive sfere di competenza è piuttosto esplicito. C’è Sasm, attivo contro le Strangolatrici, invocato in forza di un patto d’alleanza eterna che vede a testimoni «tutti i figli degli dèi e
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In alto uno degli «amuleti di Arslan Tash». VII sec. a.C. Aleppo, Museo Nazionale. Su un lato, un personaggio maschile, verosimilmente una delle divinità invocate nell’incantesimo; sull’altro, una sfinge alata e una lupa con coda di scorpione in atto d’ingoiare un essere umano. Nella pagina accanto lastra in basalto raffigurante il dio Baal. X sec. a.C.
l’insieme della comunità di tutti i santi»; c’è Baal signore della terra e c’è Horon con le sue Concubine, in un contesto di tenebre che a conclusione dello scongiuro lasciano la casa libera da ogni pericolo.
Il pantheon di Ugarit Alcuni di questi nomi, titoli e formule si ritrovano anche nelle tavolette in cuneiforme alfabetico della città siriana di Ugarit, piú antiche di vari secoli rispetto alle iscrizioni fenicie qui citate. Questo regno, invero, crollò intorno al 1185 a.C. e rimase sconosciuto fino agli scavi francesi del secolo scorso, che hanno restituito un archivio di testi rituali e mitologici con un pantheon ben individuabile. Anche qui troviamo una comunità di esseri divini strutturata sotto l’anziano sovrano El, detto «Re», «Santo», «Creatore del creato» e
«Padre degli anni», che governa da lontano con la sposa e regina Athirat, la progenitrice degli dèi nota nella Bibbia col nome di Ashera e rappresentata con turbante e corona a corna. Il potere è però nelle mani del principale dio cittadino, il giovane Baal Haddu, Signore dei fenomeni atmosferici. Accanto a lui vi sono Dagan, Yam il Mare, Anat la bellicosa sorella di Baal, la dea solare Shapash e quello lunare Yarih; e poi ancora il dio artigiano Kothar, Rashap signore della pestilenza, Mot che è la personificazione della Morte, e Horon potente sui rettili. Sullo sfondo figurano poi altri personaggi divini, meno attestati nei racconti e nei rituali, che trovano un posto speciale nel culto degli antenati reali: sono i mlkm, detti anche Rapiuma o Refaim (rpum), termine derivato dal verbo rp’, che significa «guarire, aiutare». Questi mlkm, come aiuta a comprendere una lista divina scritta in accadico, sono appunto i dma.lik.meš, i «Re (divini defunti)», una schiera che era guidata dallo stesso dio Baal rp’, il «Guaritore» e raggruppava i morti rappresentativi della tradizione amorrea: principi, antenati eponimi e capi di antichi gruppi, divinizzati e considerati capaci di proteggere il sovrano regnante, i campi e il territorio. Una tavoletta, in particolare, ricorda un rito funerario dinastico mirante ad assicurare prosperità al re e alla sua famiglia, chiamando a banchetto il suo diretto predecessore Niqmadu e gli altri antenati defunti, ormai «Refaim dell’aldilà».
Come ombre dell’aldilà Dei Refaim (Repa’im) si parla anche nella Bibbia ebraica, che li conosce come un gruppo di Giganti, abitanti la Transgiordania prima dell’arrivo degli Israeliti; nelle iscrizioni fenicie di Sidone i Refaim (rp’m) sono ombre dell’aldilà che accolgono il (re) deceduto, e in una bilingue del I secolo d.C., dalla Libia romanizzata, il loro nome corrisponde a quello latino degli dèi Mani. Una vivida immagine degli dèi ugaritici riuniti
BAAL E IL GRANDE D’OCCHIO (secondo incantesimo di Arslan Tash) Recto Incantesimo contro il Distruttore. Baal ha attaccato il suo carro / e quello che ha un grande occhio rispetto a lui non è uguale. Esce ognuno nella steppa / – e quello che ha un occhio tondo Nella steppa rispetto a lui non è uguale – soccombe. Verso Ho tirato il chiavistello. È fuggito quello che incanta con l’occhio (malvagio) quello che dissipa (ciò che è) nella testa, / colui che distrugge l’intelligenza nella testa del sognatore. Perché Bordo destro l’occhio è colpito. Quando l’occhio è distrutto, lo Bordo superiore distruggerà in entrambi gli occhi. Bordo inferiore Le mie formule (d’incantesimo sono) conformi al rotolo.
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Mar Morto
Gaza Gaz a
LE FONTI
Cartina della costa del Levante, con le principali città di epoca fenicia.
Uga Uga garit it it Suq uq qass Ha Ham ama
Ara ado Trip Tr pol pol olii Biblo
Ant nttara arad rad do o Amritt Amr Amrit Simira Sim ira a Eleutero
Libano
Sid don ne Sare eptta
Deserto Si ro- Ara b ic o
Samari Samari Sam arriia
Giordano
Akzziv Ak v
Telll Mev vora akh
Dam amascco
Monte Hermon
Ti o Tir Accco Atl tlit itt Monte Meg gidd dd do Carmelo Dor Do o or
o
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le
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Antilibano
Le on t
Beiiru Be rut utt Lycus
e
Adonis
Mar Mediterraneo
te on Or
Cipro
Gia iaff ffa fa a
Asc scal alo ona na
Ge ico Ger c co Ger erus er usa us salem le lem em mm me e
Gaza Gaz a
Mar Morto
dal dio supremo è offerta inoltre da un testo mitico-rituale, ritrovato nella casa di un sacerdote-mago, e descrive il banchetto offerto da El nella sua dimora. È un racconto sulla ubriachezza: che questo sia il tema centrale lo dice la ricetta terapeutica posta alla fine e che giustifica la rievocazione del mito. El beve vino fino all’ebbrezza e, nell’atto di bere, è anche raffigurato su un boccale, rinvenuto accanto alla tavoletta (vedi box e foto a p. 18). Traballa El, sotto l’effetto del vino, e ha una visione spaventosa: gli appare un demone terrificante («quello con le corna e la coda»), al punto che il dio cade come morto.
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Di questo fatto, dell’ubriachezza del re degli dèi, non si dà nel testo alcuna connotazione negativa, cosí come rimane in penombra la figura del demone con le corna e la coda che anticipa, in un certo modo, l’iconografia medievale del diavolo. Per contro, si mette in risalto il comportamento virtuoso dei figli, che sorreggono il dio-padre ubriaco.
Dèi e figli di Dio Nei testi di Ugarit, come nelle successive iscrizioni fenicie, le divinità costituiscono una grande assemblea di «figli», presieduta dal dio loro «padre»: sono la comunità dei bn ilm, o bn il e poi bn ‘lm. L’espressione compare anche nella Bibbia ebraica, nella forma bene ha ‘elohim, che ha un significato letterale analogo («figli di Dio»), fa riferimento alla cultura e alla religione cananea, ma assume valenze teologiche molto diverse. Anche nei testi ebraici, infatti, fanno parte del concilio divino gli dèi delle nazioni e gli antenati degli abitanti della regione, come a Ugarit. Tuttavia, nel contesto biblico non c’è confronto possibile tra Yahweh e gli dèi in assemblea: essi moriranno tutti e mentre cadranno, il Signore continuerà a dominare la terra. Il Salmo 82 registra per esempio: «Dio (Elohim) si alza nell’assemblea divina, giudica in mezzo agli dèi. “Fino a quando giudicherete iniquamente e sosterrete la parte degli empi? Difendete il debole e l’orfano, al misero e al povero fate giustizia. Salvate il debole e l’indigente, liberatelo dalla mano degli empi!”. Non capiscono, non vogliono intendere, avanzano nelle tenebre, vacillano tutte le fondamenta della terra. Io ho detto: “Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo”. Eppure morirete come ogni
uomo, cadrete come tutti i potenti. Sorgi, Dio, a giudicare la terra, perché a te appartengono tutte le genti». L’inizio del Salmo 29, piú chiaramente, invita questo gruppo di esseri a sottomettersi a Yahweh: «Date al Signore, figli di Dio, date al Signore gloria e potenza. Date al Signore la gloria del suo nome, prostratevi al Signore in santi ornamenti». Il libro di Giobbe, poi, li presenta come parte della corte divina («Un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche satana andò in mezzo a loro»: 1,6 e 2,1). Deuteronomio (32,8) propone Dio che assegna il dominio sul genere umano distribuendolo tra i figli: «Quando l’Altissimo (Elyon) divideva i popoli, quando disperdeva i figli dell’uomo, egli stabilí i confini delle genti secondo il numero dei figli di Dio (El)». Il Salmo 96 e 1 Cronache 16 mostrano anche l’umanizzazione di questa schiera, la cui natura divina contrasta con la teologia del Dio unico sviluppata attorno al nome di Yahweh.
Tavoletta in caratteri cuneiformi con formule di venerazione del dio Baal, da Ugarit.
L’inizio del capitolo 6 della Genesi documenta ancor piú esplicitamente la persistenza della tradizione su questa comunità di dèi anche presso l’antico Israele, nonostante la rilettura yahwistica: «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini
LITURGIA DEL SACRIFICIO DELLE OMBRE (KTU 1.161, traduzione di Paolo Xella) Recto Liturgia del sacrificio delle ombre. Voi avete invocato i Refaim dell’al[dilà], voi avete chiamato il gruppo di Dida[nu]. Egli ha invocato Balkanu, il refai[ta dell’aldilà], egli ha invocato Tarmanu, il refai[ta dell’aldilà], egli ha invocato Bi/Sidanu e Rada[nu], egli ha invocato … egli ha invocato i Refaim antichi. Voi avete invocato i Refaim dell’aldilà, voi avete chiamato il gruppo di Dida[nu]. Egli ha invocato Ammishtamru, il re, egli ha invocato anche Niqma[du il r]e, il trono (?) di Niqmadu … ? Ed egli piange, lacrimano i suoi occhi, davanti a lui versa lacrime. La tavola è imban[dita] ed egli mangia a sazietà. Le sue lacrime sono cessate ed è cessato il suo dolore (?). Riscalda, Shapash, riscalda buona illuminatrice! Da lontano Shapash grida:
– Al seguito del tuo signore, o trono, al seguito del tuo signore discendi nell’aldilà, discendi nell’aldilà e sprofonda nella polvere, laggiú (con) Bi/Sidanu e Radanu, laggiú (con) … …, laggiú (con) i santi Refaim, laggiú (con) Ammishtamru, il re, Bordo inferiore laggiú, anche (con) Niq[madu], il re. Uno e ha sacrifica[to; due e] ha sacrificato; Verso tre, e ha sacrificato; [quattro] e ha sacrificato; cinque e ha sacrificato; se[i e] ha sacrificato; sette e ha sacrificato. Offrirete in offerta / consacrata un uccello. Pace, pace Ammura[pi!] Pace anche ai suoi figli, pace alla sua città! Pace alla sua casa, pace ad Ugarit, Pace alle sue porte!
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LE FONTI
erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore disse: “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni”. C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi». Questo brano, che pure rappresenta l’elemento di principale raccordo con le tradizioni cananee sopra riferite, costituisce il punto di partenza per lo sviluppo di una parte notevole dell’angelologia e demonologia, fiorite a partire dal giudaismo e dai movimenti apocalittici nei primi secoli dell’era cristiana. In questo contesto si narrava che, nel tempo delle origini, alcune
A destra stele raffigurante due personaggi che bevono, da Ugarit. Monaco di Baviera, Archäologischen Staatssammlung. In basso restituzione grafica della scena raffigurante il dio El che beve vino dipinta su un boccale, da Ugarit. Bronzo Tardo II. Damasco, Museo Nazionale.
EBBREZZA E ALLUCINAZIONE DI EL (KTU 1.114; traduzione di Paolo Xella) El offre un banchetto nella sua dimora, imbandisce un pasto di cacciagione nel suo palazzo. Invita gli dèi a spartirsi la carne: Che mangino gli dèi, e che bevano! Bevano vino fino a sazietà, mosto fino all’ebbrezza. Yarih si prepara il suo pezzo di spalla, come un cane lo trascina sotto il tavolo. Il dio, che lo riconosce, gli offre del cibo; quello che non lo riconosce, / lo colpisce sotto il tavolo, con il bastone. Giungono Astarte e Anat; Astarte prepara per lui una coscia, e Anat appronta una spalla. Le rimprovera il portiere della casa di El: «Per il cane non dovete servire una coscia, al bastardo non preparate una spalla». (Anche) ad El, suo padre, rivolge un rimprovero. El troneggia al suo posto El siede nella sua sala del banchetto; El beve vino fino a sazietà, mosto fino all’ebbrezza.
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El se ne va nei suoi appartamenti, ritorna alla sua corte. Lo sorreggono Shukamuna e Shunama. Ma ecco che gli appare Habay, Quello che ha due corna e la coda. E lo sporca di feci e urina, El cade come un morto, El come coloro che discendono sottoterra. Anat e Astarte escono per …. Astarte e Anat .... e per loro portano dietro (?) ... Quando si prepara la cura, ecco qual è la mistura che deve essere posta sulla sua fronte: peli di cane si prepari il cuore e la testa, la gola (?) e la trachea (?): E (sulla sua) testa, la trachea (?) e il suo ombelico, gli si somministri contemporaneamente / olio di olive verdi.
creature si erano ribellate a Dio ed erano precipitate. Nel Primo Libro di Enoch, oggi disposto tra gli scritti apocrifi dell’Antico Testamento, figura un testo ebraico risalente al V secolo a.C. dove si può leggere il racconto della caduta di queste entità sovrumane. Si tratta della piú antica versione dell’episodio, che rilegge e interpreta il testo della Genesi, chiamando «Angeli vigilanti» e «figli del Cielo» quelli che il testo biblico designa come «figli di Dio/El».
Baal, Re e Moloch In tutto ciò, Moloch ancora non c’è: il protagonista di questa Monografia non figura nei testi fin qui citati. Ma la lunga introduzione era necessaria per intendere convenientemente le storie associate al suo nome. Sono infatti già comparse le tre consonanti del termine, mlk, anche al plurale mlkm, come titolo ed epiteto divino (il Re, i Re), presente sia nei documenti sulla religione fenicia che prima ancora in quella ugaritica. Un tale epiteto/attributo, compare anche nei testi di Mari (malik e malikum) e in quelli di Ebla (Malik/Maligú), mentre nella documentazione relativa ad altri popoli della regione compare anche il nome di Milcom (mlkm), col quale Moloch talvolta si confonde: Milcom era il dio nazionale degli Ammoniti, cosí come Chemosh lo era dei Moabiti e Qos degli Edomiti: tutte divinità guerriere, protettrici del re e dell’istituto monarchico. Anche altri protagonisti delle storie di Moloch si trovano già in evidenza, con qualche prima allusione: per esempio il demone ugaritico con le corna e la coda, che si manifesta al Padre degli dèi al colmo dell’ubriacatura. Risaltano ugualmente i poteri dei Baal chiamati in causa contro le forze demoniache, (segue a p. 22) Stele in calcare raffigurante il dio Baal che scaglia una folgore, da Ugarit. XV-XIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
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LE FONTI
La caduta degli angeli ribelli, dipinto su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1562. Bruxelles, MusĂŠes royaux des Beaux-Arts de Belgique.
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LA CADUTA DEI VIGILANTI «E accadde, da quando aumentarono i figli degli uomini, che nacquero ad essi ragazze belle e seducenti. Gli Angeli, i figli del cielo, le videro, se ne innamorarono e dissero fra loro: “Andiamo, scegliamoci delle donne fra gli uomini che ci partoriranno dei figli”. E Semeyaza, che era il capo, disse loro: “Io temo che voi non vogliate compiere tutti questa azione e che io solo pagherò il castigo di questo grande peccato”. E tutti gli risposero e dissero: “Giuriamo tutti noi, impegniamoci a non recedere da questo proposito; lo porremo in essere”. E tutti prestarono giuramento e si legarono con esecrazioni comuni. Erano in tutto duecento. E scesero sulla vetta del monte Hermon e lo chiamarono cosí perché avevano giurato, e si erano scambiati una promessa impegnativa. E questi sono i nomi dei loro capi: Semeyaza, il loro capo, e Urachibaramel, Achibeel, Tamiel, Ramuel, Danel, Ezeqeel, Suraguyal, Asael, Amers, Batraal, Anani, Zaqebe, Samsaweel, Sartael, Turel, Yomyael, Arazeyal. Questi sono i piú importanti dei duecento angeli e con loro vi erano tutti gli altri. E si presero delle mogli e ciascuno ne scelse una e cominciarono a unirsi e a sollazzarsi con loro. E insegnarono loro magie e incantesimi, a tagliare radici e a distinguere le piante. Ed esse rimasero incinte e partorirono enormi giganti. Essi consumarono tutti i beni degli uomini e quando gli uomini non poterono piú sostentarli, i giganti si volsero contro uccelli, animali, rettili e pesci e a mangiarsene, fra loro, la loro carne e a berne il sangue. E Azazel insegnò agli uomini a far spade, coltelli, scudi e corazze, braccialetti, ornamenti, a tingere e abbellire le ciglia, altri cambiamenti. E vi fu grande scelleratezza e molto fornicare. (…) Allora gli uomini gridarono e la loro voce giunse in cielo» (Libro di Enoch, 6-8).
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LE FONTI
A sinistra bulla in argilla sulla quale compare il nome Netan-Melech, dagli scavi condotti a Gerusalemme nell’area della città di Davide. VIII sec. a.C. Nella pagina accanto tavola di William Hole raffigurante la distruzione degli idoli ordinata da Giosia, re di Giuda, dall’opera Old Testament History, pubblicata per la prima volta a Londra nel 1925.
mentre emerge tra queste l’immagine della lupa intenta a divorare un essere umano nell’amuleto di Arslan Tash. In prima luce si pongono infine i legami genetici tra quel «concilio divino» formato dall’insieme dei Baal dei culti semitici, e la schiera degli «angeli decaduti» dell’angelologia giudaica e cristiana, nella quale figura anche Moloch: non piú dèi, non piú messaggeri, bensí avversari e propagatori di culti idolatrici. È insomma apparso pian piano, sul fondale di scena, il panorama delle credenze e dei riti che dalla Siria-Palestina dell’età del Bronzo al regno di Giuda e d’Israele nel I millennio, e poi ancora dalla Fenicia preclassica alla Cartagine preromana, rappresenta l’ambiente nel quale si è costituita la figura di Moloch, scandalo e disonore. «Giosia regnò trentun anni su Gerusalemme», registra il Secondo Libro dei Re per gli anni 640-609 a.C., narrando in 22,1 e 23,4-14 la riforma religiosa di questo pio sovrano: «Comandò al sommo sacerdote Chelkia, ai sacerdoti del secondo ordine e ai custodi della soglia di condurre fuori del tempio tutti gli oggetti fatti in onore di Baal, Ashera e
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tutta la milizia del cielo; li bruciò fuori di Gerusalemme, nei campi del Cedron, e ne portò le ceneri a Betel (…). Profanò il tofet che si trovava nella valle di Ben Hinnom, perché nessuno vi facesse passare ancora per il fuoco il proprio figlio o figlia a (onore di) Moloch. Fece scomparire i cavalli che i re di Giuda avevano consacrato al sole all’ingresso del tempio, nel locale dell’eunuco Netan-Melech, che era nei cortili, e diede alle fiamme i carri del sole. Demolí gli altari sulla terrazza del piano di sopra di Acaz, eretti dai re di Giuda, e gli altari eretti da Manasse nei due cortili del tempio; li frantumò e ne gettò la polvere nel torrente Cedron. Il re profanò le alture che erano di fronte a Gerusalemme, a sud del monte della perdizione, erette da Salomone, re di Israele, in onore di Astarte, obbrobrio di quelli di Sidone, di Chemosh, obbrobrio dei Moabiti, e di Milcom, abominio degli Ammoniti. Fece a pezzi le stele e tagliò i pali sacri, riempiendone il posto con ossa umane». Baal, il «tofet», il fuoco, le ossa, la vergogna dell’idolatria: ecco lo sfondo biblico per Moloch e le sue storie millenarie.
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LA TRADIZIONE BIBLICA
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Quando gli angeli erano idoli LA MISTERIOSA FIGURA DI UN MOLOCH E LA PRATICA DI CRUENTI SACRIFICI COMPIUTI NEL SUO NOME AFFIOREREBBERO A PIÚ RIPRESE NEL TESTO BIBLICO. TUTTAVIA, GLI «AVVISTAMENTI» SI RIVELANO FRUTTO DI INTERPRETAZIONI MOLTO SPESSO FORZATE L’idolatria di re Salomone, olio su tela di Jacob Hogers. 1635-1655. Amsterdam, Rijksmuseum. L’artista immagina il celebre sovrano che, reggendo un incensiere, s’inginocchia di fronte a un idolo che ha le sembianze del dio Zeus.
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LA TRADIZIONE BIBLICA
F
irst Moloch, horrid king, besmear’d with blood of human sacrifice...: «Per primo s’avanza Moloch, orrido re, tutto imbrattato del sangue d’umane offerte e delle lacrime di padri e di madri, benché nel frastuono dei tamburi e dei cembali fosse coperto e soffocato il grido e il pianto dei fanciulli morenti in mezzo al fuoco dell’idolo crudele». Sono versi sciolti del Paradiso perduto (Paradise Lost, I 392-396) del poeta inglese John Milton (1608-1674), opera del 1667 (poi amplificata nel 1674), che racconta la caduta dell’uomo a opera di Satana e la cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden. Moloch è il primo a destarsi, nella schiera degli angeli usciti dall’abisso alla chiamata di Satana, creatura orgogliosa che aveva sfidato Dio suo creatore, mosso guerra al paradiso e sedotto gli uomini. Milton si fa qui interprete della tradizione letteraria giudaico-cristiana su questi temi; e mette a frutto le molte conoscenze che aveva degli scrittori classici. Tra le fonti a cui si sarebbe ispirato, s’ipotizza che vi fosse, per esempio, il Canto a Dio di Draconzio, un apologeta vissuto nella Cartagine vandalica della metà del V secolo d.C. In questo carme, a commento dell’episodio biblico del sacrificio d’Isacco, lo scrittore latino condannava con vigore i cruenti riti pagani: «Se Saturno portatore di falce fosse stato davvero un dio, avrebbe sottratto alla morte i bambini che i genitori piangevano ogni anno; ahimè, non li avrebbe privati dei figli che
IL SIGNORE DELLE MOSCHE
N
ella schiera degli angeli ribelli del Paradiso perduto di Milton, la preminenza di Belzebú segue dappresso quella di Satana, che nel Nuovo Testamento quasi s’identifica con lui, come principe dei demoni (cf. Marco 3,22; Matteo 12,22 ss.). La grafia del nome, in greco, è Beelzebul o Beezebul, ma difficilmente può trattarsi di un nome diverso da quello ebraico di Baal Zebub di cui si parla in 2 Re 1. Qui si legge che il re d’Israele Acazia (IX secolo a.C.), malato, volle consultare Baal Zebub, dio di Ekron, per sapere se sarebbe guarito oppure no. Il testo prosegue con l’ira di Yahweh, per questa mancanza di fiducia nei suoi confronti, e la punizione del sovrano idolatra. Zebub, letteralmente, vuol dire «mosca». Dunque Baal Zebub è il «dio-mosca» o meglio il «Signore delle mosche», titolo evocato nel best seller di William
Golding, del 1954 (Lord of the Flies), e forse venerato, dai suoi antichi fedeli orientali, come difensore da simili fastidiosi insetti. L’interpretazione non è poi cosí bizzarra come potrebbe sembrare, tenendo conto delle condizioni igienicosanitarie del tempo e dell’abitudine di sacrificare, cioè di macellare animali all’interno dei santuari. Possiamo cosí ricordare, da un lato, il Baal invocato in un rituale ugaritico contro le mosche, ritenute causa d’impotenza sessuale (RIH 78/20); dall’altro l’eroe greco Myagros, che scacciava le mosche durante il sacrificio in suo onore; o anche lo Zeus Apomyios, che, sempre nel mondo ellenico, s’incaricava delle medesime funzioni. È appunto con il termine mya, «mosca», che viene inteso da Giuseppe Flavio (Ant. giud. IX 19) l’appellativo del dio di Ekron. Beelzebub, tuttavia,
amavano dolcemente» (III 118-21). Ancora Draconzio, ma nei Romulea, recuperava anche le notizie sull’immolazione di vittime umane nei santuari dell’antica Tauride, in Sicilia e in Egitto, e per la Sardegna e l’Africa scriveva: «Gli abitanti dell’isola sgozzavano bambini i cui genitori, mossi da sincera pietà, raccoglievano i capelli sul cranio. E Cartagine ogni anno celebrava l’uccisione di due bambini di famiglia nobile e trucidava davanti agli altari questi piccoli in onore del vecchio
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Ex voto in bronzo dorato raffigurante un toro, detto «Il vitello d’oro», da Biblo (Libano). Età del Bronzo Medio, 2000-1600 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
si può intendere anche come un gioco di parole, per schernire il vero nome del dio filisteo, che era, probabilmente, Baal Zebul, cioè Baal il «Principe»; zbl infatti significa «principe», in ugaritico e in fenicio, ed è usato come titolo divino. È altresí possibile che nel giudaismo si mantenesse ancora l’equivoco sul significato del nome, sempre con valore dispregiativo: in ebraico zebul può significare anche «dimora» e in Matteo 10,25 Gesú pone in parallelo Beelzebul con l’oikodespotes, cioè il «signore della casa». Questo demone sarebbe allora «Colui che dimora nell’ossesso» o il «Signore della dimora (infernale?)». Un’ultima possibile etimologia si collega al significato di «letamaio» di zbl, che compare per esempio in arabo e in siriaco; questo verrebbe a rimarcare ancora di piú la deformazione spregiativa di cui si è caricato il nome divino originario.
Satana, sul lago infuocato, chiama a sé Belzebú, olio su tela di Johann Heinrich Füssli. 1802. Zurigo, Kunsthaus. L’opera si ispira all’incipit del Paradiso perduto di John Milton.
Saturno. Il dolore cambiava perfino le fattezze dei genitori piangenti» (V 146-51).
La schiera di Satana È però dalla Bibbia che Milton desume titoli e caratteri degli angeli/idoli fedeli a Satana. Ciò vale anzitutto per Belzebú, considerato «il primo dopo di lui in potenza e dignità» e ricavato dal Libro dei Re. Cosí è per Azazel, cherubino d’alte e superbe sembianze, che secondo il Levitico (16,8) abita il deserto e per il
Libro di Enoch insegna a fabbricare armi, ornamenti, tintura e cosmesi. Cosí è per Mammona, personificazione dell’avarizia e della ricchezza disonesta, stando ai testi di Luca (16,9-13) e Matteo (6,24), ma anche di sant’Agostino, che gli attribuisce un’etimologia punica, e di altri Padri della Chiesa. Cosí è, ovviamente, anche per Moloch, confuso con Milcom e derivato dai passi biblici che ne citano nome e riti: «A lui si prostrarono gli Ammoniti, in Rabba e nella sua pianura
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IL TERRITORIO
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irrigata, ad Argob e Basan, fino alle sponde remote dell’Arnon. Non pago d’una sua audace vicinanza, egli spinse con l’inganno il saggio cuore di Salomone a costruirgli un tempio, proprio di fronte a quello di Dio, in cima a quella collina dell’obbrobrio. E della ridente vallata d’Hinnom fece il suo boschetto sacro, da allora chiamato Tofet e nera Geenna, orrida immagine dell’inferno» (I 396-405). Dunque Moloch. Nell’inventiva del poeta inglese, l’idolo in onore del quale i bambini passavano per il fuoco è il primo a sollevare le membra dal letto delle fiamme infernali e a migrare sulla terra, dove, con legioni d’altri demoni, «per vari nomi e sotto idoli e simulacri, ebbe fra i pagani incenso e altari» (I 373-75).
Orge impudiche e figli ebbri di vino Questo «orrendo concilio di numi» che nel Paradiso perduto segue Moloch e s’aduna alla chiamata di Satana, per una nuova rivolta (II 13) è formato da angeli adorati come dèi: primo, dopo Moloch, «venne Chemosh, terrore osceno dei figli di Moab, (…) che fu chiamato anche Peor, quando in Sittim sedusse i figli d’Israele, fuggiti dalle rive del Nilo, in quei lascivi riti che di tanti affanni furono cagione. E di là estese poi le sue orge impudiche fino a quella Collina dello scandalo, presso il Boschetto dell’omicida Moloch, e mescolò col sangue le libidini sue, finché d’entrambi il buon Giosia gli altari sparse a terra e li ricacciò nell’inferno» (I 406-19). Seguono in Fenicia Astarte e Baal, poi Dagan in Palestina, Iside e Osiride in Egitto, e quindi gli dèi del freddo Olimpo greco; tutti chiamati a infoltire le file degli spiriti ribelli. Per ultimo si mosse Belial il Malvagio, «coi suoi sozzi figli, ebbri di vino e tracotanza». Tutto s’inizia con Moloch, però; e amalgamando erudizione, arte e teologia, il
BELFAGOR, ARCIDIAVOLO
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l «demone che prese moglie», protagonista della novella di Niccolò Machiavelli (1469-1527), trae il nome dalla deformazione di quello di un’antica divinità semitica, Baal Peor, per il tramite del greco e del latino biblici (Beelphegor). In Numeri 25 si legge che «Israele si stabilí in Sittim e il popolo cominciò a frequentare le figlie di Moab. Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dèi; il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dèi. Israele aderí al culto di Baal Peor e l’ira del Signore si accese contro Israele». Giunse allora un flagello divino, che uccise 24 000 persone e che fu allontanato da Mosè e dai giudici d’Israele, i quali fecero giustiziare quanti s’erano abbandonati a quel culto. L’accenno biblico alle «figlie di Moab», unito al fatto che uno degli Israeliti venne messo a morte mentre si era appartato con una donna in tenda, «trafitti entrambi da una lancia al basso ventre», ha suggerito già ai commentatori antichi che questo Baal Peor venisse adorato con culti licenziosi: che insomma nei suoi santuari si svolgessero forme di prostituzione sacra. Taluni Padri della Chiesa hanno anche assimilato questo Beelphegor a Priapo, il dio itifallico della tradizione classica. Quel che di certo si può dire è che il nome di Baal Peor richiama dappresso quelli di altre divinità della SiriaPalestina preclassica indicate col titolo di Baal seguito da un toponimo. Il testo biblico lascia cioè trasparire che Peor era il nome di un monte, al confine tra Israele e Moab, e che qui fosse venerato un Baal, cosí come avvenne per esempio sul monte Safon per l’ugaritico Baal Safon, e sul monte Libano per il fenicio Baal del Libano. È possibile, infine, che il culto di Baal Peor sia proseguito fino all’età romana imperiale, poiché in una iscrizione latina della metà del II secolo d.C. si trova attestato uno Jupiter Beellepharus. A sinistra bronzetto cananeo raffigurante un personaggio divino in armi. XII sec. a.C. Nella pagina accanto L’altare di Baal, gouache e acquarello di Harry Fenn. 1885. New York, The Metropolitan Museum of Art.
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Lot e le sue figlie, incisione di Luca da Leida. 1530. Amsterdam, Rijksmuseum. Le due giovani commisero incesto con il padre, ubriaco, e ne nacquero Moab e Ammon, capostipiti dei Moabiti e degli Ammoniti. E i primi, in particolare, sono ricordati nella Bibbia anche per i loro comportamenti licenziosi.
poeta chiosa le menzioni del termine mlk nella Bibbia ebraica, disegnando la sua figura nel paesaggio che fa da sfondo ai culti cananei: il bosco, il colle della vergogna, il fuoco che brucia nel «tofet», l’inferno, odio e libidine nei riti condivisi da tanti altri demoni, creature un tempo celesti e poi decadute.
Lo scambio di vocali Mlk: tre consonanti, per un vocabolo che è attestato otto volte nella Bibbia in connessione con rituali riprovevoli. Due testimonianze si trovano nel Libro dei Re. La prima è nel passo citato in chiusura del capitolo precedente (vedi a p. 22), a proposito della profanazione del luogo detto «tofet», alla periferia di Gerusalemme, da parte del re Giosia, che lo avrebbe fatto distruggere alla fine del VII secolo «perché nessuno vi facesse passare ancora il proprio figlio o la propria figlia per il fuoco a (onore di) Moloch (lemolek)» (2 Re 23,10). La seconda citazione precede questa e ricorda: «Salomone costruí sul monte di fronte a Gerusalemme un alto luogo per Chemosh, l’abominazione di Moab, e per Moloch (lemolek), l’abominazione dei figli di Ammon» (1 Re 11,7). Qui però si tratta plausibilmente d’un errore scribale, giacché il dio degli Ammoniti di solito è detto Milcom, non Moloch, e la traduzione greca del passo scrive appunto Milcom, anziché Moloch. Cinque attestazioni si trovano invece nel Levitico, in quella parte delle disposizioni promulgate da Mosè, dopo l’uscita dall’Egitto, nota come il «Codice di santità». La prima è in un capitolo che tratta del divieto di rapporti sessuali illegali; le altre quattro sono in un contesto di condanna delle deviazioni rispetto al culto di Yahweh (vedi box alle pp. 32-33). L’ultima testimonianza su Moloch, l’ottava, è nel libro del profeta Geremia: «Essi collocarono i loro idoli abominevoli perfino nel tempio che porta il mio nome per contaminarlo e costruirono le alture di Baal nella valle di Ben Hinnom per far passare per il fuoco i loro figli e le loro figlie a (onore di) Moloch (lemolek) – cosa che non avevo
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comandato, anzi neppure avevo pensato d’istituire un abominio simile –, per indurre a peccare Giuda» (Geremia 32,34-35). Le «alture di Baal nella valle di Ben Hinnom» in un altro passo dello stesso libro (Geremia 7,31) corrispondono precisamente alle «alture di Tofet», costruite per bruciare nel fuoco figli e figlie, secondo usanze mai comandate da Yahweh. Geremia parla di questo luogo come uno spazio impuro nella valle, «all’ingresso della Porta dei cocci». Qui il profeta si reca, dopo aver comprato una brocca, e comincia a predire sventure su Gerusalemme. Annuncia che, per oracolo del Signore, coloro che hanno abbandonato Yahweh per sacrificare agli dèi periranno di spada davanti ai loro nemici; i loro cadaveri saranno dati in pasto agli uccelli
In basso cippo-trono proveniente dal «tofet» di Cartagine, sul quale è attestato il termine mlkt. Prima metà del VI sec. a.C.
del cielo e alle bestie della terra. La città sarà ridotta a una desolazione e a oggetto di scherno; gli abitanti mangeranno la carne dei propri figli e la carne delle proprie figlie; si divoreranno tra loro per l’assedio e per l’angoscia che incuteranno loro i nemici. Gerusalemme «sarà spezzata come si spacca un vaso di terracotta che non si può piú aggiustare. E verranno giorni nei quali si seppellirà persino in tofet, perché non ci sarà piú spazio per seppellire» (19,1-14); sicché il luogo «non si chiamerà piú tofet e valle di Ben Hinnom, ma valle della Strage» (anche in 7, 32). Di «tofet» si legge altresí, in epoca post-esilica, nel libro del profeta Isaia (30,33), che lo associa a una sorta di cimitero pronto per il re: «Profondo e largo è il rogo, fuoco e legna abbondano. Lo accenderà, come torrente di zolfo, il soffio del Signore».
Settanta traduttori per Tolomeo Mlk: l’abbiamo trascritto «Moloch» anche se in ebraico si trova molek, giacché questa è la forma abituale del nome a partire dalla traduzione greca della Bibbia ebraica, quella
PRECETTI NEL CODICE DI SANTITÀ Levitico 18,19-23: «19Non ti accosterai a donna per scoprire la sua nudità durante l’impurità mestruale. 20Non darai il tuo giaciglio alla moglie del tuo prossimo, rendendoti impuro con lei. 21Non consegnerai alcuno dei tuoi figli per farlo passare a Moloch (lemolek) e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono il Signore. 22Non ti coricherai con un uomo come si fa con una donna: è cosa abominevole. 23Non darai il tuo giaciglio a una bestia per contaminarti con essa; cosí nessuna donna si metterà con un animale per accoppiarsi: è una perversione». Levitico 20,1-5: «1Il Signore disse ancora a Mosè: 2“Dirai agli Israeliti: Chiunque tra gli
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detta dei Settanta e destinata ai Giudei della Diaspora (latino Septuaginta, indicata pure con LXX; la denominazione deriverebbe dal numero dei traduttori [in realtà 72: 6 per ciascuna delle 12 tribú d’Israele] che il re Tolomeo Filadelfo avrebbe chiamato in Egitto, dove avrebbero tradotto, in 72 giorni, il Pentateuco, n.d.r.). Anche altre versioni greche dell’Antico Testamento conservano la forma Moloch, come pure quelle latine. Nel testo ebraico però le tre consonanti di mlk sono vocalizzate molek, per il ricorso alle vocali del termine habboshet, «l’infamia» (bšt), con il valore peggiorativo usuale nei confronti dell’idolatria: non solo la dea Astarte è vocalizzata Ashtoret, di cui s’è già detto, ma anche il luogo di culto in questione è indicato come tophet sulla base delle tre consonanti dell’ebraico tpt. S’ignora perciò quale fosse la vocalizzazione originaria di mlk nei passi della Bibbia in cui compare. In certi casi, d’altra parte, la Bibbia dei Settanta traduce molek con «Moloch il re» (in greco ho Moloch
Israeliti o tra i forestieri che soggiornano in Israele darà qualcuno dei suoi figli a Moloch (lemolek), dovrà essere messo a morte; il popolo del paese lo lapiderà. 3Anch’io volgerò la faccia contro quell’uomo e lo eliminerò dal suo popolo, perché ha dato qualcuno dei suoi figli a Moloch (lemolek) con l’intenzione di contaminare il mio santuario e profanare il mio santo nome. 4Se il popolo del paese chiude gli occhi quando quell’uomo dà qualcuno dei suoi figli a Moloch (lemolek) e non lo mette a morte, 5io volgerò la faccia contro quell’uomo e contro la sua famiglia ed eliminerò dal suo popolo lui con quanti si danno all’idolatria come lui, abbassandosi a venerare Moloch (hammolek)”».
A destra placchetta in terracotta di produzione cananea con l’immagine di una divinità femminile connessa con la fertilità. X-VII sec. a.C. In basso idoletto in bronzo dorato raffigurante Baal, dio della tempesta, che scaglia una folgore, da Minet el-Beida, porto dell’antica Ugarit. XIV-XII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
basileus), o anche «Principe, Capo, Signore» (greco archôn; latino princeps); suggerendo che in ebraico potesse trattarsi anche del titolo Melek, il «Re», testimoniato nella Siria antica come nome ed epiteto divino. Della traduzione greca del testo sacro si servirono poi numerosi scrittori cristiani anche su questo punto: commentatori come Origene, Giustino e Procopio di Gaza, Cirillo Alessandrino, Giovanni Crisostomo e Teodoreto di Cirro; lessicografi (cioè quelli che compilavano i dizionari) come Zonara e Suda, e poi anche storici bizantini come Giorgio Cedreno e Giorgio Amartolo. Tutti utilizzarono il nome proprio «Moloch» per identificare il cosiddetto «idolo dei Canaanei» al quale anche gli Israeliti avevano offerto i loro figli nel fuoco, in tempi precedenti alla riforma del re Giosia, diciassettesimo re di Giuda nel VII secolo a.C. Similmente, l’interpretazione del vocabolo «tofet» (tophet) avvenne sulla base del
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testo biblico: fu inteso come caduta nell’idolatria, «errore», e associato al termine polyandrion, cioè «luogo di sepoltura»; perlopiú si trova trascritto «tafet» (taphet; varianti: tapheth e thapheth), che probabilmente rappresentava la vocalizzazione originaria.
Passare i figli nel fuoco Nel Levitico il transito nel fuoco a Moloch dei figli è oggetto di condanna tra le manifestazioni dell’idolatria e della blasfemia, e cosí lo
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intesero le prime interpretazioni bibliche nelle scuole rabbiniche. Nel Deuteronomio, l’atto di passare per il fuoco i figli e le figlie in onore degli dèi, senza apparente riferimento a Moloch, si presenta come una «cosa abominevole, che il Signore detesta» al pari d’incantesimi, divinazione, magia e negromanzia (Deuteronomio 12,30-31 e 18,912). Nel Secondo Libro dei Re, il passaggio per il fuoco è una delle colpe che lo scrittore biblico rimprovera ai re Acaz e Manasse, per i quali
Veduta del Wadi Mujib, nell’odierna Giordania, canyon naturale scavato dalle acque del fiume Arnon, citato dalla Bibbia.
usa un’analoga formula di condanna: «Fece ciò che è male agli occhi del Signore, secondo gli abomini delle nazioni; sacrificò e bruciò incenso sulle alture, sui colli e sotto ogni albero verde, eresse altari a Baal, serví l’esercito del cielo si affidò a vaticini e presagi, provocando lo sdegno del Signore e procurandosi la giusta punizione» (2 Re 16,2-3 e 21,1-6). Nell’oracolo di Ezechiele contro le infedeltà del popolo di Yahweh, quella d’Israele viene presentata come la storia d’una sposa adultera, che si è
venduta agli dèi stranieri, secondo un’immagine dell’idolatria come prostituzione che è condivisa anche da Osea e altri profeti. «Prendesti i tuoi abiti per adornare a vari colori le alture su cui ti prostituivi. Con i tuoi splendidi gioielli d’oro e d’argento, che io ti avevo dato, facesti immagini d’uomo, con cui ti sei prostituita. Tu, inoltre, le adornasti con le tue vesti ricamate. A quelle immagini offristi il mio olio e i miei profumi. Ponesti davanti a esse come offerta di soave odore il pane che io ti
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La figura di Moloch prende forma nel panorama delle credenze e dei riti attestati dall’età del Bronzo all’epoca preromana Resti delle fortificazioni di Dibon (oggi Dhiban, Giordania), capitale del regno moabita. La costruzione delle mura viene datata al IX sec. a.C.
avevo dato, il fior di farina, l’olio e il miele di cui ti nutrivo. Oracolo del Signore Dio. Prendesti i figli e le figlie che mi avevi generato e li offristi a loro, perché li divorassero. Erano forse poca cosa le tue prostituzioni? Immolasti i miei figli e li offristi a loro, facendoli passare per il fuoco. Fra tutti i tuoi abomini e le tue prostituzioni non ti ricordasti del tempo della tua giovinezza, quando eri nuda e ti dibattevi nel sangue!» (16,16-22). «Passare nel fuoco»: si procedeva davvero col bruciare i figli, lasciandoli consumare tra le fiamme d’un culto idolatrico? O non si trattava piuttosto d’una cerimonia d’iniziazione, compiuta mediante il passaggio dei giovani attraverso due roghi,
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GIÚ DALLE MURA
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rilievi del grande tempio di Amon a Karnak, in Egitto, databili tra il 1290 e il 1223 a.C., presentano scene di cerimonie compiute sui bastioni di città cananee assediate: si vedono oranti in piedi con le braccia alzate, donne in ginocchio e personaggi che sembrano sorreggere giovani adulti pendenti dalle mura. Alcuni studiosi hanno proposto di riconoscere qui la raffigurazione di un rito di precipitazione degli adolescenti, nel disperato tentativo di salvare la città mediante un sacrificio estremo. Ma non tutti concordano su questa lettura della scena, dal
in un rito non meno aberrante agli occhi dei seguaci di Yahweh? È quanto proposero alcune interpretazioni rabbiniche dei passi in questione, ed è quel che si può dedurre anche dal Libro dei Giubilei (XXX 10), dove «non v’è perdono né remissione per l’uomo che abbia disonorato la propria figlia, consegnato a Moloch una della propria stirpe e commesso il peccato di contaminarla». D’altro canto, le testimonianze bibliche nel loro complesso non sono cosí chiare e sempre bene interpretabili, come potrebbe sembrare leggendo queste pagine, nelle quali si è
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momento che le immagini dei difensori che sospendono, sopra e oltre i merli – senza propriamente lasciarli cadere – bambini e anche donne, possono essere intese pure come il tentativo di porre in salvo persone care o di offrirle in ostaggio al faraone. È sembrato comunque pertinente il racconto biblico dell’uccisione del principe ereditario dei Moabiti, compiuto dal re Mesha, il quale, visto che era vano ogni tentativo di prevalere sui nemici, «prese il figlio primogenito, che doveva regnare dopo di lui, e l’offrí in olocausto sulle mura. Si scatenò una grande ira contro gli Israeliti, che si allontanarono da lui e tornarono nella loro terra» (2 Re 3,27). Una testimonianza diretta sui riti da compiere in caso di assedio viene anche da un testo ugaritico (KTU 1.119,23-26), nel quale si può leggere: «Se un forte (nemico) assale la vostra porta, [un po]tente le vostre mura, i vostri occhi a [Ba]al leverete: o Ba[a]l, scaccia il forte (dalla) nostra porta, il potente [dalle] nostre mura! Un torello, o Baal, noi ti consacreremo! Un voto, Baal, noi compiremo! [Un capo ma]schio, Ba[a]l, (ti) consacreremo! Un sacrificio-htp, Baa[l, com] piremo! Libagioni, Baal (ti) [offri]remo! Al santuario di Baa[l] noi saliremo, i sentieri del te[mpio di Baal] noi percorreremo. E Baal avrà ascoltato [i vostri] lamenti: egli scaccerà il forte dalla vo[stra] porta, [il potente] dalle [vostre] mura» (traduzione di Paolo Xella).
cercato di fare un po’ d’ordine tra varianti di lettura, vocalizzazioni, trascrizioni, errori e interpolazioni dei testi antichi. Il problema, insomma, rimane ancora aperto.
Una interpretazione ricorrente L’accostamento del rito al nome e all’idolo di Moloch sembra essere comunque prevalente presso i commentatori dei primi secoli dopo Cristo, tanto cristiani quanto ebrei, che utilizzarono anche le testimonianze degli autori classici relative all’immolazione rituale di bambini per ricostruire la storia del culto di
A sinistra restituzione grafica di uno dei rilievi del grande tempio di Amon a Karnak, raffigurante la presa della città di Ascalona (Ashqelon) da parte delle truppe egiziane. 1290-1223 a.C.
Il particolare dei rilievi di Karnak che mostra oranti in piedi con le braccia alzate, donne in ginocchio e personaggi che sembrano sorreggere giovani adulti pendenti dalle mura: per alcuni, si tratterebbe di un rito di precipitazione degli adolescenti.
Moloch, alle porte di Gerusalemme, sulla base di vari paralleli letterari extrabiblici. Nell’antichità era particolarmente famosa la descrizione che fece Diodoro di Sicilia (XX 14) del grande olocausto di fanciulli celebrato a Cartagine nel 310 a.C., durante l’assedio di Agatocle di Siracusa. Con sfavillanti dettagli su un idolo bronzeo che accoglieva le giovani vittime tra le braccia e sui corpicini che cadevano in una voragine di fuoco, la narrazione dello storico siculo a lungo fece scuola: tra scrittori classici a lui posteriori, tra esegeti e chiosatori della Bibbia, tra letterati e
studiosi antichisti. Che hanno usato questa narrazione per commentare il biblico Moloch, per vagheggiare storie su di lui e per riflettere sul suo culto nella religione di Cartagine. Del resto, secondo una composita e diffusa tradizione classica che andava dal IV secolo a.C. al VI d.C., erano stati soprattutto i Fenici e specialmente i Cartaginesi a offrire nel fuoco vittime umane: i piú belli dei prigionieri, dati alle fiamme per celebrare una vittoria militare, e poi i bambini, sgozzati o piú spesso bruciati in onore d’un dio che nei testi greci ha il nome di Crono e nei latini quello di Saturno.
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LE ORIGINI DEL MITO
La fabbrica del mostro AD ACCREDITARE LA TREMENDA IMMAGINE DEL MOLOCH E LA CRUDELTÀ DEI SUOI SEGUACI, PRIMI FRA TUTTI I FENICI, CONCORSERO LEGGENDE E TRADIZIONI LETTERARIE, CREANDO UN MITO DESTINATO A GODERE DI STRAORDINARIA FORTUNA ANCHE IN ETÀ MODERNA
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Cartagine. Un ambiente voltato del «tofet», con cippi e stele funerarie. Consacrato a Baal Hammon e Tanit, l’impianto fu in uso dall’VIII sec. fino al 146 a.C.
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on si parla di Moloch nei testi classici che riferiscono di sacrifici umani nel mondo punico. C’è però il nome di Crono e quello corrispondente di Saturno; e su questa base si fabbricano, nel corso di secoli, le storie del nume divoratore di bambini. Filone da Biblo, anzitutto, presenta Crono come interpretazione greca del fenicio El, che nel tempo anteriore a quello attuale avrebbe combattuto e sconfitto suo padre Urano, assumendo poi il potere supremo sul mondo, discendenti e alleati. Filone attribuisce a El anche il primo sacrificio umano, raccontando: «Era consuetudine tra gli Antichi, in casi di grave pericolo e per evitare lo sterminio di tutti, che i capi della città o del popolo mandassero al sacrificio il piú caro dei loro figli come riscatto per divinità crudeli. Quelli prescelti venivano sgozzati in cerimonie segrete. Regnava allora sul paese Crono, che i Fenici chiamano El e che in seguito, dopo la fine della sua vita, fu deificato e identificato con la stella di Crono. El aveva un figlio unico, nato dalla ninfa Anobret (…); e poiché gravi pericoli minacciavano il paese per via di una guerra, il dio vestí suo figlio con ornamenti reali e, dopo aver preparato l’altare, lo sacrificò» (fr. 10 Jacoby). In un altro frammento della stessa Storia fenicia si legge che «essendo sopravvenuta una peste letale, Crono sacrificò a suo padre Urano il suo figlio unico e si circoncise, costringendo i suoi alleati a fare poi come lui» (fr. 2,33 Jacoby).
Potenze di un cosmo imperfetto Anche il Crono dei Greci, come il fenicio El, appartiene a una generazione divina primordiale: quella di un cosmo ancora imperfetto, popolato di potenze caotiche. Crono è una di queste, un Titano che divora i figli appena nati, per evitare che qualcuno tra loro usurpi il suo trono: cosí ingoia Estia, la dea del focolare, e Demetra, la terra-madre, ed Era poi regina degli dèi, e Ade che diverrà signore dei morti, e ancora Poseidone, il dio del mare. Si salva invece l’ultimo, Zeus, perché la madre inganna lo sposo e gli fa
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ingoiare una pietra avvolta in fasce. Una volta cresciuto, Zeus costringe il genitore a rigurgitare i fratelli; poi, insieme a loro, muove guerra al padre e agli altri Titani. Alla fine del conflitto, Crono e i suoi alleati vengono relegati nel Tartaro, ridotti anch’essi a elementi del cosmo governato da Zeus. E questi, padrone del fulmine, del tuono e della pioggia, può instaurare un nuovo ordine nell’universo. Cosí narrava Esiodo nella Teogonia; cosí ritenevano i Greci dell’epoca arcaica. Dal Tartaro, Crono era anche risalito, si diceva, ma
per andare in esilio verso Occidente e regnare tra i barbari dell’Africa e dell’Italia preromana: Signore d’un mondo caotico, contrapposto a quello ordinato della civiltà ellenica. Nei testi di lingua greca, peraltro, Crono conservò a lungo questo suo carattere di dio antropofago, e molti scrittori cristiani lo considerarono il destinatario dei sacrifici umani, ovunque essi fossero celebrati. La maggioranza degli autori classici, d’altro canto, sosteneva che questi riti fossero stati in auge anche in Grecia e a Roma, ma in epoche A sinistra rilievo raffigurante Rea che porge una pietra avvolta in fasce a Crono perché possa divorarla: con questo stratagemma, riuscí a evitare che Zeus facesse la triste fine degli altri figli che aveva generato. 160 d.C. circa. Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto Saturno, pittura murale a tecnica mista trasferita su tela di Francisco Goya y Lucientes. 1820-1823. Madrid, Museo del Prado. L’artista spagnolo rese con toni quasi grotteschi la scena del dio che divora uno dei suoi figli.
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IL PIANTO DELL’USIGNOLO
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er i Greci, ha scritto la storica delle religioni Giulia Piccaluga, la carne umana era un cibo inadatto: gli dèi la rifiutano e il cannibalismo equivale per gli uomini alla perdita della loro natura. Anche l’onomastica e l’ornitologia intervengono a dare questo significato, in accordo con le storie di Aedone, Chelidone e d’altre madri, assassine dei figli. In greco, infatti, Chelidon vuol dire «rondine» e Aedon «usignolo»; l’una e l’altro, secondo le credenze, vengono inseguite senza tregua dall’upupa-Tereo che aveva mangiato la carne del figlioletto; tutti sono inoltre considerati uccelli carnivori e il loro canto somiglia a un lamento. Cosí, nell’Odissea, Penelope può ricordare che «l’usignoletta pallida all’inizio di primavera piange soave, tra gli alberi, il figlio diletto Itilo che un giorno lei uccise col bronzo, in preda a follia» (XIX 518-525). Cosí, per altri poeti greci, il canto del piú canoro tra i volatili è in realtà un singhiozzo monotono. Cosí, ancora nel V secolo d.C. il lessicografo Esichio può spiegare il pianto dell’usignolo africano confrontando gli acuti sospiri della madre, assassina del proprio figlio, con i gemiti delle mamme puniche nei riti della loro città: «Aedone di Libia: infatti le donne di Cartagine di Libia piangono, mentre i loro figli sono sgozzati in onore di Crono secondo la legge» (Es. l 949 Latte).
Il banchetto di Tereo, olio su tela di Pieter Paul Rubens. 1636-1638. Madrid, Museo del Prado. Per vendicare la sorella Filomela, abusata da Tereo, Procne ha decapitato il figlio del re di Tracia e ora gliene offre la testa.
ormai superate, cioè nel lontano tempo del mito, e che le conseguenze disastrose di casi come quello di Agamennone (che aveva sacrificato Ifigenia prima di partire per Troia e al rientro era poi stato ucciso dalla moglie Clitennestra), lo avevano reso impraticabile, nell’attualità del presente, o relegato ai confini della civiltà, tra le istituzioni dei barbari.
Pasti raccapriccianti C’erano poi miti specifici, che trattavano di bambini uccisi dai genitori e imbanditi sulla mensa, per uomini e divinità; essi davano fondamento all’irrealtà di tale pratica, all’impossibilità, per i Greci, di sacrificare e mangiare questo tipo di carne. I nomi coinvolti erano quelli dei figli di Tantalo e di Licaone, cucinati nel calderone e serviti in pasto agli dèi; quelli dei figli di Tereo, di Politecno e di Climeno, serviti alla tavola dei padri da spose furiose contro i mariti; e ancora quelli dei bimbi di Tieste, che, senza saperlo, aveva
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mangiato i propri figli uccisi dal fratello Atreo. Si narrava per esempio che Tantalo, antico re sacerdote della Lidia, godeva del favore degli dèi e mangiava con loro; volle cosí sperimentare l’onniscienza divina, invitò gli dèi a banchetto e serví loro le carni del figlio Pelope, fatto a pezzi e bollito nel paiolo. Tutti rifiutarono quel cibo impossibile, eccetto Demetra, che, nello stordimento per la perdita della figlia Core, si serví senza badare e mangiò una spalla. Tantalo fu condannato negli Inferi alla fame e alla sete, pur essendo immerso nell’acqua fino al mento; le membra di Pelope, invece, vennero ricomposte nella marmitta e richiamate in vita.
Il re trasformato in lupo Simile era la storia di Licaone, re dell’Arcadia. Il sovrano e i suoi figli ebbero un giorno ospite a tavola il divino Zeus, presentatosi in veste di poveruomo. Per svelarne l’identità, allo straniero fu servito un piatto di carni animali mescolate con parti del corpo di un bambino sgozzato allo scopo. Era, secondo alcune versioni, il figlio piú piccolo di Licaone, Nittimo, oppure il nipotino Arcade. Zeus, senza esitare, rifiutò il piatto e rovesciò la mensa, ponendo fine alla commensalità tra uomini e dèi; poi trasformò il re in un lupo (Lykaon in greco vuol dire «lupo») e scagliò il fulmine sul palazzo e sui principi. In ricordo di quegli eventi, in Arcadia, sul monte Liceo, ancora al tempo di Pausania (II secolo d.C.) si celebravano feste, durante le quali, stando alle dicerie, veniva segretamente sgozzato un fanciullo; le sue viscere erano poi mescolate a quelle di animali sacrificati, cotte sul fuoco e servite ai partecipanti. In tal modo, secondo la sorte, qualcuno degli intervenuti al rito mangiava carne umana e si diceva che si trasformasse in lupo e conservasse questa forma per anni, tornando poi a quella umana se nel frattempo si era astenuto da ogni pasto antropofago. Tra i figli di Pelope figuravano poi i gemelli Tieste e Atreo. Mentre si contendevano la signoria su Micene, il primo divenne l’amante
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RIDERE A BOCCA APERTA
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olte notizie sul sacrificio punico dei bambini sono conservate in frammenti riferiti al proverbio sul ridere in modo «sardonico». Tutto sarebbe cominciato, secondo l’Odissea, con la zampa di bue che Ctesippo, uno dei pretendenti alla mano di Penelope e al trono di Itaca, lanciò contro Ulisse, che reduce da Troia, s’era introdotto nella reggia sotto le vesti di un vecchio cencioso. Telemaco, suo figlio, racconta Omero, aveva preparato per Ulisse uno sgabello e un po’ di cibo, nel rispetto delle regole
d’accoglienza; ma i principi riuniti a banchetto si fecero beffe di entrambi. Uno di loro prese la parola, affermando di voler offrire il suo dono ospitale. «Cosí disse Ctesippo – si legge nel libro XX – e scagliò una zampa di bue con mano gagliarda, prendendola da un canestro. Ulisse l’evitò, piegando il capo appena; e nel cuore sorrise, sardonicamente; e quello colpí il muro massiccio». Il sorriso di Ulisse era, di fatto, un annuncio di morte. A mo’ di proverbio, si diceva allora sardanios ghelos, o anche e piú frequentemente sardonios ghelos, per indicare chi ride di fronte alla morte, propria o altrui, tirando la bocca in una smorfia. La definizione riuniva una serie articolata di espressioni: riso folle e involontario, di allegria oppure di sofferenza; e ancora riso malvagio o simulato, per collera, stoltezza, ardimento, angoscia o infermità; ma soprattutto riso ghignante, espresso in circostanze tragiche. A dare queste spiegazioni sono, in epoca tarda, i lessicografi (i compilatori di dizionari), che cercarono in vario modo di chiarire l’espressione. Lo stesso fecero i commentatori di opere famose, come Eustazio e Giovanni Tzetzes nel XII secolo; e altrettanto i raccoglitori di proverbi, come già Zenobio nel II secolo e poi Apostolio nel XV; infine gli scoliasti. A loro dobbiamo, in tali contesti, le soluzioni che si davano per l’origine dell’aggettivo «sardonico» e i racconti che circolavano nel mondo antico in riferimento al riso definito in tal modo. L’erudito Eustazio, per esempio, in un ampio commento all’Odissea, spiegava cosí: «Sardanion che alcuni scrivono sardonion, (…) indica il fatto di ridere sulla punta delle labbra, stirando la bocca, con il cuore acceso da collera o sofferenza; perciò sardanion in Omero e sardonion presso altri designa un modo di ridere contratto e sarcastico. Taluni affermano che il termine deriva dal guardiano di bronzo, opera di Efesto, donato da Zeus a Europa, che a quanto si narra catturava gli stranieri sbarcati a Creta e infliggeva loro una condanna molto particolare, saltando nel fuoco e infiammando il proprio petto, secondo ciò che si racconta a proposito del cretese Talo, dal busto e dai piedi di bronzo. Egli stringeva le vittime al petto e mentre queste bruciavano rideva a bocca aperta. Tuttavia, tale racconto non spiega del tutto il termine; lascia soltanto supporre che sardonion si sia formato da donein («scuotere») o da daiein («ardere») e da sairo
In alto maschera ghignante, dalla necropoli di Cartagine. VII-VI sec. a.C. Tunisi, Museo del Bardo. Nella pagina accanto maschera raffigurante un volto dai tratti negroidi, da Cartagine. VII-VI sec. a.C. Tunisi, Museo del Bardo.
(«raccolgo»), da cui anche seserenai («stirare le labbra, digrignare i denti»). Altri invece affermano che sull’isola di Sardo, oltre la Sicilia, detta anche Sardegna, cresce una specie di sedano; gli stranieri che ne mangiano, a causa delle convulsioni muoiono ridendo, con un riso di sofferenza che si definisce sardonios o sardanios. (…) Timeo poi, riferisce che in Sardegna, a quanto si dice, quando gli anziani genitori giungono a vecchiaia inoltrata, sono spinti verso una fossa e fatti precipitare; e che essi perdono cosí la vita e ridono morendo, come se fossero felici. Dal che si definisce sardonico il fatto di gioire del proprio dolore. Ma altri affermano che erano i figli a ridere, vedendo i loro padri precipitare, per purificarsi del delitto e per mostrare che non avevano recato loro alcun male, liberando gli anziani padri dalla vecchiaia. Gli Antichi preferivano definire sardonico il ridere simulato per derisione, piuttosto che riferirlo a seserenai, cioè allo spalancare la bocca, come s’è detto piú sopra. Taluno scrive poi che il riso sardonico è quello che si forma quando la bocca è aperta e tirata in modo innaturale».
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di Aerope, moglie di suo fratello. Atreo si vendicò allora del tradimento sgozzando i figli di Tieste e servendone le carni al fratello; dopo il pranzo, mostrò le braccia e le teste mozzate dei piccoli. Tieste lasciò allora il trono di Micene, maledisse Atreo e si rifugiò a Sicione, presso la figlia Pelopia; con essa generò poi Egisto, destinato a vendicarlo: è lui infatti, che nei miti greci uccide lo zio e s’introduce nel letto di Clitennestra, sposa e assassina di Agamennone figlio di Atreo. Adulterio e violenza sessuale ritornano nelle vicende di altri padri cannibali: il trace Tereo, l’artista Politecno e l’arcade Climeno. Al primo era andata in moglie l’ateniese Procne, il secondo aveva sposato Aedone di Mileto, il terzo s’era unito con l’inganno alla figlia Arpalice. Tereo e Politecno compirono lo stesso delitto, abusando delle proprie cognate, rispettivamente l’ateniese Filomela e la milesia Chelidone; Climeno, invece, rapí la figlia al genero e rinnovò l’incesto. La furia di queste donne, per la violenza subita, ebbe lo stesso esito: tutte sgozzarono i figli e li porsero in pasto ai congiunti. Identica è anche la conclusione dei racconti, con una metamorfosi dei protagonisti in uccelli: Procne e Aedone si trasformarono in usignolo, Filomela e Chelidone in rondine, Tereo nell’upupa, Arpalice in calcide. Non si tratta, semplicemente, di «storie parallele» rispetto a quelle di Moloch e del sacrificio punico dei bambini: quest’ultimo, in effetti, stando alle notizie degli autori greci e latini rientra negli stessi paradigmi ideologici, con notizie quasi sempre registrate «per sentito dire», talora riferite in relazione proprio a simili racconti di pasti cannibalici e perlopiú esposte senza legami con circostanze precise. E queste notizie poi, combinate con altri e piú ampi dati sul culto del Baal assimilato a Crono/Saturno, crearono precisamente le basi e i contenuti dell’immaginario legato a Moloch, sul piano letterario, psicologico e storiografico. Il nome di Crono, d’altro canto, compare nell’epigrafia nordafricana concernente la
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tradizione rituale punica, ma non corrisponde a quello di El, come sostiene Filone di Biblo, bensí a Baal Hammon, che è anche il dio destinatario della maggior parte delle dediche di Cartagine, prima della distruzione della città e anche in seguito. Il grammatico Servio, commentando Virgilio, afferma che Saturno formava con Giunone la coppia di dèi tutelari di Cartagine. Saturno, appunto, nelle dediche e nei santuari dell’Africa romanizzata, costituisce l’erede del punico Baal Hammon. A Saturno divoratore dei figli alludono poi gli autori cristiani, come Minucio Felice, Tertulliano e Lattanzio, che, tra il II e il V secolo d.C., provarono a dare una sorta di giustificazione teologica per i sacrifici di bambini della tradizione punica, che, a loro dire, continuavano a essere praticati nell’Africa imperiale. Crono/Saturno, infatti, è il principale destinatario dei sacrifici umani attribuiti ai Cartaginesi dagli scrittori classici e cristiani; i Punici, inoltre, e i predecessori Fenici si trovano presso di loro a rappresentare i campioni dell’uccisione di bambini, mentre altre genti si distinguono per l’immolazione di adulti, prigionieri, donne, schiavi o stranieri: i barbari della Tauride e gli Egiziani di Busiride, gli isolani di Creta e di Cipro, e poi ancora Galli, Celti, Sciti, Latini, Libici, Dumateni, Arabi.
L’idolo di bronzo Nei vari contesti culturali, siano essi discorso sul sacrificio umano o realtà documentata, si riconosce un medesimo schema interpretativo: quello che gli antichi facevano nel tempo del mito, in modo eccezionale e con conseguenze comunque disastrose, i barbari lo praticano nell’attualità e regolarmente, ai confini della civiltà, in onore di un divino Signore marchiato dall’eccesso dei primordi e dal disordine tipico dei popoli incivili. Cosí il nome di Crono, il dio cannibale dei miti classici, serví a identificare il Baal cartaginese a lui assimilato. E tra gli autori che scrissero sui riti punici, taluni parlavano esplicitamente d’un idolo metallico destinatario del sacrificio: poche (segue a p. 52)
Litografia di scuola francese raffigurante Falaride che condanna al terribile supplizio del toro di bronzo lo scultore Perillo, inventore della crudele macchina, da Les Arts au Moyen Age. 1873. Collezione privata.
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IL GUARDIANO DELL’ISOLA
I
Particolare della decorazione di un cratere attico raffigurante la morte del gigante Talo. Pittore di Talo, V-IV sec. a.C. Ruvo di Puglia, Museo Archeologico Nazionale Jatta.
miti greci immaginavano Talo come una solitaria sentinella costiera, che impediva l’approdo sull’isola di Creta e uccideva chi riusciva a sbarcare stringendolo sul petto, che aveva reso incandescente saltando nel fuoco. Le vittime, stando ai raccoglitori di proverbi, storcevano la bocca a causa del calore; perciò si sarebbe chiamata «sardonica» quella sembianza di riso. Il detto trovava però fondamento anche nel ghigno sprezzante di Talo, che gioiva a bocca aperta dello strazio delle sue vittime. Ma qualche altro commentatore, quasi insoddisfatto delle spiegazioni circolanti, incastrava nella storia della vedetta cretese sia la Sardegna che la sua popolazione: in Zenobio si legge per esempio che Talo sarebbe venuto su quest’isola a massacrarvi gli abitanti, prima di trasferirsi a Creta, mentre Fozio scrive che in quest’ultima egli uccideva i Sardi che cercavano di sbarcare. Il riso sardonico sarebbe dunque il «riso dei Sardi», vittime del guardiano. La tradizione piú antica avvicinava il personaggio ai nomi dei primi abitanti e signori di Creta, come antenato o amante di Radamante, fratello del re Minosse;
l’uno e l’altro principe sono descritti come saggi ideatori di norme e vengono immaginati, dopo la morte, quali giudici imparziali per i defunti che scendono nell’Ade. Talo, in tale tradizione, sarebbe stato il vigile custode dell’osservanza delle leggi da quelli disposte. Nel VI secolo a.C. il poeta Simonide riferisce una storia diversa, poi ampiamente attestata: Talo sarebbe stato un automa di bronzo, opera del dio artigiano Efesto (per altri: di Dedalo), da lui costruito per il re Minosse perché fosse guardiano delle coste di Creta. Talo uccideva quanti sbarcavano sull’isola, bruciandoli. Per Apollonio Rodio, nel III secolo a.C., Talo era il superstite della primordiale razza degli uomini di bronzo, e viveva come sentinella sull’isola da quando Zeus, il signore di tutti gli dèi, lo aveva donato a Europa, figlia del re di Sidone, rapita per amore in terra fenicia dal sommo dio, trasformatosi in toro mirabile, e da lui condotta fino a Creta. Nel II secolo d.C. Apollodoro dice che «per alcuni era un uomo della stirpe di bronzo e secondo altri un dono fatto da Efesto a Minosse: un uomo di bronzo o – secondo taluni – un toro» (I 26). Era dotato di vita, con una (segue a p. 52)
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Didramma in argento da Festos. 380-270 a.C. Al dritto, il gigante Talo armato di una pietra; al rovescio, un toro.
vena che andava dal collo fino alle caviglie; in essa scorreva la linfa vitale e lí dove la vena incontrava la pelle c’era un chiodo di bronzo. Ogni giorno, Talo faceva di corsa e per tre volte il giro dell’isola, vigile e terrificante. L’automa era grande e apparentemente invincibile. Ma un giorno, ecco apparire all’orizzonte la nave Argo, con gli eroi che al seguito di Giasone tornavano dalla conquista del vello d’oro nella Colchide. Inutilmente Talo bersagliò la nave con pietre: gli Argonauti sbarcarono e insieme a loro scese a terra Medea, principessa di quella regione sul Mar Nero e
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maga come sua zia Circe. Taluni narravano che il gigante cretese, sotto lo sguardo malefico di quella donna, aveva distrattamente urtato la caviglia contro una roccia aguzza, provocando la fuoriuscita dell’umore sanguigno; altri raccontavano che la maga gli aveva istillato la follia con l’uso di filtri; altri ancora che Medea, promettendogli l’immortalità, era riuscita a togliere il chiodo che fermava il flusso vitale nella vena, sicché Talo era morto dissanguato; altri infine che l’argonauta Peante l’aveva colpito alla caviglia con una freccia avvelenata.
testimonianze, come si vedrà, che oltretutto dipendono con buona evidenza l’una dall’altra. La menzione piú antica d’un simulacro bronzeo venerato a Cartagine è nel frammento di uno storico d’età ellenistica, Clitarco di Alessandria, conservato da un tardo scolio alla Repubblica di Platone, che cerca di spiegare l’origine di un detto proverbiale: «“Riso sardonico”: proverbio relativo a quelli che ridono della propria morte. (…) Clitarco afferma che i Fenici, e soprattutto i Cartaginesi che adorano Crono, quando desiderano ottenere qualcosa d’assai rilevante, fanno voto di offrire al dio uno dei loro figli se ottengono quanto vogliono. V’è presso di loro – cioè presso i Cartaginesi – una statua bronzea di Crono, in piedi, che stende le mani, con le palme rivolte verso l’alto, sopra un braciere che brucia il fanciullo. Quando le fiamme avvolgono il corpo, s’irrigidiscono le membra della vittima e il viso sembra contratto come quello di chi ride, finché, in un ultimo spasmo, il bimbo cade nel braciere» (fr. 9 Jacoby).
Lattanti che ridono prima di morire Con riferimento al proverbio del riso sardonico, il brano di Clitarco venne utilizzato e ripetuto da vari scrittori antichi, lessicografi e glossatori, per esempio da Fozio e dall’autore del lessico bizantino attribuito a Suda, per i quali, tuttavia, il ricorso cartaginese all’immolazione di fanciulli avveniva «in solenni suppliche», non meglio precisate. Da Clitarco, poi, ha verosimilmente attinto il grammatico Filosseno, ancora a proposito del riso sardonico, per riferire, nel I secolo a.C., la notizia, conservata da Zenobio circa tre secoli dopo, che «Stando ad alcuni scrittori si trova sull’isola della Sardegna un idolo di Crono con le mani distese, sulle quali gli abitanti dispongono i lattanti; essi ridono, poi muoiono. È a causa di questo riso che si definisce in tal modo ridere davanti alla morte» (fr. 591 Theodoridis). Le opere di Clitarco, che compilò intorno al 310
a.C. scritti sui costumi persiani e una storia di Alessandro Magno, furono utilizzate da storici posteriori come Diodoro di Sicilia, Pompeo Trogo e Curzio Rufo. A Roma, in particolare, alla fine dell’epoca repubblicana e in quella imperiale, Clitarco era molto alla moda, benché non mancassero valutazioni discordanti sul suo stile, incline al fantastico, all’orripilante e al meraviglioso. Cicerone, per esempio, lo considerava un romanziere, piuttosto che uno storico fedele, e Quintiliano lo giudicava autore di talento, ma del tutto immeritevole di fiducia. La notizia a lui attribuita sull’idolo cartaginese costituisce la piú antica testimonianza letteraria che parli, con chiarezza di dettagli, del sacrificio di fanciulli praticato dai Fenici e soprattutto dai Cartaginesi davanti a un idolo in adempimento di un «voto». La statua, inoltre, è collocata esplicitamente nella metropoli africana ed è qui che lo scrittore dispone l’immagine di quel rito barbaro, che per la singolarità della messa a
Pompei. Affresco della Casa dei Vettii raffigurante Dedalo che dona a Pasifae, moglie di Minosse, la vacca di legno da cui nascerà il Minotauro. I sec. d.C.
morte di fanciulli bruciati tra le braccia di un feticcio, certo colpiva la sensibilità dei suoi lettori, vero o inventato che fosse quel simulacro incandescente.
Le suppliche dei Cartaginesi assediati Forse proprio per questi tratti dell’opera di Clitarco, Diodoro Siculo non esitò a utilizzare la stessa immagine per colorire il racconto dei riti celebrati dai Cartaginesi assediati da Agatocle di Siracusa, e a proporre perfino che i Greci si sarebbero ispirati ai costumi punici, per rappresentare come dio cannibale, divoratore dei propri figli, il Crono dei loro miti. Scrive infatti lo storico del I secolo d.C.: «Attribuendo agli dèi la catastrofe che li aveva colpiti, i Cartaginesi si diedero a suppliche d’ogni genere. Convinti che l’Eracle protettore della loro colonia fosse particolarmente irritato, inviarono a Tiro molte e preziose offerte. (…) Si rimproverarono anche d’essersi reso ostile il dio Crono, perché avendo anticamente l’uso di sacrificargli i migliori dei loro figli, piú recentemente avevano destinato al sacrificio fanciulli comprati e nutriti a tale scopo. Furono fatte indagini e si scoprí che alcuni di quelli immolati avevano sostituito le vere vittime. Riflettendo su questo fatto e vedendo il nemico accampato davanti alle mura della città, furono tutti presi da timore superstizioso, per aver abbandonato gli onori tradizionali alle divinità. Nello zelo di porre rimedio alla propria negligenza, essi procedettero a un sacrificio pubblico di duecento fanciulli, scelti tra le famiglie piú illustri. E altri ancora, per timore, s’offrirono volontariamente al sacrificio, in numero non inferiore a trecento. V’era presso di loro una statua di bronzo raffigurante Crono, con le mani tese, le palme in alto e inclinate verso terra cosí che il fanciullo postovi sopra cadeva giú e finiva in una voragine di fuoco. Probabilmente Euripide allude a questa usanza quando parla del sacrificio compiuto in Tauride; il poeta pone nella bocca di Oreste la seguente domanda: “Quale tomba mi accoglierà quando morirò? – Un fuoco sacro acceso in una profonda voragine della terra”. E l’antico mito
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dei Greci, su Crono che uccide i propri figli, appare confermato da tale costume cartaginese» (Diod. XX 14). Questo brano di Diodoro Siculo, osservava già nel 1897 lo statunitense George Foot Moore, è desunto probabilmente dalla Storia di Agatocle di Duride di Samo, scritta intorno al 280 a.C.; ma il confronto di tale passo con quello di Clitarco rende evidente che quest’ultimo è la fonte piú remota della descrizione copiata da Diodoro; il cambiamento del «braciere» di Clitarco in una «voragine di fuoco» è stato fatto dallo scrittore siculo per rendere possibile la citazione di Euripide, che segue e anticipa il riferimento al mito di Crono. Plutarco, filosofo e sacerdote di Cheronea, offre la terza menzione dell’idolo punico, in uno scritto giovanile (72/79 d.C.), che cerca di stimolare l’emotività dei suoi lettori con la scena dei sacrifici compiuti a Cartagine in un tempo ormai lontano. La sua descrizione, verosimilmente, risale proprio a Diodoro: «In piena coscienza e conoscenza i Cartaginesi offrivano i figli e quelli che non ne avevano li acquistavano dai poveri come se fossero agnelli o piccoli uccelli. La madre si teneva al loro fianco senza lacrime o gemiti. Se piangeva o si lamentava, essa perdeva il guadagno della vendita e il fanciullo era ugualmente sacrificato. Tutt’intorno, l’ambiente davanti la statua traboccava del frastuono di quelli che suonavano flauti e tamburi per coprire le grida» (Sulla superstizione 13,171 C-D). È molto evidente, in questo testo, la volontà di Plutarco di recuperare a fini narrativi una malignità sui Cartaginesi, nel triste fondale dominato dai gemiti dei genitori che piangono i loro figli davanti alla statua divina. La scena della madre che rimane accanto al fanciullo senza piangere, peraltro, contrasta con le testimonianze di Esichio, che, parlando dell’usignolo di Libia (cf. p. 48), considera proverbiali le lacrime delle donne al momento del sacrificio, e quelle di Tertulliano, Minucio Felice,
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Teseo uccide il Minotauro, particolare della decorazione di un’anfora attica a figure nere. 540 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
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Prudenzio e Draconzio sulle carezze che i genitori facevano ai figli per impedire che si lagnassero mentre venivano uccisi.
Il muggito del toro Nelle dicerie che circolavano nel mondo greco su quello punico, ve n’era una piuttosto discussa, relativa alla presenza in città di un’opera bronzea di forma taurina. I Cartaginesi, a quanto si diceva, l’avevano presa ad Agrigento nel 406 a.C. e si trattava di un toro costruito su ordine di Falaride, tiranno della citta sicula dal 571 al 555 circa a.C. La riproduzione del ruminante era cava e aveva sul
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dorso un’apertura: all’interno Falaride faceva entrare i suoi nemici, accendendo poi il fuoco sotto di essa. Il metallo si riscaldava e l’individuo rinchiuso, bruciando e arrostendo da ogni parte, emetteva forti grida e lamenti, dando cosí l’impressione che l’animale muggisse come se fosse vivo. A provarne il funzionamento e prima vittima fu il suo stesso artefice, il fabbro Perilao che l’aveva ideato e realizzato. Gli antichi discussero per secoli sulla veridicità di tale racconto, come testimonia, in particolare, lo storico Polibio nel II secolo a.C., polemizzando in particolare con Timeo. «Si può affermare che non vi fosse alcuna
Cartagine. Un’altra veduta del «tofet» di Salammbô. Consacrato a Baal Hammon e Tinnit, le divinità piú importanti della città, il «tofet» si sviluppa in un’ampia area a sud dell’abitato, non lontano dall’antico porto commerciale.
A destra la «stele col sacerdote», sulla quale si vede un personaggio maschile che sul braccio sinistro piegato tiene un bambino, dal «tofet» di Cartagine. Tunisi, Museo del Bardo.
ragione per la quale sostenere che un toro di tal genere fosse stato fabbricato a Cartagine; eppure Timeo cominciò a negare quanto comunemente si diceva e a dichiarare false le affermazioni dei poeti e degli storici, sostenendo che il toro che stava a Cartagine non era venuto da Agrigento e che in tale città non ve n’era mai stato uno simile. Ed egli diffonde molte altre notizie di questo genere. In che termini si potrebbe indicare un tale modo di fare? Il suo genere di scrivere mi pare che meriti rimproveri piú forti di quelli che egli usa verso gli altri e quanto ho detto fin qui dimostra sufficientemente che egli era temerario, falso e litigioso» (XII 25). Taluni dubitavano che il toro di Falaride fosse mai esistito, voluto com’era da un tiranno semileggendario ed eseguito da un fabbro almeno altrettanto leggendario; altri asserivano il contrario e anzi precisavano che quello strumento di tortura coincideva con quello trasportato a Cartagine per ordine del generale Imilcone dopo la conquista di Agrigento; altri ancora affermavano la presenza a Cartagine di un toro bronzeo, ma ne confutavano la coincidenza con quello di Falaride. Di fatto, l’identificazione dei due automi, quello agrigentino e quello punico, nell’antichità aveva raggiunto una buona verosimiglianza, sicché anche Cicerone nel I secolo a.C. e Appiano nel II d.C. poterono affermare che Scipione l’Emiliano, dopo la distruzione di Cartagine nel 146 e a seguito di un’indagine minuziosa, aveva restituito quel toro di bronzo agli Agrigentini, cosí come fece per il restante bottino sottratto dai Cartaginesi in Sicilia. Timeo, piú precisamente, affermava che gli Agrigentini avrebbero gettato in mare il toro di Falaride dopo la morte del tiranno, per cui quello che si trovava nella città al suo tempo
non era il toro voluto dal tiranno, secondo l’opinione piú diffusa, ma una rappresentazione del fiume Gela. C’è anche da dire che Diodoro Siculo parla a piú riprese di questo toro metallico, ma non lo confonde con la statua di Crono attorno alla quale si sarebbe consumato il grande olocausto di fanciulli del 310 a.C. Se mai il toro di Falaride è stato a Cartagine, dunque, nessuna fonte lo collega ai sacrifici umani, né alcuna autorizza sul piano comparativo a non distinguere, almeno qui, tra immolazioni destinati agli dèi ed esecuzioni capitali. La storiografia piú recente sulla questione del sacrificio umano nel mondo punico, peraltro, spinge a considerare anche la statua bronzea del dio Crono, al centro dei racconti di Clitarco e di Diodoro, come un’invenzione letteraria, priva di qualunque corrispondenza archeologica. Suggerisce un’analoga considerazione la testimonianza di Polibio, il quale anzi, polemizzando con Timeo, conferma la presenza a Cartagine del bronzo di Agrigento, ma osserva come «sia impossibile trovare una qualche ragione per la quale un toro di tal genere sarebbe stato costruito a Cartagine». È anche vero, d’altro canto, che dopo la caduta di Cartagine i Sicelioti cercarono di farsi dare quanto piú potevano del bottino di statue e d’altri capolavori fatto dai Romani nella città conquistata, e che Scipione Emiliano largheggiò con loro, anche a fini politici. È dunque verosimile che gli Agrigentini abbiano ottenuto la «restituzione» di un toro bronzeo, motivandola proprio con la tradizione relativa a Falaride, ormai ampiamente stabilita. Ma questa, per l’appunto, era una «tradizione», costituitasi da tempo e costruita verosimilmente ad arte per descrivere negativamente la figura del tiranno Falaride, in termini che si possono considerare
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largamente mitici. Già nella Grecia del tempo di Aristotele, Falaride aveva la triste fama di aver governato con ferocia e perfino nutrito il morboso e insaziabile desiderio di divorare bambini. Si narrava parimenti che avesse fatto arrostire nel toro alcuni prigionieri, mentre altri erano stati bolliti nel calderone o cucinati alla griglia. Nella letteratura retorica latina, inoltre, l’aneddoto del toro fatto costruire dal tiranno veniva utilizzato quale esempio di crudeltà suprema, dal quale era facile trarre elementi per una dialettica moralista. La mitizzazione di Falaride, oltretutto, avvenne con espliciti riferimenti ai racconti che collegavano le origini di Agrigento con l’isola di Creta. Da qui, secondo il mito, era fuggito l’artigiano Dedalo, costruttore della vacca di legno nella quale s’era introdotta Pasifae, sposa di Minosse, per congiungersi con il toro furioso inviato da Poseidone e concepire il Minotauro. Dedalo, si diceva, era stato inseguito in Sicilia dallo stesso Minosse, che però, alla corte del sicano Cocalo, aveva trovato la morte, per mano delle figlie del re istigate da Dedalo, ed era finito cucinato a vapore e poi sepolto nel territorio della futura Agrigento.
Una sentinella leggendaria Sempre nella Creta di Minosse, un altro oggetto di bronzo costituiva opera mirabile e di fama comune: il guardiano Talo, che uccideva, arrostendoli, gli stranieri sbarcati sull’isola, arroventando il torace nel fuoco e stringendo a esso le sue vittime. Secondo una variante del mito, Talo aveva forma taurina, e si è anche ipotizzato che Falaride avesse fatto costruire il toro agrigentino a imitazione di quella mitica sentinella cretese, per dare autorevolezza alla propria signoria. Una buona parte delle notizie sulle vittime bruciate tra le braccia di quel gigante isolano è oltretutto inserita nel contesto delle tradizioni sul proverbiale «riso sardonico», cioè nelle stesse fonti che conservano il frammento di Clitarco sulla presenza a Cartagine di un idolo bronzeo rovente e sugli spasmi osservati sul volto delle piccole vittime, mentre bruciavano in onore di Crono.
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LAFISTIO, IL DIO VORACE
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no scritto attribuito a Platone ma composto non prima della fine del IV secolo a.C. discute degli elementi caratterizzanti un buon ordinamento, presso qualsiasi popolazione, e ricorda i sacrifici umani cartaginesi. «Non è davvero difficile, Socrate, sapere che gli stessi uomini non sono sempre governati dalle stesse leggi e che queste cambiano con i popoli. Per esempio, nel nostro paese, non esiste una legge che prescriva sacrifici umani: al contrario, sarebbe una cosa abominevole. Invece i Cartaginesi compiono sacrifici come cosa santa e legale, e alcuni di loro arrivano perfino a sacrificare i propri figli a Crono, come forse avrai sentito dire anche a tu. Non sono solo i barbari a essere governati da leggi diverse dalle nostre, ma anche gli abitanti del Liceo e i discendenti di Atamante: quali sacrifici non offrono, benché siano comunque greci come noi!» (Ps. Plat., Minosse, 315 B-316 A). Come si vede, le usanze cartaginesi sono riferite «secondo una diffusa opinione comune» e confrontate da un lato con i presunti riti antropofagi praticati in Arcadia, a memoria dei fatti accaduti al tempo di Licaone di cui s’è detto (cf. p. 46), dall’altro con quelli relativi al mito di Atamante. Questi ultimi, in verità, sono riferiti soltanto da Erodoto, che narra: «Quando Serse giunse in Acaia, le guide gli raccontarono una tradizione locale riguardante il tempio di Zeus Lafistio («Divoratore»). Gli narrarono come Atamante, figlio di Eolo, di concerto con l’amante Ino figlia di Cadmo, aveva tramato la morte di Frisso, nato dalla precedente unione di Atamante con Nefele; in seguito a ciò gli Achei imposero ai suoi discendenti questa punizione: che al primogenito della famiglia reale fosse impedito l’accesso al pritaneo e se l’avesse fatto, ne sarebbe uscito solo per essere sacrificato. Aggiungevano le guide che molti erano emigrati per il timore di essere uccisi e che colui che veniva sacrificato era condotto in processione all’altare tutto avvolto di ghirlande. Questa sorte, poi, toccava ai discendenti di Citissoro figlio di Frisso, perché quest’ultimo, fuggito e giunto in Colchide mentre gli Achei stavano immolando Atamante come vittima purificatrice del paese, lo aveva liberato e con questo gesto aveva attirato sui propri discendenti l’ira divina. Udito questo racconto, Serse, si astenne dall’entrare nel bosco sacro e ordinò ai suoi soldati di fare altrettanto» (Erodoto VII 197). La furia di Atamante, gruppo scultoreo di John Flaxman. 1790-1794. Ickworth, Suffolk. L’artista immagina il momento culminante della vicenda: l’eroe che uccide suo figlio, Learco.
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LE ORIGINI DEL MITO
Clitarco scrive alla fine del IV secolo a.C., ed è appunto in età ellenistica che si cominciò a giustapporre i crudeli costumi punici ai commenti che si davano per il detto sul «riso sardonico», secondo una tradizione nota e attestata in questo periodo dall’ateniese Demone e dal siceliota Timeo di Taormina, che però parlavano d’altro.
Che barbari, quei Cartaginesi crudeli! Il primo, buon raccoglitore di proverbi e modi di dire, spiegava il «riso sardonico» raccontando che «gli abitanti della Sardegna, che sono Cartaginesi di origine, hanno un costume davvero barbaro e molto differente da quelli greci. Sacrificano a Crono, in giorni stabiliti, non solo i piú belli dei loro prigionieri ma anche i vecchi piú anziani di settanta anni. Tutte le vittime considerano turpe e vile mostrarsi in lacrime, mentre abbracciarsi e ridere nel momento supremo sembra coraggioso e nobile. Per questo si definisce “sardonico” il riso simulato a causa della propria sventura» (fr. 18 Jacoby). Timeo invece, stando alla nota registrata nello scolio alla Repubblica di Platone, subito prima del frammento di Clitarco sopra citato, raccontava cosí: «Gli abitanti della Sardegna, quando i loro genitori sono vecchi e si stima che abbiano vissuto abbastanza, li spingono verso il luogo in cui saranno sepolti. Qui scavano delle buche e sistemano gli anziani sul bordo; poi i figli colpiscono i padri a bastonate e li spingono nelle fosse. Gli anziani si rallegrano di andare alla morte come se fossero felici e muoiono tra il riso e la gioia» (fr. 64 Jacoby; ripetuto anche in Eustazio, Comm. all’«Odissea», XX 302 e altri scrittori). Sono, come si vede, spiegazioni diverse del riso sardonico in connessione con i Cartaginesi, che si fanno anch’esse interpreti di un giudizio negativo rispetto alle barbarie del mondo punico, ma che sembrano quasi smentire le affermazioni di Clitarco. Resta il fatto che il motivo della «morte ghignante» sembra essere proprio il trait-d’union piú antico e piú significativo per la diffusione nel mondo
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classico delle notizie di sacrifici umani tra i Fenici d’Oriente e d’Occidente. È anche vero, d’altra parte, che nel complesso delle fonti classiche sul sacrificio punico dei fanciulli le contraddizioni non sono poche. Anzi, l’impressione generale è che gli autori greci e latini fossero assolutamente convinti dell’esistenza di tali riti a Cartagine, ma che ci fosse anche molta confusione al riguardo, specialmente in epoche contemporanee allo svolgersi della civiltà punica o poco piú tardi. Neppure uno afferma di aver visto o partecipato a cerimonie di questo tipo; quasi
I resti del teatro di Orcomeno, in Arcadia (Grecia). La regione fu teatro della vicenda di Licaone, il re trasformato in lupo da Zeus per avere offerto in pasto al re degli dèi un piatto di carni animali mescolate con parti del corpo di un bambino.
nessuno registra episodi concreti. Le notizie sono spesso riportate «secondo una tradizione diffusa», «come anche tu avrai sentito affermare», «a quel che dicono», adottando cioè la fraseologia abituale per i racconti del mito. Molti preferiscono riferire l’opinione di scrittori precedenti o parlano di riti praticati in situazioni del tutto eccezionali, come guerre, carestie, epidemie, e comunque abbandonati da secoli. Curzio Rufo, per esempio, raccontando al tempo dell’imperatore Claudio il terrore provocato tra la gente di Tiro dall’assedio dei Greci di
Alessandro Magno nel 332 a.C., dice che «alcuni suggerirono perfino di riprendere un rito che io non so credere come possa essere ben accetto agli dèi e che era stato abbandonato da secoli, ormai: l’immolazione a Saturno di un fanciullo di buona famiglia. Un tale rito, sacrilego piú che sacro, a quel che dicono, è stato tramandato dai fondatori ai Cartaginesi e da questi praticato fino alla distruzione della loro città. E se il consiglio degli anziani che prendeva le decisioni non si fosse opposto, quella orribile usanza avrebbe certo prevalso sulla civiltà» (IV 3,23).
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Il passaggio per il fuoco di vittime ancora vive è ben attestato da Clitarco e Diodoro; ma quest’ultimo, come Filone e altri, parla anche (in XIII, 86) di un bambino sgozzato per Crono, secondo l’usanza tradizionale, per porre fine a una pestilenza. Taluni riferiscono di sacrifici con molte vittime, altri soltanto di una o due; si legge di figli provenienti dalle famiglie dell’aristocrazia, ma anche di bambini acquistati allo scopo, e poi di sacrifici espiatori, solenni invocazioni, terapie per placare il terrore e doni
graditi alle divinità. La frequente ripetizione della stessa notizia, citata direttamente o rielaborata con qualche variante, rivela l’esistenza d’una tradizione che si adattava facilmente alle esigenze letterarie e agli intenti polemici dei diversi scrittori. Appare insomma davvero impossibile porre le testimonianze una accanto all’altra, attribuendo a esse un analogo valore testimoniale, o riconoscere al loro insieme un significato probante complessivo. Tanto meno è possibile, su tali basi, ricostruire il rito nelle sue tipologie, motivazioni, esecuzioni, vittime e protagonisti, attribuirgli uno specifico carattere pubblico o privato, riconoscere un apposito luogo a esso destinato, registrare notizie sulla sorte delle vittime. Pertanto, se pure si può concordare sull’importanza di queste testimonianze sui Cartaginesi sacrificatori di bambini, si deve
Uno scorcio dell’area archeologica della collina di Byrsa, a Cartagine, dove si sviluppò il primo nucleo della città.
anche riconoscere che si tratta piuttosto di tradizioni e non di certezze: di storie narrate, non di fatti accertati. Nel complesso, pare invece assai probabile che l’immagine dei Cartaginesi intenti a sacrificare i loro figli a Crono divoratore abbia trovato la sua genesi nei convincimenti generati dalle grandi campagne degli eserciti cartaginesi in Sicilia, nonché dall’odio e dalla paura tra i Greci per i successi dei nemici africani. Durante tutte le guerre contro Roma, solo un frammento di Ennio (239-169 a.C.: fr. 221 Vahlen) attesta il permanere di un’opinione diffusa sull’abitudine cartaginese di sacrificare bambini agli dèi. Negli storici maggiori che hanno descritto il contrasto con Roma, come Polibio, Appiano e Tito Livio, manca qualsiasi riferimento a tale pratica. Le testimonianze si moltiplicano in seguito, ma senza fornire
dettagli ulteriori o riferire episodi specifici, mentre si conferma la diffusa opinione che i Cartaginesi fossero barbari, abituati al sacrificio umano e perfino a quello di vittime giovani, che avrebbero ereditato quest’uso dalla madrepatria e che l’avrebbero mantenuto nonostante ripetuti divieti.
Un poeta assai fantasioso In epoca romana imperiale, la controversia contro queste usanze barbariche continua, ma con meno veemenza; il problema sembra essere chiuso e se ne parla perlopiú come di uno stereotipo relativo a tempi remoti, come fanno Dionigi di Alicarnasso, Curzio Rufo e Giustino. Isolata appare la testimonianza di Silio Italico, per il quale ad Annibale, poco prima della battaglia sul Trasimeno, sarebbe stato chiesto di sacrificare suo figlio; in realtà, tutto appartiene all’inventiva di questo poeta, che fantastica sul presunto figlio del generale, sul panico della madre che scongiura di abbandonare il rito selvaggio e sul rifiuto dello stesso Annibale di aderire alla richiesta dei suoi avversari politici. Sono gli scrittori cristiani a riprendere la controversia sui sacrifici umani, caricandola con tonalità decisamente polemiche, per sostenere la validità del messaggio salvifico cristiano, la vacuità dell’errore politeista e l’onnipotenza del dio unico, rispetto al quale gli dèi degli antichi altro non erano che demoni, angeli ribelli e seduttori. Tertulliano, Origene, Lattanzio, Eusebio di Cesarea, Agostino, Teodoreto di Cirro, Orosio e Minucio Felice si sforzano di rintracciare, negli scritti degli autori pagani, la scia funesta dell’omaggio di sangue e il posto rilevante delle divinità di Cartagine nel consesso di questi spiriti omicidi. Al Saturno divoratore di bambini della tradizione greca e latina s’ispirano, in specie, autori come Minucio Felice, Tertulliano e Lattanzio, tra il II e il V secolo d.C., per dare una qualche giustificazione ai sacrifici di bambini della tradizione punica, che, a loro dire, continuavano a essere praticati nell’Africa romana. Ma v’era anche di piú. Al Crono/Saturno antropofago del mondo classico, combinato
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con i sacrifici della religione punica, fanno riferimento particolare quattro dei sei apologeti (Giustino martire, Tertulliano, Minucio Felice ed Eusebio di Cesarea, con Teofilo di Antiochia e Atenagora), che dal parallelo traggono spunto retorico per ritorcere l’accusa rivolta ai cristiani di uccidere bambini, nelle loro celebrazioni, e di consumarne le carni o il sangue. La contestazione di queste «calunnie», la cui origine è ancora dibattuta tra radici giudaiche e allusioni all’eucarestia, segue nei diversi autori una medesima strategia: quella di ritorcere le imputazioni contro i loro autori, alimentandole con l’uso delle «liste» dei popoli sacrificatori che circolavano tra i letterati, il ricorso costante alla «diceria» e la menzione indistinta di riti e miti pagani sanguinari. Si stabilisce in tal modo una sorta di mosaico sul rifiuto cristiano del sacrificio cruento e del cannibalismo, che si evolve tra realtà e metafora, per riscrivere il modello mitico-rituale del bambino immolato e mangiato, in un rinnovato contesto culturale nel quale sono gli altri, lontani nel tempo, nello spazio e nei costumi, i veri protagonisti della narrazione. Moloch, che nei commentari biblici dei Padri della Chiesa si mostrava tutt’al piú come un idolo, in onore del quale i fanciulli «passavano per il fuoco», rappresentava, a questo punto, un ottimo elemento di raccordo tra le diverse
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tradizioni. Tra allusioni e artifici retorici, per cosí dire, il Moloch di Geremia, del Levitico e del Libro dei Re, era ormai pronto a trasferirsi a Cartagine e assumere qui le sembianze dell’automa di bronzo, con i miti e i riti associati, per recuperare poi, nella valle di Ben Hinnom, all’ingresso della Porta dei cocci, le fattezze di un vorace Baal a testa di toro. Bastava un passo, per concludere la fabbrica del mostro, e fu presto compiuto.
La versione di Frazer Ancora agli inizi del secolo scorso, la combinazione di questi elementi era parte integrante della ricostruzione degli antichi culti mediterranei, in forme di comparativismo estremo che hanno fatto scuola, tra gli studiosi d’ogni formazione e disciplina. La riassume, con maestria, l’inglese James G. Frazer (18541941), che a proposito di Talo, il gigante cretese di bronzo, nel Ramo d’oro del 1922 scriveva cosí: «Secondo una versione era un toro; secondo un’altra il sole. Probabilmente era identico al Minotauro e, sfrondato dei suoi tratti mitici, non era che un’immagine bronzea del sole, rappresentato come un uomo con testa di toro. Con lo scopo di rinnovare i raggi solari, possono essere state sacrificate all’idolo vittime umane, arroventandole all’interno del suo corpo cavo, o mettendole sulle sue braccia inclinate, da dove potessero scivolare in una fossa di fuoco. Era in quest’ultimo modo che i Cartaginesi sacrificavano a Moloch la loro progenie. I figli venivano posti nelle mani di una statua di bronzo dalla testa di vitello, e da lí scivolavano in una fornace accesa, mentre il popolo ballava al suono di flauti e cembali per soffocare le urla delle vittime che ardevano. La somiglianza che le tradizioni cretesi hanno con la pratica cartaginese suggerisce l’idea che l’adorazione associata con i nomi di Minosse e del Minotauro possa essere stata grandemente influenzata da quella del Baal dei Semiti. Nella tradizione di Falaride, tiranno di Agrigento, e del toro di bronzo, si conserva forse un’eco di simili riti in Sicilia, dove il potere cartaginese mise profonde radici».
Stele funeraria di un sacerdote di Saturno a Cartagine. II sec. a.C. A sinistra rilievo raffigurante un sacerdote con un leone sotto al quale corre una dedica a Saturno, da Cartagine. Londra, The British Museum.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
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L’immagine e l’immaginario IL MITO DEL MOLOCH HA GODUTO E CONTINUA A GODERE DI STRAORDINARIA FORTUNA. UN SUCCESSO TESTIMONIATO DA UNA RICCA PRODUZIONE LETTERARIA, MUSICALE, CINEMATOGRAFICA E PERFINO FUMETTISTICA
Statuetta in terracotta del dio Baal Hammon in trono, da Thinissut (Tunisia). IV sec. a.C. Tunisi, Museo del Bardo.
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F
urono dapprima le scuole rabbiniche del giudaismo d’epoca talmudica (ultimi secoli a.C. – primi cinque secoli d.C.) a utilizzare le tradizioni classiche sui cruenti riti cartaginesi in onore di Baal/Crono/Saturno per dotare di sagoma bronzea e carattere vorace il dio Moloch venerato a Gerusalemme. Lo documentano, in particolare, due esegeti medievali assai noti e seguiti: il francese Rabbi Shlomo Yitzhaqi, detto Rashi (1040-1105), e il rabbino d’origini spagnole David Kimchi (1160-1235). Entrambi ripetono un antico studio (midrash) sul tema, minuzioso e sottile, conservato in due forme leggermente diverse. Stando alla prima, l’idolo di Moloch si trovava nella parte piú interna di un complesso di sette camere successive, alle quali i devoti avevano accesso secondo l’importanza del dono: un po’ di farina, una colomba o un piccione, un agnello, un montone, un vitello o un giovane manzo, dalla prima sala fino alla sesta. L’ingresso alla settima era invece riservato a quelli che venivano per offrire un bambino. L’idolo aveva testa bovina su corpo umano; le braccia erano distese con le mani aperte, come di chi sta per ricevere un dono; l’interno era vuoto e infiammato al punto che le mani sfavillavano. I sacerdoti ponevano allora la vittima tra le braccia dell’idolo e salmodiavano ad alta voce, per coprire le grida del sacrificato e prevenire ogni tentativo di ritirare l’offerta al momento supremo. In un’altra versione del midrash, l’immagine di Moloch si trova dietro sette porte a grata, somiglia a un essere umano – nulla si dice sulla testa di toro – e sostiene tra le mani un grande recipiente di rame, sotto il quale è posizionata una caldaia portatile, che infiamma il paiolo. I sacerdoti depongono il bambino nel recipiente, accendono il fuoco e salmeggiano con alte grida, dicendo: «Possa esserti gradito! Possa esserti gradito!», in modo che gli offerenti non possano sentire il pianto dei figli e tirarsi indietro. Nella Bibbia ebraica nulla suggerisce questa raccapricciante descrizione di Moloch e il modo peculiare in cui gli venivano offerti i bambini; né
si trovano tracce dell’uno e dell’altro nella dottrina tradizionale giudaica raccolta nel Talmud. Ma vari studiosi, già nel XVI e XVII secolo, non mancarono di notare che il Moloch del midrash trova un sorprendente parallelo nei resoconti sui sacrifici infantili dei Cartaginesi qui sopra presentati, e soprattutto nei racconti di Clitarco, Diodoro e Plutarco sull’idolo bronzeo. Non è concepibile che la descrizione dell’idolo di Moloch a Gerusalemme, con le mani tese e rivolte verso l’alto per accogliere e arrostire la vittima, mentre i celebranti coprivano le grida col frastuono dei cantici e dei tamburi, sia indipendente da queste storie greche, e che le sorprendenti coincidenze siano puramente accidentali; cosí scriveva giustamente nel 1897 George Foot Moore.
Reminiscenze minoiche È molto piú probabile che gli autori del midrash abbiano preso a prestito le loro concezioni su Moloch e il suo culto da tali fonti classiche; tanto piú che la Bibbia ebraica presenta l’offerta di bambini nel fuoco di Moloch come uno degli eccessi dei Cananei, antenati e predecessori dei Cartaginesi. Resta certo difficile stabilire con certezza attraverso quali canali arrivò ai commentatori ebrei la tradizione greca; ma un indizio abbastanza plausibile è offerto dalle raccolte proverbiali sul «riso sardonico», che raccoglievano appunto il costume cartaginese preservandolo accanto e in alternativa alle spiegazioni associate al mito di Talo, al suo modo di bruciare le vittime stringendole al petto, al suo legame con la storia piú antica di Creta e del Minotauro. A una reminiscenza di quest’ultimo, concludeva Foot Moore, potrebbe essere dovuta proprio la rappresentazione di Moloch con testa di toro presente nella prima versione del midrash. Questa immagine, comunque, si diffuse in tutta la letteratura storico-esegetica legata ai passi biblici su Moloch, attraversando il Medioevo e le epoche successive, giungendo fino agli inizi del secolo scorso. Dei commentari di Rashi e di Kimchi si servirono per esempio, con largo seguito, il
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biblista francescano Niccolò di Lira, vissuto in Francia tra il 1270 e il 1349 e poi l’orientalista ed ebraista Paulus Fagius (1504-1549), docente di ebraico a Cambridge: entrambi usarono quei commentari per caratterizzare il bronzeo Moloch a testa bovina come un dio vorace, identico senz’altro all’idolo cartaginese. Ma già il rabbino Kimchi, spiegando il Secondo Libro dei Re, aveva immaginato non piú sette camere consecutive per il culto di Moloch, bensí sette caselle di un’enorme statua di bronzo, col fuoco acceso al suo interno per bruciare le offerte. D’una importanza specifica per la storiografia posteriore è poi la ricostruzione dell’inglese John Selden (1584-1654). Orientalista, giurista, archeologo e uomo politico, scrisse numerose opere di giurisprudenza e di antichistica. Nelle sue Composizioni sugli dèi
siriani (De diis syris syntagmata II), pubblicate in latino nel 1617, Selden si serve di diversi commentari sulla Bibbia ebraica, a cominciare dal midrash su Moloch, citato dalle opere di Paulus Fagius e David Kimchi, ma usa anche gli autori classici per arricchire il bronzeo Baal canaaneo della personalità del dio venerato dai Cartaginesi in Nord-Africa e viceversa. A partire da Selden, Moloch, «che è anche Baal, cioè Signore, e Melech, o Molech, Moloch, cioè Re» s’impone come un dio punico a testa di toro e si materializza come idolo di bronzo, con sette riquadri sul petto: colosso assetato di sangue umano, protagonista fiammeggiante dei riti di Cartagine. A una descrizione di questo tipo si è ispirato, in particolare, l’incisore del Moloch riprodotto nell’Edipo egiziano (Oedipus aegyptiacus) del gesuita Athanasius Kircher, nel 1652: giusto
In basso la rappresentazione del Moloch proposta nell’Edipo egiziano (Oedipus aegyptiacus) di Athanasius Kircher. 1652. L’idolo in metallo a testa taurina si staglia nella valle di Ben Hinnom: sul busto si aprono sette
scomparti, pronti ad accogliere e bruciare le offerte col fuoco che arde al suo interno. Sulle due pagine una veduta della valle di Ben Hinnom, la biblica Geenna, luogo di eterna dannazione.
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In alto rappresentazione del sacrificio di bambini in onore del Moloch, da un’edizione dell’Union Bible Dictionary. 1837. Nella pagina accanto incensiere in terracotta con il volto di Baal Hammon, dal «tofet» cartaginese di Salammbô. II sec. a.C. Cartagine, Museo Archeologico.
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qualche anno prima della pubblicazione del Paradiso perduto di John Milton. Nel volume, ricco di preziose tavole e giustamente famoso all’epoca, si vede bene l’idolo di metallo a testa taurina piazzato nella valle di Ben Hinnom, con i sette scomparti pronti ad accogliere e bruciare le offerte col fuoco ardente all’interno. Anche Giovan Battista Vico, scrivendo nel 1774 i suoi Principj di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, non esitò a servirsi dell’insieme di questi dati, scrivendo: «I Dotti delle Lingue Orientali vogliono, ch’i Fenici avessero sparso per le restanti parti del Mondo i sagrifizj di Moloch, che ‘l Morneo, il Drusio, il Seldeno dicono essere stato Saturno, co’ quali gli bruciavano un uomo vivo. Tal’Umanità i Fenici, che portarono a’ Greci le lettere, andavano insegnando per le prime nazioni della piú barbara Gentilità!».
Un idolo «in carriera» Intanto, soprattutto grazie agli insegnamenti diffusi dalla cabala ebraica già a partire dal XII e XIII secolo, e sulla scia del Paradiso perduto di Milton, Moloch scalava in Occidente la gerarchia tradizionale degli angeli decaduti, insieme ad altre divinità della Fenicia e Siria Palestina precristiana. E nel complesso di queste dottrine mistiche ed esoteriche l’idolo finí per dominare dall’alto la categoria degli spiriti in rivolta, cosí come Belzebú si trovò alla guida degli spiriti di menzogna, Ashtarot dei perturbatori di anime, Belfagor dei litigiosi, e Baal al comando dei corvi della morte. In una storiografia meno avvertita, Moloch s’arricchí perfino di qualità appartenenti ad altri mostri cannibali della tradizione mitica, similmente accostati all’interpretazione rabbinica. George Rawlinson, per esempio, nel 1896 si fondò su diversi racconti per affermare, nella sua Storia della Fenicia, che anche la memoria del mostro rinchiuso nel labirinto di Creta doveva essere collegata al culto di Moloch: «Il Minotauro di Creta con corpo umano e testa taurina, al quale (segue a p. 75)
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Miniatura raffigurante Samuele che esorta gli Israeliti ad abbandonare l’idolatria e, sulla destra, la distruzione degli idoli stessi, dalla cosiddetta Bibbia dei Crociati, edizione manoscritta del Libro di produzione francese. 1244-1254. New York, The Pierpont Morgan Library.
IL TERRITORIO
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Il crudele Moloch, acquerello su carta di William Blake ispirato all’ode di John Milton On the Morning of Christ’s Nativity. 1809. Manchester, Whitworth Art Gallery.
venivano sacrificati giovani e fanciulle, era il Moloch qui trasportato dalla Fenicia e la sua sconfitta a opera di Teseo aveva segnato la fine di quel rito sanguinario».
Dieci variazioni sul tema Senza troppa fatica, l’immagine dell’idolo cosí fabbricata passò dall’esegesi biblica alla storiografia e da questa all’arte e alla produzione letteraria: come parte del contesto dei culti fenici e punici, come metafora di un essere divoratore di bambini, come allegoria di epoche e credenze primitive. Alla fine del Settecento, per esempio, Moloch è il demoniaco campione del male nelle Riflessioni religiose (Religious Musings) del fondatore del romanticismo inglese, Samuel Taylor Coleridge (1772-1834): una poesia scritta in occasione del Natale del 1794 e apertamente ispirata all’ode alla Natività di Cristo, di John Milton. Analoga ispirazione si trova, qualche decennio dopo, nella produzione artistica dell’inglese William Blake, che, tra il 1807 e il 1822, realizzò tre diverse raccolte di acquerelli per illustrare i versi di Milton, per un totale di 43 dipinti. Sotto le sue mani, la figura di Moloch si erge nell’attitudine di un macabro sovrano circondato da bambini, uno dei quali viene offerto tra le fiamme ardenti sotto di lui, attorniato dalle musiche e dal pianto. Pur senza citarlo, a Milton s’ispirò anche Charles Dickens (1812-1870) per il suo Patto col fantasma (The Haunted Man and the Ghost’s Bargain). Moloch è il nome di uno dei bambini protagonisti del romanzo, mentre Gerusalemme è il nome del condominio in cui il racconto è ambientato. «Ovunque l’infanzia si riuniva a giocare, lí era il piccolo Moloch, non senza fatica e pena del piccolo Johnny. Ovunque Johnny desiderasse restare, il
piccolo Moloch si opponeva e voleva rimanere; ogni volta che Johnny voleva uscire, Moloch dormiva e doveva essere curato; quando Johnny desiderava restare a casa, Moloch era sveglio e bisognava portarlo fuori. Nonostante tutto, però, Johnny era davvero convinto che quello era un bimbo perfetto, senza confronti in tutta l’Inghilterra». La presenza di Moloch nei componimenti del XIX e XX secolo è davvero ricca e variegata, con bagliori, sfumature e varianti che lo ripropongono e reinterpretano secondo la fantasia degli autori. Colori, venature e mutazioni diverse si osservano per esempio nella tragedia incompiuta Moloch del drammaturgo tedesco Friedrich Hebbel (1813-1866) e nell’omonima novella del russo Aleksandr Ivanovich Kouprin (1870-1938). Quest’ultima fu pubblicata nel 1836, con intenti di denuncia sociale e piena solidarietà con il proletariato. Con una chiara allusione all’insaziabile divinità semitica, Moloch è il nome della fabbrica in cui lavora il protagonista, il giovane ingegnere Bobrov, il quale tenta invano di distruggere lo stabilimento che divora la vita miserabile degli operai. Nel dramma di Hebbel, invece, Moloch è un idolo in ferro, che il vecchio prete cartaginese Hieram porta con sé, fuggendo dalla distruzione della patria e navigando verso l’isola di Thule. Moloch diventa cosí il simbolo del tentativo di portare la civiltà tra gli abitanti dell’isola. Ma costoro percepiscono l’ostilità di quel vegliardo cartaginese che ha chiuso il cuore a ogni sentimento di pietà, per farsi apostolo di un dio di terrore e di sterminio, e lo costringono a suicidarsi. «L’essere umano pensò il suo contrario, ed ebbe il suo Dio», sentenzia Hebbel. L’opera di questo tragediografo fece da base per il Moloch del compositore Max von
Fra le molte e variegate ipotesi formulate sul Moloch, non mancò l’idea che da lui fosse disceso il Minotauro cretese
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Schillings (1868-1933): un dramma musicale che, con la Sesta Sinfonia di Gustav Mahler, la Salomè di Richard Strauss e la Sinfonietta di Max Reger, rappresenta il cartellone del modernismo musicale in Germania. La prima rappresentazione di quest’opera, a Dresda, nel 1906, ebbe una recensione decisamente ostile, per via dell’antisemitismo latente percepito nella figura di quel sacerdote cartaginese di Moloch, desideroso di vendetta sui Romani che hanno distrutto Cartagine, il quale cerca di trasferire a Thule la sua religione ancestrale.
L’amore infelice della figlia di Amilcare Moloch è ben presente anche nella produzione poetica inglese, per esempio nella forma di uno «spirito lascivo» nella Visione del giudizio (1821) di Robert Southey (1774-1843), o come un automa rovente di Tiro che stringe tra le braccia un esserino strepitante nell’Alba (1892) di Alfred Tennyson (1800-1892). La fortuna letteraria di Moloch è però legata, per l’Ottocento, soprattutto al romanzo storico Salammbô del francese Gustave Flaubert (1821-1880), pubblicato nel 1862 e ambientato nella Cartagine del 241 a.C. Il romanzo prende nome dalla protagonista, figlia del cartaginese Amilcare Barca e sacerdotessa della dea Tanit, che muore infine assistendo al supplizio del suo innamorato, il capo dei mercenari in rivolta Matho. La potente descrizione dell’idolo a sette scomparti si trova nel capitolo 13, all’apice del romanzo: «Finalmente il Baal giunse proprio nel mezzo della piazza. I suoi pontefici eressero un recinto di cancelli per tener lontana la folla, restando soli intorno ai piedi del colosso. (…) Intanto un fuoco d’aloe, di cedro e di lauro ardeva tra le gambe del colosso. Le lunghe sue ali scendevano fino a immergere la punta tra le fiamme; gli unguenti ond’era stato unto gli colavano come un sudore lungo le membra di bronzo. Intorno alla pietra rotonda su cui posava i piedi, i fanciulli, avvolti in veli neri, descrivevano un cerchio immobile;
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LA LEGGENDA DEL FANCIULLO MARTIRE
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e Tertulliano e altri scrittori cristiani dei primi secoli si difesero dalle maldicenze sui loro misfatti rituali denunciando gli infanticidi cartaginesi in onore di Saturno, l’accusa di uccidere bambini per poterne usare il sangue nel corso di riti segreti fu presto applicata, nell’Europa cristiana, anche e soprattutto nei confronti delle nascenti eresie, per colpire ogni gruppo religioso marginale o dissidente. Già nel V secolo lo storico greco cristiano Socrate narra che nel 415 a Inmestar, in Siria, nel corso della festa giudaica di Purim, un certo numero di Ebrei, ebbri di vino, avevano inchiodato a una croce un adolescente, lasciandolo morire per le ferite. Gregorio di Tours, a sua volta, racconta nel 575 il miracolo di un fanciullo giudeo che al pari dei compagni di Daniele nella Bibbia (Daniele 3,1-30) era uscito indenne dalla fornace ardente nella quale l’aveva gettato suo padre, indignato perché il figlio s’era recato a pregare in chiesa per la Messa. Sono i primi lineamenti di quel che verrà poi denominato il «crimine rituale»: un’accusa nei confronti degli Ebrei variamente modulata da scrittori che, pur non essendo testimoni dei fatti narrati, liberamente mescolarono, a scopo didascalico, moralistico e perfino antisemita, leggende ed eventi miracolosi, intolleranza e pregiudizio, antropofagia e omicidio rituale. La forma narrativa piú frequente, diffusamente ripresa in occasione di (segue a p. 79)
Statuetta in legno scolpito e dipinto di Simonino da Trento. Primo quarto del XVIII sec. San Candido, Museo della Collegiata di San Candido.
e le sue braccia smisurate abbassavan le palme fin presso a loro, quasi ché volesse coglierne la corona e recarla in cielo. Tra la folla, molti svennero; altri divenivano inerti, parendo quasi pietrificati in una sorta d’estasi. Un’infinita angoscia opprimeva i petti. Anche gli ultimi clamori s’estinguevano a poco a poco; e tutto il popolo di Cartagine respirava a fatica, assorto in un incubo di terrore. Infine il gran sacerdote di Moloch passò la mano sinistra sotto il velo ai fanciulli, e, strappata loro dalla fronte una ciocca di capelli, la gettò sulle fiamme. Gli
uomini dal manto rosso intonarono allora l’inno sacro: “Gloria a te, o Sole! Re delle due zone, creatore che genera se stesso, Padre e Madre, Padre e Figlio, Dio e Dea, Dea e Dio» (seguo la traduzione di Ezio Fischetti). Questo Moloch tutto di bronzo, con pietre nere bordate di giallo a formare gli occhi, le ali aperte sulle spalle, la testa di toro alzata come per muggire, esce dal tempio e arriva in processione nel luogo del solenne olocausto. Le offerte si succedono tra l’incenso, nel bagliore delle fiamme che s’alzano tra le gambe del colosso, tra le preghiere dei sacerdoti e il
Xilografia colorata raffigurante il martirio di Simonino da Trento, ascrivibile a un artista dell’Italia nord-orientale. 1475-1485 circa. Ravenna, Istituzione Biblioteca Classense.
suono dei musici. «I bambini con i polsi e le caviglie legati spariscono uno dopo l’altro nell’apertura del settimo scomparto. (…) Le braccia di bronzo si muovono sempre piú celermente. I devoti gridano: “Signore, mangia!”. Ma l’appetito del dio non si sazia, anzi pare chiedere sempre nuove vittime». «Scesero le ombre della notte; le nubi s’addensarono sopra la testa del Baal. Il rogo, senza fiamme ormai, formava una piramide di tizzoni che gli giungeva sino alle ginocchia; il mostro, interamente rosso come un gigante asperso di sangue, con la testa rovesciata,
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sparizioni di bambini inspiegabili o di misteriosi infanticidi, è quella detta del «fanciullo cristiano martire». Si sviluppa nel Medioevo, chiama in causa rituali esoterici in onore di un presunto dio Moloch e arriva fino ai giorni nostri. I nomi dei piccoli «santi» sono in particolare quello del dodicenne William di Norwich, trovato morto nei giorni di Pasqua del 1144, del quale vita e miracoli furono raccontati anni dopo dal monaco Thomas di Monmouth. Poi quello di Hugh di Lincoln, scomparso a otto anni il 27 luglio 1255 e ritrovato morto un mese dopo nel pozzo detto dei Giudei. E ancora quello di Werner d’Oberwesel, il cui culto si diffuse nell’Est della Francia a partire dal suo omicidio nel 1287. Infine quello del piccolo Simone di Trento, scomparso a tre anni la sera del Giovedí Santo del 1475 e ritrovato cadavere la mattina di Pasqua, il 26 marzo. La venerazione di quest’ultimo, noto anche come san Simonino, è stata ammessa nel 1588 dalla Chiesa cattolica e tale è rimasta fin dopo il Concilio Vaticano II, quando nell’autunno del 1965 il «santo» venne tolto dal martirologio, anche per l’assenza di fondamento storico di tutta la vicenda. Vera o falsa che sia, l’accusa d’infanticidio rituale in tutti i resoconti cronachistici o novellistici fa presa sulla diceria, alimenta le malignità, assurge a verità nota, condivisa nelle ballate e nelle credenze popolari, sfociando in una venerazione largamente tollerata o approvata dalle autorità. Compianto sul corpo morto di Simonino da Trento, gruppo in legno intagliato, dipinto e dorato. Primosecondo decennio del XVI sec. Collezione privata.
sembrava barcollare come preso da ebbrezza». La scena è molto forte, impressionante, sia nel testo di Flaubert, sia nelle illustrazioni che accompagnano le differenti edizioni del Salammbô, sia nelle scenografie degli adattamenti teatrali. La descrizione è tanto forte che taluni rappresentanti della comunità scientifica francese, come Guillaume Frœhner, Alcide Dusolier, e Charles Augustin de Sainte-Beuve, rimproverarono all’autore troppa immaginazione su questi fanciulli bruciati ancora vivi e su questo Moloch in metallo,
trascinato da Gerusalemme fino a Cartagine. Flaubert si difese pubblicamente, citando non solo Diodoro Siculo, ma anche la tradizione esegetica alla quale s’era ispirato, a cominciare dai commentari dai quali aveva attinto John Selden, fino ai libri della sua epoca sulla storia di Cartagine, e confermando la solidità del suo giudizio di condanna per l’esecrabile rito cartaginese. Nel 1908, cioè quarantasei anni piú tardi rispetto alla prima uscita di Salammbô, l’italiano Emilio Salgari (1863-1911) pubblicò il romanzo Cartagine in fiamme, che s’apre con le invocazioni dei fedeli per l’insaziabile idolo di bronzo, divoratore di vergini e di fanciulli, con il petto aperto, pronto a trasformarsi in forno crematorio: «A morte la romana! Che le sue viscere brucino sul petto di Molok! Egli ci sarà riconoscente e ci darà nuova forza! A morte! A morte! Molok vuole vittime nemiche!».
Pregiate animazioni d’autore I romanzi di Flaubert e di Salgari offrirono nel 1914 lo scenario per la realizzazione del Moloch cartaginese evocato nel film muto Cabiria, di Giovanni Pastrone, apparso con i sottotitoli di Gabriele D’Annunzio. La statua e il fuoco dell’idolo bronzeo immaginato da Pastrone mostrano in modo evidente il debito nei confronti di Flaubert e delle sue fonti, si tratti dei testi antichi o dei commentari biblici medievali. La stessa eroina protagonista della pellicola è destinata alle fiamme del terribile Moloch, nel grande sacrificio che occupa il secondo episodio del film; ma viene salvata da un eroe ovviamente romano, la spia Fulvio Axilla, e dal suo schiavo Maciste. Anche dal libro di Salgari fu realizzata una trasposizione cinematografica, con il film omonimo del 1959, diretto da Carmine Gallone, e per la scena del tempio di Moloch venne costruita a Cinecittà una statua alta sette metri. Qualche anno piú tardi, inoltre, Giorgio Ferrone utilizzò la stessa immagine di un essere mostruoso, assetato di vittime umane, per il suo Ercole contro Moloch del 1963, dove però (segue a p. 82)
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FLAUBERT E I SUOI DETRATTORI
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cco come si sono espressi alcuni autorevoli commentatori del libro di Flaubert. A Charles Augustin de Sainte Beuve, 23 dicembre 1862: «Mio caro Maestro, (…) siete sicuro, prima di tutto – nel vostro giudizio generale – di non aver obbedito un po’ troppo alla vostra impressione irrequieta? L’oggetto del mio libro, tutto questo mondo barbaro, orientale, molochista, vi dispiace in sé! Iniziate col dubitare della realtà della mia riproduzione, però poi mi dite «Dopo tutto, può essere vero». E come conclusione: «Peccato, però, se è vero!». Voi vi stupite e mi rimproverate d’essere sorpreso. Non posso davvero farci niente! (…) Non è colpa mia se i temporali sono frequenti in Tunisia alla fine dell’estate. Chateaubriand non ha inventato i temporali piú che i tramonti e tanto gli uni che gli altri, mi sembra, appartengono a tutti. Notate anche che l’anima di questa storia è Moloch, Fuoco, Fulmine. Qui è il Dio stesso ad agire, in una delle sue forme; è lui che doma Salammbô. Il tuono era quindi al posto giusto; è la voce di Moloch che è rimasto sul fondo. Ammetterete anche che vi ho risparmiato la
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classica descrizione del temporale; e poi la mia povera tempesta in tutto non prende piú di tre linee e in posti diversi!». Da Alcide Dusolier, recensione del 31 dicembre 1862: «Ancora una parola. Rendo rispettoso omaggio alla coscienza letteraria del signor Gustave Flaubert. Mentre tanti altri scrittori s’affrettano a consegnare i loro scritti agli editori, a lui sono stati necessari sei anni per comporre Salammbô (...). Mi rammarica il fatto che, oltre ai sei anni, non vi abbia messo anche un po’ di genialità». A Guillaume Frœhner, 21 gennaio 1863: «Per i sacrifici dei bambini, è cosí poco impossibile che nel secolo di Amilcare si bruciassero vivi, che erano bruciati vivi ancora al tempo di Giulio Cesare e Tiberio, se dobbiamo fare riferimento a Cicerone (Pro Balbo) e Strabone (libro III). Tuttavia, “la statua di Moloch non assomiglia alla macchina infernale descritta in Salammbô. Questa figura, composta da sette scomparti disposti l’uno sull’altro per racchiudere le vittime, appartiene alla religione gallica.
Flaubert non ha alcuna scusante d’analogia per giustificare la sua audace trasposizione”. Ebbene, no! Non ho
giustificazioni, è vero! Ma ho un testo, vale a dire il testo, la descrizione stessa di Diodoro, che come
ricorderete e che non è altro che la mia, come potrete convincervi da solo degnandovi di rileggere, o leggere, il
libro XX di Diodoro, capitolo IV, alla cui lettura aggiungerete la parafrasi caldaica di Paul Fage, di cui voi non
parlate affatto ma che è citata da Selden, De diis syriis, p. 164-70, con Eusebio, La preparazione evangelica, libro 1».
Salammbô, olio su tela di Jean-Paul Sinibaldi. 1885. Collezione privata.
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l’idolo è collocato in una Micene d’epoca arcaica e ambientato in contesti che si richiamano apertamente tanto alla mitologia greca quanto alla Bibbia e alla civiltà romana, per decantare il trionfo sulla barbarie dell’eroe greco per eccellenza, Ercole appunto. Queste e altre pellicole di storie in costume, realizzate nei primi decenni del XX secolo e poi ancora tra gli anni Quaranta e Sessanta, funzionano secondo una visione che potremmo definire costantemente manichea, fondata sulla provenienza geografica dei personaggi e guidata, almeno inizialmente, da intenti di propaganda colonialistica. Nei casi specifici, e in particolare in Cabiria, i Romani sono una stirpe intelligente e coraggiosa e finiscono con l’imporre la loro civiltà gloriosa sul popolo cartaginese, portatore d’una cultura crudele e nefasta. Tanto i primi sono personaggi buoni e generosi quanto i secondi
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In alto locandina del film muto Cabiria, girato fra il 1913 e il 1914 da Giovanni Pastrone. Torino, Museo Nazionale del Cinema.
In basso e nella pagina accanto una sequenza e la locandina di Metropolis (1926) di Fritz Lang, in cui il Moloch è una macchina che divora gli operai.
sono i catalizzatori del male e portano le stigmate dell’Altro, il Diverso da sé dell’epoca; al punto, che i Cartaginesi di Pastrone, sacerdoti, soldati e cittadini, sono tutti abbigliati e con le fattezze sia del musulmano che del giudeo. Ricostruzione storica culturalmente orientata e ideologia colonialistica, in definitiva, partecipano nel cinema di quegli anni a una stessa evocazione del passato, nella quale verità e finzione si mescolano per creare il capolavoro, sulla base di presunte certezze storiografiche e di stereotipi ben consolidati.
Da Cartagine al mondo del futuro Il successo del dio che mangiava i bambini non s’arresta a questi moderni allestimenti scenici della lunga tradizione iconografica sull’idolo della Bibbia o la statua di Cartagine. Fin dall’inizio del XX secolo, esso ha seguito anche gli itinerari della metafora, benché la sua importanza, nella storiografia, ha perso nettamente consistenza. Cabiria forní per esempio l’occasione di una diversa trasposizione simbolica dell’idolo antropofago già nel 1926, con Metropolis, dell’austriaco Fritz Lang. Questa avanguardia dei moderni film di fantascienza mescola tecnologia e occultismo per disegnare un avvenire alienante: l’azione si svolge in una megalopoli del XXI secolo, nella quale un robot conduce la rivolta di classe degli operai contro i ricchi al potere. Nella visione allucinata del protagonista Freder, figlio del dittatore Fredersen, Moloch identifica l’officina: una mostruosa macchina che divora interminabili file di operai. Il Moloch di Aleksandr Sokurov (1999), invece, è una denuncia piuttosto fredda e implacabile della dittatura. Presenta gli ultimi tempi del Terzo Reich visti con gli occhi di Eva Braun, l’amante di Hitler, in un giorno del 1942 vissuto nella fortezza di Berchtesgaden con Joseph Goebbels
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MOLOCH A FUMETTI
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ari albi del disegnatore francese Jacques Martin piú volte ristampati, trasferiscono nel mondo dei fumetti gli scenari immaginati da Gustave Flaubert e la visione negativa del mondo di Cartagine dominato dalla presenza del colosso infuocato. Ne Il sepolcro etrusco, del 1968, ottavo albo della serie «Le avventure di Alix», i Molochisti sono un drappello vociferante di cavalieri in rosso che distruggono le statue degli altri dèi nel fuoco del loro grande Moloch-Baal, la cui collera deve essere costantemente placata con il sacrificio di un fanciullo sul rogo. Nei fumetti dell’albo ritroviamo Bibbia, Cartagine, nonché Flaubert e le sue colte letture; si traccia perfino la storia del suo culto, dapprima presso Ammoniti e Moabiti, Salomone, Acaz e Manasse, e, soprattutto, presso Cananei, Aramei e Fenici, tutti adoratori di Moloch, il Baal infernale poi adottato da Cartagine, con la gigantesca statua di bronzo. Quest’ultima è dotata di ali e braccia immense, catene per gettare nella bocca luminosa una vittima dopo l’altra, nel «calore intenso che regnava attorno al dio splendente e il grande fumo alto nel cielo diventato grigio». Non sono da meno gli abitanti de L’isola maledetta, terzo album della stessa serie, pubblicato una decina d’anni prima, nel 1957. Terribilmente spaventati per un terremoto e un vulcano in eruzione, essi offrono senza sosta sacrifici umani alla statua gigantesca del loro Moloch, la cui gola sputa fiamme in permanenza. Inoltre, nelle strisce de Lo spettro di Cartagine, tredicesimo album della serie (1975), il fuoco dei sacrifici per Moloch-Baal illumina i tetti della città di Cartagine durante l’assedio di Scipione Emiliano, mentre gli elefanti impazziti distruggono ogni cosa al loro passaggio. La popolarità di Moloch nei fumetti d’Oltralpe continua ancora oggi, nei due album realizzati da Appollo, Hervé Tanquerelle e Isabelle Merlet con il titolo I ladri di Cartagine. Il primo (Il Giuramento del Tofet, del 2013) si richiama apertamente al santuario dei bambini restituito dall’archeologia in questa città e in altri insediamenti del mondo punico. Il secondo (La Notte di Baal-Moloch, del 2014) s’ispira alla tradizione che vede al centro delle cerimonie qui celebrate il sacrificio umano in onore di un Moloch redivivo, immortale, sempre ardente tra le fiamme.
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e Martin Bormann. Il nome del personaggio mitico maschera in questo film un orrore storico e realistico: l’atrocità, la demenza e la violenza del Führer, maniaco del potere, dissimulate nello scenario incantevole delle Alpi bavaresi. Un senso figurato ha il nome di Moloch anche nel titolo di un cortometraggio horror, diretto nel 2009 da Robert Glickert e centrato su un male atavico che un drappello di marines americani in Iraq si trova a dover affrontare all’improvviso. Il Moloch Tropical dell’afro-haitiano Raoul Peck, per contro, nello stesso anno 2009 s’ispira esplicitamente al film di Sokurov per descrivere in una atmosfera di classicità tragica le angosce, la deriva e la perdita del potere di un presidente-dittatore di Haiti. E si potrebbe continuare sull’uso di Moloch in altre pellicole del cinema, moderno e contemporaneo, a cominciare da Watchmen di
In alto il Moloch che accoglie i visitatori all’ingresso di Cinecittà World, ispirato al film Cabiria di Giovanni Pastrone e realizzato dallo scenografo Dante Ferretti. Nella pagina accanto le copertine di due storie a fumetti ispirate al Moloch e al sacrificio dei bambini.
Zack Snyder e nell’omonima graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons, che hanno dato origine a riprese e scenari non meno intrisi di sangue, di spettri, di angeli ribelli. Ma in fondo, di tutti questi stereotipi, applicati dal cinema al nome di Moloch, si può anche godere e profittare, perfino inconsciamente, giacché le tante ricostruzioni fin qui evocate sono ancora bene utilizzate a vario scopo. Se la scenografia adottata per la mostra «Carthago» al Colosseo di Roma ha duplicato l’idolo metallico di Cabiria conservato nelle sale del Museo del Cinema di Torino, una copia dello stesso idolo da qualche anno spalanca le braccia in piazza Cabiria a Castel Romano, per accogliere i visitatori di Cinecittà World, invitarli a entrare nel fantastico mondo del cinema, attraversando l’ingresso che riproduce il suo tempio e trovare, all’interno del parco, tanta fantasia, diletto e avventura.
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L’idolo è morto! Anzi no... LE CONGETTURE SULL’ESISTENZA DEL MOLOCH E SULLA PRATICA DEI SACRIFICI IN SUO ONORE HANNO RETTO ALLA PROVA DELL’ARCHEOLOGIA? SOPRATTUTTO ALLA LUCE DELLE RICERCHE PIÚ RECENTI, SI PUÒ RISPONDERE CON UN DECISO «NO». MA LA SCHIERA DI QUANTI CONTINUANO A SOSTENERE IL CONTRARIO È ANCORA FOLTA...
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SalammbĂ´, olio su tela di Carl Strathmann. 1894 circa. Weimar, Klassik Stiftung Weimar.
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L’ARCHEOLOGIA
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a cosiddetta «realtà» documentaria su Moloch, che è alla base delle composizioni artistiche fin qui ricordate, si è costruita nel tempo, sia con la valorizzazione delle fonti antiche, sia con opere di storia ispirate da ideologie tanto precise quanto varie. Gli autori classici, da un lato, costituiscono testimonianze importanti rispetto alla civiltà di Cartagine e dei Fenici; ma sono fonti condizionate dall’immagine che i Greci e i Romani si facevano di questa civiltà antagonista, marcata dal culto di un dio Crono che per essi era dio e simbolo del caos primordiale. La Bibbia ebraica e i Padri della Chiesa, parimenti, quando discutono di queste credenze testimoniano un’analoga visione negativa del politeismo fenicio e punico, non comparabile al culto del vero e unico Dio.
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I trattati di storia, d’altra parte, hanno ripetuto fino all’inizio del XX secolo una «verità» sul Moloch d’Oriente e d’Occidente che era, anch’essa, il risultato di un’esegesi quasi teologica delle informazioni disponibili e una valorizzazione di dati ben mescolati, in una ricostruzione assolutamente discrezionale della religione fenicia e punica. Nel 1829, per esempio, apparve la traduzione francese dell’enciclopedia su Simbolismo e mitologia dei popoli antichi, in particolare dei Greci del filologo tedesco Georg Friedrich Creuzer, dove erano ben sottolineate le coincidenze tra la descrizione diodorea dell’idolo bronzeo cartaginese e quelle rabbiniche per il Moloch gerosolimitano. Tra il 1841 e il 1856, Franz Carl Movers pubblicò a Berlino una monumentale storia dei Fenici,
Cippi funerari nel «tofet» cartaginese di Salammbô.
Tavola di Pierre Méjanel raffigurante Salomone che, dopo aver abbandonato il culto di Yahweh, offre sacrifici in onore di Moloch, dall’opera Les Mystères de la Franc-Maçonnerie devoilés. Parigi, 1886.
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L’ARCHEOLOGIA
nella quale Moloch era descritto come divino «Signore del fuoco». Anche il Grande lessico della mitologia greca e romana, apparso in tedesco a partire tra il 1884 con la direzione di Wilhelm H. Roscher e rimasto in uso per tutto il XX secolo, non esita a presentare sotto la voce «Crono» (Kronos) e con il titolo Il cosiddetto Moloch le fonti letterarie classiche sul sacrificio punico dei fanciulli, per discutere delle identificazioni vicino-orientali della divinità greca. Maximilian Mayer, autore dell’intero paragrafo, giustifica un simile titolo con la citazione delle descrizioni rabbiniche dell’idolo di bronzo, raccolte da Selden e dai suoi imitatori. Uscí contestualmente a Lipsia, nel 1894, il grande tomo di Wolf Wilhelm Friedrich von Baudissin, Yahweh e Moloch, che sosteneva un’origine fenicia, non ebraica, del nome divino mlk, associato a quello del dio di Tiro, Melqart (mlk qrt, il «Re della città»).
La crudeltà dei re d’Israele Non è da meno il grande Dizionario Larousse del XX secolo, diretto da Paul Augé, che nel 1931, per la voce «Moloch» registrava cosí lo stato delle conoscenze: «A lui si sacrificavano bambini nel fuoco. Salomone e diversi re di Giuda adottarono il suo culto; alcuni di loro, come Acaz e Manasse, furono cosí crudeli da offrire i propri figli a Moloch, nella valle di Hinnom, a sud di Gerusalemme. Moloch deve essere identificato con Milcom e Moloch-Baal, il famoso idolo di Cartagine. Secondo Diodoro di Sicilia, Moloch era rappresentato nella forma mostruosa di un uomo con il volto di un toro; si accendeva un grande fuoco al suo interno e il calore consumava le vittime umane poste tra le braccia del mostro; questa statua era di metallo e A destra figurina in terracotta raffigurante una giovane donna che allatta un neonato, da Myrina (Lemno, Grecia). I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto statua raffigurante un bambino, dal tempio di Eshmun nella località di Bostan esh-Sheikh (Sidone). V sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale. Sulla base corre un’iscrizione che riporta la dedica della scultura al dio Eshmun da parte di Baalchillem, figlio di Baana’, re dei Sidonii.
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PROGETTI SULLA MORTE IMMATURA
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unere mersit acerbo («In morte acerba sommerse»): è il titolo di un’ode delicata di Giosuè Carducci per il figlioletto Dante, morto di meningite a tre anni, nel 1870. Riprende un passo dell’Eneide di Virgilio, nel quale l’eroe, appena disceso nell’oltretomba, è subito attratto dal pianto dei bambini morti: «S’udirono voci improvvise e un forte vagito d’infanti; piangevano anime esili, sul far della soglia: un tetro giorno li strappò, privati della dolce vita, rapiti al seno materno, e li sommerse con morte acerba» (VI 426-29). Storici delle religioni, archeologi e antropologi stanno scrivendo insieme pagine importanti sulla mortalità infantile nel mondo antico, con progetti di ricerca, convegni e pubblicazioni che indagano la condizione dei bambini e la morte precoce, sia per casi di studio che per saggi d’inquadramento generale. Partendo dalle pratiche funerarie e dalle modalità di sepoltura, essi provano a ripercorrere le cerimonie di commiato riservate ai feti e ai neonati, le cause del
decesso e le condizioni di vita dei lattanti, l’identità sociale dei piccoli defunti, le condizioni d’integrazione o di marginalità della puerizia, lo stato di salute, l’allattamento e la stessa definizione della «infanzia» nelle antiche civiltà mediterranee. Un progetto francese, in particolare, ha dato luogo alla pubblicazione di tre volumi su L’enfant e la mort dans l’Antiquité (I, De Boccard, Parigi 2010; II, Centre d’Etudes Alexandrines, Alexandrie 2012; III, Centre Camille Julien, Aix-en-Provence 2012). In Inghilterra è apparso nel 2013, con la direzione di Judith Evans Grubbs e Tim Parkin, The Oxford Handbook of Childhood and Education in the Classical World (University Press, Oxford). Un convegno internazionale ha generato il volume curato da Jacopo Tabolli, From Invisible to Visible. New Methods and Data for Archaeology of Infant and Child Burials in Pre-Roman Italy and Beyond (Astrom Editions, Nicosia 2018). Un gruppo di lavoro della «Sapienza» Università di Roma ha prodotto tre
volumi, curati da Anna Maria Gloria Capomacchia ed Elena Zocca: Il corpo del bambino tra realtà e metafora nelle culture antiche (Morcelliana, Brescia 2017); Liminalità infantili. Strategie di inclusione ed esclusione nelle culture antiche («Henoch» 41/1; Morcelliana, Brescia 2019); Antiche infanzie. Percezione e gestione sacrale del bambino nelle culture del Mediterraneo e del Vicino Oriente (Morcelliana, Brescia 2020). In «Archeo» n. 421 (marzo 2020) abbiamo segnalato recentemente il libro curato da Claudia Lambrugo, Una favola breve. Archeologia e antropologia per la storia dell’infanzia (All’insegna del Giglio, Sesto Fiorentino 2019).
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L’ARCHEOLOGIA
Busto in terracotta della dea Tinnit. V sec. a.C. Ibiza, Museo Arqueológico.
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Diodoro dice che aveva le braccia distese per ricevere gli sfortunati che gli venivano offerti». È ancora apprezzabile il modo di presentare la questione, nel 1964, da parte del biblista domenicano Roland de Vaux (1903-1971). Per questo specialista dell’Antico Testamento, i testi classici sui sacrifici di bambini sono del tutto affidabili: «Sono questi i testi che hanno fornito ai rabbini il materiale per descrivere una statua di Moloch nella valle di Ben Hinnom. Ma la statua di Gerusalemme è sicuramente un’invenzione dei rabbini, mentre non c’è motivo di dubitare che a Cartagine sia veramente esistito quel simulacro di bronzo che Diodoro e Clitarco descrivono e che Plutarco pure menziona. Si osserverà soltanto che, contrariamente all’immagine che i rabbini hanno imposto ai commentatori del Medioevo e dell’epoca moderna, questa statua non costituisce essa stessa una fornace; c’è invece una fossa, con o senza braciere, nella quale cadeva la vittima deposta sulle mani dell’idolo. Questi antichi scrittori parlano soltanto di Cartagine e non è necessario concludere che una tale scenografia esistesse ovunque si facessero questi sacrifici nel mondo punico». In fondo, pur non volendo vestire gli abiti dello storico, Gustave Flaubert difese a buon diritto la sua ricostruzione romanzata dell’idolo e del sacrificio cartaginese, rinviando alle sue letture autorevoli, delle quali si faceva forte: la storia delle religioni, l’esegesi biblica e, piú in generale, l’antichistica del suo tempo, in realtà, non erano troppo distanti dalle sue posizioni. La storiografia a lui contemporanea e finanche quella successiva, in aggiunta, hanno puntato largamente sull’immagine dei Cartaginesi impegnati nella «orribile» pratica del sacrificio
umano. E per converso, il testo di Salammbô non cessa di comparire anche nella letteratura cosiddetta «scientifica», per quanto improvvido e inappropriato esso sia in tale sede. Ma l’elenco di studi nei quali Flaubert costituisce il punto di partenza o perfino di arrivo, per la storia del sacrificio dei fanciulli a Cartagine e nella Bibbia ebraica, è davvero troppo lungo per potere qui esemplificarlo ulteriormente, a rischio, oltretutto, di dimenticare qualche scritto. Insomma: che il romanzo di Flaubert abbia goduto e continui a godere di buona considerazione, anche negli ambienti storiografici e antichistici, è un dato di fatto. Non già per l’episodica evocazione dell’idolo bronzeo tra le arcate del Colosseo a Roma, dove bene ha rappresentato «l’immaginario» connesso al fascino dell’antica metropoli africana, bensí per l’influenza che Salammbô ha avuto, sia pure inconsciamente, sulla ricostruzione della civiltà di Cartagine nel corso dell’ultimo secolo. Stele votiva dal «tofet» di Cartagine, con vari simboli, tra cui il sole, la luna crescente e, sotto di essa, l’immagine detta di Tanit. II-I sec. a.C. Londra, British Museum.
Da Moloch a molk Mentre Fritz Lang s’ispirava al Moloch di Flaubert per la vorace officina del suo Metropolis, gli archeologi portavano alla luce, al limite dell’insediamento di Cartagine e altri centri punici, taluni spazi sacri a cielo aperto, gremiti di stele spesso decorate con simboli e molte volte iscritte con epigrafi votive. Quasi tutte le iscrizioni ripetevano con poche varianti la formula ndr ‘š ndr, cioè «dedica che ha dedicato», associata o sostituita da termini come mtnt, «dono», nsb, «stele», e ‘bn, «pietra». Il donatore s’indica col proprio nome e si rivolge agli dèi, lasciando la propria offerta in ringraziamento perché la propria voce ha
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L’ARCHEOLOGIA
trovato ascolto o, piú raramente, con l’auspicio che lo trovi presso di loro. In un’epigrafe di Cartagine (CIS I 242) si legge per esempio: «Alla Signora Tanit Volto di Baal e al Signore Baal Hammon; ciò che ha donato Maarbaal, lo scriba, figlio di Bodashtart, figlio di Melekyaton, figlio di Aderbaal; perché hanno ascoltato la sua voce, lo hanno benedetto». Accanto alle stele, sotto le stele o comunque nello stesso luogo, erano state interrate molte urne, contenenti i resti incinerati di bambini e/o di animali, solitamente ovini. Un po’ dovunque, tra l’VIII secolo a.C. e il II d.C., in Nord Africa e non solo, la tipologia di questi santuari presenta una serie di elementi ricorrenti: talora un sacello, decine di unguentari e altri oggetti votivi o d’impiego liturgico, migliaia di stele e poi decine di migliaia di urne cinerarie. Santuari di questo tipo sono stati ritrovati non
Nella pagina accanto stele votiva su cui sono scolpiti, dall’alto, una mano levata in segno di preghiera, due colombi e il segno detto di Tanit, da Cartagine. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo. In basso parte superiore di una stele votiva in forma di segno di Tanit con incisa l’immagine di una bottiglia, dal «tofet» di Cartagine. IV sec. a.C. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo.
solo a Cartagine, ma anche a Sousse/ Hadrumetum e in altri centri della Tunisia, a El Hofra/Costantina e altrove in Algeria, a Mozia in Sicilia, a Nora, Monte Sirai, Cagliari, Bitia, Tharros e Sulcis in Sardegna. Tra i santuari posteriori alla caduta di Cartagine vanno segnalati in Tunisia quelli di Althiburos/ Medeïna, Calama/Guelma, Dougga, Henchir el-Hami, Henchir Ghayadha, Maktar, Mididi, Teboursouk e Thuburnica. Sono peraltro anteriori alla scoperta del santuario cartaginese i ritrovamenti di Nora in Sardegna e di Sousse in Tunisia; due stele votive, infine, vengono da Rabat, a Malta. A Cartagine, si definí dapprima come «santuario di Tanit e Baal Hammon» l’area sacra portata in luce. Ma non passò molto tempo prima che questi spazi, con le stele votive e le ossa incinerate dei bambini, fossero collegati ai testi biblici sui figli fatti passare per il fuoco nel «tofet» della valle di Ben Hinnom, alle descrizioni di Diodoro Siculo, Clitarco e Plutarco, nonché a tutta la tradizione successiva sul culto di Moloch. Il dio Baal Hammon, titolare del culto in tali luoghi, d’altra parte, si presentò come l’equivalente del Crono cannibale dei testi classici, mentre appariva anche possibile ipotizzare che tali luoghi d’immolazione rituale in Africa del Nord fossero stati abbandonati in epoca romana o piuttosto trasformati in santuari di Saturno.
Una corale polifonica L’idea di aver trovato la prova archeologica dei sacrifici di bambini in ambiente cartaginese, e piú in generale fenicio-punico, ebbe cosí facilmente il sopravvento nella storiografia del XX secolo, e vi è rimasta per oltre cinquant’anni, con qualche rara eccezione. Taluni, come i francesi Éduard Paul Dhorme, Claude Frédéric-Armand Schaeffer e Charles Saumagne, s’opposero a questa interpretazione, sia con motivazioni filologiche e archeologiche, sia in virtú della riabilitazione di cui andava beneficiando il giudizio sulla religione di Cartagine presso un gran numero di studiosi contemporanei, anche a seguito
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delle crescenti conoscenze derivate proprio dagli scavi in corso. Tuttavia, gran parte della comunità scientifica accettò volentieri il ritrovamento delle stele e delle urne come prova irrecusabile che i Punici bruciassero vivi i bambini, per onorare le loro divinità. Anche il termine biblico «tofet» entrò presto nell’uso per indicare questo tipo di santuari punici. Però, se queste scoperte venivano a provare la continuità dei sacrifici fenici di fanciulli, dall’Oriente biblico a Cartagine e alle colonie d’Occidente, esse proponevano al contempo, per l’idolo Moloch, tutta un’altra storia. Le dediche sulle stele, piú precisamente, proposero presto all’attenzione degli epigrafisti la presenza, seppur non generalizzata, del temine mlk, che in una settantina di casi accompagna o sostituisce l’indicazione della «stele», o del «dono» oggetto della dedica stessa; e apparve chiara la possibilità di collegare questo termine mlk a quello biblico di Molech o Moloch, utilizzato appunto nelle testimonianze sul passaggio per il fuoco di figli e figlie nella valle di BenHinnom. Nelle iscrizioni votive, tuttavia, mlk non indicava il destinatario del rito, bensí il rito stesso, un’offerta caratteristica di questi luoghi consacrati. I devoti del mondo punico, insomma, facevano passare per il fuoco i loro figli non «in (onore di) Moloch», ma in (un cerimoniale detto) mlk; e questo vocabolo è stato inteso come una «promessa», come un termine offertoriale specifico, come un «regalo/regalia» o, secondo l’interpretazione prevalente, «ciò che è mandato, inviato, fatto andare». Tale rito, per di piú, era generalmente precisato da particolari espressioni dedicatorie, per esempio nella forma mlkt, che indica probabilmente un femminile, e in combinazioni come mlk bcl, mlk ‘dm e mlk ‘mr. Queste frasi rituali sono state interpretate in modi diversi e perfino opposti e sono talora associate ad altre formule tecniche; talune sono ripetute in piú siti e in tempi diversi, altre piuttosto rare e rivelatrici, forse, di usi e particolarità locali. (segue a p. 98)
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Sulle due pagine planimetria di Cartagine con la localizzazione dei monumenti piú importanti.
1. Basilica di Bir Ftouha 2. Basilica Maiorum 3. Basilica di S. Cipriano (S. Monica) 4. B asilica di Damous el-Karita 5. R otonda di Damous el-Karita 6. Acquedotto di Zaghouan
7. Cisterne della Malga 8. Monumento circolare 9. Teatro 10. Odeon 11. Ville romane 12. Cisterne di Bord-Djedid 13. Necropoli puniche 14. Terme di Antonino 15. Quartiere di Magone
16. Edificio a colonne 17. Quartiere punico della Byrsa 18. Anfiteatro 19. Circo 20. Basilica di Dermech I 21. Porto militare 22. Isolotto dell’Ammiragliato 23. Porto commerciale 24. «Tofet» di Salammbô
Urne, gioielli e cippi grandi e superbi... François Icard, scopritore e primo scavatore del «tofet» di Cartagine descrisse cosí il contesto che aveva esplorato: nello strato A «si trova costantemente una bella urna in argilla rossa (...) [che] contiene ossa calcinate e, spesso, anche gli elementi di una collana in puro stile egiziano, perle in pasta vitrea (...) un braccialetto d’argento o anche in oro». Nello strato B «le urne (...) rimangono eleganti (...), ma i gioielli sono piú rari». Nello strato C «le urne cinerarie in argilla rossa o giallastra sono meno fini e minori di quelle di B (...) Gli elementi di collana diventano molto rari, ma (...) si vedono spesso piccolissime e sottilissime lamine d’argento, d’oro o d’argento dorato senza incisioni. Ogni urna è accompagnata da un cippo grande e superbo (...) Lo strato superiore (D) (...) non propone piú cippi monumentali e, per segnalare la deposizione delle urne, ha soltanto stele, spesso rozze, iscritte grossolanamente» (sintesi di Samir Aounallah dal resoconto pubblicato, con Eusébe Vassel, sulla Revue Tunisienne del 1923). La sezione stratigrafica qui riprodotta si deve invece a Hélène Benichou-Safar, che l’ha pubblicata in Le tophet de Salammbô à Carthage. Essai de reconstitution (Collection de l’Ecole française de Rome, 342).
Stele
Fase D
Piano di campagna all’epoca degli scavi
300/275-146/125
Fase C
675-505/525
Fase A
505/525-300/275
Fase B
Cippi
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L’ARCHEOLOGIA
Per la terza combinazione, mlk ‘mr, inoltre, si è individuato un parallelo chiaro e pertinente in un gruppo di sei dediche in lingua latina ritrovate a N’Gaous, in Algeria, che ricordano l’offerta a Saturno di un rito notturno detto molchomor o morchomor, al centro del quale v’era l’offerta di un agnello per la salute di un bambino. Cosí, anche la formula punica del mlk ‘mr deve ricordare la dedica a Baal del «molk di un agnello». Il termine mlk, d’altro canto, quando presente, indica comunque l’offerta e non il destinatario. Si è aperta in tal modo la via alla scomparsa del dio Moloch: quel nome, sostenne con successo nel 1935 il biblista tedesco Otto Eissfeldt (1887-1973), non indica una divinità, ma il sacrificio fatto a essa; anche la Bibbia, insomma, parlerebbe di un passaggio per il fuoco di bambini «nel (rito) molk» e non «in onore di Moloch».
Il tramonto del mito Stando dunque alle conclusioni di Eissfeldt, per il dio Moloch non c’era piú posto, tanto nella storia religiosa di Cartagine che nella valle del «tofet» di Gerusalemme. Nonostante le contestazioni sollevate da piú parti, a cominciare da quelle di un altro teologo protestante, l’olandese Karel Dronkert (1907-1977), che nel 1953 ribadí la tesi del culto di questa divinità nell’Antico Testamento, nella stima generale degli studiosi era giunta «la fine del dio Moloch», come titolò lo stesso Eissfeldt: Das Ende des Gottes Moloch. La presenza di ossa di animali nelle urne, d’altra parte, poteva essere bene interpretata come il risultato di un sacrificio di sostituzione: invece del fanciullo, originariamente destinato al sacrificio, si offriva come vittima un agnello, un capretto o altro ancora. Col progredire delle ricerche, oltretutto, anche lo spazio per la statua di bronzo descritta da Clitarco e rievocata da Diodoro e Plutarco s’è dissolto: l’esame del contenuto delle urne, come ha documentato per prima la francese Hélène Benichou Safar, studiando le ceneri dei santuari di Cartagine e Sousse, avvalora la conclusione che i bambini incinerati erano già
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morti nel momento del loro passaggio per il fuoco ed erano stati deposti sdraiati sul dorso, sopra la pira funebre, immobili, senza cadere dalle braccia di alcun simulacro divino. Cosí, dopo secoli di presenza, nei testi e nelle immagini, anche il Moloch di metallo con le mani pronte ad accogliere piccole vittime è svanito dalla storiografia su Cartagine; in quella scientifica ovviamente. Di fronte alle tante urne cinerarie conservate nei depositi o nelle vetrine dei musei, a Cartagine, a Sousse e altrove, le interpretazioni degli studiosi moderni hanno elaborato un’ipotesi dopo l’altra, piú d’una congruente con le testimonianze bibliche, ma quasi tutte confutate con l’avanzare di nuove interpretazioni. «Si tratta del sacrificio sistematico del maggiore d’ogni famiglia, come previsto nella prescrizione di Esodo 22,28 (“Il primogenito dei tuoi figli lo darai a me”)», hanno proposto alcuni; ma poi s’è visto che nulla poteva servire a sostenere questa lettura dei dati archeologici, con urne contenenti anche due o piú individui oppure soltanto ossa di animali. «Rappresenta una liturgia destinata ad assicurare la fecondità femminile e la fertilità dei campi», hanno proposto altri, senza accorgersi che si trattava solo d’una congettura, quanto meno difficile da sostenere, ipotizzando che si potesse migliorare la prolificità d’una donna uccidendo l’esito felice di tale stato fecondo. Anche la proposta d’intendere il molk come un sacrificio con finalità pubbliche, per garantire il benessere della collettività e dei suoi capi, è piú legata alle idee espresse da Frazer nel Ramo d’oro che alla documentazione epigrafica, dove le dediche sono di singoli individui, d’ogni strato sociale e per scopi che li riguardano direttamente e in modo esclusivo. «È piuttosto un rito arcaico, che i Cartaginesi poi abbandonarono sostituendo il bambino con un agnello, come nella storia di Abramo e suo figlio Isacco nel racconto biblico (Genesi 22) e per una sorta di incivilimento progressivo dei Cartaginesi»: ma anche questa ipotesi è stata presto smentita, perché si trovano urne con
soli resti di animali anche negli strati piú antichi dei «tofet», contestualmente ad altre con resti di bambini. Per altri, infine, il molk corrisponderebbe a un sistema di controllo delle nascite, elaborato in Oriente da un’élite culturale che ne avrebbe poi assicurato la diffusione nel Mediterraneo punico. La ritualizzazione dell’infanticidio, secondo
questa ipotesi, avrebbe avuto lo scopo di ridurre l’impatto psicologico della messa a morte di un essere umano appena nato. L’ipotesi però ignora l’assoluta mancanza d’indizi a sostegno: non un solo testo, epigrafico o letterario che sia, favorisce questa interpretazione. In definitiva, pur registrando un generale
Foto satellitare di Cartagine con, in evidenza, l’area del «tofet» di Salammbô.
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L’ARCHEOLOGIA
accordo degli studiosi sulla convergenza dei testi e dei reperti verso un’interpretazione globale del sacrificio punico dei fanciulli – che aveva completamente emarginato la figura di Moloch – è rimasto tra gli studiosi del Novecento un fondamentale disaccordo sui valori sociali e religiosi da riconoscere, sempre e comunque, al rito molk e alle sue variazioni.
Il santuario dei bambini A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, oltretutto, vari studiosi hanno cominciato a proporre un rovesciamento delle prospettive, per ricondurre a proporzioni piú adeguate la questione del «tofet», a rischio di far
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scomparire, con l’idolo Moloch, anche le cerimonie associate all’immolazione dei bambini. Studiosi come Sabatino Moscati, Hélène Benichou Safar, Michel Gras, con Javier Teixidor e Pierre Rouillard, Mohamed Hassine Fantar, Piero Bartoloni e tanti altri, senza negare che Fenici e Cartaginesi abbiano fatto ricorso al sacrificio umano in circostante particolari, hanno rimesso in discussione la presunta concordanza delle informazioni, proponendo di ricomporre in modo differente la storia dei «tofet» e di riconsiderare conseguentemente i significati del rito molk. Il mutamento di prospettiva non è stato determinato dall’acquisizione d’informazioni
Mosaico della sinagoga di Beth Alpha raffigurante il sacrificio di Isacco. VI sec. d.C. Beth Alpha, Kibbutz Hephziba. Da sinistra si riconoscono: due servitori con un asino; un ariete, sopra il quale dal cielo si protende una mano; il patriarca che si accinge a immolare suo figlio.
inedite, come qualcuno tra i piú convinti assertori dell’interpretazione sacrificale ha subito fatto notare, né da motivazioni ideologiche a difesa della civiltà cartaginese, che pure figurano tra i motivi di biasimo dei piú critici. Si è trattato piuttosto, e piú semplicemente, d’una rilettura attenta e d’una valutazione comparativa del dossier ereditato dalla storiografia antica e moderna. È stato anzitutto osservato che gli autori classici parlano del sacrificio punico dei fanciulli come di un rito praticato dalla comunità in circostanze straordinarie, per esempio guerre, assedi, pestilenze o carestie, in un contesto pubblico e solenne. Per contro, i ritrovamenti dei «tofet» documentano una devozione privata, regolare e ininterrotta per secoli; i devoti appartengono a tutti gli strati sociali, schiavi compresi, e compiono i loro voti scrivendo ben poco nella dedica, oltre genealogia, professione e ringraziamenti agli dèi. I dedicanti ci tengono a sottolineare, tutt’al piú, la loro identità etnica e sociale. Gli scrittori greci e latini, in secondo luogo, parlano di sacrifici umani presso i Cartaginesi ricordando vari tipi di vittime: adulti, anziani, bambini, prigionieri di guerra; e quando il rituale concerne i fanciulli, i termini usati corrispondono a «giovane» e «ragazzo», piuttosto che a «poppante» e «neonato». Quest’ultima categoria, per contro, sembra essere quasi l’unico criterio di scelta per la deposizione d’incinerati nelle urne dei «tofet». Le analisi effettuate sulle ossa cremate, fin dall’inizio degli scavi, hanno anzi rivelato che una maggioranza schiacciante di resti umani apparteneva a lattanti, la cui età di morte doveva essere compresa tra il parto e i primi sei mesi di vita. Si è registrata anche la presenza di bambini nati morti e di feti abortiti; rara e pressoché episodica è invece quella di bambini di maggiore età: qualche anno di vita, al massimo. Ciò rende ovviamente improbabile che tutti i bebè siano stati uccisi e suggerisce piuttosto di riflettere sui tassi della mortalità infantile, che dovevano essere elevati tra tutti i popoli dell’antichità.
Le iscrizioni, per vero, sono votive e non funerarie, sicché il «tofet» è sicuramente un santuario, non una necropoli infantile. E però le dediche, con qualche rara eccezione, sono sempre presentate a titolo personale dal dedicante, senza rapporti con celebrazioni fissate dal calendario liturgico, come dovrebbe essere nel caso di un culto che prevedesse una simile offerta periodica di vittime umane. Baal Hammon, il dio titolare del «tofet» e destinatario del rito, d’altra parte, corrisponde senz’altro al Crono/Saturno degli autori classici, ma questi scrittori, parlando dei sacrifici punici, ignorano qualunque corrispondenza per la sua compagna, la dea Tanit, il cui nome compare invece in migliaia di dediche cartaginesi e spesso precede quello di Baal. Questi due Signori del «tofet», inoltre, sembrano aver costituito una coppia di divinità tutelari e clementi, protettrici e garanti della discendenza familiare: il ritratto che deriva dalle fonti dirette per Baal Hammon e per la dea che si presenta come suo «Volto», insomma, è molto lontano dall’immagine di un mostro divoratore, quale emerge invece, in particolare negli scrittori cristiani, per il dio cartaginese destinatario dei sacrifici umani.
Spazi aperti e accessibili I «tofet» in questione, infine, erano spazi sacri all’aperto, sotto gli occhi di stranieri e visitatori delle città puniche. L’archeologia prova che i fedeli potevano circolare nel campo di stele e di urne, lasciare offerte, depositare ex voto e unguentari, bruciare incenso ed erbe aromatiche, organizzare lo spazio e le deposizioni secondo raggruppamenti familiari o sociali, e perfino immolare e consumare animali. Se i «tofet» fossero stati la prova visibile del sacrificio umano aborrito dai «civili» Greci e Romani, difficilmente avrebbero potuto sfuggire a una critica concreta e chiara. Nessun autore classico parla invece di questo tipo di santuario nel quadro delle testimonianze sul sacrificio punico dei fanciulli; nessuno dichiara mai di aver visto il rito o il luogo in cui si svolgeva. Molto probabilmente il «tofet» era
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L’ARCHEOLOGIA
realizzati per dare una soluzione religiosa ai rischi della nascita e della prima infanzia. Doveva trattarsi, insomma, di santuari frequentati per bruciare e seppellire i lattanti morti in età precoce, che probabilmente venivano consacrati agli dèi guardiani di questa prima tappa della vita umana. Erano luoghi frequentati per compiere un voto e invocare l’aiuto divino, per se stessi e per la salute dei bambini; per domandare una nuova progenie in occasione di una morte precoce; oppure per celebrare banchetti sacrificali, offrendo agnelli o altri animali; o ancora per praticare un culto senza effusione di sangue, in ricordo dei riti conclusi con la deposizione di un’urna o l’erezione di una stele. Al centro di questi rituali doveva esserci poi una particolare escatologia, che riguardava i bambini e ruotava intorno alle divinità destinatarie delle cerimonie, cosí come un’ideologia specifica doveva spingere i devoti a conservare nello stesso modo i resti degli animali e i bambini, associati nell’ambito di uno stesso gruppo di consuetudini. Gli «adoratori di Moloch», come titolava nel 1991 un fortunato libro di Sabatino Moscati (1922-1997), si sono ritrovati infine senza il loro idolo, in questo cambiamento di valutazione sulle cerimonie praticate nei «tofet»: «Checché accada, è difficile ormai che la sanguinaria immagine della statua divina, dalle cui braccia scendevano nel fuoco i piccoli corpi innocenti di fanciulli sacrificati, continui a troneggiare indisturbata nelle ricostruzioni dell’antico mondo cartaginese». Stele votiva consacrata a Saturno, dalla regione di Vaga (Tunisia). IV sec. d.C. Cartagine, Museo. Il dio compare nella parte alta del manufatto, seduto in trono, mentre nel registro inferiore è raffigurato il sacrificio di un ariete.
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uno dei tanti santuari realizzati e frequentati dalle genti puniche; per esso, in qualche iscrizione, si usa il termine bt, che è il vocabolo utilizzato normalmente per gli spazi consacrati a tutti gli dèi di Cartagine. Se dunque per convenzione si continua a indicare i santuari di Baal e di Tanit con il termine «tofet», derivato dall’accostamento dei dati di scavo a quelli biblici sul passaggio per il fuoco di figli e figlie a Moloch nel «tofet» di Gerusalemme, l’archeologia suggerisce nondimeno che questi fossero aree polivalenti, destinate a liturgie dedicate ai bambini e
Accordi e disaccordi Il mutamento di prospettiva, tuttavia, non ha convinto tutti. Al contrario, molti hanno parlato di revisionismo storico arbitrario e hanno contrassegnato questa lettura delle fonti come troppo indulgente verso i Cartaginesi, ispirata dal tentativo di liberarli dalla vergogna del sacrificio umano. I promotori dell’interpretazione, per cosí dire, minimalista dei «tofet», dal canto loro, hanno ripetutamente insistito sul condizionamento esercitato dalla lunga storia di Moloch sulla storiografia relativa, non meno che sull’immaginario collettivo, a
partire da Selden fino a Flaubert; nonché sul ruolo da riconoscere alla propaganda nei diversi contesti, classici, cristiani e giudei, cioè nel quadro di testimonianze che derivano tutte da avversari della civiltà di Cartagine o del politeismo in generale. I detrattori di questa interpretazione, invece, hanno sottolineato il condizionamento che la stessa storiografia e le stesse letture avrebbero esercitato sui partigiani della tesi giudicata revisionista, imputando loro il malinteso d’attribuire agli autori antichi quell’atteggiamento negativo che sarebbe proprio della sensibilità moderna. Il compianto Giovanni Garbini (1931-2017), scettico e perfino un po’ sardonico di fronte al progredire degli studi in tal senso, ha giudicato gli argomenti di questo approccio «parzialmente simili» a quelli che avrebbe addotto un docente di storia antica in un racconto di Isaac Asimov, padre della fantascienza; un tale futuro professore, nel 2045 «avrebbe cercato di dimostrare l’inesistenza del sacrificio dei bambini presso i Cartaginesi al solo scopo di liberare sé stesso
dal senso di colpa di avere ucciso involontariamente col fuoco la propria figlia». Tra gli studiosi piú impegnati nel dibattito v’è stato Lawrence E. Stager, docente di archeologia israeliana all’Università di Harvard scomparso qualche anno fa (1943-2017). Stager, tra l’altro, negli anni Settanta del secolo scorso ha potuto scavare in modo adeguato un settore del santuario di Cartagine e ha chiesto e ottenuto dalle autorità tunisine di procedere in laboratorio all’esame del contenuto di oltre 348 urne. Ha affidato il compito a Jeffrey H. Schwartz, antropologo dell’Università di Pittsburgh, il quale, a sua volta, ha creato un team internazionale di specialisti, con Frank Houghton, della stessa Università di Pennsylvania, Roberto Macchiarelli del CNRS francese (Parigi-Poitiers) e Luca Bondioli del Museo Preistorico Etnografico «L. Pigorini» di Roma. Il risultato del loro esame incrociato dei resti deposti nelle urne cartaginesi, edito nel 2010, ha rivelato che dei 540 individui umani depositati nelle urne (con o senza agnelli), 124 erano feti, anche solo di ventotto settimane di
Stele e cippi provenienti dal «tofet» di Sousse (Tunisia). Sousse, Museo Archeologico.
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L’ARCHEOLOGIA
Tokyo. Satuette in pietra per il culto di Jizo, un bodhisattva che il buddhismo associa ai neonati prematuri e al quale si offrono cibi, fiori, bevande e incenso.
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vita intrauterina, 79 erano infanti morti alla nascita, 87 deceduti subito dopo essere venuti al mondo, mentre 60 erano i bimbi da uno a due mesi, 68 tra i tre e i quattro, 42 tra i cinque e sei mesi di vita neonatale e pochi altri bambini avevano superato, al momento della morte, i dodici mesi, registrandosi anche una quindicina di bambini tra i tre e i sei anni. Si tratta insomma, come gli antropologi hanno concluso, d’individui che in larga parte non erano vissuti abbastanza da poter essere sacrificati. La pista della presenza di bambini nati prima del termine della gestazione, in verità, era apparsa chiara fin dalle prime analisi osteologiche e ripetuta piú volte, fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Ma il dato era rimasto trascurato, quasi schiacciato dall’interpretazione sacrificale dei luoghi detti «tofet». Ora sembrava realmente evidente quel che le ceneri dei bambini cartaginesi indicavano: cioè che i «tofet» del mondo punico dovessero raccogliere tutti coloro che morivano prima o poco dopo la nascita, a prescindere dalle cause della morte. Gli animali
pure incinerati, erano stati sacrificati e bruciati nel corso dei riti di sepoltura degli stessi infanti, o in alternativa a tali cerimonie.
Nuove analisi e vecchie polemiche Il risultato delle analisi ha destato ampio scalpore, dal momento che tutto l’impianto interpretativo dei «tofet» favorevole alla tesi dei sacrifici umani sembrava franare, nonostante la ricostruzione globale del rito cruento che si avvaleva della combinazione tra fonti classiche, testi biblici, iscrizioni e dati archeologici. Sicché lo stesso Stager, insoddisfatto del risultato acquisito, decise di far sottoporre i resti osteologici a nuovi esami, affidandoli a una bioarcheologa della Hebrew University di Gerusalemme, Patricia Smith. Affiancata dal collega Gal Avishai, dallo stesso Stager e da un altro semitista del Museo di Harvard, Joseph A. Greene, Smith ha esaminato il contenuto di quelle urne e fornito nuove stime relative all’età di morte, proponendo nel 2013 che si trattasse solo in casi infrequenti di feti, mentre la stragrande maggioranza delle deposizioni
doveva riguardare bambini vissuti da uno a due mesi, con attestazioni anche da tre a trentasei mesi di vita neonatale. Questo ha consentito di riproporre con vigore la teoria dell’infanticidio ritualizzato e perfino di riesumare l’idolo bronzeo sulla piazza di Cartagine, traendolo dai ripostigli dell’immaginario collettivo in cui era stato per cosí dire accantonato. Nei periodici a grande tiratura del 2014, come anche nei blog scientifici, era infatti possibile leggere titoli come: «L’archeologia dimostra che veramente i Cartaginesi sacrificavano i loro figli», o «Cartagine era davvero la patria dei sacrifici dei bambini». Per non parlare della riutilizzazione in chiave teologica e integralista di queste nuove dimostrazioni del cruento rito idolatrico, soprattutto per le battaglie di chi, anche sul web, celebrava la vita «contro i campioni della morte» e usava titoli non meno sensazionali di questi per presentare l’aborto come una «moderna offerta a Moloch». La controversia tra gli esperti ha riguardato principalmente la valutazione biologica della linea neonatale sullo smalto dei denti, le dimensioni della
rocca petrosa, la misurazione delle ossa craniali e ischiatiche e soprattutto la stima dell’azione del fuoco sui resti ossei. Nella polemica sono intervenuti in molti, non solo gli antropologi protagonisti di queste analisi, ma anche semitisti, archeologi ed epigrafisti, che hanno riproposto materiale e argomentazioni a favore dell’una o dell’altra interpretazione. Di fatto, con le tesi che si raffrontano e si contrappongono, l’apporto dell’antropologia fisica per la soluzione del problema sembra disporsi al momento in una situazione di stallo, mentre si annunciano comunque i primi risultati di nuovi scavi archeologici, nello stesso «tofet» di Cartagine e altrove, nonché nuove analisi che, con altri protagonisti, potranno forse offrire elementi dirimenti. Rimane comunque inspiegabile, per un’interpretazione in senso sacrificale di questi resti, la presenza assodata, indubitabile e non irrilevante nelle urne di feti e d’altri individui per i quali era impossibile un rito cruento, perché nati morti o defunti subito dopo il parto; come pure l’assenza di urne con ossa umane sotto stele sulle quali sono iscritte
IL MIZUKO KUYO
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chi visita il Giappone può capitare d’imbattersi, presso cimiteri o nelle vicinanze di un tempio, in spazi consacrati stracolmi di statuine dai lineamenti infantili, abbellite di copricapi, ciucciotti, bavette e poppatoi. È il culto detto Mizuko Kuyo, o «Riti per i bambini d’acqua», nato nella seconda metà del Novecento per confortare i bimbi immaturi, nati morti e i feti abortiti, con sviluppi dovuti al senso di colpa, per interruzioni volontarie della gravidanza, o al timore di ritorsioni, da parte dei piccoli «spiriti» dimenticati dai vivi. Nella credenza diffusa, i bambini d’acqua vivono in una sorta di Limbo che rammenta il liquido amniotico, incapaci di ottenere una rinascita immediata o di raggiungere l’altra sponda di un fiume attraversato dai morti. Lo spazio del Mizuko Kuyo è utilizzato per fare offerte a Jizo, un bodhisattva che da secoli, nel pensiero religioso del buddhismo, è associato ai neonati prematuri, e immaginato
attorniato da bimbi mai nati; a lui si offrono cibi, fiori, bevande e incenso. La consuetudine è sorta probabilmente dal ricorso diffuso a infanticidi e aborti in occasione delle grandi carestie che colpirono il regno nipponico nel periodo Edo (1603-1868). La sua trasformazione in atto rituale deve aver trovato poi motivazioni sociali e religiose quando, nella prima metà del XX secolo, la procreazione veniva esaltata come atto di lealtà verso l’imperatore; mentre negli ultimi decenni dello stesso secolo il culto ha assunto nuovi valori, in forme di mediazione del dolore che non implicano la negazione del diritto della donna all’indipendenza sessuale. Si osservano in tal modo progressivi slittamenti di significato nel Mizuko Kuyo, rispetto alle tradizioni piú antiche, tanto per gli sviluppi, anche locali, delle varie correnti religiose, che per il mutare dei paradigmi etici e della realtà femminile nel Giappone contemporaneo.
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L’ARCHEOLOGIA
UN ATTIMO DI RESPIRO
«S
ostengono i cattolici – scriveva il riformatore Giovanni Calvino nel 1536 – che se un bambino muore senza battesimo sarà privato della grazia della rigenerazione. Ciò è falso. Dio dichiara che adotta i bambini neonati e li tiene per sé prima che essi vedano la luce, dicendoci che Egli sarà il Dio del nostro seme dopo di noi». La discussione sulla sorte oltremondana degl’infanti non battezzati, dei nati morti e dei feti andava avanti almeno dai tempi di sant’Agostino, con posizioni diffuse di assoluto rigorismo sul tema della dannazione eterna di quei bambini. Sul piano della devozione popolare, questo atteggiamento teologico portò all’invenzione di concezioni e prassi tali da ovviare a tale inclemenza, come la sepoltura
formule che tecnicamente dovrebbero indicare l’uccisione di un bambino. E parallelamente, per ogni ipotesi che escluda la messa a morte rituale, è necessario dare piena spiegazione agli elementi offerti dalle iscrizioni, in particolare alla natura votiva e non funeraria delle epigrafi e alla presenza di un formulario tecnico che, secondo autorevoli epigrafisti, sembra richiamare con evidenza la celebrazione di sacrifici. Negli ultimi tempi poi, una rilettura dei passi biblici relativi alla questione da parte di Stefano Franchini, ha proposto una rivisitazione complessiva del «tofet» gerosolimitano e delle citazioni relative a Moloch. Lo studioso italiano ha ipotizzato che l’ebraico tophet, o meglio tapheth come si è visto, derivi da una famiglia lessicale del greco antico a cui appartennero anche termini come taphos, taptô e taphé, distintamente associati a prassi funerarie specifiche. Un esame delle occorrenze greche di questi termini dimostrerebbe, secondo
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Franchini, che tale gruppo semantico era usato per designare sepolture singolari, di corpi imperfetti o deformati: dunque piú precisamente embrioni, esseri malformati, cadaveri non integri e corpi deturpati.
La Bibbia aveva ragione? Se tale interpretazione etimologica è corretta, troverebbe conferma anche tutta la rilettura dei passi biblici relativi, nonché l’ipotesi che alla sepoltura del «tofet» di Gerusalemme fossero destinate salme incomplete, per esempio cadaveri mutilati in battaglia dal ferro delle armi, e, piú in generale, individui deceduti con il corpo imperfetto, deforme, difettoso. Tra questi, Franchini include anche i neonati con qualche malformazione, infermità o invalidità fisica, nonché i feti abortiti anzitempo, i quali, dato l’alto tasso di mortalità prenatale, dovevano certamente rappresentare la sepoltura piú frequente nel «tofet».
Momo (Novara), chiesa della SS. Trinità. Limbo dei bambini, affresco compreso nella biblia pauperum attribuita ai fratelli Sperindio e Francesco Cagnola. 1512.
sotto le grondaie delle chiese o le mura dei cimiteri, e il battesimo del neonato subito dopo il parto. In tempi in cui la mortalità infantile toccava nell’Europa cristiana cifre eccezionali, la preoccupazione per la salvezza dell’anima dei piccini tormentava i genitori non meno dell’inquietudine per la loro sopravvivenza. Tra gli usi che si configurarono quale sede senza dolore per i morti bambini, «affidati alla misericordia divina», vi è l’istituzione dei cosiddetti sanctuaires à répit, i «santuari del respiro», diffusa particolarmente in Europa e poggiata sulla venerazione di alcuni santi distintisi per il miracolo della resurrezione di bimbi nati morti. Le prime testimonianze francesi risalgono al XIV secolo; le ultime, in
Saint-Pantaléon (Francia). Sepolture medievali di adulti e di infanti ai piedi dell’abside della chiesa di S. Pantaleo.
Svizzera, Valle d’Aosta e altre regioni d’Europa, all’Ottocento e agli inizi del Novecento. Il cadaverino era esposto davanti a un’immagine sacra in attesa di un miracoloso e presunto segno vitale: pulsazioni, lacrime, urina,
Il rito qui praticato, a suo avviso, sarebbe stato «tramandato come un efferato e cruento culto sacrificale in onore del dio Moloch per via di un gigantesco equivoco, storicamente databile e poi riprodotto per millenni, a dimostrazione della potenza esercitata dalla cosiddetta «pedagogia nera» sulle nostre rappresentazioni e proiezioni, dall’antichità fino ai nostri giorni». L’ideologia sacrificale associata al Moloch, con la miriade di dettagli raccapriccianti, incarna e riflette a suo avviso il lato oscuro e violento dell’educazione, e piú precisamente uno stile educativo che utilizza castighi e punizioni nella convinzione che si tratti di misure necessarie all’inserimento dei bambini nel mondo degli uomini e riflette, parimenti, i meccanismi rituali per emarginare quanti, deformi, morti precocemente e finanche immaturi, restano al di fuori del mondo degli uomini. In tutto questo, per vero, lo studioso italiano non è solo, giacché il dibattito sui dati biblici,
sangue, il movimento di un arto o l’apertura di un occhio. Allora, in quegli attimi di vita apparente, pur brevi come un respiro, il piccolo era subito battezzato e, prima di morire per sempre, si assicurava la beatitudine del Paradiso.
mai sopitosi, è ripreso presto con nuova lena. Alcuni hanno rievocato e dato nuovo peso alla lontana ipotesi che attribuiva un valore d’iniziazione al rito del «passaggio nel fuoco», o anche di purificazione al processo di «cremazione» della salma, senza riferimento all’uccisione rituale dei fanciulli in oggetto. Altri hanno perseverato nella persuasione che, almeno in taluni passi della Bibbia, la formula lmlk non possa riferirsi a un rituale, ma indichi certamente la dedica a un essere sovrumano, magari legato al culto degli antenati reali e a una sorta di Re divinizzato, benché svincolato dall’involucro bronzeo dell’idolo cartaginese. Altri ancora sono tornati sul valore sacrificale della formula con mlk ritenendola l’unica spiegazione possibile: «Il dio Molek – ha scritto Bennie H. Reynolds nel 2007 – dovrebbe essere messo di nuovo a riposo. Non è mai esistito nelle menti degli Israeliti dell’età del Ferro».
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Un mito perenne COME ABBIAMO FIN QUI VISTO, GLI STUDI PIÚ RECENTI HANNO DRASTICAMENTE RIDIMENSIONATO LA RIDDA DI LEGGENDE E TRADIZIONI LEGATE AL MOLOCH. MA LA TERRIBILE CREATURA SEMBRA DESTINATA A VIVERE PER SEMPRE, ALMENO NEL NOSTRO IMMAGINARIO
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Padova, Cappella degli Scrovegni. Particolare della strage degli innocenti affrescata da Giotto nella parete destra. 1303-1305.
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N
el 1995, la Rivista di Studi Fenici ha proposto all’attenzione di archeologi e antichisti un libro di Martin S. Bergmann (1913-2014), docente di storia della psicanalisi presso la New York University. Il suo lavoro, All’ombra di Moloch. Il sacrificio dei bambini e il suo impatto sulle religioni dell’Occidente, considerava il sacrificio dei fanciulli un capitolo centrale e non ancora chiuso della storia umana, proponendo per esso un’indagine psicanalitica che implica anche il ruolo della religione nella cultura moderna. Secondo la sua
proposta, in tempi antichi gli uomini avrebbero riversato la loro aggressitivà (naturale?) in alcune figure divine, immaginate come divinità sanguinarie che chiedevano il sacrificio di bambini. Moloch era una di queste, e gli sforzi maggiori per superare il rito cruento voluto da simili dèi andavano a suo avviso rintracciati nei racconti biblici del sacrificio di Isacco da parte di Abramo, sospeso per intervento di Yahweh, e quello di Gesú Cristo, voluto da Dio suo Padre in espiazione del peccato originale. Bergmann sosteneva parimenti che lo sviluppo Bambini ebrei nel ghetto di Lodz (Polonia). 1942-1943.
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Una scena dell’Edipo Re (1967) diretto da Pier Paolo Pasolini, con un uomo che trasporta un bambino appeso a un bastone: di lí a poco, lo abbandona e il piccolo viene raccolto da un pastore che lo porta a Polibo, re di Corinto: questi lo adotta e il bimbo diventerà Edipo.
del giudaismo e del cristianesimo andrebbe visto come un tentativo, solo parzialmente riuscito, di superare l’aggressività precedentemente risolta nel sacrificio dei figli primogeniti, mediante la creazione di un dio dell’amore. Sono parimenti da interpretare in senso sacrificale il martirio dei primi cristiani e l’olocausto del popolo ebraico nel corso dell’ultima guerra mondiale. Il conflitto psicologico insito nel contrasto generazionale, secondo Bergmann, ossessionerebbe ancora gli uomini delle moderne società occidentali, sia pure
inconsciamente; ma lo studioso di psicanalisi abbandona il modello freudiano di questo conflitto, cioè quello del «complesso di Edipo» (il figlio che uccide suo padre Laio e sposa la madre Giocasta, secondo i miti greci), enunciando piuttosto l’importanza prioritaria, storicamente e psicologicamente, del «complesso di Laio», cioè l’aperta ostilità del padre nei riguardi del figlio, del quale teme i poteri futuri. Alla questione del «tofet», sia dei testi biblici che dell’archeologia punica, Bergmann non allude minimamente, né sembra informato del dibattito a lui
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contemporaneo sulla realtà dei sacrifici punici dei bambini, nonostante gli studi che a «Molech» e al sacrificio umano avevano dedicato ricercatori americani come George C. Heider e John Day, rispettivamente nel 1985 e nel 1989. Il Moloch di Bergmann è solo quello dei passi del Levitico, Re e Geremia, riletti alla luce degli studi di psicanalisi della religione e di qualche commentario biblico degli anni Cinquanta di cui si è servito; per lo studioso di New York si tratta soltanto del dio degli Ammoniti, che aveva preceduto nel culto Yahweh e si era a lui contrapposto.
Una rassegna delle interpretazioni La segnalazione del libro sul principale periodico dedicato agli studi fenici era però giustificata da un duplice intento. Da un lato si voleva soppesare, sul piano storico, il valore di queste piú recenti interpretazioni psico-sociologiche sul sacrificio umano, che venivano ad aggiungersi a quelle subito proposte per i ritrovamenti archeologici dei «tofet» del mondo punico, e poi anche per quelle attribuite alle presunte motivazioni, piú o meno inconsce, che avrebbero condizionato il ridimensionamento delle tesi sacrificali riguardanti le urne e le stele votive. Dall’altro, si teneva a evidenziare la molteplicità di orientamenti che nel corso dei secoli avevano indagato la figura e i riti di Moloch muovendo su piani paralleli a quello della ricostruzione storica. Tale prospettiva non era inedita, almeno nello sforzo di operare una rassegna delle principali linee interpretative sull’argomento; e non è rimasta neppure isolata. L’ha seguita per esempio qualche anno dopo Cristiano Grottanelli (1946-2010), con un approccio storico alla nozione di sacrificio esaminata comparativamente in diverse e precise valenze e circostanze, dai rituali di caccia primitivi, al consumo della carne animale e l’immolazione rituale di esseri viventi, dalla rinuncia del rito cruento nel sacrificio cristiano ai tentativi di dare un senso al genocidio ebraico.
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Oggi, verosimilmente, Bergmann continuerebbe l’analisi del «complesso di Laio» proiettando l’ombra di Moloch non solo sui temi della «pedagogia nera», evocata da Stefano Franchini, ma anche e soprattutto nel dibattito acceso nelle moderne società dell’Occidente dalla casistica ricorrente di figli uccisi dai genitori. Egli scriverebbe quasi certamente anche sulla ripetuta evocazione dell’idolo dei Cananei da chi si trova a narrare la morte di bambini vittime delle guerre, sotto i bombardamenti, negli scontri e lungo i percorsi delle migrazioni. Avrebbe finanche facile gioco e ricca documentazione nelle grida degli attivisti delle campagne contro la liceità dell’aborto, che invocano su chi lo pratica il destino finale di Cartagine rasa al suolo, o nelle parole inappropriate di chi
La copertina di un numero del settimanale francese L’Oeil de la Police con la notizia dell’uccisione di quattro bambini da parte della propria madre. 1909.
ancora risveglia l’immagine orrorifica dell’idolo divoratore dinnanzi a bambini usati come soldati o scudi umani e condanna l’avversario, accusandolo d’infanticidi intenzionali e calcolati, in nome di una «civiltà» che si confronterebbe con la «barbarie». Per comprendere la vastità di argomenti consimili, basta dare un’occhiata ai motori di ricerca del web, dove centinaia di migliaia di risultati continuano a dare linfa all’insaziabile figura di Moloch, specchio allegorico dei mali che affliggono il mondo contemporaneo, pur nel cambiamento dei costumi sociali e delle ideologie, etiche o religiose che siano. Piú di preciso poi, lo studio del trattamento dei bambini, nel caso fosse condotto utilizzando Moloch come pietra di paragone, troverebbe perfino basi ulteriori, nella letteratura moderna successiva a Flaubert. Due lavori, in particolare, si prestano a valutazioni di questo tipo, benché siano entrambi estranei all’influenza del
dibattito storico coevo sui santuari punici: l’uno, in verità, sembra conoscere i dati archeologici, per via d’un cenno fugace al ritrovamento a Cartagine di «piccoli scheletri, sante reliquie»; l’altro l’ignora del tutto, ma si serve del comune convincimento su Moloch per descrivere l’incubo di una società moderna che divora i suoi figli.
Una civiltà matura e perfetta Risale al 1925, con qualche venatura di faziosità culturale, l’uso di un Moloch cartaginese nell’Uomo eterno di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), che fu polemista arguto e pensatore prolifico, nonché inventore del personaggio di Padre Brown. Ricostruendo una storia dell’uomo da contrapporre al darwinismo dilagante, Chesterton intese Moloch come parte integrante delle credenze della civiltà dei mercanti fenici, che da Tiro e Sidone partirono a colonizzare l’Occidente.
Lo scrittore, giornalista e polemista inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936). Autore fecondissimo, è considerato uno dei maggiori rappresentanti cattolici della letteratura inglese del Novecento. Non mancò di dedicare alcune delle sue pagine al Moloch, che, a suo avviso, era parte integrante delle credenze dei Fenici.
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«Nella Nuova Città, che i Romani chiamavano Cartagine, come nelle piú vecchie città fenicie da cui essa derivava, il dio che agiva per davvero si chiamava Moloch, una divinità quasi identica a un’altra nota sotto il nome di Baal, il Signore. I Romani non seppero da principio come chiamarlo o che cosa farne; essi dovettero ricorrere a uno dei miti piú grossolani delle origini greche e romane, e paragonarlo a Saturno che divorava i suoi figli. Ma gli adoratori di Moloch non erano cosí primitivi e grossolani. Appartenevano a una civiltà matura e perfetta, abbondante di lussi e di raffinatezze: erano probabilmente assai piu civili dei Romani. E Moloch non era un mito; o almeno il suo
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pasto non era un mito. Questo popolo ultracivile si adunava effettivamente insieme per invocare sull’impero la benedizione celeste gettando centinaia di bambini nella bocca d’una fornace. Per avere un’idea approssimativa di questo fatto, si pensi a un gruppo di mercanti di Manchester, in cappello a cilindro e con le fedine a braciuola, che vadano in chiesa ogni domenica alle 11 per veder mettere arrosto un bambino». Nell’esplorazione della storia umana di Chesterton, che assume spesso i tratti di una apologia del cristianesimo, lo «spettro enorme e pauroso» di Moloch s’incarnava pure in Annibale, durante l’avventura in Italia: con lui, «era Moloch che si affacciava dietro i monti
Annibale combatté la sua ultima battaglia e la perse; e la caduta di Cartagine fu totale come quella di Satana. Della Città Nuova non rimase che il nome; non una pietra sulla sabbia. Un’altra guerra scoppiò prima della sua distruzione definitiva; ma la distruzione fu definitiva. Soltanto, a distanza di secoli, scavando tra le sue profonde fondamenta, fu trovato un mucchio di centinaia di piccoli scheletri: le sante reliquie di quella religione. Cartagine cadde perché era rimasta fedele alla sua filosofia, e aveva seguito fino alle sue conseguenze logiche il suo ideale dell’universo. Moloch aveva divorato i suoi figli. Gli dei s’erano risollevati; e i demoni erano vinti».
L’inno della Beat Generation
latini, scrutando la pianura con la sua faccia spaventevole; era Baal, che calpestava i vigneti sotto i suoi piedi di macigno; era la voce di Tanit l’invisibile, sussurrante, dietro i penduli veli, parole d’un amore ch’era piu orrendo dell’odio. (…) La porta delle Alpi era infranta; l’Inferno, non nel senso volgare ma nel senso vero e solenne, si era scatenato. La guerra degli dèi e dei demoni pareva finita; e gli dèi erano morti; le aquile perdute, le legioni spezzate; niente rimaneva a Roma fuorché l’onore e il freddo coraggio della disperazione». Ma infine vennero gli Scipioni, l’Africano che sconfisse Annibale e l’Emiliano che distrusse la sua patria. «Davanti alle porte della città d’oro
Altra veste, per ben altri valori, ebbe l’immagine di Moloch evocata nell’Urlo (Howl) del poeta statunitense Irwin Allen Ginsberg (1926-1997), alla metà del secolo scorso, e ispirata sia all’angelo decaduto della tradizione giudaico-cristiana, sia al film Metropolis e ad altre visioni tenebrose. Concepito come un grido di dolore e di denuncia, l’Urlo è considerato uno dei componimenti maggiori della cosiddetta «Beat Generation», insieme a Sulla strada (1951) di Jack Kerouac, che l’autore conobbe negli anni universitari. Ginsberg, come altri poeti ribelli, si fece interprete della voglia di reazione al conservatorismo della società americana post-bellica, con atteggiamenti di sfida verso ogni profilo di conformismo nell’arte e nella società. Howl fu recitato in una lettura pubblica alla Six Gallery di San Francisco nell’ottobre del 1955 e fu poi pubblicato, dapprima in Inghilterra, tra ostacoli di vario genere. Destò in effetti uno scalpore enorme, per la crudezza del linguaggio, il richiamo all’uso di droghe e i riferimenti espliciti a pratiche sessuali; fu anche messo al bando per oscenità, ma il processo del 1957 ne accrebbe ancor di piú la fama e dette grande popolarità al suo autore. Ginsberg concepí questa sorta di manifesto letterario, come una storia raccontata allo scrittore surrealista Carl Salomon (1928-1993),
L’ultimo giorno di Sagunto, olio su tela di Francisco Domingo Marqués. 1869. Valencia, Diputación. Città spagnola situata a nord-est di Valencia, Sagunto era alleata di Roma e, nel 219 a.C., venne assediata da Annibale, che, dopo otto lunghi mesi, riuscí infine a prenderla. L’episodio è considerato la causa scatenante della seconda guerra punica e viene ricordato, fra gli altri da Silio Italico, nei Punica. In questa descrizione, invero molto fantasiosa, l’autore fantastica su un figlio che sarebbe nato ad Annibale sotto le mura di Sagunto assediata, e che sarebbe stato inviato dal generale a Cartagine, con sua madre, prima della spedizione in Italia. Altrettanto liberamente, Silio favoleggia sul sacrilego generale che rifiuta d’offrire suo figlio per il prescritto sacrificio dei fanciulli, assicurando in cambio altri eccidi nella battaglia imminente.
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al quale presentava i suoi pensieri sulla morte spirituale d’un mondo meccanizzato e la sofferenza di tanti giovani coetanei. «Ho visto le migliori menti della mia generazione – si legge in apertura – distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba, in cerca di una droga rabbiosa». Per questo inno alla rottura dei vincoli sociali, Ginsberg si lasciò influenzare dall’inventore del verso libero, Walt Whitman (1819-1892) e dall’epica degradata della periferia londinese di Thomas Stears Eliot (1888-1965). Ma tra i suoi ispiratori v’era anche, in primo piano, William Blake, il poeta disegnatore del Moloch dei carmi di Milton, del quale il poeta diceva di aver avuto perfino una «allucinazione uditiva», nel 1948, mentre leggeva alcune sue poesie. Moloch occupa la seconda parte dell’Urlo, in forma di mostro somigliante a un grande edificio, che coincide con un celebre Hotel di
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New York, e sintetizza metaforicamente il capitalismo e la società americana che mandava a morire i suoi giovani in conflitti lontani, con speranze ipocrite e vani ideali.
Immagini vivide e infernali Il nome del demone, angelo decaduto, è ripetuto come un mantra piú di 40 volte, in un torrente d’immagini vivide e infernali che richiamano i ritmi del jazz di quegli anni Cinquanta: «Moloch! Solitudine! Sporcizia! Deformità! Pattumiera e dollari irraggiungibili! Bambini urlanti ai piedi delle scale! Ragazzi singhiozzanti negli eserciti! Vecchi che piangono nei parchi! Moloch! Moloch! Incubo di Moloch! Moloch il senza amore! Moloch mentale! Moloch il pesante giudicatore di uomini! Moloch la prigione incomprensibile! Moloch ossa in croce, carcere senz’anima, congresso di dolori! Moloch i cui edifici sono sentenze! Moloch la vasta pietra della guerra! Moloch i governi stupefatti! Moloch la cui mente è puro meccanismo! Moloch il cui sangue è denaro che scorre! Moloch le cui dita sono dieci eserciti! Moloch il cui petto è una dinamo cannibale! Moloch il cui orecchio è una tomba fumante! Moloch i cui occhi sono mille finestre cieche! Moloch i cui grattacieli si ergono lungo le strade come infiniti Geova! Moloch le cui fabbriche sognano e stridono nella nebbia! Moloch i cui comignoli e antenne coronano la città! Moloch il cui amore è infinito petrolio e roccia! Moloch la cui anima è elettricità e banche! Moloch la cui povertà è lo spettro del genio! Moloch il cui destino è una nuvola di idrogeno asessuato! Moloch il cui nome è la Mente! Moloch nel quale siedo solo! Moloch nel quale sogno Angeli!» (dalla traduzione di Margherita Rasulo). Scrivendo il suo Urlo di protesta, Ginsberg sapeva d’irritare l’ideologia dominante tra la classe media americana; e questa appunto reagí,
In basso, a sinistra L’Italia degli italiani, foglio di propaganda fascista dove Stalin, come un orco, rapisce un bambino: l’immagine alimenta la leggenda dei comunisti mangiatori di bambini. 1944.
In basso, sulle due pagine Annibale valica le Alpi, olio su tela di Bénédict Masson. 1886. Chambéry, Musée des beaux-arts.
disdegnando quel testo sovversivo, scritto da chi era considerato un bohémien piuttosto sgradevole. D’altro canto, il poeta registrava uno stato di fatto e in certa misura era anche facile profeta, giacché capitalismo, guerra fredda, politiche contro i piú deboli e mancanza di speranze erano argomenti sui quali non era difficile convogliare il dissenso, tanto delle nuove generazioni quanto del perbenismo allora imperante.
Il profluvio d’immagini fin qui rintracciato, con le tante storie di Moloch ritrovate nei differenti lasciti e nei diversi saperi che caratterizzano la nostra cultura, consente di fissare alcuni elementi acquisiti. L’ombra di Moloch, desunta dalla tradizione storiografica giudaico-cristiana e proiettata sulle realtà del Novecento da poeti, cineasti, romanzieri, intellettuali e disegnatori, si presenta ancora e anzitutto, anche agli occhi dello storico, come lo
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specchio letterario delle disgrazie moderne. C’è da precisare, se mai ve ne fosse bisogno, che gli artisti hanno sempre goduto del pieno diritto d’ispirarsi alla realtà e all’immaginario collettivo, deformando l’una e l’altro a proprio piacere. Nel nostro caso e nel corso di tanti secoli, gli artisti hanno inventato o adattato una realtà, seguendo la propria inventiva e le conoscenze storiche di cui potevano disporre. Il problema è nel «salto di specie», cioè nella considerazione che una data visione di Moloch può aver avuto in ambiti e discipline diverse da quella di partenza. Gustave Flaubert, in particolare, difese strenuamente la sua ricostruzione romanzata dell’idolo e del sacrificio cartaginese, rinviando alle sue autorevoli letture e soprattutto a Diodoro Siculo. Ma in fondo, gli storici antichi che lui aveva utilizzato per Salammbô avevano normalmente fatto tutti ricorso all’elaborazione globalizzante adottata nella produzione di saggi d’impianto storico. E fin troppo a lungo, d’altro canto, lo stesso Flaubert ha rappresentato un testo autorevole nella storiografia del XIX e del XX secolo, non meno di quanto accadde con Clitarco nella Roma di Cicerone, benché per l’uno e l’altro si trattasse piuttosto di storia romanzata. Basta consultare le enciclopedie di storia delle religioni o i dizionari di antichità piú diffusi per verificare il permanere, ancora oggi, di questa tendenza. Il desiderio di una «visione integrale», d’altro canto, persiste negli studi consacrati al mondo antico; resta difficile, sia pure inconsciamente, rinunciare all’evocazione del Moloch del romanzo di Flaubert; o meglio: astenersi dal combinare in modo omogeneo l’insieme dei dati disponibili. «Ci sono cose dei nostri contemporanei che ammettiamo difficilmente – scriveva nel 1994 l’archeologo francese Serge Lancel (19282005) – o che noi condanniamo senza esitare, tanto è l’orrore suscitato da esse che urta fino al piú profondo dei nostri sentimenti. Questo può accadere anche quando si tratta dei nostri antenati, al punto che, senza voler fare del revisionismo storico, quasi disperatamente
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cerchiamo “un’altra spiegazione”. Il «tofet» è uno di questi delicati problemi storici che i ricercatori devono chiarire senza preconcetti, e ciò è tanto piú difficile in quanto la questione comporta la morte di migliaia di bambini».
Una questione intricata La soluzione del problema è tutt’altro che semplice, e non basta raccogliere in uno stesso dossier le diverse fonti documentarie sul «tofet», su Moloch, sul molk e il sacrificio umano, giacché nella contrapposizione delle interpretazioni dell’idolo e del suo culto, gli esperti si servono dello stesso materiale, mentre è il giudizio che cambia. Il contrasto, in fondo, si coglie proprio quando si vuole continuare a porre sullo stesso piano, sulla base di un metodo dichiarato come acquisito e indiscusso, documentazioni diverse. In realtà, come s’è visto, si parla di «tofet» per Cartagine e il mondo punico, ma il termine non è sulle epigrafi di questi santuari ed è perfino discusso nelle poche e ambigue testimonianze bibliche in cui compare. I santuari punici, poi, testimoniano una molteplicità di cerimonie, la cui «pluralità»
Il poeta statunitense Allen Ginsberg (1926-1977), che evocò il Moloch nella piú celebre delle sue composizioni, l’Urlo (Howl). Nella pagina accanto «Madri d’Italia il mostro rosso vuole il vostro sangue: ricordatelo!», manifesto di propaganda anticomunista. Italia, 1948.
IL BAMBOLOTTO DI ZUCCHERO
L’
accusa di cannibalismo, utilizzata per screditare gli avversari, compare spesso in Occidente, negli scontri politici e culturali. Dapprima rivolta dai pagani ai cristiani, nei primi secoli d.C., e poi agli Ebrei, nel Medioevo, è rifiorita nei manifesti della propaganda della Repubblica di Salò ed è stata poi amplificata ai tempi della guerra fredda. L’idea che i comunisti «mangiassero i bambini», in particolare, nacque probabilmente dalle dicerie relative a singoli episodi di cannibalismo, forse davvero accaduti in Ucraina, tra il 1921 e il 1923, a causa della carestia, e in Russia, nel 1941, durante l’assedio di Leningrado. Risale al Natale del 1943 la falsa notizia circolata in Italia della deportazione di centinaia di bambini siciliani in Unione Sovietica, destinati a morte sicura, mentre tanti altri fanciulli erano davvero deportati dai ghetti ebraici verso i campi di sterminio. Nello scontro politico del primo dopoguerra e dei decenni successivi tra la DC e il PCI, la leggenda che i comunisti mangiassero i bambini venne perfino dilatata contro costoro, mentre sul fronte avverso si raccontava, parimenti, di bimbi che rifiutavano il cibo offerto dalle organizzazioni cattoliche convinti che fosse avvelenato, perché, com’era noto, «i preti uccidevano i bambini, per spedirli in paradiso». Tra paradossi, barzellette e presunte verità, la diceria a lungo ha continuato a inquinare lo scontro elettorale. È stato Francesco Cossiga a sdoganare nel 1998 la leggenda, sul filo dell’ironia: quando per la prima volta un ex aderente al PCI arrivò a guidare il Consiglio dei Ministri, il Presidente emerito della Repubblica italiana gli regalò un bambolotto di zucchero: «Cosí – disse a Massimo D’Alema, con un sorrisetto sardonico – non interromperai la tradizione dei comunisti che mangiano i bambini».
però scompare, insieme alla sua varietà qualificante, quando si vuole per forza procedere a un’interpretazione globale di questi luoghi, dèi e rituali. Perfino la frequenza statistica delle deposizioni di urne cinerarie non aiuta a intendere il rito perché dipende da troppi fattori variabili (stato dei ritrovamenti, degrado del sito, estensione dello scavo, ecc.): per Mozia in Sicilia, per esempio, si è parlato soltanto di due incinerazioni umane l’anno, su una media annuale di otto deposizioni perlopiú animali; in Sardegna, per Sulcis, la media arriva a dieci e a Monte Sirai riguarda anche meno di due incinerazioni
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epigrafiche, queste danno conferma ai testi letterari greci e latini, per intendere i quali si citano a riprova i dati archeologici con quelli epigrafici e quindi i passi biblici. Per questo, a buon diritto, l’ultimo libro sulla questione, di Bruno D’Andrea, si limita a registrare l’incertezza nella quale permangono i bambini deposti nei «tofet» della tradizione punica, affidati ancora, come sono, al variegato limbo delle interpretazioni moderne.
L’ultimo nemico
l’anno. Ma a Cartagine si tratterebbe della deposizione di oltre cento urne l’anno, cioè in media un’incinerazione ogni tre giorni. Cosí, per comprendere il santuario detto «tofet» e le divinità titolari del culto, tra archeologia, epigrafia, antropologia, esegesi biblica e storia delle religioni, ci si trova davanti non già un quadro complessivo coerente, bensí una matassa intricata; o piuttosto un «enigma», per risolvere il quale occorre trovare nuovi strumenti ermeneutici, come ha scritto nel 2011 la storica delle religioni Corinne Bonnet. Il primo passo, forse, è quello di riconoscere che il tentativo di procedere con un approccio globalizzante non è il piú conveniente, perché si trasforma facilmente in un circolo vizioso, dove il punto di partenza e quello d’arrivo dipendono dall’ottica dello studioso; è lui che opera una scelta preliminare delle informazioni da utilizzare, attribuendo loro, in modo aprioristico, un valore documentario analogo o comparabile. Lo ha osservato di recente l’ebraista Claudio Balzaretti, proprio per la «selva di problemi» presentata dal «tofet» e dal sacrificio dei bambini negli studi contemporanei: si selezionano le fonti bibliche che confermano quelle archeologiche ed
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È ricco, per concludere, il dossier su Moloch il divoratore di bambini, soprattutto se si osserva la presenza del suo idolo nella storia come nella letteratura e finanche nell’inconscio collettivo, nei manuali come sugli schermi. Ma si tratta, appunto, d’un fascicolo composito, talmente formato da elementi di rilievo ineguale, che un’interpretazione d’insieme, per i valori applicati a questa immagine nel corso dei secoli, non sembra neppure vantaggiosa. Meglio risulta fermarsi a osservare, nelle evidenze della storia, le categorie concettuali con le quali Moloch è stato storicamente pensato, vale a dire mutazioni, alterazioni e metamorfosi del suo dossier, che sono state numerose e spesso ravvivate da qualche eccessivo «salto di specie» tra i diversi comparti della creatività umana. Che poi, mentre ancora si critica e si resuscita l’«orrido Re», l’«obbrobrio» della Geenna filtrato attraverso le scienze umane e sociali, non sembra di poco conto la constatazione che su vari piani e sotto la veste d’una impercettibile piaga coronata si va configurando, ormai, una nuova materializzazione dell’idolo polimorfo le cui storie hanno riempito queste pagine. Sicché il procedimento comparativo potrebbe essere ulteriormente alimentato. Se ci si ragiona un po’ sopra, in effetti, il formulario degli scongiuri fenici contro i demoni «Volanti» e il minaccioso «Distruttore», citati in premessa per spiegare il contesto dei riti e delle immagini costruite attorno a Moloch, sembra quasi rinviare, attraverso i secoli, alla
I «tofet» di Monte Sirai (a sinistra) e Sulcis (in basso, sulle due pagine), in Sardegna.
pestilenza che inesorabile, oltre gli usci e piú in là, ha colpito e ancora ammorba l’aria dall’ultima primavera. Non diversamente, i manuali di epigrafia che ricordano visioni sovrumane e liturgie di guarigione invitano quasi al raffronto con l’affannosa ricerca di cure e rimedi contro il morbo da coronavirus che nel nostro tempo circola silenzioso. Gli schemi sulle tipologie dell’offerta del molk e le cifre sulla frequenza delle deposizioni nei «tofet» punici di cui si discute, parimenti, finiscono quasi per intrecciarsi con i computi dell’infezione, il numero dei pazienti in terapia intensiva, di chi è uscito guarito o deceduto. Non ci allontanano da questo confronto le migliaia di filmati che affollano il web, e con i
quali si potrebbe continuare a scriver di storia e d’inventiva; perché, accanto ai fotogrammi di Cabiria e di Metropolis, in margine agli scenari di Watchmen o d’ulteriori trasposizioni di Moloch e d’altri angeli decaduti, ci sono ora i video e i post di studiosi che rievocano le epidemie nell’Egitto dei faraoni, nell’Atene di Tucidide, nella Roma degli Antonini o nella Firenze di Giovanni Boccaccio. Le mappe di diffusione della pandemia, analogamente, spingono perfino a integrare lo spazio qui dedicato agli dèi degli antichi politeismi con qualche notizia in piú su Mot, personificazione della Morte: il dio che i testi ugaritici consideravano il prediletto tra i figli di El, quello che Filone di Biblo diceva identico al Plutone
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Un esemplare di Moloch horridus, una lucertola, terrestre e diurna, che vive nei deserti dell’Australia e raggiunge una lunghezza massima di 14-18 cm. Detta anche «Diavolo cornuto», si nutre quasi esclusivamente di formiche.
signore dell’oltretomba, che poi i Padri della Chiesa intesero come titolare del «tofet» gerosolimitano e che Ginsberg designava come Moloch, demone «del quale l’orecchio è una tomba fumante». Perché invero, già i miti di Ugarit avevano dato un fondamento sacrale alla dispersione planetaria dei funesti focolai infettivi, collocandola «nel tempo prima del tempo», quando Baal aveva lottato contro Mot ma non era riuscito a sconfiggerlo e anzi era stato ingoiato nelle sue avide fauci. E mentre Baal giaceva sprofondato nell’aldilà, dicevano quei miti, era giunta in soccorso la sorella Anat, che aveva fatto a pezzi Mot sminuzzandolo come si fa con il grano e disperdendolo ovunque nel mondo. «Con il coltello lo tagliò, col ventilabro lo vagliò, col fuoco lo bruciò, con la mola lo triturò, nei campi lo disperse. Gli uccelli mangiarono la sua carne, i volatili divorarono i suoi brandelli». Cosí pensavano a Ugarit; e se Baal redivivo era infine tornato a dominare la terra, la morte non ebbe il suo trionfo. Da quei fatti, piuttosto, derivò la condizione attuale: «da allora» il divino Mot, il Signore delle tombe, continua a uccidere, ma con violenza episodica e circoscritta, colpendo qua e là, senza
distinzione di ceto o di frontiera. «Alzò la sua voce il divino Mot e urlò: “Per causa tua, Baal, (…) ho sofferto la disseminazione nei campi, per causa tua ho patito la dispersione nel mare. (…) Adesso il mio nutrimento sono gli uomini, mio cibo sono le moltitudini della terra”». Anche i poteri di Mot, insomma, sopportano il controllo di Baal, il Guaritore divino che guida la schiera dei Refaim/Guaritori: il gruppo, cioè, dei mlkm, i Re e grandi eroi della tradizione siriana ritenuti capaci di soccorrere gli uomini in circostanze cruciali. Ed è proprio la citazione dei Refaim a chiudere anche questo mito ugaritico, prima della firma di chi lo compilò: «Lo scriba fu Ilumilku, capo dei sacerdoti e sommo pastore», al tempo di «Niqmadu, re di Ugarit, sire straordinario, fornitore del nostro sostentamento» (KTU 1.6).
Un confronto inevitabile Cosí, mentre si potrebbe navigare daccapo sulla rete, alla ricerca d’altre immagini e d’altri prodotti intitolati al «pesante giudicatore di uomini», qual è il Moloch nell’Urlo di Ginsberg, appare altresí praticabile e quasi inevitabile il confronto di queste storie e queste conclusioni con la minaccia della Covid-19,
PICCOLI E INNOCUI
M
entre in Occidente si dibatte sui valori da attribuire ai riti e agli idoli dell’antica Cartagine, in regioni lontane dal teatro mediterraneo piccoli Moloch vivono una vita reale e pacifica. Dall’isola di Giava, anzitutto, è originario l’Hylobates Moloch, detto anche Gibbone cinerino, che è un mammifero alto meno di un metro, vive nelle foreste pluviali dell’Indonesia e si nutre principalmente di semi, frutti e foglie. È stato classificato tra i primati fin dal 1878, ma oggi la specie cui appartiene è a forte rischio di estinzione, per la diminuzione dello spazio vitale
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che ha posto tutti, ma proprio tutti, in quarantena: anziani, adulti, bambini. Già, i bambini. Per ora, sembra che l’ultimo grande Divoratore voglia risparmiarli, fanciulli o lattanti che siano; pare che preferisca piuttosto gli anziani sopra i settant’anni, precisamente come il proverbiale Crono cartaginese di Sardegna, di cui al resoconto dell’ateniese Demone che raccoglieva aforismi. Forse per questo motivo, finora, soltanto qualche isolato opinionista ha fatto cenno al parallelo possibile tra il piccolo virus, che spinge il mondo a rivedere le sue priorità, e la figura possente del mostro millenario, ingordo protagonista d’un immaginario altrettanto universale. Il «salto di specie» sarebbe pur facile, dal contagio che ovunque dilaga all’orrido Baal devastatore che «s’avanza imbrattato dal sangue e dalle lacrime», come fantasticava Milton. Forse davvero non c’è immagine piú appropriata di questo Moloch, con le sue storie, per descrivere la letalità d’un morbo inappagabile, passato dall’animale all’uomo che lo aveva macellato. Forse, per esprimere il timore verso la piú recente e severa mietitrice di vite umane, proprio non ci sono storie piú adatte dei miti e leggende sul vorace dio sorto
causata dagli insediamenti dell’uomo. Moloch horridus, invece, è il nome tecnico utilizzato per designare una specie di lucertola, terrestre e diurna, che vive nei deserti dell’Australia e raggiunge una lunghezza massima di 14-18 cm. Il Moloch horridus è completamente ricoperto di squame spinose, assai pungenti: da qui la scelta del nome, derivato dai versi di Milton e attribuito nel 1841 dal naturalista britannico John Edward Gray (1800-1875) a questa lucertola, che è detta anche il «Diavolo cornuto» (the Thorny Devil). Il rettile è un animaletto
tra le fiamme della Geenna di biblica memoria, cresciuto come automa sardonico nel terrore delle piazze cartaginesi e sfociato come offerta votiva tra ossa incinerate di bimbi e d’ovini macellati. «Storie che non furono mai, ma che sono per sempre», diceva il filosofo Saturnino Salustio alla fine del paganesimo, raccogliendo le idee allora circolanti sugli dèi e sul mondo. Storie che, in questo caso, hanno percorso secoli e continenti, mutando e mutuando effigi e sembianze, per giungere tra le arcate del Colosseo, dove l’idolo in mostra è rimasto infine senza spettatori, in un anfiteatro chiuso per le misure adottate a tutela dall’estremo e immane flagello. «L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la
placido che usa il suo aspetto mostruoso per impressionare i predatori. Questo Moloch abita le zone aride e preferisce i luoghi sabbiosi; si nutre quasi esclusivamente di formiche ed è capace di restare a digiuno per mesi, cosí da resistere alla siccità. Il che, in fondo, è tutto dire sull’uso di un nome derivato da quello di un dio immaginato ardente e vorace, assetato di vittime umane.
Un Hylobates Moloch o gibbone cinerino, un mammifero alto meno di 1 m che vive nelle foreste pluviali dell’Indonesia e si nutre principalmente di semi, frutti e foglie.
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morte», scriveva l’apostolo Paolo ai Corinzi, in un paragrafo dedicato alla resurrezione della carne (1: 15,26): una formulazione non semplice ma di grande successo, tanto negli scritti teologici del cristianesimo antico e moderno, quanto nella storia comparata di quelle civiltà che conoscono un dio salvatore e vincitore sulla morte. La ripete anche Joanne K. Rowling, nell’ultimo libro della saga di Harry Potter, quale metafora d’una figura salvifica di cui si sente sempre il bisogno. Paradossalmente, anche il Moloch del romanzo Salammbô è vagheggiato dal Flaubert con tale funzione salvifica: ultima difesa, cittadina e sovrumana, contro l’ultimo nemico, che preme alle porte della città assediata. «Si consideravano gli Dèi come padroni crudeli – si legge a premessa del grande olocausto – che conveniva placare con suppliche e che
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si lasciavano corrompere a forza di doni. Ma tutti eran deboli al paragone di Moloch divoratore. A questo appartenevano la vita e la carne stessa degli uomini; cosí, per salvarla, i Cartaginesi avevan l’usanza di offrirgliene una porzione, che giovasse a calmarne i furori. Si segnavano a fuoco i bambini sulla fronte oppure sulla nuca con stoppini di lana; e poiché tale maniera di dar soddisfazione al Baal rendeva al tempio molto denaro, i suoi sacerdoti non mancavan mai di raccomandarla, come la piú semplice e la piú innocua». Ma questo, appunto, è Gustave Flaubert: non uno storico positivista né un luminare della scienza con la pretesa di dare responsi realistici, bensí un romanziere geniale, un grande narratore, accurato e valente, capace di cogliere ed esaltare i frammenti dispersi di un mito immortale.
Una scena di Harry Potter e i Doni della Morte-Parte 2, pellicola con la quale, nel 2011, si è conclusa la serie degli adattamenti cinematografici della saga ideata da Joanne K. Rowling.
GLOSSARIO E NOTE DI LETTURA Esegesi l’esposizione dichiarativa di un testo, in cui si compendia e si conclude l’attività critica dell’interprete; il termine è usato soprattutto per l’interpretazione della Bibbia. Tofet definizione, derivata dalla Bibbia, introdotta per indicare – in siti fenici e punici – aree sacre con stele votive e urne cinerarie. Come argomentato a piú riprese in questa Monografia, l’ipotesi secondo la quale i «tofet» sarebbero stati teatro del sacrificio di fanciulli deve considerarsi priva di reali fondamenti. LXX, Settanta o Bibbia dei Settanta prima traduzione greca dell’Antico Testamento. Secondo la tradizione sarebbe stata commissionata dal re Tolomeo Filadelfo a 72 traduttori (6 per ognuna delle 12 tribú d’Israele), che, fatti venire in Egitto, avrebbero tradotto, in 72 giorni, il Pentateuco. Lessicografi compilatori di dizionari o anche studiosi della composizione di dizionari. Scoliasti autore di scolî, cioè di annotazioni ai testi classici.
Massora (o masora) l’insieme dei lavori di carattere filologico che varie scuole di dotti rabbini (denominati masoreti) compirono, dal V al X sec. d. C., sul testo ebraico dell’Antico Testamento, per fissarlo e assicurarne la retta pronuncia nella lettura sinagogale. CIS I Corpus Inscriptionum semiticarum, vol. I: sigla per le iscrizioni fenicie e puniche. KTU Die Keil-alphabetischen Texte aus Ugarit: sigla di riferimento per i testi ugaritici. Nelle trascrizioni dell’ebraico biblico, per semplificare, non si è tenuto conto della lunghezza delle vocali e semivocali, né di altri segni fonetici, salvo quando indispensabile. Anche nelle trascrizioni del fenicio, non è stato possibile rendere tutti i segni diacritici. Non si è tenuto conto neppure della stratificazione del testo ebraico piú antico, nel quale, secondo qualche ipotesi, la parola mlk sarebbe perfino assente, tanto come termine sacrificale che come nome divino.
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BIBLIOGRAFIA
Il senso delle storie Q
uesta Monografia trae spunto dal mio saggio Histoires de Moloch, le roi effroyable, in Agnès A. Nagy e Francesca Prescendi (a cura di), Sacrifices humains. Dossiers, discours, comparaisons, Turnout, Brepols, 2013, 209-30.
Il catalogo della mostra «Carthago, il mito immortale», è pubblicato da Electa (Milano-Roma 2019), a cura di Alfonsina Russo, Francesca Guarneri, Paolo Xella e José Angel Zamora López. Sulla civiltà punica cf. da ultimo Sergio Ribichini (a
cura di), Cartagine, regina del Mediterraneo, Monografie di «Archeo» (34, dicembre 2019). Per i temi del 1° capitolo, cf. Paolo Xella, Religione e religioni in Siria-Palestina. Dall’Antico Bronzo all’epoca romana, Carocci, Roma
2007. Tra le enciclopedie, cf. in particolare Karel van der Toorn, Bob Becking e Pieter W. van der Horst (a cura di), Dictionary of Deities and Demons in the Bible, Brill, Leida-New York-Köln 1999, e Gregorio del Olmo Lete (a cura di), Mythologie et religion des Sémites occidentaux, Peeters, LeuvenParis-Dudley 2008. Traduzioni dei testi semitici: Paolo Xella, I testi rituali di Ugarit, 1-Testi, CNR, Roma 1981; e Studi sulla religione della Siria antica. I. El e il vino, in Studi storicoreligiosi, I/2 (1977), 229-61; Giovanni Garbini, Gli incantesimi
fenici di Arslan Tash, in Oriens Antiquus, 20 (1981), 277-94. Il titolo del 2° capitolo ricalca Cuando los ángeles eran dioses, di Jesus Luis Cunchillos, Universidad Pontificia, Salamanca 1976. Le traduzioni del Paradiso perduto di John Milton si rifanno a quelle di Lazzaro Papi del 1811 e di Andrea Maffei del 1857. Degli argomenti qui trattati ho scritto in I nomi del diavolo, in Abstracta, 46 (1990), 26-31, e Giú dalle mura: da Tiro a Cartagine, visitando altri luoghi, in Rivista di Studi Fenici, 44 (2016), 145-53. Per il 3° capitolo ho attinto a vari Particolare di una tavoletta in lingua ugaritica, scritta in caratteri cuneiformi, con un poema mitologico del ciclo di Baal, da Ugarit. Parigi, Museo del Louvre. Il testo si chiude celebrando la vittoria del dio della tempesta su Mot, personificazione della morte.
miei studi: Su alcuni aspetti del Kronos fenicio, in E. Acquaro (a cura di), Alle soglie della classicità. Il Mediterraneo tra tradizione e innovazione. Studi in onore di Sabatino Moscati, I, Roma-Pisa 1996, 371-81; Il riso sardonico. Storia di un proverbio antico, Carlo Delfino editore, Sassari 2003; Il toro di Falaride, in Ahmed Ferjaoui (a cura di), Carthage et les autochtones de son empire du temps de Zama. Hommage à M’hamed Hassine Fantar, INP, Tunisi 2010, 89-97; (Canto di) Usignolo di Libia, in Ana Margarida Arruda (a cura di), Fenícios e Púnicos, por terra e mar. Actas do VI Congreso Internacional de Estudos Fenícios e Púnicos, I, Universidade de Lisboa, Lisbona 2013, 256-65. I dati sull’elaborazione del personaggio di Moloch nell’esegesi rabbinica sono in Georg Foot Moore, The Image of Moloch, in Journal of Biblical Literature, 16 (1897), 161-65, e Sol Liptzin, The Cult of Moloch, in Dor le Dor, 11/2 (1982), 182-95. Per le accuse d’infanticidio rivolte agli Ebrei, ho fatto riferimento a Marie-France Rouart, Le crime rituel ou le sang de l’autre, Berg International, Parigi 1997; l’argomento è ripreso in un contestato libro del 2007 di Ariel Toaff, Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, edito a Bologna da Il Mulino, poi rivisto, corretto e ampliato in seconda edizione nel 2008. Il carteggio e le recensioni al romanzo di Gustave Flaubert Salammbô sono disponibili on line all’indirizzo https://flaubert.univ-rouen.fr. Sui film e fumetti relativi a Moloch, cf. Claude Aziza, Guide de l’Antiquité. Imaginaire. Roman, Cinéma, Bandes dessinées,
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BIBLIOGRAFIA
Les Belles Lettres, Parigi 2008, e Natacha Aubert, Un cinéma d’après l’antique: du culte de l’Antiquité au nationalisme dans la production muette italienne, L’Harmattan, Parigi 2009. Per i «tofet» del mondo punico, cf. Hélène Bénichou Safar, Le tophet de Salammbô à Carthage. Essai de reconstitution, Ecole Française de Rome, Roma 2004, e Bruno D’Andrea, I tofet del Nord Africa dall’età arcaica all’età romana (VIII secolo a.C.-II secolo d.C.), Fabrizio Serra editore, Pisa-Roma 2014. Per la storia politica riguardante gli scavi, cf. Clémentine Gutron, L’archéologie en Tunisie (XIXe-XXe siècles). Jeux généalogiques sur l’Antiquité, Karthala, Parigi-Tunisi 2010. Carlos González Wagner e Luis Alberto Ruiz Cabrero hanno ripubblicato e tradotto il libro di Otto Eissfeldt, corredandolo con studi di Enrico Acquaro, Maria Giulia Amadasi Guzzo, Antonia Ciasca ed Edward Lipinski, in El Molk como concepto del sacrificio púnico y hebreo y el final del dios Moloch, Max Niemeyer Verlag, Madrid 2002. Tra i molti studi, cf. Sabatino Moscati e Sergio Ribichini, Il sacrificio dei bambini. Un aggiornamento, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1991; Sabatino Moscati, Gli adoratori di Moloch. Indagine su un celebre rito cartaginese, Jaca Book, Milano 1991; Bennie H. Reynolds, Molek: Dead or Alive? The Meaning and Derivation of mlk and מלכ, in Karin Finsterbusch, Armin Lange, Diethard Römheld, Lance Lazar (a cura di), Human Sacrifice in Jewish and Christian Tradition, Brill, Leida 2007, 133-50; Piero Bartoloni, Appunti sul tofet, in Valentino Nizzo, Luigi La Rocca (a cura di), Antropologia e
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archeologia a confronto: rappresentazioni e pratiche del sacro, ESS, Roma 2012, 215-22. I risultati delle analisi antropologiche d’inizio secolo si trovano in Jeffrey H. Schwartz e altri, Skeletal Remains from Punic Carthage do not Support Systematic Sacrifice of Infants, in PlosOne, 5.2 (2010), 1-12. Di questi risultati, «Archeo» ha dato notizia sul n. 306 (agosto 2010), con un saggio di Massimo Vidale e Luca Bondioli, e un contributo sul numero successivo (307) di Maria Giulia Amadasi Guzzo. Altri studi: Ahmed Ferjaoui (a cura di), Le sanctuaire de Henchir el-Hami. De Bacal Hammon au Saturne Africain (I s. av. J.C.-IV s. ap. J.C.), INP, Tunisi 2007; Paolo Xella (a cura di), The Tophet in the Phoenician Mediterranean, Essedue, Verona 2013; Nabil Kallala, Sergio Ribichini, Massimo Botto e Fabio Fabiani, Le tophetsanctuaire de Bacal HammonSaturne d’Althiburos: de la découverte à la fouille. Résultats préliminaires, in François Baratte, Véronique Brouquier-Reddé, Elsa Rocca (a cura di), Du culte aux sanctuaires. L’architecture religieuse dans l’Afrique romaine et byzantine, de Boccard, Parigi 2018, 113-34. Tutta la bibliografia è esaminata in dettaglio da Bruno D’Andrea, Bambini nel «limbo». Dati e proposte interpretative sui tofet fenici e punici, Ecole Française de Rome, Parigi 2018. Per Stefano Franchini, Moloch e i bambini del re. Il sacrificio dei figli nella Bibbia, Editrice Studium, Roma 2016, cf. la recensione di Federico Creatini in Formazione, Lavoro, Persona, 7/21 (2017), 135-37. Sui santuari del respiro, cf. Alfonso M. Di Nola, La nera signora. Antropologia della morte
e del lutto, Newton Compton, Roma 1995 e Ada Campione, Breve come il respiro. Il battesimo tra morte e vita nei santuari à répit, in Henoch, 41/1 (2019), 114-21. Sul Mizuko Kuyo ha attirato la mia attenzione Umberto Pappalardo, che qui ringrazio; cf. Massimo Raveri, Itinerari del sacro. L’esperienza religiosa del Giappone, Libreria editrice Cafoscarina, Venezia 2006; Marianna Zanetta, Bambini d’acqua. I rituali Mizuko Kuyo nel Giappone contemporaneo, Franco Angeli, Milano 2018. Il rinvio a Isaac Asimov è in Giovanni Garbini, I Fenici, Storia e religione, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1980, 67-68. Il libro di Martin S. Bergmann, In the Shadow of Moloch. The Sacrifice of Children and Its Impact on Western Religions, Columbia University Press, New York 1992, è stato da me recensito in Rivista di Studi Fenici, 23 (1995), 120-23. Cf. anche John Day, Molech. A God of Human Sacrifice in the Old Testament, Univesity Press, Cambridge 1989; Cristiano Grottanelli, Il sacrificio, Laterza, Roma-Bari 1999. Le citazioni di Gilbert Keith Chesterton, seguono l’edizione italiana di The Everlasting Man (1925), L’uomo eterno, trad. di Raffaello Ferruzzi, Rubettino Soveria Mannelli 2008. Per il riquadro sugli infanticidi, cf. Stefano Pivato, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Il Mulino, Bologna 2013. La citazione di Serge Lancel è tratta da Questions sur le tophet de Carthage, in Les dossiers d’Archéologie, 200 (janvier-février 1994), 40-47. Le contraddizioni dell’interpretazione sacrificale dei «tofet» sono evidenziate bene da Hélène Benichou Safar, Child
Sacrifice at Carthage?, in Zwinglius Redivivus, 19 marzo 2014 (on line). Tra gli studi piú recenti, cf. Corinne Bonnet, On Gods and Earth. The Tophet and the Construction of a New Identity in Punic Carthage, in Erich S. Gruen (a cura di), Cultural Identity in the Ancient Mediterranean, Getty Research Institute, Santa Monica, CA 2011, 373-87; Robert M. Kerr, In Search of the Historical Moloch, in Robert M. Kerr, Robert Miller II, Philip C. Schmitz (a cura di), «His Word Soars Above Him» Biblical and North-West Semitic Studies Presented to Professor Charles R. Krahmalkov, University Press, Ann Arbor 2018, 59-80; Claudio Balzaretti, Il sacrificio dei bambini: aspetti metodologici. Una selva di problemi, in Rivista Biblica, 66 (2018), 173-204; Sergio Ribichini, Caducità infantile e riti di guarigione in ambito fenicio e punico. A proposito di «molchomor» e «mlk’mr», in C. Moreschini (a cura di), La medicina allo specchio del sacro. Incontri e confronti tra scienza e religione, Morcelliana, Brescia 2020, 27-45. Per il mito della lotta di Baal contro Mot, cf. Paolo Xella (a cura di), Quando un dio muore. Morti e assenze divine nelle antiche religioni mediterranee, Essedue edizioni, Verona 2001.
Placchetta in oro raffigurante una divinità femminile sul dorso di un cavallo al galoppo, da Lachish. XII sec. a.C. È possibile si tratti di una raffigurazione della dea Astarte.
L’autore Sergio Ribichini è collaboratore di «Archeo» e studioso di storia delle religioni e delle civiltà del Mediterraneo antico. È stato dirigente di ricerca del CNR e ha pubblicato vari studi sul sacrificio punico dei fanciulli. Con Nabil Kallala ha diretto dal 2007 al 2015 la missione archeologica italo-tunisina per lo scavo del «tofet» di Althiburos.
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MONOGRAFIE
n. 40 dicembre 2020/gennaio 2021 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Sergio Ribichini è collaboratore di «Archeo» e studioso di storia delle religioni e delle civiltà del Mediterraneo antico. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 6) e pp. 8/9, 14, 19, 22, 32, 44-52, 57, 59, 62/63, 66/67, 68, 70-71, 74, 75-81, 85, 90/91, 93, 94, 106-107, 113, 114/115, 120-121, 126/127 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 11, 12 (e 13), 15, 17, 27, 29, 33 (alto), 38/39, 40/41, 82 (basso), 86/87, 89, 100/101, 110, 129; Erich Lessing/ Album: pp. 18, 26, 33 (basso), 36/37, 42, 54/55, 90, 95, 102; Fine Art Images/Heritage-Images: pp. 20/21, 116/117; Album: pp. 24/25, 30/31, 43; Heritage-Images: pp. 28/29; Album/Oronoz: p. 53; CM Dixon/Heritage-Images: pp. 64-65; cortesia Everett Collection: p. 82 (alto); Fototeca Gilardi: pp. 83, 116, 119; Album/Sfgp: p. 92; Electa/Sergio Anelli: pp. 108/109; ARCO Films/Somafis/Album: p. 111: Album/Collection Dixmier/Kharbine-Tapabor: p. 112; CSU Archives/Everett Collection: p. 118; Ronald Grant/Mary Evans/WARN: 124/125 – Bridgeman Images: p. 23 – Shutterstock: pp. 34/35, 56/57, 60/61, 88/89, 104, 122-123 – Alamy Stock Photo: pp. 68/69, 72/73, 98/99, 103 – da: Hélène Benichou-Safar, Le tophet de Salammbô à Carthage. Essai de reconstitution, Collection de l’Ecole française de Rome, 342: cartina a p. 97 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 12/13, 16, 96/97. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: copia del Moloch del film Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone realizzata dalla Tecnoscena di Tivoli per la mostra «Carthago».
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