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Stranieri nel cuore dell’impero di Umberto Roberto
N°46 Dicembre 2021/Gennaio 2022 Rivista Bimestrale
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ROMA BARBARICA
Stranieri nel cuore dell’impero di Umberto Roberto
6.
introduzione
Storie di gentes externae 18.
stranieri e barbari in età imperiale
Una capitale al centro del mondo 52.
la guardia imperiale
I Germani, custodes del principe 62.
alarico a roma
Il grande oltraggio 74.
valentiniano e i vandali
Il trionfo di Genserico 86.
la roma di ricimero
L’uomo della provvidenza 100.
il terzo sacco di roma
Una guerra civile
106.
la roma di flavio valila
Un benefattore alla fine dell’impero d’Occidente 118.
il regno ostrogoto
Quei barbari che ammiravano Roma
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INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
STORIE DI GENTES EXTERNAE LA DISPONIBILITÀ DI ROMA AD ACCOGLIERE GLI STRANIERI RAPPRESENTA UN SUO CARATTERE IDENTITARIO SIN DALLE ORIGINI. LA CITTÀ SI ERA SEMPRE AVVALSA DEL COINVOLGIMENTO DEGLI STRANIERI PIÚ CAPACI, INTELLIGENTI E AMBIZIOSI. A UNA CONDIZIONE PERÒ: QUELLA DI AMMETTERE LA SUPREMAZIA DEL POPOLO ROMANO E DI ESSERGLI DEVOTI E FEDELI | BARBARI A ROMA | 6 |
Ravenna. Giustiniano e il suo seguito. Particolare di uno dei mosaici della basilica di S. Vitale. 540-547. L’imperatore bizantino, raffigurato al centro, con il capo nimbato e una grande patena in mano, si adoperò con grande energia per ristabilire la supremazia dei Romani sui barbari.
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INTRODUZIONE
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el descrivere la presenza di stranieri e barbari a Roma in età imperiale, ci occuperemo in particolare di personaggi di condizione libera, provenienti da territori che non facevano parte in maniera diretta dell’impero; oppure di quanti abitavano nelle aree di frontiera tra lo spazio dominato dal popolo romano e quello delle popolazioni esterne all’impero (gentes externae). Dunque, non faremo riferimento alla presenza di tante comunità di «stranieri»/peregrini che abitavano le province dell’impero e vivevano in gran numero a Roma, in alcuni casi da secoli.
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Piuttosto, la nostra attenzione sarà concentrata su individui e gruppi che arrivavano da territori non direttamente amministrati dal governo imperiale, percepiti come esterni e lontani dagli stessi Romani. Occorre specificare che il concetto di barbaro non implica necessariamente un valore peggiorativo o dispregiativo nella visione dei Romani. I barbari appartengono piuttosto alle gentes externae, agli «stranieri» che vivevano fuori dall’impero e che venivano a Roma per diverse ragioni, soggiornandovi piú o meno a lungo. Per quanto riguarda la tarda antichità (IV-VI secolo), ci occuperemo, d’altra parte,
Sulle due pagine particolare delle pitture murali con imprese degli eroi vulcenti, dalla Tomba François di Vulci. 350-325 a.C. Roma, Villa Albani. L’apporto degli «stranieri» etruschi fu essenziale nel favorire la trasformazione di Roma in una città ricca e fiorente.
anche di barbari e stranieri che raggiungono Roma con intenzioni ostili. In particolare, analizzeremo gli eventi traumatici che, durante il V secolo, videro a piú riprese popolazioni barbariche aggredire Roma, dando luogo ad almeno tre «sacchi» della città.
Una comunità aperta E tuttavia, oltre alle situazioni di emergenza e ai conflitti, anche nei secoli turbolenti della tarda antichità è possibile descrivere la presenza a Roma di comunità di barbari che abitano in città per lungo tempo e, in alcuni casi, tendono a integrarsi sotto molteplici punti di vista.
La disponibilità di Roma ad accogliere gli stranieri rappresenta un carattere identitario della città fin dalle sue lontane origini: quando la città iniziò a espandersi, divenne in talune circostanze una prassi di governo nelle relazioni con le altre genti. Anche quando raggiunse le dimensioni di un grande impero, Roma continuò ad attrarre e includere individui e popolazioni che fossero intenzionati a vivere nello spazio romano, ponendo come condizione quella di ammettere la supremazia del popolo romano. A questi gruppi o individui veniva del resto richiesto un atto di sottomissione (deditio) o veniva attribuito un particolare rapporto di
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INTRODUZIONE
amicizia o alleanza con il popolo romano. Diversi documenti, nella millenaria storia di Roma e del suo impero, confermano questa attitudine nel rapporto tra i Romani e gli «altri». Tra i testi piú celebri e suggestivi vi sono alcuni brani del discorso tenuto al cospetto dei senatori dall’imperatore Claudio nel 48 d.C. Il documento ci è pervenuto in forma diretta attraverso la fortunata scoperta archeologica di una tavola bronzea a Lione nel 1528 che riporta gran parte del discorso. D’altra parte, siamo informati del contesto e dell’esito della vicenda dal resoconto che diversi decenni piú tardi offre della vicenda Tacito nei suoi Annali (11, 23-25). In breve: l’imperatore Claudio accettò di sostenere la richiesta di alcuni provinciali della Gallia che volevano diventare membri dell’assemblea senatoria godendo, ormai da tempo, del pieno diritto di cittadinanza romana e del censo necessario. Nella sua descrizione dell’evento, Tacito ricorda la violenta opposizione di un gruppo di senatori a questa legittima aspirazione dei provinciali cittadini.
A sinistra cammeo in calcedonio con il ritratto dell’imperatore Claudio. I sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Quanti si ergevano a difesa della tradizione lamentavano che questi provinciali erano Galli, discendenti di guerrieri che alcuni secoli prima (nel 386 a.C.) avevano preso Roma, saccheggiandola per mesi; e appena tre generazioni prima dei fatti, schiere di legionari romani erano state fatte a pezzi dai Galli che combattevano contro Giulio Cesare.
La lezione dell’imperatore L’opposizione dei senatori tradizionalisti rischiò di far naufragare le speranze dei Galli; ma la loro scelta di puntare sul peso della storia antica per respingere la richiesta stimolò in maniera ancora piú vigorosa l’interesse del principe alla questione. Claudio, infatti, era un
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privi di cittadinanza romana – quanto delle gentes externae, ovvero i popoli stanziati fuori dalle frontiere dello spazio romano. La questione è semplice: proprio la storia invocata dai senatori piú tradizionalisti dimostrava che Roma aveva sempre tratto giovamento dal coinvolgimento degli stranieri piú capaci, intelligenti, ambiziosi che avessero dimostrato devozione e fedeltà. Secondo il principe, è una ricchezza dell’impero di Roma l’attitudine a includere i migliori tra gli stranieri nelle diverse possibilità del servizio all’Urbe; fino al livello piú alto, il senato appunto.
Una tradizione consolidata
appassionato studioso di storia e aveva in passato dedicato importanti opere ai rapporti tra Roma e alcuni dei popoli piú duramente sottomessi, gli Etruschi e i Cartaginesi. Presentandosi al cospetto del senato, pur mantenendo ogni riguardo verso l’assemblea, il principe colse l’occasione per fare una lezione di storia, contrapponendo ai «campioni» della tradizione la sua visione della storia di Roma. Per appoggiare la richiesta dei cittadini romani provenienti dalla Gallia, Claudio allarga la prospettiva del suo pensiero e utilizza alcuni argomenti che rispecchiano in maniera chiara e suggestiva la mentalità aperta e pragmatica dei Romani nei confronti degli «stranieri», tanto dei peregrini – i provinciali interni all’impero, ma
La Tavola Claudiana, scoperta nel 1528 sulla collina della Croix-Rousse a Lione (l’antica Lugdunum). 48 d.C. Lione, Lugdunum-Musée et théâtres romains. Sulla lastra in bronzo è riportato il discorso pronunciato in senato da Claudio in favore dei notabili di origine gallica.
E non si tratta solo di una questione di calcolo utilitaristico. Attingendo alle sue profonde conoscenze di storia romana, Claudio spiega ai senatori che l’ingresso di provinciali della Gallia nell’assemblea non deve essere considerato un gesto «rivoluzionario», in contrasto con le piú antiche tradizioni, con il mos degli antenati. Al contrario: fin dalle piú remote origini, il principe considera Roma una città aperta agli stranieri, capace di includerli e di garantire loro possibilità di ascesa sociale in modo congeniale alle loro qualità. Perfino la vicenda personale dei piú antichi re di Roma conferma questo carattere della storia di Roma. Lasciamo di nuovo la parola all’imperatore: «Un tempo i re tennero quest’Urbe, ma non accadde mai che fosse trasmessa a un legittimo erede di sangue: sopraggiunsero estranei, alcuni persino forestieri. Cosí, venendo dalla Sabina, a Romolo successe Numa, un vicino, certo, ma per quei tempi uno straniero. Ad Anco Marcio successe Prisco Tarquinio. Costui per il suo sangue impuro (era figlio di un corinzio, Demarato, e di una tarquiniese, donna nobile, ma cosí povera da dover sottostare a un tale marito), poiché in patria gli era preclusa ogni carica pubblica, migrato a Roma, ottenne il regno» (traduzione di Francesco Buranelli). Claudio, che parla da storico, ha ragione. Secondo la rigorosa applicazione del diritto di cittadinanza di Tarquinia, sua città d’origine, (segue a p. 14)
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INTRODUZIONE
La fronte del sarcofago romano detto «Grande Ludovisi», con scena di battaglia tra Romani e barbari. III sec. d.C., Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. Disposti su tre registri, i rilievi raffigurano nella parte alta i
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vincitori, al centro i combattenti, in basso i barbari vinti. La monumentale arca (155 x 273 x 137 cm) venne rinvenuta a Roma, nel 1621, nella Vigna Bernasconi, presso Porta Tiburtina.
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INTRODUZIONE
Tarquinio, figlio del mercante corinzio Demarato e di una nobildonna etrusca, era escluso dalle cariche pubbliche piú ambite ed elevate della polis. Era la regola condivisa dalla maggioranza delle città antiche nella visione dei Greci e degli Etruschi. Fin dalla fondazione, Roma rappresentò una straordinaria eccezione a questo atteggiamento di chiusura verso l’assimilazione degli stranieri. E non si trattava solo della possibilità per chiunque di arrivare in città e stanziarsi, senza che troppe domande venissero fatte sulla sua origine. Era anche possibile far valere le proprie qualità per realizzare una brillante ascesa nella società della città. Cosí il mezzosangue Tarquinio, condannato a una penosa marginalità nella sua patria, emigrò a Roma ed ebbe la possibilità di mostrare le sue qualità, ottenere il favore di Anco Marcio e diventare suo successore sul trono della città. Con una suggestiva immagine lo ricorda Dionigi di Alicarnasso (Le antichità romane 3, 47, 3) «nei pressi del Gianicolo, da cui per chi viene dalla regione dei Tirreni comincia a vedersi Roma», allorché ricevette perfino il segno divino di un’aquila che gli portò via il copricapo e poi lo restituí riponendolo sulla sua testa. La moglie Tanaquilla «che aveva una discreta conoscenza dell’arte della divinazione degli Etruschi, ereditata dai padri» gli predisse la dignità regale. Da lui venne una discendenza di re etruschi che resero potente la città. La «grande Roma dei Tarquini» è già una città che si arricchisce per la presenza di diverse comunità etniche capaci di vivere insieme, trasformando una comunità rude e arretrata in una polis ricca e fiorente, che impose il suo controllo su una vasta regione dell’antico Lazio. Claudio considera l’apertura alle genti straniere un segno di forza della città e pienamente congeniale alla sua storia piú antica. Nel caso specifico dell’accoglienza di cittadini di stirpe
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In alto Tarquinio Prisco, quinto re di Roma, in una incisione del XVI sec. Nella pagina accanto valva di dittico in avorio nota come Avorio (o Dittico) Barberini e raffigurante un imperatore trionfante (tradizionalmente identificato con Giustiniano), produzione costantinopolitana. 525-550. Parigi, Museo del Louvre.
gallica nell’assemblea, non si doveva considerare questa scelta come un oltraggio alla tradizione o una pericolosa concessione alle innovazioni, alle res novae che tanto preoccupavano i senatori tradizionalisti. Claudio afferma la sua convinzione senza ambiguità: «A ogni modo non ritengo siano da respingere quei rappresentanti delle province che potrebbero ornare la Curia del Senato» («Sed ne provinciales quidem, si modo ornare curiam poterint, reiciendos puto»). E del resto, anche sulla pericolosità delle innovazioni, Tacito (Annali 11, 24, 7) fa affermare a Claudio: «Tutto quello che oggi crediamo antichissimo, o Senatori, un tempo fu nuovo (…). Anche questo provvedimento diverrà un giorno antico e quanto noi oggi sosteniamo con gli esempi antichi, sarà posto anch’esso tra gli esempi».
Una visione in continuità Claudio conosceva bene la storia di Roma e ne interpretava le linee tradizionali a livello culturale e politico superando l’ottusità dei senatori. Nella considerazione del rapporto tra Roma e gli «stranieri» il principe era del resto allineato con l’esperienza di altri, prima e dopo di lui. Cosí, per esempio, il tema ritorna, a distanza di circa cento anni da Claudio, nel Discorso a Roma di Elio Aristide (retore greco attivo nel II secolo d.C., n.d.r.). Si tratta di un elogio a Roma databile intorno al 144 e pronunciato probabilmente nella stessa Roma, nel clima di pace del regno di Antonino Pio (138-161). Tra gli argomenti che piú concorrono alla celebrazione dell’impero, c’è appunto la disponibilità dei Romani ad accogliere e integrare perfino nel funzionamento e nella difesa del loro impero gli uomini migliori, anche se stranieri. Ancor piú significativa ci sembra la persistenza di questa visione nella tarda antichità, che, tra il IV e VI secolo, vide l’impero romano impegnato in continue guerre contro le
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INTRODUZIONE
popolazioni barbariche. Nonostante il destino della parte occidentale dell’impero, che venne annientato e sostituito da un panorama complesso e frammentato di regni romanobarbarici, la considerazione delle gentes externae e dei barbari nella parte orientale non fu esclusivamente negativa. Senza dubbio, soprattutto dopo eventi funesti come il disastro di Adrianopoli (9 agosto 378) – sconfitta seconda solo a Canne secondo lo storico Ammiano Marcellino (nello scontro i Romani furono battuti dai Visigoti e l’imperatore Valente trovò la morte, n.d.r.) – all’imperatore, all’esercito e al governo imperiale si richiedeva di contenere e reprimere la minaccia dei popoli stranieri e dei barbari piú feroci. Anche l’iconografia dell’epoca insiste
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sull’immagine dell’imperatore che trionfa grazie al sostegno divino sui nemici e domina le popolazioni straniere. E tuttavia, sono diverse le voci che esprimono, con suggestiva limpidità, un giudizio positivo e quasi di ammirazione verso i barbari. Cosí, solo per fare un esempio tra molti, san Gregorio di Nazianzo, vescovo di Costantinopoli, elogia in questo modo il goto Modares, guerriero entrato nei ranghi dell’esercito imperiale come ufficiale superiore (epistola 136): «Per noi tu sei un parente, un confidente e tutto quello che di tale natura si potrebbe aggiungere. Ci ha unito la pietà, e ci ha unito il valore della virtú che abbiamo visto in te; in te che mostri con sapienza come la diversità tra Greci e barbari sia nel corpo, non nell’anima; come sia nella
In basso Istanbul. Uno dei lati del basamento dell’obelisco di Teodosio, decorato da rilievi che mostrano l’imperatore e la corte mentre assistono alle corse che si disputano nell’ippodromo. 390 d.C.
distanza dello spazio, non nei costumi o nelle scelte. Potesse avvenire che molti della nostra stirpe imitino la tua onestà: so che allora tutte le cose andrebbero bene per noi, nel pubblico come nella vita privata». La lettera fu scritta a Costantinopoli nel 381, negli anni di svolta dei rapporti tra impero romano e Goti secondo le linee di apertura filobarbarica di Teodosio.
Riconquista o integrazione? E tuttavia, al di là del contesto cronologico, è l’idea di apertura al mondo barbarico che molto può insegnare ai Romani e che continua a essere trasmessa attraverso i secoli. E infatti, la ritroviamo suggestivamente alla corte di Giustiniano, imperatore che impegnerà le risorse economiche e militari dell’impero d’Oriente per ristabilire la supremazia dei Romani sui barbari. Il Dialogo sulla Scienza politica (Peri politikes epistemes) è un trattato politico scritto probabilmente nei primi anni di governo di Giustiniano (527-565) negli ambienti della burocrazia imperiale, dunque tra i collaboratori piú vicini al principe nel palazzo di Costantinopoli. Vi si rappresenta un immaginario dialogo tra il prefetto al pretorio Menas/Menodoro e un altro funzionario, Tomaso. Pervenuta fino a noi in forma frammentaria, l’opera discute sul potere imperiale e, in modo particolare, sulla necessità che il principe realizzi le condizioni piú favorevoli a un governo misto, ascoltando i suoi piú validi consiglieri e valutando insieme a loro le decisioni piú utili alla conservazione dell’impero e alla salvaguardia di un regime giusto. Il discorso affronta anche il tema della composizione del senato, dunque dell’assemblea che deve interagire con il principe. Nel trattato confluiscono stimoli e suggestioni provenienti tanto dal pensiero greco quanto da quello romano. Evidente è il debito dell’autore verso il De re publica di Cicerone; e tuttavia, ancor piú evidente è il flusso di idee e questioni che dagli ambienti dell’aristocrazia senatoria romana passano all’aristocrazia senatoria e burocratica di Costantinopoli. Del resto, il senato di
Costantinopoli, formato anche da colti burocrati, si considerava erede diretto del senato di Roma, ancora attivo ma ripiegato, ormai, su una politica regionale d’intesa con il regno degli Ostrogoti. Appare allora molto suggestivo ritrovare l’idea di apertura al mondo dei barbari che caratterizza il pensiero dei Romani fin dalle lontane origini ancora negli scritti di un pensatore attivo alla corte della seconda Roma, Costantinopoli. Dopo aver auspicato non solo la collaborazione tra i senatori e il principe, l’anonimo autore arriva perfino a proporre che l’imperatore sia scelto tra gli uomini piú ragguardevoli del senato, gli aristoi. Seguendo il pensiero di Cicerone, si afferma la necessità di creare un collegio di dieci ottimati/senatori che devono avere il controllo di ogni aspetto del governo dello Stato. In questo modo si potrà realizzare la forma di governo misto capace di temperare il potere monarchico e far funzionare con giustizia l’impero. È evidente che ogni cura deve essere posta nella selezione dei membri di questo collegio. L’anonimo (5, 31) afferma la necessità di «ricercare costantemente se si trovi negli altri ordini dello Stato un uomo fornito di naturale magnanimità e di ogni altra virtú politica, e di iscriverlo tra gli ottimati. E a questo fine sarà stabilita un’altra magistratura col compito di discernere e ricercare tali uomini, i quali con ogni sforzo bisognerà importare da ogni regione, cioè non solo da quelle soggette allo Stato, ma anche da quelle abitate dai barbari, se cosí fosse, e da qualunque altra. Se, infatti, per una proprietà si dice che bisogna, lasciando perdere tutto il resto, assicurarsi un buon amministratore, quanto piú necessario ciò sarà per lo Stato?». In perfetta sintonia con le affermazioni di Claudio nel 48 nel senato di Roma, quasi cinquecento anni piú tardi, a Costantinopoli, il pensiero politico romano riemerge con la sua forza luminosa: occorre includere nella società, ai piú alti livelli, tutti coloro che, per le loro qualità di saggezza e moderazione, possano portare un utile contributo al funzionamento e al benessere dell’impero.
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STRANIERI E BARBARI IN ETÀ IMPERIALE
STRANIERI E BARBARI IN ETÀ IMPERIALE
UNA CAPITALE AL CENTRO DEL MONDO SIN DALL’ETÀ DI AUGUSTO, A ROMA SOGGIORNAVANO AMBASCIATORI, DELEGATI E PERSONAGGI «DI RIGUARDO» PROVENIENTI DALLE PROVINCE MA ANCHE DALLE REGIONI ESTERNE DELL’IMPERO: UNA CONSUETUDINE DI OSPITALITÀ, PARTE DI UNA VISIONE STRATEGICA LUNGIMIRANTE E FUNZIONALE AL CONSOLIDAMENTO DEGLI INTERESSI DELL’IMPERO | BARBARI A ROMA | 18 |
Disegno ricostruttivo dell’area centrale del Foro Romano, attraversata dalla via Sacra. Vi si possono riconoscere, fra gli altri: la sommità dell’arco di Settimio Severo, sormontato da una quadriga in bronzo; i Rostri; le colonne onorarie, alle cui spalle è la facciata della Basilica Giulia; i Rostri del Divo Giulio, dietro i quali è l’omonimo tempio; alla sinistra di quest’ultimo, si succedono il portico di Gaio e Lucio Cesari e la Basilica Emilia (ricostruzione virtuale: Altair4 Multimedia).
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STRANIERI E BARBARI IN ETÀ IMPERIALE
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entro di un impero potente ed esteso dall’Oceano Atlantico all’Eufrate, Roma attira molti stranieri per diverse ragioni. Le testimonianze letterarie ed epigrafiche indicano il soggiorno in città di principi e aristocratici provenienti, insieme al loro seguito di collaboratori e servitori, dalle regioni esterne alla frontiera romana. I motivi del soggiorno sono molteplici: vi sono ambasciatori che vengono per incontrare il principe e il senato; vi sono personaggi che
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vivono a Roma in osservanza di trattati o accordi, sovente in condizione di ostaggi; vi sono altri che giungono per ottenere dall’imperatore protezione, ascolto per rivendicazioni, promesse per recuperare una posizione usurpata; infine, vi sono alcuni giovani che, partendo dalle loro remote regioni, si trasferiscono nell’Urbe per essere educati, per imparare gli usi, i costumi, la lingua e il modo di pensare dei Romani. In alcuni emblematici passi delle Res gestae
Sulle due pagine il testo delle Res gestae Divi Augusti trascritto sul basamento (moderno) dell’Ara Pacis, a Roma. Si tratta dell’elenco delle imprese e opere di Augusto, da lui stesso redatto,
il cui originale, completo, è contenuto nella grande iscrizione di Ancira (l’odierna Ankara, in Turchia), detta Monumentum Ancyranum, incisa su una parete del pronao del tempio di Augusto e Roma.
Augusto rievoca con orgoglio le ambascerie di popoli lontani venute a rendergli omaggio (RG 31): «Mi furono inviate ambascerie di re dall’India, mai viste prima di questo tempo al cospetto di alcun comandante romano. Attraverso gli ambasciatori chiesero la nostra amicizia i Bastarni, gli Sciti e i re dei Sarmati, che abitano al di qua e al di là del Tanais (il Don), e i re degli Albani, degli Iberi, dei Medi». Augusto fa poi riferimento ad altri principi e re che da Oriente e Occidente vennero a Roma
per chiedere pace o protezione, oppure come ostaggi (RG 32): «Sono venuti supplici al mio cospetto i re dei Parti Tiridate e poi Fraate, il re dei Medi Artavasde, il re degli Adiabeni Artassare, i re dei Britanni Dumnobellauno e Tincomaro, il re dei Sugambri Melone, il re dei Marcomanni Svevi […rus]. Il re dei Parti Fraate, figlio di Orode, mi ha inviato tutti i suoi figli e i suoi nipoti in Italia, pur non essendo stato vinto in guerra, ma chiedendo invece la nostra amicizia, offrendo in pegno i suoi figli. Moltissime altre genti hanno sperimentato durante il mio principato la lealtà del popolo romano, popoli rispetto ai quali non c’era stato in precedenza nessun rapporto diplomatico o di amicizia con il popolo romano».
Ambasciatori a Roma La necessità di trattare con l’impero indusse molti ambasciatori stranieri a raggiungere l’Urbe, viaggiando anche per lunghi tratti dalle regioni oltre lo spazio mediterraneo. Se gli ambasciatori provenivano da popoli ostili o sconosciuti a Roma, non era permesso loro di entrare nel pomerio, nel sacro spazio della città. Viceversa, gli ambasciatori di genti amiche del popolo romano ricevevano un trattamento privilegiato, garantito dal senato. Veniva loro assegnato un alloggio; erano invitati ai sacrifici in Campidoglio; assistevano a spettacoli e giochi in posti di onore. Qualora fossero morti nell’Urbe durante il loro soggiorno, il funerale era a spese di Roma. Generoso e commisurato all’importanza dei popoli e delle questioni da trattare era lo scambio di doni tra gli ambasciatori e i rappresentanti del popolo romano. Dopo un breve intervallo, gli ambasciatori erano accolti in udienza al cospetto del principe e venivano sovente ascoltati anche dal senato. Abbiamo numerose informazioni sulle ambascerie di popoli orientali: Parti e Armeni, soprattutto. Agli ambasciatori di questi popoli era riservato un trattamento privilegiato, probabilmente regolato da precise consuetudini. Formule che verranno poi trasmesse in età tardo-antica da (segue a p. 24)
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STRANIERI E BARBARI IN ETÀ IMPERIALE
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L’impero romano da Augusto a Traiano (30 a.C.-117 d.C.) I territori di Roma alla vigilia della battaglia di Azio (31 a.C.)
Conquiste e annessioni di Ottaviano Augusto (27 a.C.-14 d.C.) degli imperatori giulio-claudi (14-68 d.C.) degli imperatori flavi (69-96 d.C.) di Traiano (98-117 d.C.) Massima estensione dell’impero nel 117 d.C. Asia
Province senatorie
T h ra c i a
Province imperiali Battaglie di Ottaviano per la supremazia interna Altre battaglie di espansione e consolidamento dei confini
Cartina che mostra la progressiva espansione dell’impero romano, che raggiunse la sua massima estensione al tempo di Traiano.
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Roma a Costantinopoli, rappresentando le basi per le regole della diplomazia bizantina. Piú ridotte, ma non meno suggestive, sono le notizie sulla presenza a Roma di ambascerie provenienti dai popoli a Nord e, in particolare, dalla Germania.
Lo stupore dei principi frisi Negli anni successivi alla decisione di Tiberio di abbandonare i territori della Germania transrenana (16-17 d.C.), le autorità romane avevano imposto alle popolazioni germaniche lo sgombero di una fascia di territorio sulla riva destra del fiume. Si trattava di terreni che, secondo le intenzioni dei Romani, dovevano restare liberi da Germani, destinati piuttosto alle necessità dell’esercito imperiale: una misura evidentemente dettata da esigenze di sicurezza e di controllo del territorio. Forse si accostavano alle ragioni strategiche anche questioni culturali, legate al desiderio di far pesare sui popoli transrenani la supremazia di Roma. Ricorda infatti Giulio Cesare (Guerra gallica 4, 3, 1) che tra i Germani erano considerati popoli forti e temibili soprattutto quelli che potevano garantirsi ai loro confini aree libere da ogni altra presenza umana. Seguendo la loro consuetudine di ben studiare gli usi e le tradizioni delle popolazioni alla loro frontiera, i Romani sfruttarono probabilmente questa convinzione dei Germani per creare un efficace effetto deterrente contro ogni possibile minaccia alla sicurezza dell’impero. Al popolo che dominava il mondo s’addiceva infatti una larga zona di esclusione che correva lungo la riva del Reno. Tuttavia, Tacito racconta (Annali 13, 54) che, nel 58 d.C., sotto l’imperatore Nerone, un gruppo di Frisi, Germani del Nord, si spostò dalle proprie sedi accampandosi proprio sulla striscia di territorio non occupabile, a ridosso della riva destra del Reno. Ben presto, i Frisi
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Moneta in argento battuta a Roma in età augustea. Al dritto, Honos, personificazione divinizzata dell’onore; al rovescio, un parto inginocchiato che restituisce le insegne.
mostrarono di volersi insediare in maniera stabile e iniziarono a coltivare i terreni. Il governatore romano Dubio Avito convocò allora i capi dei Frisi, i nobili Malorix e Verrito, intimando loro di abbandonare i territori. In caso contrario, Avito avrebbe utilizzato la forza. Tale fu la protesta dei due principi che Avito agí con moderazione e pensò di coinvolgere direttamente l’imperatore nella decisione. Verrito e Malorix viaggiarono per l’impero e giunsero infine a Roma per presentare a Nerone la loro supplica. Arrivati nell’Urbe fu spiegato loro che avrebbero dovuto attendere la disponibilità del principe per una udienza, secondo la consuetudine usata per le ambascerie. Nell’attesa dell’incontro, ai due Germani venne offerta la possibilità di ammirare lo splendore del centro dell’impero. Furono dunque accompagnati tra le piazze e i monumenti e si decise di condurli anche al Teatro di Pompeo perché vedessero – come afferma Tacito – «lo spettacolo della moltitudine di cittadini che gremiva le gradinate del teatro». Profondamente ignoranti dei costumi dei Romani, i due Frisi non comprendevano lo svolgimento dei giochi che tanto appassionavano il pubblico. Si volsero allora a fare domande sulla composizione del pubblico, in particolare su dove fossero seduti i senatori e i cavalieri di Roma. Videro però seduti tra i senatori alcuni personaggi vestiti in maniera diversa dai Romani e chiesero spiegazioni. Venne loro risposto che si trattava di ambasciatori stranieri, venuti a Roma da lontane terre. A loro era stato concesso l’onore di sedersi tra i senatori, dal momento che erano i rappresentanti di genti forti e coraggiose e amiche del popolo romano. Nel riferire la stessa vicenda – che viene tuttavia anticipata al regno di Claudio – Svetonio (Claudio 25, 4)
Statua loricata di Augusto, dalla villa di Livia a Prima Porta, raffigurato come imperator. I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. La corazza reca in rilievo Fraate IV re dei Parti che restituisce le insegne romane sottratte a Crasso nel 53 a.C.
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afferma che gli ambasciatori seduti tra i senatori erano Parti e Armeni. La risposta scosse i due ambasciatori frisi, che lasciarono il loro posto, andandosi a sedere presso i senatori. Motivarono questo gesto affermando che nessuno era piú forte in guerra dei Germani e nessuno piú leale al popolo romano: per questo pretendevano di essere accolti tra i senatori, al pari degli ambasciatori delle altre genti. La fierezza e la schiettezza dei due principi frisi furono apprezzate dai senatori e dallo stesso Nerone, che volle onorarli della cittadinanza romana. Ordinò loro, tuttavia, di sgomberare le terre occupate. L’aneddoto di Tacito è di grande interesse. Conferma, da una parte, il soggiorno contemporaneo a Roma di un numero elevato di ambasciatori e delegati provenienti tanto dalle regioni esterne all’impero, quanto dalle province e dalle città dell’impero stesso. Dall’altra, offre un’informazione suggestiva sulle differenze culturali tra Romani e Frisi. I due Germani sono talmente lontani dallo stile di vita dei primi da non riuscire neppure a comprendere le dinamiche degli spettacoli che si svolgevano al loro cospetto nel Teatro di Pompeo. Capivano, tuttavia, l’importanza di sedere tra senatori e cavalieri, in posizione di pari dignità con i ceti superiori del popolo romano che dominava una parte del mondo.
Rampolli illustri alla corte imperiale In età imperiale i Romani associarono al sistema di amministrazione diretta del territorio sotto il loro dominio – lo spazio delle province conquistate con l’intervento militare – uno spazio di influenza ed egemonia costituito dai cosiddetti «regni clienti». Si tratta di entità statali formalmente autonome, ma in rapporto di amicitia, e dunque dipendenza, con il popolo romano. Da qui l’idea di una relazione politica assimilabile a quella di carattere sociale tra il ricco e potente patrono e i clienti che gli obbediscono e lo omaggiano. Amici e alleati del popolo romano, i re clienti erano indipendenti al loro interno, ma del tutto subordinati ai Romani nella loro politica estera.
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Questa condizione trasformava gli Stati clienti in protettorati sotto il controllo di Roma, molto utili per garantire la sicurezza delle province di frontiera. Il rapporto tra il principe e i governanti dei regni clienti era molto forte, fondato sul vincolo della amicitia e su rapporti anche di carattere personale. Già dal tempo di Augusto, le fonti testimoniano lo stretto vincolo di solidarietà e dipendenza tra l’imperatore e i signori locali. Riferisce, in particolare, Svetonio (Vita di Augusto 48): «(Augusto) legò tra loro i re alleati con reciproci vincoli familiari e fu assai zelante nel conciliare e favorire le parentele e i rapporti di amicizia. Si occupò con cura di tutti questi regni, come se fossero membra e parti dell’impero; si dedicò sovente ad affiancare un tutore a quelli che erano giovani di età o deboli di mente, fino a quando fossero cresciuti o tornati in senno. Inoltre fece allevare ed educare i figli di molti tra questi insieme ai suoi». Augusto considerava i regni clienti come parte dell’impero romano. Vi era evidentemente un contenimento dell’ingerenza imperiale per quanto riguardava l’amministrazione interna; ma i regni clienti rientravano sotto il controllo del popolo romano. Per questa ragione si spiega la scrupolosa cura di Augusto nel seguire le vicende politiche dei regni; e nel favorire il soggiorno a Roma dei giovani principi destinati un giorno a subentrare nel governo. Anzi, come sottolinea Svetonio, a conferma dell’importanza che Augusto dava a questa pratica, il principe scelse di far educare i giovani principi dei regni clienti insieme ai giovani membri della sua famiglia. Questa consuetudine proseguí oltre il principato di Augusto. Sappiamo, per esempio, che Caligola ebbe come compagni negli anni dell’adolescenza e dell’educazione il figlio del re di Tracia, Cotys VIII, e Tolomeo, figlio di Giuba II di Mauretania. E anche al tempo del suo principato, Caligola continuò ad apprezzare la presenza di principi stranieri nel suo seguito. Ricorda Svetonio (Vita di Caligola 19, 2) che in occasione di una delle sue piú famose imprese,
Sulle due pagine il Teatro di Pompeo in una ricostruzione grafica della fine dell’Ottocento.
la congiunzione del tratto tra Baia e il molo di Pozzuoli con un imponente ponte di barche, Caligola attraversò trionfalmente il ponte, facendosi accompagnare e precedere anche da Dario, un principe di stirpe partica, ostaggio a Roma in quel tempo.
Un’ospitalità interessata Si tratta evidentemente di strategie lungimiranti nei rapporti tra l’impero e i popoli amici e alleati dei Romani. In primo luogo, attraverso questi soggiorni dei futuri signori dei regni clienti si attuano infatti pratiche
diplomatiche utili a consolidare gli interessi dell’impero. Durante la loro permanenza, questi giovani principi provenienti dalle piú remote regioni alle frontiere dell’impero acquisiscono la conoscenza della lingua latina e di quella greca, vengono educati ai valori della civiltà ellenistico-romana, allacciano rapporti di amicizia con i membri della famiglia del principe e della piú elevata aristocrazia romana. Con la loro permanenza nell’Urbe arricchiscono la loro personalità, divenendo preziosi e importanti mediatori tra Roma e le loro genti esterne all’impero; uomini capaci un giorno di
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trovare un’intesa tra l’interesse dei Romani e quelli delle loro genti, al fine di conservare la pace e la stabilità della frontiera imperiale; e di rafforzare il controllo imperiale sui loro regni.
Fino alle foreste della Boemia Non sempre, tuttavia, questo percorso «pedagogico» si sviluppava nelle forme piú auspicabili per gli interessi del popolo romano. Un esempio molto suggestivo al riguardo è offerto dalla vicenda di Maroboduo, principe e poi re dei Marcomanni negli anni turbolenti della rivolta germanica contro Roma e dell’età di Tiberio (9-21 d.C.). Riferisce Strabone (7, 1, 3), fonte contemporanea alla vicenda, che Maroboduo divenne capo dei Marcomanni, «partendo da una posizione di persona comune dopo il suo ritorno da Roma. Infatti si trovava lí fin da giovane e ottenne benefici dall’Augusto». Maroboduo doveva essere un giovane di elevato lignaggio tra la sua gente, se nel suo soggiorno a Roma era a contatto con il principe; uno di quei giovani notabili barbarici che crescevano insieme ai rampolli della famiglia di Augusto. Negli anni trascorsi a Roma, Maroboduo si formò dunque secondo la cultura e lo stile di vita ellenisticoromano. Questa condizione privilegiata rappresentò senz’altro un utile strumento per consentirgli l’ascesa al comando del suo popolo, che avvenne in una situazione di emergenza. Infatti, quando fu chiaro che i Romani puntavano all’espansione del loro dominio oltre il Reno, i Marcomanni decisero di abbandonare le loro terre a ridosso del fiume – nella zona di
Mogontiacum (Magonza) – e si ritirarono verso regioni lontane raggiungendo la Boemia. Li guidò in questa migrazione Maroboduo, che un’altra fonte – l’ufficiale romano Velleio Patercolo, attivo in Germania al servizio di Tiberio – descrive come «nobile di stirpe, di eccezionale vigore fisico, fiero d’animo, barbaro piú per nascita che per finezza di pensiero. Non si costruí tra i suoi un principato sorto da disordini o dal caso, e neppure instabile o dipendente dalla volontà dei sudditi; al contrario, avendo concepito un potere stabile e un’autorità regia, portata lontana dai Romani la sua gente, decise di avanzare fin a dove potesse rendere le sue forze assai potenti, essendo fuggito a causa di forze piú potenti delle sue» (Storia romana 2, 108, 2). È suggestiva la vicenda di Maroboduo, perché indica una lucida intelligenza che non si limitò ad assimilare la cultura e le tradizioni dei Romani, ma seppe criticamente valutarne gli aspetti positivi e negativi. Alla conoscenza dei In questa pagina moneta in argento Romani, acquisita negli anni di battuta in età soggiorno nell’Urbe, Maroboduo augustea. Il pezzo dovette il successo tra la sua gente: celebra la vittoria era infatti un mediatore perfetto per sull’Armenia, trattare con l’impero romano, evocata dalla legenda Armenia avendo perfino ottenuto benefici da capta e dalla Augusto. E tuttavia, proprio la sua raffigurazione di un grande conoscenza dei Romani lo tipico copricapo indusse a non trovare un’intesa con armeno e di due l’impero, a non consegnare al faretre. dominio del popolo romano la sua Nella pagina accanto gente. A suo giudizio, ricostruzione evidentemente, non era possibile virtuale della Curia, scendere a patti con i Romani, con i senatori in sperando di mantenere l’autonomia assemblea. all’interno della grande provincia che stava sorgendo oltre il Reno; e
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STRANIERI E BARBARI IN ETÀ IMPERIALE In ginocchio al cospetto di Nerone neppure era pensabile di battersi contro di loro con qualche speranza di successo. Maroboduo rifiutò dunque la mediazione attiva e prese una decisione drastica: lasciare le antiche terre della sua gente e fuggire dai Romani e dalla loro dominazione, il piú lontano possibile. Non si illudeva della possibilità che i Marcomanni potessero sottomettersi al sistema del tributo, dello sfruttamento, della legge romana. Dopo una lunga migrazione, a oltre quattrocento chilometri di distanza dal Reno, Maroboduo guidò il suo popolo alla conquista di un nuovo regno.
Forza e volontà di resistere Per sottomettere un gran numero di popolazioni e per consolidare la potenza e l’autorità del nuovo regno dei Marcomanni ancora una volta giovò a Maroboduo la sua esperienza a Roma. Ricorda ancora Velleio Patercolo (2, 109, 1-3): «Organizzata con costante addestramento la forza di coloro che custodivano il suo regno secondo un modello quasi simile a quello della disciplina romana, la condusse in breve a un livello molto elevato e temibile perfino per il nostro impero. Inoltre si comportava verso i Romani in modo da non provocarci alla guerra; e tuttavia mostrava che, se provocato, possedeva forza e volontà di resistere. Gli ambasciatori che inviava a Cesare, ora lo raccomandavano come un supplice, ora parlavano da pari a pari. Presso di lui v’era possibilità di rifugio per genti o uomini che si staccavano da noi, e nel complesso si comportava come un rivale, pur dissimulandolo male. Esercitando in guerre costanti contro i popoli confinanti il suo esercito, che aveva portato a settantamila uomini e quattromila cavalieri, lo preparava a un’impresa superiore a quella che lo impegnava». Maroboduo aveva costruito il nuovo regno mettendo a frutto le sue conoscenze del mondo ellenistico-romano. Di conseguenza, i Marcomanni disponevano di un esercito potente, addestrato quasi secondo il modello della disciplina Romana. Soprattutto, Maroboduo sviluppava in piena autonomia una
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ra le visite di re e principi orientali a Roma, la visita del principe arsacide Tiridate nel 66 è ben documentata per il suo grande valore simbolico. Al termine dei conflitti e degli scambi diplomatici tra
l’impero romano e i Parti in Oriente, brillantemente condotti dal generale Domizio Corbulone, i Parti trovarono un’intesa con Roma. Il re Vologese I ottenne che suo fratello Tiridate fosse
In basso L’orgoglio di Nerone, disegno di Reinier Vinkeles. 1804. Amsterdam, Rijkmuseum. L’artista immagina l’imperatore romano mentre pone sul capo di Tiridate I la corona di re dell’Armenia.
Nella pagina accanto statua raffigurante Tiridate I d’Armenia, opera di Antoine André. 1684-1686. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.
riconosciuto re dell’Armenia. I Romani pretesero tuttavia che questa investitura politica avvenisse per mano di Nerone, a Roma. Si trattava di affrontare un lungo viaggio fino al cuore dell’impero e di sottoporsi a un gesto di evidente subordinazione. Dopo qualche trattativa, il re Vologese accettò. Cosí, nel 66, su ordine del fratello, Tiridate venne a Roma e accettò di ostentare una formale sottomissione a Nerone, pur non essendo stato vinto in guerra. Cassio Dione (LXIII 1-7) descrive nel dettaglio il viaggio del principe arsacide e lo svolgimento della cerimonia. Tiridate giunse in Italia accompagnato da altri principi – tra questi, i figli di suo fratello Vologese – dalla sua famiglia con largo seguito di servitú e da una scorta di tremila cavalieri. A Napoli vi furono il primo incontro con Nerone e il primo gesto di sottomissione di Tiridate all’imperatore. Poi entrambi si recarono a Roma. Nel Foro si riuní una grande folla che fu spettatrice di una scena preparata con mirabile sforzo coreografico. I senatori in candida toga assistevano alla scena, attorniati dalle truppe imperiali armate di tutto punto; ovunque, all’intorno gremiva gli spazi la massa dei cittadini, abbagliata dalla vista delle armi, delle insegne, dal lusso della nobiltà e dallo sfarzo del principe. Nerone era arrivato fin dalla prima mattina, vestito da trionfatore, e si era seduto sul seggio curule sopra i
rostri. Arrivarono anche Tiridate e il suo seguito. Procedendo tra due file di soldati, Tiridate raggiunse i rostri e si inchinò davanti a Nerone. Poi salutò l’imperatore dei Romani: «Io, signore, discendente di Arsace, fratello dei re Vologese e Pacoro, sono tuo servitore. Sono venuto da te, mio dio, e ti venero prostrandomi come con Mitra, e accetterò quello che vorrai assegnarmi. Tu infatti sei il mio fato e il mio destino». Dopo aver risposto all’omaggio, Nerone lo fece avvicinare e gli impose il diadema di re d’Armenia sul capo. La folla salutò con spaventoso clamore l’atto di sottomissione del principe dei Parti davanti al principe dei Romani. Attraverso questa solenne cerimonia si confermava che l’Armenia, pur governata da un sovrano di stirpe partica, era sottoposta al controllo del popolo romano. Lo afferma con la consueta chiarezza Tacito (Annali XV 27-31). Dopo aver descritto tutte le richieste che erano state rivolte ai Romani dal re dei Parti perché l’accoglienza di suo fratello Tiridate a Roma fosse splendida e in alcun modo lesiva della dignità di un principe degli Arsacidi, Tacito conclude: «Certo, abituato alla vuota arroganza degli stranieri, Tiridate non comprendeva la nostra mentalità di Romani: per noi conta la sostanza reale del potere (vis imperii), mentre trascuriamo tutte le vuote apparenze».
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Udienza con Agrippa, olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1876. Kilmarnock, Dick Institute.
sua diplomazia barbarica. Trattava con i Romani; e trattava con i nemici di Roma o accoglieva gli esuli, al punto che l’impero romano iniziò a considerarlo un pericoloso rivale. Era una situazione intollerabile, che andava regolata senza indugi. Augusto scelse Tiberio per chiudere la questione, ma un’improvvisa rivolta in Pannonia rinviò la resa di conti. Anzi, Maroboduo ne ricavò un vantaggio: dal 6 d.C., infatti, fu riconosciuto nel suo ruolo di re e onorato del titolo di amico del popolo romano. Tutto ciò avveniva in un’atmosfera di inquietante dissimulazione dei reali rapporti, mentre l’impero aveva già pronti i piani per una
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guerra di annientamento dei Marcomanni. Il precipitare degli eventi impedí tuttavia ai Romani di eliminare Maroboduo. Nel 9 d.C., infatti, Arminio, cittadino romano e ufficiale dell’esercito, tradí l’impero e trascinò i Cherusci e altre genti in una grande rivolta contro Roma. Il governatore Quintilio Varo e il suo esercito caddero in una imboscata a Teutoburgo e furono massacrati. Nel volgere di pochi mesi, i Romani e i loro amici presenti tra Reno e Weser abbandonarono precipitosamente le loro nuove città, le loro fattorie, i loro affari e quanto avevano costruito, per raggiungere la salvezza oltre il Reno.
mentre il suo esercito veniva ferocemente annientato. Ricevuto il macabro pegno di amicizia, Maroboduo reagí senza indugi. Respinse l’offerta di Arminio e fece inviare la testa di Varo ad Augusto. Grazie al gesto di Maroboduo, almeno questi resti del corpo di Varo furono sepolti nella tomba di famiglia.
Una neutralità pesante
Una conversazione (o La rivelazione), olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1865-1871. Collezione privata.
Proprio in questo drammatico frangente, Maroboduo seppe mostrare l’accortezza della sua diplomazia e diede nuovamente prova della sua lucida conoscenza dei Romani e della loro mentalità. In una guerra di liberazione dal giogo dell’impero, Arminio e i capi delle altre tribú sapevano bene che l’aiuto del potente esercito di Maroboduo poteva sostenere il fortunato esito dell’impresa. Arminio chiese dunque al re dei Marcomanni di unirsi alla grande insurrezione. Lo fece nella maniera piú efficace in quel momento: inviò a Maroboduo la testa del governatore Varo, che si era suicidato sul campo di Teutoburgo,
Maroboduo agí dunque da amico del popolo romano e da profondo conoscitore dell’animo dei Romani. Fece infatti un gesto di pietas, di devoto rispetto nei confronti del principe e del popolo romano, oltraggiati dal tradimento di Arminio. E ben sapeva che i Romani non avrebbero tardato a scatenare una terribile guerra di ultio, vendetta, contro i Germani ribelli. Tuttavia, affiancò alla pietas il segno della sua autonomia e della libertà del suo popolo. Infatti, pur mostrandosi rispettoso delle tradizioni dei Romani, Maroboduo non fece alcuna apertura nei confronti dell’impero contro Arminio. Al contrario: il re dei Marcomanni mantenne la sua neutralità nel conflitto tra l’impero e i ribelli. Si trattò di una neutralità pesante che Roma – come altre volte nella sua lunga storia – non dimenticò. Maroboduo, infatti, non diede aiuto ai ribelli, ma neppure si schierò al fianco dell’impero, come i suoi doveri di amico e alleato di Roma avrebbero imposto. Alcuni anni dopo, alla fine del 18 d.C., messo alle corde dalla aggressione di Arminio e dei suoi guerrieri, Maroboduo chiese a sua volta aiuto a Roma. Tiberio – che aveva robusta memoria, soprattutto nei confronti dei Germani – gli negò la sua assistenza, come ricorda Tacito: «Gli fu risposto che non a buon diritto invocava l’aiuto dei Romani contro i Cherusci, lui che non aveva portato alcun sostegno ai Romani quando combattevano contro lo stesso nemico» (Annali, 2, 46, 5). A distanza di breve tempo, anche per gli intrighi propiziati dalla sovversiva diplomazia dei Romani, Maroboduo fu costretto a lasciare il suo regno e a passare da supplice nei territori dell’impero. Tiberio si mostrò generoso, non perdendo la facile occasione di
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umiliare un rivale che era stato a lungo pericoloso per l’impero. Alla fine della sua parabola di potere, Maroboduo tornò a vivere tra i Romani. Fu trasferito a Ravenna, dove si trovavano altri illustri prigionieri, e sopravvisse per diciotto anni, fino al 35-36, in una condizione di rifugiato sotto il controllo di Roma. Tacito ricorda che Tiberio trasformò la rovina di Maroboduo in un suo successo contro un antico avversario. Il principe pronunciò un discorso in senato che lo storico ebbe modo di leggere negli archivi: «Esiste il testo del discorso nel quale Tiberio esaltò la grandezza dell’uomo, la fierezza dei popoli a lui sottomessi, la sua vicinanza come nemico all’Italia, la sua abilità nel distruggere tale nemico. Inoltre, si faceva mostra di Maroboduo, trattenuto a Ravenna, come sul
In basso cartina dell’impero romano con l’indicazione delle sue province e, in evidenza, il limes germanico.
Vallo di Adriano
BRITANNIA GERMANIA INF.
Limes germanico-retico
BELGICA LUGDUNENSE NORICO GERMANIA SUP. REZIA PANNONIA AQUITANIA NARBONENSE TARRACONENSE
DACIA
DALMAZIA MESIA ITALIA
PONTO GALAZIA E BITINIA CAPPADOCIA
MACEDONIA
LUSITANIA
EPIRO BETICA
MAURITANIA
TRACIA
ASIA CILICIA LICIA E PANFILIA
SICILIA
NUMIDIA
AFRICA CIRENAICA 500 Km
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EGITTO
punto di tornare nel suo regno, qualora gli Svevi avessero avuto intenzione di ribellarsi. Ma Maroboduo non uscí dall’Italia per diciotto anni, e invecchiò, vedendo molto oscurata la sua fama per il solo eccessivo desiderio di vivere» (Annali 2, 63, 3-4).
Al servizio della diplomazia Dal punto di vista della diplomazia romana e delle strategie politiche per conservare in pace un grande impero, la presenza di principi e aristocratici stranieri a Roma presenta altri aspetti di rilevante vantaggio. In primo luogo, il soggiorno nell’Urbe dei rappresentanti delle famiglie al potere nei regni clienti costituiva un forte deterrente contro inaspettati e A destra maschera in ferro ricoperta d’argento, già parte di un elmo cerimoniale romano, dall’area della battaglia di Teutoburgo. Kalkriese, Museum und Park Kalkriese. In basso e nella pagina accanto, in alto punte di lancia, dall’area della battaglia di Teutoburgo. Kalkriese, Museum und Park Kalkriese.
pericolosi cambiamenti di alleanza. I giovani principi erano trattati convenientemente al loro elevato rango e accolti alla corte imperiale e negli ambienti piú esclusivi dell’Urbe. Ma erano sotto il controllo del principe. La loro incolumità era il pegno della fedeltà dei re clienti alla volontà di Roma, e questa condizione poteva divenire prezioso strumento di pressioni diplomatiche. Piú in generale, il discrimine tra la condizione di ospiti o ostaggi era determinato dal comportamento dei loro padri o parenti nelle loro remote terre d’origine. E sovente, le due condizioni si sovrapponevano. In altre circostanze, l’ospitalità offerta a principi e personaggi di stirpe regia di terre esterne all’impero si dimostrava molto utile (segue a p. 38)
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Uno spettacolo crudele: Segeste al trionfo di Germanico
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egeste, nobile dei Cherusci, aveva collaborato con i Romani ponendosi al loro servizio negli anni della creazione di una provincia in Germania tra Reno ed Elba (7 a.C.-9 d.C.). Assunse il ruolo di mediatore tra la sua gente e Roma, coinvolgendo anche la sua famiglia. Suo figlio Segimundo era infatti diventato il sacerdote di Roma e Augusto presso il santuario di Ara Ubiorum (Colonia), consacrato per realizzare un luogo di incontro di tutti i nuovi sudditi del popolo romano in Germania. L’altra figlia, Tusnelda, era stata rapita invece dal nobile Arminio, cittadino e ufficiale romano di stirpe pure cherusca, che la sposò
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contro la volontà e le strategie matrimoniali del padre. Quando Segeste ebbe sentore della trappola che Arminio stava preparando contro i Romani, cercò in tutti modi di vanificare i progetti dei ribelli. Fu tutto inutile e, alla fine, anche Segeste partecipò personalmente alla strage di Teutoburgo nel 9 d.C. Del resto, anche suo figlio Segimundo aveva lasciato le sacre bende unendosi al cognato contro i Romani. Dopo un periodo di convulso disordine, profilandosi la terribile vendetta dei Romani, Segeste trovò modo di riconciliarsi con l’impero. Approfittò della lontananza di Arminio, impegnato
nei combattimenti, e riportò sotto il suo controllo la figlia Tusnelda, ormai incinta del figlio di Arminio. Nell’estate del 15, Segeste venne a sapere che Germanico si avvicinava con il suo esercito. Gli inviò allora una ambasceria. Prometteva di consegnarsi, insieme a Segimundo (che inviò ostaggio come pegno della sua lealtà) e a Tusnelda. Germanico afferrò l’occasione che si presentava. La cattura della moglie del ribelle, incinta, era un importante passo nella vendetta del popolo romano contro Arminio. Germanico usò dunque clemenza e misericordia. Inviò truppe a prelevare il nobile Segeste, che fu
Nella pagina accanto Tusnelda nel trionfo di Germanico, olio su tela di Karl Theodor von Piloty. 1873. Monaco di Baviera, Neue Pinakothek. L’artista immagina la fierezza della moglie di Arminio, costretta a sfilare fra lo scherno dei vincitori, con il piccolo Tumelico al suo fianco. In alto Arminio si congeda da Tusnelda, olio su tela di Johannes Gehrts. 1884. Detmold, Lippisches Landesmuseum.
riaccolto nell’amicizia dei Romani; e non infierí su Segimundo e Tusnelda. Con una scena dal forte carattere tragico, Tacito descrive la donna che viene condotta insieme ad altri ostaggi verso gli accampamenti romani: «V’era tra quelle donne la moglie di Arminio, che era pure la figlia di Segeste, piú vicina nell’animo al marito che al padre. Non si abbandonava alle lacrime, non gemeva da supplice, ma guardava fisso il ventre, e con le mani stringeva forte il grembo» (Annali 1, 57, 4). Piú di Segeste, che cercava di salvare la posizione della famiglia e agiva in
odio ad Arminio, Tusnelda aveva compreso il profondo significato della clemenza di Germanico. Da una fonte contemporanea ai fatti, Strabone, abbiamo la possibilità di comprendere pienamente le strategie di Germanico. Il 26 maggio del 17, due anni piú tardi, Germanico celebrò un grande trionfo a Roma al cospetto di Tiberio e del popolo romano. Tacito ricorda che fu celebrato su Cherusci, Catti, Angrivari e altre genti che abitavano tra il Reno e l’Elba. Assistendo forse da testimone oculare all’evento, Strabone
(7, 1, 4) aggiunge notizie che integrano e confermano la drammatica narrazione di Tacito. Al seguito del trionfatore sfilarono per Roma i capi e i membri dell’aristocrazia dei Germani ribelli. Tra i molti prigionieri spiccavano le prede piú preziose, i parenti del capo dei ribelli Arminio: il cognato Segimundo e, soprattutto, Tusnelda, sua moglie, che avanzava portando con sé un bambino piccolo. Era Tumelico, il figlio di Arminio nato in prigionia, senza che il padre lo avesse mai conosciuto. Con la loro presenza nel corteo queste persone amplificavano il trionfo di Germanico e del popolo romano ed espiavano le colpe di un intero popolo, umiliando Arminio. Strabone, tuttavia, aggiunge un dettaglio tragico. Tra coloro che partecipavano al grandioso spettacolo come amici e ospiti del popolo romano c’era anche il nobile Segeste, perdonato da Germanico e da Roma. Assisteva alla gloria dei Romani che trionfavano sui suoi figli, sui suoi affetti, sul suo popolo. Pur sedendo al fianco dei vincitori, il cherusco Segeste era quel giorno tra i vinti, umiliati dalla vendetta di Roma. Un grande quadro di Karl Theodor von Piloty (oggi alla Neue Pinakothek di Monaco di Baviera) celebra l’eroismo di Tusnelda che sostiene con dignità lo scherno dei Romani trionfatori. Al suo fianco c’è il piccolo Tumelico. In penombra, quasi ai margini della scena ci sono Germanico, Tiberio seduto in trono e un nobile germano alla sua destra: è Segeste, che a capo chino riflette sui benefici amari della clemenza di Roma.
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alle strategie della diplomazia romana. Era opportuno dare accoglienza a quanti appartenevano alle famiglie regnanti presso le gentes externae; come pure a quanti fossero in grado di rivendicare diritti a troni o cariche di potere occupati da altri. La diplomazia romana poteva ben servirsi a tempo debito di questi personaggi per risolvere a proprio vantaggio controversie sulla successione al potere, per fare pressioni, per giustificare campagne militari. Un caso molto interessante al riguardo
In basso il porto di Classe cosí come fu raffigurato in uno dei mosaici della basilica di S. Apollinare Nuovo a Ravenna. Inizi del VI sec.
si verifica nell’età di Claudio. Racconta infatti Tacito (Annali 11, 16-17) che, nel 47, i Cherusci inviarono ambasciatori a Roma per chiedere appunto all’imperatore Claudio che Italico, figlio di Flavo e nipote di Arminio, fosse inviato presso di loro e prendesse il ruolo di re della loro comunità. Proprio sotto la guida di Arminio, zio di Italico, i Cherusci avevano trascinato anche altre popolazioni germaniche nella grande rivolta del 9 che aveva costretto i Romani ad abbandonare i territori della
Ravenna, base navale e centro di raccolta dei «barbari»
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ugusto decise di dislocare la flotta romana a guardia dell’Adriatico e del Mediterraneo orientale nel porto di Classe, presso Ravenna. Per tutta l’età imperiale, la presenza della Classis Ravennas trasformò la città in una importante base militare. L’altra parte della flotta venne invece ormeggiata a Miseno sul Mar Tirreno, presso l’importante scalo di Puteoli (Pozzuoli). Evidentemente, le importanti installazioni militari, tra cui i castra che ospitavano i marinai e il personale specializzato nella manutenzione della flotta, e la stabile guarnigione favorirono la decisione di realizzare nella città anche un luogo di raccolta e concentramento di barbari ostaggi o prigionieri. Non conosciamo le modalità della sistemazione, ma sappiamo del destino di alcuni personaggi che rimasero a lungo ostaggi in città. Cosí, per esempio, Svetonio (Tiberio 20) ricorda che il capo dei Pannoni, Bato, fu sistemato a Ravenna da Tiberio. Tacito (Annali 2, 63, 4), invece, riferisce della sorte del re dei Marcomanni, Maroboduo, accolto come esule da Tiberio e condotto a Ravenna, dove rimase per diciotto anni fino alla morte. Sempre da Tacito (Annali 1, 58, 6) sappiamo che dopo il trionfo del 26 maggio 17, Tusnelda e Tumelico, moglie e figlio del ribelle Arminio – che ancora combatteva contro Roma – furono condotti a Ravenna dove vissero insieme ad altri capi prigionieri. Quando partecipò prigioniero a Roma al corteo trionfale di Germanico, il figlio di Arminio era un bambino ancora piccolo. Sua madre Tusnelda, infatti, era stata catturata nel 15 mentre portava in grembo il bambino. Condotto a Ravenna, Tumelico fu educato tra i Romani e Tacito mostra di avere informazioni sul suo conto.
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Purtroppo, lo storico rinvia il racconto della vicenda a una parte della sua opera che non ci è giunta, lasciandoci grande curiosità. Tumelico ebbe comunque un destino sfortunato. D’altra parte, nel 47, quando Claudio decise di inviare Italico, cugino di Tumelico, come re presso i Cherusci, non si fa menzione del giovane principe germanico, che doveva essere già morto. E mentre Tumelico, figlio del ribelle Arminio, visse in condizione di ostaggio nella base di Ravenna, suo cugino Italico, figlio di Flavo, che era rimasto leale a Roma, fu educato nell’Urbe come cittadino romano, frequentando gli ambienti dell’aristocrazia piú vicini ai principi giulio-claudi. Il popolo romano, evidentemente, non dimenticava: le conseguenze del comportamento dei padri verso Roma incidevano irrimediabilmente anche sulla vita e sulla fortuna dei figli.
Tusnelda nel trionfo di Germanico, olio su tela di Heinrich Ludwig Philippi. 1867. Colonia, Wallraf-Richartz Museum.
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Germania transrenana. In un suggestivo passo, lo stesso Tacito ci racconta che il fratello di Arminio, Flavo, era rimasto leale all’imperatore romano, tanto da partecipare al fianco di Germanico alla guerra contro i ribelli. Inoltre, appartenendo a stirpe regale, Flavo aveva sposato una figlia di Actumero, capo dei Catti, un’altra importante gente germanica. Come segno di riconoscimento della fedeltà di Flavo, il figlio Italico era stato ospitato a Roma e qui era stato educato insieme ai giovani dell’aristocrazia romana. Come suo padre Flavo e suo zio, il traditore Arminio, anche Italico rappresenta una suggestiva personalità di mediatore tra culture. Era infatti un cittadino romano, come il padre e lo zio; ed era anche un esponente della piú alta nobiltà germanica, tanto sul versante dei Cherusci quanto su quello dei Catti. Afferma infatti Tacito: «Era bello di aspetto, e conosceva l’uso delle armi e il modo di cavalcare tanto della nostra quanto della sua gente». Quando se ne presentò l’occasione, l’impero non tardò a richiederne il servizio. Nel ricordare il colloquio tra Italico e
l’imperatore Claudio, Tacito descrive il principe preoccupato di chiarire bene al giovane nobile la sua posizione: «Era lui il primo che, nato a Roma, non in condizione di ostaggio, ma in qualità di cittadino romano, si recava a regnare su un paese straniero». Nel caso di Italico il processo di integrazione nel mondo romano appare pienamente riuscito. E tuttavia, pur essendo a giudizio dello stesso principe un Vedute dei resti dell’antica Volubilis (Marocco), città in cui i principi dei Mauri incontravano il governatore romano della Mauretania (vedi, nel testo, alle pp. 48-49). In basso, la porta di Tingis (l’antica Tangeri); sulle due pagine il tempio capitolino.
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cittadino romano nel pieno del suo diritto, Italico, per la sua doppia natura, rappresenta una pedina preziosa da utilizzare nel complesso scenario dei rapporti tra impero e popolazioni germaniche. La sua condizione di cittadino romano doveva favorire un atteggiamento vantaggioso per l’impero, rafforzando l’autorevolezza del suo potere presso la sua gente. Quando Italico raggiunse la sua nuova posizione di potere, il suo status si rivelò invece uno dei motivi che ne indebolirono l’autorità, fino a trascinare i Cherusci nella guerra civile.
La «diplomazia sovversiva» L’impiego di ospiti e ostaggi presenti a Roma appare in taluni casi anche congeniale a una condotta che è stata definita di «diplomazia sovversiva», perché destinata a sconvolgere l’equilibrio interno di entità statali non allineate con gli interessi di Roma o in pericolosa ascesa ai confini dell’impero. Oltre al caso di Maroboduo, che abbiamo osservato, esistono altre testimonianze nelle fonti che riguardano i regni e gli stati alla frontiera orientale dell’impero. In molti casi, i personaggi presenti a Roma rappresentavano un utile «serbatoio» di possibilità per costruire trame e intrighi utili agli interessi di Roma. Emblematica, per esempio, è una vicenda descritta da Tacito per la tarda età di Tiberio (Annali 6, 31-32). Nel 35 raggiunsero Roma emissari dal regno dei Parti. Venivano in missione segreta, senza alcuna copertura ufficiale o autorizzazione da parte del sovrano Artabano II. Al contrario, i due eminenti personaggi, il nobile Sinnace e l’eunuco Abdo, giungevano appunto per sviluppare segrete trame e liberarsi del loro re. Artabano II, infatti, regnava con durezza sul suo popolo e, al contempo, aveva assunto un atteggiamento di sfida verso Roma.
Nella pagina accanto tavola in bronzo con l’iscrizione che concede la cittadinanza romana alla moglie e ai figli del capo dei Mauri Zegrenses (vedi, nel testo, a p. 49), da Banasa (Marocco). II sec. d.C. Rabat, Museo Archeologico. In basso ritratto di Settimio Severo, da Ostia, Terme di Nettuno. 196-197 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
Puntava a impadronirsi dell’Armenia, minacciando in questo modo la frontiera dell’impero; e rivendicava in maniera arrogante il controllo dei territori che un tempo erano appartenuti al grande impero degli Achemenidi. Alessandro Magno li aveva strappati ai legittimi padroni; ora era tempo che i Parti, in quanto eredi degli Achemenidi, si riprendessero quanto per vocazione storica spettava al loro dominio. Quando la misura fu colma, un gruppo dell’aristocrazia dei Parti organizzò una congiura contro il re. Gli ambasciatori venivano in nome di questi nobili, chiedendo a Tiberio di inviare presso i Parti uno dei legittimi figli del re Fraate IV che si trovavano a Roma come ostaggi-ospiti. La comparsa di un Arsacide alla guida dei nobili ribelli avrebbe dato un impeto travolgente all’insurrezione, giustificandola al contempo. Consapevole dei vantaggi di una simile ingerenza negli affari dei Parti, Tiberio accettò. Fraate partí, ma non arrivò mai nella terra dei suoi padri. È interessante il giudizio di Tacito sulle cause della morte: «Fraate si ammalò e morí di malattia in Siria, quando, abbandonato lo stile di vita dei Romani, al quale per tanti anni era stato abituato, adottò le consuetudini dei Parti e si rivelò incapace di adattarsi ai costumi dei suoi antenati». Pur conservando il suo supremo rango di principe degli Arsacidi – la dinastia al trono presso i Parti – Fraate era nel tempo diventato un Romano. Aveva assunto gli usi e i costumi dell’aristocrazia senatoria dell’Urbe. Quando si trattò di cambiar vita, per tornare alle tradizioni della sua gente, il principe non fu in grado di adeguarsi alle trasformazioni e morí. Come altre fonti, anche Tacito conferma che il soggiorno prolungato a Roma di ospiti e ostaggi stranieri cambiava la loro personalità e il loro stile di vita. Come già accennato, sottile era la linea di distinzione tra la condizione di ospite e quella di ostaggio per i principi e i nobili
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provenienti dai popoli «amici» dell’impero e residenti a Roma. Dipendeva da molti fattori, non ultimo dalla volontà dell’imperatore. D’altra parte, a Roma erano presenti anche personaggi in condizione di prigionia, costretti con il loro soggiorno forzato a garantire la validità di accordi e trattati. La consegna di ostaggi per consolidare un’intesa diplomatica tra Roma e le popolazioni sottomesse all’impero – fuori e dentro i suoi confini – era una pratica consueta, che risaliva indietro nei secoli. Finché le parti contraenti rispettavano gli accordi, all’ostaggio erano garantiti l’incolumità e un trattamento adeguato al suo rango. Venivano infatti tratti in ostaggio personaggi di rilievo delle popolazioni sottomesse, giovani membri delle famiglie dei capi o delle aristocrazie; o perfino donne, nel caso delle popolazioni germaniche. Alcune fonti, tra cui Strabone (16, 1, 28), riferiscono, per esempio, della presenza a Roma di alcuni figli del re dei Parti Fraate IV in età augustea, ospitati a spese pubbliche e trattati secondo il loro rango di principi. Durante l’età imperiale, la maggior parte degli ostaggi di rango elevato
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Sulle due pagine i resti del cosiddetto Stadio Palatino, realizzato da Domiziano sul finire del I sec. d.C., messi a confronto con la ricostruzione virtuale dell’area del Palatino in cui la struttura è compresa: l’edificio sorse a ridosso del fianco orientale della Domus Flavia-Augustana (qui sotto). Le fonti attestano come, in epoca imperiale, la maggior parte degli ostaggi di rango elevato fossero inviati a Roma, nel centro del potere, di cui i palazzi del Palatino erano la residenza ufficiale.
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pretesi dal governo imperiale venivano inviati a Roma, nel centro del potere. Seguendo una prassi che rimontava all’età della repubblica, alcuni furono pure sistemati nelle città del Lazio o in altre città d’Italia. Anche nel caso degli ostaggi, la permanenza a Roma o in Italia consentiva a questi personaggi di imparare la lingua, di conoscere gli usi e le pratiche dei Romani, di vivere secondo le
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consuetudini della civiltà ellenistico-romana. Inoltre, nel caso di soggiorni piú lunghi, gli ostaggi allacciavano rapporti di solidarietà e amicizia con esponenti dell’aristocrazia romana. La durata del soggiorno a Roma era variabile. Augusto consentí agli ostaggi di alcune popolazioni germaniche di essere periodicamente sostituiti da altri membri delle loro tribú. Alcuni terminarono la loro vita a
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
Sulle due pagine Roma. Il settore del fregio elicoidale della Colonna Traiana raffigurante un drappello di cavalieri mauri che si gettano all’assalto del nemico. 113 d.C.
I Mauri, cavalieri formidabili e fedeli servitori dell’impero
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a Colonna Traiana è un monumento destinato a celebrare la supremazia di Roma su una delle popolazioni barbariche piú ostili all’impero, i Daci. Ultimata nel 113 d.C., la Colonna descrive con una suggestiva sequenza di immagini le due campagne condotte da Traiano contro i Daci del re Decebalo. Tra il 101 e il 102, gli eserciti imperiali costrinsero i Daci ad accettare la condizione di regno cliente di Roma. Piú tardi, tra il 105 e il 106, Traiano sconfisse definitivamente Decebalo: i Daci persero la loro indipendenza e venne creata la provincia romana di Dacia. Naturalmente, sulla colonna abbondano le raffigurazioni dei vinti; tuttavia, come già notava il grande archeologo e storico dell’arte classica Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975), colpiscono la fierezza e la dignità dei barbari, ostinati nemici di Roma, che combatterono tenacemente per difendere la propria libertà. Emerge una forma di «rispetto per il nemico vinto» che si ripropone anche nella diffusione di numerose statue di Daci prigionieri, sconfitti ma ancora orgogliosi e temibili. È interessante sottolineare che anche i Mauri sono rappresentati sulla Colonna Traiana: altri barbari, dunque, che servirono fedelmente l’impero distinguendosi per le loro capacità di formidabili cavalieri. Un rilievo della colonna ne immortala una travolgente carica che mette in fuga lo schieramento avversario. I Mauri vestono una semplice tunica, cavalcano senza sella e sono armati in maniera leggera: una spada o una lancia e un piccolo scudo (vedi foto qui accanto, sulle due pagine). E mentre i Mauri attaccano, il loro capo Lusius Quietus descrive a Traiano il movimento della cavalleria. Entrambi sono su uno sperone roccioso, attorniati dalle insegne e dalla guardia imperiale. La scena è di grande valore storico e simbolico. Tra i «barbari» che vennero e si fermarono a Roma, pochi ebbero gli onori
destinati a Lusius Quietus, che è rappresentato al fianco del principe su uno dei monumenti piú celebrativi della potenza romana, eretto in uno dei luoghi maggiormente evocativi dello splendore di Roma, il Foro di Traiano. Come racconta Cassio Dione (68, 32, 4), Lusius Quietus era un capo dei Mauri, onorato della cittadinanza romana, che aveva iniziato il suo servizio come comandante di un reparto di cavalleria della sua gente. I Romani apprezzavano molto i Mauri per le loro qualità di veloci cavalieri, agili nell’impiego, assai utili nell’inseguimento del nemico. Caduto in disgrazia sotto Domiziano, Quietus era stato poi riabilitato da Traiano che aveva bisogno delle sue capacità di comandante al tempo della prima guerra contro i Daci. Partecipò poi alla seconda guerra con i suoi cavalieri, realizzando grandi imprese. Qualche anno piú tardi, nel 114, Quietus è di nuovo al fianco del principe nelle campagne in Oriente contro i Parti. Nel 116 ebbe l’incarico di reprimere la rivolta ebraica in Mesopotamia. Quietus agí con grande brutalità: nelle fonti ebraiche e cristiane il suo nome è legato al ricordo del crudele annientamento di ogni forma di resistenza all’autorità imperiale. Era dunque un soldato spietato, un uomo che, al di là delle sue origini barbariche, si era rivelato un valente comandante e un fedele servitore del popolo romano e di Traiano. E l’imperatore lo ricompensò. Oltre ad approvare che Quietus venisse immortalato insieme ai suoi Mauri sulla Colonna, Traiano volle onorare il suo capace comandante inserendolo nel rango dei senatori; poi gli concesse il consolato nel 117 e lo inviò come governatore imperiale in Palestina. La brillante carriera di Lusius Quietus era profondamente legata al favore di Traiano; al punto che dopo la morte del principe, Quietus «divenne oggetto di gelosia, fu odiato e venne eliminato».
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Roma, o in altre città, come Ravenna, dove vennero sepolti. Altri tornarono nelle loro terre d’origine dopo molto tempo. In pochi casi, la rottura dei patti portava alla rappresaglia contro i prigionieri. Sono attestati, tuttavia, casi di ostaggi ridotti in schiavitú o giustiziati.
Viaggio senza ritorno Per l’età imperiale esiste un buon numero di documenti relativi al soggiorno a Roma di personaggi di rango provenienti da territori esterni all’impero romano. Insieme a loro sono anche testimoniati i membri del loro seguito, sovente schiavi. Sono prevalentemente ricordati in iscrizioni sepolcrali, poste al momento della loro morte a Roma. Salvo rari casi, non è possibile stabilire con certezza se questi aristocratici soggiornassero a Roma come uomini liberi o in condizione di ostaggi dell’imperatore. Tra i diversi casi attestati attraverso la documentazione epigrafica, ne presentiamo due che ci sembrano alquanto significativi. Appartengono entrambi alla prima età dei Severi (193-235), ma riguardano personaggi molto diversi tra loro per cultura e provenienza. Su una lastrina proveniente da un colombario di Roma, oggi conservata al Palazzo Ducale di Urbino, si legge: «Agli dèi Mani di Memore, figlio di Aurelio Canartha, principe delle genti dei Baquates, che visse 19 anni» (CIL 6, 1800 = ILS 855 = AE 1941, 118). Il giovane Memore era il figlio di un principe dei Mauri, popolazione indipendente che viveva alla frontiera meridionale della Mauretania (oggi Marocco). Perché trascorse l’ultima parte della sua giovane vita a Roma? Non lo sappiamo. Importante, tuttavia, è la datazione presunta del documento, alla prima età severiana (entro l’inverno 199/200).
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Moneta in bronzo battuta a Edessa (Mesopotamia). 212-213 d.C. Al dritto, il profilo laureato dell’imperatore Caracalla; al rovescio, ritratto di Abgar IX Severus.
Lo ricaviamo dalla menzione di suo padre, il principe Aurelio Canartha. Era il capo di una delle tribú dei Mauri che periodicamente confermavano la loro amicizia e alleanza con il popolo romano attraverso una procedura formale che si ripeteva nel tempo. In particolare, i principi dei Mauri convenivano nella città di Volubilis e qui incontravano il governatore romano della Mauretania (vedi foto alle pp. 40-41). Attraverso una cerimonia si stringevano giuramenti e solenni dichiarazioni di amicizia, che venivano poi riportati su iscrizioni chiamate opportunamente arae pacis, altari della pace. Ne furono innalzate molte nel Foro di Volubilis, tra il II e il III secolo. Una di queste iscrizioni risale al 180 e descrive l’accordo tra il padre di Memor, Canartha e il governatore D. Veturio Macrino. Un’altra iscrizione, datata 6 marzo 200, indica che sui Baquates regnava un nuovo signore, Ililasen, di famiglia diversa. Evidentemente, Canartha era morto poco prima; inoltre, il cambio di famiglia al potere indica che, dopo la morte di Memor a Roma, Canartha non aveva altri eredi che potessero subentrare al suo posto. Il soggiorno di Memor si svolse dunque negli ultimi anni del II secolo, tra l’età di Commodo e quella di Settimio Severo. Non possiamo dire che Memor fosse a Roma come ostaggio. Piuttosto, è presumibile che il padre – cittadino romano come indica il gentilizio Aurelius – avesse inviato il figlio nell’Urbe affinché ricevesse una educazione ellenistico-romana e al suo ritorno potesse acquisire il ruolo fondamentale di mediatore tra l’autorità romana e la sua gente. Sapere il latino, conoscere la mentalità dei Romani e vivere secondo le loro consuetudini erano fattori che rafforzavano l’autorevolezza dei capi presso queste e altre genti provenienti
dai confini piú remoti dell’impero. Del resto, l’esperienza del giovane Memor risponde a una esigenza fortemente sentita nei rapporti tra l’impero e i Mauri. Abbiamo infatti un eccezionale e suggestivo documento della cancelleria imperiale dell’epoca di Marco Aurelio e Commodo, che riporta un dossier epigrafico di tre testi relativo a un altro capo delle stesse genti maure al confine meridionale della Mauretania. Si tratta della celebre Tabula Banasitana, trovata nel 1957 e relativa alla gente dei Mauri Zegrenses (vedi foto p. 42). Il documento illustra la volontà del governo imperiale tra il 168 e il 177 di risolvere i
Roma. Particolare di uno dei rilievi dell’arco di Settimio Severo raffigurante un legionario romano con un prigioniero parto.
problemi causati dalle scorrerie delle tribú dei Mauri utilizzando anche gli strumenti di un’accorta diplomazia. Sotto questo punto di vista, la concessione della cittadinanza romana ai capi delle tribú locali rientrava da secoli nelle prassi diplomatiche dei Romani che cercavano – in Mauretania come altrove nelle aree di frontiera – di accrescere la fedeltà all’impero delle élites locali. Tra il 168/169 e il 177, i membri maschi della famiglia che governava gli Zegrenses chiedono alle autorità romane la concessione della cittadinanza romana per la propria moglie e i propri figli. Tanto nel caso di Giuliano senior, quanto nel caso di suo figlio Giuliano iunior, Marco Aurelio risponde positivamente alla richiesta. E anzi, il dossier contiene l’estratto della decisione che approvava la richiesta di Giuliano iunior all’interno del consilium principis del 6 luglio 177: sua moglie Faggura e i figli Giuliana, Massima, Giuliano e Diogeniano (tutti con nome romano, pur non essendo ancora cittadini), ottennero la cittadinanza. Tuttavia, è interessante rilevare che nel primo documento del dossier, quello che concedeva la cittadinanza ai figli di Giuliano senior – tra cui Giuliano iunior – Marco Aurelio aveva accompagnato la sua approvazione con una riflessione che doveva servire da monito al governatore della Mauretania. Pur apprezzando gli sforzi del governatore per consolidare i buoni rapporti con i Mauri, Marco Aurelio invitava per il futuro a valutare attentamente la concessione della cittadinanza a genti tanto lontane dalla cultura e dalla mentalità dei Romani: «Noi abbiamo preso conoscenza della richiesta dello Zegrense Giuliano, che era unita alla tua lettera, e sebbene non sia abitudine concedere la cittadinanza romana a dei membri di queste tribú, se non quando il merito dei servizi resi attiri il favore imperiale, tuttavia dal momento che tu affermi che quest’uomo è uno dei notabili del suo popolo e che egli ha dato prova della sua assoluta fedeltà manifestando la sua sottomissione ai nostri interessi, considerando d’altra parte che noi possiamo pensare che non ci siano presso gli Zegrensi molte famiglie
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La prigionia della profetessa Vèleda ad Ardea
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el mondo dei Germani ad alcune donne era attribuita la capacità di rivelare l’avvenire. Lo afferma Tacito in un celebre passo della Germania (8, 2): «Ritengono che nelle donne vi sia qualcosa di santo e di profetico. Non disprezzano i loro consigli e non ignorano i loro responsi». Prosegue lo storico menzionando una profetessa che era vissuta al tempo di Vespasiano ed era considerata da molti come una sorta di divinità, Vèleda. La vicenda della profetessa Vèleda, vergine del popolo dei Bructeri, è descritta anche dallo stesso Tacito nelle Storie (4, 61 e 65; 5, 24). La donna era rispettata e venerata perché aveva predetto le vittorie dei
Bructeri sui Romani al tempo della rivolta dei Batavi nel 69 d.C. Vèleda aveva incoraggiato con le sue profezie i ribelli, rivelandosi una protagonista nella resistenza ai Romani. E infatti, dopo la vittoria, in segno di riconoscenza e rispetto le vennero inviati dai ribelli doni importanti; a lei fu destinato perfino un prigioniero illustre, Munius Lupercus, comandante di una legione romana, che tuttavia morí prima di arrivare al cospetto della profetessa. Come segno della sua condizione di mediatrice tra gli uomini e gli dèi, Vèleda viveva in un’alta torre e nessuno poteva avvicinarla o rivolgerle la parola. Un membro della sua famiglia
capaci di vantare servizi pari ai suoi, ancorché sia nostro desiderio che moltissimi siano incitati a seguire l’esempio di Giuliano dall’onore che accordiamo a questa casa, noi non esitiamo a concedere la cittadinanza romana, senza che essi debbano lasciare il diritto locale, a lui stesso e anche a Ziddina, sua sposa, e ai loro figli, Giuliano (il nostro Giuliano iunior), Massimo, Massimino, Diogeniano». Evidentemente, la richiesta di Marco Aurelio venne tenuta in debito conto dai governatori della Mauretania. Per questa ragione, probabilmente, dopo il 180 Aurelio Canartha inviò a Roma suo figlio Memor, affinché apprendesse il latino e il modo di vivere dei Romani. Questo soggiorno di studio avrebbe favorito la richiesta di Canartha di avere la cittadinanza romana anche per suo figlio. Ma il destino decise altrimenti. Il giovane Memor morí a Roma diciannovenne, presumibilmente nei primi anni di regno di Settimio Severo, e la
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aveva il compito e il privilegio di portarle le richieste e di ottenere i suoi responsi. La rivolta dei Batavi e dei Bructeri era iniziata nel 69, durante l’anno terribile delle guerre civili a Roma per la successione a Nerone. Con il consolidamento del regime di Vespasiano a Roma, nell’estate del 70 venne inviato in Germania Petillio Ceriale, che ebbe successo nel soffocare ogni opposizione. I Bructeri vennero pesantemente sconfitti. Vèleda fu catturata e deportata dai Romani. Forse nel 77-78 fu condotta a Roma e mostrata al popolo romano. Un fortunato ritrovamento epigrafico è stato ricollegato alla
presenza di Vèleda prigioniera non lontano da Roma. Una iscrizione in greco proveniente dall’Acropoli di Ardea – scoperta nel 1926 e perduta durante il periodo della seconda guerra mondiale – menziona infatti la profetessa (Supplementum Epigraphicum Graecum 1957, 611). Oltre al nome di Vèleda, si parlava anche della venerazione nei suoi confronti delle genti bevitrici dell’acqua del Reno (Rhenopotai). Dal frammentario epigramma si ricostruisce l’esortazione all’imperatore Vespasiano di restituire a Vèleda il suo ruolo di profetessa, evitando che restasse nell’ozio. In particolare si suggerisce di avvalersene per la
sua iscrizione sepolcrale testimonia che ancora non era diventato cittadino romano.
Il prigioniero Abgar IX Il regno orientale di Osroene divenne cliente dell’impero romano a partire dagli anni Sessanta del II secolo d.C. Si estendeva a settentrione della pianura mesopotamica, tra il Tigri e l’Eufrate, in una posizione strategicamente rilevante. Fin dai tempi di Traiano, che l’aveva conquistato nel 116, l’impero romano aveva compreso l’utilità del regno come statocuscinetto tra le province romane e il regno dei Parti. La sua capitale, Edessa (l’odierna Sanliurfa, nella Turchia sud-orientale, n.d.r.), era una fiorente città, luogo di incontro nel quale la cultura ellenistico-romana e quella iranica interagivano con il sostrato locale aramaico e semitico. Proprio al tempo del grande Abgar VIII la città divenne il motore propulsivo dello sviluppo della lingua e della cultura siriaca nella
In basso et utem net laut facient et quam licnomanzia, fugiae officae ovvero la previsione del futuro ruptatemqui attraverso l’osservazione conseque vite es della luce o delle scintille di sae quis deris rehenis aspiciur una lampada accesa. È stato sincte seque con che, dopo dunque ipotizzato nusam fugiteetlaqui la cattura deportazione, i bernate laborest, ut i poteri Romani riconobbero ut aliquam rentus ritenendola della profetessa, magnim capace ullorepra di mediare con gli serro dolum dèi. Non le arrecarono offesa
e la sistemarono in uno spazio consacrato, probabilmente un tempio ad Ardea, a trenta chilometri circa da Roma. Qui Vèleda visse indisturbata, probabilmente fino alla morte; e forse riprese il suo ruolo di interpretazione dei segni divini. Ancora cinquant’anni dopo, ai tempi di Tacito, ne veniva perpetuata la memoria.
Statua raffigurante Vèleda, opera di Laurent-Honoré Marqueste. 1877 circa. Tolosa, Musée des Augustins.
regione. Inoltre, il regno di Edessa adottò il cristianesimo come religione ufficiale, anticipando sotto questo punto di vista di parecchi decenni l’evoluzione religiosa nell’impero romano. Nel 195, dopo la vittoria nella prima guerra partica, Settimio Severo divise l’Osroene in due parti: venne creata una nuova provincia di Osroene, direttamente sotto il controllo dell’impero; nella restante parte, che inglobava la città di Edessa, continuò a sopravvivere il regnum Abgari, cliente del popolo romano. Abgar VIII (176-211) ebbe la possibilità di mantenere nel suo regno una relativa autonomia. Poi, tra la fine del 212 e l’inizio del 213, il nuovo imperatore Antonino Caracalla decise di trasformare la città in una colonia romana. Il re Abgar IX (vedi foto a p. 48) venne convocato a Roma – con un inganno secondo Cassio Dione (77, 12, 12) –, fu deposto e preso prigioniero. La monarchia degli Abgaridi fu cosí abolita. L’ultimo erede al trono di Edessa,
Ma‘nu bar Abgar, mantenne il suo rango di principe fino al 239, ma non divenne mai re. Suo figlio, Aelius Septimius Abgar riebbe il regno per un breve periodo, dal 239 al 242. Poi Edessa tornò a far parte dell’impero romano. La scarsità di informazioni rende complessa l’identificazione di un membro degli Abgaridi sepolto a Roma in età severiana. Un’iscrizione conservata oggi ai Musei Capitolini e proveniente dalla via Flaminia presso Ponte Milvio, ricorda infatti: «Agli dèi Mani. Ad Abgar re degli Osroeni, figlio del principe Prahates, marito benemerente, pose sepoltura Hodda» (CIL VI 1797, cf. p. 3818 = ILS 857). È possibile ipotizzare che questo Abgar sia proprio L. Aelius (Aurelius) Septimius Abgar IX, che al momento della deposizione a Roma era stato imprigionato per ordine di Caracalla. E a Roma, probabilmente ancora nella condizione di prigionieri dell’impero romano, re Abgar e poi suo figlio Severo morirono.
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LA GUARDIA IMPERIALE PREISTORIA
LA GUARDIA IMPERIALE
I GERMANI, CUSTODES DEL PRINCIPE SFRENATI, INSTABILI, INFIDI E MINACCIOSAMENTE BELLICOSI, MA ANCHE DOTATI DI ALCUNE LODEVOLI QUALITÀ, COME IL DISPREZZO DELLE COMODITÀ, IL CORAGGIO E LA TENACIA IN BATTAGLIA: A VEGLIARE SULL’INCOLUMITÀ DELL’IMPERATORE ERA ADDETTO UN CORPO SPECIALE FORMATO IN MASSIMA PARTE DA UOMINI PROVENIENTI DALLE REGIONI DEL RENO…
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umerose sono le testimonianze relative a Germani di condizione libera, originari dall’area renana e transrenana, che vivono a Roma nei secoli dal I al V d.C. In particolare, per il periodo compreso fra il I e il III secolo d.C., accanto a
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qualche personaggio di condizione civile, sono soprattutto attestati Germani arruolati nelle forze armate in servizio nell’Urbe: coorti pretorie ed Equites singulares Augusti, la guardia imperiale a cavallo. La maggior parte di questi individui proveniva dalle regioni a ridosso
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
Germanico davanti ai resti delle legioni di Varo, olio su tela di Lionel-Noël Royer. 1896. Le Mans, Musée de Tessé.
della riva sinistra del Reno. Per condizione giuridica erano dunque peregrini, sudditi non cittadini dell’impero romano. Dal punto di vista culturale, tuttavia, molti erano assai lontani dalla mentalità, dalle tradizioni, dai costumi della cultura ellenistico-romana; erano dunque stranieri a Roma non solo per la loro origine forestiera; ma anche, e soprattutto, per la loro distanza dal modo di vivere dei Romani. L’etnografia romana si nutriva di visioni stereotipate, di clichés che riguardavano le diverse genti dentro e fuori l’impero. Sin dai primi rapporti con i Romani – già dall’epoca dell’invasione dei Cimbri e dei Teutoni alla fine del II secolo a.C. – ai Germani erano associati i caratteri piú consueti della natura barbarica: l’eccesso di sfrenate passioni e di instabilità; l’incapacità di stare ai patti; la brutalità. Tuttavia, rifulgevano anche qualità positive del loro carattere: la tendenza a difendere la propria libertà contro gli abusi dei capi e le minacce esterne; il disprezzo del lusso, delle ricchezze, delle comodità; e, soprattutto, splendide virtú guerriere: indomito coraggio, tenacia in battaglia, capacità di resistenza. La storia dei burrascosi rapporti tra l’impero e le popolazioni transrenane accrebbe l’ammirazione dei Romani per le virtú dei Germani. L’interpretazione della grande rivolta che culminò nel disastro di Quintilio Varo a Teutoburgo, nel 9 d.C., cambiò nel corso degli anni. Si passò da una dura e condivisa condanna del perfido tradimento di Arminio e dei suoi seguaci – che avevano rinnegato la lealtà a Roma – alla celebrazione della lotta di un popolo che voleva salvare la sua libertà contro il giogo dei Romani, sfruttando il coraggio e la conoscenza del terreno per opporsi alla potenza soverchiante dell’impero. Come dimostra la suggestiva rappresentazione di Tacito – che troviamo nella Germania e negli Annali –, i Germani continuarono a far paura per la loro minacciosa bellicosità; allo stesso tempo, suscitavano l’ammirazione di molti Romani; tra questi anche imperatori come Caligola e Caracalla; e, ancora molti anni dopo, Costantino e Teodosio, che aprirono ai Germani
anche la carriera nei vertici superiori dell’esercito. Non sorprende, dunque, che in età imperiale la presenza a Roma dei Germani sia concentrata soprattutto nei corpi militari della città. Tra il I e il III secolo d.C. i Germani vengono arruolati tra i pretoriani e gli equites singulares Augusti. Naturalmente, potevano giungere al loro seguito familiari e altri individui, liberi o schiavi, che poi restavano a Roma.
Dalla foce del Reno Per l’età giulio-claudia conosciamo un reparto speciale: i Germani corporis custodes. Oltre a diverse testimonianze nelle fonti storiografiche, esistono alcune decine di iscrizioni sepolcrali che riportano i nomi di circa sessanta Germani vissuti a Roma al servizio degli imperatori, da Tiberio a Nerone. Dalla documentazione emerge la prevalenza di guerrieri originari dai territori sottoposti al controllo di Roma, in particolare Ubii (della zona di Colonia) e Batavi. Il numero di questi ultimi – provenienti dalla regione della foce del Reno – era tanto elevato che sovente il loro nome viene utilizzato come designazione collettiva per indicare anche gli appartenenti ad altre tribú germaniche. Alcuni militari provenivano anche dalle regioni oltre il confine del Reno. Erano uomini liberi? Si discute sulla condizione giuridica di questi individui. È possibile che in una prima fase, sotto Tiberio e Caligola, il gruppo dei Germani custodes fosse formato da individui di diversa condizione: uomini liberi, liberti e servi dell’imperatore. Le cose cambiarono al tempo di Claudio e Nerone. Quando, in seguito, vennero congedati da Galba nel 68, i Germani custodes erano sicuramente uomini liberi: Svetonio (Galba 12), infatti, racconta che l’imperatore impose loro di far ritorno in patria. L’ordine di Galba non avrebbe avuto senso se i Germani fossero stati schiavi. Come indica anche il loro nome, il compito dei Germani corporis custodes era quello di affiancare pretoriani ed Equites singulares Augusti nel vegliare sull’incolumità del principe. Già Giulio Cesare aveva arruolato guerrieri di stirpe germanica in occasione della guerra civile,
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LA GUARDIA IMPERIALE
apprezzandone le capacità come nuotatori. Fu Augusto a creare per primo un reparto di Germani al suo personale servizio (manus Germanorum). Dopo il disastro di Teutoburgo, il principe ordinò ai Germani di uscire da Roma. Probabilmente furono richiamati in città dopo qualche tempo: nel turbolento periodo della successione ad Augusto, nel 14 d.C. un manipolo di Germani è al seguito del figlio di Tiberio, Druso Minore, inviato a sedare una ribellione legionaria in Pannonia. Sotto Caligola la guardia germanica godette di particolare favore. I Germani ricambiarono l’imperatore con la loro devozione e fedeltà. Scrive Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche 19, 119126) che, alla notizia dell’uccisione di Caligola, il 24 gennaio del 41, i Germani reagirono con brutalità e si misero alla ricerca degli assassini, massacrando quanti, innocenti o colpevoli, si trovarono sul loro cammino.
Furono divisi in unità chiamate decurie e composte da circa 30 uomini. Erano preparati a combattere sia a piedi, come fanti, sia a cavallo. Probabilmente, la durata del loro servizio era fissata in venticinque anni, come nel caso dei militari della flotta, degli Equites singulares Augusti, dei soldati negli Auxilia. Nei giorni convulsi che videro il rovesciamento di Nerone, i fedeli Germani furono tra gli ultimi ad abbandonare il principe. Quando si resero conto che tutto era finito, misero a sacco
Ritrovamenti archeologici
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Bramsche Oberesch
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Secondo la linea riformatrice che caratterizza tutto il suo principato, fu Claudio a inquadrare in maniera sistematica i guerrieri di stirpe germanica al servizio del principe. Non conosciamo il numero di militari che formava il reparto; probabilmente tra 500 e 1000 uomini.
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Grande Palude
Ritrovamenti archeologici
L’inquadramento in reparti
Qui accanto ricostruzione ipotetica degli avvenimenti succedutisi nel corso della battaglia di Teutoburgo, combattuta nel 9 d.C. Nella pagina accanto, in alto Detmold (Germania). L’Hermannsdenkmal (Monumento ad Arminio), opera dell’architetto e scultore Ernst von Bandel. 1833-1875.
Nella pagina accanto e qui sotto la Germania in età augustea, con i principali centri romani e l’indicazione del sito di Kalkriese, presunto luogo della battaglia di Teutoburgo.
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Molti Romani, disorientati dalla confusione della battaglia, fuggirono a nord, ma trovarono la morte nella vicina palude Sentiero principale
I Romani tentano un’ultima e disperata difesa, provando a trincerarsi in un campo di fortuna fatto di carriaggi Sentiero deviato dai Germani
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Grande Palude La colonna romana, formata da 3 legioni (XVII, XVIII e XIX), 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliare (per un totale di oltre 20 000 uomini), si allungava nella foresta di Teutoburgo per circa 3,5 Km.
ietro il terrapien o ani d erm G 0 0 0 e n l la selva i /7 erman 00 0G 50 700 / 0 500 7000/10 000 Germani nascosti nella selva
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REGNO DI MAROBODUO
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Carnuntum
Graz
Lione Aosta
Spostamento di truppe romane in età augustea Campi legionari Città romane Postazioni militari
Nîmes
Città moderne
Mar Tirreno
Mare Adriatico Corsica
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LA GUARDIA IMPERIALE Il dolore di un veterano trace
U
na suggestiva iscrizione sepolcrale in versi del II secolo d.C. (oggi conservata a Roma, in Palazzo Barberini) restituisce un frammento della vita e della condizione degli Equites Singulares a Roma e delle loro famiglie. L’iscrizione è posta da un ex militare, Marco Aurelio Diascento, in memoria di sua moglie, Paterna, morta a Roma a 29 anni. Anche Antiochiano, figlio della coppia, si unisce al ricordo della madre. Diascento è un militare proveniente, con molta probabilità, dalla Tracia; evidentemente, in una fase della sua carriera, fu trasferito in Germania. Qui conobbe Paterna e la prese come moglie. Per i suoi meriti di servizio, Diascento fu poi trasferito a Roma, forse nei reparti degli Equites singulares Augusti. Portò con sé la giovane moglie. Al termine del servizio – Diascento è già veteranus – la coppia rimase a Roma. Quando Paterna morí, Diascento volle
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appunto onorarla con una struggente iscrizione in versi, nella quale si ricorda l’origine germanica della donna: «Agli dèi Mani. Giace qui Paterna, dopo 29 anni di vita, di casta e santa fedeltà (…) meritò come dono di ricevere dal marito, che la ama, un sepolcro degno della sua condotta insieme a una iscrizione a suo nome: “la terra di Germania mi ha creata, infelice, che ora ricopre la terra d’Italia. Ora vi prego, se venerate i Mani, che tutti voi possiate pregare che la terra sia lieve al mio nome. Gli dèi benevolenti e potenti vi assicurino un destino sempre felice e onorato, in modo che possiate da morti lasciare bene i vostri figli”. Marco Aurelio Diascento, veterano del nostro Augusto, insieme a Marco Aurelio Antiochiano fece realizzare questa iscrizione per la sua incomparabile moglie, che ne fu certamente degna» (CIL VI 3452).
Pretoriani (a sinistra) ed equites singulares raffigurati su un fregio dell’arco di Costantino in origine facente parte del Grande Fregio di Traiano. II sec. d.C.
perfino i suoi appartamenti privati. Poco tempo dopo, Galba li congedò e li rinviò in patria. Quasi nulla conosciamo della loro vita a Roma. Erano guerrieri che venivano da territori molto lontani e non avevano legami familiari o di parentela nell’Urbe. Nelle iscrizioni sepolcrali a noi pervenute vengono menzionate solo in tre casi donne che provvedono alla sepoltura del militare defunto in servizio. In un caso, quello del decurio e liberto imperiale Tiberius Claudius Ductus, è la moglie (coniunx) Luria Paezusa a provvedere alla sepoltura (CIL VI 8811). A partire dall’età di Claudio, è attestato un collegium Germanorum, presieduto da un curator. Si tratta appunto di un’associazione di Germani che aveva principalmente scopi funerari: curare la sepoltura di uomini soli a Roma, che potevano contare solo sulla pietà dei loro compagni d’arme. Sotto Tiberio e Caligola, il cimitero dei Germani si trovava nell’area della via Appia. Sotto Claudio sepolture sono attestate anche all’inizio della via Aurelia, nei pressi della Villa Doria Pamphili, in terreni forse acquistati con il denaro che i militari versavano al collegio. Sotto Nerone, anche un’area lungo la via Portuense, tra il Tevere e gli Horti di Cesare, divenne luogo per l’ultimo riposo dei Germani. Data la vicinanza tra le due aree, si è ipotizzato che le caserme dei Germani custodes fossero appunto tra la via Portuense e l’inizio della via Aurelia. Sottoposti alla rigida disciplina del servizio al principe, i Germani custodes non ebbero modo di integrarsi a Roma; rimasero ai margini della società, quasi completamente isolati e temuti dalla popolazione per la loro brutalità.
Equites singulares Augusti e pretoriani Alcuni decenni dopo lo scioglimento dei Germani corporis custodes da parte di Galba, Traiano decise di ripristinare una guardia
A destra stele funeraria di un Batavo che aveva militato nella guardia imperiale al tempo di Nerone. I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. In basso busto dell’imperatore Caligola. 37-41 d.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
dell’imperatore formata da Germani costituendo nuovi reparti di cavalleria chiamati Equites singulares Augusti. I bacini di reclutamento furono gli stessi dei Germani corporis custodes: dunque prevalentemente Ubii e Batavi. La presenza di questi ultimi fu talmente elevata che, come già era accaduto in età giulio-claudia, per tutta l’epoca imperiale gli equites vennero anche chiamati Batavi. La guardia a cavallo venne da Traiano acquartierata in un campo fortificato nell’area del Laterano. L’unità fu portata da 1000 a 2000 uomini da Settimio Severo (193211), che tuttavia integrò massicciamente i ranghi con individui provenienti dalle regioni della Pannonia e della Tracia. Conosciamo molti Equites singulares grazie alle loro iscrizioni sepolcrali. Pur dichiarando la provenienza dall’area germanica, quasi tutti questi cavalieri portano un nome greco o latino. Evidentemente, al momento dell’arruolamento era richiesto loro di abbandonare l’antico nome germanico e prendere una formula onomastica romana. Possiamo intendere questa prassi come l’inizio di un percorso di integrazione che per
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LA GUARDIA IMPERIALE
Le caserme degli «stranieri»
I
Castra peregrina erano caserme situate sul Celio, a Roma, in un’area che si estende tra la basilica di S. Stefano Rotondo e l’odierna piazza della Navicella. Gli alloggiamenti erano destinati alla sistemazione di peregrini. Il nome fa riferimento a «stranieri», perché i Castra ospitavano legionari distaccati a Roma dagli eserciti provinciali per eseguire incarichi speciali. Tra questi, v’erano in particolare i frumentarii.
Destinati inizialmente a servizi di rifornimento, questi soldati furono poi utilizzati come corrieri militari e in compiti di polizia. Divennero infine uomini al servizio diretto del principe per missioni di diversa natura. Questo corpo speciale venne infine sciolto da Diocleziano, ma i Castra peregrina continuarono a esistere anche oltre l’età tetrarchica. Oltre ai semplici soldati, conosciamo anche i centurioni dei
militari attivi nel centro dell’impero doveva andare di pari passo al servizio. Del resto, la rappresentazione degli Equites nelle loro iscrizioni sepolcrali o nei rilievi giunti fino a noi non si distingue per l’inserimento di caratteri etnici. Gli Equites sono raffigurati come soldati romani, equipaggiati con armi romane: nell’iconografia nulla sembra rinviare alla loro provenienza dalle regioni piú remote della frontiera imperiale o, addirittura, dalle terre dei barbari. Un richiamo a lontane origini riaffiora piuttosto nei culti praticati da questi individui. Infatti, accanto alle divinità tradizionali del pantheon romano, ancora durante il servizio a Roma alcuni Equites conservano la devozione alle divinità delle loro terre d’origine. Compaiono cosí nel loro omaggio i nomi di divinità di ambito celtico-germanico: Menmanhia, Epona e le Suleviae. Anche nella guardia pretoriana di stanza a Roma la presenza dei Germani è ben attestata fino al III secolo d.C. Le forme e le modalità del servizio sono analoghe a quanto abbiamo visto per il reclutamento degli Equites singulares Augusti. Nel caso dei pretoriani, i migliori soldati dell’impero venivano scelti e inviati a Roma per garantire la sorveglianza all’imperatore. Cosí, per esempio, in età severiana, forse al tempo di Caracalla (211-217), un’iscrizione
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frumentarii. Altri soldati alloggiati nei Castra erano gli speculatores. La presenza nei Castra peregrina anche di reparti dei Mauri e degli arcieri osroeni, sicuramente attivi nella guardia dell’imperatore tra il II e il III secolo, è un’ipotesi non confermata dalla documentazione. Nei Castra erano praticati anche diversi culti e di particolare importanza è la scoperta di un mitreo attivo tra la seconda metà del II e l’inizio del V secolo.
ricorda la carriera di Vitalis, pretoriano della settima coorte (AE 1990, 752). A porre l’iscrizione furono i familiari di Vitalis, che era natione Suebus, dunque appartenente alla gente dei Suebi Nicrenses, popolazione insediata lungo il corso del Neckar. Inizialmente, Vitalis prestò il suo servizio nella legione Prima Minervia, stanziata nella Germania inferior. Da qui poi scelto e inviato a Roma nelle coorti pretorie. Militò per 13 anni, morendo infine a 42 anni nell’Urbe.
I «leoni» di Caracalla L’8 aprile del 217 Antonino Caracalla decise di visitare l’antico tempio di Luno, presso Carre. L’imperatore si trovava in Mesopotamia, in procinto di riprendere la guerra contro i Parti. Lasciando Edessa, cavalcò portando al seguito pochi uomini. Tra questi, il centurione Giulio Marziale. Durante una breve sosta, Marziale si avvicinò a Caracalla e lo assassinò. Si era stretto in congiura con il prefetto del pretorio Marco Opellio Macrino, che aveva saputo della decisione di Caracalla di ucciderlo a
Ritratto di Caracalla, da Roma, villa sulla via Cassia. 212-215 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
Pianta dell’area del Celio, a Roma, con, in evidenza, il sito dei castra peregrina, dalla Forma Urbis realizzata dall’archeologo Rodolfo Lanciani e pubblicata in 46 tavole fra il 1893 e il 1901.
breve. Marziale, del resto, era stato maltrattato da Caracalla, il quale, oltre tutto, ne aveva da poco fatto giustiziare il fratello. Racconta la nostra fonte, Cassio Dione (78, 5-6), che Marziale s’avvicinò a Caracalla come per dirgli qualcosa, poi, improvvisamente estrasse un pugnale e lo trafisse. Mentre l’imperatore s’accasciava, Marziale si diede alla fuga, ancora con il pugnale in mano. Fu però visto da un barbaro (uno «Scita») della guardia imperiale, che lo abbatté con un colpo di lancia. Continua Cassio Dione: «Caracalla, infatti, aveva armato Sciti e Celti, non solo di condizione libera ma anche schiavi, che aveva sottratto a uomini e donne, e li teneva con sé, riponendo fiducia piú in loro che nel resto dei soldati; e insieme ad altre cose li onorava con il grado di centurioni e li chiamava “leoni”». Sotto il nome di «Sciti» e «Celti», Cassio Dione allude a popolazioni di stirpe barbarica provenienti dall’area del Basso Danubio (Sciti) e dalla Germania (Celti). I leones, dunque, erano in prevalenza Germani, inquadrati con altri barbari in una unità dell’esercito romano sotto il diretto comando dell’imperatore. Provenivano da territori posti alla frontiera o fuori dal mondo romano. Sappiamo infatti che dopo la morte di Caracalla, e la breve parentesi di Macrino (aprile 217-giugno 218), furono congedati dal nuovo imperatore Elagabalo (218-222) che
diede loro ordine di tornare in patria. Sulla via del ritorno, dalla Mesopotamia al Reno, i Germani trascorsero l’inverno tra il 218 e il 219 in Bitinia, dando luogo a disordini. La predilezione e la fiducia di Caracalla per i suoi leones confermano la piú generale attrazione di Caracalla per i Germani. Riferendosi alle campagne del 213 e 214, un altro storico poco distante dai fatti, Erodiano, racconta che Caracalla «si accattivò tutti i Germani stanziati su quel confine, facendoseli amici, al punto che li prese con sé come ausiliari o li fece sue guardie del corpo, scegliendo i piú valorosi e prestanti. Spesso, abbandonando la toga romana, indossava vesti germaniche, e si mostrava in giro con i mantelli trapunti d’argento che si usano in quei paesi, Inoltre si metteva in testa parrucche bionde, acconciate con la capigliatura dei Germani. Di ciò rallegrandosi i barbari, gli si erano profondamente attaccati» (Storia dell’impero dopo Marco 4, 7, 3-4; traduzione di Filippo Cassola). L’affetto di Caracalla per i suoi soldati di stirpe germanica lo portò a condividerne la vita e i costumi. Secondo dinamiche che si ritrovano poi anche in età tardoantica, si tratta di un atteggiamento che destò insofferenza e malcontento nella grande maggioranza dei soldati. Pretoriani e legionari sentivano infatti che l’imperatore preferiva i barbari a loro.
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INVASIONI E MIGRAZIONI PITTI
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LE INVASIONI IN EUROPA DAL IV ALL’VIII SECOLO E I REGNI ROMANO-BARBARICI
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Spilla aquiliforme decorata a cloisonné in oro e granati, dal Tesoro di Domagnano (Repubblica di San Marino), costituito, probabilmente, dal corredo funebre di una donna ostrogota. Fine del V-metà del VI sec. d.C. circa. New York, collezione privata. Secondo il costume femminile germanico, le fibule, collegate da pendenti di collana, erano poste specularmente sulle spalle a reggere il mantello.
Impero romano al tempo di Diocleziano (284-305)
Divisione dell’impero da parte di Teodosio (395)
Migrazioni e invasioni dei popoli barbari (IV-VI sec.)
L’età delle invasioni
Unni
Alamanni
Vandali, Alani, Suebi
Franchi
Ostrogoti
Angli e Sassoni
Visigoti
Britanni
Longobardi
Scoti e Pitti
Burgundi
Spedizioni marittime dei Vandali
275 Franchi e Alemanni invadono la Gallia 357 Vittoria di Giuliano sugli Alemanni ad Argentoratus
Migrazioni e invasioni musulmane (VII-VIII sec.) Direttrici musulmane Incursioni marittime arabe
Territori musulmani
374/5 Vittoria degli Unni sui Goti di Ermanrico in Ucraina
Limiti amministrativi al 476 dopo la deposizione di Romolo Augustolo
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380 Gli Ostrogoti si stabiliscono in Pannonia
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376-382 I Visigoti invadono la Penisola balcanica
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402 Il generale Stilicone ferma i Visigoti a Verona
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406 I barbari varcano il Reno
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410 Alarico, re dei Visigoti, saccheggia Roma
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412-418 I Visigoti si stabiliscono in Gallia meridionale
Trebisonda Costantinopoli
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451-452 Gli Unni invadono l’Occidente
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429-439 I Vandali conquistano l’Africa del Nord
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421 I Franchi si insediano nella Gallia settentrionale
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407-410 I Romani abbandonano la Britannia
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455 Sacco di Roma da parte dei Vandali di Genserico 455-476 I Vandali dominano il Mediterraneo centrale e la Sardegna 476 Fine dell’impero romano d’Occidente 489-493 Teoderico, re degli Ostrogoti, invade l’Italia
In alto due fibule ad ansa simmetriche, dalla sepoltura 300 di Saint-Martin-de-Fontenay nel Calvados (Normandia, Francia nord-occidentale). 480-490 d.C. Caen (Francia), Musée de Normandie. A destra spada da parata, con fodero e impugnatura decorati in oro con un tipico motivo unno a squame, dal sito di Pannonhalma, nell’antica provincia romana della Pannonia, in Ungheria. Secondo quarto del V sec. d.C. Széchenyi (Ungheria), Xantus János Múzeum.
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ALARICO A ROMA PREISTORIA
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ALARICO A ROMA
IL GRANDE OLTRAGGIO NELL’ESTATE DEL 410 SI VERIFICÒ QUELLO CHE I CONTEMPORANEI INTERPRETARONO COME UN EVENTO DI PORTATA APOCALITTICA: LA CADUTA DI ROMA, CITTÀ DISARMATA E INDIFESA, A OPERA DEI VISIGOTI, SI CONSUMÒ IN TRE GIORNI, IN UN CLIMA DI BRUTALE VIOLENZA E OFFESA ALLE PERSONE E AI MONUMENTI. MA DI CHI FU, DAVVERO, LA RESPONSABILITÀ POLITICA DI QUELLA TRAGEDIA?
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Nella pagina accanto Il sacco di Roma da parte dei barbari, di JosephNoel Sylvestre. 1890. Sète, Musée Paul Valéry. Nel 410 d.C. i Visigoti di Alarico saccheggiarono Roma per tre giorni e l’evento ebbe un’enorme risonanza emotiva.
ll’inizio del V secolo, poco prima del sacco di Alarico, Roma era la piú grande e popolosa metropoli dell’impero romano. Metropoli, ovviamente, rispetto alle dimensioni delle altre città del mondo romano. Ed era già una cittàmuseo: un’affascinante galleria di simboli e tesori che – grazie ai suoi monumenti, ai suoi palazzi, alle sue piazze – custodiva la memoria storica della grandezza dei Romani, del loro impero, della loro storia piú che millenaria. Anche se l’imperatore non vi abitava piú da oltre un secolo, era certamente la città piú ricca e prospera dell’impero. Un luogo di sublime bellezza, di opulenza, di lusso, caratteri congeniali alla presenza della piú facoltosa aristocrazia dell’impero: i membri delle grandi famiglie che componevano l’assemblea senatoria dell’Urbe. Le loro dimore erano come città in miniatura, splendidamente adorne di giardini, di statue, di ninfei per ostentare la potenza e il blasone della nobiltà familiare. La ricchezza dei grandi senatori proveniva dalle loro proprietà sparse per tutta l’Italia centro-meridionale e per tutto il Mediterraneo. Il loro enorme prestigio era magnificamente amplificato dalle relazioni con altre aristocrazie, con altre comunità urbane – che aspiravano ad averli come patroni – con le corti d’Occidente e d’Oriente, dove sovente ricoprivano anche importanti incarichi politici. Spettava a loro, su delega imperiale, il controllo amministrativo della metropoli e la tutela delle
sue splendide vestigia; e la plebe urbana e la numerosa popolazione si rimettevano alla loro tutela e riponevano fiducia nella loro benevolenza, soprattutto nei momenti di incertezza ed emergenza. Su questo mondo, tra l’autunno del 408 e la fine d’agosto del 410, si abbatté l’esasperazione dei Visigoti.
Il primo assedio Dopo la morte di Teodosio il Grande (17 gennaio 395), «amico della pace e del popolo dei Goti», iniziò presto a vacillare l’intesa tra impero romano e Visigoti, che aveva garantito per un ventennio la pace dopo il disastro di Adrianopoli (9 agosto 378). Dopo aver abbandonato le terre concesse loro da Teodosio, i Visigoti si spostarono verso la Tracia e la Grecia. Li guidava un nuovo re, Alarico, un principe cresciuto nell’impero romano e un guerriero ambizioso; allo stesso tempo, un mediatore capace tra il governo imperiale e le esigenze della sua gente. E queste esigenze erano l’insediamento su nuove terre piú fertili, la pace e un incarico militare nell’esercito, adeguato al rango di Alarico. L’imperatore d’Oriente, Arcadio, e il suo governo rifiutarono ogni concessione e, dopo alterne vicende che lo portarono anche a prendere Atene, Alarico si volse verso l’Occidente. Tra il 401 e il 402 i Goti sconvolsero la Pianura Padana. Furono fermati dal generale Stilicone che riuscí a batterli prima a Pollenzo poi a Verona. Anche Stilicone era un barbaro al servizio dell’impero e, soprattutto,
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ALARICO A ROMA
un abile politico e mediatore; seppe sapientemente alternare, negli anni successivi, pressione militare e capacità diplomatiche per tenere a freno i Visigoti. Nell’agosto 408, tuttavia, la fazione della corte piú ostile ai barbari prevalse e Stilicone fu arrestato e giustiziato, senza alcuna opposizione da parte dell’imperatore Onorio. La morte di Stilicone indebolí anche la posizione di Alarico e dei suoi Visigoti. Dopo aver cercato invano un’intesa con il nuovo governo, Alarico invase l’Italia e si diresse senza esitazione contro Roma. Vi giunse nel novembre del 408: iniziò in questo modo un periodo di diversi mesi che vide Roma sottoposta alla minaccia di una rappresaglia barbarica, nel caso di fallimento delle trattative con l’impero. A partire dal tardo autunno del 408 i Visigoti assediarono la città. Nonostante il loro numero e la loro aggressività, non erano in grado di prendere la città, difesa dal potente circuito delle Mura Aureliane, che pochi anni prima Stilicone aveva fatto consolidare (402). Si accamparono dunque intorno alla cerchia muraria, in attesa che la fame e le malattie inducessero gli abitanti ad arrendersi. Le sofferenze per la numerosa popolazione della città furono atroci, dal momento che Alarico aveva bloccato il Tevere e ogni via di rifornimento. Dopo aver mangiato di tutto, la massa della popolazione era allo stremo. Fu a questo punto che i ricchi senatori trattarono, inviando emissari ad Alarico. Venne pagato un ingente riscatto per la libertà della città: una parte delle risorse fu sborsato dai ricchi senatori; per trovare quanto restava furono saccheggiati anche i templi delle divinità.
I ripensamenti Al di là del ricco bottino, che accontentava la sua gente, Alarico sperava che la resa di Roma convincesse il governo imperiale a soddisfare le richieste dei Goti: un accordo di pace, terra e viveri, il rango di supremo comandante imperiale per il re dei Visigoti. In cambio, i barbari avrebbero ripreso il loro ruolo di alleati dell’impero (foederati). Furono inviati
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ambasciatori del senato a Ravenna e, poiché Onorio sembrava d’accordo, Alarico tolse il blocco a Roma e poi partí con i suoi in direzione dell’Etruria. Dopo lunghi e difficili scambi diplomatici, Onorio, però, rifiutò con sdegno di cedere alle richieste dei Visigoti, interrompendo le trattative. Tutto sembrava indicare che la violenza fosse l’unica via. Alarico abbandonò la sede dei colloqui, Rimini, e si volse nuovamente contro Roma. Durante la marcia, tuttavia, ebbe un ripensamento e volle tentare un’ultima carta per la pace. Scrive al riguardo lo storico Zosimo (5, 50, 2; 51, 1): «Alarico, tuttavia, si pentí della decisione di aggredire Roma e inviò i vescovi delle città (da lui attraversate) come ambasciatori presso Onorio, per esortarlo a non permettere che la città che aveva regnato su gran parte della terra per piú di mille anni, fosse devastata dai barbari, e che edifici di notevole grandezza venissero distrutti dal fuoco nemico. Accettasse piuttosto l’imperatore di concludere la pace secondo condizioni alquanto moderate». Il mondo sembra ormai alla rovescia. È Alarico che frena il suo impulso di rappresaglia e, mosso dalla moderazione, tenta ancora una volta di trovare un’intesa diplomatica con l’ottuso imperatore: «Erano queste le sagge e oneste proposte di Alarico e tutti ammirarono concordemente la moderazione dell’uomo». Nella tradizione delle fonti romane non si elogia solo la moderazione di Alarico, che si comporta in modo molto diverso dalle forme attribuite alla violenza dei barbari cercando invece la pace; colpisce anche la sincera ammirazione di Alarico per Roma, per la sua maestà, per la sua bellezza, per la sua storia. Nonostante la moderata offerta di Alarico, (segue a p. 68) Missorio (o disco) di Teodosio I il Grande (imperatore dal 379 al 395 d.C.), raffigurato assiso in trono tra i suoi due co-imperatori Arcadio e Valentinano II (od Onorio), mentre consegna un codice a un funzionario. 388 d.C. circa, Madrid, Real Academia de la Historia.
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ALARICO A ROMA
Una città splendida, ma dove nessuno è immortale
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all’epoca di Diocleziano (284305) e poi di nuovo a partire da Costantino (306-337), Roma non fu piú residenza dell’imperatore. Gli imperatori del IV secolo erano spesso in movimento, e in ogni caso per i loro soggiorni piú lunghi preferirono a Roma altre città: Costantinopoli e Antiochia, in Oriente; Treviri, Milano o Aquileia in Occidente. Esiste, tuttavia, documentazione di un soggiorno del figlio di Costantino, Costanzo II, a Roma, tra il 28 aprile e il 29 maggio del 357. La fonte piú importante sulla visita imperiale nella città è Ammiano Marcellino, uno storico contemporaneo agli eventi, che proprio a Roma scrisse la sua opera alla fine del IV secolo (Storie 16, 10, 1-17; 20). Costanzo II venne a Roma e rimase abbagliato
dallo splendore della città, dall’opulenza dell’aristocrazia senatoria, dalla vitalità della sua popolazione. Visitò la curia, dove si rivolse al senato; i rostri, da dove parlò al popolo. Salí felice al Palatino e assistette agli spettacoli nel Circo Massimo. Tra i dignitari dell’impero al suo seguito v’era pure Ormisda, un principe persiano che era venuto esule nell’impero d’Oriente per scampare alle lotte interne alla corte dei Sasanidi. Nella contrapposizione tra Romani e Persiani, Ormisda poteva svolgere un ruolo prezioso per fare pressioni sul trono sasanide. Inoltre, era un principe di alto lignaggio, degno di trovarsi al fianco dell’imperatore dei Romani. Ricorda Ammiano (16, 10, 15) che,
giunto davanti al Foro di Traiano, Costanzo II ammirò attonito la bellezza del complesso monumentale «degno di ammirazione anche da parte degli dèi». Si rendeva conto l’imperatore che non avrebbe potuto costruire qualcosa di simile altrove, ma sperava di poter almeno imitare la statua equestre di Traiano. Ormisda, che era al suo fianco, gli disse scherzando: «Prima, mio imperatore, dai ordine di costruire una stalla simile a questa, in modo che il cavallo che vuoi costruire possa starvi bene come quello che vediamo». Anche Ormisda rimase stupefatto dallo splendore di Roma. Ricorda Ammiano come a chi gli chiedesse cosa pensasse della città, rispondeva di aver soprattutto apprezzato il fatto che pure a Roma gli uomini morissero.
Ricostruzione virtuale del Foro di Traiano. Nella piazza del grandioso complesso, inaugurato nel 112 d.C., si stagliava una colossale statua equestre dell’imperatore, che suscitò l’ammirazione del principe persiano Ormisda.
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La ricchezza dei senatori
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limpiodoro di Tebe, in Egitto, fu diplomatico, poeta e filosofo al servizio dell’impero d’Oriente. Compose un opera storica, giunta a noi in estratti frammentari, che rappresenta una celebrazione dell’unità politica dell’impero ormai diviso in due parti, quella d’Occidente, sotto Onorio (395-423), e quella d’Oriente, sotto Arcadio (395-408) e Teodosio II (408-450). Per questa ragione nei testi a noi pervenuti vi sono molte informazioni utili sulle regioni occidentali. In particolare, Olimpiodoro conosce bene l’Italia e Roma, che probabilmente visitò. La sua descrizione della ricchezza di Roma e dei palazzi della sua nobilità è una testimonianza importante dello splendore della città ancora nei primi decenni del V secolo. Si legge dunque dal testo di Olimpiodoro (frammenti 43 e 44 dell’edizione a cura di Karl Wilhelm Ludwig Müller): «Ciascuno dei grandi palazzi di Roma conteneva al suo interno tutto quello che può essere contenuto in una città di piccole dimensioni: un ippodromo, piazze, templi, fontane, vari edifici termali. (...) Una sola casa è una città, e la città contiene mille case. (...) Molte nobili famiglie romane ricevevano ogni anno dalle loro proprietà circa quattromila libbre d’oro di rendita – a parte il grano, il vino e tutti gli altri prodotti, che al prezzo di vendita fruttavano il triplo della rendita in oro. La rendita per le famiglie romane di livello inferiore alle prime ammontava a mille o millecinquecento libbre. Probo, figlio di Olimpio, che ricoprí la carica di pretore sotto l’usurpatore Giovanni (423-425), consumò milleduecento libbre d’oro per questo scopo. L’oratore Simmaco, che era un senatore di media condizione, prima della presa di Roma (410) spese duemila libbre durante la pretura del figlio Simmaco. Massimo invece, uno dei senatori piú ricchi, gettò via per la pretura di suo figlio quattromila libbre d’oro. I pretori finanziavano feste pubbliche che duravano sette giorni». Una delle valve del Dittico dei Simmachi e dei Nicomachi, illustri famiglie senatoriali di Roma. Fine del IV sec. Londra, Victoria & Albert Museum. Il prezioso manufatto (l’altra metà del quale è custodita a Parigi) fu probabilmente realizzato in occasione del matrimonio fra membri delle due casate.
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ALARICO A ROMA
Milano
Concordia
Marzo 402
Aquileia Verona
Pavia
Pollenzo 6 aprile 402
Emona
Estate 402
Bologna
Ravenna
Firenze
Roma
401-402 d.C. Prima invasione dei Visigoti
Aquileia
Milano Pavia
Verona Bologna Ravenna Fiesole
3 agosto 406
Roma
A sinistra, dall’alto le direttrici delle discese in Italia dei Visigoti e degli Ostrogoti.
405-406 d.C. Invasione degli Ostrogoti
Milano
Verona
Concordia
Pavia Bologna Firenze
Emona
Aquileia
Ravenna
Agosto 410
Roma
408-410 d.C. Seconda invasione dei Visigoti e sacco di Roma
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l’imperatore e i suoi ministri rifiutarono ottusamente ogni trattativa. Giunto per la seconda volta davanti alla mura di Roma, nella tarda estate del 409, Alarico si trovava a un bivio: assediare nuovamente la città per espugnarla o tentare un’intesa con il senato, per fare pressione su Onorio. Il terrore di un nuovo assedio e delle sue atroci conseguenze favorí una singolare alleanza tra il barbaro re e il potente senato di Roma. Attalo era probabilmente il figlio di Publio Ampelio, prefetto dell’Urbe nel 370-372. Tra i suoi amici e corrispondenti v’era Quinto Aurelio Simmaco, che lo descrive come colto
Le Mura Aureliane presso Porta Ardeatina. Il poderoso circuito, fatto erigere dall’imperatore Aureliano tra il 270 e il 275, era stato fatto consolidare da Stilicone nel 402.
esponente dell’aristocrazia senatoria romana. Non conosciamo la sua carriera fino all’inizio del 409. Nella turbolenta situazione che si creò dopo l’eliminazione di Stilicone da parte dell’imperatore Onorio, Attalo divenne responsabile delle finanze imperiali (comes sacrarum largitionum), impegnandosi – come scrive lo storico Zosimo (5, 44-45) – nella requisizione dei beni dei seguaci di Stilicone. Seguí dopo poco la carica prestigiosa di prefetto dell’Urbe. Nell’autunno del 409 Attalo fu proclamato imperatore con l’appoggio del senato e di Alarico, re dei Visigoti. Fu Alarico a volere questa eccezionale «alleanza» tra un
popolo di barbari alla ricerca di pace e di una sistemazione e la ricca aristocrazia senatoria di Roma. Anche se dalla fine del III secolo (con la parentesi dell’usurpazione di Massenzio, 306312) Roma non era piú residenza imperiale, la città continuava a ospitare la piú potente aristocrazia dell’impero romano. Come già accennato, i senatori non erano soltanto gli eredi del senato di Roma, che aveva governato il mondo prima di cedere alla supremazia del principe; erano anche gli esponenti di un gruppo esclusivo di opulenti proprietari terrieri e patroni, che avevano relazioni e vincoli in Italia, in Africa e in altre province dell’impero.
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ALARICO A ROMA
Inoltre, il loro prestigio fu alimentato in età tardoantica dal coinvolgimento nelle piú elevate e prestigiose cariche civili dell’impero. Un altro aspetto fondamentale era il controllo che i membri dell’aristocrazia senatoria esercitavano sulla popolazione di Roma, che restò per tutto il IV e gran parte del V secolo, la piú grande e popolosa metropoli del mondo antico. Al punto che nell’assetto amministrativo dell’Italia tardo-antica – uniformata al modello provinciale secondo le intenzioni di Diocleziano – Roma si contrapponeva per importanza e ricchezza alle città scelte dagli imperatori come residenze durante il loro soggiorno: Milano e Aquileia nel IV secolo; Ravenna nel V. Alarico conosceva bene questa situazione. La sua scelta politica di muoversi con il suo popolo tra Roma e Ravenna al fine di raggiungere i suoi risultati deriva da questa consapevolezza. Evidentemente, la scelta di un accordo con il senato nell’autunno del 409 derivò dalla speranza di costituire un potere alternativo a quello di Onorio, legando il destino dei Visigoti a quello di una usurpazione che poteva cambiare gli scenari in Italia e in Occidente. Gli interessi di Alarico, del resto, coincidevano con quelli del senato. Tutti volevano il ristabilimento dell’ordine e della pace. Il senato appoggiò dunque compatto la nomina di Prisco Attalo. Conseguentemente agli accordi – e alla strategia di questa «inedita» alleanza tra barbari e senato – Alarico fu nominato supremo comandante del nuovo imperatore (magister utriusque militiae). Era necessario prendere il controllo militare dell’Italia centrosettentrionale. In particolare, Alarico doveva assicurarsi la libertà di movimento sulle strade che portavano verso il Nord, in modo da dirigere il suo attacco contro Onorio, chiuso a Ravenna. Da parte sua – per quanto testimoniato dalle fonti letterarie
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Solido aureo battuto al tempo di Attalo Prisco, che nel 409 fu proclamato imperatore con l’appoggio del senato e di Alarico. Al dritto, il busto di Attalo; al rovescio, la Vittoria con globo e lancia e legenda che esalta il ruolo di Roma come invicta e aeterna.
e da altri documenti – Attalo riuscí a guadagnare consenso. Fece coniare nella zecca dell’Urbe monete d’oro e d’argento che celebravano il suo principato ed esaltavano il ruolo di Roma come invicta e aeterna. Tra l’altro, confermò la sua intenzione di mantenere saldamente il potere, promettendo perfino di prendere sotto il suo controllo l’Egitto e le province dell’impero d’Oriente. Minacce che possono sembrare eccessive, ma che, secondo quanto ci testimoniano le fonti, vennero prese in affannata considerazione dalle corti di Ravenna e Costantinopoli. Sulle monete dell’usurpatore si celebra anche la victoria Augusti: una chiara allusione ai preparativi di una grande spedizione militare che portasse alla resa dei conti tra Attalo e Onorio.
I buoni uffici di un prefetto Nella primavera del 410, l’esercito dell’usurpatore – che era in realtà quello visigoto – si mosse al comando di Alarico in direzione di Ravenna. Alla spedizione partecipava anche Attalo. Quando il tracollo dell’impero di Onorio sembrava ormai imminente, la situazione cambiò. Onorio beneficiò della intelligente diplomazia del suo prefetto del pretorio Giovio, dell’arrivo di viveri dall’Africa per Ravenna assediata, di inaspettati aiuti militari che vennero da Costantinopoli. Inoltre, Attalo e il senato avevano ostacolato il progetto di Alarico di prendere il controllo dell’Africa, per garantire l’arrivo dei rifornimenti per la popolazione e i mercati di Roma. Mentre Alarico era impegnato nell’assedio di Ravenna, il responsabile dell’Africa, Eracliano, leale a Onorio, bloccò i porti. Sotto la minaccia della carestia a Roma, il regno di Attalo vacillava. Il popolo di Roma, affamato e sull’orlo della disperazione, protestò e gli chiese nel
Circo di fissare un prezzo per la carne umana, in previsione dell’imminente penuria di viveri. Prendendo atto della sconfitta politica, Alarico intavolò nuove trattative con il governo di Onorio. Per propiziare l’intesa diplomatica, che Alarico cercava, fu necessario sbarazzarsi di Attalo. Nel luglio del 410, a Rimini, Attalo fu deposto e sottoposto a pubblica umiliazione; il suo governo fu congedato. Come gesto di buona volontà, il diadema e le sue insegne imperiali furono restituiti a Onorio. Attalo rimase in custodia dei Visigoti insieme a suo figlio Ampelio. In realtà, questa condizione gli salvò la vita. Non fu infatti ceduto all’inesorabile castigo che lo attendeva a Ravenna. Continuò per anni a far parte del seguito di Alarico, prima, e del suo successore Ataulfo, poi. Fu, dunque, in veste di consigliere che accompagnò i Visigoti nella loro peregrinazione, destinata a durare ancora per anni; e tornò utile al re Ataulfo: nel 414, infatti, ricoprí nuovamente il ruolo di usurpatore per breve tempo. Poi i Visigoti trovarono l’accordo con Onorio. Attalo fu nuovamente deposto, consegnato a Onorio e punito con moderazione. Subí infatti la mutilazione della mano sinistra e venne esiliato sull’isola di Lipari.
L’ultimo oltraggio
Valva del dittico in avorio di Stilicone, realizzato in onore del suo primo consolato, raffigurante il generale armato di lancia e scudo, su cui compaiono i ritratti di Onorio e Arcadio. 400 d.C. circa. Monza, Tesoro del Duomo.
Torniamo all’estate 410. Grazie alle buone premesse, il rapporto tra Alarico e il governo imperiale di Ravenna sembrava volgersi alla distensione. Alarico e Onorio si incontrarono personalmente in un luogo non lontano da Ravenna. Improvvisamente, mentre le parti trattavano, un contingente imperiale assalí il campo di Alarico. Il re dei Visigoti interruppe il dialogo diplomatico. Questa volta non v’erano piú spazi per un accordo. Sotto la spinta dell’ala piú bellicosa della sua aristocrazia, Alarico marciò senza ripensamenti su Roma e alla fine di agosto del 410 si accampò con l’esercito fuori Porta Salaria. Alla fine, evidentemente, le esitazioni e gli intrighi del governo imperiale costrinsero Alarico – che aveva per anni svolto il ruolo di mediatore – a cedere ai sentimenti di collera e rivalsa dei suoi guerrieri. Dopo il fallimento
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ALARICO A ROMA
della diplomazia, i barbari passarono alle armi e si gettarono sulla preda piú ambita e indifesa. Roma era come uno scrigno di tesori per i Visigoti, tanto piú attraente perché nessun esercito era schierato a sua difesa. Circa un secolo prima Costantino aveva completato il programma di smilitarizzazione della città, avviato già sotto la tetrarchia. All’inizio del V secolo solo l’enorme circuito delle mura si ergeva a baluardo della città, ma alla fine d’agosto del 410 Alarico non fu costretto a un nuovo assedio e trovò invece il modo di entrare forse grazie a uno stratagemma, forse grazie al tradimento di chi, dentro la città, voleva evitare le miserie e i lutti di un lungo assedio.
Un’immagine superata La caduta di Roma ebbe un impatto drammatico sui contemporanei, soprattutto su quelli piú lontani dall’Urbe. Tra Occidente e Oriente vi furono voci, di diversa fede religiosa e orientamento culturale, che descrissero l’evento sollevando la caduta di Roma a simbolo delle piú tetre angosce apocalittiche. I Visigoti entrarono da Porta Salaria nel pomeriggio del 24 agosto e uscirono il 27, avviandosi verso sud sulla via Appia. Il sacco si consumò per tre giorni in un clima di brutale violenza, rapina, offesa alle persone e ai beni. Tuttavia, per meglio comprendere l’impatto dell’evento, occorre precisarne alcuni aspetti. In primo luogo, bisogna considerare con attenzione l’atteggiamento di Alarico. Come abbiamo visto, la rappresentazione di Alarico come un barbaro feroce e sanguinario è banale, ed è stata ormai superata negli studi piú recenti. Piuttosto, Alarico alternava la sua posizione di re e capo militare a quella di mediatore tra il suo popolo e i Romani – tanto il governo imperiale quanto i ricchi senatori di Roma. Era infatti cresciuto tra i Romani, e aveva servito sotto le insegne imperiali; conosceva dunque gli usi e le abitudini dei Dittico in avorio del senatore Flavio Anicio Petronio Probo con raffigurato Onorio, imperatore romano d’Occidente dal 395 al 423 d.C. 406 d.C. circa. Aosta, Museo del Tesoro della Cattedrale.
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
Romani; inoltre, come illustrano alcuni passi nelle fonti, aveva piena consapevolezza dell’eccezionale valore di Roma e del suo splendore. Anche in occasione dei tre giorni del sacco, il re dei Visigoti si adoperò per risparmiare alla città e alla sua popolazione inutili stragi e devastazioni. Senza dubbio, Alarico non poteva fermare la furia dei suoi uomini, lanciati al saccheggio di dimore private ed edifici pubblici. Tuttavia, alcune fonti testimoniano che il re formò squadre di uomini a lui fedeli per garantire un servizio d’ordine. In particolare, Alarico trovò un’intesa con la Chiesa di Roma. Intorno ad alcuni edifici – come per esempio le grandi basiliche di S. Pietro e S. Paolo – furono create aree protette dove la massa della popolazione poteva rifugiarsi, evitando di cadere vittima dei saccheggiatori. Forse Alarico agí spinto dalla necessità di ottimizzare i tempi del sacco. Senza l’intralcio della popolazione, i suoi guerrieri potevano agire piú speditamente nei pochi giorni destinati al saccheggio. Ma è possibile anche pensare che la sua decisione non sia stata orientata solo da ragioni di feroce pragmatismo. E, infatti, le fonti riferiscono che – per quanto possibile – Alarico mostrò rispetto anche per i sacri corredi e per le tombe dei martiri. Del resto, era un cristiano, di fede ariana. Gli eventi, tuttavia, precipitarono, uscendo del tutto fuori dal controllo del re. Cosí una fonte piú tarda – il Liber pontificalis – testimonia che la chiesa principale di Roma, la basilica del Salvatore (oggi S. Giovanni in Laterano) venne saccheggiata dai Visigoti. I saccheggiatori vi fecero irruzione depredando enormi quantità di argento dalle decorazioni donate alla chiesa da Costantino il Grande. Dopo tre giorni, Alarico raccolse i suoi guerrieri. I Visigoti uscirono da Roma e si misero in viaggio lungo la via Appia alla volta della Sicilia. Probabilmente, Alarico sperava di raggiungere l’Africa, regione opulenta e periferica, dove piú facile sarebbe stata una sistemazione per il suo popolo. Come sappiamo, non vi arrivò mai e i Goti furono costretti a risalire la Penisola e spostarsi nella Gallia del Sud.
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VALENTINIANO E I VANDALI PREISTORIA
VALENTINIANO E I VANDALI
IL TRIONFO DI GENSERICO
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INTORNO AL 450, VALENTINIANO III DALLA SUA RESIDENZA RAVENNATE FA RITORNO A ROMA, MA LA DECISIONE NON METTE IN SICUREZZA LA CITTÀ. CHE SOLO CINQUE ANNI PIÚ TARDI SUBIRÀ UN DEVASTANTE SACCHEGGIO. PERPETRATO, QUESTA VOLTA, DA UNA NUOVA, EMERGENTE POTENZA, QUELLA DEI VANDALI
I
l sacco dei Visigoti del 410 non cambiò il volto e la storia dell’Urbe. L’impatto delle distruzioni sulla città fu tutto sommato modesto, anche grazie alla pronta reazione delle autorità e delle ricche famiglie aristocratiche che si diedero da fare per ripristinare il decoro urbano. E in effetti, i segni della violenza e della devastazione sparirono quasi ovunque o vennero abilmente occultati. Abbiamo varie testimonianze al riguardo, che provengono da voci diverse: lo storico Olimpiodoro, pagano e diplomatico al servizio dell’imperatore d’Oriente; e lo storico cristiano Orosio, autore di una Storia universale contro i pagani che, insieme alla Cronaca di Gerolamo, rappresentò un modello di riferimento per la storiografia universale cristiana del Medioevo. Abbiamo anche le tracce archeologiche, con la conferma di lavori di intervento e ripristino o, nelle aree piú colpite, di risanamento e riqualificazione. Abbiamo infine una prova molto significativa della splendida ripresa di Roma. Dall’epoca di Diocleziano e dei primi tetrarchi (284-306) – con l’eccezione di Massenzio (306312) – Roma non aveva piú ospitato il principe e la sua corte. Al tempo di Diocleziano, i tetrarchi dovevano viaggiare per l’impero, dapprima per risolvere i gravi problemi che minacciavano le frontiere imperiali; poi, per verificare la buona riuscita delle riforme avviate. Residenze
Ravenna. L’interno del mausoleo commissionato nella prima metà del V sec. da Galla Placidia, figlia di Teodosio il Grande e sorella dell’imperatore Onorio, morta a Roma (dove venne seppellita) nel 450.
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VALENTINIANO E I VANDALI
imperiali erano dunque alcune grandi città che si trovavano in posizione strategica, lungo le principali vie di comunicazione: in Italia, Milano e Aquileia. Neppure Costantino, rimasto unico imperatore nel 324, era tornato a Roma; e i suoi successori nel IV secolo, fino a Teodosio, avevano preferito Costantinopoli, Antiochia, Milano o Treviri come sede della loro corte. All’inizio del V secolo, l’imperatore Onorio (395423), che governava in Occidente, decise di muovere la sua residenza da Milano, troppo esposta alle incursioni barbariche, a Ravenna, che, grazie alla posizione sul mare, offriva maggiori possibilità di protezione. La situazione cambiò con il successore di Onorio,
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Medaglione in oro di Galla Placidia, dal Tesoro di Velp. 425 d.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Valentiniano III (425-455). Principe fanciullo, Valentiniano passò la sua infanzia e adolescenza alla corte di Ravenna. Poi, durante gli anni Quaranta del V secolo, intensificò i suoi soggiorni a Roma; e finalmente, intorno al 450, decise di spostarvisi e ne fece la sua dimora.
Per consolidare il potere Il ritorno stabile di Valentiniano III nell’Urbe non si spiega solo con la rinnovata prosperità di una città che, dopo aver riparato i danni del sacco del 410, era ancora la piú grande dell’impero, almeno in Occidente. Valentiniano scelse Roma anche per la necessità di consolidare il suo potere sull’Italia, l’unica regione dell’impero d’Occidente che restava integralmente controllata dal governo imperiale. Dal 406, infatti, la Gallia era priva di un confine sicuro. Non esisteva piú un dispositivo di controllo del Reno. Nelle province galliche si erano già insediati Visigoti, Burgundi, Franchi; e terre un tempo prospere erano costantemente minacciate dagli attacchi dei barbari. Alla metà del V secolo, la Gallia era un campo di battaglia, dove gli ultimi eserciti d’Occidente contendevano ai re barbarici il controllo delle città. Anche in Spagna, l’impero doveva fronteggiare la presenza dei barbari. E molto peggiore era la situazione dell’Africa romana. Le piú ricche province dell’impero d’Occidente – Proconsolare, Byzacena, gran parte della Numidia – erano cadute dal 442 sotto il dominio dei Vandali. Il loro re, Genserico, aveva conquistato Cartagine, splendida capitale dell’Africa romana, e vi si era insediato.
A Valentiniano restavano solo i territori della Mauretania. L’Italia era dunque l’ultimo baluardo dell’impero d’Occidente e la necessità di controllare la piú ricca aristocrazia della Penisola, quella di Roma, spinse Valentiniano a spostarsi da Ravenna. L’arrivo del principe, della sua corte e, probabilmente, di parte dell’amministrazione e dell’esercito, dovette accrescere la ricchezza della città che, tuttavia, ancora risplendeva per il prestigio del suo passato. Per tutto il IV secolo, infatti, il senato aveva gelosamente custodito la maestà monumentale di Roma.
Medaglione tardo-romano in vetro dorato, inserito nella Croce di Desiderio (VIII-IX sec.). Brescia, Museo di Santa Giulia. Vi sarebbero ritratti Galla Placidia (al centro), con i figli Valentiniano e Giusta Grata Onoria.
Con le sue piazze, i suoi fori, gli edifici, le statue, Roma era di una bellezza inarrivabile. Tanto splendore, come abbiamo visto, era stato sottoposto a un violento ma limitato saccheggio dei Visigoti, preceduto da un periodo di assedi e instabilità a partire dall’autunno del 408. D’altra parte, le testimonianze epigrafiche relative al V secolo insistono sugli sforzi fatti per restaurare edifici in rovina o pericolanti, immersi in contesti di grave degrado; o per aumentarne perfino la bellezza grazie a costosi interventi. Nonostante i segni del declino in alcune zone dell’Urbe, il
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VALENTINIANO E I VANDALI
La breve parabola del piccolo Teodosio
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ondotta via da Roma come ostaggio dopo il sacco del 410, la giovane Galla Placidia, figlia di Teodosio il Grande e sorellastra di Onorio, accompagnò i Visigoti nella loro peregrinazione dall’Italia alla Gallia. E, nel gennaio del 414, il re dei Visigoti Ataulfo si uní in matrimonio con lei. Da ostaggio, la giovane principessa si trasformava in regina dei Visigoti. L’obiettivo politico di Ataulfo era evidente: grande sarebbe stata la pressione diplomatica esercitata da Placidia sul fratello per ottenere un buon accordo a vantaggio dei Visigoti. Lo storico Olimpiodoro ricorda che le nozze, celebrate a Narbonne, furono una bella festa per Romani e barbari. E dal matrimonio nacque presto un figlio. Nel gennaio del 415, Placidia diede infatti alla luce un maschio, che venne chiamato Teodosio. Il neonato portava nel
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suo sangue l’appartenenza alla stirpe regia dei Visigoti e la discendenza da Teodosio il Grande. Anche nel nome del bambino, Ataulfo e Placidia vollero vi fosse un richiamo al grande imperatore che aveva trovato un’intesa tra Romani e barbari. Per i Visigoti, ancora a distanza di oltre un secolo, la memoria di Teodosio il Grande era legata alla sua politica di pace. Cosí lo chiama Iordanes, storico dei Goti: amator pacis generisque Gothorum, «colui che amava la pace e la stirpe dei Goti». Il destino volle altrimenti: il bambino morí poco dopo e, a breve distanza, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 415, anche Ataulfo venne assassinato. Entrambi, padre e figlio, furono sepolti a Barcellona. Dopo alcune vicissitudini, Galla Placidia fu nuovamente sposata al generale
Flavio Costanzo, e divenne madre dell’erede al trono imperiale, il futuro Valentiniano III. Tuttavia, Placidia non dimenticò la memoria della creatura nata dall’unione con Ataulfo. A distanza di molti anni, nel 450, chiese e ottenne dal figlio la possibilità di riesumare il bambino. Poi l’urna con i resti del piccolo principe romano-barbarico fu portata a Roma e sepolta con grandi onori nel mausoleo di famiglia, costruito da Onorio come luogo di sepoltura a ridosso della tomba di Pietro. Ricorda una fonte (Continuazione di Reichenau del Chronicon di Prospero, a. 451) che il feretro fu accompagnato fino al mausoleo dalla madre, l’imperatrice Galla Placidia, da papa Leone Magno e dai potenti senatori di Roma. Di lí a poco, l’imperatrice ed ex regina dei Visigoti seguí il suo primo figlio nel sepolcro (27 novembre 450).
governo imperiale e l’aristocrazia si impegnarono, per quanto possibile, nel conservare e ripristinare – almeno in parte – il decoro dell’assetto urbano (ornatus civitatis), lo splendore di una città che viene costantemente esaltata, in questi decenni, come Urbs aeterna. Nelle stesse iscrizioni celebrative degli interventi si fa riferimento allo sforzo di contrastare il degrado di una metropoli enorme e fragile. Nel frattempo cresceva anche un’altra «Roma», quella della committenza cristiana, non piú relegata alla periferia della città. E ancora spettacolari erano le ville della proprietà imperiale nell’area suburbana.
I Vandali alle porte Valentiniano III tornò stabilmente a Roma verso la fine degli anni Quaranta, spinto anche dalla necessità di tenere sotto controllo la minaccia vandalica. Dal punto di vista diplomatico, dal 442 i rapporti erano pacifici; ma la presenza dei barbari a poco distanza dall’Italia inquietava il
Nella pagina accanto disegno di Maarten van Heemskerk che mostra l’Obelisco Vaticano e la nuova basilica di S. Pietro in costruzione. A ridosso della tomba dell’apostolo era sorto il mausoleo di Onorio in cui furono sepolti Galla Placidia e il piccolo Teodosio. In basso L’incontro di Leone Magno con Attila, affresco di Raffaello Sanzio (1483-1520) e aiuti. 1513-1514. Città del Vaticano, Palazzi Apostolici Vaticani, Stanza di Eliodoro.
governo imperiale. L’ascesa dei Vandali era stata sorprendente. Guidati dal loro re Genserico, un capo temerario, spregiudicato e molto intelligente, essi avevano cambiato in pochi anni il loro destino. Braccati dai Visigoti e dagli eserciti imperiali, avevano rischiato di essere cancellati dalla storia durante il loro soggiorno in Spagna (416-418). Per questo si unirono agli Alani e ad altre popolazioni barbariche e lasciarono la Penisola iberica. Sbarcarono in Africa nella primavera del 429 e, approfittando delle contese tra generali imperiali, riuscirono a raggiungere le fertili terre della Numidia, dove si insediarono per alcuni anni intorno a Ippona come federati, alleati dell’impero (435-439). Poi, improvvisamente, ecco uno degli arditi e risoluti «colpi di mano» di Genserico: quando nessuno dubitava dell’amicizia dei Vandali, Genserico invade le regioni piú ricche dell’Africa, in Proconsolare, e prende Cartagine, il 19 ottobre 439. È questa la data di inizio dell’èra dei Vandali e il momento di fondazione del loro regno, che
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durò per cento anni. Privo di forze per reagire, soprattutto di navi, Valentiniano fu costretto a trattare. Nel 442 a Genserico vennero riconosciuti i territori conquistati e il regno dei Vandali divenne una realtà politica di grande importanza. Dominava il Mediterraneo centrale, poteva contare su una potente flotta mercantile e, all’occorrenza, militare, agiva in piena autonomia rispetto all’impero romano. Genserico venne onorato del titolo di amico e alleato del popolo romano; a suggello dell’alleanza, il principe Unerico, figlio di Genserico, venne inviato per qualche tempo in Italia, forse a Ravenna, forse a Roma.
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Medaglione in oro e smalti, attribuito a Eudossia Licinia, figlia di Teodosio II, moglie di Valentiniano III e imperatrice d’Occidente. Arte bizantina. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Fu durante questo soggiorno che si arrivò a un fidanzamento tra uno dei possibili eredi al trono dei Vandali e una figlia di Valentiniano III, la giovane Eudocia. Dall’unione dei due poteva nascere un re che avrebbe saldato in sé la dinastia imperiale di Valentiniano e Teodosio il Grande con la dinastia reale degli Asdingi di Genserico.
Morte di un principe inquieto L’accordo funzionò per anni, e Vandali e impero d’Occidente vissero in pace. Poi, nel settembre 454, in uno scatto di esasperazione Valentiniano uccise personalmente Aezio, il
Due sicari per vendicare il magister
A
Giovanni di Antiochia si deve una storia universale in forma di cronaca (Historia chronike), un racconto che procede da Adamo fino alla sua epoca, dunque fino alla prima età di Eraclio (610-641). Pur scrivendo a Costantinopoli, grande è il suo interesse alle vicende dell’Occidente, soprattutto per l’epoca convulsa che portò alla fine dell’impero romano. Pur essendo giunta in frammenti, la sua opera è preziosa, perché Giovanni attinge a fonti molto ben informate. Le sue notizie sulla morte di Valentiniano III sono molto dettagliate e suggestive. Racconta, infatti, Giovanni (fr. 293.1) che il lungo conflitto tra Valentiniano e il suo magister Aezio si concluse con un gesto criminale. Il 21 settembre 454, sul Palatino, l’imperatore convocò una riunione con i suoi massimi collaboratori. Andò anche Aezio. Quando il magister iniziò a parlare della situazione fiscale, la collera del principe esplose incontenibile. Sostenuto dai suoi eunuchi, Valentiniano si gettò sul magister e lo uccise colpendolo ripetutamente sulla testa. Ordinò che il cadavere di Aezio fosse lasciato insepolto nel Foro, alla vista di tutti, e si riuní con il senato, lanciando minacce. L’inaudita scena dell’imperatore che, nel chiuso del palazzo, assassina il suo piú potente comandante, lasciò attoniti gli altri cortigiani e perfino gli uomini piú vicini a Aezio. Ma propositi di
vendetta legarono molti in una congiura contro il principe. Si decise di uccidere Valentiniano. Del delitto si incaricarono due barbari, i goti Optila e Traustila. Erano uomini fedeli e vicini a Aezio, che servivano comunque nella guardia di Valentiniano III. Infatti, dopo lo scioglimento della guardia pretoriana e degli Equites singulares Augusti, tra i reparti che ebbero il compito di sorvegliare sulla sicurezza del
principe vi furono alcune migliaia di soldati appartenenti alle cosiddette Scholae palatinae. Si trattava per lo piú di temibili guerrieri di stirpe barbarica, che prestavano il loro servizio alla corte imperiale. Quando Valentiniano III decise di tornare a Roma, le unità delle Scholae palatinae lo seguirono. Optila e Traustila approfittarono della
fiducia del principe per ordire il loro complotto. Il 16 marzo del 455 fu la data scelta per la resa dei conti con Valentiniano III. Racconta Giovanni di Antiochia (fr. 293.1): «Trascorsi non molti giorni, l’imperatore decise di fare una cavalcata in Campo Marzio con poche guardie, e con Optila e Traustila. Sceso da cavallo, il principe si stava preparando al tiro con l’arco, quand’ecco che subito si fecero sotto Optila e i suoi uomini, sguainarono le spade che tenevano sospese ai fianchi e si lanciarono all’assalto. Optila colpí Valentiniano alla tempia, e mentre quello accennava a voltarsi per vedere chi lo avesse colpito, di nuovo gli sferrò un fendente sul viso e lo abbatté. Traustila intanto uccise l’eunuco Eraclio, poi entrambi corsero dal senatore Massimo, avendo preso con sé il diadema e il cavallo dell’imperatore. Quelli che erano presenti alla scena rimasero attoniti, sia per l’incredibile audacia, sia pure per la fama guerriera di costoro, e l’impresa riuscí loro senza pericolo». L’assassinio di Valentiniano III fu dunque realizzato da due barbari in servizio nella sua guardia a Roma e si consumò in una delle ville suburbane della proprietà imperiale. Verosimile è l’ipotesi che il luogo della morte del principe vada localizzato nella zona presso il grande complesso archeologico Ad duas Lauros, lungo la via Labicana.
Rovescio di un solido aureo di Valentiniano III, imperatore dal 425 al 455, con il sovrano raffigurato in atto di calpestare un serpente a testa umana, mentre regge una croce e un globo sormontato da una Vittoria.
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VALENTINIANO E I VANDALI Le reliquie di un antico potere
N
elle intenzioni di Genserico, il grande sacco del giugno 455 rispondeva a precisi obiettivi politici. Nei secoli, attraverso le conquiste Roma aveva accumulato tesori e capolavori d’arte che abbellivano i suoi spazi. Erano trofei e segni concreti della sua gloria e della sua egemonia sul mondo. Nelle sue strategie di razzia, Genserico puntò a spogliare deliberatamente la bellezza di Roma. Procopio di Cesarea, storico molto attento anche alle forme e ai simboli del potere, ci riferisce di un episodio avvenuto molti anni dopo, quando il generale dei Romani d’Oriente sfilò a Costantinopoli nel trionfo sui Vandali da poco sconfitti (primavera 534). Racconta Procopio che nel bottino portato da Cartagine a Costantinopoli: «C’era anche argento, del peso di molte migliaia di talenti, e una grande fortuna derivante dagli oggetti del tesoro regio, dal momento che Genserico aveva spogliato il Palatino a Roma, come si è narrato nel libro precedente. Tra questi oggetti v’erano pure quelli degli Ebrei che Vespasiano, figlio di Tito, aveva portato a Roma insieme ad altri dopo la conquista di Gerusalemme. Uno tra gli Ebrei vide queste cose e avvicinando uno di quelli che erano nella cerchia dell’imperatore disse: “credo che sia sconveniente trasferire queste ricchezze nel palazzo di Costantinopoli. Non è infatti possibile che questi oggetti siano in un luogo diverso da quello dove li pose in origine Salomone re degli Ebrei. Per questa ragione, infatti, Genserico espugnò il palazzo dei Romani e ora l’esercito romano ha espugnato quello dei Vandali”. Quando l’imperatore ascoltò queste cose, ebbe timore e fece inviare rapidamente tutte queste cose nei luoghi sacri dei cristiani a Gerusalemme» (Guerra vandalica 2, 9, 5-9). Genserico considerò il sacco del 455 come un’occasione per trasferire l’enorme ricchezza e bellezza di Roma
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alla sua nuova capitale, Cartagine. Il trasferimento corrispondeva simbolicamente al passaggio dell’egemonia (translatio imperii) sul Mediterraneo occidentale dall’impero romano al nuovo regno dei Vandali e degli Alani. Secondo la mentalità del tempo, il possesso dei segni del potere e delle antiche reliquie della potenza di Roma e di altre genti legittimava le aspirazioni dei nuovi re che si erano divisi le spoglie dell’impero romano d’Occidente. Non a caso, lo stesso Procopio ricorda che già i Visigoti, nel 410, avevano portato via oggetti che appartenevano al tesoro di Salomone. Dopo il disastro di Vouillé nel 507 e il trionfo dei Franchi sui Visigoti sconfitti, Clodoveo re dei Franchi inviò i suoi uomini alla ricerca del tesoro regio: «Dal momento che prevalsero in questo scontro, i Germani uccisero la maggior parte dei Visigoti e il loro sovrano Alarico II. I Franchi occuparono e tennero la maggior parte delle Gallie, e assediarono con grande impegno Carcassonne, poiché ritenevano che vi si trovasse il tesoro regio, che Alarico il vecchio aveva preso nei tempi antichi al momento del sacco di Roma. Tra queste ricchezze v’erano anche oggetti appartenuti al re degli Ebrei Salomone, meravigliosi alla vista. Smeraldi ornavano la maggior parte di questi oggetti, che i Romani in antico avevano preso da Gerusalemme» (Guerra gotica 1, 12, 39-41). Attribuendo all’investitura divina la legittimazione del loro nuovo potere, Goti, Vandali e Franchi condividevano evidentemente il valore del tesoro di Salomone come sacro simbolo del potere. Il possesso di queste potenti reliquie, che erano appartenute ai rappresentanti della prima monarchia per grazia divina, quella ebraica, erano considerati pegno e garanzia di legittimità e stabilità. Attraverso questi oggetti, infatti, si creava una linea di diretta
successione con Salomone e i re d’Israele. Per questa esigenza, i re barbari che vennero a Roma per conquistarla prestarono grande attenzione a recuperare parte del tesoro che Vespasiano e Tito avevano strappato a Gerusalemme dopo la conquista del 70 e consacrato nel Foro della Pace. Oggetti che venivano custoditi con massima cura nel tesoro regio, come dimostrano le informazioni di Procopio sul tesoro dei Vandali a Cartagine e su quello dei Visigoti a Carcassone.
suo potente generale. Ne scaturí una vendetta da parte dei seguaci di Aezio. Lo stesso Valentiniano III fu assassinato il 16 marzo del 455 nella sua villa suburbana Ad duas Lauros, sulla via Labicana. Subentrò come imperatore a Roma Petronio Massimo, ricco e potente senatore. Per consolidare la sua autorità, Massimo pensò di unirsi con la giovane vedova di Valentiniano, Licinia Eudossia; estese le sue strategie matrimoniali anche a una delle figlie di Valentiniano, che avrebbe dovuto sposare suo figlio Palladio. Tanto sul piano della politica
Genserico e i Vandali invadono Roma, olio su tela di Karl Pavlovich Brjullov. 1833-35. Mosca, Galleria Tretyakov. Si noti, a destra, il trafugamento della menorah, il candelabro a sette bracci, già razziato a Gerusalemme da Tito.
mediterranea, quanto sul piano dei rapporti privati tra famiglie, era un clamoroso rovesciamento degli accordi presi tra Valentiniano e Genserico. Accordi che del resto erano venuti meno, secondo la visione di Genserico, con la morte del legittimo Augusto. Sollecitato dalla situazione, Genserico scelse di approfittarne per una nuova temeraria impresa. Forse spinto anche da una richiesta di Licinia Eudossia, che non voleva l’unione con Massimo e considerava il re dei Vandali unico difensore della sua famiglia, Genserico mise in
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VALENTINIANO E I VANDALI
mare una grande flotta e condusse i suoi guerrieri e gli alleati mauri verso le coste del Lazio. La flotta dei Vandali giunse al largo di Ostia e Porto a fine maggio del 455. Quando si sparse la notizia che i barbari si avvicinavano a Roma, la città cadde nel panico. Tutti cercarono di mettersi in salvo. L’imperatore Petronio Massimo fu assassinato mentre tentava di lasciare Roma; l’autorevolezza dei potenti senatori a nulla giovò in una situazione di imminente catastrofe; anche sulle truppe imperiali – che ancora a marzo sono attestate e presenti in città – non abbiamo notizie. Sembrava che nessuno avesse la forza e il coraggio di opporsi a Genserico e ai suoi guerrieri.
Leone Magno replica il «miracolo» E quando tutto sembrava perduto, fu invece il vescovo di Roma, il papa Leone, che uscí incontro a Genserico. Uomo di grande autorevolezza, ed esperto nelle trattative con i barbari, Leone aveva già salvato la città. Aveva infatti fatto parte di una prestigiosa ambasceria che qualche anno prima, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 452, aveva raggiunto Attila re degli Unni presso i suoi accampamenti sul Mincio (vedi foto a p. 79), convincendolo a non calare verso Roma. Di nuovo, all’inizio di giugno del 455, Leone Magno incontrò il potente Genserico. I due trovarono un accordo. Inaugurando una prassi che altre volte salverà Roma dal disastro, il papa e il re dei barbari decisero il destino della città. Le fonti ricordano che Leone ottenne la salvezza della città, ovvero dei suoi abitanti. In cambio, il vescovo garantí campo libero ai saccheggiatori. Racconta un contemporaneo, Prospero di Aquitania: «Genserico si astenne tuttavia da incendi, stragi, torture. Perciò, per quattordici giorni Roma fu spogliata delle sue ricchezze con sicura e libera ricerca, e furono trascinati a Cartagine molte migliaia di prigionieri, come piacque a ciascuno per età o per capacità, insieme con l’imperatrice e le sue figlie» (Cronaca 1375). Per quattordici lunghi giorni, dal 2 al 16 giugno 455, i Vandali saccheggiarono
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Nella pagina accanto mosaico funerario a soggetto cristiano dalla tomba di una bambina a Tabarca (l’antica Thabraca, Tunisia). IV-V sec. Tunisi, Museo del Bardo. In basso fibbia a placca per cintura e anello con iscrizione, dal tesoro di Koudiat Zaateur. Produzione vandalica, secondà metà del V-inizi del VI sec. Cartagine, Institut National du Patrimoine de la République Tunisienne.
Roma. Anche rispetto agli eventi dell’agosto del 410, pochissime sono le informazioni dirette sulle dinamiche del sacco vandalico. È possibile ipotizzare che, in virtú dell’accordo con papa Leone, come già era accaduto con i Visigoti di Alarico, fossero state create «zone franche», di ricovero e protezione per gli abitanti della città. La popolazione di Roma, ancora molto numerosa, fu cosí risparmiata dalla furia dei Vandali. Probabilmente, le chiese piú importanti della città ospitarono tutti quelli che fuggivano la ferocia dei saccheggiatori e nei giorni del sacco si evitarono forse inutili massacri. Ma la popolazione soffrí ugualmente. Oltre a subire rapine e devastazioni, piú di una fonte parla infatti di numerosi ostaggi portati a Cartagine, come schiavi o con l’obiettivo di ricavarne un ricco riscatto.
Un saccheggio sistematico L’altro aspetto che distingue il sacco vandalico da quello dei Visigoti è relativo alla lunghezza dell’opera di devastazione e al suo carattere sistematico. I guerrieri arraffarono senz’altro oro, gioielli e altre ricchezze facilmente trasportabili, ma questo fu il danno meno pesante. Assai piú incisiva fu la razzia condotta contro l’ornamento stesso della città, cioè statue, rivestimenti, opere d’arte di diverso genere: quanto di valore si trovava a disposizione dei saccheggiatori fu smontato e
I tesori piú preziosi di Roma furono imbarcati su navi che li avrebbero portati a Cartagine
caricato sui carri che fecero per due settimane la spola tra il centro di Roma e il litorale tra Ostia e Porto, dove si trovava ancorata la flotta vandalica. Per ordine di Genserico le navi vennero stipate con i tesori piú preziosi della città. Procopio (Guerra vandalica 1, 5, 3-5) offre informazioni preziose sulle dimensioni di questo drammatico sfregio alla città. Racconta, infatti, che perfino la copertura in bronzo dorato del tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio – il santuario piú importante della religione tradizionale romana – venne per metà asportata e trafugata. E neppure le chiese si salvarono dalle devastazioni. Proprio il resoconto di Procopio lascia comprendere un’ulteriore differenza tra il sacco del 410 e quello vandalico del 455: le motivazioni politiche che mossero la razzia di Genserico. Non si trattò soltanto di avidità. Genserico era un politico accorto, non un barbaro predone e rozzo: lasciando libertà ai suoi guerrieri di impadronirsi di un ricco bottino, scelse invece con cura i tesori da portare a Cartagine per celebrare la sua impresa. Nella sua visione il sacco aveva uno scopo politico. Contribuiva infatti alla realizzazione del suo progetto di elevare il regno dei Vandali a successore dell’impero romano d’Occidente, in evidente e inarrestabile declino. Dopo la morte dell’ultimo rappresentante della legittimità imperiale, Valentiniano, e dopo la caduta di Roma, sua antica capitale, l’impero romano era sul punto di concludere la sua parabola. Ora spettava al suo potente regno prendere l’egemonia sul Mediterraneo occidentale. Per questo Genserico decise che Cartagine, la sua capitale, sarebbe stata adornata con le spoglie di Roma, con i segni e i simboli che maggiormente evocavano le antiche vittorie dell’impero romano. Cosí, per esempio, le preziose reliquie del tesoro di Salomone, sottratte agli Ebrei in occasione della vittoria di Vespasiano e Tito (70 d.C.; vedi box a p. 82). Questi e altri oggetti sarebbero divenuti il suggello della nuova potenza del regno vandalico, che aveva umiliato e superato Roma, e si predisponeva a prendere il suo ruolo.
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RICIMERO PREISTORIA
LA ROMA DI RICIMERO
L’UOMO DELLA PROVVIDENZA DEVASTATA DALL’INCURSIONE VANDALICA E FORTEMENTE RIDIMENSIONATA NEL SUO RUOLO DI CAPITALE POLITICA, ROMA TEME LA MINACCIA DI NUOVI FLAGELLI. IN QUEGLI ANNI DI CRISI, PERÒ, EMERGE LA FIGURA DI FLAVIO RICIMERO, GENERALE «BARBARO» IN GRADO DI ALLEARSI CON LE GRANDI FAMIGLIE SENATORIALI… | BARBARI A ROMA | 86 |
Al contrario, avviò un periodo di guerra contro i Romani d’Occidente e d’Oriente che si protrasse fino al 474. E la minaccia era tanto piú grave e imprevedibile, perché portata attraverso il mare. Le veloci navi corsare dei Vandali colpivano le coste dell’Italia e del Mediterraneo centro-occidentale, devastando, razziando e prendendo ostaggi. Inoltre, erano direttamente minacciati i traffici e le comunicazioni tra Occidente e Oriente. Accadeva ora per la prima volta, da quando i Romani, avendo annientato la Cartagine punica, avevano dichiarato il Mediterraneo mare nostrum. Le cose erano cambiate e, in piú tarde fonti della letteratura germanica, il Mediterraneo è infatti chiamato Wentilseo, il mare dei Vandali. Tuttavia, nonostante la minaccia di Genserico, non si deve immaginare il periodo tra il sacco del 455 e la fine dell’impero d’Occidente (fine agosto del 476) come un’epoca di imperatori incapaci e di inarrestabile decadenza morale e materiale. Vi furono infatti luminose figure di principi e condottieri che continuarono a impegnarsi tenacemente nella difesa dell’impero.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
Contro l’insicurezza e il terrore
Veduta dei muri che investivano le falde del Monte Celio, acquaforte e incisione di Giovanni Battista Piranesi. XVIII sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.
F
ra il settembre del 454 e il giugno del 455, eventi terribili colpirono l’impero d’Occidente. L’assassinio di Aezio, l’uccisione di Valentiniano III e il sacco di Roma da parte di Genserico causarono una crisi che durò vent’anni e che, alla fine, si dimostrò irreversibile, segnata dalle ambizioni dei potenti re barbarici che avevano preso il controllo di vaste regioni dell’impero: cosí i Visigoti e i Burgundi nel Sud della Gallia; e soprattutto Genserico, che, dopo il trionfale saccheggio di Roma, non pose fine alle ostilità.
Dopo il sacco di Genserico, le grandi famiglie senatorie di Roma uscirono indebolite nel prestigio e nelle ricchezze. I Vandali avevano sferrato un colpo formidabile alla città e alla sua popolazione e, a differenza di quanto era accaduto nel 410, Roma aveva subito un oltraggio terribile, che ne intaccava anche il ruolo. In questo clima di insicurezza, i grandi aristocratici romani e italiani si affidarono a un generale barbaro, comandante delle truppe imperiali. L’ascesa di Flavio Ricimero avviene per i suoi meriti sul campo. È legata, infatti, alla sua capacità di battere i Vandali e gli altri barbari che minacciavano la Penisola; di restituire coraggio e speranza a popolazioni in balia del terrore per la loro vita e per i loro beni. Ricimero era un ufficiale di stirpe barbarica al servizio dell’impero d’Occidente, che forse aveva iniziato la sua carriera sotto Aezio. Era, soprattutto, un aristocratico di alto lignaggio,
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RICIMERO
un principe che vantava legami con le famiglie al potere nei nuovi regni romanobarbarici. Per parte paterna, Ricimero era svevo; per parte materna, discendeva dai Visigoti: suo nonno era il grande re Vallia, che, per i suoi meriti, aveva raggiunto l’accordo con l’impero romano consentendo ai Visigoti di insediarsi in Aquitania dopo quarant’anni di peregrinazioni. Nel 416 il governo imperiale aveva infatti affidato a Vallia il compito di sterminare i Vandali e gli Alani in Spagna. Ancora a distanza di decenni, secondo secondo Sidonio Apollinare (carmina II 368-370), il nome di Vallia spaventava i Vandali. E i suoi discendenti – tra cui Ricimero – si fregiavano con orgoglio di questa fama. I legami familiari influirono molto sulla carriera e sul prestigio di Ricimero. Ma la sua ascesa trasse grande beneficio dai
Sulle due pagine gioielli di produzione visigota. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Da sinistra, in senso orario: una coppia di fibule; bracciali di varia fattura; uno spillone.
successi in azione. Comandante (comes) al servizio dell’imperatore Avito (luglio 455-ottobre 456), Ricimero riuscí a sconfiggere un corpo di spedizione di Vandali che era sbarcato ad Agrigento nella primavera/estate 456. Poco piú tardi, tra luglio e agosto, intercettò la flotta vandalica che saccheggiava le isole del Mediterraneo centrale, riportando un’altra vittoria. I rostri strappati alle navi dei Vandali furono inviati a Roma e, forse, reimpiegati in un monumento costruito nel Foro Romano (Rostra Vandalica). La fama di Ricimero si diffuse tra Occidente e Oriente. Al culmine del pericolo e del turbamento era riuscito nell’impensabile: fermare la prepotenza dei Vandali e ricacciarli verso l’Africa. Divenne un eroe, ottenne onori e promozioni, fino al patriziato e alla carica di supremo comandante dell’esercito d’Occidente, verso la fine del 457. E in questa suprema posizione di comando militare rimase per quasi quindici anni, fino alla sua morte a Roma, il 18 agosto 472.
Un potere condiviso La vicenda di Flavio Ricimero è profondamente connessa con Roma. Per mantenere il suo ruolo di supremo comandante militare, e il suo prestigio, doveva controllare l’imperatore e la sua
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corte. Comprese che poteva trovare un alleato nell’aristocrazia senatoria di Roma. Cosí, per alcuni anni, il «barbaro» Ricimero condivise il potere in Occidente insieme agli esponenti delle grandi famiglie senatorie romane. Un’alleanza che, evidentemente, andava a detrimento dell’autorità imperiale. Occorreva infatti un imperatore debole, che fosse docilmente sottomesso alla volontà di Ricimero e del senato; e una politica estera che mirasse soprattutto a salvaguardare la difesa dell’Italia. Non era opportuno spendere le poche risorse fiscali che il governo imperiale ancora rastrellava in velleitarie imprese fuori dall’Italia. Dopo la deposizione di Avito, nell’ottobre 456, fu proclamato imperatore un collega di Ricimero, un valente comandante di nome Maioriano. Quando fu chiaro che intendeva governare senza interferenze e mirava alla riconquista dell’impero d’Occidente, Ricimero agí per eliminarlo. Ebbe successo: Maioriano fu ucciso nell’agosto del 461 e al suo posto fu scelto come imperatore un oscuro senatore, Libio Severo, il quale appoggiò pienamente la linea politica di Ricimero e dei suoi amici senatori. Gli anni tra il 461 e il 467 rappresentano il periodo di maggiore potenza e prestigio di Ricimero. Ne abbiamo suggestiva testimonianza anche nei documenti ufficiali, nei quali lo troviamo al fianco dell’imperatore Libio Severo, secondo formule che ne indicano l’eccezionale posizione di potere. Cosí, per esempio, vennero coniate alcune monete che riportavano l’effigie dell’Augusto regnante Libio Severo su un verso; sull’altro, tuttavia, era il monogramma di Ricimero. Inoltre, su una laminetta (tessera monumentorum) del prefetto della città Plotino Eustazio, il nome di Ricimero
segue alla tradizionale formula di datazione e buon augurio dei due Augusti, Salvis dominis nostris (probabilmente Libio Severo e Leone, imperatore d’Oriente), in posizione davvero insolita per un personaggio privo di rango imperiale (CIL X 8072, 4 = XV 7109 a-c: salvis dd nn/et patrici/o Ricimere/ Plotinus Eus/ tathius v.c. urb. pr. fecit, «per la salvezza dei nostri signori e di Ricimero patrizio, Plotino Eustazio, senatore di rango clarissimo, prefetto della città di Roma, fece»).
Una titolatura sorprendente D’altra parte, la celebrazione di Ricimero come personaggio dotato di un potere eccezionale si ravvisa anche in alcune testimonianze storiografiche. Nella Cronaca del funzionario orientale Marcellino Comes, composta alcuni decenni piú tardi a Costantinopoli, si ricorda la vittoria di Ricimero che il 6 febbraio 464 riuscí a intercettare e sbaragliare un’incursione di Alani guidati dal re Beorgor presso Bergamo. Marcellino registra (Cronaca, anno 464): «Beorgor re degli Alani è ucciso dal re Ricimero» (Beorgor rex Alanorum a Ricimere rege occiditur). Sorprendente è l’attribuzione del titolo di rex a Ricimero. È possibile ipotizzare che Marcellino, a distanza di anni (la sua Cronaca venne conclusa nel 534), possa aver commesso un errore, considerando Ricimero rex mentre in Occidente era ancora presente un imperatore, dal momento che Libio Severo regnava come Augusto. Tuttavia, il singolare errore di Marcellino si somma ad altri
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RICIMERO
segnali di una posizione davvero eccezionale di Ricimero al vertice dell’impero d’Occidente, che quasi anticipa le successive esperienze di Odoacre e Teoderico al governo dell’Italia dopo la caduta dell’impero.
L’ora del generale Antemio In realtà, la supremazia politica di Ricimero, che si esprimeva nella nomina di Libio Severo d’intesa con il senato, non trovò il riconoscimento dell’imperatore d’Oriente, Leone. In un periodo di grave emergenza militare e politica, Ricimero e il senato compresero che senza l’appoggio di Leone non era possibile contrastare i Vandali, che restavano il nemico piú temibile dell’impero d’Occidente. Dopo la morte di Libio Severo, nel novembre del 465, si giunse a un accordo. Da Costantinopoli fu inviato a Roma un grande aristocratico e valente generale, Procopio Antemio, che divenne imperatore nell’aprile del 467. La sua missione era chiara. Unendo le forze d’Occidente e Oriente, Antemio avrebbe finalmente condotto una grande spedizione contro i Vandali per eliminare Genserico e riconquistare Cartagine e l’Africa. Tutti concordavano sulla necessità di questa operazione come premessa per una ripresa dell’impero d’Occidente. Solo recuperando le ricchezze fiscali dell’Africa, Roma e l’Occidente sarebbero sopravvissuti al tracollo. In questo grande progetto, Ricimero aveva un ruolo importante, ma non esclusivo. Antemio, infatti, condusse con sé un capace generale, Marcellino, che governava la Dalmazia. Era un rivale pericoloso per il prestigio di Ricimero, abituato a non dividere con altri i suoi poteri. Preoccupato di mantenere
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Solido aureo battuto al tempo di Maioriano, imperatore romano d’Occidente. 457-461. Dopo aver condotto campagne in Gallia e in Spagna, Maioriano rientrò in Italia, dove venne fatto imprigionare e uccidere da Ricimero.
la concordia, Antemio offrí a Ricimero sua figlia Alipia come sposa. Era un grande onore per il nobile di stirpe barbarica, che apriva alla sua eventuale discendenza la prospettiva di ascendere al trono imperiale. Il matrimonio venne celebrato a Roma, verso la fine del 467, suscitando l’entusiasmo generale. Una testimonianza di Sidonio Apollinare (epist. 1, 5, 10) riferisce del clima di grande festa che attraversò in quei giorni la città. Le nozze tra Ricimero e Alipia erano da tutti salutate come pegno di un nuovo equilibrio che avrebbe condotto a risollevare le sorti dell’impero e a proteggere Roma da ogni futura minaccia. La realtà non tardò a manifestarsi in tutt’altro modo, spazzando via ogni illusione.
I segni di un’antica opulenza Al tempo del potere di Ricimero (457-472), nonostante le ferite del sacco vandalico, Roma era ancora una grande città; era inoltre la residenza imperiale che ospitava il principe e il lusso della sua corte. Al fasto della corte si univano ancora il prestigio e la ricchezza dei senatori. La popolazione, probabilmente, era diminuita rispetto agli anni di Valentiniano III; e parte della città lamentava danni, soprattutto agli edifici pubblici. Tuttavia, il carattere opulento continuava a essere manifesto. Ancora splendidi erano i luoghi della città che impressionavano i visitatori. Cosí, per esempio, l’area del Foro di Traiano. Anche se non ne conosciamo l’esatta ubicazione, Ricimero aveva sicuramente una sua dimora a Roma. Alternava i soggiorni nell’Urbe con le spedizioni militari o le ispezioni ai reparti delle truppe. Era una condizione necessaria per un comandante che non si limitava a eseguire ordini. Ricimero, infatti, decideva la politica imperiale
d’intesa con le grandi famiglie del senato. E poi si recava a corte per impartire le opportune direttive al principe. La presenza di Ricimero a Roma fino al 470 si inserisce armoniosamente nello spiccato carattere multiculturale che distingue la città ancora negli ultimi anni del V secolo. Una situazione singolare che si esprime soprattutto nella molteplicità di culti religiosi che ancora caratterizza l’Urbe in quel periodo. Infatti, nonostante la crescente autorità del vescovo cattolico della città, a Roma prosperavano e convivevano gruppi di diverse fedi religiose. La presenza di eretici, pagani – in quantità ancora significativa – ed Ebrei garantiva una libertà religiosa eccezionale.
A destra l’imperatore romano d’Occidente Avito in una calcografia della fine del Seicento. In basso Ricimero in un’incisione del XVIII sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
Come molti dei soldati di stirpe barbarica dell’esercito imperiale, Ricimero era un cristiano di fede ariana. Un eretico, dunque, per gli ortodossi; tuttavia, la sua suprema posizione di comando garantiva autonomia e libertà di culto agli ariani. Anzi, Ricimero si fece promotore del consolidamento del loro culto nel cuore stesso di Roma. Divenne infatti committente di un luogo di culto per i suoi correligionari. Per sua iniziativa venne consacrata la chiesa oggi nota come S. Agata dei Goti, tra il 459 e il 471. L’edificio sacro (oggi in via Mazzarino) era a quel tempo inserito nel contesto del popoloso quartiere della Subura. In quei pressi, evidentemente, doveva trovarsi la dimora di Ricimero a Roma; e nel quartiere vivevano anche i barbari ariani inseriti nell’esercito e nel seguito delle sue guardie private. Con loro erano anche le famiglie. Da qui la stringente necessità di un luogo di culto. A sue spese, Ricimero adornò la chiesa con uno splendido mosaico. Nell’iscrizione, il generale ricordava di aver commissionato l’opera d’arte per lo scioglimento di un voto: «Flavio Ricimero, senatore di rango illustre, magister utriusque militiae, patrizio e console ordinario, adornò la chiesa in scioglimento del suo voto» (Fl(avius) Ricimer, v(ir) i(nlustris), mag(ister) utriusq(ue) militiae, patricius et ex cons(ule) ord(inario), pro voto suo adornavit). Non conosciamo, tuttavia, i dettagli della
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RICIMERO Una Novella per le statue
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vicenda. Senz’altro il mosaico fu realizzato dopo il consolato di Ricimero, che è appunto datato al 459. Ignoto è il nome della chiesa prima della sua consacrazione a sant’Agata; e, purtroppo, anche il mosaico commissionato da Ricimero è andato perduto, in seguito al crollo della volta dell’abside alla fine del Cinquecento. Tuttavia, poco prima della rovina, Alfonso Ciacconio disegnò il mosaico e l’iscrizione. Queste immagini sono conservate nel Codice Vaticano Latino 5407. Il mosaico, in particolare, rappresentava Cristo seduto su un globo con la legenda salus totius generis humani («Salvatore di tutto il genere umano»), circondato dai dodici apostoli (vedi foto alle pp. 96/97). Secondo alcuni studiosi, la commissione del mosaico era in stretto collegamento con la dedicazione della chiesa, probabilmente a Cristo salvatore o a Cristo e agli apostoli.
«La malvagità degli eretici» La chiesa divenne il centro della comunità ariana di Roma; e mantenne a lungo questa condizione. Il Liber Pontificalis (66) ricorda l’edificio come ecclesia Gothorum. Anche dopo la morte di Ricimero (472), sotto Odoacre, gli
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L’imperatore romano d’Occidente Antemio in una calcografia della fine del Seicento. Nella pagina accanto statua in bronzo dorato di Ercole, dall’area del Teatro di Pompeo. L’opera è stata variamente datata tra la fine del I e gli inizi del III sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
opo la sua proclamazione in Gallia, all’inizio di luglio del 455, il nuovo imperatore, Eparchio Avito, decise di raggiungere Roma, per formalizzare anche al cospetto del senato e del popolo romano la sua nuova posizione di Augusto d’Occidente. Del suo seguito facevano parte molti dignitari gallici e una nutrita guardia di Visigoti, che lo scortavano. In realtà, il potere di Avito era sostenuto dal re dei Visigoti. Al suo ingresso a Roma, Avito trovò una città ancora sconvolta dal sacco vandalico del giugno 455 e turbata per le sofferenze e le privazioni subite. In breve, l’imperatore si rese conto di non poter mantenere la sua guardia di Visigoti e congedò i guerrieri. Poiché era necessario pagare quanto pattuito per il loro servizio, Avito si trovò in gravi difficoltà. Non aveva denaro, dal momento che le casse del tesoro erano state svuotate da Genserico. Come ricorda Giovanni di Antiochia (Historia Chronica fr. 294), Avito prese una decisione estrema per soddisfare i suoi barbari. Ordinò al prefetto urbano di smontare quanto fosse sopravvissuto alla razzia dei Vandali in materiale prezioso. Giovanni Lido (Sui mesi 4, 145)
Ostrogoti e parte del governo bizantino, la chiesa venne utilizzata per il culto degli ariani. Nel 592 fu infatti riconsacrata da papa Gregorio Magno al culto niceno in onore di sant’Agata. In questo modo il pontefice ebbe modo di cancellare un simbolo dell’eresia ariana, «spelonca della malvagità degli eretici» (spelunca pravitatis haereticae), come afferma in una sua lettera del 594 (Registrum epistularum 4, 19). Al tempo di Gregorio esisteva a Roma anche un’altra chiesa ariana.
chiarisce che si trattava delle statue in bronzo che ancora adornavano la città. Gli emissari di Avito iniziarono a distruggerle per farne bronzo da vendere a peso ai cambiavalute. Contribuendo a devastare quanto era sfuggito alla furia vandalica, Avito pensava di poter ottenere monete d’oro da dare ai suoi Visigoti. Conferma Gregorio di Tours (Storia dei Franchi 2, 11) che il senato convinse il popolo a insorgere in difesa delle statue e del decoro urbano ancora al suo posto. Lo spettacolo di un imperatore romano che oltraggiava lo splendore ferito dell’Urbe al fine di pagare i suoi mercenari barbari fece divampare la rivolta. Avito fu costretto a uscire da Roma. Nel volgere di qualche tempo venne intercettato da Maioriano e Ricimero che lo sconfissero. A distanza di qualche tempo, divenuto ormai imperatore, Maioriano promulgò una legge che ancora una volta richiamava la necessità di tutelare l’ornamento della città da ogni forma di distruzione (Novella 4 dell’11 luglio 458). A sollecitare questa Novella di Maioriano furono probabilmente le devastazioni provocate nel volgere di pochi mesi dal re dei Vandali Genserico e dall’imperatore gallico Avito.
Pressato dalle richieste dei mercenari barbari, Avito fece fondere le statue per ricavarne bronzo da vendere ai cambiavalute | BARBARI A ROMA | 93 |
RICIMERO
L’edificio non era lontano dalla Subura, nell’area esquilina, presso la Domus Merulana nella terza regione urbana (iuxta domum Merulanam regione tertia, afferma Gregorio nel Registrum epistularum 3, 19). Si trovava nel cuore del cosiddetto Campus barbaricus, l’area tra Celio ed Esquilino che, fin dal II secolo d.C., ospitava i guerrieri di stirpe barbarica al servizio dell’imperatore. È stato peraltro ipotizzato che l’edificio fosse la sede dei vertici della Chiesa ariana a Roma fino alla fine del regno degli Ostrogoti (553). Nel 593 papa Gregorio Magno consacra al culto cattolico la chiesa, dedicandola a san Severino del Norico.
Nel rione dei barbari
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in dall’età imperiale, lo spazio tra Celio ed Esquilino era probabilmente il luogo di residenza dei militari di stirpe barbarica e delle loro famiglie presenti a Roma. Si tratta di una presenza non rilevabile con certezza, ma, durante il V secolo, gli indizi diventano suggestivamente piú chiari. Sono proprio i luoghi di culto a svelare questa presenza sul territorio. Come abbiamo visto, Ricimero fonda una chiesa nell’area della Subura destinata al culto ariano; un altro edificio sicuramente destinato al culto degli ariani era la chiesa iuxta Domum Merulanam, sull’Esquilino, poi consacrata da papa Gregorio al culto di san Severino del Norico. A chi servivano questi due edifici di culto ariano non lontani tra loro? Sicuramente a fedeli di fede ariana. La committenza da parte di Ricimero di un affresco nella chiesa della Subura indica che questi fedeli erano i militari di stirpe barbarica con le rispettive famiglie; e, insieme a loro, il loro capo Ricimero, che probabilmente non abitava molto lontano dall’attuale chiesa di S. Agata dei Goti, da lui finanziata a scioglimento di un voto. Del resto, abbiamo anche un’altra suggestiva conferma di questa ipotesi.
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Nell’epoca tra Ricimero e Antemio (461-472), a Roma le diverse fedi religiose convivono in un clima di generale libertà. Soprattutto per il regno di Antemio, è ben attestata la sopravvivenza dei pagani che, con il favore di un principe cristiano ortodosso ma tollerante, tornano perfino a occupare cariche pubbliche.
Pianta a volo d’uccello di Roma, dal Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg, una raccolta di mappe delle città del
mondo curata dai geografi tedeschi pubblicata in 6 volumi tra il 1572 e il 1617. Londra, British Library. Nel riquadro, l’area della Subura.
È il caso molto suggestivo e significativo di Messio Febo Severo, che fu prefetto della città e, nel 470, console ordinario. Severo fu l’ultimo console che era conosciuto per la sua fede pagana. La nomina di un pagano a fastigi tanto elevati del potere urbano non poteva avvenire senza il consenso di una larga maggioranza
dell’aristocrazia senatoria. Pur essendo ormai in completa prevalenza di fede cristiana, i senatori approvarono la scelta di Severo. Per la sua politica favorevole anche alle diverse eresie cristiane, Antemio entrò presto in conflitto con il vescovo cattolico di Roma. Ne abbiamo testimonianza, per esempio, all’inizio del regno, allorché papa Ilaro rimproverò duramente il principe, perché era incline a concedere a una setta eretica, i macedoniani, uno spazio per il loro culto. Del resto, come abbiamo visto, in città era molto forte la comunità ariana, composta in prevalenza dai barbari che prestavano servizio
Nella stessa zona dell’Esquilino aveva la sua splendida dimora anche Flavio Valila, generale dell’esercito imperiale di stirpe barbarica e di fede cattolica. Lo sappiamo perché Valila, alla sua morte (forse tra il 481 e il 482), lasciò parte del suo palazzo al papa affinché vi fosse consacrata una chiesa di culto cattolico. Divenne l’edificio dedicato a sant’Andrea Catabarbara. Dunque anche il barbaro Valila abitava sull’Esquilino e pensò di lasciare alla sua morte un luogo di culto che servisse alle esigenze dei suoi uomini e delle loro famiglie; si trattava evidentemente di barbari al servizio dell’impero, ma di fede cattolica. In questo modo la topografia di alcuni edifici ecclesiastici del cosiddetto Campus barbaricus tra Celio ed Esquilino conferma la concentrazione dei barbari nell’area durante il V secolo e dimostra anche la loro appartenenza a orientamenti religiosi differenti. Anche la dislocazione di varie sepolture di personaggi con nome barbarico in località del suburbio orientale e nord-orientale a ridosso di quest’area dell’Esquilino sembra costituire un solido indizio per l’individuazione di un quartiere barbarico nella Roma tardo-antica, tra il V e il VI secolo.
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RICIMERO
nei reparti dell’esercito imperiale o tra le guardie personali (bucellarii) di Ricimero o di altri importanti ufficiali. Non tutti i barbari, tuttavia, erano di religione ariana. Abbiamo infatti interessanti testimonianze sull’appartenenza di alcuni tra questi personaggi ad altre fedi religiose. Consistente, per esempio, doveva essere la comunità di barbari di fede ortodossa nicena. Uno di loro, il magister Flavio Valila – di cui parleremo oltre – entrò perfino in competizione con Ricimero nella committenza di edifici sacri. Ultimo proprietario di una sontuosa dimora senatoria sull’Esquilino – appartenuta alla famiglia dei Giuni Bassi e a lui passata per vicende che, purtroppo, non possiamo ricostruire –, alla sua morte Valila lasciò a papa Simplicio una parte del palazzo, la basilica. Il papa trasformò lo spazio in una chiesa, nota ancora in età moderna (prima della sua rovina nel XVIII secolo) come chiesa di S. Andrea in Catabarbara. Era dunque un edificio sacro costruito per volontà di un magister di stirpe barbarica,
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ma di fede cattolica. Un’altra semplice iscrizione sepolcrale, datata al 462 (nell’epoca di piena supremazia di Ricimero), ricorda un ufficiale probabilmente di stirpe gotica. Si tratta del comes Herila, «sepolto nella pace della fede cattolica» (depositus Herila comes in pace fidei catholicae). L’iscrizione proveniva dall’area del cimitero di S. Valentino e fu copiata dal Manuzio. Come Flavio Valila (attestato tra il 471 e il 483), cosí pure il comes Herila esprime orgogliosamente la sua condizione di fedele della Chiesa cattolica.
Sigismundus, barbaro convertito Ancor piú suggestivo è il caso di un altro personaggio di stirpe barbarica, Flavius Sigismundus. La sua iscrizione sepolcrale (Corpus Inscriptionum Judaicarum 1, 499) proviene dal sepolcreto sulla collina di Monteverde. Sigismundus porta evidentemente un nome germanico; tuttavia, nell’ansa superstite della sua iscrizione, la tavoletta è adorna di simboli della religione ebraica: il candelabro a sette bracci (menorah), il ramoscello di palma che evoca la ricorrenza di Sukkoth, il corno di montone usato nelle grandi solennità, lo shofar. Sopra questi simboli c’è perfino un’iscrizione in ebraico, un augurio di pace (be shalom). Il testo mutilo dell’iscrizione chiarisce il contesto eccezionale e suggestivo della deposizione di Sigismundus. Infatti, alla terza riga si legge chiaramente un nome femminile Sarra (una variante di Sara) e una c poco prima della frattura, che consente di integrare con coniux (moglie). È dunque Sara, moglie di Sigismundus, forse insieme ai figli, a fare memoria del defunto. In breve: Sigismundus è un personaggio di stirpe barbarica che muore a Roma e viene sepolto da sua moglie Sara. Entrambi sono di fede ebraica ed è possibile ipotizzare che Sigismundus si sia convertito a Roma, dove da secoli esisteva una forte comunità
A sinistra l’interno della chiesa di S. Agata dei Goti, edificata nel quartiere della Subura, in un disegno di Charles Rohault de Fleury del 1887.
In alto disegno del perduto mosaico absidale della chiesa di S. Agata dei Goti raffigurante Cristo, seduto su un globo, circondato dagli apostoli, dall’opera di Giovanni Giustino Ciampini Vetera Monimenta: In quibus praecipuè Musiva Opera Sacrarum, Profanarumque Aedium Structura, Ac nonnulli antiqui Ritus Dissertationibus, Iconibusque illustrantur. Roma, 1690.
ebraica. In considerazione del nome germanico, gli studiosi hanno proposto diverse datazioni dell’iscrizione, che è comunque di epoca tardo-antica. Appartiene inoltre a un periodo che non solo vede la presenza di Germani a Roma, ma pure la possibilità di forme di integrazione anche familiare, come quella realizzata dal matrimonio tra Sigismundus e Sara. Alcuni studiosi hanno perciò pensato alla seconda metà del V secolo; altri la collocano all’epoca della dominazione ostrogota in Italia, nella prima parte del VI secolo. Tuttavia, occorre considerare che in questo periodo piú tardo, la presenza degli Ostrogoti a Roma è piuttosto modesta, e limitata a una guarnigione militare. Appare dunque probabile che Sigismundus sia uno dei Germani che vissero a Roma nell’età di Ricimero o di Odoacre, un contemporaneo
di Herila e Valila, per intenderci. E anzi, proprio nel clima di convivenza religiosa e culturale della seconda metà del V secolo, potrebbe essere maturata la scelta di convertirsi – forse dal paganesimo, forse dall’arianesimo – all’ebraismo. Nella sua semplicità, l’iscrizione è una testimonianza straordinaria della presenza e dell’intreccio tra culture diverse a Roma ancora in età tardo-antica.
Ricimero abbandona Roma La fragile intesa tra l’imperatore Antemio e il suo generale – e genero – Ricimero venne meno dopo l’esito disastroso della spedizione africana. Nonostante i grandi preparativi e le enormi spese affrontate, nella tarda estate del 468 la spedizione contro i Vandali fallí miseramente per l’incompetenza dei comandanti imperiali e
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RICIMERO
per l’audacia di Genserico, che si rivelò ancora una volta in grado di dominare la situazione sia dal punto di vista militare che da quello diplomatico. L’ostilità tra Antemio e Ricimero esplose allora in maniera irreparabile. Racconta Giovanni di Antiochia (frammento 299), una fonte di Costantinopoli ben informata sui fatti, che Antemio si ammalò gravemente. L’imperatore si convinse che la causa della
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sua malattia fosse un sortilegio: fu dunque avviata un’inchiesta e molti furono arrestati. L’attentato alla vita dell’imperatore con pratiche magiche era un crimine terribile, che veniva punito con la morte. Tra i condannati vi furono anche personaggi eminenti, tra cui Romano, in precedenza magister officiorum, una carica di grande importanza che garantiva il funzionamento della corte imperiale e quello della diplomazia; inoltre, i
L’interno della chiesa di S. Agata dei Goti nel suo aspetto odierno.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
suoi servigi erano stati ricompensati con il prestigioso conferimento del patriziato. Soprattutto, Romano era un fedele amico di Ricimero. Antemio, tuttavia, fu inesorabile: Romano e altri condannati furono giustiziati. La rottura era ormai consumata. La vicenda del presunto sortilegio rappresentò dunque l’inizio della resa dei conti tra il principe venuto da Costantinopoli – che nel frattempo s’era guadagnato il consenso di
gran parte del senato e del popolo di Roma – e Ricimero. Nel 470 il magister lasciò Roma, portando con sé seimila guerrieri – dunque una parte consistente del contingente militare a protezione di Roma. Si diresse verso Nord e nell’inverno del 471 lo troviamo tra Milano e Pavia, deciso a sbarazzarsi – come già era avvenuto nel caso di Maioriano – del suo ingombrante suocero e imperatore.
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IL TERZO SACCO DI ROMA
IL TERZO SACCO DI ROMA
UNA GUERRA CIVILE SIAMO ALLA FINE DEL 471. DALLA SUA NUOVA SEDE DI GOVERNO, MILANO, RICIMERO, A CAPO DI UN ESERCITO DI BARBARI, INIZIA LA MARCIA SU ROMA. PER LUNGHI MESI LA CITTÀ VIENE MESSA SOTTO ASSEDIO E, ANCORA UNA VOLTA, VIENE ESPUGNATA…
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el 471 l’Italia era spezzata in due. Da Milano, Ricimero governava il Nord della Penisola, l’Italia Annonaria. Aveva con sé l’esercito di stanza nella Pianura Padana, al quale si erano uniti seimila uomini usciti con lui da Roma. L’Italia centro-meridionale (Italia Suburbicaria) era invece sotto il controllo di Antemio, che teneva saldamente Roma, la sua capitale. Tra l’inverno e la primavera del 471 si fece un ultimo tentativo per evitare una guerra che le aristocrazie della Penisola non volevano. La tregua, tuttavia, durò poco e presto la situazione precipitò. Ricimero, infatti, si mosse, approfittando di un nuovo disastro che colpí lo sventurato Antemio. Fino all’estate del 471, questi disponeva di un esercito e, nonostante la tensione in Italia, aveva deciso di inviarlo nella Gallia del Sud per arginare l’arrogante espansione di Eurico, re dei Visigoti. Le truppe erano al comando di suo figlio Antemiolo e di altri ufficiali di stirpe barbarica rimasti a lui fedeli. Entrato a contatto con i Visigoti, Antemiolo fu gravemente sconfitto e morí nella campagna. Cosí, oltre a perdere un figlio, Antemio rimase anche privo di truppe. Alla notizia del disastro in Gallia, Ricimero pensò che fosse arrivato il momento di chiudere la questione con Antemio. Probabilmente negli ultimi mesi del 471, Ricimero marciò contro Roma e la mise sotto
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assedio. Era al suo seguito un esercito composto prevalentemente da militari di stirpe barbarica e da alleati provenienti dai territori sotto il controllo dei barbari. Ne dovevano verosimilmente far parte i soldati che avevano lasciato Roma con lui nel 470, oltre alle truppe stanziate nel Nord Italia e alle sue guardie personali, i bucellarii. A queste unità si affiancarono altri barbari. Le fonti, per esempio, indicano che tra i guerrieri al seguito di Ricimero si trovava anche Odoacre, figlio del re sciro Edecone.
Il contingente burgundo
Solido battuto al tempo di Antemio dalla Zecca di Roma. 468. Al dritto, busto elmato e diademato dell’imperatore; al rovescio, Antemio e Leone che reggono un globo crucigero.
Per rinforzare la sua armata Ricimero sfruttò i vincoli di alleanza con i regni romano-barbarici che gli venivano dai suoi legami di parentela. Un contingente dei Burgundi si uní nell’impresa. Calarono contro Roma al comando di Gundobado, principe burgundo che era nipote di Ricimero. In precedenza, infatti, il magister aveva concesso in matrimonio sua sorella al re dei Burgundi, Gondioc. Ora il figlio di Gondioc s’univa allo zio nella speranza di prendere Roma e accumulare un ricco bottino. Un esercito di barbari, dunque, che non dobbiamo tuttavia ritenere troppo numeroso. Secondo i parametri dell’epoca, Ricimero avrà avuto a sua disposizione tra i 10 000 e i 20 000 uomini, ai quali si aggiungeva il corpo di spedizione burgundo.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
Testa in alabastro tradizionalmente identificata con un ritratto dell’imperatore bizantino Leone I, montata su un busto moderno non pertinente. 450-475. Parigi, Museo del Louvre.
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IL TERZO SACCO DI ROMA
Contro l’aggressione di Ricimero, Antemio poté schierare forze ridotte. I senatori rimasti con lui a Roma e il popolo lo sostenevano; e senza dubbio poteva contare sulle grandi mura che garantivano protezione alla città. In passato Goti e Vandali erano entrati in città senza danneggiare il circuito delle Mura Aureliane, che ancora rappresentavano un baluardo integro a difesa dell’Urbe. Forse Antemio contava anche sulla possibilità di ottenere rinforzi: dalle regioni a lui ancora fedeli dell’impero d’Occidente; oppure da Costantinopoli, dove l’imperatore Leone ne sosteneva la legittimità.
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Per la terza volta, durante il V secolo, la città si trovò sotto l’attacco dei barbari. E dovette subire un lungo assedio che durò forse cinque mesi (dal febbraio al luglio del 472), piú probabilmente nove (dalla metà di ottobre del 471 ai primi di luglio del 472). La guerra civile tra Antemio e Ricimero, infatti, si consumò a ridosso delle mura. Dai primi mesi del 472 la città era contesa tra i due avversari. Le truppe di Ricimero controllavano probabilmente tutta l’area del Trastevere, del Gianicolo e del Vaticano; anche i ponti erano sotto il controllo di Ricimero. Antemio, invece, era bloccato nel resto della città, senza viveri e con una minima
Disegno ricostruttivo della città di Milano nel IV sec. d.C. Nel capoluogo lombardo si era stabilito Flavio Ricimero, che da lí governava il Settentrione della Penisola.
Le speranze di Antemio furono deluse. Da Oriente non arrivarono truppe in sostegno di Roma assediata. Arrivò invece un uomo che doveva mediare tra i due nemici. Con l’inizio della primavera 472, l’imperatore d’Oriente Leone inviò da Costantinopoli Olibrio, un membro degli Anici, una delle famiglie piú potenti di Roma. Probabilmente, Leone sperava che la mediazione di un importante membro del senato – peraltro imparentato anche con la famiglia reale dei Vandali – favorisse una tregua e forse la fine delle ostilità. Ricimero, invece, sfruttò a suo vantaggio la situazione. Poco dopo il suo arrivo, infatti, Anicio Olibrio venne proclamato imperatore dai barbari che assediavano Roma. A sfidare la posizione di Antemio era ora un usurpatore di alto lignaggio, un uomo della piú elevata aristocrazia di Roma, che Ricimero sfruttava per indebolire la coesione dei sostenitori dell’avversario.
Il voltafaccia degli Ostrogoti
possibilità di comunicazione verso l’esterno. Ricimero, infatti, aveva pure preso il controllo di Porto. Nessun rifornimento poteva giungere alla città dal litorale o lungo il Tevere. Nulla sappiamo delle operazioni militari dei primi mesi, ma il peso dell’assedio si scaricò sulla popolazione chiusa nei quartieri controllati da Antemio. È possibile ipotizzare che ci furono tentativi di assalto alle mura. Tuttavia, la principale strategia di Ricimero, fino all’arrivo della primavera, fu probabilmente l’attesa, a guardia delle mura di una città enorme senza cibo e circondata. Le cose cambiarono poi con la bella stagione.
Neppure sull’altro versante Antemio ebbe fortuna. Forse verso la fine di primavera, un esercito di Ostrogoti condotti dalla Pannonia sotto la guida del nobile amalo Vidimero raggiunse Roma per portare aiuto ad Antemio. Non furono fermati nel Nord Italia, probabilmente perché le truppe generalmente dislocate a guardia della Pianura Padana si trovavano ora all’assedio con Ricimero. Al loro arrivo a Roma, gli Ostrogoti tentarono di forzare il blocco, forse d’intesa con una sortita degli uomini di Antemio. Lo scontro si svolse con grande violenza nello spazio tra il Mausoleo di Adriano e il pons Hadriani sul Tevere. Le truppe fedeli ad Antemio vennero duramente sconfitte. Dopo la caduta nella mischia del loro capo Vidimero, gli Ostrogoti si ritirarono e presto passarono dalla parte di Ricimero e Olibrio. A questo punto, Ricimero ritenne ormai imminente la caduta di Roma. A ragione: stremati dall’assedio e privi di speranza dopo la sconfitta degli Ostrogoti, i seguaci di Antemio cedettero. Ai primi di luglio del 472 la città venne finalmente presa dalle
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IL TERZO SACCO DI ROMA
milizie di Ricimero, dai suoi alleati Burgundi e dai nuovi arrivati, gli Ostrogoti. Roma subí un terzo saccheggio dopo quello del 410 e del 455. Abbiamo testimonianze davvero esigue su questo terzo evento traumatico che segnò la storia della città. Una fonte, Cassiodoro (Chronicon 1293), sembra alludere a terribili stragi nei quartieri che avevano resistito al lungo assedio. Del resto, a differenza degli eventi del passato, in questa occasione il sacco avvenne dopo mesi di guerra, gravi perdite e privazioni da entrambe le parti.
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Il porto di Ostia in una incisione di Antonio Brambilla. 1581.
I barbari di Ricimero entrarono in città bramosi di bottino e di vendetta.
Un inutile travestimento Sappiamo che nella furia del sacco anche l’imperatore Antemio fu ucciso, l’11 luglio del 472. Perduta ogni speranza di difendere la città, vestito da mendicante, Antemio aveva fortunosamente raggiunto la chiesa del martire Crisogono nel quartiere di Trastevere, risparmiato dal saccheggio. Negli spazi a ridosso delle sue mura, la chiesa ospitava un
gran numero di profughi, che attendevano la fine del saccheggio. Tra questi si nascose il principe fuggiasco, ma fu inutile, perché qualcuno tradí. Sopraggiunse un drappello di barbari guidati da Gundobado, nipote di Ricimero e futuro re dei Burgundi, nominato magister militum da Olibrio, e il mendicante fu subito riconosciuto. Gundobado estrasse la spada e decapitò Antemio senza pietà. Interessante è il fatto che l’imperatore avesse cercato scampo tra i profughi che si trovavano a S. Crisogono. Evidentemente, come già al
In alto incisione raffigurante un medaglione con il ritratto dell’imperatore romano d’Occidente Anicio Olibrio. 1710.
tempo di Alarico, e probabilmente durante il sacco di Genserico, anche in occasione del terzo sacco di Roma alcune chiese divennero zone franche scelte per ospitare quanti cercavano di sottrarsi alla furia del saccheggio. Del resto, la chiesa di S. Crisogono era in Trastevere, nel quartiere tradizionalmente controllato dagli Anici, che nella zona avevano la loro dimora. Alla stirpe anicia apparteneva infatti l’usurpatore nominato da Ricimero, Anicio Olibrio. Forse Antemio si rifugiò nella chiesa di S. Crisogono con la speranza di affidarsi alla generosità di questo gran signore dell’aristocrazia senatoria, divenuto per volontà di Ricimero nuovo imperatore d’Occidente. Ma la risolutezza del burgundo Gundobado prevenne ogni gesto di pietà. Tuttavia, nonostante l’efferatezza del suo assassinio, per ordine di Ricimero e Anicio Olibrio il corpo di Antemio venne ricomposto e gli venne garantita una sepoltura degna del suo rango e dell’affetto che il popolo di Roma aveva provato per il suo principe.
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FLAVIO VALILA
Il Foro Romano in un’incisione di Hieronymus Cock. 1550 circa. Washington, National Gallery of Art. Si riconoscono i resti dei templi di Antonino e Faustina e del Divo Romolo, nonché quelli della basilica di Massenzio. L’aspetto complessivo è simile a quello che dobbiamo immaginare nei secoli successivi alla caduta dell’impero, quando venne meno l’opera di manutenzione dei monumenti.
LA ROMA DI FLAVIO VALILA
UN BENEFATTORE ALLA FINE DELL’IMPERO D’OCCIDENTE GENEROSITÀ, CAPACITÀ DI MEDIAZIONE, UN FORTE LEGAME CON L’ARISTOCRAZIA SENATORIALE E DEVOZIONE ALLA CHIESA CATTOLICA: ECCO L’IDENTIKIT – COMPOSITO E AFFASCINANTE – DI FLAVIO VALILA, BARBARO DI STIRPE GOTICA E PERSONAGGIO DI SPICCO VISSUTO NELLA CITTÀ ETERNA AL TEMPO DI RICIMERO E ODOACRE | BARBARI A ROMA | 106 |
FLAVIO VALILA
T
ra la fine d’agosto e l’inizio di settembre del 476 Odoacre, capo dei barbari che prestavano servizio nell’esercito stanziato in Italia, si ribellò contro il patrizio e magister militum Oreste. Proclamato re dai suoi uomini, Odoacre marciò contro Oreste, che venne rapidamente assassinato, mentre suo figlio, il giovane imperatore Romolo Augustolo, venne deposto, ma fu risparmiato dal capo dei barbari, che gli assegnò anche una pensione per vivere in modo dignitoso. Nel volgere di alcuni mesi, apparve chiaro che Odoacre era riuscito a ottenere l’appoggio del senato di Roma. Come narra lo storico orientale Malco di Filadelfia, fu proprio una delegazione dell’aristocrazia senatoria a recarsi a Costantinopoli dall’imperatore d’Oriente Zenone per restituire le insegne imperiali d’Occidente e presentare le richieste di Odoacre. Gli ambasciatori provenienti da Roma chiesero a Zenone di governare come unico imperatore anche sull’Italia e gli proposero di nominare come comandante militare, patrizio e rappresentante dell’autorità imperiale il barbaro Odoacre. Zenone rispose che esisteva ancora un legittimo imperatore d’Occidente: Giulio Nepote. Divenuto Augusto nel giugno del 474, Nepote aveva beneficiato del clima di distensione che si era creato tra i Vandali e l’impero d’Oriente e si era spostato nel Nord Italia. Da Milano, probabilmente, cercò di salvare quanto possibile dei territori della Gallia ancora fedeli all’impero, utilizzando le armi e la diplomazia. La rivolta di Oreste, capo dell’esercito, lo aveva costretto a lasciare la Penisola nel giugno del 475 e a riparare in Dalmazia, regione che governava prima di venire in Italia. Il piccolo Romolo Augustolo, proclamato imperatore dal padre Oreste, era dunque un usurpatore: ufficialmente Giulio Nepote era l’unico e legittimo Augusto d’Occidente. Per questa ragione, Zenone, imperatore d’Oriente, sottomise la richiesta del senato e di Odoacre alla decisione di Giulio Nepote; tuttavia, pur prestando attenzione alle «forme», nella prassi Zenone non si oppose alla strana alleanza che nuovamente si era creata in
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Italia tra il potere militare in mano ai barbari e l’aristocrazia senatoria di Roma. In questo clima eccezionale si consumò la fine dell’impero romano d’Occidente. Dopo l’instabilità e le guerre civili che avevano sconvolto l’Italia e la stessa Roma tra gli ultimi anni di Ricimero e la cacciata di Giulio Nepote (470-475), il senato ritenne opportuno prendere il controllo della situazione in Italia, condividendo il suo potere con un capo militare, Odoacre. Si riproponeva l’intesa che già aveva caratterizzato il regime di Ricimero, abbandonando la finzione di avere un imperatore in Occidente. Gli eventi dell’agosto 476 mettono dunque in rilievo la forza dell’aristocrazia senatoria in Italia e la sua capacità di trattare direttamente con l’imperatore di Costantinopoli. Nonostante le prove drammatiche affrontate dalla città nel corso del V secolo, la rinnovata vitalità delle famiglie aristocratiche che componevano il senato di Roma – i Decii, gli Anicii e altri gruppi gentilizi – appare amplificata dall’estrema crisi dell’istituzione imperiale in Occidente. I senatori continuarono a godere di una posizione privilegiata di potere anche durante il governo dei re ostrogoti. Il prestigio dell’antico senato di Roma precipiterà in seguito sotto gli urti della ventennale guerra tra impero d’Oriente e Ostrogoti e, poco dopo, a causa dell’invasione dei Longobardi (a partire dal 568/569), che trasformò l’Italia in una provincia periferica segnata da una condizione di instabilità e guerra aperta. Quando il 25 aprile del 603 papa Gregorio Magno accolse le sacre icone dell’imperatore Foca e di sua moglie Leonzia, inviate da Costantinopoli, alla cerimonia parteciparono il clero e l’assemblea del senato. V’erano ancora senatori a Roma all’inizio del VII secolo, ma la stessa «regia» dell’evento affidata al papa – e non al senato – indica l’ormai debilitata e marginale condizione dell’aristocrazia senatoria.
Un uomo potente La vicenda di Flavio Valila illustra con grande evidenza e suggestione il potere dell’aristocrazia senatoria a Roma negli anni tra
Veduta di Tivoli, olio su tela di Isaac de Moucheron. 1725. Amsterdam, Rijksmuseum. Nell’agro tiburtino Flavio Valila possedeva numerosi beni, fra cui i terreni della Massa Cornutiana sui quali sorse la chiesa di S. Maria de Cornuta.
gli ultimi sussulti dell’impero d’Occidente e il regno di Odoacre (476-493). Anche se esigue sono le fonti, Valila emerge come uomo potente, che appartiene contemporaneamente all’aristocrazia militare e a quella senatoria. Flavius Valila qui et Theodovius è un importante ufficiale di stirpe barbarica attivo nell’età tra Ricimero e Odoacre. Poco sappiamo delle sue origini e della sua famiglia. Valila, infatti, non è ricordato nelle fonti storiografiche e letterarie. Possediamo, invece, tre importanti documenti del periodo 471-483 che segnano tappe diverse della sua brillante carriera, confermandone il
prestigio, la ricchezza, il legame con Roma e i territori intorno alla città. In ordine cronologico, il primo documento è la cosiddetta Charta Cornutiana, databile al 17 aprile 471. Si tratta di un atto di donazione (scriptura donationis) realizzato da Valila, che descrive il processo di fondazione e dotazione di S. Maria de Cornuta, una chiesa rurale nella campagna di Tivoli distrutta già da tempo nel XVIII secolo. Nella seconda metà del XII secolo la carta fu inserita nel Regesto della Chiesa di Tivoli. Tutta la documentazione confluí poi nell’Archivio Vaticano. La Charta Cornutiana venne redatta
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FLAVIO VALILA
sotto dettatura dal notarius Feliciano, un segretario di Valila; questi firmò di suo pugno la donazione: la Charta riporta infatti la firma di Fl(avius) Valila qui et Theodovius v(ir) c(larissimus) et in(lustris), comes et magister utriusque militiae. Dunque, in data 17 aprile 471, sotto il consolato dell’imperatore d’Oriente Leone, per la quarta volta, e di Probiano, alla presenza del suo segretario Feliciano, redattore del testo, il senatore e supremo comandante militare Flavio Valila fece dono di alcuni suoi terreni che si trovavano presso Tivoli alla diocesi tiburtina, tenendo tuttavia per sé il praetorium (dunque la villa padronale all’interno dei terreni) e, fino alla sua morte, l’usufrutto. Secondo la consuetudine di età tardo-antica, anche i contadini del fondo (coloni e inquilini) venivano ceduti al nuovo proprietario. Sui terreni della Massa Cornutiana venne fondata la chiesa rurale di S. Maria de Cornuta. La generosa donazione venne arricchita anche con arredi e oggetti necessari allo svolgimento del culto nella nuova chiesa. Destinando al vescovo terreni dalla sua Massa Cornutiana, Valila non realizzò solo un’opera di devoto
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Ricostruzione ipotetica del mosaico che ornava la chiesa di S. Andrea in Catabarbara e presentava affinità con quello della chiesa di S. Agata dei Goti, raffigurando Cristo circondato dagli apostoli, dall’opera di Giovanni Giustino Ciampini Vetera Monimenta: In quibus praecipuè Musiva Opera Sacrarum, Profanarumque Aedium Structura, Ac nonnulli antiqui Ritus Dissertationibus, Iconibusque illustrantur. Roma, 1690.
evergetismo, di beneficenza verso la Chiesa cattolica; provvedendo alle necessità della chiesa da erigere, andò anche incontro alle esigenze di culto dei contadini che abitavano e lavoravano le terre. In questo modo si spiega la sua decisione di fornire il nuovo edificio sacro di un ricco corredo liturgico, con il formale divieto di alienare questi tesori dal patrimonio della chiesa. Lo straordinario interesse della Charta è legato anche alla minuziosa descrizione di questi oggetti che formavano il corredo liturgico di una chiesa rurale del Lazio nella seconda metà del V secolo.
Un occhio di riguardo per il papa V’è un ultimo aspetto che nella scelta di Valila non è probabilmente da trascurare. La donazione avvenne a favore della Chiesa di Tivoli. Dal 468 era papa a Roma Simplicio, che da Tivoli veniva (natione Tiburtinus secondo il Liber Pontificalis). Non è da escludere che la generosità del cattolico Valila, in questa occasione e anche piú tardi, vada collegata al desiderio di mantenere ottimi rapporti con il vescovo di Roma. Dalle campagne
dell’agro tiburtino il nome e i titoli di Valila riaffiorano in uno dei luoghi piú prestigiosi e rappresentativi della vita urbana ancora alla fine del V secolo: l’Anfiteatro Flavio. Dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, sotto Odoacre, il Colosseo fu sottoposto a un ulteriore restauro. A conferma del funzionamento dell’edificio per l’allestimento di spettacoli ed eventi, nell’anfiteatro furono risistemati anche i posti d’onore destinati ai senatori, a quelli che erano i piú importanti personaggi della città per prestigio e ricchezza. Alcuni grandi nomi dell’aristocrazia romana durante i primi anni del regime di Odoacre (476-484) sono significativamente rappresentati tra i frammenti epigrafici giunti fino a noi. Tra i destinatari dei posti vi è anche il senatore e magister Flavio Valila che vi compare, tuttavia, con una formula onomastica ridotta. È infatti riportato solo il suo nome romano: Fl(avius) Theodobius, v(ir) c(larissimus) et inl(ustris), com(es) [et mag(ister) utr(iusque) mil(itiae)] (Cf. CIL VI 32169 + 32221: «Flavio Theodobius, uomo di rango clarissimo e illustre, comes e magister utriusque militiae»). La testimonianza è importante perché, in primo luogo, documenta la presenza di Valila a Roma nella prima età di Odoacre; in secondo luogo, mostra come Valila abbia mantenuto l’autorità e il prestigio che già possedeva al tempo dell’imperatore Antemio (471-472). Anche sotto Odoacre, nonostante le drammatiche vicende che videro la fine dell’impero d’Occidente tra il 471 e l’agosto del 476, Valila ha conservato la sua posizione e il suo potere. Appunto per sua autorevolezza ottiene l’onore di un posto tra i piú importanti personaggi della società urbana nel Colosseo, il luogo che continua a svolgere una funzione di centro di aggregazione della popolazione romana. Evidentemente, nessuno poteva rimproverare a Valila un comportamento ostile a Roma, alla sua popolazione – soprattutto i senatori – e alla chiesa cattolica, in occasione della guerra civile portata da Ricimero contro la città nel 472 e del terribile sacco che sconvolse nuovamente Roma all’inizio di luglio del 472.
Ritratto di papa Simplicio, olio su tela di scuola lombarda. Prima metà del XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
Nello spazio pubblico dell’anfiteatro Fl. Theodobius/Valila si mostra come senatore romano tra altri senatori, occultando il suo nome e le sue origini barbariche. Le strategie di integrazione di Valila, o della sua famiglia, e la sua condotta politica avevano dunque avuto successo. I senatori continuavano ad accettarlo fra loro; e soprattutto ne rispettavano la personalità di mediatore rispetto alla gerarchia militare barbarica che con Odoacre aveva definitivamente preso il sopravvento.
Il testamento di un cattolico devoto Ultimo documento in ordine cronologico che menziona Valila è un’iscrizione ormai perduta, ma trascritta durante il Rinascimento (ICUR II, p. 436, n. 115 = CLE 916 = ILCV 1785 = CIL VI 41402). Anche in questo caso, si ricorda una
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FLAVIO VALILA
generosa donazione alla Chiesa cattolica, in particolare a papa Simplicio (468-483). Si tratta, infatti, dell’iscrizione in versi di dedica della chiesa di S. Andrea in Catabarbara sull’Esquilino. L’iscrizione era posta alla base del mosaico absidale e venne distrutta insieme a parte della chiesa alla fine del XVII secolo. L’intero complesso – che si trovava in corrispondenza dell’attuale Seminario pontificio di Studi orientali, in via Napoleone III – venne in seguito demolito. Nel redigere il testamento, Valila donò al papa una parte del palazzo dei Giuni Bassi sull’Esquilino, divenuto sua dimora personale, e conosciuta come Basilica di Giunio Basso. Secondo la volontà testamentaria del donatore, papa Simplicio trasformò l’edificio in una chiesa dedicata a sant’Andrea. La chiesa venne costruita nello spazio di una vasta aula, forse con funzioni di ricevimento, annessa alla sontuosa dimora di Giunio Basso, console sotto Costantino nel 331. I Giuni Bassi mantennero il possesso del palazzo probabilmente fino agli ultimi decenni del IV secolo. A distanza di un secolo, la proprietà dell’edificio è del barbaro Valila. Ignoriamo le modalità che gli consentirono di acquisire il bene. Tuttavia, considerando anche la donazione della Massa Cornutiana, la proprietà del palazzo sull’Esquilino indica che il patrimonio del magister militum doveva essere piuttosto rilevante.
Terreni e ricchezze al vescovo di Roma La consacrazione dell’aula come chiesa cattolica fu opera di papa Simplicio. Dal momento che il papa morí il 10 marzo 483, il documento offre anche indicazioni per la datazione della morte di Flavio Valila, che avvenne presumibilmente qualche anno prima. Come nel caso della Massa Cornutiana, anche in quest’ultimo lascito testamentario, Valila garantí al vescovo di Roma terreni (praedia) e ricchezze (opes), affinché fossero destinati al culto cattolico. Non sappiamo se la scelta di consacrare la chiesa al culto di sant’Andrea sia da attribuire allo stesso Valila. In ogni caso, il santo era venerato dai Goti. Non è dunque da
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escludere che la consacrazione dipendesse anche da una volontà di Valila. Per quanto tramandato dalle fonti successive, la decorazione interna della chiesa presentava una suggestiva analogia con quella di S. Agata dei Goti, voluta da Flavio Ricimero per il culto ariano. È infatti interessante rilevare che al momento della consacrazione della chiesa fu realizzato un mosaico con la rappresentazione di Cristo fra gli apostoli. Anche in questo caso, l’analogia tra il mosaico di Ricimero nella chiesa ariana di S. Agata dei Goti e quello destinato alla chiesa voluta da Valila appare carica di significato. Ancora alla fine della sua vita (intorno al 481-482), Valila si presenta allo stesso tempo come membro rispettato del senato di Roma e devoto seguace della Chiesa cattolica di Roma. La memoria della sua donazione di un luogo splendido da trasformare in chiesa per sant’Andrea doveva ribadire il suo legame profondo con Roma e, in particolare, con le due istituzioni che
Roma, l’interno dell’Anfiteatro Flavio. Una delle prove del prestigio di cui Flavio Valila godette è la presenza di un posto a lui riservato.
cedere alla Chiesa cattolica sue proprietà, affinché venisse eretto un edificio di culto per sant’Andrea. Si tratta di una scelta tanto piú significativa se si accetta l’ipotesi che proprio in quest’area si trovasse – insieme alle chiese del culto – anche la sede del vescovo ariano di Roma. Un papiro ravennate risalente al 490 ne attesta infatti la presenza in città. Nonostante questa situazione, la scelta di Valila non trovò ostacoli. Odoacre, che viveva a Ravenna, era un ariano; e il vescovo del culto ariano a Roma doveva essere una personalità di rilievo.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
Nel segno della tolleranza
rappresentavano i pilastri sociali, economici e culturali della città: il senato, di cui era orgoglioso esponente; e la chiesa cattolica, alla quale apparteneva fedelmente. D’altra parte, anche l’ubicazione della dimora di Valila, poi chiesa di S. Andrea, è un aspetto da approfondire. La proprietà che Valila cede a papa Simplicio si trova infatti sull’Esquilino, in un’area che per tutto il V secolo, e ancora in età ostrogota, ebbe una spiccata vocazione come luogo di residenza dei militari di stirpe barbarica (e delle loro famiglie) presenti in città. Nell’area vivono i soldati al servizio dell’esercito imperiale e della corte; o coloro che prestano servizio come bucellarii, guardia privata, di potenti personaggi. Si tratta di una presenza che connota il quartiere dal punto di vista culturale e religioso. Abbiamo già visto l’importanza della ubicazione di almeno due chiese destinate al culto ariano sull’Esquilino. In questa regione cosí contesa dal punto di vista religioso e culturale, Valila decide di
E tuttavia, il regime di Odoacre si fondava sulla libertà religiosa e sulla convivenza tra cattolici, ariani e seguaci di altre fedi. La presenza di chiese di committenza barbarica dedicate a culti diversi in un’area comunque limitata rispecchia questo clima di convivenza nella Roma della fine del V secolo. In secondo luogo, è possibile inserire la donazione di Valila, e probabilmente tutta la sua attività dopo il 476, nel contesto piú generale della contrapposizione politica tra gruppi all’interno del senato di Roma. La donazione a papa Simplicio indica che Valila non apparteneva al gruppo politico di quanti – come gli esponenti della potente famiglia dei Decii – intendevano indebolire la forza del vescovo in città, ormai costantemente in ascesa. Al contrario, le scelte di evergetismo e la sua posizione rispetto al governo di Odoacre suggeriscono di ricollegare Flavio Valila alla fazione piú favorevole all’intesa con il papa, quella che gravitava intorno alla potente famiglia degli Anici. Forse già in questa prospettiva «aniciana» possiamo collocare la posizione di Valila nell’aprile del 471; come pure interpretare la capacità del nostro personaggio di svolgere un ruolo di mediazione a Roma sotto il regime di Odoacre, sovrano molto attento ai rapporti con l’aristocrazia senatoria. Sicuramente in una prospettiva «filoaniciana» si comprende meglio la decisione di Valila di donare a papa Simplicio la sua proprietà sull’Esquilino. Dall’evidenza di questi documenti emergono il
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FLAVIO VALILA
prestigio, la ricchezza e il legame di Flavio Valila a Roma nel periodo tra gli ultimi anni dell’impero d’Occidente e la prima parte del regime di Odoacre. A giudicare dal nome germanico, Valila era di stirpe gotica e la sua funzione di supremo comandante militare conferma la sua appartenenza all’aristocrazia barbarica. D’altra parte, molto significativo è il
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suo ostentato legame con la Chiesa cattolica, in particolare con Simplicio, che era originario di Tivoli, dunque proveniva dalla stessa diocesi che ricevette la prima donazione di terreni da parte di Valila; da vescovo di Roma, Simplicio ottenne in testamento una parte della sua dimora urbana. Al prestigio militare e alla fede cattolica si uniscono anche l’appartenenza di
Per la voluptas del popolo di Roma In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
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lavio Valila fu ultimo proprietario di uno splendido edificio, la basilica di Giunio Basso, che si trovava a breve distanza da S. Maria Maggiore (presso l’attuale Seminario Pontificio di Studi Orientali, in via Napoleone III). L’edificio era stato costruito da Giunio Basso, console del 331. Dal punto di vista architettonico si trattava di una struttura semplice: uno spazio rettangolare absidato, preceduto da un atrio a forcipe. Meravigliosa, al contrario, era la decorazione interna, dal momento che la basilica era completamente ricoperta di variopinte incrostazioni marmoree figurate (opus sectile). Di questa decorazione sono sopravvissuti solo alcuni frammenti, divisi tra il Museo dei Conservatori in Campidoglio e il Museo di Palazzo Massimo. Il piú suggestivo tra questi pannelli riporta l’immagine della processione consolare di Giunio Basso, rappresentato in posizione frontale su un cocchio. Dietro di lui seguono quattro aurighi a cavallo che appartengono alle quattro fazioni che si affrontavano nelle corse del Circo Massimo: i verdi, gli azzurri, i rossi e i bianchi. Probabilmente l’immagine allude agli spettacoli circensi che, in occasione del suo consolato, Giunio Basso aveva offerto al divertimento (voluptas) del popolo romano.
Pannello in opus sectile raffigurante una pompa circensis, dalla Basilica di Giunio Basso. IV sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Il personaggio alla guida della biga è identificabile con lo stesso Giunio, patrono dei giochi.
Valila all’assemblea senatoria; e la sua presumibile educazione, che sarebbe testimoniata, per esempio, dalla firma su un documento complesso come la Charta Cornutiana, redatto in suo nome da un notarius alle sue dipendenze. In considerazione di questi caratteri – soprattutto l’appartenenza al cattolicesimo – sarebbe possibile pure
ipotizzare che Valila fosse un barbaro di seconda generazione, nato da un matrimonio misto, con padre di stirpe germanica e madre forse appartenente all’aristocrazia romana (e dunque di probabile fede cattolica). In ogni caso, è proprio l’associazione tra la sua posizione di magister utriusque militiae, comandante dell’esercito imperiale, e la sua fede cattolica che sorprende e desta interesse in un periodo che vide l’avvicendamento al potere supremo in Italia di due personaggi di stirpe barbarica entrambi di fede ariana: Ricimero, dal 456 al 472, e Odoacre, dal 476 al 493. Come abbiamo già detto, è anche la continuità del prestigio e della carriera di Valila a sorprendere, in un’epoca segnata da inaspettati e drammatici rivolgimenti. Emblematico, anche per il suo rapporto con Roma, è il confronto tra Valila e Ricimero, ariano e punto di riferimento della comunità ariana a Roma almeno fino al 470. È evidente che l’appartenenza di Valila al cattolicesimo indica una autonomia del nostro personaggio
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FLAVIO VALILA
rispetto a Ricimero; o perfino una contrapposizione che non è solo religiosa. La Charta Cornutiana, infatti, attesta che il senatore Valila era supremo comandante militare nell’aprile 471. A quel tempo Ricimero non era piú a Roma da tempo. Come abbiamo visto, dopo il fallimento della grande spedizione di Antemio contro i Vandali nell’estate 468, le tensioni tra l’imperatore Antemio e Ricimero erano esplose in aperta conflittualità. Ricimero aveva lasciato Roma e nell’inverno 471 le fonti testimoniano la sua presenza nel Nord Italia, tra Milano e Pavia. Rispetto a questa pericolosa contrapposizione tra l’imperatore e Ricimero, Valila fece un’altra scelta. Come indica la sua donazione al vescovo di Tivoli nell’aprile 471 è probabile che Valila avesse scelto di restare a Roma, dopo la rottura tra Antemio e Ricimero, rivestendo il ruolo di comandante dell’esercito al servizio dell’imperatore. Le fonti indicano che, al pari di Valila, altri personaggi di stirpe barbarica rimasero fedeli ad Antemio, continuando a ricoprire comandi importanti. Cosí, per esempio i due ufficiali Everdingo e Torisario, che nell’estate 471 accompagnarono il figlio di
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Antemio, Antemiolo, nella disastrosa spedizione contro i Visigoti. Forse Valila divenne magister utriusque militiae anche prima del 470, subentrando al magister Marcellino, fedele alleato di Antemio, e fatto assassinare da Ricimero nell’estate del 468. A ogni modo, riteniamo possibile ipotizzare che Valila, rimasto a Roma, rappresenti il punto di riferimento per le truppe imperiali fedeli ad Antemio e per quei barbari che non vollero seguire Ricimero nel Nord.
Un mediatore di successo Come abbiamo raccontato nel capitolo precedente, tra la fine del 471 e l’estate del 472, l’Italia fu segnata da una drammatica guerra civile, che culminò con l’assedio di Roma. Dopo aver preso la città e aver sostituito Antemio con il nobile senatore Anicio Olibrio, Ricimero morí improvvisamente all’apice del suo successo, nell’agosto 472. A distanza di pochi mesi, a novembre, morí anche il nuovo imperatore Olibrio. Il potere passò al nipote di Ricimero, il principe burgundo Gundobado, che nominò imperatore Glicerio. Nulla sappiamo del destino di Valila durante la guerra civile e in
In basso, a sinistra un altro pannello facente parte della decorazione in opus sectile della Basilica di Giunio Basso raffigurante una tigre che assale un vitello. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori.
In basso sulle due pagine ancora un pannello dalla Basilica di Giunio Basso raffigurante le Ninfe che rapiscono Hylas, mitico eroe greco che partecipò alla spedizione degli Argonauti. IV sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
questi anni di grave crisi. Nonostante questi convulsi rovesciamenti di potere, Flavio Valila mantiene il suo prestigio a Roma, il suo ingente patrimonio, il consenso dell’aristocrazia senatoria. È quest’ultimo aspetto che occorre tener bene presente. Durante gli anni della crisi, Valila rimase a Roma, al fianco dei legittimi imperatori e, comunque, sempre in ottimi rapporti con l’aristocrazia senatoria e i vertici della Chiesa cattolica della città (e in particolare con il papa Simplicio). Non si compromise con gli aspetti deteriori del regime di Ricimero e di Gundobado. In particolare, non si conservava memoria di una sua partecipazione nei ranghi dell’esercito di Ricimero alla guerra civile e al
terzo sacco di Roma del luglio 472. Ne è prova l’onore ricevuto al tempo di Odoacre attraverso l’assegnazione di un posto tra i senatori nell’Anfiteatro Flavio. Evidentemente, quando la situazione si stabilizzò, con l’alleanza tra Odoacre e il senato, Valila trasse i frutti della sua accorta condotta in anni difficili. È possibile che dopo i fatti del 472, il cattolico Valila si sia legato alla potente famiglia senatoria degli Anicii, filobarbarica e cattolica, mantenendo questa solidarietà politica anche durante il regno dell’ariano Odoacre. Un uomo del suo valore era infatti un mediatore prezioso per Odoacre, che mirava a consolidare il suo regime con l’accordo del senato di Roma.
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IL REGNO OSTROGOTO
IL REGNO OSTROGOTO
QUEI BARBARI CHE AMMIRAVANO ROMA GLI OSTROGOTI GIUNSERO IN ITALIA GUIDATI DA TEODERICO, A CUI ZENONE, IMPERATORE D’ORIENTE, AVEVA CHIESTO DI LIBERARE LA PENISOLA DAL DOMINIO DI ODOACRE. COMPIUTA L’IMPRESA, IL NUOVO REGNO BARBARICO CERCÒ IN TUTTI I MODI DI CONSERVARE GLI SPLENDORI DEL PASSATO
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opo aver sconfitto Odoacre e ottenuto il controllo dell’Italia, il re degli Ostrogoti Teoderico decise di risiedere con gran parte del suo popolo in Italia Annonaria, a Nord, scegliendo Ravenna come sua residenza. Come era avvenuto anche sotto Odoacre (476-491), Roma cedette nuovamente il suo ruolo di residenza del supremo potere a vantaggio di una città del Nord Italia. Nonostante la lontananza del re, l’Urbe continuava comunque a rappresentare l’altro polo di riferimento politico, sociale, economico della Penisola. Tuttavia, era ormai iniziato il processo che, nel giro di alcuni decenni (476-554), portò Roma dal livello di «capitale» di un antico impero a grande e importante centro di un regno romano-barbarico, passando poi alla condizione di città duramente contesa al tempo della
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guerra greco-gotica (535-553) e, infine, a capoluogo di una provincia di frontiera, sotto la minaccia di temibili guerrieri, i Longobardi. La Roma di Gregorio Magno (590-604) è una tappa fondamentale nella trasformazione della città tra età tardoantica ed età altomedievale. Alla fine del V secolo, Roma appariva stremata da un secolo di assedi, saccheggi, distruzioni. Rispetto alla prima metà del secolo, la popolazione era drasticamente diminuita e alcune aree erano ormai occupate da ruderi e rovine. Per la verità, l’esatta percezione del volto urbano di Roma alla fine dell’antichità ci sfugge. Solo da pochi anni, infatti, le indagini archeologiche hanno prestato maggiore attenzione a ricostruire anche le fasi ultime della storia della città antica. La disponibilità di dati su Roma tra il V e il VI secolo è ancora talmente modesta rispetto alle nostre
Ravenna, S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico raffigurante il palazzo di Teoderico, sovrano d’Italia dal 493 al 526. Nella composizione doveva comparire il re ostrogoto con la sua corte, ma le figure furono cancellate in seguito agli interventi condotti in età giustinianea tra il 556 e il 565.
conoscenze della Roma imperiale che, in molti casi, non c’è accordo sull’aspetto di alcune aree urbane alla fine dell’impero romano d’Occidente e in età ostrogota.
Un degrado inarrestabile Ciononostante, pur aumentando i segni del declino, Roma era ancora una grande città, dominata dalle famiglie dell’aristocrazia senatoria che ancora potevano permettersi un tenore di vita all’altezza dei passati fasti. I colpi subiti, infatti, avevano inciso anche sulla prosperità dei senatori. Molto diminuita era, di conseguenza, la possibilità di trovare generosi benefattori che contribuissero al restauro di edifici e aree danneggiate da incuria, eventi naturali o semplicemente dal trascorrere del tempo. Inoltre, l’impegno di denaro regio non era tale da poter rimediare a tutti i guasti
provocati dalla rovina in molti casi «fisiologica» delle aree monumentali. In generale, tuttavia, ancora sotto il dominio ostrogoto Roma continuava a funzionare e rappresentava forse la piú importante città del regno, dal punto di vista economico e culturale. Funzionava la distribuzione di cibo per la popolazione rimasta nell’Urbe; e ancora attivi erano alcuni impianti termali e i luoghi di spettacolo. D’altra parte, i gravi disastri del V secolo avevano accelerato l’ascesa di un altro punto di riferimento nel tessuto urbano: la Chiesa cattolica. Tra Leone Magno e papa Gelasio, l’autorità e l’autorevolezza del capo della Chiesa cristiana cattolica erano cresciute significativamente. Allo stesso tempo, erano aumentati la diffusione e il peso delle istituzioni e degli edifici ecclesiastici in città. Dopo un secolo di ulteriore evoluzione, il papato di
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IL REGNO OSTROGOTO
Gregorio Magno (590-604) sancirà la supremazia del vescovo cristiano sulla città. Sostenuta da questi gruppi, talvolta in competizione tra loro – aristocrazia senatoria e gerarchie ecclesiastiche – Roma conservava nei primi decenni del VI secolo il suo ruolo di grande centro nel Mediterraneo tardo-antico rispetto a una situazione italiana che – salvo poche eccezioni come Ravenna – si caratterizzava per il complessivo declino delle strutture urbane.
La visita di Teoderico In questo contesto occorre inserire un evento di suggestivo simbolismo nella storia di Roma al tempo degli Ostrogoti. Come già era avvenuto nel IV e nel V secolo – prima della decisione di Valentiniano III di tornare a risiedere nell’Urbe – anche il re degli Ostrogoti decise di far visita a Roma e alla sua popolazione. Il soggiorno di Teoderico si realizzò nel 500. Il re rimase in città per circa 6 mesi, alloggiando nel palazzo imperiale sul Palatino. Una fonte molto informata, l’Anonimo valesiano II (65-69), descrive le fasi principali della visita di Teoderico. In particolare, secondo le consuete formule dell’omaggio ai potenti in visita (il cerimoniale dell’adventus), si ricorda che il papa Simmaco, il senato e il popolo di Roma uscirono dalle porte della città per andare incontro al re che arrivava con il suo seguito percorrendo la via Flaminia. Scortato dalla folla festante, il re decise, come primo evento del suo soggiorno, di recarsi in visita alla tomba di Pietro. Come molti barbari, Teoderico era un cristiano, ma di fede ariana. La sua devozione al martire Pietro suscitò grande ammirazione presso i cattolici. Afferma infatti la fonte che, al cospetto della tomba, il re si comportò come fosse un cattolico. Dopo l’omaggio a Pietro, e al vescovo di Roma, ebbero inizio le cerimonie ufficiali per l’ingresso del re a Roma. Teoderico raggiunse la sede del senato e arringò il popolo romano, affermando che, per quanto possibile, avrebbe
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Il Medaglione d’oro di Morro d’Alba, moneta da tre solidi di re Teoderico rinvenuta nel 1894 in una tomba presso Senigallia. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.
mantenuto tutti i privilegi che gli imperatori suoi predecessori avevano garantito all’Urbe. Teoderico parlò nel Foro Romano, nel luogo detto Ad Palmam. Tra i testimoni del discorso del re vi fu anche un vescovo africano, Fulgenzio di Ruspe. Nella sua biografia, si ricordano la solennità del momento e l’entusiasmo della popolazione per le parole di Teoderico, che furono poi incise su una tavola di bronzo ed esposte in un luogo pubblico. Dopo il discorso alla cittadinanza, con il duplice omaggio a senato e popolo, Teoderico inaugurò la fase delle celebrazioni. Era giunto in città per commemorare con i Romani le sue gesta – forse i trent’anni di potere dall’inizio della sua ascesa politica (per tricennalem triumphans). Dopo aver preso dimora sul Palatino, il re partecipò a spettacolari giochi, che dovevano esaltare la magnificenza del monarca. Inoltre, secondo consuetudine, la gloria del re si manifestò attraverso la sua generosità verso il popolo e verso i poveri della città. Teoderico fece ricche donazioni, impegnandosi anche a sostenere il restauro dell’antico palazzo imperiale e delle mura cittadine. Come è stato notato, la sequenza degli eventi che accompagnano l’arrivo di Teoderico a Roma mescola il rispetto della tradizione – omaggio al senato e al popolo e concessione di giochi e donativi – alla novità di un eccezionale ossequio all’identità cristiana della città, attraverso la visita alla tomba di Pietro e l’incontro con il vescovo. Anche se Teoderico, come il suo predecessore Odoacre, preferí risiedere nel Nord Italia, presso i luoghi dove vennero stanziati i suoi guerrieri, la visita a Roma è un evento emblematico per la storia dell’Italia sotto il dominio ostrogoto. Durante il suo regno, Teoderico cercò di inserirsi in piena continuità politica e culturale con gli imperatori. Il rispetto per i Romani, per la loro storia e per le loro tradizioni faceva parte delle strategie che il re intendeva adottare per consolidare il suo regno, fondato sulla pacifica
convivenza tra Ostrogoti e Romani. La scelta di rendere un fastoso omaggio a Roma, al suo senato e al suo popolo, rientrava tra queste strategie. Del comportamento di Teoderico a Roma si fece a lungo memoria, celebrandone il ricordo come segno del sincero desiderio del re di raggiungere un’intesa politica che garantisse la prosperità e la durata del regno degli Ostrogoti in Italia.
Un illustre rappresentante del re La presenza di Ostrogoti a Roma durante il regno di Teoderico fu probabilmente modesta. Poche sono le notizie al riguardo. Nel 502 scoppiarono a Roma violenze contro papa Simmaco. Il re Teoderico inviò suoi rappresentanti per indagare sui disordini. Giunsero da Ravenna a Roma i maiores domus Bedeulfo e Gudila, viri sublimes, e il conte di rango illustre Arigerno (vir illustris comes Arigernus). Dopo aver svolto la sua missione, ad Arigerno fu ordinato di restare a Roma nella funzione di comes, rappresentante del re,
Verona, basilica di S. Zeno. Due riquadri scolpiti a rilievi ai lati del protiro della chiesa raffiguranti il duello fra Odoacre e Teoderico (sulla sinistra) e un combattimento tra fanti. XII sec.
mediatore con la potente aristocrazia senatoria e uomo di fiducia di Teoderico, che risiedeva a Ravenna. Sappiamo che tra la seconda metà del 508 e la metà del 510 Arigerno lasciò Roma e fu inviato in Gallia. In quel periodo, Teoderico era impegnato in una guerra in Provenza contro i Visigoti (508-511). Dopo aver preso parte ai combattimenti, Arigerno tornò ai suoi incarichi a Roma. Il suo ritorno fu accompagnato da una lettera del re al senato che esortava i senatori a riconsegnarsi alla disciplina di Arigerno, in modo da garantire la tranquillità della città, evitare eccessi e abusi, far rispettare l’ordine (Variae 4, 16). Risalgono probabilmente al biennio 510-511, dopo il ritorno del comes a Roma, le lettere (Variae) relative all’opera di Arigerno in città conservate da Cassiodoro. Per diversi anni Arigerno fu il supremo rappresentante di Teoderico e del potere regio a Roma. Spettarono a lui funzioni di salvaguardia dell’ordine pubblico, di comando militare in città e di autorità giudicante nei casi di piú grave violenza. Inoltre, Arigerno doveva
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Mare del Nord
IL REGNO OSTROGOTO
Sc oti
Danesi
Sassoni
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B reto ni
Colonia
Turingi Bavari
Tournai
OCEANO
Soissons
Parigi
Re g n o
ATLANTICO
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Ginevra
Aquileia Verona
Milano
Torino
Pavia Ravenna
Tolosa
Svevi
Arles
Pamplona Palencia
B a s chi
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Saragozza
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Rimini
Re g n o de g li Ostrogoti Roma
Barcellona Tarragona
Toledo
Lisbona
Salisburgo
Burgundi Vienne
Braga
Ratisbona
Strasburgo
Lione
Lugo
Metz
Reims
Napoli
Mar Tirreno
Valencia
Cordoba Cartagena
Cadice Ceuta
costantemente tenere informato il re e la corte della situazione a Roma e dell’attività dell’aristocrazia senatoria. Le lettere di Cassiodoro fanno riferimento a compiti molteplici e molto delicati: Arigerno ebbe il ruolo di regio mediatore nei contenziosi tra membri dell’aristocrazia senatoria (Variae 3, 36, per il suo coinvolgimento nel conflitto tra un tale Firmino e il nobile patrizio Venanzio, della potente stirpe dei Decii). D’altra parte, secondo la consuetudine dell’età ostrogota, il suo compito era pure quello di appoggiare come rappresentante della forza pubblica l’azione del prefetto urbano nel caso di processi che avessero coinvolto senatori. Cosí, per esempio,
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Cesarea
L’assetto geopolitico dell’Europa al tempo di Teoderico (493-526).
Mar Mediterraneo Re g n o dei Van dali
Cartagine
tra il settembre 510 e l’agosto 511, si celebrò un processo contro due eminenti senatori, Basilio e Pretestato, accusati di arti magiche (forse necromanzia) e adesione ai culti pagani vietati per legge. Teoderico chiese ad Arigerno di sostenere l’azione legale del prefetto urbano Argolico; in particolare, doveva scovare e condurre davanti a una commissione di cinque giudici del senato i due aristocratici che si erano resi latitanti; in seguito, ebbe incarico di garantire – anche con la sua personale supervisione – il pacifico e giusto svolgimento del processo, reagendo soprattutto a eventuali tentativi di uomini fedeli ai due imputati di creare disordini. Dopo il giudizio, e l’eventuale
Balti
L’incanto di Fulgenzio di Ruspe
Slavi Longo b ard i
Ge p i d i
Mar N e ro
Sirmium
Naissus
Adrianopoli
I mp e ro R o m ano Durazzo
Costantinopoli
Salonicco
d’O ri ente Larissa
condanna, Arigerno doveva quindi far applicare la pena (Variae 4, 22-23). Cosí avvenne: a distanza di quasi un secolo, papa Gregorio Magno ricorda che Basilio fu arso vivo, come monito contro tutti coloro che pervicacemente proseguivano nella venerazione e nei riti dell’antica religione pagana.
Dispute fra comunità diverse In un’altra occasione spettò ad Arigerno di decidere come giudice in una contesa relativa a una casa a Roma di proprietà della Chiesa cattolica e rivendicata dalla comunità dei Samaritani come antica sinagoga (Variae 3, 45). E sempre nel rispetto delle diverse fedi
N
el corso di un suo viaggio in Italia nel 500, l’africano Fulgenzio di Ruspe decide di compiere un pellegrinaggio a Roma per visitare le tombe degli apostoli. Giunge in città in coincidenza della visita di Teoderico. Un biografo di Fulgenzio descrive l’impressione del santo uomo alla vista di Roma: «La città viveva allora un momento di grandissimo tripudio per la presenza del re Teoderico, che inondava di gioia senato e popolo romano. Sicché avvenne che il beato Fulgenzio (...) mentre il ricordato re Teoderico pronunciava un discorso in un luogo chiamato “La Palma d’oro”, vide l’aristocrazia senatoria romana in tutta la sua magnificenza e la nobiltà distinta nei suoi diversi gradi; e ascoltando con le sue caste orecchie le acclamazioni del popolo libero, comprese quale fosse la fatua pomposità del mondo. (...) Che anzi s’infiammò maggiormente nell’aspirazione a possedere la felicità della Gerusalemme celeste e ai confratelli, che gli erano vicini, rivolse queste salutari parole: “Quanto può esser bella la Gerusalemme celeste, se cosí risplende la Roma terrestre!”» (Vita di San Fulgenzio, 9, traduzione di Antonino Isola).
In alto, a destra veduta del Foro Romano. La vista dei monumenti della Roma antica destò grande impressione in Fulgenzio di Ruspe, che visitò l’Urbe nel 500, in coincidenza con il soggiorno di Teoderico.
religiose che vivevano a Roma, Arigerno aveva anche informato dettagliatamente il re di disordini che avevano colpito la comunità ebraica, con il grave episodio dell’incendio di una sinagoga da parte della plebe romana. In seguito al rapporto di Arigerno, il re ordinò al senato di istruire un’inchiesta per punire i colpevoli (Variae 5, 43). Nulla sappiamo delle modalità del soggiorno di Arigerno a Roma e dei luoghi nei quali abitava ed esercitava le sue funzioni. Senza dubbio, in quanto comandante militare e garante dell’ordine pubblico, Arigerno aveva a disposizione un contingente di uomini armati di stirpe barbarica. Anche gli Ostrogoti presenti a
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IL REGNO OSTROGOTO
Roma erano ai suoi ordini, se inseriti nei ranghi militari, o si rimettevano alla sua protezione, se civili. Tra questi si trovavano funzionari regi incaricati di diverse funzioni. La testimonianza delle lettere (in particolare Variae 4, 16 e 22-23) indica anche il rapporto privilegiato di Arigerno con il senato e con la massima autorità civile di Roma, il prefetto urbano, che era appunto un senatore. Teoderico si sforza di presentare Arigerno come un Goto divenuto ormai concittadino dei Romani ed evidentemente integrato nella città. E probabilmente, tra i servitori piú efficienti di Teoderico, Arigerno doveva essere piuttosto incline a buoni rapporti con i Romani e al dialogo, soprattutto con l’aristocrazia senatoria. Del resto, dopo molti anni di soggiorno in città, non possiamo dubitare che Arigerno si fosse pienamente inserito nel tessuto dell’aristocrazia. Il suo compito fu tuttavia quello di mantenersi in posizione equidistante tra i diversi gruppi che formavano la popolazione di Roma, garantendo imparzialità e rispetto per tutti. Sotto questo punto di vista, come confermano le stesse parole di Teoderico (Variae 4, 16), Arigerno doveva comunque far sentire il peso della sua autorità anche ai piú potenti rappresentanti del senato.
Vent’anni di sangue Nei libri della Guerra gotica, Procopio di Cesarea descrive in maniera dettagliata le fasi della lunga guerra tra Ostrogoti e impero d’Oriente che si prolungò per quasi venti anni, dal 535 al 553. I due contendenti si affrontarono con ferocia e tenacia: i Romani d’Oriente si battevano per restaurare la sovranità dell’imperatore Giustiniano sull’Italia; gli Ostrogoti si battevano invece per la sopravvivenza e per sfuggire all’annientamento. Era un destino da poco toccato ai Vandali, cancellati dalla storia dal trionfo del generale bizantino Belisario, dopo quasi cento anni di dominio sulle piú ricche regioni dell’Africa romana. Per spazzare via il regno dei Vandali, Belisario aveva impiegato pochi mesi, dal settembre 533 al marzo 534.
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Poi, velocemente, le truppe imperiali si erano mosse verso la Sicilia e la Penisola italiana. La guerra tra Romani d’Oriente e Ostrogoti fu terribile; fu un un periodo di drastica cesura nella storia d’Italia, che scandí in maniera traumatica il passaggio da un assetto ancora legato alla tradizione antica a una nuova stagione. L’Italia e le sue città precipitarono nella devastazione, nella fame, nella malattia, nelle stragi. Come ricorda Procopio, Roma condivise questo luttuoso destino, uscendo stremata e drasticamente ridimensionata dalle gravi prove della guerra. Roma fu un obiettivo militare di primaria
Ravenna, basilica di S. Vitale. Particolare del mosaico raffigurante l’imperatore Giustiniano I circondato dalla sua corte, tra cui si riconosce il generale Belisario (con la barba). VI sec.
LE GUARNIGIONI MILITARI OSTROGOTE NELLA PENISOLA ITALIANA Tridentum Trid Trid Tr iden dentu een ntu um Comum C Co omu m m Mediolanum d Ticinum (Pavia) (P Dertona D De rtona (Tortona) (TTortoonaa) (To
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
T rvisium Ta Tarvisium (Treviso) (Treviso) o) Verona
Placentia Ravenna Faesulae Faes Fa essu ullae laaee (Fiesole) (Fiieso (F s le so le)
Caesena C Ca essen e a
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Urbinum Urbi Ur bin bi nu um Auximum A Auximu um Petra Pe etr tra Pe PPertusa rtussa rt (Osimo) (O o) (Gola (Gol (G ola del ol deel Furlo) Fuurl rlo) o) o) Perusia Peru Pe usi siaa Firmum Spoletium SSp polleetttiu ium iu m Clusium (Fermo) (F C us Cl u iu i m (Spoleto) (Sppo (S pole leto to)) (Chiusi) (C Chi hius ussi)
Urviventus Urvi U v veenttus us (Orvieto) (Or (O Orrvieeto t )
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Roma R maa Ro Tibur Tibu Ti bu ur Portus (Tivoli) (TTiv ivol volli)) Beneventum Beeneeve ven ent ntum ntum u Cumae Cuma Cu m e ma (Cuma) (C (Cum Cuma) a)) Neapolis Neeap N a ol oliss
Aceruntia Acer Ac eu er un ntia (Acerenza) (Ace (A cere ce renz re n a) nz
Roscianum R scciaanu Ro num m (Rossano) (RRosssa s no no) o)
Città fortificate con guarnigioni ostrogote durante la guerra ostrogoto-bizantina (secondo Procopio) Fortezze Sedi di comites goti Capitali
Cartina dell’Italia con la dislocazione delle forze ostrogote.
Panormus P normu Pa normus
importanza per entrambi i contendenti nel corso dei venti anni di guerra. La città fu assediata e conquistata per cinque volte. Il 9 dicembre 536 Belisario, comandante delle truppe imperiali, fece il suo ingresso in città da Porta Asinaria. Alla notizia dell’arrivo delle truppe imperiali, la guarnigione di circa quattromila Goti lasciata in città da Vitige decise di andarsene. Partirono per la via Flaminia, in direzione di Ravenna, proprio mentre gli imperiali entravano dall’altra parte della cinta muraria. Cosí Roma tornò nuovamente sotto il governo dei Romani, dopo sessant’anni di dominazione barbarica,
Syracusae Syra Sy racu cusae cusa cu saae
secondo una celebre affermazione di Procopio. I Goti non tardarono a reagire per riprendersi l’Urbe. Il re Vitige iniziò l’assedio alla città a partire dal 21 febbraio 537. Per oltre un anno Roma tornò a vivere le fatiche, le privazioni e i lutti di un blocco duraturo. Per accelerare la resa della città, Vitige ordinò di distruggere gli acquedotti, in modo da interrompere il flusso di acqua che ancora raggiungeva la città. Anche se gli assediati ebbero la possibilità di far ricorso all’acqua del Tevere e dei pozzi, l’assetto del rifornimento idrico degli edifici, in particolare delle grandi terme, venne definitivamente compromesso. Non fu l’unico
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Regno degli Ostrogoti NNaarsresetes
Medio Mediolanum M iolaa iol (Mil lano) no (Milano)
551 55 551 5
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540
P Po
To T otila Totila Ravenna 540 54 5 40 4 0 Ariminum538 538 38 (Rimini)
536
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53 53 535 35 5
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536 Regno REGNO OSTROGOTO dei Franchi
i ei Gepid Regno d
L o n g o b a rd i
B avari
Rom ma Roma 5366 546 547 549 552 Neeapolis olis is Neapolis (N Napooli) (Napoli) 53 536 36 3 65 543 54 43 43
Campagne ne delle le truppe pe bi biz bizantine zanti tine tin (prima fase faase della guerra guerraa greco-gotica) gre greco-g o-gotica) o-g
Monti nti La Lattari 553 5 3
544 54 5 4 44 Hydrunt Hydruntu tum tum Hydruntum (Otranto) o)
Ostrogoti Campagne degli O strogoti stro ogoti Franchi Campagne dei Fra ra ranchi i
M ar T ir r e n o Tir
Nuove ccampagne ampagne ne bizantine (secondaa fase della el a guerra ella gu gue ue erra greco-gotica) greco greco-gotic reco gotic otica) ca) Battaglie e principali 552
Panormus (Palermo) Paler aler
Anno della conquista/assedio (nel colore degli assedianti)
Mar
o sari Beli
Medi
C Carth rth thago go Carthago (Cartagine)
colpo portato allo splendore della città. Sempre Procopio – la nostra fonte principale sugli eventi – ricorda che in occasione di un assalto dei Goti al Mausoleo di Adriano – divenuto un baluardo del sistema di difesa cittadino – trovandosi a corto di armi da lanciare contro gli assalitori, i difensori decisero di fare a pezzi le statue che decoravano il monumento e ne lanciarono i frammenti contro i nemici. Sconvolta dalla furia dell’assedio, la popolazione chiusa dentro la città iniziò a vacillare. Ne ebbe percezione anche il re ostrogoto Vitige. Ordinò a uno dei suoi piú validi ufficiali, Vacis, di recarsi sotto Porta Salaria per apostrofare i Romani. Vacis iniziò a
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Rhe eggium g Rhegium (R (Reg g ggio) (Reggio)
Sicilia
535 53 35 535
terr
536 53 5 3 36 6
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o
In basso la battaglia combattuta nell’ottobre 552 ai piedi dei Monti Lattari, in una litografia a colori tratta da un dipinto di Alexander Zick. 1890. Lo scontro, che oppose il vittorioso esercito bizantino di Narsete ai Goti di Teia (la figura al centro, vestita di nero), portò alla morte del sovrano barbaro, segnando simbolicamente l’epilogo della guerra greco-gotica.
parlare rivolgendosi alla popolazione assediata. Rinfacciò loro di aver accolto in città un esercito straniero, formato da Greci, che veniva per sostituire il loro dominio a quello dei Goti. Vacis tentò di istigare i Romani alla rivolta, contando sul fatto che le privazioni dell’assedio avevano già stremato la popolazione. Nonostante le sue capacità retoriche, dopo aver parlato il Goto fece ritorno al suo accampamento senza aver ricevuto risposta. Alla fine, nel marzo del 538, Vitige levò l’assedio. La prima fase della guerra terminò dunque con una sconfitta degli Ostrogoti.
Ancora una volta sotto assedio Roma tornò a essere un obiettivo militare nel confronto tra Goti e Romani d’Oriente nel marzo del 546. Ancora una volta, gli Ostrogoti, al seguito del nuovo re Totila, circondarono la città e la posero sotto assedio. Dopo alcuni mesi, Totila ebbe maggiore fortuna. Grazie forse al tradimento di alcuni soldati imperiali, i Goti entrarono in città da Porta Asinaria e si abbandonarono al saccheggio, il 17 dicembre 546. Mentre i suoi guerrieri imperversavano in città, re Totila si recò alla basilica di S. Pietro. Come già gli imperatori tardo-romani e, soprattutto, Alarico e Teoderico prima di lui, appena entrato in città, l’ariano Totila sentí la necessità di recarsi alla tomba del martire Pietro. Fu avvicinato dal clero cattolico che gli chiese di aver pietà della popolazione. Anche in occasione di questo sacco, grazie alla mediazione della Chiesa la popolazione della città ebbe modo di sottrarsi alle violenze. In quel drammatico frangente Totila ebbe anche modo di mostrare la sua moderazione e continenza. Infatti, un gruppo dei suoi guerrieri aveva intenzione di catturare e uccidere Rusticiana, aristocratica romana, moglie di Boezio e figlia di Simmaco. La donna apparteneva dunque alla parte dell’aristocrazia senatoria che aveva duramente criticato il regime di Teoderico. Rusticiana doveva pagare
In alto monete del re ostrogoto Totila con immagini della Vittoria alata che regge la croce e un globo sormontato dalla croce. 541-552. Abbazia di Montecassino, Museo dell’Abbazia. Nella pagina accanto, in alto cartina nella quale sono riassunti i principali movimenti degli eserciti nel corso delle due fasi in cui può essere divisa la guerra greco-gotica.
per tutti: si vociferava che avesse sostenuto con il suo denaro la spedizione imperiale dall’Oriente. Totila la sottrasse alla morte e ordinò di lasciarla andar via incolume. Come i suoi predecessori – da Teoderico a Teodato – anche Totila era affascinato da Roma: dal presente della città che pur in declino appariva ancora maestosa; e dalle glorie del suo passato. Alcuni suggestivi passi di Procopio (Guerra gotica 3, 22, 7-16) ricordano questo atteggiamento del re ostrogoto. In particolare, dopo aver preso possesso della città, Totila inviò una lettera a Giustiniano. Chiese che l’imperatore riconoscesse la sua autorità sull’Italia e che si terminassero le ostilità: in caso contrario, minacciò di distruggere Roma. Poiché la risposta di Giustiniano non arrivava, Totila avviò le opere di devastazione, cominciando da alcuni tratti delle Mura Aureliane. Il silenzio di Giustiniano turbò anche Belisario, che decise di scrivere a Totila per dissuaderlo dai suoi progetti. Recuperando antichi motivi in lode di Roma, Belisario cercò di convincere il re a desistere dalle distruzioni: «Tra tutte le città che si trovano sotto il sole, Roma è riconosciuta come la piú grande e la piú splendida. Non fu infatti costruita dall’ingegno di un solo uomo, e non giunse per un potere di breve periodo a tal grado di grandezza e bellezza, ma una moltitudine di imperatori, e il concorso numeroso di uomini sommi, e il lungo scorrere dei tempi e ingenti ricchezze consentirono di raccogliere in questa città tutte le cose che si trovano nel mondo e artisti capaci. Cosí, costruendo a poco a poco questa città, come tu la vedi, la lasciarono ai posteri come monumento del valore di tutti, al punto che l’oltraggio di queste cose sarebbe giustamente considerato un’ingiuria grande verso gli uomini di ogni epoca. Si toglierebbe infatti agli uomini delle antiche generazioni il ricordo del loro valore, ai posteri lo spettacolo
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IL REGNO OSTROGOTO
delle loro opere. Stando cosí le cose, rifletti bene sulla situazione, poiché è necessario avvenga uno tra questi due casi: è possibile che tu sia vinto in questa guerra dall’imperatore, o può essere che tu vinca. Nel caso tu sia il vincitore, se distruggi Roma, avrai distrutto, o uomo valente, non la città di un altro, ma la tua; conservandola invece sarai ricco del piú bello tra tutti i possessi. Se, al contrario, ti accadesse la sorte peggiore, salvando Roma, troverai grande grazia presso il vincitore; se la distruggi non vi sarebbe spazio per alcuna umanità nei tuoi confronti, e d’altra parte l’impresa non ti sarebbe di alcun vantaggio. E presso tutti gli uomini ti coglierà la giusta fama dell’impresa, la quale per qualunque delle due scelte che farai è già assicurata. Quali sono le opere di coloro che governano, tale deve essere il nome di cui essi godono». Totila si convinse e tornò sulle sue decisioni. Roma non poteva essere distrutta. Totila agí in questo modo con moderazione e, come nel caso della venerazione dell’apostolo Pietro, anche in questa circostanza imitò Alarico che, nel 409, interruppe la marcia contro Roma delle sue truppe, chiedendo ai vescovi dell’Emilia di
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intercedere presso Onorio affinché si evitasse un assalto dei Goti contro Roma.
Narsete restituisce la libertà ai Romani Dopo la partenza di Totila, Roma fu prima ripresa da Belisario (febbraio 547), poi riconquistata durante un terzo assedio dalle truppe ostrogote (549). A decidere l’esito di una guerra che si trascinava sanguinosamente da oltre quindici anni fu il valore del generale imperiale Narsete. Nel luglio 552, Ostrogoti e Romani d’Oriente si scontrarono in una dura battaglia presso Gualdo Taldino. Anche Totila morí combattendo nello scontro. Dopo aver sbaragliato l’esercito avversario, Narsete entrò a Roma da trionfatore. A causa della guerra, la città aveva cambiato volto. Rovine e devastazioni segnavano una città che era stata in gran parte abbandonata dai suoi abitanti. Nonostante questa situazione, Narsete avviò una nuova stagione di restauri e ricostruzioni. Di elevato valore simbolico, il ripristino del ponte sulla via Salaria, da datare intorno al 565. L’iscrizione, ormai perduta, esalta la restituzione a Roma e a tutta l’Italia della libertà, conseguenza del successo contro la tirannia di Totila e di tutti gli Ostrogoti (CIL VI 1199).
Roma. Una veduta di Porta Asinaria, attraverso la quale, durante la guerra greco-gotica, entrarono in città prima Belisario (536) e poi Totila (546).
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MONOGRAFIE
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In copertina: Tusnelda nel trionfo di Germanico, olio su tela di Heinrich Ludwig Philippi. 1867. Colonia, Wallraf-Richartz Museum.
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