Archeo Monografie n. 4 - 2013

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archeo monografie ercolano itinerari tra mito e storia

Bimestrale - My Way Media Srl

monografie

itinerari tra mito e storia

€ 6,90 N°4-2013

ercolano vivere sotto il vesuvio oplontis • stabiae • boscoreale napoli e il museo archeologico



vivere sotto il

vesuvio ercolano, oplontis, stabiae, boscoreale e il museo archeologico nazionale di napoli di Alessandra Costantini e Christoph Hausmann

4. campania felix 6. vivere sotto il vulcano Il Vesuvio: storia e geologia

20. nella cittĂ di ercole

Alla scoperta di Ercolano e delle sue case

84. le dimore dell’ozio Le ville di Oplontis e Stabiae

112. lavorare la terra Boscoreale e le sue fattorie

122. i tesori del re

Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli


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na terra baciata dagli dèi, straordinariamente bella con i suoi paesaggi puntellati da scorci sul mare, la sua vegetazione rigogliosa. Quale luogo migliore per insediarsi, proprio qui, all’ombra di un antico vulcano dispensatore di fertilità, e costruirvi – secondo i dettami di un landscaping ante litteram – quelle dimore d’élite destinate a diventare l’emblema di uno stile di vita? O, ancora, per legare la propria esistenza ai frutti stessi di questa terra, tanto generosa da meritarsi gli elogi di Strabone e di Plinio il Vecchio? Meta di questa monografia di «Archeo» sono le ville d’otium lungo la costa, quelle rusticae nell’entroterra, ma anche le piú semplici case della città di Ercolano: sono i luoghi di una vita, di un’epoca felice e operosa interrottasi per sempre, nel volgere di un solo giorno. Diversamente da quelle della piú famosa Pompei, le antichità di Ercolano, Oplontis, Stabiae e Boscoreale sono meno note e frequentate, forse anche per la loro collocazione all’interno di una realtà territoriale molto compromessa: oggi – avvertono gli autori che, per realizzare questa guida, ai luoghi descritti hanno dedicato lunghi soggiorni – il visitatore può solo intuire lo splendore di quella che un tempo fu la Campania Felix e che, allo stato attuale, appare segnata dal degrado urbanistico e ambientale. Eppure, una volta calatisi nel terreno, al livello degli scavi archeologici, quel tempo, quella vita, si propongono intatti alla nostra percezione, come in nessun altro luogo al mondo...

Andreas M. Steiner

| titolo vivere sotto | 4 | il vesuvio | 4 |


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.

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Foto satellitare dei territori affacciati sul Golfo di Napoli con l’indicazione dei siti descritti in questa monografia e il rimando ai relativi capitoli.

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il vesuvio

L’eruzione del Monte Vesuvio dal Ponte della Maddalena, olio su tela di Pierre-Jacques Volaire (1729-1799). Quella del 79 d.C., che distrusse le città di Pompei, Ercolano, Stabiae e Oplontis, è l’eruzione piú famosa, ma nel tempo ne sono seguite molte altre.

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vivere sotto il vULCANo Per gli antichi era il «cratere di tutte le delizie», un «monte ricoperto di campi bellissimi». E, in quel fatidico 79 d.C., nessuno degli abitanti della Campania Felix voleva immaginare che il Vesuvio fosse in procinto di dar prova della sua terribile forza distruttrice...

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il vesuvio

I

l Golfo di Napoli si è distinto fin dall’antichità per l’intensa frequentazione umana, attirata dalla particolare fertilità del suolo e dalla presenza di materiali da costruzione – quali tufo, lava e pozzolana –, che la natura vulcanica del luogo rendeva disponibile in abbondanza. Prima della catastrofe eruttiva del 79 d.C., il Vesuvio era inattivo da molti secoli e, pertanto, era considerato innocuo. Le pendici e i fianchi del vulcano erano, infatti, ricoperti da un ampio manto boschivo e da vigneti, dai quali si ricavava un famosissimo vino, il Vesuvinum. I Romani non avevano alcun timore del Vesuvio dormiente, definito da Cicerone il «Cratere di tutte le delizie» e descritto da Strabone come un «monte ricoperto di campi bellissimi». Alle pendici del vulcano e lungo la costa del Golfo si stabilirono, nel corso dei secoli, centri abitati che gravitavano intorno alla città principale, Neapolis.

Campania Felix

Nella pagina accanto l’area archeologica di Ercolano, all’interno della città moderna. L’abitato, riportato alla luce solo parzialmente, era un piccolo municipium, con una popolazione stimata intorno alle 4-5000 unità, i cui limiti urbanistici non sono ancora certi, costruito sul versante occidentale del Vesuvio direttamente sul mare.

La bellezza del paesaggio, la mitezza e la salubrità del clima, unite alla presenza di sorgenti idrotermali naturali affiorate in varie località (Ischia, Baia, Oplontis e Stabiae), resero la costa campana il luogo di villeggiatura prediletto dall’élite romana dominante, compresa la famiglia imperiale, che vi soggiornava di frequente. Senatori, nobili, cavalieri, costruirono splendide e sfarzose ville d’otium con vista panoramica sul mare, nelle quali amavano soggiornare in una sorta di buen retiro. L’élite romana, orientata culturalmente in senso filelleno, creò un nuovo tipo di villa marittima, maestosa e lussuosa, dalle forme molto elaborate – mutuate dall’architettura greca e orientale –, fornita di biblioteche, pinacoteche e decorata con opere d’arte di ispirazione classica. In queste residenze elitarie, dedite all’ozio e al relax, i ricchi proprietari esibivano con orgoglio tutta la loro erudizione, le collezioni di scultura, i gioielli e la suppellettile piú preziosa. Le personalità piú in vista prendevano sotto le loro ali protettive intellettuali e filosofi greci, che spesso divenivano consiglieri, ambasciatori, e pedagoghi. Abbiamo, per esempio, una testimonianza certa che

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Filodemo di Gadara, seguace di Epicuro, fu a lungo ospite nella villa dei Pisoni a Ercolano. Gli ambienti di queste lussuose dimore furono adattati al nuovo clima culturale e dal mondo greco si presero in prestito gli ampi peristili, dotati di ombreggiati portici nei quali si poteva passeggiare conversando in un’atmosfera contemplativa, favorita da pitture allusive che offrivano lo spunto per dotti argomenti. A questi percorsi intellettuali facevano da sfondo i rigogliosi giardini, spesso dotati di ninfei e di un prezioso arredo scultoreo. Il percorso di relax era completato da complessi termali privati, considerati un lusso molto confortevole. Intorno alla fine del I secolo a.C. e agli inizi del successivo, le grandi ville marittime si arricchirono di nuovi ambienti e, a quanto risulta, il dominus accoglieva gli ospiti non piú nell’atrio, ma nelle stanze attorno al peristilio. La piú importante era la sala da pranzo, il triclinio, dove il padrone intratteneva le sue relazioni pubbliche stando comodamente sdraiato e gustando cibi prelibati. Queste ville avevano una cultura dedita all’otium, ma il negotium seguiva ovunque i loro proprietari, che per fare carriera dovevano essere sempre pronti a ricevere i clienti e a coltivare le amicizie importanti. Cicerone racconta che la vita in quei luoghi trascorreva in un clima di elegante mondanità, ma non privo di una certa licenziosità «tra libidini, amori, adulteri, dolce vita, banchetti, festini, canti, musiche, gite in barca».

«Come una sola metropoli» Tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C. la costa campana era ormai densamente occupata da ville d’otium, mentre l’entroterra si era riempito di fattorie agricole per soddisfare la richiesta di prodotti dei ricchi committenti. Il geografo Strabone descrive cosí il paesaggio dell’epoca: «Tutto il Golfo è trapuntato da città, edifici, piantagioni, cosí uniti tra loro da assumere l’aspetto di una sola metropoli». Le magnifiche residenze marittime furono edificate nei luoghi piú impervi della costa, ma affacciate sullo splendido panorama del Golfo. La planimetria degli edifici dovette adeguarsi all’orografia dei luoghi che però, spesso, (segue a p. 12)


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il vesuvio

«gestire» il rischio Il Vesuvio è l’unica montagna presente nella pianura campana e raggiunge, attualmente, un’altezza massima di 1281 m. Il rilievo è costituito dal vecchio edificio vulcanico del Monte Somma e dalla piú giovane caldera del «Gran Cono», che ha un diametro di 4 km. La sua storia geologica comincia 39 000 anni fa, con una serie di eruzioni che, nel corso del tempo, sovrapposero strati di lava e materiale piroclastico, formando un tipico cono di vulcano. La crescita si interruppe 22 000 anni fa con l’eruzione delle «Pomici di Base», che fece crollare la cima del vulcano, formando una caldera, la tipica depressione di forma piú o meno circolare, il Monte Somma. Seguirono diverse altre eruzioni che cambiarono l’aspetto del territorio intorno al vulcano, ma la loro origine fu sempre nella caldera centrale. L’eruzione del 79 d.C. fece crollare il fianco sud-orientale del Monte Somma, creando il Gran Cono, che ulteriori eruzioni fecero crescere fino alla formazione dell’attuale cratere.

Il Parco Nazionale Nel 1995 venne creato il Parco Nazionale del Vesuvio, al fine di tutelare e conservare l’ambiente naturale del territorio vesuviano. Il Parco si sviluppa intorno al Vesuvio su una superficie di quasi 8500 ettari che comprende i tredici Comuni circostanti. La fertilità del suolo alle pendici del vulcano rende la flora e la fauna particolarmente rigogliose, con centinaia di specie vegetali e animali, dalla betulla alla valeriana, dalla ginestra alle orchidee, e numerosissime specie di uccelli e farfalle, ma anche mammiferi, come la volpe, la lepre, la faina e il topo. Il territorio vanta inoltre una produzione agricola di tradizione millenaria: albicocche, ciliegie, pomodorini e il famoso vino Lacryma Christi. Nei primi anni del 2000 all’interno del Parco vennero realizzati nove sentieri, con diversi gradi di difficoltà e tempi di percorrenza, da una passeggiata leggera di appena 700 m a un vero e proprio trekking di 10 km che attraversa angusti tornanti e arriva fino alla Valle dell’Inferno. Qualunque percorso si decida di seguire, si passa attraverso suggestivi paesaggi di lava pietrificata con foreste e arbusti e una vista mozzafiato sul Golfo di Napoli.

Il «pericolo Vesuvio» Il Vesuvio è famoso nel mondo soprattutto per la disastrosa eruzione del 79 d.C. che distrusse Pompei, Ercolano e altri centri abitati, come

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Oplontis e Stabiae, nonché residenze di villeggiatura e fattorie situate lungo la costa e nell’entroterra, strade di collegamento, magazzini, porti fluviali e marittimi. Nel corso del tempo seguirono altre eruzioni, la piú violenta nel dicembre del 1631, con oltre 4000 morti, l’ultima nel marzo del 1944, con 26 morti e piú di 12 000 sfollati. Dal 1944 il vulcano è in uno stato di quiescenza, destinato a interrompersi. Oggi il Vesuvio viene costantemente monitorato da una rete di apparecchi che registrano qualsiasi cambiamento, da stazioni geodetiche e da un sistema satellitare che rileva ogni minima variazione del terreno. Ma come per i terremoti, anche per l’eruzione dei vulcani specifiche previsioni non sono possibili. Una cosa, invece, è certa (o quasi): il vulcano non può «esplodere» da un momento all’altro. La camera magmatica si trova attualmente a una profondità di 8-10mila m sotto la superficie, per cui il magma non potrebbe mettersi in moto senza essere rilevato. In caso di pericolo, rimane un certo lasso di tempo per evacuare la zona. Il rischio maggiore per la regione è rappresentato dai terremoti, imprevedibili e spesso precursori dell’attività eruttiva, come accadde con il sisma del 62 d.C., che era probabilmente legato all’eruzione del 79 d.C. Comunque sia, la Protezione Civile ha messo in atto un piano d’emergenza in caso di cambiamenti nei dati rilevati dall’Osservatorio che prevede l’evacuazione dell’intera popolazione della «Zona rossa». Dal gennaio 2013 questa zona rossa interessa 27 Comuni a rischio con piú di 800 000 abitanti. La fattibilità tecnica di un’evacuazione di tale portata, però, non è comprovata e viene fortemente criticata, anche perché non esistono altre misure di salvaguardia della popolazione.

Cercola

S. Sebastiano al Vesuvio San Giorgio a Cremano

Ercolano

A destra mappa del Parco Nazionale del Vesuvio, istituito nel 1995 per tutelare il ricchissimo ambiente naturale del territorio, anticamente noto come Campania Felix. Nella cartina sono indicati: il limite dell’area compresa nel parco (puntinato verde); i sentieri principali (in rosso); le colate laviche succedutesi nel tempo (in grigio). A sinistra il Vesuvio in una foto da satellite.


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Mar Tirreno | vivere sotto il vesuvio | 11 |


il vesuvio

La Strada Matrone, itinerario nel Parco Nazionale del Vesuvio che porta al Gran Cono del vulcano. Tra il 2001 e il 2003 nel parco sono stati realizzati 9 sentieri di diversa lunghezza e difficoltà, per un totale di 54 km di camminamento, all’interno di splendidi paesaggi naturali.

furono a loro volta modificati e stravolti per realizzare le piú ardite soluzioni architettoniche. Colline, rocce, scogli, vennero scavati e spianati per far posto a sostruzioni imponenti, ariosi e vasti peristili, loggiati, grandi piscine e ninfei. L’arredo degli ambienti era sfarzoso e le pitture di Terzo e Quarto Stile, con la dilatazione illusionistica della pareti, le architetture fantastiche e i contrasti cromatici, davano un tocco di eleganza e raffinatezza a queste dimore di gran classe. Le rifiniture decorative erano affidate ad atelier specializzati, come attestano le diverse botteghe di scultori, stuccatori e decoratori presenti sul territorio e a Pompei. Sull’incantevole paesaggio del Golfo di Napoli e sulle ville marittime si abbatté la catastrofe del 79 d.C., preceduta dal sisma del 62 d.C. e da scosse telluriche di minore entità. In numerose residenze rimangono i segni

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lasciati dallo sciame sismico e i restauri rimasti incompiuti per il sopraggiungere dell’eruzione.

Tracce di un antico splendore Con Ercolano, Pompei e Stabiae furono distrutte la maggior parte delle ville marittime e delle ville rustiche dell’hinterland. L’imperatore Tito inviò nella zona i funzionari imperiali, affinché riorganizzassero il territorio e destinò alla ricostruzione delle città distrutte i beni di coloro che erano morti nell’eruzione senza lasciare eredi. Oggi il visitatore può solo intuire lo splendore di quei luoghi. Alle distruzioni causate dal Vesuvio, si sono aggiunti lo sviluppo urbano e il degrado ambientale che contraddistinguono il territorio un tempo chiamato Campania Felix, rendendo quasi impossibile immaginare quali tesori possa ancora nascondere la terra. Ma, superato l’impatto iniziale, e scesi al livello degli scavi,


inizia un suggestivo percorso a ritroso nel tempo che consente di immergersi in una dimensione storica ormai trascorsa, ma preservata intatta nei secoli. Quando si pensa all’eruzione del Vesuvio, vengono in mente una data e due città: 79 d.C., Pompei, Ercolano. Entrambi i centri vennero sepolti dalla lava, furono riscoperti nel Settecento e dal 1997 figurano nella lista dell’UNESCO, relativa al Patrimonio Culturale dell’Umanità. Pompei ed Ercolano erano due piccole città di provincia dell’impero romano, unite dallo stesso, tragico destino. Le loro storie sembrano simili, il loro dramma uguale; tuttavia, a uno sguardo piú attento, le

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il vesuvio

differenze emergono rapidamente. Pompei ha raggiunto un’importanza maggiore di Ercolano sia per quanto concerne l’afflusso turistico e l’interesse popolare, sia per la ricerca scientifica. Basta dare un’occhiata ai libri e agli articoli di carattere scientifico o divulgativo scritti ogni anno e alle mostre sulle città vesuviane. Se cento articoli trattano di Pompei, forse una decina parlano di Ercolano; le monografie e i romanzi su Pompei sono miriadi, i testi su Ercolano si contano sulla punta delle dita. Tutti conosciamo Gli ultimi giorni di Pompei (romanzo storico pubblicato dall’inglese Edward Bulwer-Lytton nel 1834, del quale sono state realizzate anche varie trasposizioni cinematografiche, n.d.r.), ma nessuno ci propone mai Gli ultimi giorni di Ercolano.

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Se poi osserviamo il turismo, bastano pochi dati statistici: nell’ultimo periodo Pompei ha registrato oltre 2,3 milioni di visitatori all’anno, mentre Ercolano appena 300 000. Se su sette turisti che visitano Pompei, uno soltanto va anche a Ercolano, si comprende facilmente come le due città siano percepite diversamente dalla memoria collettiva.

Realtà simili, ma ben distinte Il tempo che il turista si concede per la visita di un sito archeologico o di un museo è sempre piú limitato, ma è anche vero che Ercolano dista solo una ventina di chilometri da Pompei; i due parchi archeologici si possono visitare facilmente nella stessa giornata. Spesso, infine, si sente obiettare che i siti di Pompei e di Ercolano sono uguali, se ne vedi

Litografia novecentesca in cui si immagina un tratto della costa del Golfo di Napoli in epoca romana. Tra il I sec a.C. e il I sec. d.C. in questo territorio sorsero numerose ville d’otium, spesso costruite in luoghi da cui poter godere del magnifico panorama.


uno li hai visti tutti. Erano due città provinciali che lo stesso giorno nel fatidico anno 79 d.C. vennero sepolte sotto una fitta coltre di lava. Ma è proprio vero? Pompei ed Ercolano erano realmente cosí simili tra di loro? Le prime differenze tra le due città sono la loro dimensione, l’estensione in superficie e il numero degli abitanti. Ercolano era una piccola città, nella quale vivevano forse 4000-5000 abitanti, schiavi compresi, mentre Pompei ne contava circa due o tre volte tanti. Le ultime stime parlano di 10-12 000 abitanti a Pompei, anche se si tratta di una cifra del tutto ipotetica. Per quanto riguarda la superficie, il problema si pone soprattutto per Ercolano, dove i limiti urbanistici non sono noti con precisione. Gli scavi a cielo aperto racchiudono, oggi, un’area di circa 4,5 ettari, mentre tre quarti della città sono ancora sepolti sotto la lava. Ercolano doveva occupare una superficie di circa 15-20 ettari. In confronto, Pompei contava poco piú di 60 ettari all’interno delle mura, 44 dei quali sono scavati e fanno parte del parco archeologico. Pompei ed Ercolano erano, dunque, diverse per estensione territoriale e, di conseguenza, lo erano anche sul piano dell’incidenza politica ed economica. La loro posizione geografica è, ugualmente, rivelatrice delle profonde divergenze. Ercolano si trovava direttamente

sul mare, sul versante occidentale del Vesuvio, a soli 8 km dal centro di Neapolis, l’odierna Napoli. La Neapolis romana era una grande città commerciale, con un porto importante, estesa su una superficie di piú di 90 ettari e con 30 000 abitanti circa. Ercolano era sicuramente sulla scia di Napoli: una piccola città portuale, immersa in un bellissimo paesaggio costiero con splendide ville suburbane e marittime, frequentata dalla ricca aristocrazia romana. Le principali attività economiche – quali la pesca, l’agricoltura e la produzione del vino –, si limitavano a soddisfare il mercato locale. Ercolano viveva in primo luogo dell’evergetismo dei ricchi latifondisti che avevano le loro dimore lussuose in città, come il senatore Marco Nonio Balbo, senza dubbio la personalità di maggior rilievo.

Il controllo del Golfo Pompei, al contrario, si trovava a sud-est del Vesuvio nella pianura del Sarno, non lontano dalla foce del fiume e, a quanto risulta da studi recenti, era dotata di un porto fluviale nell’odierna località Bottaro. La città era situata in una posizione strategica su uno sperone collinare sopra la pianura e poteva controllare sia il porto fluviale sia l’accesso al mare. Strabone (Geogr. 5,4,3) riferisce che il porto di

A destra affresco da Pompei, con il prospetto di una villa. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Le ville affacciate sul Golfo di Napoli erano state realizzate con ardite soluzioni architettoniche e prospettive scenografiche, adattando la planimetria all’orografia dei luoghi, soprattutto a Ercolano.

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il vesuvio

Scheletri di vittime dell’eruzione del 79 d.C. rinvenuti a Ercolano. La città venne sepolta da una colata viscosa e fangosa che, mischiata all’acqua, divenne roccia impermeabile all’aria, permettendo di preservare anche i reperti organici. Pompei fu invece sepolta sotto cenere e lapilli permeabili all’aria. Deperendo, i materiali organici lasciarono la loro impronta nella cenere solidificata, creando vuoti che Giuseppe Fiorelli fece riempire con gesso.

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Pompei serviva anche le città di Nola e Nuceria nell’entroterra; quindi, con il controllo della foce del Sarno, la città teneva saldamente nelle mani il commercio marittimo nel Golfo. La pianura del Sarno occupava un’area di circa 250 kmq ed era densamente popolata da insediamenti rustici. Pompei e Nuceria, che dipendevano economicamente dal loro hinterland e dal commercio marittimo e fluviale, entrarono spesso in conflitto tra loro, come documenta la rissa scoppiata tra Nucerini e Pompeiani nell’anfiteatro di Pompei nel 59 d.C. Pompei era molto attiva sul piano dell’attività commerciale e i suoi prodotti venivano anche trasportati, come attestano i solchi dei carri ancora ben visibili sul basolato stradale. Molto apprezzati erano il garum di Umbricius Scaurus, uno dei piú grandi produttori della zona, proprietario di una magnifica villa in città, e l’ottimo vino pompeiano. La rete stradale prevedeva a Pompei perfino vie a senso unico, per smaltire meglio l’enorme traffico. Mentre Pompei usufruiva di un sofisticato e ben organizzato sistema stradale, a Ercolano non vi

sono tracce dei solchi dei carri e le strade, almeno nella parte scavata a cielo aperto, non sembrano molto adatte a sopportare un traffico intenso. Ciononostante, anche a Ercolano, come a Pompei, il decumano massimo verso il Foro era chiuso al passaggio dei carri. Sembra che la vita quotidiana degli Ercolanesi trascorresse con ritmi meno frenetici e piú consoni a una città di provincia rispetto a quelli dei Pompeiani. Queste differenze sono evidenti non solo per quanto riguarda l’attività commerciale, ma anche quella politica.

Una città meno... aggressiva Pompei è piena di manifesti elettorali, graffiti sui muri, soprattutto lungo le strade principali. I testi sono piuttosto standardizzati, fanno pubblicità all’uno o all’altro magistrato da eleggere. La competizione tra i vari candidati era forte, ogni singolo voto era decisivo per vincere. La carriera dei membri delle famiglie piú nobili e ricche dipendeva dal voto preferenziale dei cittadini. A Ercolano la vita politica non era diversa, ma stranamente,


Affresco raffigurante un porto, forse Pozzuoli, da Stabia. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Ercolano e Stabiae erano città sul mare, dedite alla pesca e all’agricoltura, con splendide ville suburbane e marittime, talvolta collegate al mare tramite rampe di scale. Pompei controllava sia l’accesso al mare che la foce del fiume Sarno, e il suo porto serviva anche le città dell’entroterra.

non ci è pervenuto alcun graffito elettorale. Probabilmente la competizione era minore e non cosí aggressiva, perché la città era piccola e i membri delle famiglie piú in vista erano conosciuti. Il consenso popolare era, forse, piú legato all’evergetismo e alla filantropia che i benefattori dimostravano verso la comunità. A Ercolano, oltre ai manifesti elettorali, mancano anche le locandine pubbliche con gli annunci dei giochi gladiatori, frequentissime, invece, a Pompei. Ercolano non sembra aver avuto un anfiteatro o, almeno, non è stato trovato fino a ora. Probabilmente la città era troppo piccola per avere un edificio cosí monumentale. Oltre agli spettacoli, non ci sono indizi neanche sulla prostituzione. Nella parte scavata di Ercolano non è stato trovato alcun lupanare, mancano perfino i graffiti con espliciti riferimenti sessuali sui muri delle taverne e delle terme, cosí diffusi a Pompei. L’unica testimonianza «lasciva» è la parola «futuo» che compare in alcune iscrizioni trovate in una

stanza sul retro delle terme suburbane, ma parrebbe scritta piú da visitatori stranieri che da residenti. È probabile che i bordelli siano ancora sepolti nella parte interrata della città, ma sembra, comunque, che gli Ercolanesi fossero piú discreti dei Pompeiani.

Differenze di status politico Ercolano era molto piú piccola, la gente si conosceva e, inoltre, non aveva dovuto accogliere tutti i veterani di guerra come Pompei. Tutto fa pensare che la vita a Pompei fosse piú violenta e caotica. Un’altra differenza tra le due città era il loro status politico. Come tutti gli altri centri e villaggi dell’area vesuviana, anche Ercolano si mise dalla parte sbagliata durante la guerra civile del 91-89 a.C. e, per questo, fu punita da Roma. Tuttavia, le conseguenze furono meno dure che a Pompei, dove i Romani fondarono una colonia, con la conseguente confisca di terra e l’insediamento di veterani. Ne derivò un grave turbamento dell’equilibrio politico che si percepiva ancora nella seconda

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il vesuvio

Veduta del Golfo di Napoli, dominato dal Vesuvio. L’eruzione del 79 d.C. era stata preceduta da un forte terremoto nel 62 d.C., seguito da una serie di scosse di minore intensità. Dopo l’ultima eruzione del 1944, il vulcano è attualmente in uno stato di quiescenza, continuamente monitorato per captare ogni possibile segnale di risveglio.

metà del I secolo d.C. Ercolano, invece, rimase un municipium. Nel I secolo d.C., la differenza tra colonia e municipium fu soprattutto un fatto storico. Roma fondava una colonia e la popolava con veterani ai quali venivano assegnati lotti abitativi in città e terra confiscata nell’hinterland. In questo modo riusciva da un lato a ricompensare i suoi meritevoli soldati, d’altra parte a indebolire il potere locale e a punire l’aristocrazia del posto. Con la deduzione della colonia, i veterani dominavano la scena politica e Roma poteva essere tranquilla di avere un nuovo alleato fedele e riconoscente. La colonia era sottoposta al diritto romano, ma aveva un proprio senato e propri magistrati, eletti dall’assemblea cittadina. Il destino politico era principalmente sotto la sua responsabilità, e Roma intervenne solo in situazioni eccezionali, come per esempio in occasione della rissa nell’anfiteatro di Pompei nel 59 d.C., quando Nerone vietò i giochi per dieci anni. Un municipio, invece, era in origine una comunità indipendente, autogestita in alleanza con Roma e doveva rispettare alcuni obblighi, tra cui, in particolare, fornire truppe e navi per la guerra. Dopo la guerra civile del 91-89 a.C., Ercolano rimase municipio, gli abitanti divennero cittadini romani. Lo status sociale della città era inferiore a quello di Pompei, ma almeno gli aristocratici ercolanesi non dovettero subire la prepotenza dei veterani. Pompei ed Ercolano presentano all’incirca la stessa varietà tipologica nell’architettura privata. Sono attestati la lussuosissima villa suburbana, il tugurio stretto e malfamato, la

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casa padronale, l’appartamento in affitto, la taverna e la bottega. L’architettura e la decorazione architettonica sono abbastanza simili nelle due città. A Ercolano il sistema costruttivo sembra piú sperimentale, in quanto gli spazi tradizionali sono stati spesso modificati e l’immagine complessiva degli edifici diventa piú scenografica. Gli standard elaborati da Vitruvio vengono piú o meno seguiti a Pompei, mentre a Ercolano sono già parzialmente superati. Qui la casa tradizionale è piú personalizzata: il peristilio come zona privata e intima diventa piú importante dell’area rappresentativa dell’atrio e il centro della vita abitativa si sposta verso il giardino. Anche la decorazione musiva è piú sfarzosa, viene usato frequentemente l’opus sectile, realizzato con preziosi inserti di marmi policromi, piú costoso del normale mosaico a tessere. A Pompei, invece, l’opus sectile è raro, i pavimenti delle case dei ricchi erano di solito decorati con splendidi mosaici figurativi di altissima qualità artistica. A Ercolano la parte inferiore delle pareti è spesso rivestita di lastre di marmo; a Pompei, invece, lo zoccolo è sempre dipinto. Gli affreschi parietali a Ercolano presentano un’elaborazione e un’organizzazione molto piú individuale rispetto a Pompei, la decorazione generalmente è piú ricca e piú sofisticata.

Un «risveglio» annunciato? Pompei ed Ercolano sono le vittime piú illustri dell’eruzione vesuviana del 79 d.C., e, a oggi, è impossibile dire se le due città fossero state colte di sorpresa o meno dalla catastrofe.


Non è chiaro, infatti, se il «risveglio» del Vesuvio fosse stato annunciato da terremoti e nuvole di vapore, né se chi abitava nella zona avesse preso sul serio gli eventuali indizi, riuscendo a fuggire in tempo. Fatto sta che a Pompei come a Ercolano morirono migliaia di persone. A Pompei sono noti fino a oggi oltre 1000 scheletri, mentre a Ercolano, i recenti scavi sulla spiaggia hanno restituito circa 300 cadaveri carbonizzati. L’eruzione ebbe per entrambe le città le stesse drammatiche conseguenze, ma a causa della diversa posizione geografica, il decorso della tragedia non fu uguale. Quando il vulcano si svegliò intorno al mezzogiorno di quella fatidica data dell’anno 79 d.C., eruttò dal cratere gas e materiali di scarico per un’altezza di 15 km, riscaldando tutta l’aria circostante. Nel pomeriggio, la colonna di materiale vulcanico salí fino a un’altezza massima di circa 27 km. Il vento soffiò le parti piú leggere del magma lavico in direzione sud-est, verso Pompei, che nelle ore successive fu coperta da vari strati di cenere e lapilli. Alla fine dell’eruzione, in un raggio di 15 km intorno al vulcano, tutte le città, le strade e le fattorie erano state sepolte. Pompei giaceva sotto una coltre di 6-8 m di cenere e lapilli, permeabile all’aria con le sostanze organiche esposte all’ossigeno. La cenere vulcanica si pietrificò, ma inglobò tutto il materiale organico, conservandone le forme. Ercolano, invece, fu sigillata da una massa viscosa e fangosa che, mescolandosi con la pioggia, creò uno strato roccioso alto circa 20 m, impermeabile all’aria. Questa

dinamica di seppellimento consentí di preservare anche i reperti organici, compresi i mobili in legno e gli avanzi di cibo.

Cunicoli e gallerie La scoperta delle città vesuviane fu casuale. Nel 1710, un contadino di Resina, l’odierna Ercolano, scavando un pozzo, si imbatté in statue e altri frammenti marmorei. Del fatto fu informato il principe d’Elboeuf, un generale austriaco della potenza occupante di Napoli, che stava costruendo una sua villa e cercava statue antiche per l’arredamento. Ma gli scavi sistematici di Ercolano cominciarono solo nel 1738, sotto la tutela del re Carlo III di Borbone. Le ricerche si rivelarono complesse e costose: occorreva scavare cunicoli e gallerie nella roccia per accedere alle statue e ai marmi pregiati. Inoltre, gli sterri erano ostacolati dalla città moderna, cresciuta sopra l’antica. A Pompei, invece, gli scavi iniziarono solo nel 1748, sebbene la città fosse già nota nel tardo XVI secolo. L’interesse si focalizzò su Pompei perché la roccia era meno dura e gli scavi meno faticosi, per cui Ercolano fu presto abbandonata. Nel XIX secolo, quando l’archeologo Giuseppe Fiorelli cominciò a realizzare i calchi e a dare l’immagine della tragedia, Pompei si rivelò una scoperta sensazionale. Poi arrivarono i graffiti che raccontavano le elezioni politiche, i giochi gladiatori, ma anche la prostituzione e il sesso. Ben presto, Pompei fu inserita nel Grand Tour, mentre Ercolano venne sempre piú trascurata. Una situazione che perdura ancora oggi: i visitatori continuano a preferire Pompei a Ercolano.

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Veduta di una strada e degli edifici prospicienti nel parco archeologico di Ercolano. Distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., l’antica città venne riscoperta casualmente nel 1710 dal contadino Ambrogio Nucerino che, durante i lavori di costruzione di un pozzo, portò alla luce marmi appartenenti alla frontescena del teatro.

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nella città di ercole Al momento dell’eruzione, Ercolano doveva estendersi su una superficie pari a un quarto di quella di Pompei. La sua esplorazione, iniziata nel 1738 per volontà del re Carlo di Borbone, riuscí a portare alla luce solo una piccola parte dell’antica città che, ancora oggi, giace per piú della metà nascosta sotto la coltre di materiale vulcanico e gli edifici dell’abitato moderno

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C

ome già ricordato, nel 1997, Ercolano (insieme a Pompei e Oplontis) è stata dichiarata dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità. La tremenda eruzione del 79 d.C. ha fermato la vita della città vesuviana in poche manciate di secondi e, suggellando per sempre il suo patrimonio monumentale e il ricchissimo apparato pittorico e musivo, ci ha svelato i molteplici aspetti di una quotidianità che non trova confronti in nessun’altra area archeologica del mondo. Gli scenari emersi dagli scavi ercolanesi hanno riportato alla luce una città fino a quel momento pullulante di vita, dove tetti scoperchiati, soglie divelte, pareti crollate e arredi sparsi un po’ ovunque sono stati in gran parte pazientemente recuperati, riassemblati e ricostruiti. Quando il Vesuvio scoppiò, sotto la spinta del magma eruttivo che saliva rapidamente in superficie, assunse la forma che ha ancora oggi, a duplice cima. In poche ore le ridenti località ubicate sul Golfo di Napoli furono sepolte da una coltre di massa lavica composta di ceneri, pomici e fango e con la loro fine si spense anche la tipica allegria campana che animava quei luoghi.

In estate o in autunno? Pompei, Ercolano, Stabia, e numerose ville e fattorie della campagna circostante furono spazzate via dalla furia dell’eruzione, che, secondo recenti interpretazioni, si sarebbe verificata non in estate, ma nell’autunno del 79 d.C. La data tradizionale del 24 agosto, ricavata da una notizia riportata da Plinio riguardo all’argomento, è stata messa in discussione sulla base di un reperto numismatico che, insieme al rinvenimento di frutti autunnali quali noci e castagne, consentirebbe di collocare il tragico evento nella stagione successiva. A Ercolano, le incandescenti temperature sviluppate dai flussi piroclastici hanno prodotto un fenomeno di conservazione del tutto peculiare rispetto a Pompei, restituendoci, carbonizzati, anche reperti organici commestibili, papiri iscritti, tessuti, arredi lignei, e tavolette cerate. Oltre ai boati che scossero le viscere della terra, fu il vento a

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giocare un ruolo importante nel destino della città. Quel giorno in Campania soffiava, da nord-ovest, il maestrale, che spinse il magma eruttivo verso Pompei ricoprendola di ceneri, lapilli e «bombe vulcaniche» alte fino a 5-6 m. La pioggia di pietre impedí la fuga dei Pompeiani, che trovarono la morte nelle loro case o per le strade della città. Diversi furono gli effetti per Ercolano, posta 7 km a ovest del Vesuvio, che fu appena sfiorata dalla pioggia di pietre e cenere, ma rimase sepolta sotto una spessa coltre di materiali vulcanici. È stato possibile ricostruire le dinamiche e gli effetti devastanti dell’eruzione del Vesuvio a Ercolano grazie a uno studio interdisciplinare che ha visto archeologi, vulcanologi e antropologi impegnati nell’esame dei resti delle vittime trovate sulla spiaggia e all’interno dei fornici – cioè nelle arcate ricavate nelle sostruzioni dell’area sacra e della terrazza di Marco Nonio Balbo –, divenuti un’unica tomba di fuoco incandescente per centinaia di esseri umani. Intorno agli anni Ottanta del secolo scorso, vi furono scoperti oltre 300 scheletri, molti con le bocche spalancate e le membra contratte in un ultimo doloroso spasmo, appartenenti a uomini, donne, anziani e bambini che lí avevano invano cercato rifugio. Il triste rinvenimento mise definitivamente fine alla speranza, basata sulla scarsità dei corpi fino allora emersi dagli scavi, che gli Ercolanesi

Ercole ritrova il figlio Telefo allattato da una cerva, alla presenza della personificazione dell’Arcadia, frammento di decorazione parietale in IV stile, dalla Basilica di Ercolano. 50-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il nome di Ercolano deriva da Ercole, il quale, secondo la leggenda, fondò la città mentre tornava dal suo viaggio in Iberia, dove aveva portato a termine la decima delle sue dodici fatiche, impossessandosi dei buoi del mostro Gerione.

| Il mito della fondazione | Secondo lo storico Dionigi di Alicarnasso (attivo nella seconda metà del I secolo a.C.), Eracle, di ritorno dall’Iberia, avrebbe fondato Ercolano che da lui prese il nome (Herculaneum). Il geografo Strabone (60 a.C. circa-20 d.C. circa), invece, riferisce (V, 4,8) che Ercolano, prima di diventare una città romana, era stata abitata dagli Osci, poi dagli Etruschi e dai Pelasgi e, infine, dai Sanniti. Come Pompei e Stabiae, Ercolano, alla fine del IV secolo a.C., faceva probabilmente parte della lega nucerina finché, in seguito alla sconfitta di Nuceria nel 308 a.C., durante la seconda guerra sannitica, entrò nell’orbita di Roma. La cittadina vesuviana partecipò in seguito alla guerra sociale e fu conquistata nell’89 a.C. dal legato di Silla Titus Didius (Velleio Patercolo, II, 16). All’indomani di questi eventi Ercolano divenne un municipio.


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fossero riusciti a mettersi in salvo dalla furia del vulcano. Al contrario, le vittime dei fornici dimostrano che la popolazione non aveva lasciato le case in fretta, ma con una certa calma, data la presenza di bambini, anziani e persone bisognose di aiuto per camminare, tra le quali una donna che era quasi del tutto impossibilitata a muoversi a causa di una seria lussazione all’anca. Questa gente aveva raggiunto la spiaggia e si era rifugiata negli ambienti a volta, ritenuti evidentemente sicuri, portando con sé le cose piú preziose: gioielli, monete, chiavi di casa e strumenti da lavoro, tra cui una cassetta di attrezzi chirurgici in bronzo e ferro. Furono rinvenuti anche lo scheletro di un soldato, e, nelle sue vicinanze, un tesoretto di monete d’oro e d’argento del ragguardevole valore di 360 sesterzi. Deve essere stato difficile per gli Ercolanesi capire quanto stava accadendo, visto che non avevano mai assistito fino allora a un

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fenomeno del genere. La popolazione che abitava sul Golfo di Napoli nel I secolo d.C. non aveva timore del Vesuvio. Il vulcano era inattivo da molti secoli e, per questo, probabilmente, si era persa la percezione della sua pericolosità. Gli Ercolanesi, presumibilmente, speravano in un’attenuazione del fenomeno eruttivo per potersi poi salvare via mare.

La fatale nube ardente Sulla spiaggia, all’altezza delle terme suburbane, è stata rinvenuta, perfettamente conservata, una grande barca di legno rovesciata, rimasta sepolta sotto il magma lavico. Chi, invece, si era attardato in città, fu investito verso l’una di notte dalla prima fatale nube ardente (surge) originatasi dal collasso della colonna di flusso piroclastico, che, scendendo rapidamente lungo i fianchi del vulcano, raggiunse immediatamente Ercolano e uccise i pochi abitanti rimasti

Ricostruzione virtuale di Ercolano vista dal mare. In primo piano sono i fornici, magazzini portuali e ricoveri per le barche, che si aprivano sulla spiaggia nelle poderose strutture di sostegno della soprastante terrazza fatta costruire da Marco Nonio Balbo, da cui si godeva il panorama sul mare. Sullo sfondo il Vesuvio, che incombe sulla città.


| Il pentimento degli dèi | «Ecco il Vesuvio, un tempo verdeggiante di folte vigne, un tempo produttore d’un eccellente vino: questo è il monte che Bacco amò piú dei colli di Nisa: su queste balze i Satiri danzarono in coro. E questa fu Pompei, città prediletta da Venere, a lei cara piú della stessa Sparta: e questa fu Ercolano, dedicata al nome del grande Ercole. Vedi, ora tutto è annerito, sommerso dal fuoco e dalla cenere. Gli dèi si pentono di quello che hanno fatto». (Marziale, Epigrammi IV,44)

nelle case. Nell’area della città messa in luce sono state trovate, al momento, trentadue vittime. Subito dopo, il surge, che aveva una temperatura di circa 500 °C, raggiunse la spiaggia e penetrò nei fornici dove avevano cercato scampo i trecento fuggiaschi, provocandone la morte immediata. L’esame degli scheletri ha consentito di stabilire che gli Ercolanesi rinvenuti sulla spiaggia entrarono direttamente in contatto con il surge incandescente, come attestano le ossa annerite, e, quindi, non morirono per asfissia come i Pompeiani, ma, a causa della diversa dinamica eruttiva, perirono all’istante per ebollizione ed evaporazione dei liquidi organici. Il primo flusso piroclastico arrivò poco dopo e si riversò

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dentro il mare. Seguirono altre nubi ardenti, alternandosi con altri flussi piroclastici, seppellendo i fuggiaschi già morti per shock termico sotto piú di 5 m di lapilli e ceneri. Alla fine dell’eruzione, la ricaduta dei materiali lavici aveva determinato un avanzamento della linea di costa di circa 40 m rispetto all’antico litorale.

La riscoperta La terribile eruzione del 79 d.C. travolse e sommerse Ercolano sotto una coltre di magma eruttivo alta 20 m alla quale, nell’area della Villa dei Papiri, si sovrappose anche il materiale vulcanico di un’altra colata lavica risalente al IX-X secolo d.C. A partire dall’epoca medievale, il sito dell’antica Herculaneum fu occupato dalla moderna Resina e dell’esatta ubicazione della cittadina vesuviana si perse ogni memoria. Nella metà del XVI secolo, l’antiquario napoletano Fabio Giordano, nella sua Historia Napolitana, riferí della scoperta di una lunga iscrizione «nel villaggio di Resina, distante 4 miglia dalla città (Napoli)»,

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In alto veduta dei fornici e della sovrastante terrazza. A destra alcuni degli scheletri dei 300 fuggiaschi morti all’interno dei fornici stessi, in cui avevano cercato scampo alla nube ardente (surge) che investí Ercolano in seguito all’eruzione. Nella pagina accanto disegno ottocentesco che documenta, molto liberamente, gli sterri condotti a Ercolano. Le prime esplorazioni erano iniziate nel 1738, per volere del re Carlo di Borbone.


stava costruendo la sua splendida villa sul mare, a Granatello di Portici, intuí che quei preziosi reperti non dovevano essere isolati e si affrettò a comprare il pozzo. Per circa nove mesi egli condusse a proprie spese esplorazioni sotterranee attraverso cunicoli, riportando alla luce pregevoli sculture, molte delle quali ancora intatte. Alcune statue andarono ad abbellire la villa del principe, mentre altre gli servirono per rendere omaggio ai potenti dell’epoca, tra cui Eugenio di Savoia che ricevette in dono le cosiddette Grande e Piccola Ercolanese, ora al Museo di Dresda.

Le prime esplorazioni

specificando «presso l’antica città di Ercolano». Ma ci vollero ancora due secoli prima che la città vesuviana, dopo quella prima corretta identificazione topografica, tornasse alla luce con i suoi tesori. Come talvolta accade nelle scoperte archeologiche, fu il caso a giocare un ruolo decisivo nella rinascita di Ercolano. In un giorno come tanti, nell’anno 1710, il contadino Ambrogio Nucerino, detto Enzechetta, decise di scavare un pozzo per dare acqua ai suoi campi. Grande dovette essere lo stupore quando da quella cavità sotterranea cominciarono a emergere, uno dopo l’altro frammenti marmorei di pregevole fattura. In seguito si comprese che si trattava di parte del prezioso decoro della frons scaena del teatro della città antica, in corrispondenza della quale era stato scavato il pozzo. La notizia del sensazionale ritrovamento giunse alle orecchie di Emanuel-Maurice di Lorena, principe d’Elboeuf, comandante delle armate imperiali austriache a Napoli nel 1707. Il principe, che

L’inizio ufficiale di sistematiche indagini archeologiche sul sito dell’antica Ercolano risale al 1738 e fu opera del re Carlo di Borbone. Il sovrano incaricò il capitano del Genio Militare Roque Joaquín de Alcubierre di procedere allo scavo, finanziato dall’erario regio, mediante l’apertura di nuovi cunicoli sotterranei servendosi di operai, soldati e detenuti rinchiusi nel carcere di Granatello di Portici. Le procedure dello scavo borbonico ricordano quelle impiegate in miniera, poiché per raggiungere i resti archeologici, gli scavatori, detti «cavamonti», dopo essersi legati con corde di canapa, si calavano nelle viscere della terra attraverso pozzi verticali. Una volta arrivati al livello delle strutture antiche, aprivano nuovi varchi, senza seguire uno schema preciso, guidati soltanto dalla luce di torce e lanterne. Le operazioni venivano condotte sotto la stretta sorveglianza dei soldati borbonici che prendevano nota di tutti i reperti rinvenuti. Le ricerche erano soprattutto finalizzate al recupero di opere d’arte «per il real piacere». Preziosi dipinti e pavimenti furono asportati dal contesto originario ed esposti nell’«Herculanense Museum», al quale re Carlo aveva destinato un’ala della Reggia di Portici, in modo che studiosi e personalità di rango, previo il permesso del sovrano, potessero ammirarli. La direzione del Museo, inaugurato nel 1758, fu affidata a Camillo Paderni, coadiuvato dallo scultore francese Canart che aveva il compito di selezionare,

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prelevare e restaurare i reperti piú pregevoli. La scoperta della Villa dei Papiri, nel 1750, diede nuovo impulso agli scavi ercolanesi, allora sotto la guida dell’ingegnere militare svizzero Karl Weber, che affiancava nei lavori l’Alcubierre. Alla morte di Weber, nel 1764, i sondaggi archeologici con il sistema dei cunicoli furono affidati all’ingegnere militare Francesco La Vega, ma terminarono definitivamente nel 1780, quando si preferí favorire lo scavo di Pompei, piú semplice da eseguire per le diverse modalità con cui il magma eruttivo aveva sepolto la città.

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Al periodo delle esplorazioni borboniche risalgono l’Augusteum, il teatro, la Basilica Noniana e la Villa dei Papiri, i cui reperti scultorei furono trasferiti nel 1822 dall’Herculanense Museum al Palazzo degli Studi di Napoli, poi Real Museo Borbonico e che, con l’Unità d’Italia, passarono al Museo Archeologico Nazionale, dove si trovano ancora oggi. Sotto il regno di Francesco I di Borbone, nel 1828, furono eseguiti per la prima volta scavi a cielo aperto nei quartieri abitativi di Herculaneum, esplorazioni che continuarono in maniera discontinua fino al 1875, per essere poi definitivamente interrotte.


Antichità della Campania, si adoperò immediatamente per bloccare l’espansione edilizia della moderna Resina, vincolando tutte le zone ancora libere da costruzioni. Utilizzando i fondi straordinari messi a disposizione dal governo dell’epoca, Maiuri fu in grado di espropriare un’area di oltre sette ettari dove concentrare lo scavo estensivo del settore sudorientale dell’antica Herculaneum. Allora come oggi, la difficoltà consisteva nel mettere in luce la parte settentrionale della città, già occupata dall’abitato moderno. I nuovi scavi di Maiuri furono ufficialmente inaugurati il 16 maggio 1927 dal re Vittorio Emanuele III, che diede il primo colpo di piccone con un attrezzo su cui era stato inciso il motto «Herculaneum effodiendum est» («Ercolano deve essere scavata»). Una volta conclusi gli onori, iniziavano gli oneri e, come scrisse lo stesso Maiuri nella sua Vita d’archeologo, restò solo insieme ai suoi operai «a combattere la dura battaglia contro il fango indurito di Ercolano».

Riemerge l’antica spiaggia

Disegno della fine del Settecento raffigurante il trasporto delle antichità di Ercolano al Palazzo degli Studi di Napoli. I reperti erano stati in origine esposti nell’Herculanense Museum nella Reggia di Portici.

Il settore della città antica messo in luce con grandi sforzi era però piuttosto esiguo e corrispondeva alle attuali insulae II e VI, indagate solo parzialmente rispetto alla loro effettiva estensione. Lo scavo subí presto un rapido degrado, accentuato dallo sviluppo del moderno abitato di Resina proprio sopra le rovine. L’area archeologica di Ercolano attualmente visitabile è invece il risultato delle sistematiche campagne di scavo a cielo aperto e di contestuale restauro portate avanti da Amedeo Maiuri (1886-1963), il quale, ricevuta nel 1924 la nomina di Soprintendente agli Scavi e alle

I cantieri lavorarono incessantemente fino al 1960, ma già nel 1942 era stata messa in luce, restaurata e aperta al pubblico tutta l’area archeologica attualmente percorribile. Il progetto di Maiuri era quello di creare una città-museo, fruibile dal pubblico e, per renderlo concreto, ricollocò in situ molti reperti, non rispettando sempre l’originario contesto di rinvenimento. Dagli anni Sessanta a oggi gli scavi sono proseguiti, ultimando le indagini nelle terme suburbane e nella palestra, mettendo in luce il collegio degli Augustali, altre case e botteghe, fino a intercettare l’antica spiaggia, che coincide con il settore meridionale dell’odierno parco archeologico, dove sono venuti alla luce i fornici con il loro macabro contenuto e la grande imbarcazione rovesciata. Piú della metà di Herculaneum, compreso il Foro con i suoi edifici civili e religiosi, giace ancora sotto la coltre di materiale vulcanico, coperta in buona parte dall’abitato moderno. Per ovviare al degrado in cui versa la parte della città messa in luce, nel 2001 è nato un progetto di ampio respiro, l’Herculaneum

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Ricostruzione virtuale di alcune botteghe affacciate sul decumano massimo di Ercolano. Erano solitamente posizionate al pianterreno di edifici a piú piani e chiuse da porte a soffietto di legno. In una bottega si è rinvenuta una grande quantità di frutta e verdura carbonizzate (fichi, datteri, carrube, lenticchie, fave), in un’altra una cassetta di vasi di vetro dell’officina di P. Gessius Ampliatus, ancora avvolti nella paglia e nella stoffa che li proteggeva. È stata identificata anche l’officina di un saldatore di metalli.

Conservation Project, che coinvolge la Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Napoli e Pompei, il Packard Humanities Institute e la British School at Rome.

Strade ad angolo retto Ercolano era una piccola città di provincia, situata direttamente sul mare e sotto l’influenza economica di Neapolis, l’odierna Napoli. Particolarmente apprezzata dai ricchi Romani come località di villeggiatura, raggiunse la sua massima fioritura nella prima età imperiale, grazie a un’imponente attività edilizia pubblica e privata, risalente soprattutto all’epoca augustea, che cambiò radicalmente l’assetto della città. Il terremoto del 62 d.C. pose bruscamente fine a questo splendore. Dopo il sisma, la vita riprese, si ripararono i danni, si costruirono nuovi edifici e si ampliarono quelli già esistenti, ma il periodo aureo era ormai trascorso. Poi, diciassette anni piú tardi, Ercolano scomparve. L’impianto urbano fu pianificato solo nel IV secolo a.C., o, almeno, non abbiamo dati che potrebbero far pensare a una fondazione piú antica. Fin dall’inizio, Ercolano fu dotata di una rete viaria uniformata su quella di Neapolis, che, per molti versi, era il punto di riferimento piú diretto. La cittadina vesuviana presenta un sistema urbanistico regolare, con strade parallele che si incrociano ad altre formando un angolo retto. Come a Pompei, siamo di fronte a insulae abitative, delimitate da vie, ciascuna delle quali racchiude diversi edifici pubblici o privati. Per facilitare la lettura della pianta, si tende ad allinearla con il Vesuvio a nord e con il mare, o meglio l’antica spiaggia, a sud, inclinandola leggermente verso ovest. Cosí, nella descrizione dei monumenti, il decumano massimo risulta afferente alla parte settentrionale con una direzione da est a ovest, mentre i tre cardini si sviluppano da sud a nord. Gli scavi a cielo aperto hanno messo in luce un settore della città con tre strade parallele nordsud (cardo III, cardo IV e cardo V) e due strade est-ovest (decumano inferiore e decumano superiore, o massimo). Altri due cardini (cardo I e cardo II) sono noti dalle esplorazioni e dai disegni di età borbonica, per cui l’estensione

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della città proseguiva verso ovest. L’antica città doveva continuare a nord, sotto l’insediamento della moderna Ercolano, almeno con il decumano superiore. Si ritiene, quindi, che esso dividesse la città in due parti piú o meno uguali e che lo scavo a cielo aperto abbia messo il luce approssimativamente un quarto dell’impianto urbanistico di Herculaneum.

Un sistema difensivo essenziale Il centro vesuviano sorgeva su una scogliera vulcanica bagnata dal mare e circondata a est e a ovest da due fiumi. Le mura di difesa dovevano essere di entità piuttosto modesta, ma ne conosciamo solo un piccolissimo tratto in blocchi di tufo sul lato occidentale della Casa d’Argo. In età augustea, Marco Nonio Balbo restaurò le mura e ristrutturò il settore meridionale della città, verso la spiaggia. Questa zona venne monumentalizzata con la costruzione di ampie terrazze sostenute da poderose sostruzioni destinate non tanto a una funzione difensiva, quanto, piuttosto, a un uso pubblico, per il godimento dei cittadini che da qui potevano ammirare lo splendido panorama sulla spiaggia e sul mare. Le terrazze e le mura che seguivano la scala fino alla porta della città non erano alte e lasciavano libera la vista panoramica alle lussuose abitazioni che si affacciavano su questo lato; quindi, almeno in direzione del

un’arteria vitale Veduta di un tratto del decumano massimo di Ercolano messa a confronto con la sua ricostruzione virtuale. Fiancheggiato da abitazioni private e da botteghe, era la strada principale della città. Una struttura rettangolare collocata al centro della via impediva l’accesso ai veicoli, creando un’«area pedonale»; un arco quadrifronte segnava l’inizio di un settore importante della città, mentre un secondo arco era situato sul lato occidentale della zona. All’incrocio tra il decumano e il Cardo III si trovano tre grandi edifici pubblici, la Basilica Noniana, il collegio degli Augustali e l’Augusteum.

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la città invisibile Il teatro di Ercolano è stato raggiunto solo dai cunicoli e dalle gallerie scavati in occasione delle prime esplorazioni. Le sue strutture non sono quindi visibili (vedi anche il box a p. 36) e questa ricostruzione virtuale sopperisce,

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almeno in parte, a tale lacuna, mostrandone una parte dell’esterno. L’edificio sorgeva nel settore nord-ovest della città, presso l’area in cui, con ogni probabilità, va collocato il Foro, al quale vanno riferiti il tempio e la

colonna onoraria inseriti nel disegno. La possibilità di condurre nuove indagini, che potrebbero chiarire l’organizzazione degli spazi, è preclusa dalla presenza delle costruzioni moderne innalzate nella zona.


mare, le mura non dovevano avere funzione difensiva. Visto che l’estensione precisa della città antica rimane sconosciuta, non possiamo dire molto sulle mura, né sull’ubicazione delle porte urbiche. La porta che si apriva verso il mare, dietro le terme suburbane, che è l’unica conservata, era soltanto un ingresso secondario. Un’altra porta si trovava

probabilmente nella zona sud-est della palestra, dove il fiume sfociava nel mare e dove, forse, si trovava il porto di Ercolano. L’accesso principale si deve cercare nella parte nord-occidentale, in direzione di Napoli, sotto l’odierna Ercolano. A ovest della città, poco prima della suburbana Villa dei Papiri, un secondo fiume sfociava nel mare, ma il suo percorso è sconosciuto. Gli edifici ritrovati durante i cosiddetti «Scavi Nuovi» negli anni Novanta del secolo scorso, un complesso termale e un edificio residenziale, fanno ancora sicuramente parte della città di Ercolano. I confini della città romana sono abbastanza chiari su tre lati: a sud Ercolano venne limitata dalla spiaggia e dal mare, a est scorreva un fiume e si trovava con ogni probabilità il porto, a ovest era un altro fiume; la Villa dei Papiri rimaneva fuori delle mura, mentre il teatro, ubicato piú a nord, era ancora dentro la città. Solo a nord, l’estensione della città è completamente sconosciuta. Probabilmente dobbiamo aggiungere due file di insulae divise da un decumano superiore o, forse, una sola fila chiusa subito dalle mura. Oggi, lo scavo a cielo aperto occupa una superficie di circa 4,5 ettari, quindi, Ercolano, al momento dell’eruzione del Vesuvio, doveva estendersi su una superficie di circa 15-20 ettari, piú o meno un quarto della superficie di Pompei. Il territorio circostante che apparteneva alla città doveva confinare a nord-ovest con quello di Neapolis e a sud-est con quello di Pompei. In questa vasta area erano sicuramente disseminate ville rustiche nell’entroterra e ville d’otium lungo la costa.

Gli edifici pubblici Gli edifici pubblici a Ercolano sono rari, non perché non esistessero, ma perché non rientrano nella zona scavata e molti di quelli noti sono stati indagati solo parzialmente: la palestra, il teatro, la Basilica Noniana, l’Augusteum. La lacuna piú grave degli scavi di Ercolano è certamente il Foro, che è ancora sepolto sotto la lava e non può essere scavato; la ricostruzione della vita politica e religiosa

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della città diventa cosí difficile. Inoltre mancano quasi tutti i templi. Conosciamo solo i due templi di Venere nell’area sacra suburbana, che sono, però, mal conservati e presentano numerosi problemi interpretativi. Gli unici edifici riconoscibili nel loro aspetto architettonico sono le terme centrali, con una sezione per gli uomini e una per le donne e le terme suburbane, costruite poco prima dell’eruzione del Vesuvio. Come Pompei, anche Ercolano aveva i grandi edifici pubblici destinati al piacere e al divertimento ubicati in zone periferiche.

A ovest si trovavano il teatro, con circa 2500 posti a sedere e a est la palestra, dotata di una grande piscina a forma di croce.

L’importanza degli archi La strada principale di Ercolano, il decumano massimo, fiancheggiata da negozi e abitazioni private, collegava questi due centri, passando per il Foro. All’incrocio con il cardo III, ai limiti del parco archeologico, ma nel centro della città antica, si concentrava una serie di grandi edifici pubblici. Un arco quadrifronte in mezzo alla strada segnalava l’inizio di un settore

Il Teatro Il teatro di Ercolano, situato all’esterno del parco archeologico (l’accesso è da corso Resina n. 23), è attualmente chiuso al pubblico. L’edificio non è mai stato scavato a cielo aperto, e la sua fruizione risulta perciò difficoltosa. La sua scoperta fu casuale e si deve a un contadino, il quale, mentre scavava un pozzo, raggiunse il livello della scena del teatro, portando alla luce pregevoli frammenti marmorei pertinenti all’apparato scultoreo e architettonico dell’edificio. Vennero alla luce anche nove sculture di pregevole fattura, tra cui le tre statue femminili note come la Grande e le Piccole Ercolanesi, attualmente conservate nel Museo di Dresda. Sulla base di alcuni documenti epigrafici rinvenuti nell’edificio, sappiamo che il teatro venne eretto dal duoviro quinquennale L. Annius Mammianus Rufus su disegno dell’architetto P. Numisios. Un frammento di architrave in marmo iscritta con lettere in bronzo trovato nei pressi della scena, riporta il nome di Appio Claudio Pulchro, console del 38 a.C., il quale, probabilmente, ebbe un qualche ruolo nella costruzione o decorazione della scena. La datazione del teatro in epoca augustea, ricavata dall’analisi delle iscrizioni, è suffragata sia dalla tecnica costruttiva impiegata nella struttura dell’edificio – l’opera reticolata di tufo –, e dalle tegole con bolli di età augustea riutilizzati nei pilastri di rinforzo, sia dalle soluzioni decorative adottate nell’apparato architettonico. La decorazione parietale, conservata in alcuni corridoi e negli ambienti in cui si radunava il pubblico a livello della scena (versurae), risale al Quarto Stile e va messa in rapporto con un rifacimento dell’edificio in seguito a uno dei sismi che precedettero l’eruzione del 79 d.C. Il teatro poteva accogliere circa 2500 spettatori.

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La cavea è divisa in tre settori: ima cavea, la parte piú importante della gradinata perché prossima alla frontescena con i seggi riservati ai decurioni; media cavea, composta da sei settori con sedici file di gradini in tufo accessibili da sette scalette; summa cavea, riservata alle donne e agli strati inferiori della popolazione, al centro della quale erano un tempietto e due edicole laterali ornate con sculture e statue equestri in bronzo. Ai lati dell’orchestra erano i palchi d’onore (tribunalia), verosimilmente riservati a personaggi di rango, dove si conservano le iscrizioni marmoree poste in onore di M. Nonio Balbo e di Appio Claudio Pulchro. Il settore adibito alla scena (scaenae frons), in origine a due ordini e decorato da sculture e marmi asportati dai primi scavatori, è stato interamente realizzato in opera laterizia. Al centro è la porta regia, inquadrata da dieci colonne erette sul podio, ai lati le due portae hospitales e agli angoli quattro nicchie nelle quali erano, forse, alloggiate le statue emerse dagli scavi del principe d’Elboeuf. La costruzione del teatro va collocata nel programma di rinnovamento urbanistico di epoca augustea che contraddistingue le città dell’Italia romana. Per quanto riguarda la collocazione topografica dell’edificio, si trova nel settore nord-ovest, vicino all’area in cui si ritiene sia ubicato il Foro. Ricostruzione virtuale dell’interno del teatro, con la cavea (gradinata) divisa in tre settori, i palchi d’onore (tribunalia) riservati a personaggi di rango posti ai lati dell’orchestra, e la scena a due ordini decorata con le sculture e i marmi rinvenuti durante gli scavi del principe d’Elboeuf. L’edificio, capace di accogliere circa 2500 spettatori, sorse per volere del duoviro quinquennale L. Annius Mammianus Rufus, nell’ambito del programma di rinnovamento urbanistico augusteo.


importante della città; un secondo arco, di cui rimangono solo scarsi resti, era situato sul lato occidentale di questa zona. I tre grandi edifici pubblici sono la Basilica Noniana, il collegio degli Augustali e, sull’altro lato della strada, l’Augusteum. Diversi indizi sono a favore della localizzazione del Foro in questo settore della città: il risalto dato alla monumentalità, il fatto che il decumano massimo fosse pedonale, gli archi che sbarravano l’accesso ai carri, e, infine, una struttura rettangolare di circa 1 m d’altezza al centro del cardo III che impediva a qualsiasi

veicolo di accedere al decumano massimo da questo lato. Non è del tutto chiaro, però, se la Basilica Noniana e l’Augusteum facessero già parte del Foro, o se questo si sviluppasse piú a nord-ovest. Solo ulteriori scavi potrebbero dare risposte piú esaustive, ma occorrerebbe espropriare le case moderne soprastanti. I tre edifici pubblici – la sede del collegio degli Augustali, la Basilica Noniana e l’Augusteum – erano decorati con grande sfarzo. Tutti rivelano un carattere rappresentativo, ma la loro esatta funzione è piuttosto discussa. Molte statue di imperatori e di cittadini

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meritevoli, oggi conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, provengono da questi edifici, a testimonianza del rilievo che avevano nella vita della città.

Case «personalizzate» Le case di Ercolano si distinguono per la varietà di forme e funzioni, ricchezza e stili architettonici. Sebbene Vitruvio nel De Architectura, scritto negli anni Venti del I secolo a.C., avesse elaborato una tipologia architettonica di base per le case private, già nell’avanzato I secolo d.C. divenne difficile applicarla. A parte il rispetto delle fondamentali nozioni vitruviane relative alle singole stanze e al loro orientamento, quasi ogni dimora ercolanese presenta una sua peculiarità specifica e l’impronta personale del proprietario. Generalizzando, possiamo dire che le case piú comuni, sia per dimensioni, sia per la sobrietà della decorazione architettonica, si attestano al centro dell’area scavata e si alternano a botteghe e appartamenti in affitto. A nord, invece, intorno al decumano massimo, si concentrano le abitazioni piú ampie e lussuose. In direzione della spiaggia, a sud, si collocano le ville di prestigio circondate da ampi giardini, che furono tutte costruite in età augustea quando la città subí profondi cambiamenti architettonici, legati, in questo settore, alla ricostruzione delle mura da parte di Marco Nonio Balbo. La creazione delle due terrazze pubbliche favorí l’usanza di abbellire anche le ricche dimore private con giardini terrazzati. Verso sud, queste ville si affacciano sul mare, con ampi spazi verdi su cui si aprono ambienti dai quali si gode di una splendida vista panoramica. L’esempio piú caratteristico è la Casa dei Cervi, che occupa una superficie di oltre 1000 mq. In età augustea, il proprietario di una modesta casa di circa 200 mq poté acquistare i due o tre lotti adiacenti disposti a sud e tutto il terreno pubblico, che venne completamente rimaneggiato, con la costruzione di una terrazza artificiale sopra le nuove mura. Questo enorme spazio, di circa 800 mq, fu poi adibito a giardino e circondato da lussuosi

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ambienti di soggiorno, pergole e belvedere con vista mozzafiato verso l’orizzonte marino. Nella parte settentrionale della casa si susseguono una serie di piccole stanze, probabilmente ambienti di servizio. Il fulcro della casa era senza dubbio il grande peristilio centrale con l’adiacente ampia sala finestrata: il proprietario viveva quasi all’aria aperta, circondato da opere d’arte, immerso nella natura e nel paesaggio marino.

Tutto ruota intorno al peristilio Un altro esempio di questo lusso sfrenato è la contigua Casa dell’Atrio a Mosaico, ampia, come la precedente, piú di 1000 mq. Anche in questo caso, un piccolo impianto originario fu trasformato in età augustea in una dimora lussuosa. La terrazza panoramica sul mare sfruttò al meglio l’andamento delle mura e presenta un orientamento divergente rispetto al resto della casa. È evidente come l’abitazione, nella sua fase originaria, fosse orientata est-ovest con l’ingresso dal cardo IV che immetteva in un atrio centrale, seguito dal tablinum. Con l’ampliamento in età augustea anche il tablinum fu trasformato in una sala di rappresentanza, chiamata da Vitruvio oecus Aegypticus, destinata all’accoglienza degli ospiti, simile a una basilica pubblica.

In alto veduta della Casa della Gemma, facente parte in età augustea di un’unica dimora, poi divisa in tre nuclei abitativi.


In basso la Casa dell’Atrio a Mosaico, lussuosa dimora di età augustea ricavata da un piccolo impianto precedente.

Anche qui, il vero fulcro della casa è il grande peristilio con l’ampia terrazza meridionale. Di dimensioni ancora maggiori è la Casa dell’Albergo, che occupa tutta la metà meridionale dell’isolato compreso tra il cardo III e il cardo IV. Si tratta, con ogni probabilità, di una casa privata, costruita poco dopo la metà del I secolo a.C. inglobando diversi lotti preesistenti, poi notevolmente ampliata verso sud in età augustea, con la terrazza panoramica che si appoggia su imponenti sostruzioni a pilastri. Il peristilio, di oltre 500 mq, è il piú grande giardino privato finora conosciuto a Ercolano. Si tratta di un «giardino sommerso», cioè posto circa 1 m al di sotto dei colonnati circostanti, probabilmente per proteggere meglio le piante e gli alberi dalla brezza salata del mare. Il complesso abitativo piú lussuoso, ma anche piú difficile da ricostruire, si trova a est della Casa dei Cervi, sul lato opposto del cardo V. In questo settore, al momento dell’eruzione del Vesuvio, vi erano tre case indipendenti, la Casa del Rilievo di Telefo, la Casa della Gemma e la piú piccola Casa di M. Pilius Primigenius Granianus. In età augustea

l’intero isolato faceva parte di un unico complesso residenziale, un’autentica villa urbana disposta su tre livelli, che forse inglobava anche lo spazio occupato, in seguito, dalle terme suburbane. Si trattava certamente della dimora piú sfarzosa di Ercolano e, per questo, risulta suggestiva l’ipotesi di identificare il suo proprietario con il cittadino piú illustre dell’epoca augustea, Marco Nonio Balbo. In realtà non vi sono indizi in tal senso, sia sul piano archeologico sia su quello epigrafico e anche le fasi architettoniche dell’edificio sono tutt’altro che chiare. Finora è stato possibile accertare che a un nucleo tardo-sannitico seguí, in età augustea, una dimora lussuosissima divisa, forse solo in età flavia, in due residenze grandi e una piú modesta, contemporaneamente alla costruzione delle terme suburbane.

Un ufficio per gli ospiti Vivere sulla via principale e nelle vicinanze del Foro era considerato un vantaggio per la carriera politica. Già Vitruvio stabiliva la forma architettonica ideale per il proprietario in relazione al suo status sociale: la dimora doveva riflettere non solo il rango di appartenenza, ma anche la professione del padrone. Per un alto funzionario, un magistrato per esempio, la parte piú importante della casa era l’atrio, il cortile a cielo aperto dove i clienti «corteggiavano» il dominus, seduto nell’adiacente tablino, l’ufficio vero e proprio destinato al ricevimento degli ospiti. Dall’altra parte del tablino si trovava il peristilio, con l’area privata della casa, spesso nascosta e separata dal settore pubblico. Non a caso, dunque, le abitazioni intorno al decumano massimo esibiscono gli atrii piú grandi e raffinati di Ercolano, tutti orientati verso la strada. A Ercolano, come a Pompei, le case intorno alle strade principali erano piú ampie e lussuosamente decorate rispetto a quelle sulle vie laterali. L’élite ercolanese viveva in dimore eleganti, affacciate sul decumano massimo. Una delle abitazioni piú grandi è la Casa del Bicentenario, riportata alla luce nel 1938, nel 200° anniversario dell’inizio degli scavi.

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LA casa sannitica L’atrio della Casa Sannitica (foto in basso) messo a confronto con una sua ricostruzione moderna. L’atrio di tipo ellenistico presenta pareti dipinte in Quarto Stile di età claudia o flavia, ed è coronato in alto da un loggiato con tre lati chiusi da finte colonne e transenne e uno aperto. L’abitazione, risalente al II sec. a.C., in origine presentava un peristilio, in seguito venduto alla contigua Casa del Gran Portale, isolandolo dalla casa con la costruzione di un muro.

Non è ancora chiaro se la casa fosse stata progettata nella sua estensione attuale fin dall’inizio o se il proprietario avesse acquistato e ristrutturato nel corso degli anni altre case circostanti. La fase edilizia principale si colloca in età augustea e presenta un grande atrio tuscanico con due file di stanze laterali, seguito da un tablino e un peristilio nell’asse longitudinale. L’ampio oecus finestrato a sud del giardino sembra risalire a una ristrutturazione di questo settore della casa, attuata in un epoca non precisata. Sicuramente esisteva fin dall’inizio un piano superiore, che fu diviso

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almeno in due appartamenti, come fanno pensare le scale. Nella facciata verso il decumano massimo si aprivano alcune botteghe, di cui almeno una dotata di stanze al primo piano. È possibile che queste botteghe in origine facessero parte della Casa del Bicentenario e che, in un secondo tempo, contemporaneamente alle ristrutturazioni del piano superiore, fossero affittate o vendute separatamente. Infatti, è lecito pensare che la casa sia stata interamente edificata in età augustea per un ricco proprietario e la sua famiglia, e che poi, in un secondo tempo, sia stata divisa in una


casa padronale piú piccola, diversi appartamenti e negozi. Molto simile è la storia della Casa del Salone Nero, in cui le tre botteghe – la Bottega del Plumbarius, con l’appartamento al piano di sopra, la Bottega ad Cucumas e un’altra bottega dalla destinazione commerciale ignota – erano in un primo tempo collegate con la dimora. In seguito, le porte nelle pareti di fondo vennero murate, le botteghe divennero indipendenti, vendute o date in affitto. La casa presenta l’ingresso, il tradizionale atrio tuscanico e il tablino aperto verso l’atrio e il peristilio retrostante. Intorno al giardino si disponevano le

sale piú rappresentative tra cui il grande «salone nero», con raffinati affreschi su fondo nero di Quarto Stile. Come nella Casa del Bicentenario, ci sono singoli appartamenti al piano superiore, accessibili tramite una scala esterna, che, forse, appartenevano alla casa in età augustea e che, in seguito, furono affittati o venduti.

Dimore essenziali Le case nella parte centrale della città con l’ingresso dai cardini sono spesso modeste, con l’atrio piccolo, senza camere laterali. Il tablino si apre verso il peristilio, che è il fulcro della casa. In questa zona la dimora piú antica

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è la Casa Sannitica, costruita verso la fine del II secolo a.C. Originariamente doveva avere un peristilio che poi, in un secondo tempo, fu venduto, e venne alzato un muro per chiudere il tablino. L’atrio è decorato nella parte inferiore con affreschi di Quarto Stile, eseguiti durante il rinnovamento decorativo della casa in età

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costruire in economia Una veduta esterna della Casa a Graticcio (a destra), messa a confronto con una ricostruzione grafica moderna dell’edificio. Il nome della dimora deriva dall’essere stata realizzata in opus craticium, una tecnica edilizia rapida ed economica che consiste in un’intelaiatura riempita di una miscela di calcinacci, malta e argilla. L’abitazione presenta uno o due appartamenti al piano terra e due al piano superiore, e una bottega con stanze retrostanti, in parte raggiungibili anche dall’atrio.


claudia o flavia. Il tablino ha l’entrata laterale, con una sola grande finestra aperta verso l’atrio. All’inizio doveva aprirsi verso il giardino e dal momento che questo fu venduto, rimase una stanza piuttosto stretta e buia. Una scala interna conduceva al piano superiore. Un’altra scala, esterna, si trovava immediatamente a nord della casa, il che fa pensare che alcune stanze fossero state date in affitto almeno dopo le ristrutturazioni della metà del I secolo d.C. Nella Casa del Tramezzo di Legno si poteva chiudere il tablino verso l’atrio con un tramezzo di legno con porte scorrevoli. A partire dalla fine del I secolo a.C. il centro della casa diventa sempre piú il peristilio, l’atrio diviene un vestibolo, apprezzato soprattutto per la luce e l’aria fresca. La Casa del Tramezzo di Legno è sicuramente il risultato della fusione di due nuclei abitativi, il primo piú grande con ingresso dal cardo IV, l’altro dal cardo III. Di particolare interesse è la Casa a Graticcio. Si tratta di un’abitazione plurifamiliare, costruita in opus craticium, una tecnica edilizia economica e di rapida esecuzione, che consiste in un’intelaiatura a traliccio riempita di una miscela di calcinacci, malta e argilla. La Casa a Graticcio presenta uno o due appartamenti al piano terra e altri due al piano superiore. A questi ambienti si aggiunge una bottega con stanze retrostanti, raggiungibili in

parte anche dall’atrio che, forse, serviva come cortile comune per tutti gli appartamenti. Ma non è del tutto chiaro se si trattasse di un condominio in affitto o di proprietà, né a quale realtà sociale i residenti appartenessero.

Un grande benefattore Marco Nonio Balbo era l’uomo piú influente e piú potente a Ercolano in età augustea. Alla sua morte, il senato locale decretò di far erigere con denaro pubblico una statua equestre sulla piazza piú affollata della città e un altare funerario commemorativo di marmo sulla terrazza di fronte alla spiaggia. E non è tutto, perché furono adottare anche le seguenti disposizioni: il giorno della festa delle parentalia, la commemorazione dei morti, una processione doveva iniziare il suo percorso da questo altare; una giornata della festa atletica annuale doveva essere dedicata a Nonio Balbo; un posto d’onore doveva essere sempre riservato al senatore nel teatro. Tutto questo venne iscritto sull’altare funerario collocato al centro della terrazza che Nonio Balbo aveva fatto costruire. Ma chi era quest’uomo per meritare simili onori? Marco Nonio Balbo nacque a Nuceria negli anni Settanta/Sessanta del I secolo a.C., ma non faceva parte dell’aristocrazia romana. Suo padre, dallo stesso nome, non aveva mai ricevuto incarichi di alcun genere, e pertanto era un «nuovo ricco» senza storia familiare.

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In alto assonometria delle terme suburbane e della terrazza di Marco Nonio Balbo, con il piedistallo su cui poggiava la sua statua loricata e l’altare in cui ne furono deposte le ceneri. A destra ritratto di Marco Nonio Balbo, tribuno della plebe a Roma e proconsole della provincia di Creta e Cirene. Età augustea, Ercolano, deposito degli Scavi Archeologici. Nella pagina accanto una delle due statue equestri di Marco Nonio Balbo recuperate dall’area pubblica di Ercolano. Età augustea. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Le due statue furono trovate durante gli scavi in età borbonica (1746) ed erano probabilmente collocate nel Foro, ma la loro esatta ubicazione in antico non è chiara. Anche l’esatto punto di rinvenimento è contraddittorio. Le teste sono moderne. Le sculture dovevano raffigurare Marco Nonio Balbo ancora giovane, forse come governatore nella provincia di Creta e Cirene. Una delle due statue (quella qui illustrata) fu dedicata dagli abitanti di Nuceria, città d’origine dello stesso Balbo, l’altra dai cittadini di Ercolano.

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In un’epoca non meglio definita si trasferí a Ercolano e sposò Volasennia con la quale ebbe tre figlie. Lo ritroviamo, poi, a Roma, dove nel 32 a.C. ricoprí la carica di tribuno della plebe. Cassio Dione racconta che in quest’anno i due consoli Gneo Domizio e Gaio Sosio presero le parti di Marco Antonio, contro Ottaviano.

La riconoscenza di Augusto Il triumvirato si stava sgretolando. In questo momento delicato intervenne il tribuno della plebe Marco Nonio Balbo e bloccò con il veto le misure drastiche che Gaio Sosio voleva prendere contro Ottaviano. L’anno seguente, la battaglia navale di Azio concluse la guerra civile, spianando la strada a Ottaviano che, nel 27 a.C., divenne imperatore con il nome di Augusto. Questi non dimenticò la lealtà con la quale Marco Nonio Balbo si era messo dalla sua parte e lo ringraziò nominandolo prima pretore e poi proconsole per la provincia di Creta e Cirene, dove Balbo accumulò ingenti ricchezze. A Cirene si è trovata un’iscrizione con un decreto che impediva lo sfruttamento delle ricchezze locali da parte dei proconsoli, databile poco dopo il passaggio di Nonio Balbo. Probabilmente verso la fine degli anni Venti del I secolo a.C. Marco Nonio Balbo tornò a Ercolano e cominciò la sua carriera di benefattore della città vesuviana. Di sicuro il senatore aveva molti schiavi, che man mano liberava. A Ercolano abbondano i «Marco Nonio» seguiti da un nome greco, un segno chiaro che si trattava di liberti. Balbo restaurò le mura e costruí le terrazze suburbane sopra la spiaggia. Sicuramente fu responsabile anche della costruzione di alcune case, della Basilica Noniana e di molte altre opere pubbliche. In seguito ai suoi numerosi atti di evergetismo nei confronti della città fu nominato patrono di Ercolano, e la città gli fu riconoscente.

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Dove e quando

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1. Fornici 2. Terrazza di M. Nonio Balbo 3. Terme Suburbane 4. Area sacra suburbana 5. Casa del Rilievo di Telefo 6. Casa dei Cervi 7. Taberna di Priapo 8. Grande Taberna 9. Palestra 10. Panificio 11. Casa dell’Atrio Corinzio 12. Casa del Salone Nero 13. Casa del Colonnato Tuscanico 14. Sede degli Augustali 15. Terme Centrali 16. Casa del Bel Cortile 17. Casa di Nettuno e Anfitrite 18. Casa Sannitica 19. Casa a Graticcio 20. Casa del Tramezzo di Legno 21. Casa dell’Albergo 22. Basilica Noniana 23. Augusteum 24. Villa dei Papiri

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Scavi di Ercolano Corso Resina Orario 1° aprile-31 ottobre: tutti i giorni, 8,30-19,30 (ultimo ingresso ore 18,00); 1° novembre-31 marzo: tutti i giorni, 8,30-17,00 (ultimo ingresso ore 15,30) Info tel. 081 8575347; e-mail: pompei.info@ beniculturali.it

accesso agli scavi di Ercolano avviene dall’antica spiaggia, dopo aver raggiunto il livello della città antica tramite una moderna rampa. Prima di inoltrarsi nell’area archeologica, il visitatore può vedere dall’esterno i cosiddetti «fornici», magazzini con aperture arcate, chiusi al pubblico, nei quali sono collocati i calchi degli scheletri dei 300 Ercolanesi che avevano cercato scampo al loro interno durante l’eruzione del 79 d.C. Marco Nonio Balbo, il patrono di Ercolano, restaurò in età augustea le mura ercolanesi e ridisegnò il percorso architettonico del lato meridionale della città. In corrispondenza della spiaggia, Balbo fece terrazzare il terreno con


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un ingente muro di sostegno nel quale si aprivano, rivolti verso il mare, i fornici. Sulla terrazza occidentale ristrutturò e ampliò la già esistente area sacra, su quella orientale creò un’altra terrazza dove, dopo la sua morte, venne eretto l’altare funerario in sua memoria. In età flavia, furono costruite in questo punto le terme suburbane. Una stretta scala al centro del muro di sostegno conduceva dalla spiaggia alle due terrazze, poi la scala si diramava per immettersi a sinistra nel cardo IV, a destra nel cardo V. Le fondazioni delle due terrazze poggiavano direttamente sulla solida roccia della scogliera.

Edificio chiuso

Il simbolo indica gli edifici dell’area archeologica di Ercolano attualmente non visitabili.

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itinerario ercolano

Terrazza di Marco Nonio Balbo

Fornici D

In alto uno dei fornici con gli scheletri delle persone morte per lo shock termico causato dal surge, la nube ardente formatasi in seguito all’eruzione, che raggiunse i 500 °C.

ietro le arcate aperte nella sostruzione affacciata sulla spiaggia, si aprivano spazi rettangolari coperti con volte a botte, adibiti a magazzini e oggi indicati con il nome di «fornici». Nel 1980, a causa delle infiltrazioni d’acqua che minacciavano di distruggere le terme suburbane, la zona fu drenata e fu possibile scavare i suddetti fornici. Furono rinvenuti gli scheletri di circa 300 persone che probabilmente vi avevano cercato rifugio durante l’eruzione del Vesuvio. Ma non ebbero scampo, la nube ardente li uccise in pochi secondi. Insieme agli scheletri vennero trovati numerosi oggetti di valore; forse le persone si trovavano sulla spiaggia in attesa di una barca che potesse metterli in salvo.

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D

alla spiaggia sale una scala sulla terrazza di Nonio Balbo, a destra. Si tratta di una grande piazza rettangolare collocata di fronte all’ingresso delle terme suburbane. Al centro si trova l’altare di Marco Nonio Balbo, corredato da un’iscrizione. Il testo riferisce che l’altare venne eretto dal Senato municipale nel luogo in cui il corpo del senatore era stato cremato. Dietro l’altare è la statua loricata di Marco Nonio Balbo raffigurato come comandante militare con il braccio destro alzato in segno di saluto. La scultura venne eretta dal suo liberto Marco Nonio Volusiano che, con questo omaggio, intese ringraziare il suo benefattore

per averlo liberato dalla schiavitú. Attualmente in situ si trova un calco, mentre l’originale è conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’altare e la statua furono collocati sulla piazza solo dopo la morte di Balbo e, attorno alla sua persona, sorse una sorta di culto simile a quello tributato agli eroi. La funzione della terrazza non è ancora del tutto chiara. Pur ruotando intorno alla piú importante personalità di Ercolano, che comunque non era certamente divinizzata, il grande piazzale non era un santuario. È possibile, invece, che fosse la palestra delle originarie terme suburbane il cui attuale aspetto risale all’età dei Flavi.

La terrazza di Marco Nonio Balbo, con l’altare funerario e la statua eretta dal suo liberto (vedi particolare nel riquadro). La terrazza si appoggia sui fornici dove vennero trovati piú di 300 scheletri. In fondo si vedono le mura cittadine con la rampa d’accesso.

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Terme Suburbane N

el loro aspetto definitivo, le terme suburbane si sviluppavano su tre piani. La parte superiore era la terrazza di Nonio Balbo che serviva probabilmente come palestra e spazio di intrattenimento. Attraverso una scala di legno si raggiungevano le sale termali sottostanti e, al livello piú basso, si trovavano gli ambienti di servizio, i forni, la piscina e il sistema di riscaldamento a ipocausto. Poi, da una rampa conservata solo in parte, si raggiungeva la spiaggia. A sinistra dell’ingresso si trovavano le latrine, sull’altro lato un ambiente di ignota funzione, forse una piccola bottega dove si vendevano accessori da bagno. Alla fine delle scale si apriva un piccolo atrio con quattro colonne e una vasca centrale con fontana. Da qui, attraverso un corridoio, si poteva proseguire in una sala di soggiorno con grandi finestre che si affacciano verso sud sul mare. Il corridoio a nord, invece, era probabilmente un passaggio di servizio per il personale delle terme e collegava dal retro l’atrio con il frigidarium, il praefurnium e altre sale di servizio. Dall’atrio si poteva anche accedere direttamente al frigidarium con la grande piscina interrata, adiacente alla parete est che si apriva con un arco. La sala è pavimentata con piastrelle di marmo bianco; intorno alle pareti corre uno zoccolo con lastre di marmo giallo, mentre sopra si sviluppava una decorazione in Quarto Stile, con architetture fantastiche su fondo bianco. A sud seguiva il tepidarium con riscaldamento a ipocausto. Sui lati lunghi si trovavano due panchine in marmo per il riposo o l’attesa. La decorazione parietale appartiene anche qui al Quarto Stile e presenta, sopra uno zoccolo con lastre di marmo, sette pannelli stuccati con raffigurazioni di guerrieri e un pannello con amorini e ghirlande.

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Dal tepidarium si poteva accedere al calidarium oppure, sul lato opposto, alla sala con la grande piscina riscaldata e al laconicum retrostante. Il tepidarium, il calidarium e la sala della piscina calda erano rivolti verso sud, e avevano grandi finestre con splendide viste sul mare e sulla sottostante spiaggia. La grande piscina veniva riscaldata con il sistema detto «a samovar». Il praefurnium riscaldava l’acqua dentro un calderone di bronzo, murato nel centro della vasca. Il calore di questo «samovar» riscaldava poi a sua volta l’acqua della piscina. A nord della piscina e in prossimità del praefurnium seguiva ancora il laconicum, una sala circolare con quattro absidi agli angoli e una panca di marmo che serviva ai bagni di sudore. Il calidarium, sull’altro lato del tepidarium, era decorato in Quarto Stile con motivi architettonici fantastici in stucco sopra uno zoccolo con lastre di marmo. Nella parte nord era la vasca d’acqua calda, a sud, nell’esedra con grandi finestre sul mare si trovava il labrum, il bacino rotondo per le abluzioni di acqua fredda. Le terme suburbane non erano divise in una sezione maschile e una sezione femminile, in questo simile alle terme centrali di Pompei, ancora in costruzione al momento dell’eruzione del Vesuvio. Sembra che nelle città vesuviane, la separazione dei sessi nei bagni pubblici non fosse piú di moda nella seconda metà del I secolo d.C.È possibile che un primo bagno pubblico fosse stato costruito insieme alla terrazza di Nonio Balbo in epoca augustea, in seguito restaurato e notevolmente ampliato dopo il terremoto del 62 d.C. Ma, per una conferma definitiva, mancano ancora le prove archeologiche. Certamente, in età flavia l’ampliamento delle terme comportò l’estensione del complesso ai piani inferiori della Casa del Rilievo di Telefo.

In alto pianta delle terme suburbane, con, a sinistra, la terrazza di Marco Nonio Balbo, che serviva probabilmente come palestra: 1. entrata; 2. latrine; 3. bottega?; 4. Atrio; 5. sala di soggiorno; 6. corridoio; 7. frigidarium; 8. praefurnium; 9. stanze di servizio; 10. tepidarium; 11. calidarium; 12. piscina riscaldata: 13. laconicum. A destra l’atrio tetrastilo (4) con l’insolita soluzione architettonica di due ordini di archetti sopra le colonne. Su una parte dell’impluvio si trova un labrum, una vasca per le abluzioni riempita dall’acqua che scaturiva da un’erma di Apollo.


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itinerario ercolano

Area Sacra Suburbana Veduta dell’area sacra, con i due templi dedicati a Venere. La cella del piú piccolo è stata ricostruita, come anche i magazzini e gli ambienti di servizio, visibili a destra del tempio. Del Sacello B rimangono quasi unicamente il podio e una parte posteriore del muro della cella.

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l santuario sorge su una terrazza costruita in età augustea, contemporaneamente alla terrazza di Nonio Balbo e al restauro delle mura cittadine. Tuttavia, il luogo era sicuramente consacrato a Venere già in epoca preromana, come sappiamo da un’epigrafe in lingua osca, databile al II secolo a.C., trovata nelle vicinanze. Il testo riferisce che Herenta Ericina, il nome osco di Venere, aveva un piccolo tempio in questa zona. Salendo dalla spiaggia, l’ingresso al santuario si trova sulla sinistra, alla stessa altezza della terrazza di Nonio Balbo. Nella parte posteriore sono visibili le fondamenta di due templi

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(sacello A e sacello B), probabilmente entrambi consacrati a Venere, mentre alcune sale mal conservate rimangono sulla destra, proseguendo dall’entrata verso i due templi. Si trattava di magazzini e di ambienti di servizio, collegati sicuramente con il culto di Venere. A sinistra dell’ingresso, invece, era una grande sala con una panca in marmo addossata alle pareti su tre lati. L’ambiente serviva, forse, a una comunità religiosa per cerimonie e banchetti, sempre in relazione con il culto di Venere. Il piú piccolo tempio di Venere (sacello A) era edificato su podio, probabilmente con due


le divinità Minerva, Mercurio, Nettuno e Vulcano, e, pertanto, fu riconosciuto come un «sacello dei Quattro Dèi». Calchi dei rilievi – gli originali si trovano nel deposito archeologico di Ercolano – sono oggi collocati sulla parte anteriore del podio che, in origine, era sicuramente rivestito con lastre di marmo, come attestano i fori di fissaggio, ma non con questi fregi marmorei. Del resto, non è neanche chiaro se i rilievi facessero veramente parte del sacello. Un’iscrizione trovata nelle vicinanze, riferisce che Vibidia Saturnina e suo figlio ricostruirono a loro spese il pronao del tempio di Venere dopo un terremoto. Siccome il contiguo tempio di Venere (sacello A) non aveva un pronao, l’edificio menzionato dall’epigrafe va identificato, verosimilmente, con il sacello B. Il sacello B era infatti un tempio tetrastilo su podio, affiancato da scale sui due lati. La cella ha una superficie di 7 x 5,5 m, con un pavimento di piccoli rombi di marmo giallo antico. Il pronao, ornato con un pavimento di lastre in marmo cipollino, era sorretto da colonne corinzie di cui si sono trovati i resti vicino alla spiaggia insieme ai rilievi, iscrizioni e altri reperti decorati pertinenti all’edificio. È molto probabile che anche il sacello B fosse dedicato a Venere, alla quale, evidentemente, erano stati eretti due templi contigui.

A sinistra rilievo arcaistico di Vulcano, dall’area sacra suburbana. Ercolano. Età augustea. Deposito archeologico. Il dio è rappresentato di profilo verso destra, con barba appuntita e vestito di mantello. Con le due mani regge un’ascia con lungo manico. In basso il podio del Sacello B, probabilmente dedicato a Venere. In primo piano si vedono le lastre di marmo del rivestimento del podio. In fondo si vedono le mura cittadine che circondano la terrazza dell’area sacra.

colonne tra le ante, di cui, però, non rimangono resti. Davanti al tempio, sul podio, accessibile solo da una piccola scala sul lato est e non dalla fronte, si trovava l’altare. La cella ha una pianta rettangolare di 7 x 4,5 m, con l’interno coperto da una volta a botte, in origine dipinta. Il pavimento era decorato con un mosaico di marmo bianco e bordo nero. Un podio in mattoni davanti alla parete di fondo si estendeva su tutta la larghezza dell’edificio. All’esterno il tempio era protetto da un tetto a doppia falda. Iscrizioni e resti di pittura parietale documentano l’attribuzione del sacello senz’alcun dubbio a Venere. Piú difficile è invece l’identificazione del sacello B, un tempio un po’ piú grande, contiguo al precedente. Vicino a questo edificio furono trovati quattro rilievi raffiguranti

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Casa del Rilievo di Telefo

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l nome convenzionale di questa lussuosa dimora deriva da un rilievo in marmo pentelico con la storia del mito di Telefo che era incassato nella parete di una delle sale di rappresentanza, affacciata sul mare, attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (un calco è stato esposto nella parete meridionale dell’atrio). La storia edilizia della casa, che per la sua elaborata concezione architettonica e l’utilizzo di preziosi materiali posti a decoro dei vari ambienti si configura come una autentica villa urbana, è molto articolata e complessa. Piú d’uno studioso, data la sua ubicazione in prossimità delle terme suburbane e della terrazza di M. Nonio Balbo, ha creduto di poter identificare il proprietario con il medesimo senatore Balbo, attribuendo alla dimora anche l’adiacente edificio termale che, poi, in un secondo tempo, sarebbe divenuto di uso pubblico. Le analisi stratigrafiche condotte nel settore dell’antica spiaggia in corrispondenza

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delle terme suburbane e dell’ala sud della casa nell’ambito dell’Herculaneum Conservation Project hanno permesso di chiarire sia il suo rapporto con l’edificio termale, sia l’esistenza di un quarto piano abitativo nella parte meridionale, abbandonato e interrato in epoca tiberiano-claudia a causa di un progressivo avanzamento del mare. Le indagini si sono estese anche alle strutture murarie di tutta l’Insula Orientalis, svelando che i tre settori abitativi differenziati al suo interno, la Casa del Rilievo di Telefo, la Casa della Gemma e la Casa di M. Pilius Primigenius Granianus, facevano originariamente parte di un’unica residenza monumentale, disposta scenograficamente su quattro livelli e con una suggestiva vista panoramica sul mare. Questo grandioso complesso edilizio si mantenne inalterato dall’età di Augusto fino alla metà del I secolo d.C., anche se il suo nucleo originario, piú esiguo, esisteva già in epoca tardo-sannitica. Intorno agli anni centrali

In alto il rilievo con l’episodio di Telefo. Età augustea. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Secondo quanto predetto da un oracolo, Telefo, figlio di Ercole, poteva guarire dalla sua ferita solo se questa fosse stata curata con la ruggine della spada di Achille che gliela aveva inferta. Sulla sinistra, l’oracolo predice ad Achille l’importanza di guarire Telefo, poiché solo sotto la sua guida sarà possibile il felice arrivo dei Greci a Troia; sulla destra, la guarigione.


In basso la Casa del Rilievo di Telefo. La casa prende il nome dal rilievo in marmo pentelico di età augustea raffigurante la guarigione di Telefo (vedi foto alla pagina precedente). Nell’atrio è ben conservata la policromia della decorazione, basata sul contrasto tra rosso e giallo. Visibili sono gli oscilla (oggi in calco), i dischi a rilievo, scolpiti su ambi i lati, che decoravano gli spazi tra le colonne e si muovevano col vento. Da questa loro peculiarità deriva il verbo «oscillare».

del I secolo d.C., la vasta proprietà venne smantellata e suddivisa, originando i tre nuclei abitativi attuali. La Casa del Rilievo di Telefo presenta un’articolazione degli spazi assai complessa, improntata su una disposizione che rispetta l’importanza degli ambienti ai quali, spesso, corrisponde un apparato decorativo di eccellente qualità. Un sedile in muratura destinato all’attesa dei clientes, situato su uno dei lati dell’entrata lascia trapelare l’alto rango del proprietario. Sul retro del corridoio d’ingresso si apre l’atrio, incorniciato da colonne poste molto a ridosso dei muri laterali, che ricorda un tipo di peristilio documentato nelle abitazioni ellenistiche di Delo. Il colonnato non faceva da supporto al tetto, ma a un piano superiore che nella Casa del Rilievo di Telefo è documentato sicuramente solo sul lato settentrionale. Gli spazi tra le colonne erano decorati da oscilla pendenti in marmo, raffiguranti perlopiú scene tratte dal mondo dionisiaco (in situ attualmente sono i calchi). La soluzione decorativa adottata nell’atrio è basata sul contrasto cromatico tra rosso,

utilizzato nello zoccolo, nella parte superiore delle pareti, nel fusto delle colonne e nel soffitto, e giallo, in cui è dipinto il registro mediano dei muri. In fondo all’atrio si accede al tablino, decorato con raffinati affreschi a fondo rosso, ai lati del quale si apre il cubicolo con ornato musivo a tessere bianche su cocciopesto. La zona dell’atrio è collegata tramite una stretta rampa di passaggio a un ampio giardino circondato da un quadriportico. Nell’area del giardino e nelle terrazze inferiori si aprono una serie di lussuosi ambienti di rappresentanza, in parte affacciati sul portico in parte rivolti direttamente sul mare, spesso pavimentati in opus sectile e impreziositi da raffinate decorazioni parietali che coniugano rivestimenti marmorei e raffigurazioni pittoriche. Di particolare rilievo sono due grandi ambienti dell’ala meridionale ridecorati poco dopo la metà del I secolo d.C.: la sala del I livello inferiore e il cosiddetto Salone dei Marmi, sul piano principale. La prima stanza presenta le pareti ornate da preziose lastre marmoree sullo zoccolo, al di sopra del quale corrono pitture scenografiche su fondo rosso riempite da ornati geometrici e


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maschere teatrali, a imitazione di drappeggi decorati. Il Salone dei Marmi conserva nelle pareti lo zoccolo decorato da lastre verticali e orizzontali di preziosi marmi policromi, scandite da colonnine spiraliformi a rilievo con capitelli corinzieggianti e un pavimento in opus sectile in cui le piastrelle di marmo, a modulo quadrato, presentano molteplici disegni geometrici, distribuiti sul pavimento senza un ordine preciso e in maniera irregolare. Nel 2009, nel corso delle indagini condotte sul sito dell’antica spiaggia, sono state rinvenute le travi lignee e le tegole del tetto della preziosa sala, che è stato letteralmente divelto, ribaltato e scaraventato in quel punto dalla violenza dell’eruzione. Si trattava di una copertura a doppio spiovente con un elegante controsoffitto ornato da assi colorate in rosso e azzurro e pannelli con esagoni e triangoli policromi a rilievo.

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A sinistra pianta della Casa del Rilievo di Telefo: 1. vestibolo d’ingresso; 2. atrio; 3. tablino; 4. giardino; 5. ambienti di rappresentanza; 6. salone dei marmi; 7. salone del livello inferiore. In basso la scultura del cervo assalito da quattro cani che ha dato il nome alla Casa dei Cervi.

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Casa dei Cervi Q

uesta lussuosa residenza, con i suoi 1100 mq di superficie, occupa l’intero settore sud-orientale dell’insula IV. Il ricco proprietario era Q. Granius Verus, decurione e duoviro prima del 61 d.C., identificato grazie a un bollo impresso su una forma di pane carbonizzata. La casa, il cui impianto odierno non è quello originale, si articola intorno al settore dell’atrio testudinato, sviluppatosi in direzione est-ovest, e all’arioso quartiere meridionale, perpendicolare al primo, che si apre con una serie di ambienti di soggiorno e rappresentanza in splendida posizione panoramica sul Golfo di Napoli. Il raccordo funzionale e strutturale tra i due settori fu assicurato da un criptoportico a quattro bracci, che rappresenta l’ambiente piú pregevole, sotto il profilo architettonico, di tutta l’abitazione. I corridoi di passaggio (ambulacri) sono decorati con tappeti musivi di grande

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raffinatezza composti da tessere bianche e inserti marmorei policromi. Il criptoportico, oltre a fungere da ambiente di disimpegno e di passaggio, era anche il luogo dedicato al percorso intellettuale e contemplativo, accompagnato e assecondato da una elegante decorazione parietale. Una serie di quadretti (undici in situ e un’altra ventina divisi tra il Museo del Louvre di Parigi e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli) con tre differenti soggetti, Amorini impegnati in varie attività, nature morte e paesaggi, fornivano lo spunto per dotte conversazioni, evidenziando, contemporaneamente, i settori della casa che si aprivano sugli ambulacri. I muri interni del criptoportico circondavano un ampio giardino, arredato con

A sinistra pianta della Casa dei Cervi: 1. atrio testudinato del quartiere settentrionale; 2. quartiere meridionale; 3. giardino; 4. criptoportico; 5. grande sala finestrata; 6. quartiere di soggiorno affacciato sul mare; 7. oeci intorno alla grande sala finestrata. In basso il satiro ebbro con otre sulla spalla rinvenuto con altre sculture nel giardino della Casa dei Cervi.

pregevoli sculture in marmo, ricollocate in calco, tra le quali si distingue il gruppo con due cervi assaliti da quattro levrieri. Il portico meridionale introduce alla grande sala finestrata (oecus Cyzicenus) e all’elegante quartiere di soggiorno affacciato sul mare. Gli ambienti che lo costituiscono, due cubicoli diurni, gravitano intorno a una terrazza trapezoidale abbellita da una pergola con pavimento ornato da piastrelle di marmo colorato, affiancata da due piccoli giardini rettangolari. Di grande impegno architettonico erano le porte di accesso al giardino sui lati nord e sud del criptoportico, tra le quali si distingue, per la decorazione sfarzosa, il portale con frontone rivestito di mosaico in pasta vitrea con Amorini su cavalli marini e testa di Oceano, posto in asse con l’apertura del grande triclinio. Questa lussuosa sala colpisce per la raffinatezza e l’eleganza dell’apparato decorativo, che all’austera pittura parietale a fondo nero contrappone la varietà cromatica delle piastrelle in marmo poste a decoro del pavimento, combinate tra loro in modo da formare tanti schemi geometrici differenti. Sull’ambulacro meridionale del criptoportico si aprivano in sequenza gli oeci che incorniciavano la grande sala finestrata, in cui si riconosce la descrizione di Vitruvio relativa agli oeci Cyziceni (De Arch. 6,3,10): preferibilmente orientati a nord e affacciati su giardini, abbastanza spaziosi per collocarvi i letti tricliniari e con un camminamento tutto intorno, con finestre e battenti su entrambi i lati in modo che i convitati potessero ammirare il panorama. Le pareti erano affrescate con deliziosi quadretti che evidenziavano la destinazione conviviale dell’ambiente (nature morte, forme di formaggio, cestini colmi di frutta).

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«Grande Taberna» I

l termopolio si trova nell’angolo tra il decumano inferiore e il cardo V, di fronte all’ingresso della palestra e vicino a una fontana pubblica. In origine, tutto il complesso faceva parte di una casa privata, di cui, in un secondo momento, un settore venne trasformato in taverna con retrobottega, cucina e ambienti di servizio. Alcune stanze conservano i resti di una ricca decorazione parietale in Terzo Stile finale che doveva appartenere ancora alla dimora originaria. La trasformazione di questo settore in termopolio si daterebbe, cosí, poco prima o poco dopo il terremoto del 62 d.C. Accessibile da entrambe le strade, la taverna era dotata al centro di un lungo bancone a L,

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In alto la «Grande Taberna». Il termopolio si trovava all’angolo di due strade ed era accessibile da entrambe. Nella foto si vede il grande bancone a L con i grandi vasi incassati che contenevano cibi e bevande. All’inizio si trattava di una casa privata e solo intorno al 62 d.C. venne trasformata in termopolio e aperta al pubblico.

rivestito di lastre di marmo, con grandi vasi incassati per conservare i cibi e le bevande. Sul retro seguivano due ambienti disposti lungo il decumano inferiore e altre due stanze lungo il cardo V, vani di retrobottega e triclini nei quali mangiare. Della taverna faceva parte un’abitazione privata con atrio, tablino e diverse stanze da letto e da soggiorno. Sul decumano inferiore, fra il termopolio e l’ingresso della casa, si apriva una bottega nella quale furono trovate numerose anfore. Per questo viene interpretata come taberna vasaria, una bottega che vendeva anfore e altri recipienti fittili. La bottega aveva un ammezzato ligneo, l’alloggio dell’artigiano e della sua famiglia.


Taberna di Priapo

palestra 4

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eguendo il cardo V verso la spiaggia si trova adiacente alla Grande Taberna un altro termopolio con annesso quartiere abitativo. La parete dietro il bancone è dipinta con un Priapo itifallico che ha ispirato il nome della taverna. Il retrobottega presenta una panchina su tre lati e serviva probabilmente ai clienti come triclinio. Una porta sul lato del balcone conduceva tramite un vestibolo all’abitazione residenziale del proprietario, un’altra entrata si apriva sulla strada. La casa aveva un atrio tetrastilo con diverse stanze intorno e un grande triclinio preceduto dal vestibolo e con finestra sul termopolio.

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In alto pianta della palestra: 1. ingresso; 2. vestibolo; 3. cortile circondato su tre lati da portici; 4. criptoportico; 5. piscina; 6. sala centrale con grande abside semicircolare; 7. edifici circostanti: botteghe e appartamenti.

Qui sopra l’affresco piuttosto mal conservato con il Priapo itifallico che ha dato il nome a una taverna adiacente alla Grande Taberna. Il Priapo potrebbe essere un segno che nel locale si poteva chiedere molto di piú del solito cibo e delle solite bevande...

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a palestra si trova nella parte orientale di Ercolano, su una terrazza probabilmente costruita sopra il porto. Come la maggior parte degli edifici pubblici della città, la palestra venne realizzata in età augustea. L’ingresso era dal cardo V e conduceva, tramite uno stretto corridoio, in un vestibolo con volta a botte, decorata da stelle in rosso, verde e giallo. Da questo ambiente si accedeva al grande cortile, circondato su tre lati da portici. Sul lato nord era un criptoportico collegato da una scala alla terrazza soprastante, accessibile anche da dietro, dal decumano massimo, e che, con la sua lunga fila di arcate, serviva da tribuna per gli spettatori. Solo una piccola parte della palestra fu scavata, la maggior parte della piazza giace ancora sotto diversi metri di lava. Al centro si trovava una grande piscina a forma di croce, tuttora in gran parte sepolta. In questo punto sono ben visibili i cunicoli scavati dagli esploratori borbonici del XVIII secolo.

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itinerario ercolano

A ovest della palestra si colloca una serie di stanze disposte intorno a una sala centrale con grande abside semicircolare. Il centro era decorato con un tavolo di marmo, che probabilmente serviva per le cerimonie cultuali collegate agli eventi sportivi. La sala era riccamente decorata in Quarto Stile e la maggior parte degli affreschi, rimossi in età borbonica, sono attualmente conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Alla palestra appartenevano anche gli edifici circostanti che si aprivano sul cardo V. Si trattava principalmente di botteghe al piano

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I portici sul lato ovest della palestra. Come altre importanti strutture pubbliche e private, sorse in età augustea, l’epoca di massima fioritura di Ercolano. La maggior parte della palestra è ancora sepolta sotto la lava: a oggi, perciò, si ignora in che modo si sviluppasse il lato orientale.

terra con appartamenti economici al primo, in alcuni casi anche al secondo piano. Edifici simili si collocarono anche sul lato sud della palestra. Le botteghe spesso avevano un mezzanino costruito in legno, raggiungibile da una stretta scala interna e diviso da sottili pareti in una o due camere, in cui l’artigiano viveva con la sua famiglia. Gli appartamenti al primo piano erano, invece, raggiungibili da scale esterne. Questo complesso residenziale e commerciale era probabilmente di proprietà pubblica e aiutava con il guadagno della locazione a mantenere la palestra.


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panificio A

ridosso della palestra, con l’entrata dal cardo V, si trova il panificio (pistrinum) di Sesto Patulcio Felice con adiacente abitazione. La bottega, piuttosto piccola, presenta, a destra dell’ingresso, i resti di due

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macine granarie, dietro le quali era la stalla per l’asino, che ruotava le macine stesse; sulla sinistra, si aprono due ambienti: nel primo era stato sistemato il forno; il secondo era invece adibito a magazzino.

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In alto pianta del pistrinum (panificio) di Sesto Patulcio Felice: 1. ingresso; 2. macine; 3. forno; 4. magazzino.

Casa dell’Atrio Corinzio Q

uesta abitazione, di dimensioni medie, si affaccia sulla strada con un elegante portichetto di colonne in mattoni, in corrispondenza del quale il pavimento in cocciopesto del marciapiede è accuratamente decorato con frammenti di marmi policromi. Dalle fauces (ingresso) si passa nell’atrio corinzio, che si configura come un peristilio con sei colonne rivestite di stucco rosso e bianco e la vasca dell’impluvio trasformata in una fontana, con un piccolo euripus (vasca) al centro del giardino. Un basso pluteo corre tra le colonne e incornicia l’impluvium. Le stanze che si aprono intorno all’atrio, probabilmente cubicoli, erano decorate con pitture piuttosto sobrie, tra le quali si distingue un quadretto con battaglie navali. Il decoro piú raffinato era destinato alle stanze di rappresentanza e di soggiorno. L’oecus presenta pitture di Quarto Stile e un ornato musivo in bianco e nero con mura merlate e lastra centrale di marmo giallo antico. Il triclinio esibisce un mosaico pavimentale di tessere bianche e tappeto centrale a riquadri di decorazioni geometriche, mentre le pareti sono decorate con dipinti in Quarto Stile a motivi architettonici, asportati in gran parte in età borbonica. Un ambiente sul lato sud dell’atrio, forse un A destra l’atrio della Casa dell’Atrio Corinzio, trasformato in un peristilio con giardino provvisto di una fontana ricavata dall’impluvio e di un euripus (vasca). Le sei colonne in laterizio erano rivestite di stucco rosso e bianco.

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Casa del Salone Nero

cubicolo diurno, conserva la pittura sulle pareti, scandite da pannelli con al centro un’edicola con Amorini in volo; il soffitto, suddiviso in tre lacunari a fondo bianco, è decorato con figure di Amorino e Pistrice.

| L’atrio corinzio | La peculiarità di questa abitazione, al momento un unicum nel panorama abitativo ercolanese, è l’atrio di tipo corinzio, che, rispetto a quello tuscanico, presenta un’apertura piú larga e una fila di piú di quattro colonne intorno all’impluvio, mancanti in quello tuscanico. Invece della tipica sequenza atrio-peristilio, l’atrio forma con il peristilio di sei colonne e l’elegante giardino centrale una sorta di «giardino a peristilio». Questa soluzione venne adottata nell’impero romano quando il peristilio si sostituí all’atrio come ambiente piú importante della casa. La dimora ercolanese è uno dei primi esempi, ancora in piccola scala, di questa trasformazione. N

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5 Qui sopra pianta della Casa dell’Atrio Corinzio: 1. ingresso; 2. atrio corinzio; 3. oecus; 4. triclinio; 5. cubicolo diurno. In alto, a sinistra la decorazione del soffitto dell’ambiente situato a sud dell’atrio della Casa dell’Atrio Corinzio, forse identificabile con un cubicolo.

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In alto, a destra l’oecus della Casa del Salone Nero decorato da raffinate pitture di architetture fantastiche su fondo nero. Nella pagina accanto Casa del Salone Nero. Veduta dall’ingresso verso l’atrio con l’impluvio, il tablino e, in fondo, il peristilio.

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uesta elegante abitazione si sviluppa nel settore nord-orientale dell’insula VI e prende nome dalla sala che si apre a ovest del peristilio, decorata da raffinate pitture su fondo nero. Preceduta da una fase preromana risalente al II secolo a.C., la dimora presenta il canonico impianto articolato nella sequenza vestibolo, atrio, tablino e peristilio. Le botteghe che attualmente si affacciano sul decumano massimo con i numeri civici indipendenti 12, 14 e 15 erano collegate, in origine, con l’abitazione. In corrispondenza del n. 14 è dipinta l’insegna Ad Cucumas, con quattro brocche (cucumae) di colore diverso e il prezzo delle varie qualità di vino in esse contenute. L’ingresso principale, che conserva ancora i resti carbonizzati della porta, si trovava sul decumano massimo, mentre l’entrata posteriore era accessibile dal cardo IV superiore. L’atrio presenta l’impluvio di marmo e il pavimento in cocciopesto con tessere di calcare e rari inserti di marmo policromo in corrispondenza dello spazio davanti al tablino. Questa ampia sala conserva i resti di una decorazione in Quarto Stile, caratterizzata da


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una composizione grandiosa, con edicole architettoniche, seminascoste da ampi pannelli neri a imitazione di drappi sospesi. Il quartiere del peristilio, scandito da colonne laterizie rivestite di stucco scanalato sormontate da capitelli dorici, era dotato di sale di rappresentanza e soggiorno con splendida vista sul giardino. Le pitture che decorano il peristilio sono di grande raffinatezza ed eleganza, con fondo monocromo nero e gli ornati dipinti con colori brillanti dalle sfumature bianche e rosate. I pannelli centrali, incorniciati da orli di tappeto verdi e decorati da boccioli e corolle di fiori, sono inquadrati da edicole che poggiano su colonne ioniche impreziosite da racemi e candelabri metallici. Sull’ambulacro occidentale del peristilio si apre il grande salone, interamente dipinto a fondo nero con architetture fantastiche, che rappresenta l’ambiente piú prestigioso dell’abitazione. La decorazione su fondo nero, il colore di maggior lusso, ricorre anche nelle sale di

rappresentanza di altre residenze ercolanesi particolarmente ricche, quali la Casa dei Cervi. L’ampio oecus (7,80 x 5,30 m), con il suo soffitto a volta centrale a sesto ribassato e piattabande laterali, raggiunge la ragguardevole altezza di 5,70 m. In questa sala sono stati rinvenuti un 6 elegante larario in legno con capitelli di marmo e un tavolo di marmo decorato sul piede da una testa di satiro. Di grande raffinatezza sono i due cubicoli diurni che si affacciano sul lato meridionale del peristilio, dotati di una grande finestra con davanzale di marmo aperta sul giardino. Lo spazio interno è strutturato in anticamera e alcova dal soffitto basso e articolato. Le pareti sono decorate in Quarto Stile con esili strutture architettoniche fantastiche e candelabri tortili su fondo bianco. Le pitture della Casa del Salone Nero, pur rientrando nella fase iniziale del Quarto Stile per quanto concerne l’impostazione

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In alto pianta della Casa del Salone Nero: 1. vestibolo d’ingresso; 2. atrio; 3. tablino; 4. peristilio; 5. botteghe. 6. oecus, detto Salone Nero; 7. cubicoli diurni.

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scenografica delle pareti, sono ancora legate allo stile precedente per la resa dei dettagli decorativi. Sopra il quartiere del peristilio si sviluppava un primo piano con una serie di ambienti utilizzati, in genere, dal personale servile o come deposito. In una di queste stanze, nel 1939, furono trovati i resti di 39 tavolette cerate sicuramente riferibili al liberto e augustale L. Venidius Ennychus, presente a Ercolano a partire dal 40 d.C. La ricomposizione e la lettura degli scritti raccolti nelle tavolette ha consentito di ricostruire la complessa storia del conseguimento della cittadinanza romana da parte del liberto, di sua moglie Livia Acte e della loro bambina di un anno e mezzo. L. Venidius Ennychus, in cui Amedeo Maiuri aveva riconosciuto il procuratur della dimora, colui che la gestiva per conto del proprietario, potrebbe essere stato l’ultimo proprietario della casa oppure l’inquilino del primo piano.

La Casa del Colonnato Tuscanico L Qui sopra il larario in legno con capitelli di marmo rinvenuto nell’oecus della Casa del Salone Nero. In alto, a destra affreschi in una bottega, in origine integrata nella Casa del Colonnato Tuscanico, costituendo un cubicolo affacciato sull’atrio. In seguito fu aperto sulla strada e trasformato in bottega.

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a sontuosa dimora, il cui impianto originario sembra risalire alla fine del II secolo a.C., fu completamente ristrutturata in epoca augustea. La particolare disposizione planimetrica del complesso con due entrate, di cui la principale sul decumano massimo e la secondaria sul cardo III superiore, evidenzia l’aggregazione di due unità abitative originariamente indipendenti che sono state collegate dal peristilio. Il nome convenzionale


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Qui accanto pianta della Casa del Colonnato Tuscanico: 1. ingresso; 2. peristilio; 3. bottega; 4. atrio; 5. grande salone; 6. tablino; 7. triclinio.

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della dimora deriva dalle colonne tuscaniche con il fusto liscio, dipinto nella parte inferiore in nero o giallo e bianco nella superiore, che scandivano il peristilio sui quattro lati. La bottega con ingresso al numero civico 16 era all’origine integrata nella casa della quale costituiva uno dei due cubicoli affacciati sull’atrio. Questo ambiente, decorato in Terzo Stile, presenta un interessante quadretto con scena di sacrificio in presenza di Ercole che, secondo alcuni studiosi, va interpretato come la fondazione del culto di Ercole all’Ara Massima nel Foro Boario di Roma. Superato l’ingresso, si entra nell’atrio tuscanico in cui l’antico impluvio di tufo venne rivestito di marmo in epoca imperiale e trasformato in fontana, che riceveva l’acqua da un tubo di piombo. Sul lato ovest dell’atrio si apre un grande salone, decorato da eleganti pitture di Terzo Stile, con edicole incorniciate da

sottili colonne ioniche e quadretti centrali con scene mitologiche. Si conservano quello della parete sud, con una Baccante seduta e Pan fanciullo, e quello della parete est, con scena di conversazione tra due donne. Sulla parete di fondo, il registro superiore è decorato da una natura morta con pesci, volatili e frutta. In fondo all’atrio si apre il tablino, che presenta un’elegante decorazione di Quarto Stile ottenuta con l’impiego di tonalità molto delicate quali l’azzurro, il rosa e il rosso carminio. La parete presenta nel registro superiore su fondo bianco architetture dipinte in prospettiva, tra le quali si distingue un padiglione ornato da una statua di Apollo con la cetra. Sul peristilio si apre l’ampio e lussuoso triclinio impreziosito da una composizione pittorica complessa ed elaborata. La zona centrale della parete si articola in una serie di pannelli a fondo giallo alcuni dei quali sono stati bruciati dalle alte temperature dei materiali eruttivi mutando totalmente il colore in rosso. Il registro superiore della parete presenta architetture fantastiche molto elaborate dipinte su fondo bianco con padiglioni che racchiudono, incorniciati da bordi di tappeto, statue di Apollo e Dioniso, identificabili dai loro attributi, la cetra e il tirso.

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edifici pubblici nell’area del Foro | vivere sotto il vesuvio | 66 |

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ormalmente, in una città romana, il decumano massimo attraversava il Foro, area in cui si concentravano i piú importanti edifici pubblici e religiosi. Purtroppo a Ercolano gli scavi finiscono esattamente nel punto in cui il decumano massimo cominciava ad assumere un aspetto monumentale e dove le indagini archeologiche hanno messo in luce piccoli settori di edifici pubblici che proseguivano verso nord e ovest. Quest’area venne esplorata in parte con il sistema dei

In alto il decumano massimo; sullo sfondo, l’arco quadrifronte che regolava l’accesso a questa zona pubblica. A destra i monumenti pubblici di quest’area: 1. Augusteum; 2. Basilica Noniana; 3. collegio degli Augustali.


de ma cum ss an im o o

cunicoli in età borbonica, senza però chiarire la localizzazione esatta e la costituzione definitiva del Foro ercolanese. Il piazzale destinato alla vita pubblica e religiosa della città si sviluppava certamente in questa zona, verso il teatro, ma è ancora molto discusso se gli edifici, dei quali si conoscono soltanto tratti dei muri perimetrali e alcuni disegni del XVIII secolo, ne facessero parte o meno. Il decumano massimo fu monumentalizzato, come attestano anche l’arco quadrifronte, riccamente decorato, che ne regolava l’accesso, e le lastre di marmo che in quel punto rivestivano i bordi della strada. La strada, che non era percorribile con i carri, era riservata unicamente al passaggio pedonale, come dimostra anche la chiusura della via al transito dei veicoli dal cardo III. A Pompei, ugualmente, tutta la zona del Foro era vietata ai carri e l’accesso era consentito ai soli pedoni. Al centro della strada si ergeva un arco quadrifronte, rivestito di lastre di marmo nelle facciate, mentre la volta interna era decorata con rilievi di stucco. Un portico ad arcate collegava l’arco a un secondo, in tutto simile al primo, situato piú a ovest del decumano massimo e crollato completamente durante l’eruzione del Vesuvio.

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La strada proseguiva per alcune decine di metri sotto un portico ad arcate che apparteneva con ogni probabilità alla struttura retrostante. Si trattava, forse, di un calcidico, ampio porticato che veniva annesso ad alcuni edifici, documentato anche a Pompei davanti alla basilica e al complesso di Eumachia. Intorno a questi due archi si trovavano tre edifici pubblici di non facile lettura, ma certamente collegati con il Foro. Secondo le attuali interpretazioni, il primo è l’Augusteum, una grande piazza circondata da portici, destinata al culto imperiale; il secondo è la sede del collegio degli Augustali, sacerdoti addetti al culto dell’imperatore; e il terzo è la Basilica Noniana, una grande basilica costruita dal patrono della città in epoca augustea. I tre edifici erano di fondamentale importanza per la città, ma tuttora si discute se facessero parte integrante del Foro, o se fossero collocati soltanto nelle sue vicinanze. Mancano del tutto i templi importanti che, senza dubbio, erano collocati sul Foro, come il Capitolium. Questo può dedursi sia dalla sua presenza in altre città, per esempio Pompei e Ostia, sia da un’iscrizione di Ercolano in cui si riferisce che Vibidia Sabina e suo figlio avevano contribuito al restauro del monumento con cospicue somme di denaro. Nel Foro non poteva poi mancare un tempio dedicato a Ercole, che era pur sempre il mitico fondatore della città. Altre due iscrizioni raccontano che Vespasiano restaurò nel 76 d.C. il tempio della Magna Mater, situato nel Foro, e che il duoviro Marco Spurio costruí a proprie spese un macellum, il mercato di carne e pesce, normalmente disposto sulla piazza forense o nelle sue immediate vicinanze. Tutti questi edifici pubblici si trovavano sicuramente in prossimità dell’angolo nord-ovest dell’area archeologica, ma sono ancora sepolti sotto metri di lava. Solo nuovi scavi potrebbero riportare in luce il centro pubblico e religioso dell’antica città, cosa non programmabile nel prossimo futuro soprattutto perché la moderna Ercolano ha occupato tutta la zona con case che ca rd o III non sempre fanno onore all’architettura contemporanea.

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Augusteum

(cosiddetta Basilica)

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Statua bronzea di Augusto, recuperata dall’Augusteum il 17 luglio 1741. Età claudia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il divo Augusto è rappresentato nelle sembianze di Giove, a torso nudo, vestito solo dal mantello. Il braccio destro è alzato e regge il lungo scettro, mentre la mano sinistra stringe il fulmine. La testa presenta l’imperatore idealizzato, non piú giovanile. La statua faceva coppia con quella di Claudio, datata nel 48 d.C. grazie a un’iscrizione (vedi alla pagina accanto).

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ei tre edifici nell’angolo nord-occidentale dell’area archeologica l’Augusteum è il piú grande e il piú importante. In età borbonica si scavarono alcuni cunicoli in concomitanza con gli scavi del teatro e, nel 1739, vennero alla luce diverse statue, pitture e lastre di marmo pregiato, oggi conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Quasi tutto l’edificio è ancora sepolto sotto la lava e le case della città moderna: se ne vedono solo due basamenti per statue sulla fronte e resti del porticato con le arcate sopra il decumano massimo. Per avere un’idea del suo aspetto originario, ci si deve basare sui disegni elaborati durante lo scavo dei cunicoli in età borbonica. La pianta piú accurata è opera dell’ingegnere militare francese Pierre Bardet de Villeneuve, che condusse le indagini archeologiche dal 1741 al 1744. L’edificio comprendeva un grande spazio aperto di circa 35 x 70 m, pavimentato con lastre di marmo e circondato su tre lati da un colonnato. Il quarto lato, quello d’ingresso, era aperto, ma veniva delimitato sul decumano massimo dal calcidico, il portico collocato tra i due archi quadrifronte. Dietro il colonnato settentrionale si apriva al centro una grande esedra quadrata fiancheggiata verso gli angoli da due absidi laterali, riccamente decorate. La forma architettonica è quella di una porticus, un portico romano, che iniziò a diffondersi a Roma in età augustea, come i Saepta Iulia, la porticus Liviae, la porticus Octaviae e altre ancora. Dalla capitale la moda si diffuse presto nelle città provinciali. Durante gli scavi del Settecento furono trovate e asportate molte statue collocate originariamente a decoro dell’esedra quadrata, sui basamenti verso il decumano massimo, e nelle nicchie sotto i portici. Si trattava, dunque, di una piazza pubblica


Statua bronzea dell’imperatore Claudio, recuperata dall’Augusteum il 20 dicembre 1741. Età claudia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. L’imperatore è raffigurato in nudità eroica, con il peso sulla gamba destra, mentre la sinistra è leggermente piegata e portata indietro. Con la mano destra alzata regge lo scettro, in una posa del tutto simile a quella di Augusto. La testa è un ritratto di Claudio in età matura. Un’iscrizione trovata insieme alla statua consente una datazione precisa al 48 d.C.

riccamente decorata, chiusa su tutti i lati da portici, utilizzata sicuramente dai cittadini di Ercolano per attività di ogni tipo, come luogo d’incontro, di discussione, di voto. Nel XVIII secolo, gli scavatori borbonici ritrovarono molte statue che sono conservate oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Purtroppo le notizie che parlano del loro rinvenimento non sono sempre accurate e spesso si confondevano con le statue che provenivano dagli scavi contemporanei del teatro. Dall’Augusteum, e piú precisamente dal centro dell’esedra rettangolare, proviene sicuramente una statua dell’imperatore Tito, raffigurato in corazza come generale militare. È interessante notare che Tito divenne imperatore verso la fine di giugno del 79 d.C. e, quindi, la scultura doveva essere stata messa al centro dell’esedra solo poche settimane prima dell’eruzione del Vesuvio. Dallo stesso luogo vengono anche due statue colossali di altri due imperatori, raffigurati come Giove seduto in trono, a torso nudo, vestito solo con il paludamentum, il mantello militare, avvolto intorno alla parte inferiore del corpo. Le teste sono moderne, ma il confronto con altre opere non lascia alcun dubbio sull’attribuzione agli imperatori Augusto e Claudio. Gli stessi imperatori sono inoltre rappresentati in due statue di bronzo che li raffigurano il primo vestito con il solo mantello (vedi foto alla pagina accanto), il secondo in nudità eroica (vedi foto in questa pagina). Con molta probabilità le due sculture ornavano le absidi di fondo a sinistra e a destra dell’esedra centrale. Un’altra statua in bronzo raffigura Agrippina Minore, la moglie di Claudio, e fu trovata anch’essa nel Settecento, sul lato

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Il centauro Chirone insegna al giovane Achille a suonare la lira. Trovato insieme ad altri tre nelle absidi laterali dell’Augusteum, l’affresco allude all’educazione dei giovani ercolanesi. Età claudia o flavia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

di fondo dell’edificio. Se oggi queste sei statue sono le uniche conosciute, riconducibili al monumento, sappiamo da diverse iscrizioni che in origine l’edificio era decorato con molte altre sculture. Probabilmente in ognuna delle otto grandi nicchie lungo le pareti del portico si ergeva una statua colossale, ma solo quella di Livia, la moglie di Augusto, e quella di Antonia Minore, la madre di Claudio, sono tramandate dalle fonti iscritte. Sul lato verso il decumano massimo si vedono ancora i basamenti per statue equestri di ignota attribuzione. Un’iscrizione molto interessante ci informa, invece, che verso il 49-50 d.C. il ricco liberto e membro del collegio degli Augustali L. Mammius Maximus fece porre a

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sue spese almeno otto statue della famiglia imperiale nel grande edificio pubblico. Per questa generosità gli abitanti di Ercolano lo onorarono poi, a loro volta, con una statua in bronzo collocata nel teatro. Può darsi che L. Mammius Maximus non si sia limitato a donare le statue, ma che abbia contributo anche alla costruzione dell’edificio. È probabile, quindi, che l’Augusteum sia stato eretto poco prima del 50 d.C. e fosse destinato principalmente alla glorificazione del culto imperiale. Con l’avvicendamento degli imperatori, vennero aggiunte altre statue, di cui quella con l’imperatore in carica era collocata sempre al centro dell’esedra rettangolare. Poco prima dell’eruzione si procedette a erigere la statua loricata del nuovo imperatore Tito, l’unica trovata durante gli scavi settecenteschi. Alcune iscrizioni ci informano che dovevano essere presenti anche le statue di sua figlia Giulia Titi, di sua madre Flavia Domitilla e di sua cognata Domizia. Del tutto sconosciuta è, invece, la presenza di Vespasiano. Oltre alle statue, gli scavi borbonici restituirono anche diversi importanti affreschi di Quarto Stile, conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Di particolare interesse sono quattro grandi pitture che originariamente decoravano le absidi laterali. Si tratta di soggetti mitologici con Ercole che riconosce Telefo, Teseo che libera i giovani Ateniesi, Marsia o forse Pan che insegna la musica al giovane Olimpo, il centauro Chirone che istruisce Achille a suonare la lira (vedi foto in questa pagina). Un fregio con le fatiche di Ercole e un pannello con Medea facevano parte della decorazione delle pareti dei portici laterali. La datazione di questi affreschi rimane per ora controversa. Per alcuni studiosi appartengono al restauro dell’edificio in età flavia, per altri facevano già parte della prima decorazione di epoca claudia. Una cosa è certa: con tutte queste statue di imperatori, l’edificio era di fondamentale importanza per il culto imperiale. Si tratta, verosimilmente, di una struttura polifunzionale, ubicata in uno degli spazi pubblici piú grandi e piú simbolici di Ercolano.


Basilica Noniana D

i fronte all’Augusteum, lungo il cardo III, si trova la seconda struttura pubblica importante di questa zona. Anche in questo caso, l’edificio è ancora quasi del tutto sepolto sotto la lava e le case della moderna Ercolano. Ne è visibile solo un piccolo settore, relativo a non molto di piú del muro perimetrale orientale. L’attribuzione è certa: un’iscrizione consente di identificarlo con la basilica civile che il ricco senatore e patrono di Ercolano, Marco Nonio Balbo, costruí a sue spese in età augustea. In età borbonica la basilica fu esplorata per cunicoli e la documentazione di scavo permette, oggi, una ricostruzione abbastanza precisa della pianta. Si tratta di una grande sala rettangolare (16 x 29 m circa) con un ampio ingresso sul lato verso il decumano massimo, le pareti scandite da semicolonne sui lati lunghi e una grande esedra rettangolare sul lato sud. Non sono chiari la costruzione del tetto, né l’eventuale divisione in navate della basilica. I disegni settecenteschi non indicano basi per colonnati interni. Sul lato sud, all’altezza dell’esedra, con ingresso dal cardo III, si trovava una stanza comunicante con la basilica, che doveva essere la portineria del guardiano, piuttosto che un accesso secondario. La tecnica edilizia consente di datare l’edificio in età augustea, mentre la decorazione dell’interno in Quarto Stile si riferisce a un restauro piú tardo, probabilmente di età flavia. È verosimile ipotizzare che, poco dopo la morte di M. Nonio Balbo, i decurioni abbiano decretato di erigere in questo luogo diverse statue, tutte collegate alla sua famiglia. Si conoscono le sculture che rappresentano M. Nonio Balbo, suo padre e sua madre, tutt’e tre scavate già in età borbonica e oggi conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Un’iscrizione cita anche la statua di sua moglie Volsennia, ma non sappiamo se fosse veramente collocata in questa basilica.

Statua togata di Marco Nonio Balbo, facente parte del gruppo che il senato di Ercolano decise di erigere poco dopo la morte di Nonio Balbo e che comprendeva anche i suoi genitori e forse altri familiari. Trovata nel Settecento nella Basilica Noniana. Età augustea. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Collegio degli Augustali

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ull’altro lato del cardo III, con l’ingresso principale verso il decumano massimo, si trova il terzo monumento pubblico importante di questa zona. Secondo l’opinione piú accreditata, questo grande edificio a pianta rettangolare era la sede del collegio degli Augustali, un ordine di sacerdoti responsabili del culto in onore dell’imperatore. Il privilegio dell’appartenenza agli Augustali venne conferito in primo luogo ai liberti di spicco, ai

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quali era vietato candidarsi nei pubblici uffici, e che, quindi, erano esclusi da una qualsiasi carriera politica normale. In qualità di Augustali erano personalità di un certo riguardo e, quindi, avevano diritto a un posto riservato nel teatro, nei giochi e nei sacrifici. Un’altra interpretazione identifica questo edificio con l’aula consiliare, la curia. La forma architettonica della struttura, con la sala centrale che imita un atrio, sembra però poco


Nella pagina accanto decorazione pittorica del collegio degli Augustali. Lo zoccolo del sacello rialzato era rivestito con lastre di marmo, le pareti dipinte con affreschi di Quarto Stile. In basso il rilievo della parete destra con Eracle, Acheloo e Deianira. Acheloo è raffigurato come giovane barbato in fuga. Solo il corno strappato fa riferimento alla sconfitta nella lotta con Eracle per la mano di Deianira.

adatta a una curia; e anche la decorazione con statue e affreschi del mitico fondatore Ercole e del divino Augusto, non supporta tale attribuzione, poiché le due figure erano presenti sicuramente sia nella sede degli Augustali, sia nella curia. L’attribuzione dell’edificio al collegio degli Augustali si basava soprattutto su alcuni frammenti marmorei trovati in età borbonica in questa zona, con una lista su cui erano

incisi circa 500 nomi. Per lungo tempo si pensò che fosse un elenco degli Augustales di Ercolano che si riunivano in questo edificio, ma, oggi, gli studiosi concordano sul fatto che Ercolano non poteva contare piú di una ventina di Augustales e, pertanto, la lista si riferisce a qualcos’altro. Un’ipotesi, ancora da dimostrare, è che si tratti di un registro di tutti i cittadini aventi diritto al voto. Un’altra iscrizione, incisa su una lastra di marmo affissa alla parete nord, ricorda che i fratelli Aulus Lucius Proculus e Aulus Lucius Iulianus offrirono un banchetto ai decurioni e agli Augustali nel giorno della consacrazione. Secondo le interpretazioni correnti, l’epigrafe proverebbe che i due fratelli costruirono a proprie spese l’edificio in età augustea. Il testo, però, non specifica espressamente un edificio e, quindi, potrebbe trattarsi anche della consacrazione di una statua o di qualcos’altro. L’ingresso principale era sul decumano massimo, mentre un’entrata secondaria si trovava sul cardo III. Una grande sala rettangolare presenta al centro quattro colonne che sostengono un tetto piano, creando in realtà un ambiente simile all’atrio di una casa privata, ma chiuso e senza impluvium. Documenti epigrafici riferiscono che sulle due basi appoggiate alle colonne anteriori si ergevano le statue del divo Cesare e del divo Augusto. In una seconda fase edilizia, fu aggiunto un sacello, alzando due pareti parallele fra le colonne posteriori e la parete di fondo. In quell’occasione, per separare meglio il sacello dal resto dell’edificio, si rialzò anche il pavimento con due gradini. Il sacello presenta una ricca decorazione con il pavimento e lo zoccolo delle pareti rivestiti di marmo, e il registro superiore delle pareti dipinto con affreschi di Quarto Stile. Un pannello racconta l’accoglienza di Eracle nell’Olimpo alla presenza di Era e Atena, mentre Zeus è rappresentato come arcobaleno. Sull’altra parete è rappresentato il combattimento tra il fiume Acheloo ed Eracle per la mano di Deianira. Nella piccola stanza a destra del sacello, costruita in economia (opus craticium), fu trovato lo scheletro di un uomo, probabilmente il custode dell’edificio.

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Terme Centrali L

e terme centrali, dette anche «del Foro» per la loro vicinanza al Foro della città, vennero costruite negli anni Quaranta o Trenta del I secolo a.C. Il primo impianto fu alimentato da un grande pozzo e, in seguito, venne collegato all’acquedotto augusteo del Serino. La pianta e la configurazione spaziale degli ambienti ricalcano quelle delle terme del Foro della vicina Pompei, divise in due sezioni distinte per sesso: una piú grande con palestra per gli uomini, una piú piccola per le donne. Tutte le sale da bagno si collocano in fila nella parte settentrionale dell’impianto e occupano tutta la larghezza dell’isola tra il cardo III e il cardo IV. Le due sezioni erano indipendenti e non comunicanti fra di loro: non era possibile passare dalla sezione maschile alla sezione femminile. Le fornaci, il praefurnium, si trovavano a nord del calidarium femminile, ma servivano anche il grande calidarium e il tepidarium maschili adiacenti. Queste tre sale erano munite di suspensurae per un riscaldamento a ipocausto, mentre un grande braciere riscaldava il tepidarium femminile. Alla sezione maschile si poteva accedere sia dal cardo III, sia dal cardo IV attraverso due corridoi che immettevano direttamente nella palestra. Adiacente alla prima entrata, ma non comunicante con l’impianto termale, si trovava una latrina pubblica, con lo spurgo alimentato dalle acque reflue del frigidarium. La palestra presenta un porticato su tre lati, il quarto era chiuso dal muro di confine, ritmato da semicolonne. L’ambiente sotto l’entrata orientale faceva ugualmente parte della sezione maschile ed era sicuramente collegato con la palestra. Si trattava probabilmente di una sala destinata alla preparazione ginnica o ai massaggi. Di incerta attribuzione sono gli ambienti a sud della palestra verso il decumano inferiore che non appartenevano alle terme, come anche l’edificio adiacente, verso il cardo III.

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In alto pianta delle Terme Centrali. Settore maschile: 1. ingresso; 2. palestra; 3. latrina; 4. sala per massaggi; 5. apodyterium; 6. frigidarium; 7. tepidarium; 8. calidarium. Settore femminile: 9. ingresso; 10. vestibulum; 11. apodyterium; 12. tepidarium; 13. calidarium; 14. praefurnium.

Dalla palestra si accedeva alle sale termali da una piccola porta situata nell’angolo del corridoio occidentale. La prima sala, l’apodyterium, è quella meglio conservata delle terme maschili. Le pareti erano dipinte di bianco sopra uno zoccolo di rosso scuro e la volta a botte era decorata da strigilature a stucco. Su tre lati corre una panca in muratura addossata alle pareti e sopra di essa sono le mensole per deporre i vestiti. Nell’abside sulla parete di fondo venne sistemato il labrum per le abluzioni fredde, in marmo cipollino. Nel 1932, durante gli scavi, vennero alla luce i resti di quattro scheletri, oggi custoditi in magazzino: probabilmente queste persone cercarono rifugio nell’apodyterium al momento dell’eruzione. Dall’apodyterium si proseguiva per un piccolo vestibolo rettangolare fino a raggiungere il frigidarium, una sala quadrata con quattro absidi negli angoli e una grande vasca

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In alto la palestra delle Terme Centrali con il porticato. In basso l’apodyterium femminile con volta a botte strigilata e pavimento a mosaico con Tritone circondato da animali marini. Intorno ai muri si vedono gli stalli per riporre i vestiti.

d’immersione circolare nel centro. Dopo il terremoto del 62 d.C. il frigidarium fu restaurato e nuovamente decorato da affreschi parietali con candelabri agonistici su fondo rosso e le quattro nicchie dipinte di giallo. La vasca e la volta della cupola, arricchita di pesci e altri animali marini dipinti, erano di colore azzurro. Dal frigidarium si doveva tornare nello spogliatoio e da qui proseguire, sul lato opposto, verso il tepidarium. Come nell’apodyterium, anche in questo ambiente correva lungo le pareti una panca in muratura, sormontata da mensole per appoggiare i vestiti. La sala serviva da spogliatoio aggiuntivo nel periodo di maggiore affollamento.

La volta era strigilata come quelle dell’apodyterium e del calidarium. L’avvallamento del pavimento dovuto all’eruzione lascia intravedere i pilastrini di mattoni che servivano per il riscaldamento a ipocausto. Un riquadro in bianco e nero con Tritone e delfini occupa il centro del pavimento a mosaico. Dal tepidarium si proseguiva fino all’adiacente calidarium. Una grande abside nel lato sud conteneva il labrum per le abluzioni di acqua fredda, che fu rimosso già dagli scavatori borbonici. Sul lato opposto si vede ancora la vasca in muratura per il bagno caldo. Buona parte della volta strigilata è crollata, cosí sono visibili le intercapedini con i tubuli in laterizio nei quali l’aria calda, salendo da sotto il pavimento rialzato, defluiva verso l’alto, riscaldando anche le pareti. Nel calidarium il percorso termale si interrompeva; da qui si doveva tornare indietro verso lo spogliatoio. L’ingresso al settore femminile si trovava sul cardo IV, adiacente a quello maschile. Si entrava direttamente in un vestibulum, una grande sala d’attesa con panche in muratura alle pareti. Solo da qui era possibile accedere allo spogliatoio, situato sul lato settentrionale e munito di nuovo di panche in muratura e scomparti per i vestiti. Un mosaico con tessere in bianco e nero raffigurante Tritone e delfini decorava il centro del pavimento; lo stesso soggetto dell’apodyterium maschile, ma di maggior pregio artistico. L’ambiente adiacente era il tepidarium che poteva, in simmetria con quello maschile, essere usato come spogliatoio secondario. Il pavimento presenta un bel mosaico geometrico in bianco e nero. Il calidarium, piú grande delle sale precedenti, ma molto piú piccolo in confronto a quello maschile, era dotato di una vasca marmorea per il bagno caldo, di un labrum per l’acqua fredda ed era riscaldato a ipocausto. Queste tre sale avevano la volta strigilata in modo del tutto simile a quella della sezione maschile. Ancora piú a nord si trovava un’entrata di servizio per accedere al praefurnium. La presenza di scale attesta che l’impianto termale disponeva di ambienti al piano superiore, probabilmente terrazze e stanze riservate al riposo.

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Casa del Bel Cortile 5 1

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In alto pianta della Casa del Bel Cortile: 1. vestibolo; 2. ambienti di servizio; 3. tablino; 4. «Bel Cortile» al posto dell’atrio; 5. Oecus; 6. Grande salone.

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edificio oggi visibile risale alla metà del I secolo d.C. ma tracce di una fase edilizia precedente sono documentate dalle decorazioni in Secondo Stile all’entrata e in una stanza a est del tablino. La dimora ha una planimetria anomala, dovuta al distacco di questo quartiere abitativo dalla Casa del Bicentenario, di cui in origine faceva parte. Al posto dell’atrio è un cortile interno decorato da un pavimento a mosaico bianco e croci

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In alto il cortile della Casa del Bel Cortile con a destra la scala che conduce al piano superiore. In basso frammento con i cavalli della quadriga appartenente al rilievo neoattico con la rappresentazione dell’Aurora.

uncinate nere provvisto di una scala, con ballatoio in muratura affrescato da elementi ornamentali che conduce al piano superiore. Dal vestibolo rettangolare, per uno stretto corridoio, si raggiungono sulla destra alcuni locali di servizio, tra cui la cucina, mentre di fronte, a un livello piú basso rispetto a quello del cortile, si apre il piccolo tablino. Sul «Bel Cortile» si affacciano un oecus, posto sullo stesso piano del tablino, e il salone, in origine compreso nella contigua Casa del Bicentenario, che fungeva presumibilmente da triclinio. Alla ristrutturazione della dimora, forse dovuta a una nuova destinazione, si accompagnò, nell’ultimo periodo di vita della città, il rinnovamento dell’apparato decorativo. Il grande salone, pavimentato con mosaico bianco arricchito da una fascia nera a treccia, presenta affreschi con architetture fantastiche e motivi ornamentali di Quarto Stile su fondo rosso, in molti casi mutato in giallo per le alte temperature dei materiali eruttivi. Sulla parete di fondo sono collocati due rilievi neoattici in marmo con la rappresentazione dell’Aurora e del Tramonto al cospetto di Apollo, rinvenuti in frammenti lungo il cardo V.


Casa di Nettuno e Anfitrite A

ffacciata sul cardo IV, la Casa di Nettuno e Anfitrite colpisce lo sguardo del visitatore per la preziosa decorazione del triclinio estivo, che già si intravede dalla finestra del tablino, posto in linea con l’ingresso. L’abitazione era dotata di un piano superiore, ancora parzialmente conservato e visibile sulla strada. Superato l’ingresso, fiancheggiato a sinistra da un locale buio che fungeva da cucina con annessa latrina, si entra nel piccolo atrio con impluvio rivestito in marmo, elegantemente decorato con pavimento in cocciopesto arricchito da inserti marmorei policromi. Nel larario, collocato nell’angolo nord-occidentale dell’atrio, furono scoperte due lastre di marmo dipinte con tratto rosso, una delle quali con la

Il quadro a mosaico, situato nel cortile, che dà nome alla Casa di Nettuno e Anfitrite. Secondo il mito, la bella nereide Anfitrite, che non voleva essere costretta ad alcun legame, fu obbligata a sposare Nettuno.

firma dell’artista «Alessandro Ateniese» («Alexandros Athenaios egraphen»). In fondo all’atrio si apre il piccolo tablino, ornato da un raffinato pavimento in opus sectile e da pitture di Quarto Stile, che si affaccia su un cortile interno in cui è stato allestito un triclinio in muratura, arricchito da una preziosa decorazione musiva. Sulle pareti del cortile è dipinto illusionisticamente un rigoglioso giardino con piante e arbusti collocati dietro balaustre in marmo, al centro del quale è un raffinatissimo quadro a mosaico con le figure di Nettuno e Anfitrite, da cui deriva il nome della casa. Le divinità occupano il centro di un pannello pentagonale a fondo giallo oro, sormontato da un ampio ventaglio con i bordi

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Casa Sannitica

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ricamati. Alle spalle del triclinio è un ninfeo monumentale, rivestito da finissimi mosaici in pasta vitrea, la cui facciata è scandita da tre nicchie, una centrale ad arco e due laterali, incorniciate da pannelli decorati con tralci di vite che fuoriescono da kantharoi in argento. La parte superiore del ninfeo è ornata da due pannelli con scene di caccia al di sopra delle quali sono dei festoni di foglie e frutti su cui si posano dei pavoni. Nella parte alta, a coronamento del ninfeo, erano maschere teatrali di marmo, di cui in situ sono i calchi. Annessa alla dimora era un’ampia bottega di cui si conservano in buono stato un tramezzo in legno carbonizzato, un ripiano sul quale erano riposte le anfore, il banco con i dolii incassati e il piano per cucinare.

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In alto pianta della Casa di Nettuno e Anfitrite: 1. ingresso; 2. cucina con annessa latrina; 3. atrio; 4. tablino; 5. cortile con il mosaico di Nettuno e Anfitrite; 6. salone; 7. bottega. In basso la bottega della Casa di Nettuno e Anfitrite con i ripiani in legno carbonizzato e le anfore.

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a Casa Sannitica, con la sua planimetria, il cenacolo e la decorazione parietale e musiva rappresenta la testimonianza piú evidente di un’abitazione ercolanese del periodo preromano. Una formula di saluto e una onomastica («salavs»e «Lúví») ripetute due volte in lingua osca sono graffite sullo zoccolo della parete meridionale. Il pavimento è in cocciopesto decorato con tessere bianche. Il nome convenzionale dato a questa dimora deriva dalla sicura appartenenza della sua fase originaria al periodo sannitico. Edificata intorno alla fine del II secolo a.C., la casa si sviluppava fino all’estremità dell’insula V, sul cardo V, con il quartiere del peristilio, realizzato dietro il tablino. In età repubblicana, o, secondo alcuni studiosi, nella metà del I secolo d.C., questo settore dell’abitazione fu inglobato dalla Casa con Giardino e dalla Casa del Gran Portale. L’accesso alla casa avviene attraverso un sobrio portale ornato da capitelli in tufo di stile corinzio-italico dal quale si passa nelle fauces dove è possibile ammirare un bell’ornato


parietale in Primo Stile, con ortostati e bugne imitanti lastre policrome in marmo (crustae) e cornici aggettanti. La soluzione decorativa adottata nella parte superiore della parete e nel soffitto a cassettoni rientra, invece, nel Secondo Stile. Dalle fauces si entra nell’ampio atrio tuscanico che conserva il pavimento originario in cocciopesto ornato da un motivo puntiforme a tessere bianche. L’apertura del compluvio è decorata da gocciolatoi fittili a forma di protome canina e la vasca dell’impluvio presenta un rivestimento in lastre di marmo risalente all’epoca imperiale, probabilmente allo stesso periodo in cui la parete inferiore fu ridecorata in Quarto Stile. Sull’atrio, nella parte anteriore, si dispongono i cubicoli, uno dei quali fu ridecorato in Quarto Stile e presenta un riquadro con scena del ratto di Europa. In fondo all’atrio si aprono il tablino, con bel pavimento in cocciopesto decorato con un motivo di rombi e agli angoli palmette e delfini, e l’oecus, ornato con pitture in Quarto Stile.

In alto particolare del piano superiore dell’atrio della Casa Sannitica. Per dare l’aspetto di un colonnato il muro pieno fu scandito da semicolonne ioniche e transenne in reticolato di stucco. Nella pagina accanto, a destra l’entrata vista dall’atrio della Casa Sannitica. Nel primo piano si vede il finto loggiato con le semicolonne. A destra pianta della Casa Sannitica: 1. fauces; 2. atrio tuscanico; 3. cubicoli; 4. tablino; 5. oecus.

L’aspetto che colpisce maggiormente il visitatore in questa dimora è senza dubbio la parte superiore della parete, che risulta scandita da un loggiato fittizio con semicolonne ioniche inframezzate da transenne in reticolato di stucco. È probabile che alcune stanze del piano superiore siano state date in locazione, con conseguente chiusura del loggiato fittizio a nord e a ovest, e che l’accesso avvenisse da un’entrata indipendente individuata al numero civico 2. N

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itinerario ercolano

Casa a Graticcio In alto il balcone della Casa a Graticcio. In basso pianta della Casa a Graticcio: 1. ingresso; 2. cortile; 3. bottega.

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onnotata dall’impianto irregolare, questa particolare dimora è, in realtà, una casa d’affitto con il piano superiore destinato a uso plurifamiliare. Il nome convenzionale deriva dalla tecnica edilizia con cui l’edificio è stato costruito, l’opus craticium, un tipo di muratura a basso costo che prevede l’adozione di un’intelaiatura lignea con gli spazi intermedi colmati da pietrame, argilla e malta. Le pareti, caratterizzate da un sistema

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continuo di travi verticali e orizzontali che formano riquadri riempiti di opus incertum, venivano poi rivestite di intonaco e da una doppia incannucciata. Questo espediente si rendeva necessario, a detta di Vitruvio, che comunque sconsigliava l’opus craticium, perché «infiammabile come una torcia» (De Arch., II,8,20), per evitare la formazione di crepe nel muro. In una delle stanze del piano superiore la parete conserva ancora perfettamente il rivestimento della muratura a «graticcio» cosí come lo ha descritto Vitruvio. Il piano terra si regge su poderosi pilastri in laterizio o tufo e laterizio addossati ai lati lunghi del perimetro, mentre per la facciata è stato utilizzato l’opus vittatum (laterizi e piccoli blocchi di tufo), che era piú resistente alla pioggia. Dall’ingresso, al numero civico 14, attraverso uno stretto corridoio si arriva a un piccolo cortile, dotato di un pozzo, di cui si sono conservati l’argano e la corda carbonizzati. Le stanze del piano terra sono pertinenti a una bottega contigua (n.15). Due scale di legno conducono al piano superiore, diviso in due abitazioni indipendenti, con un prolungamento sulla strada costituito da un loggiato poggiante su tre colonne laterizie.


Casa del Tramezzo di Legno Q

uesta grande dimora, nata dall’aggregazione di due unità abitative indipendenti di epoca tardo-repubblicana, si sviluppa nella parte settentrionale dell’insula III con due ingressi, di cui il principale si apre sul cardo IV inferiore (n.11) l’altro sul cardo III inferiore (n. 5). La facciata si distingue per l’eccellente conservazione del prospetto dove sono evidenti le varie trasformazioni edilizie. Quando fu aggiunto un piano superiore e il settore prospiciente la strada fu occupato da piccoli appartamenti indipendenti, la fisionomia originaria del prospetto fu alterata dall’apertura di nuove finestre e dall’aggiunta di un loggiato aggettante, sia per ampliare gli ambienti del secondo piano, sia per riparare l’entrata con i sedili riservati ai clientes. Superato l’ingresso, si entra nell’ampio atrio dotato di compluvio con gocciolatoi a forma di protome canina e vasca dell’impluvio in marmo. Di fronte all’impluvio è un pregevole tavolo in marmo con supporti (trapezofori) decorati all’estremità da zampe leonine, sul quale i proprietari esibivano la loro suppellettile piú pregiata. A destra dell’ingresso si apre un raffinato cubicolo con alcova decorato con pitture di Terzo Stile. Per preservare l’intimità e la riservatezza dell’abitazione, l’atrio e il tablino sono stati divisi da un tramezzo di legno, da cui deriva il nome convenzionale della casa, che al momento rappresenta un unicum nell’arredo dell’architettura privata romana. Questa porta pieghevole eccezionalmente conservata, che si erge solo per un terzo dell’altezza dell’atrio, è dotata di battenti con anelli e supporti in bronzo a forma di prora di nave dove si appendevano le lucerne. Per quanto riguarda le pitture parietali, la casa del Tramezzo di Legno riassume bene la tendenza tipica della pittura ercolanese a fondere armonicamente schemi decorativi del Terzo e del Quarto Stile. Questo gruppo di

ambienti destinati ai rapporti con il pubblico (ingresso, atrio e tablino) presentano composizioni piuttosto tradizionali, ancora legate ai motivi di Terzo Stile. Gli affreschi dell’atrio, interamente restaurati dopo i danni del terremoto del 62 d.C. e ridipinti in Quarto Stile sulla zona mediana della parete settentrionale, presentano la parte centrale dipinta con pannelli su fondo nero separati da edicole su fondo rosso. La zona superiore della parete, poiché l’atrio è molto alto, è occupata da due registri sovrapposti, ciascuno con una propria composizione decorativa. Nel primo, su fondo monocromo rosso, sono rappresentati padiglioni simmetricamente prospettici inframmezzati da tripodi delfici, mentre nel secondo, conservato solo sulla parete orientale, i padiglioni si aprono sul fondo tramite ampie finestre all’interno delle quali sono vasi metallici da cui nascono candelabri vegetali. Un’ampia sala da soggiorno, insieme al tablino, funge da raccordo con il settore del peristilio che si imposta sullo spazio precedentemente occupato da un’altra abitazione, con ingresso

L’atrio della Casa del Tramezzo di Legno. In fondo si vede il tramezzo con battenti pieghevoli che divideva il tablino dall’atrio. Si tratta dell’unico esemplare pervenutoci intero, mentre sono noti gli incavi per l’incastro di tali tramezzi in diverse case di Pompei e di Ercolano.

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itinerario ercolano

Casa dell’Albergo

sul cardo III inferiore, al n. 5. Questa parte della casa fu oggetto di una serie di trasformazioni, soprattutto sul lato occidentale, dove, nell’ultimo periodo di vita, vennero costruite botteghe con alloggi al piano superiore. Sono tuttavia da segnalare i due ariosi e luminosi cubicoli che si aprivano sul lato nord del peristilio e l’appartamentino composto da un cubicolo e due sale di ricevimento sul lato ovest. Il piccolo peristilio è scandito sui lati nord e ovest da pilastri in mattoni collegati da plutei e sul lato meridionale da un muro sormontato da un portichetto, affrescato con pitture di giardino che ne dilatavano illusionisticamente lo spazio. La piú importante sala di soggiorno e ricevimento è il grande triclinio (oecus) che conserva una splendida decorazione parietale a fondo rosso su zoccolo nero. Al centro della parte mediana è raffigurata un’edicola sostenuta da quattro colonne ioniche dalle quali pendono imagines clipeate e, al centro del pannello di fondo dell’edicola, compare un quadro di carattere idillico-sacrale. Il registro superiore della parete est presenta un drappo di stoffa sospeso, decorato da delfini e mostri marini, mentre quello della parete sud esibisce edicole e padiglioni in prospettiva coronati da figure acroteriali, tra i quali si sviluppano tralci di vite su cui si posano fenici.

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In basso pianta della Casa del Tramezzo di Legno: 1. ingresso; 2. atrio; 3. cubicolo; 4. tablino; 5. sala da soggiorno (oecus); 6. peristilio; 7. cubicoli ariosi e luminosi; 8. «Appartamentino».

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Qui accanto pianta della Casa dell’Albergo: 1. zona dell’atrio; 2. zona degli ambienti termali; 3. peristilio; 4. terrazza; 5. piano inferiore; 6. zona residenziale a sud dell’atrio.

e ampie dimensioni di questo complesso residenziale e la presenza delle terme al suo interno ingannarono i primi scavatori ottocenteschi che vi riconobbero un albergo. Il vasto abitato si estendeva sulla parte sud dell’insula III, con una terrazza panoramica che si sviluppava in direzione del mare. Sostenuto da imponenti sostruzioni nelle quali furono ricavate stanze decorate da pavimenti in opus signinum e opus sectile, il complesso era dotato di piani superiori articolati sopra alcuni locali nella zona nord, attualmente accessibile dagli ingressi n. 2 sul cardo III inferiore e n. 18 sul cardo IV inferiore. Il precario stato di conservazione dell’edificio lascia solo intuire la grandiosità del suo impianto, che lo accomuna alle altre ville urbane disposte sul ciglio meridionale della città. Sembra che per la sua realizzazione siano stati assemblati sei o otto quartieri abitativi con orientamento est-ovest, contrapposti rispetto all’asse centrale dell’insula. Intorno agli anni


50/40 a.C. il settore compreso tra i due lotti piú settentrionali e la cinta muraria della città fu probabilmente ricostruito. La casa venne articolata in diversi settori: la zona dell’atrio, a cui si accede dal numero civico 19 del cardo IV inferiore, gli ambienti termali con le stanze di servizio, e il peristilio. In epoca augustea il complesso fu ingrandito verso sud con la realizzazione della terrazza a cavallo delle mura, il piano inferiore ricavato dalla sostruzioni della terrazza e, forse, anche gli ambienti residenziali a sud dell’atrio. Di una certa importanza è, inoltre, il grande peristilio con giardino in cui Maiuri riconobbe un frutteto, per il rinvenimento di un pero e di una vite carbonizzati. Tratto architettonico distintivo è la presenza all’interno della dimora di un piccolo settore termale privato fornito di apodyterium, tepidarium e calidarium, che si configura come un unicum nel panorama abitativo ercolanese. Le pareti degli ambienti termali conservano un raffinato decoro di Secondo Stile databile verso

Il peristilio della Casa dell’Albergo. Il giardino era posto a un livello piú basso rispetto al porticato. Il rinvenimento di un pero e di una vite carbonizzati fa pensare che si trattasse di un frutteto.

la fine del I secolo a.C., una rara testimonianza di questa fase pittorica a Ercolano. Il repertorio ornamentale subisce l’influenza di botteghe pittoriche urbane, in particolare quella della Villa Farnesina a Roma, che sembra avere ispirato le composizioni dei pittori campani. La prima stanza dei bagni, lo spogliatoio (apodyterium), esibisce, nella parte mediana, un ornato a finte lastre di marmo (ortostati) rettangolari, verdi, disposte verticalmente, sopra le quali si imposta una fascia bordata da una cornice a ovoli. Al di sopra sono dipinti filari di bugne alternate celesti e verdi chiuse da listelli rossi. Il secondo ambiente (tepidarium) presenta uno schema decorativo piú articolato, costituito da ortostati viola scanditi da fasce bianche con ornato a boccioli di loto, celesti e viola. Il calidarium, infine, conserva la decorazione solo parzialmente e sul registro superiore della parete presenta un insolito schema ornamentale, costituito da pannelli a fondo nero, bordeaux e azzurro, inquadrati da cornici con elementi a stella a otto raggi.


oplontis-stabiae

le dimore dell’ozio

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Abitazioni di lusso, affacciate sui paesaggi piú belli della costa campana, le grandi ville accoglievano l’Élite piÚ colta e raffinata del tempo

Oplontis. Veduta della villa che, secondo un’ipotesi suggestiva ma priva di riscontri, sarebbe appartenuta a Poppea Sabina, moglie di Nerone. La magnifica residenza faceva piú probabilmente parte del patrimonio immobiliare detenuto dalla famiglia imperiale sul litorale campano.

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oplontis

Oplontis, Villa di Poppea (Villa A). Particolare dell’affresco di Secondo Stile che orna la parete orientale dell’ampio salone di soggiorno, utilizzato anche come sala da pranzo. La composizione è arricchita dall’inserimento di alcuni elementi ornamentali, quali pavoni e maschere teatrali.

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l sito dell’antica Oplontis corrisponde alla moderna Torre Annunziata, cittadina ubicata alle pendici del Vesuvio, in provincia di Napoli. L’identificazione è stata possibile poiché «Oplontis» è menzionata dalla Tavola Peutingeriana, un’antica mappa stradale dell’impero romano, che la colloca tra Pompei ed Ercolano, nel punto occupato dall’odierna località campana. Le strutture antiche intercettate sul territorio a partire dall’età borbonica, hanno rivelato l’esistenza di un insediamento urbano periferico di medie dimensioni, distrutto dall’eruzione del 79 d.C., che dipendeva

amministrativamente da Pompei. Topograficamente simile a Stabiae, l’abitato era caratterizzato dalla presenza di ville ed edifici pubblici, collegati da una rete viaria. Il rinvenimento di un impianto termale a Punta Oncino, attribuito a Marcus Crassus Frugi sulla base di un’iscrizione trovata a Pompei, e di una villa, nelle sue adiacenze, riferita a Caius Siculius dalla scoperta di un sigillo in bronzo con il suo nome, dimostrano che l’agro oplontino doveva estendersi piú a nord, in direzione della costa, dove il moderno sviluppo urbano rende impossibile comprendere e


| Usi e costumi dei ricchi Romani | «Per i cittadini piú eminenti, i vestiboli dovevano essere costruiti in modo da risultare imponenti e regali. Gli atri e i peristili dovevano essere molto ampi e spaziosi, poiché nelle case di questi patrizi spesso avevano luogo sia discussioni private, che processi e sentenze pubbliche. Nelle loro case e sontuose ville i senatori che ambivano a un incarico piú alto dovevano continuamente rendersi disponibili al pubblico. Nella città di Roma questi uomini svolgevano il loro negotium nell’atrio delle loro case nello stesso modo in cui le eseguivano al Foro o al Senato. Alle prime luci dell’alba, i loro atrii erano già affollati di amici, politici e dipendenti. Quando un uomo importante usciva dal tribunale o da una sessione al Senato, una moltitudine di clienti lo seguiva ovunque. Verso sera, soltanto a un’accurata selezione di questi veniva concesso il lusso di trattenersi con lui a cena nella sua magione. Nei torridi mesi estivi, quando questi uomini di potere si ritiravano nelle loro ville di campagna, portavano molti di questi usi e costumi con loro» (Vitruvio, De Arch. 6,5,5)

ricostruire l’originario assetto territoriale. Le principali testimonianze archeologiche di Torre Annunziata si concentrano nell’area tra via dei Sepolcri, che oggi costituisce l’entrata alla cosiddetta Villa di Poppea, e via Gioacchino Murat, dove, nel 1974, durante i lavori alla Scuola Media «Parini», fu scoperta fortuitamente la villa di L. Crassius Tertius, detta anche Villa B. È piuttosto singolare la compresenza in un’area cosí ristretta, a una distanza di non piú di 300 m, di due edifici dalle funzioni radicalmente diverse, ma entrambi di grande importanza storico-archeologica: la

villa d’otium detta «di Poppea» (visitabile), è una lussuosa residenza imperiale arredata con grande sfarzo, mentre la Villa B (non visitabile) è un esempio di azienda agricola di medio livello dedita alla commercializzazione dei prodotti.


Dove e quando

itinerario di visita

scavi di oplontis via dei Sepolcri, Torre Annunziata (NA) Orario 1° apr-31 ott: tutti i giorni, 8,30-19,30 (ultimo ingresso ore 18,00); 1° nov-31 mar: tutti i giorni, 8,30-17,00 (ultimo ingresso ore 15,30) Info tel. 081 8575347; e-mail: pompei.info@beniculturali.it; www.pompeiisites.org

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Villa di Poppea (Villa A)

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e prime indagini nel sito della villa furono effettuate in località Mascatelle in epoca borbonica, quando venne scavato un cunicolo dal canale Conte di Sarno, ancora visibile al margine dell’area archeologica, in prossimità della piscina. Ulteriori esplorazioni vennero condotte nel 1839, mentre le campagne di scavo moderne ebbero inizio nel 1964 e si protrassero fino al 1984. Le ultime indagini hanno riportato alla luce la maggior parte della villa, privilegiando l’aspetto conservativo del monumento che oggi, grazie a interventi di restauro sugli affreschi e al ripristino degli elementi strutturali crollati, è possibile ammirare in tutto il suo splendore. Di particolare rilievo sono, inoltre, i risultati delle indagini paleobotaniche che hanno consentito di identificare le specie vegetali presenti in antico nei giardini della villa e di ripiantarle, cosí da ricreare il paesaggio naturale dell’epoca. Questa lussuosa villa d’otium, costruita in prossimità del litorale, decorata con preziosi affreschi di Secondo Stile e arredata con

In alto particolare dell’affresco di Secondo Stile della parete laterale del triclinio principale della villa, con rappresentate architetture ellenistiche barocche e colonne in marmo colorato ornate da elementi vegetali in metallo e pietre preziose.


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A destra pianta della Villa di Poppea, con l’indicazione di alcuni degli ambienti piú importanti: 1. atrio; 2. cubicolo; 3. triclinio; 4. oecus; 5. calidarium; 6. peristilio; 7. portico; 8. viridarium; 9. triclinio; 10. portico; 11. galleria; 12. natatio; 13. giardino interno.

pregevoli sculture in marmo, si configura come una tipica dimora patrizia che, secondo una suggestiva ipotesi, sarebbe appartenuta a Poppea Sabina. Alla consorte di Nerone si riferisce lo schiavo Secundus, il cui nome compare su un’anfora vinaria e sul fondo di un piatto da mensa in terra sigillata italica, mentre un’iscrizione parietale relativa a un tale Beryllos, indicherebbe un personaggio della corte neroniana, pedagogo dell’imperatore. È, invece, stata esclusa l’attribuzione a Poppea della testa ritratto di dama femminile, rinvenuta nel giardino Nord, la cui fisionomia sembra riconducibile ad Antonia Minore, figlia di Marco Antonio e moglie di Druso. L’opinione, generalmente condivisa, è che la villa, risalente nella sua prima fase alla metà del I secolo d.C., e successivamente ampliata, facesse parte dell’ingente patrimonio immobiliare che la famiglia imperiale possedeva sul litorale campano. Le tracce di lavori di ripristino nel settore della piscina ancora in corso al momento dell’eruzione sembrerebbero documentare, negli ultimi anni di vita dell’edificio, un cambiamento di proprietario. La villa si articola in due settori: il nucleo originario, risalente alla metà del II secolo a.C., gravita intorno all’atrio, ed è caratterizzato dalla disposizione simmetrica degli ambienti, decorati da affreschi di Secondo Stile; il quartiere aggiunto a est in età claudio-neroniana, ruota intorno alla grande piscina e presenta soluzioni

architettoniche piú mosse e articolate, con le pareti dipinte prevalentemente in Quarto Stile. Attraverso una gradinata si scende nel giardino e si inizia la visita proprio dove anticamente era il principale ambiente d’ingresso.

Il quartiere dell’atrio L’accesso antico della villa era sul lato sud dell’atrio, in un’area sconvolta dalla costruzione del canale Conte di Sarno, nel XVI secolo. Ulteriori danni sono stati causati dall’impianto di un moderno pastificio, oggi smantellato, che ha determinato la definitiva distruzione dell’antico ingresso della villa. Il monumentale atrio tuscanico, con le stanze disposte ai due lati del suo asse centrale, rappresenta il nucleo piú antico della dimora. La grandiosa sala, dotata di apertura del tetto (compluvium) e corrispondente bacino al centro del pavimento per la raccolta dell’acqua piovana (impluvium), conserva l’elegante decorazione musiva bianca con il motivo del meandro policromo. Di grande impegno decorativo sono gli splendidi affreschi in Secondo Stile pompeiano che si distribuiscono sulle pareti, riconducibili probabilmente allo stesso atelier che aveva lavorato in quel periodo (verso la metà del I secolo d.C.) a Boscoreale. La scenografica composizione, con la sua articolata sintassi decorativa, realizza in pieno l’intento del pittore di «sfondare» le pareti, dilatandone i limiti fisici

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itinerario oplontis

mediante il ricorso a prospettive architettoniche illusionistiche. A nord dell’atrio, dopo un passaggio intermedio, si apre un piccolo giardino interno scoperto decorato con pitture a soggetto naturale, sul cui tetto sono stati ricollocati gli originari gocciolatoi a protome di sileno rinvenuti negli scavi. Segue un ampio ambiente colonnato, verosimilmente una sala da pranzo, aggiunto in epoca augustea, che si apre sontuosamente sul giardino settentrionale.

Gli ambienti di servizio e le terme Il settore nord-orientale dell’atrio è occupato dalle stanze di servizio e dagli ambienti termali, che hanno subito delle trasformazioni, sia per la destinazione d’uso, sia per l’apparato decorativo che è stato completamente rinnovato in epoca successiva. Un grazioso atrio tetrastilo con fontana circolare funge da disimpegno per questi vani. La cucina è fornita di un grande bancone in muratura con ripiano

A destra una veduta d’insieme della decorazione pittorica del triclinio principale della villa. In basso affresco in Terzo Stile di età augustea del calidarium, la sala per i bagni caldi, raffigurante il mito di Eracle nel giardino delle Esperidi, undicesima fatica dell’eroe. L’impianto termale della villa, che si apriva a nord della cucina, comprendeva anche un tepidarium riscaldato con aria tiepida.

in mattoni e piccole aperture semicircolari nella parte sottostante riservate alla legna. I resti di un soppalco, sul lato opposto, sono presumibilmente riferibili a un alloggio utilizzato dalla servitú. Era usanza comune per le persone di ceto abbiente avere nelle proprie ville un impianto termale privato, che nella residenza di Oplontis si apriva a nord della cucina. Il calidarium, la sala per i bagni caldi, presenta le tipiche tegulae mammatae, lastroni di terracotta disposti lungo le pareti, che insieme alle suspensurae, pilastrini in mattone ubicati sotto il pavimento, consentivano il passaggio dell’aria calda in tutta la stanza. Gli affreschi che decorano le pareti, successivi alle strutture e riferibili alla trasformazione della stanza in un ambiente di soggiorno, sono di Terzo Stile e risalgono all’età augustea. Le raffinate pitture esibiscono esili colonne che sostengono architravi e altri elementi architettonici di carattere puramente ornamentale, al centro dei quali sono quadretti paesaggistici, figure umane, o quadri di ispirazione ellenica. Tra questi si distingue il dipinto inserito nella nicchia al centro della parete orientale che

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al piccolo atrio del settore termale è un ampio salone di soggiorno, utilizzato anche come sala da pranzo, che si apriva su di un porticato oltre il quale lo spettatore godeva di una suggestiva vista panoramica sul mare, grazie a una portafinestra di cui è stato ricavato il calco. Di grande effetto scenografico è lo straordinario affresco di Secondo Stile dipinto sulla parete orientale, che rappresenta, con realismo illusionistico, un tripode delfico su altissimo podio, allusivo a un santuario di Apollo, visibile attraverso un cancello aperto su un giardino alberato. La composizione, resa ancora piú suggestiva dalla serie di altissime colonne prospettiche poste lateralmente, è arricchita dall’inserimento di alcuni elementi ornamentali, quali pavoni e maschere teatrali, inseriti nel contesto decorativo generale.

I letti dei commensali raffigura il mito di Eracle nel giardino delle Esperidi. Adiacente al calidarium era il tepidarium, la stanza riscaldata con aria tiepida, di cui si conservano ancora le suspensurae sotto il pavimento, visibili attraverso una grata metallica. Le pareti presentano affreschi di Quarto Stile, che predilige composizioni di carattere fantastico, utilizzando esili architetture reali schematizzate e quadretti con uccelli che beccano frutti, per fini meramente decorativi. Il settore a nord del quartiere termale presenta ambienti con funzioni di soggiorno, sale da pranzo e da riposo che si distinguono per la raffinatezza dell’apparato decorativo. Adiacente

In basso particolare delle pitture di Secondo Stile del triclinio, raffigurante un cestino di fichi, reso con estrema accuratezza dall’artista che eseguí l’affresco.

A est del grande salone di soggiorno si apre la sala da pranzo principale della villa (triclinium). I letti tricliniari su cui i commensali consumavano distesi i loro pasti erano disposti lungo le pareti, mentre al centro della sala, in corrispondenza di un mosaico con rombi policromi entro un riquadro rettangolare, era la mensa con le vivande. Sulle pareti si distribuisce una raffinatissima decorazione di Secondo Stile, che riproduce architetture ellenistiche barocche con tempietti circolari, simulacri di divinità femminili e colonne in marmo colorato od ornate da elementi vegetali metallici e pietre preziose. L’elemento naturalistico rappresentato dal cestino di fichi, adatto alla funzione conviviale della sala e reso con grande accuratezza dal pittore, contribuisce a rendere piú realistica la complessa scenografia decorativa. A sud-ovest dell’atrio si apre una piccola camera da letto (cubiculum). I letti erano adagiati su due apposite nicchie con copertura a volta, decorate con affreschi in Secondo Stile caratterizzati da elementi architettonici illusionistici di proporzioni ridotte, adeguate all’ambiente, piú intimo e raccolto. Le volte delle nicchie presentano cornici in stucco e un

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itinerario oplontis

ornato a cassettoni, mentre le lunette erano decorate da paesaggi.

Gli ambienti a est dell’atrio Il portico a est dell’atrio, simmetrico rispetto a quello sul lato opposto, presenta la caratteristica architettonica di avere le colonne unite da tratti in muratura in opus craticium con cornici in legno che, probabilmente, servivano all’alloggiamento di un cancello. Tale accorgimento tecnico offriva un riparo dal caldo nei mesi estivi e dal freddo in quelli invernali. Le colonne del portico sono rivestite da intonaco e presentano un ornato a squame bianche e rosse. Affrescato sobriamente con pitture di Quarto Stile di gusto puramente decorativo, il portico raccorda vari ambienti, tra i quali si distingue il grande salone, presumibilmente usato come sala da pranzo, dipinto con splendidi affreschi di Secondo Stile. Gli illusionistici elementi strutturali dell’ornato sono quelli canonici: alto podio sul quale si ergono colonne che sorreggono architravi abbellite da ricche decorazioni e severi colonnati prospettici scanditi da riempitivi ornamentali. Proprio questi particolari decorativi, inseriti qua e là dall’artista per stemperare il rigore della composizione, conferiscono alla pittura un interesse particolare. Il talento del decoratore emerge dal realismo che trapela dalla cura dei dettagli, come nella coppa di vetro con i melograni, dove è resa con raffinatezza la trasparenza del vetro, il cestino di frutta

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In alto una coppa in vetro colma di melograni (a sinistra) e la cosiddetta «torta sul vassoio»: particolari della decorazione ad affresco del grande salone a est dell’atrio, probabilmente adibito a sala da pranzo.

protetto da un velo sottilissimo, e, infine, la cosiddetta «torta sul vassoio» poggiata su un alto supporto. Degna di rilievo è anche l’elegante maschera sull’architrave, che riconduce alle scenografie teatrali di tradizione greca ellenistica da cui traevano lo spunto le decorazioni di Secondo Stile. Le altre stanze che si affacciano sul portico


erano piccole camere da letto sobriamente affrescate con decorazioni di Quarto Stile, in una delle quali è stato possibile recuperare il soffitto che presenta spazi geometrici delimitati da cornici e motivi vegetali su fondo rosso. L’ultimo ambiente è un cubiculum affrescato con pitture di Terzo Stile, a fondo giallo nella zona inferiore e nei pannelli della zona mediana separati da candelabri e pilastri, mentre sul registro superiore della pareti sono dipinti con grande cura dei dettagli gli elementi architettonici prospettici su fondo bianco.

Il peristilio meridionale Il portico a est dell’atrio mette in comunicazione il settore piú antico della villa, articolato intorno all’atrio, e un ampio giardino creato sul lato sud del complesso, a sua volta collegato all’area della piscina. Questo giardino era racchiuso in un portico a tre bracci (porticus triplex) scandito da colonne in mattoni rivestite di stucco bianco, liscio nella parte inferiore e scanalato in quella superiore.

In basso veduta d’insieme degli affreschi di Secondo Stile del salone a est dell’atrio: raffigurano architetture illusionistiche formate da podi, colonne e architravi abbellite da decorazioni e colonnati prospettici. Nella parete centrale è raffigurata un’elegante maschera che riconduce alle scenografie teatrali greco-ellenistiche.

In corrispondenza di ogni colonna è stato ripiantato un limone nella stessa posizione in cui era anticamente. Le pareti interne sono affrescate con pitture di Quarto Stile, con zona mediana a fondo rosso ed elementi architettonici prospettici nel registro superiore. Rispetto al grande giardino Nord, riservato a funzioni piú rappresentative, il peristilio meridionale appare piú accogliente e raccolto, adatto al relax e alla meditazione.

La zona della piscina Il settore della piscina, risalente all’ultima fase costruttiva della villa, fu aggiunto in epoca claudio-neroniana ed è contraddistinto da una raffinata decorazione in Quarto Stile. La natatio, di dimensioni piuttosto eccezionali (61 x 17 m), presenta un’inclinazione verso sud realizzata per consentire il deflusso dell’acqua. La piscina era inserita in un suggestivo contesto paesaggistico, circondata da piante e alberi di alto fusto che facevano da cornice naturale alle pregevoli sculture in marmo poste a decoro dell’ambiente. A sud della piscina si aprono lussuosi ambienti di rappresentanza, incentrati sulla sala a pianta poligonale, alla cui particolare conformazione si adattarono le altre stanze. Il salone presentava un pavimento in piastrelle di marmo (opus sectile), che fu smantellato nei lavori ancora in corso all’epoca dell’eruzione, e le pareti decorate con zoccolo di marmo e parte superiore a pannelli di legno. Questi ambienti erano smistati da un corridoio decorato con eleganti pitture su fondo rosso, tra le quali si distinguono i graziosi pannelli della zona mediana con figurine di uccelli che beccano frutti. A sud di queste stanze doveva trovarsi il settore produttivo della villa come sembrerebbe documentare il torchio per il vino (torcularium) messo in luce dagli scavi. Lungo il porticato della piscina si aprono ambienti utilizzati probabilmente come sale da pranzo, abbelliti da piccoli giardini interni scoperti, con aiuola centrale destinata all’interro di piante o alberi. Si distinguono due saloni perfettamente simmetrici, uno dei quali presenta un soffitto particolare, ricostruito grazie a un accuratissimo restauro, in cui sono

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Gruppo scultoreo che raffigura Ermafrodito aggredito da un Satiro, in origine collocato sul lato meridionale della grande piscina costruita in epoca claudio-neroniana, in uno spiazzo aperto, forse usato come solarium. Copia romana da un originale greco, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

ripresi i motivi geometrici decorativi di Quarto Stile – resi plasticamente tramite cornici di stucco ed elementi circolari o romboidali – che creano un suggestivo gioco di luci e ombre. Di grande eleganza sono i viridaria interni, in cui le vere specie vegetali si fondevano armonicamente con i raffinati affreschi parietali decorati da lussureggianti giardini ricchi di piante, fontane e uccelli su fondo giallo. Alcuni ambienti collocati all’estremità nord del porticato, in posizione piú appartata e decorati molto sobriamente, sono stati interpretati come hospitalia, stanze per gli ospiti che periodicamente soggiornavano nella residenza.

Il peristilio «servile» Un lunghissimo corridoio dotato di panche lungo le pareti e con il soffitto decorato da raffinati pannelli in Quarto Stile conduce a un nucleo di ambienti, destinati a vari usi, che ruotano attorno a un grazioso peristilio. Esplorato parzialmente già in epoca

| Gli arredi e le sculture presso la piscina | Sul lato orientale della piscina, insieme a oleandri, limoni e platani, facevano da suggestiva cornice al bordo della vasca gruppi scultorei di gran pregio. Le statue sono tutte raffinate repliche romane di originali ellenici: l’efebo stante con mantello, il cui originale doveva essere di scuola policletea (fine del V-inizi del IV secolo a.C.), la Nike con il ramo di palma nella mano, di ispirazione ellenistica e due erme gemelle con testa di Eracle ornata da corona di foglie tra i capelli, il cui patetismo riconduce a prototipi del IV secolo a.C. Il lato meridionale, dove vi è un ampio spiazzo lasciato libero da vegetazione e, quindi, probabilmente utilizzato come solarium, era decorato da due sculture: un cratere neoattico in marmo greco pentelico, decorato a rilievo con danza guerresca, usato come bocca di fontana, e un gruppo scultoreo con Ermafrodito e Satiro, da un originale ellenistico. A una fontana dovevano essere pertinenti i quattro centauri, due maschili e due femminili, rinvenuti sotto il porticato nord, dove erano stati momentaneamente riposti, in occasione dei lavori di ripristino nella villa. I centauri, raffigurati con gli attributi relativi ad attività venatorie o musicali, derivano da originali del II secolo a.C. riconducibili all’ambiente pergameno.

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borbonica, il peristilio è scandito da colonne collegate da un basso muretto decorato all’esterno da pitture con piante su fondo rosso. All’interno era il viridarium con una fontana in muratura ornata da affreschi con pesci su fondo marino. Le colonne e le pareti presentano una decorazione a striature nere e grigie secondo un sistema economico adottato nei quartieri servili. Per questo motivo e per la presenza sul lato est di alcuni alloggi su due piani destinati alla servitú il peristilio è stato definito «servile». Oltre ai locali destinati agli schiavi, su questo settore si affaccia anche un ambiente signorile, il larario, nel quale si custodivano le immagini dei Lari, divinità protettrici della casa e della famiglia. Il grande altare in muratura, rivestito in intonaco dipinto, è stato collocato all’interno di una nicchia che conserva i resti carbonizzati della trave lignea sovrastante. Le pareti sono dipinte con affreschi in Quarto Stile, a fondo bianco, con sottili strutture architettoniche


decorative o elementi naturalistici. Adiacenti al peristilio erano alcuni servizi tra cui, di particolare interesse, l’ampia latrina, dotata di un efficiente sistema di pulitura, effettuata mediante un canale rivestito in cocciopesto e una grande vasca quadrangolare posta all’ingresso destinata alla raccolta dell’acqua di scarico.

Il giardino Nord Di spettacolare effetto scenografico e di vastissime dimensioni è il giardino che delimitava la villa a settentrione. Sulla base di ricerche paleobotaniche, sono state identificate e ripristinate le antiche specie vegetali, eseguendo anche i calchi delle radici di platani visibili sul lato est. Il giardino era strutturato architettonicamente in un viale centrale e vialetti laterali obliqui delimitati da siepi, convergenti, verso nord, in un’area presumibilmente occupata da un gruppo scultoreo o da una fontana, che doveva essere già visibile dall’atrio. L’arredo era completato da sculture. Sul lato meridionale del giardino si apre, con due altissime colonne in mattoni rivestite di intonaco bianco, il grandioso e scenografico salone, probabilmente una sala da pranzo, aggiunto al complesso in un secondo momento, insieme ai porticati. Il pavimento è a mosaico bianco e nero e sulle soglie, tra le colonne, è ornato con motivi vegetali stilizzati. Le pareti non sono affrescate, probabilmente perché si pensava di farlo dopo i lavori di ristrutturazione, come documenta la presenza di alcune colonne, appartenenti al porticato della piscina, smontate dalla loro sede originaria e appoggiate lungo le pareti di questo ambiente. Ai lati del salone erano piccole stanze da letto ridecorate con affreschi in Quarto Stile. Il giardino, lussureggiante e rigoglioso, con i suoi eleganti colonnati che lo incorniciavano sul lato sud, gli alberi e le piante fuse armonicamente con le sculture in marmo, era un luogo suggestivo, destinato soprattutto al passeggio, alla meditazione e al riposo.

In alto particolare dei raffinati affreschi in Quarto Stile di uno dei viridari interni che si alternavano agli ambienti sul lato ovest della piscina, con pitture di giardino su fondo giallo, ricche di statue, fontane e uccelli che si fondevano armoniosamente con gli elementi vegetali autentici (a sinistra).

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Villa di L. Crassius Tertius (Villa B)

L

a cosiddetta Villa B, posta a breve distanza dalla precedente, era inserita in un piccolo centro urbano dotato di una rete stradale collegata, in qualche modo, alle principali rotte commerciali marittime e terrestri. Lo scavo dell’edificio è iniziato nel 1974, quando i lavori inerenti alla costruzione di una palestra nella vicina Scuola Media «Parini» diedero luogo alla fortuita scoperta. La villa risulta inglobata in una grande insula delimitata a nord da una via sulla quale si aprivano botteghe con piccoli vani abitativi al piano superiore e un balcone affacciato sulla strada. Il nucleo centrale dell’edificio, che nel suo aspetto originario risale al II secolo a.C., è costituito da un vasto cortile pavimentato in terra battuta circondato da un imponente peristilio a doppio ordine di colonne doriche di tufo grigio. Attorno al peristilio ruotavano ambienti rustici destinati alle attività produttive che si svolgevano nell’azienda.

Vino, olio e garum Nel porticato è stato rinvenuto un deposito di anfore – capovolte e sovrapposte – destinate al trasporto del vino, dell’olio e del garum, la salsa di pesce di cui i Romani erano ghiotti. Non essendo state trovate le attrezzature per la produzione dell’olio e del vino, sembra probabile che l’azienda fosse adibita esclusivamente alla loro commercializzazione. Il vino e l’olio, una volta imbottigliati, erano trasportati su carri, di cui sono ancora visibili i solchi, verso le rotte commerciali. Nello stesso porticato sono state rinvenute anche due ollette in bronzo contenenti una sostanza, riconosciuta come oleoresina di conifere, che veniva utilizzata sia per Il peristilio della villa di Lucius Crassius Tertius (Villa B) a Oplontis, a doppio ordine di colonne doriche in tufo grigio. L’abitazione, che nel suo aspetto originario risale al II sec. a.C., era articolata su due piani, di cui quello superiore riservato alla residenza padronale e quello inferiore destinato alle attività produttive.

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conservare meglio il vino, sia per garantire l’impermeabilizzazione delle anfore. In uno degli ambienti che si aprivano sul portico è stato trovato un cumulo piuttosto grande di melograni, segno che anche altri prodotti agricoli, come i frutti, erano sottoposti a lavorazione e destinati al commercio. Strettamente connessi con l’attività commerciale erano, inoltre, i pesi da bilancia in marmo, rinvenuti in un altro ambiente, usati per lo smistamento dei prodotti. Il piano superiore della villa è interamente riservato alla residenza padronale. Non si tratta di ambienti lussuosi, ma piuttosto semplici, decorati generalmente con pochi affreschi appartenenti a un Quarto Stile ordinario. Si distingue solo una parete dipinta con una decorazione in Secondo Stile «schematizzato», risalente all’età repubblicana e quindi alla fase edilizia originaria dell’edificio, che riproduce pannelli marmorei e motivi verticali a forma di sottili candelabri. La proprietà della villa è stata riferita a Lucius Crassius Tertius, la cui famiglia, la gens Crassia, di origine servile, ma affermatasi politicamente a Pompei poco prima dell’eruzione, doveva avere interessi economici nel suburbio nord-pompeiano, come dimostra il sigillo bronzeo, che ne reca iscritto il nome, all’interno della villa. Il proprietario aveva evidentemente investito i suoi capitali nelle attività commerciali che si svolgevano nell’edificio.

A sinistra collana d’oro composta da due lunghe catene in lamina, facente parte dei gioielli ritrovati nella villa di Crassius Tertius. I sec. d.C. Pompei, deposito della Soprintendenza Archeologica. In basso la cassaforte in legno, bronzo e ferro, rinvenuta nel peristilio della villa. I sec. a.C. Pompei, deposito della Soprintendenza Archeologica.

| Le vittime dell’eruzione e gli oggetti personali | In uno degli ambienti ubicati nel settore meridionale della villa, aveva cercato scampo, al momento dell’eruzione, un gruppo di persone di varia età, alcune delle quali avevano portato con loro preziosi gioielli d’oro e monete. Di uno degli scheletri è stato eseguito il calco, impiegando una tecnica innovativa che prevede l’utilizzo di vetroresina trasparente, grazie alla quale, a differenza dei tradizionali calchi in gesso, è possibile vedere all’interno la struttura ossea e gli eventuali gioielli indossati dalla vittima. I monili rientrano nelle tipologie comuni dell’epoca: collane con smeraldi, bracciali a volte terminanti a testa di serpente, anelli con gemme, orecchini a sfera con pendenti o con struttura a canestro, con inserti di quarzo.

| La cassaforte | Uno dei reperti piú pregevoli trovati nella villa è la grande cassaforte blindata, con struttura in legno rinforzata con lamine e fasce di ferro, dotata di un sofisticato e complesso sistema di chiusura. Si tratta di un prezioso manufatto dell’artigianato greco di epoca ellenistica, decorato con raffinati rilievi figurati bronzei a tutto tondo e con una testa di sileno circondata da girali e tralci di vite in agemina di rame e argento. Un’iscrizione in lingua greca reca i nomi degli artigiani che, presumibilmente, avevano realizzato la decorazione della cassa: Pythonimos, Pytheas e Nikokrates, attivi nell’atelier di un tale Eraclide.

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stabiae

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stabiae L’

antica Stabiae era una piccola città inserita in un contesto territoriale occupato da ville rustiche e ville d’otium e aveva il suo approdo principale nella zona di Fontana Grande. L’agro stabiano, compreso negli attuali Comuni di Castellammare di Stabia, Gragnano, Lettere, S. Antonio Abate, S. Maria la Carità e Pompei, si estendeva dalla fascia litoranea, dove sono state individuate almeno otto ville residenziali, alla zona collinare, che ha restituito una sessantina di fattorie agricole nelle quali si produceva soprattutto vino, ma anche formaggio e olio. Questi insediamenti rustici presentano il medesimo impianto architettonico, dalle dimensioni comprese tra i 400 e gli 800 mq, con poche stanze di soggiorno e ampi settori destinati alla pars fructuaria e ai magazzini disposti lungo un cortile centrale. Nell’odierna Castellammare, sotto la Cattedrale, sono venute alla luce testimonianze archeologiche che attestano la prosecuzione della vita del centro antico, basata sulle attività portuali, dopo l’eruzione del 79 d.C. La rinascita della città riecheggia nelle parole del poeta Stazio che, un decennio dopo (92 d.C.), cerca di convincere la moglie a tornare a Napoli: «Ma cosa credi che il Vesuvio abbia totalmente spopolato la Campania? Non esageriamo: ci sono ancora tanti abitanti a Pozzuoli, a Capua, a Napoli, a Baia, a Miseno, a Capri, a Ischia, a Sorrento (...) e anche a Stabiae che è rinata».

Affresco raffigurante quattro donne, una delle quali con strumento musicale, da Stabiae. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Stabiae, l’odierna Castellamare di Stabia, era una piccola città nel cui agro sono state rinvenute otto ville residenziali (dedicate all’otium), sulla fascia litoranea in posizione panoramica, e sessanta ville rustiche (fattorie) nella zona collinare.

Con vista sul mare Il fenomeno che contraddistingue il territorio stabiano nel periodo compreso tra la conquista di Silla dell’89 a.C. e l’eruzione del 79 d.C. è la diffusione di sontuosi complessi residenziali, le cosiddette ville d’otium, ubicate in posizione panoramica strategica. Esse si configurano come fastose dimore dalle forme architettoniche complesse e articolate, su cui si apre una moltitudine di ambienti, terme, peristili e giardini, decorati

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con affreschi di gran pregio. Dei novantuno romani illustri che, tra l’età tardo-repubblicana e l’inizio di quella imperiale, possedevano residenze in Campania, soltanto una quindicina sono attestati dalle fonti nell’area vesuviana. Sappiamo che l’amico di Cicerone, Marco Mario ne possedeva una con uno splendido belvedere panoramico e nella villa stabiana dell’amico Pomponiano trascorse le sue ultime ore di vita lo studioso Plinio il Vecchio, prima di soccombere alle venefiche esalazioni del Vesuvio. Recentemente si è proposto di identificare la villa di Anteros (o del Fauno), ubicata sul pianoro di Varano, con una proprietà della famiglia imperiale dei Livii o dei Claudii. Analoghi complessi residenziali, solo parzialmente noti, si disponevano in posizione panoramica sulle colline contigue, come quelle di Quisisana e Scanzano, fino alla penisola sorrentina.

Sotto metri e metri di cenere La data ufficiale d’inizio degli scavi nell’ager Stabianus è il 7 giugno del 1749, quando il re Carlo III di Borbone affidò all’ingegnere

| Cenni storici | Nel periodo compreso tra il VII e il III secolo a.C., il territorio stabiano doveva essere occupato da un insediamento urbano, come sembrerebbe documentare la necropoli di via Madonna delle Grazie che ha restituito circa 300 sepolture. L’ubicazione del centro preromano, non certa, è stata ragionevolmente ipotizzata sul ciglio settentrionale del pianoro di Varano, in una posizione dominante sia sullo scalo marittimo, localizzato tra lo scoglio di Rovigliano e il Promontorio di Pozzano, sia sulla via pedemontana per Nuceria. L’analisi dei corredi ha evidenziato che, fino alla metà del V secolo a.C., la comunità era di tipo misto, costituita da indigeni ed Etruschi, poi Stabiae divenne un centro sannitico. Alla fine del III secolo a.C. si riferisce un passo di Silio Italico dal quale risulta che Stabiae, evidentemente in qualità di confederata, forniva contingenti militari a Roma nel corso della seconda guerra punica. Coinvolta nella guerra sociale, Stabiae fu distrutta da Lucio Cornelio Silla il 30 aprile dell’89 a.C.

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spagnolo Roque Joaquín de Alcubierre, affiancato un anno piú tardi dal colonnello del genio militare Karl Weber, le indagini archeologiche della collina di Varano, dove si erano avuti diversi rinvenimenti casuali. Stabiae giaceva sotto 7 m di ceneri e lapilli. Le perlustrazioni riguardarono un’area di circa 34 000 mq e le prime strutture a venire alla luce furono quelle della Villa S. Marco insieme all’impianto urbano (strade, un tempio, il macellum e delle botteghe). Nel 1754 fu avviato lo scavo della Villa del Pastore e, un anno piú tardi, fu la volta di Villa Arianna e del cosiddetto Secondo Complesso. Com’era allora consuetudine, le pitture e gli arredi piú preziosi venivano asportati dal contesto originario per arricchire la raccolta reale. Le esplorazioni a Stabiae si interruppero nel 1762, per ben tredici anni, finché, su interessamento di Francesco La Vega, subentrato a Weber, nel 1775, sotto il re Ferdinando IV, ripresero gli scavi della Villa Arianna e del Secondo Complesso. In quell’occasione furono messe in luce anche diverse ville rustiche nell’entroterra di cui solo quella in località Ogliaro è stata identificata.

A destra una veduta esterna di Villa Arianna, indagata per la prima volta nel 1754. In basso l’atrio di Villa Arianna, le cui pareti sono decorate con pitture su fondo nero di Quarto Stile iniziale di epoca claudia, con quadri figurati nella zona mediana.


Le esplorazioni borboniche si conclusero definitivamente nel 1782 e solo cento anni piú tardi, nel 1881, tutta la documentazione borbonica di scavo, rimasta inedita, fu riordinata e pubblicata dall’architetto Michele Ruggiero, divenuto Direttore degli Scavi di

Pompei. Erano state indagate nel complesso sei ville sulla collina di Varano, di cui ne sono state individuate quattro e tre sono visitabili, mentre l’impianto urbano è attualmente interrato. Nel 1931, i lavori agricoli effettuati nei fondi De Martino e Dello Ioio fecero emergere i resti di Villa Arianna e Villa San Marco. Soltanto grazie all’interesse di un erudito locale, il preside Libero D’Orsi, gli scavi ripresero in maniera sistematica nel 1950. Lo studioso, pur potendo contare su pochi uomini e scarsi mezzi finanziari, portò alla luce un settore di Villa Arianna e di Villa S. Marco, continuando a scavare in modo sistematico fino al 1962, quando i lavori si interruppero a causa dei problemi con le aree di proprietà privata e per mancanza di fondi. Gli scavi nelle due ville sono ripresi soltanto di recente. L’attività di Libero D’Orsi ha consentito di mettere in salvo una grande quantità di preziosi reperti archeologici in un’epoca in cui un’invasiva espansione edilizia tendeva a compromettere ormai irrimediabilmente l’antico ager Stabianus. Tutti gli affreschi piú pregevoli furono distaccati e restaurati e, insieme alla suppellettile d’uso quotidiano, raccolti nei locali seminterrati della Scuola Media «Stabiae», ove, nel 1957, fu inaugurato l’Antiquario Stabiano, oggi chiuso al pubblico.

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Dove e quando

itinerario di visita

scavi di stabiae Via Passeggiata Archeologica, Castellammare di Stabia (Na) Orario 1° apr-31 ott: tutti i giorni, 8,30-19,30 (ultimo ingresso ore 18,00); 1° nov-31 mar: tutti i giorni, 8,30-17,00 (ultimo ingresso ore 15,30) Info tel. 081 8575347; e-mail: pompei.info@beniculturali.it; www.pompeiisites.org

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ville del pianoro di Varano U

na fitta rete di lussuose residenze, disposte su vari livelli con terrazze, rampe e ninfei scenografici e con sale di soggiorno aperte sul panorama circostante e sui giardini, incorniciava il pianoro di Varano. Luoghi eccellenti dell’otium per l’aristocrazia romana, queste dimore sono state sorprese


dall’eruzione nel loro ultimo splendore: sepolte e, al tempo stesso, preservate per la gioia dei posteri. La documentazione di scavo borbonica ha rilevato la presenza di sei ville, di cui ne sono state messe in luce quattro, a quanto pare prive della parte produttiva, ma solo tre sono attualmente visitabili: la Villa S. Marco, la Villa Arianna e il cosiddetto Secondo Complesso. Queste dimore, disposte longitudinalmente sul ciglio del pianoro con il medesimo orientamento, sono state costruite impiegando tecniche architettoniche piuttosto complesse per assecondare e sfruttare l’orografia del sito, scavando con rampe e cunicoli gli scoscesi pendii. Le loro dimensioni sono molto ampie: 16 000 mq circa per Villa S. Marco, 19 000 per la Villa del Pastore,

14 000 per Villa Arianna e 6000 mq per il Secondo Complesso. Al momento dell’eruzione del 79 d.C. tutte le residenze erano interessate da lavori di rifacimento e restauro volti a rinnovare le precedenti decorazioni e ad ampliare gli impianti originari. Si pensa che tali ristrutturazioni siano da mettere in rapporto ai danni causati dalle scosse sismiche che precedettero l’eruzione del 79 d.C. oppure a un mutamento del tessuto sociale, per cui ai vecchi proprietari si sostituí una nuova élite, desiderosa di ostentare la propria ricchezza, oppure una classe di imprenditori che, per favorire nuovi guadagni, intendeva trasformare le originarie ville residenziali con l’inserimento di un settore produttivo.

Affresco raffigurante una lussuosa villa con porticus triplex (portico a tre bracci) affacciata sul mare, da Villa S. Marco. I sec. d.C., Castellamare di Stabia, Antiquarium.

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Villa S. Marco Q

uesto elegante complesso, che prende nome da una cappella costruita nelle sue adiacenze alla metà del XVIII secolo, sorge sul ciglio del pianoro, nel settore nord-orientale. La villa sembra riunire nella sua articolazione le caratteristiche della domus urbana e della villa residenziale, fondendo armonicamente il paesaggio naturale con le strutture architettoniche. L’impianto planimetrico dell’edificio tende ad assecondare l’andamento del pianoro, al fine di disporre le sale di soggiorno e di rappresentanza con la vista sul mare. Le indagini archeologiche hanno portato alla luce un cortile con giardino (o viridarium) centrale circondato da ambienti di servizio e, a est, un piano superiore, sul quale si aprono

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piccole stanze smistate da un corridoio. Le strutture edilizie comprendono un arco cronologico che va dall’età tardo-repubblicana a quella neroniana e presentano rifacimenti riferibili ad almeno quatto fasi costruttive, l’ultima delle quali ancora in corso al momento dell’eruzione. La maggior parte del settore scavato comprende gli ambienti di soggiorno, abbelliti da una decorazione musiva a tessere geometriche bianche e nere, databili tra l’epoca repubblicana e il 79 d.C., e da pitture risalenti al Terzo Stile finale e al Quarto iniziale. Tra i reperti venuti in luce nel corso delle recenti indagini, spiccano due eleganti tazze di ossidiana con scene egittizzanti (vedi box a p. 106) che, insieme ai rinvenimenti degli scavi borbonici, hanno arricchito le collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Le panchine per i clientes La villa si articola in cinque settori: l’atrio e gli annessi ambienti di servizio, le terme, il peristilio e il portico superiore e la zona d’ingresso. L’entrata, preceduta da un piccolo portico con le panchine in muratura riservate ai clientes, immette nell’atrio tetrastilo ionico, il cui impianto originario risale alla tarda età repubblicana. Le pareti sono decorate con pitture su fondo nero di Quarto Stile iniziale di epoca claudia, con quadri figurati nella zona mediana. Sull’atrio si aprono tre cubicoli e una scala che saliva al piano superiore. L’angolo sud-occidentale è occupato dal larario, che presenta un ornato a finti ortostati policromi. Sul lato opposto, attraverso un corridoio, si accede all’ampia cucina rettangolare, che conserva ancora il grande bancone di cottura con gli alloggiamenti arcuati per la legna nel piano inferiore. Lo spazio tra il quartiere d’ingresso e la strada antica è occupato dal settore termale che segue un orientamento nord-sud, differente dal resto della villa. Al suo interno si distinguono la stanza con un piccolo atrio tetrastilo, frutto di un restauro moderno, corrispondente, forse, a un frigidarium; seguono poi l’apodyterium, un secondo frigidarium absidato, il tepidarium, e il calidarium, la cui parete era dipinta con la nota rappresentazione di cantiere edilizio all’opera

sul terreno di una villa, e altri ambienti riservati a massaggi o al relax. Un corridoio conduce al settore dei portici e del ninfeo. Il grande porticato è il risultato dell’ampliamento di epoca claudia di un peristilio piú piccolo risalente all’età di Augusto. Lo smantellamento del peristilio augusteo lasciò libero un ampio settore, che venne occupato da un portico su tre lati (porticus triplex) con piscina centrale, con il quarto lato chiuso da un emiciclo. Il porticato, sostenuto da colonne in laterizio, con pareti decorate in Quarto Stile e pavimento in tessere di mosaico con motivi geometrici bianco-neri fra gli intercolumni, si affaccia sul giardino con lunga piscina centrale, realizzata in opus reticulatum rivestito di signino, abbellita da filari di platani. A sud si estende un grandioso ninfeo che risale alla seconda fase edilizia del complesso e la

Sulle due pagine, dal basso, in senso orario immagini di Villa S. Marco: l’ingresso con protiro e panchine in muratura per i clientes; l’atrio tetrastilo ionico, il cui impianto originario risale all’età repubblicana; una delle 8 nicchie inquadrate da semicolonne del ninfeo, decorate con architetture e scene figurate in pittura e stucco.

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Una delle due coppe ( skyphos) a vasca profonda in ossidiana nera di manifattura alessandrina, rinvenute nella Villa S. Marco. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. È decorata a intarsio con corallo, pietre semipreziose colorate e sottile lamina d’oro, con scena di offerta in stile egittizzante.

cui decorazione in stucco, pittura e mosaico era ancora in fase d’opera al tempo dell’eruzione. L’emiciclo, alle cui spalle corre un corridoio anulare, era scandito da otto nicchie inquadrate da semicolonne rivestite da stucco policromo e decorate con architetture e scene figurate (Venere, Nettuno, Fortuna, un cacciatore e un atleta). Due nicchie erano impreziosite da mosaici colorati in pasta vitrea ornati con la raffigurazione di Europa sul toro e il mito di Frisso ed Elle. Distaccate all’epoca dello scavo borbonico, le raffinate composizioni sono oggi conservate rispettivamente nel Museo Condé di Chantilly, a nord di Parigi, e nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Stucchi e pitture Il ninfeo esibisce una decorazione complessa e articolata connotata dall’uso congiunto di stucchi e pitture che rimanda a una fase di Quarto Stile, tipico dell’ultimo periodo di vita delle città vesuviane. Ai lati del ninfeo si aprono due gruppi di vani simmetrici decorati che si affacciano sul giardino con ampie finestre. Il peristilio si conclude con il piú importante ambiente di rappresentanza della villa, probabilmente un triclinio. Ubicata in una

| Echi d’Egitto | Da Villa S. Marco provengono due splendide coppe in ossidiana decorate a intarsio con soggetti egittizzanti, impreziositi da una sottile lamina d’oro. Lo skyphos, di manifattura alessandrina (I secolo a.C.), doveva appartenere a un servizio piú numeroso di vasi e rappresenta un’importante testimonianza del gusto dell’epoca sia per la preziosità dei materiali utilizzati sia per la raffinatezza della tecnica.

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posizione strategica, con i Monti Lattari sullo sfondo a sud e aperta a nord verso il Golfo, questa elegante sala era impreziosita da un ricco ornato di marmi policromi e decorata da una composizione pittorica piuttosto complessa. Sopra lo zoccolo, rivestito da lastre di marmo, si impostava una megalografia con raffigurazioni di arcieri e tripodi delfici che incorniciavano un grande quadro centrale con figura maschile, forse Mercurio. Attraverso una rampa si passava a un secondo peristilio superiore, aggiunto alla villa negli ultimi anni, solo parzialmente indagato. Si tratta di un portico a tre bracci (porticus triplex) del tipo di quelli rappresentati nei quadretti marittimi, con il quarto lato aperto sul panorama del Golfo. Il portico era scandito da colonne tortili (crollate durante il terremoto del 1980), che avevano la peculiarità, rara nell’architettura romana del I secolo d.C., di essere bianco-liscio in un settore della zona inferiore e scanalate alternativamente nella parte superiore. Le pareti del peristilio, ancora incompiuto nel 79 d.C., conservano poche tracce della pittura originale, tra cui un quadro con Apollo e Dafne, ora all’Antiquarium, e altri quadretti con figurine volanti. Un certo impegno decorativo esibisce, invece, il soffitto caratterizzato da ricche composizioni concentriche che inquadravano grandi pannelli con soggetti mitologici (la Quadriga di Helios, l’Apoteosi di Minerva, Mercurio) tra i quali era anche la Sfera armillare, elaborata composizione che raffigura il susseguirsi delle personificazioni allegoriche delle stagioni. I frammenti pittorici recuperati svelano un tratteggio caratteristico, fine e trasparente, in cui si è riconosciuta l’opera del cosiddetto Genio delle Pitture di Stabiae. Questo porticato sembrerebbe, quindi, configurarsi come una ambulatio, ovvero un ambulacro riservato al percorso intellettuale, nel quale si passeggiava leggendo, parlando, meditando, circondati da un paesaggio naturale estremamente gradevole, con le verdi colline da un lato e il mare dall’altro. Le composizioni mitologiche facevano da sfondo all’erudita passeggiata, accompagnandolo e fornendo l’ispirazione per profonde e suggestive elucubrazioni.


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a Villa, cosí denominata dal quadro con la scena di Arianna abbandonata che decorava la parete del triclinio, fu individuata e scavata nel Settecento. Gli scavatori borbonici, dopo averne eseguito le precise planimetrie, reinterrarono le strutture messe in luce. La dimora riemerse parzialmente nel corso degli scavi condotti da Libero d’Orsi, a partire dal 16 febbraio 1950, negli ambienti lungo il ciglio del pianoro, che interessarono un’area di circa 3000 mq. L’impianto della villa si presenta piuttosto articolato, sia perché l’edificio è stato interessato da aggiunte e ampliamenti nel corso del tempo, sia perché le sue strutture sono state costruite adattandosi all’orografia del pianoro. Il settore piú antico del complesso, risalente agli inizi del I secolo a.C., è costituito dal gruppo di ambienti disposti nella sequenza ingresso-peristilio-atrio, in linea con i precetti vitruviani (De Arch. VI,5,3) che per le ville suburbane stabilivano una successione peristilio-atrio. L’atrio, di tipo tuscanico, fu ridecorato con pitture di tardo Terzo Stile e l’impluvio era già stato privato in antico del rivestimento marmoreo. I cubicoli, che in origine si aprivano sull’atrio, mentre adesso si affacciano sul peristilio non scavato, conservano la decorazione di Secondo Stile a finta incrostazione con soffitto a cassettoni sostenuto da colonne ioniche. In asse con l’atrio è il tablino, che si apre sul ciglio del pianoro ed è parzialmente franato a valle. La decorazione musiva a meandri e clessidre fu staccata e ne fu scoperto, ancora in buono stato, il disegno preparatorio (sinopia).

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A est del tablino segue un ambiente panoramico le cui pareti sono affrescate da eleganti pitture di Terzo Stile su fondo giallo. Attraverso un corridoio di passaggio si raggiunge il cortile, dotato di una scala per l’accesso al piano superiore, su cui si aprono ambienti di servizio, alcuni dei quali franati a valle. Continuando verso est, si incontra uno stretto vicolo che rappresenta il confine fra la Villa Arianna e la dimora adiacente, nota come «Secondo Complesso», a testimonianza di quanto il pianoro del Varano fosse densamente edificato con queste lussuose residenze nel I secolo d.C. A ovest del tablino si aprono altre sale panoramiche, gli ambienti di servizio e il settore termale, dotato di calidarium absidato, praefurnium con scaletta d’accesso al piccolo basamento su cui era il calderone in bronzo, laconicum e tepidarium, ruotanti intorno a un cortile con una vasca inquadrata da colonne.

In alto pianta di Villa Arianna: 1. ingresso; 2. peristilio; 3. atrio; 4-5. cubicoli; 6. tablino; 7. cortile; 8. calidarium; 9. laconicum; 10. tepidarium; 11. triclinio estivo; 12. sale panoramiche; 13. grande peristilio. In basso decorazione parietale «a piastrelle» di una stanza (diaeta) del quartiere residenziale, con raffigurati elementi vegetali e animali, medaglioni, figurine femminili e amorini. Lo zoccolo, a fondo rosso, è affrescato con finte architetture e figure femminili.

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itinerario stabiae

A destra Villa Arianna. Quadro centrale della parete del triclinio, con la scena mitologica da cui la villa prende nome: Arianna abbandonata da Teseo. Quarto Stile, età neroniana.

Proseguendo verso ovest, si arriva al grande triclinio affacciato sul Golfo, che presenta affreschi di Quarto Stile d’epoca neroniana. Su ogni parete sono stati dipinti quadri di soggetto mitologico: Arianna abbandonata da Teseo a Nasso (parete di fondo), il mito di Ippolito e Fedra (parete est), il mito della ninfa Ambrosia uccisa da Licurgo (parete ovest). Segue poi un gruppo di quattro stanze disimpegnate da un corridoio, che, probabilmente, rappresentano il quartiere residenziale della villa. I due cubicoli adiacenti presentano rispettivamente decorazioni pittoriche di soggetti femminili (figure su sedie, Menadi sdraiate) e maschili (Ganimede con l’aquila ed eroti, Satiri e guerrieri sdraiati) e per questo sono stati attribuiti l’uno all’uso della padrona, l’altro a quello del padrone della villa. Vi sono infine alcune sale panoramiche aggiunte al complesso in età flavia nel corso dell’ultimo ampliamento per collegarla a un altro edificio di

cui facevano parte il grande peristilio e gli ambienti che si disponevano da nord a ovest. Il quartiere del peristilio, accessibile da sud tramite un piccolo portico, aveva un perimetro di 104 x 81 m, pari a due stadi romani, che corrisponde alle misure stabilite da Vitruvio per i portici delle palestre. La villa era collegata alla pianura sottostante da rampe disposte su almeno sei livelli e che permettevano di raggiungere il settore rustico dove, nel 1981, è stato messo in luce un cortile con i resti di due carri da trasporto a quattro ruote.

Secondo Complesso di Varano In basso Secondo Complesso di Stabia: ambienti affrescati che si aprono sul colonnato del peristilio, riportati alla luce durante scavi moderni.

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uesto complesso residenziale adiacente a Villa Arianna dalla quale lo separa un vicoletto, fu scavato in epoca borbonica. La planimetria settecentesca rileva un ampio giardino delimitato da portici sui lati nord-estovest e il settore termale, oggi interrato, fornito di calidarium, tepidarium e laconicum. Gli scavi moderni hanno riportato alla luce il

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lato settentrionale del peristilio, composto da quattordici colonne rivestite da intonaco bianco, parte del lato orientale e occidentale, costituito da quattro colonne, e una serie di ambienti che si aprono in posizione panoramica a sud, sul ciglio del pianoro, costituiti da un ampio oecus centrale, ai lati del quale si dispongono diverse stanze e corridoi simmetrici. In un’epoca successiva, probabilmente augustea, venne aggiunto, a nord-ovest, un gruppo di vani diversamente orientati decorati con affreschi di tardo Terzo Stile su fondo nero. Sono stati recuperati alcuni quadretti con figure di Icaro, Dedalo, Polifemo e Galatea, oggi conservati nell’Antiquarium. I pavimenti della villa furono in gran parte distaccati in epoca borbonica e sono conservati in alcune sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.


Decorazione pittorica a Stabiae Gli affreschi delle lussuose ville stabiane fungono da cornice estetica per le ampie e raffinate strutture architettoniche. Tranne poche sale riferibili agli originali impianti tardo-repubblicani dipinte in Secondo Stile, la maggior parte delle decorazioni, pertinente ai nuovi complessi di età augustea e claudio-neroniana, è ascrivibile al Terzo e Quarto Stile. Negli affreschi stabiani di Terzo Stile (20 a.C. circa-metà del I secolo d.C.) la parte centrale della parete è scandita da pannelli divisi da elementi architettonici o vegetali, arricchiti da figure in volo, quadretti con paesaggi o animali nei pannelli laterali, resi con pennellate quasi impressionistiche. Di particolare raffinatezza ed eleganza sono le quattro figurine di Flora, Leda, Diana e Medea distaccate dagli scavatori borbonici da un cubicolo della Villa Arianna, che ben riflettono la cultura classicheggiante dell’epoca augustea e giulio-claudia. Il Quarto Stile, tipico dell’età claudioneroniana e flavia, raggiunge livelli di grande effetto barocco nella monumentale decorazione dei soffitti del portico superiore di Villa S. Marco. Gli affreschi con la rappresentazione della sfera armillare, l’apoteosi di Minerva e il dio Mercurio rivelano la mano di una raffinata personalità artistica che rende pittoricamente l’erudizione filosofica e scientifica della colta élite ospitata nella villa. Possiamo immaginare le dotte conversazioni che si svolgevano nelle calde giornate d’otium all’ombra dell’elegante portico alle quali l’elaborato ciclo pittorico faceva da sfondo e da ispirazione.

Figura femminile in Terzo Stile identificata come Flora, splendido esempio di pittura classicheggiante dell’età augustea e giulio-claudia, da un cubicolo della Villa Arianna. Prima metà del I sec. d.C. Napoli Museo Archeologico Nazionale.

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il mistero di murecine

In alto Erato, musa della poesia, particolare della decorazione affrescata del triclinio A di Murecine (vedi foto sulle due pagine). In basso il plastico dell’edificio scoperto a Murecine nel 1959, forse identificabile con un collegio di mercanti.

Nel 1959 durante i lavori per la costruzione dell’autostrada Napoli-Salerno venne scoperto in località Murecine, circa 600 m a sud dell’antica Pompei, un complesso edilizio di difficile interpretazione. Ulteriori scavi condotti nel 1999-2000 hanno fornito alcune precisazioni, senza però ampliare l’area indagata. Conosciamo solo una parte dell’ala nord, dotata di tre triclini che si affacciano su un portico con giardino, aperto sul fiume Sarno. Le sale misuravano 4,6 x 4,8 m ed erano fornite di una panca in muratura su tutti e tre i lati. Furono inoltre individuati due ulteriori triclini, sul lato est del portico, che però non vennero scavati. Il portico, solo parzialmente indagato, racchiudeva un giardino con alberi e arbusti. Una scala accessibile da un corridoio dietro i tre triclini portava a un piano superiore, di cui nulla si è conservato. A est seguiva un impianto termale, costruito in una fase successiva e non ancora ultimato all’epoca dell’eruzione del Vesuvio. La funzione dell’edificio rimane incerta, e, a oggi, ne sono state proposte diverse interpretazioni. L’ipotesi piú accreditata lo identifica con un collegio di mercanti, un luogo di riunione per commercianti benestanti che trattavano qui i loro affari. Appare invece meno plausibile che si tratti di un hospitium, un albergo di passaggio. Come ci raccontano gli autori antichi, queste locande erano spesso frequentate da gente di bassissimo livello sociale, il che non concorda con il lusso degli ambienti e l’alta qualità della

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decorazione parietale. L’ipotesi piú recente, che vi riconosce una taberna deversoria, un edificio costruito per ospitare l’imperatore Nerone e la sua corte in visita a Pompei, è suggestiva, ma priva di fondamento. Certo è che il complesso presenta evidenti caratteristiche pubbliche come l’accumulo di triclini, tutti rivolti verso il giardino con vista fiume. La decorazione dei triclini in Quarto Stile, molto pregiata, risale probabilmente agli anni Cinquanta, poco prima del terremoto del 62 d.C. e faceva parte dell’originaria fase costruttiva dell’edificio. Inoltre, come dimostrano raffronti stilistici, lo stesso pittore di questi affreschi si ritrova a Pompei nella Casa dei Dioscuri. Il triclinio centrale presenta figure monumentali su


sfondo nero, quelli laterali, invece, esibiscono figure isolate su sfondo rosso. Nella parete di fondo del triclinio A troviamo Apollo, fiancheggiato da Clio e da Euterpe; le restanti pareti raffigurano altre sei Muse. Manca solo Tersicore, la musa della danza, forse perché la frivolezza del ballo avrebbe stonato con questo ambiente intellettuale e artistico. Al centro della parete di fondo del triclinio C compare l’immagine di un fiume, probabilmente immaginario, fiancheggiato da una figura maschile e una femminile. Sulle pareti laterali sono dipinte due Vittorie, anch’esse accompagnate da figure maschili e femminili. Si tratta, forse, di un programma pittorico che contrappone il mondo dionisiaco al mondo apollineo.

Il triclinio centrale raffigura, sulla parete di fondo, Elena, l’eroina di Troia, affiancata sulle parete laterali dai Dioscuri, Castore e Polluce. In un secondo tempo, probabilmente poco prima del 79 d.C., l’edificio cambiò proprietario. Nel triclinio B venne trovato un archivio di tavolette cerate appartenente alla famiglia dei Sulpicii. Il complesso di Murecine fu, verosimilmente, acquistato da C. Sulpicius Rufus, un personaggio eminente di Pompei, che faceva i suoi affari a Puteoli (l’odierna Pozzuoli) il porto commerciale piú importante dell’Italia meridionale. Rufus avviò ingenti interventi di ristrutturazione e ampliamento della struttura, interrotti dall’eruzione del Vesuvio, che anche a Murecine pose buscamente fine alla vita del sito.

In basso veduta d’insieme del triclinio A di Murecine, decorato da pitture in Quarto Stile su sfondo rosso raffiguranti Apollo e sei Muse. Seconda metà del I sec. d.C. Pompei, Ufficio Scavi.


boscoreale

lavorare la terra

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Le ville rustiche rinvenute nel territorio di Boscoreale hanno permesso di ricostruire caratteristiche e dimensioni della produzione agricola nell’area vesuviana. Confermando il ruolo fondamentale svolto dalla coltivazione del vino, descritta già da Strabone e Plinio il Vecchio

Boscoreale, villa di Publius Fannius Synistor. Particolare della megalografia a soggetto storico dal triclinio. Le figure, pregevole esempio di pittura del tardo Secondo Stile, vengono identificate come la personificazione della Persia (con copricapo persiano), dell’Asia o della regina Philia, madre di Antigono Gonata, e della Macedonia (con lunga lancia) o di un principe ellenistico (Antigono Gonata, Antigono Dosone o Demetrio Poliorcete). 50-40 a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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boscoreale

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ggi il Sarno è un piccolo fiume, piuttosto inquinato, e il suo percorso, rettificato, è di soli 24 km dalla sorgente, situata alle pendici dei monti di Sarno, fino alla foce, che si trova di fronte allo Scoglio di Rovigliano. In età romana, la foce era a sud di Pompei, ma l’andamento antico del Sarno è tutt’altro che certo. Sappiamo da Strabone che le città di Nola, Nocera e Acerra si servivano di Pompei come porto e che il Sarno era utilizzato per il traffico fluviale. L’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. cambiò radicalmente tutta la valle, ricoprendola di materiale vulcanico e cancellando l’andamento dell’antico corso del fiume cosí come quello della linea di costa. Le ultime ricerche paleotopografiche confermano, comunque, l’ipotesi della presenza di un porto fluviale a Pompei in località Bottaro, sebbene manchino ancora prove archeologiche certe. È invece assodato che il fiume Sarno costituiva la frontiera naturale tra il territorio di Pompei a nord e quello di Nocera a sud. La valle del Sarno occupava un’area piú o meno trapezoidale, di circa 16 km di lunghezza tra l’antica foce e i monti di Sarno e di larghezza compresa tra i 10 e i 14 km tra le pendici del Vesuvio e dei monti Lattari. La superficie coltivabile era pari a 250 kmq circa. Pompei e Nocera controllavano la valle economicamente; il commercio marittimo era nelle mani di Pompei, l’amministrazione politica, invece, in quelle di Nocera. Lo sfruttamento agricolo si intensificò a partire dal II secolo a.C. con l’insediamento di un numero sempre maggiore di fattorie. Oggi conosciamo all’incirca centocinquanta ville rustiche sparse per il territorio della valle del Sarno, quasi tutte reinterrate.

Il Tesoro di Boscoreale L’Antiquarium Nazionale di Boscoreale venne inaugurato nel 1991, con il promettente sottotitolo «Uomo e ambiente nel territorio vesuviano», vicino agli scavi della fattoria antica in località Villa Regina, esplorata e restaurata pochi anni prima. L’idea che aveva ispirato il progetto non era soltanto quella di rendere visibili i pochi artefatti rinvenuti durante gli scavi, ma di collocare in un contesto storico,

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geografico e sociale la vita quotidiana di una zona agreste nell’hinterland di Pompei. Il territorio dell’odierno Comune di Boscoreale, situato alle pendici meridionali del Vesuvio, era anticamente un sobborgo di Pompei e costituiva probabilmente il «Pagus Augustus Felix Suburbanus». Già in epoca sannitica alcune fattorie (ville rustiche) erano presenti sul territorio, ma soprattutto a partire dall’età augustea la zona venne sfruttata intensamente per la coltivazione della vite, dell’olivo e di cereali. Sorsero allora molte aziende agricole, perlopiú di piccole o medie dimensioni con 100 iugeri circa di terreno (pari a circa 25 ettari), distrutte durante l’eruzione del Vesuvio e sepolte sotto metri di ceneri e lapilli. Le prime vennero ritrovate e scavate già in età borbonica verso la metà del XVIII secolo, quando, in concomitanza con le scoperte di Ercolano e Pompei, si perlustrava anche il territorio circostante. Un nuovo interesse si manifestò negli ultimi anni del XIX secolo, soprattutto dopo la scoperta del Tesoro di Boscoreale, ma purtroppo gli scavi intrapresi dai proprietari dei terreni somigliavano piú a una caccia al tesoro che a indagini scientifiche. I reperti vennero venduti sul mercato antiquario e si trovano oggi dispersi in tutto il mondo, al Louvre di Parigi, al Metropolitan Museum di New York, e in altri musei ancora. Dopo l’asportazione dei manufatti le strutture

In alto particolare del portico del cortile di Villa Regina a Boscoreale, l’unica villa rustica interamente scavata e visitabile delle numerose fattorie dell’agro pompeiano. Il complesso, il cui impianto originario risale al I sec. a.C., venne poi ampliato in epoca augustea e giulio-claudia. Accanto alla struttura, nel 1991, è stato aperto l’Antiquarium Nazionale di Boscoreale.


In basso la cella vinaria posizionata nel settore non pavimentato del cortile di Villa Regina, con 18 dolia (grandi giare per la conservazione del vino) fittili, interrati fino alla spalla, alcuni ancora chiusi con il coperchio ansato (operculum) e il disco fittile (tectorium).

archeologiche vennero ricoperte e, in molti casi, non essendo stata prodotta alcuna documentazione, si perse la memoria dell’esatto luogo di rinvenimento. Finalmente, negli anni Settanta dell’ultimo secolo gli archeologi cominciarono a interessarsi seriamente alle ville rustiche sul territorio. Furono stilati elenchi di quelle conosciute ed eseguiti sondaggi per rintracciare quelle perdute, ma, soprattutto, venne scavata, pubblicata e resa accessibile la fattoria collocata di fronte all’Antiquarium.

La Campania felix a 360 gradi Boscoreale è lontana sia dai flussi turistici che ogni anno inondano Pompei, sia dalla piú tranquilla Ercolano. L’Antiquarium e l’adiacente

villa rustica, insieme agli scavi di Oplontis e Stabiae, fanno parte della realtà vesuviana: quasi irraggiungibili senza un’auto privata e situati in contesti urbanistici molto diversi da quelli dell’antica Campania felix, meritano senz’altro una visita, perché approfondiscono e completano il quadro generale dell’area vesuviana di 2000 anni fa. Il museo è costituito da due grandi sale. La prima racconta in modo didattico le caratteristiche fisiche della zona vesuviana in tutte le sue sfaccettature. Grafici, fotografie e

| Il vino dei Romani | Secondo Plinio il Vecchio, il vino piú famoso in assoluto era il Cecubo, prodotto nelle vicinanze dell’odierna Terracina, nel Lazio. Ma per Plinio era solo un vago ricordo, visto che già nel I secolo d.C. era scomparso e non era piú sul mercato. Il secondo era il Falerno della Campania settentrionale, il terzo il vino dei Colli Albani, seguiva quello di Sorrento poi altri vini del Lazio e della Campania. Dell’area vesuviana era conosciuto innanzitutto il Vesuvinum o Vesvinum, poi anche il Pompeianum e il Surrentinum. Nelle taverne di Pompei e di Ercolano si beveva il vino locale non pregiato che costava poco, ma era buono.

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Qui sopra e a destra alcuni ambienti dell’Antiquarium Nazionale di Boscoreale, creato al fine di inquadrare in un contesto storico, geografico e sociale la vita quotidiana del territorio pompeiano. Il museo ospita reperti provenienti dalle ville rustiche dell’agro. Il calco del cane da guardia, legato col collare alla catena, è il primo calco di animale realizzato a Pompei, nel 1875.

reperti originali, suddivisi in vari settori, introducono alle caratteristiche geografiche del territorio: il mare e la costa; la pianura; la fascia collinare; i monti. Nella seconda parte vengono trattate questioni economiche e sociali: l’allevamento; la coltivazione; la medicina; la cosmesi; i tessili; il mondo religioso. La seconda sala introduce alle ville rustiche trovate sul territorio di Boscoreale e presenta i risultati degli ultimi sondaggi archeologici: reperti originali, ma anche documenti e fotografie. Al centro della sala è esposto il plastico della Villa della Pisanella, nella quale si rinvennero gli argenti e le monete d’oro del famoso Tesoro di Boscoreale. Si tratta di una copia del modello originale, il quale, elaborato all’epoca dei primi scavi, fu distrutto durante i bombardamenti di Pompei nella seconda guerra mondiale.

Le ville rustiche Le prime fattorie dovevano essere presenti sul territorio già in età sannitica. Con la conquista romana l’area vesuviana fiorí e sorsero molte nuove aziende agricole. Oggi sappiamo che le ville rustiche erano situate lungo le strade e distavano non piú di 300-400 m l’una dall’altra. La zona produttiva era nell’entroterra; lungo la costa, invece, i ricchi Romani costruirono le loro ville marittime dedite esclusivamente all’otium, al piacere. Le aziende agricole dell’entroterra producevano principalmente vino, poiché la

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terra lavica era molto fertile e le viti crescevano particolarmente bene. Già Strabone e Plinio il Vecchio lodarono il vino vesuviano, e scrivevano sulla coltivazione fortunata delle viti. Anche i reperti archeologici dimostrano quanto il vino del Vesuvio fosse pregiato e venisse esportato in molti Paesi stranieri. Anfore riconducibili all’area vesuviana sono state trovate, infatti, in Inghilterra, in Gallia e in Spagna. Sul territorio comunale dell’odierna Boscoreale si conoscono oggi piú di quaranta ville rustiche. Quasi tutte furono reinterrate dopo gli scavi e non sono attualmente accessibili, né visibili: alcune sono documentate e localizzate, altre solo documentate, su altre ancora non sappiamo quasi nulla. Recenti sondaggi archeologici hanno portato alla luce diverse nuove strutture, integrando vecchi saggi e documenti. Molto è stato fatto, ma in mancanza di fondi per la conservazione e il restauro delle ville, è preferibile lasciarle interrate, cosí da garantirne la conservazione. L’unica villa rustica scavata, restaurata e conservata in maniera esemplare è quella in località Villa Regina, adiacente all’Antiquarium di Boscoreale. In questo momento sono in corso ulteriori restauri, l’interno della villa rimane chiuso al pubblico, ma è ben visibile dall’esterno e senz’altro dà un’idea molto precisa delle caratteristiche di una fattoria in epoca romana.


A destra alcuni reperti del Tesoro di Boscoreale, un insieme di 100 vasi in argento, oltre 1000 monete d’oro, tre specchi in argento e molti gioielli in oro, rinvenuto nell’aprile 1895 nella cisterna del torcularium della Villa della Pisanella a Boscoreale. In basso una delle due «coppe degli scheletri» in argento parzialmente dorato del Tesoro di Boscoreale. Gli scheletri che danzano sono identificati con i nomi di personaggi famosi, mentre alcune frasi invitano a godere il tempo trascorso nell’allegria e nel piacere, vista la brevità della vita.

| La cisterna delle meraviglie | Nell’aprile del 1895, il capomastro degli scavi Michele Finelli scese nella cisterna del torcularium e vi trovò nascosti un centinaio di vasi in argento, piú di mille monete d’oro e molti gioielli. Un primo tentativo di vendere il tesoro al Museo Archeologico di Napoli fallí per mancanza di fondi di quest’ultimo. Allora venne organizzata l’esportazione clandestina dei reperti. Molte monete d’oro furono vendute sul mercato antiquario di Londra. Le argenterie e i gioielli vennero, invece, offerti al Louvre, ma a una cifra cosí esorbitante che anche il museo parigino dovette rinunciare. All’ultimo momento intervenne il banchiere Edmond de Rothschild, il quale acquistò il tesoro privatamente, donandolo poi al Louvre. I vasi in argento non sono tutti della stessa epoca. Il proprietario della villa dovette essere un grande collezionista di prezioso vasellame che acquistò anno dopo anno, forse anche per diverse generazioni. Quando l’eruzione del Vesuvio minacciò la sua proprietà, nascose tutto il tesoro personale nella cisterna del torcularium, pensando di poterlo recuperare in tempi migliori. Il tesoro, invece, rimase sepolto per piú di diciotto secoli. Fra i vasi in argento spiccano le coppe da bere che esibiscono motivi del mondo animale e vegetale, ma anche del mondo mitologico e politico. Alcuni sono ironici, come le due «coppe degli scheletri» sulle quali si vede una danza di scheletri che portano nomi di personaggi famosi del tempo, evocando la brevità della vita. I gioielli in oro dovettero appartenere alla moglie del proprietario, come anche i tre specchi d’argento con motivi mitologici appartenenti al mondo della seduzione: Leda e il cigno, Dioniso, Onfale.

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gioielli e fiumi di vino Le ville rustiche scoperte nel territorio di Boscoreale sono accomunate da caratteristiche strutturali e destinazioni d’uso. Spicca, in particolare, la costante presenza degli impianti adibiti alla produzione del vino. E a tale attività si lega, in fondo, anche uno dei ritrovamenti piú celebri mai effettuati nella zona, quello del magnifico tesoro nascosto dal suo proprietario nella cisterna del torcularium della Villa della Pisanella.

La villa fu scoperta fortuitamente nel 1977 e poi scavata sistematicamente fino al 1980. Negli anni seguenti ne fu investigata anche l’area circostante per meglio conoscere l’attività produttiva della fattoria. Con i suoi 450 mq circa, la villa rustica, in confronto ad altre aziende agricole dell’entroterra di Pompei, era di piccole dimensioni. La produzione principale era quella del vino, forse affiancata da olio e cereali. Durante l’eruzione del 79 d.C. la fattoria fu sepolta da ceneri e lapilli, ma gli abitanti riuscirono probabilmente a fuggire, portando con sé anche gli animali. Gli scavi hanno infatti restituito solo lo scheletro di un uomo adulto, forse il custode, i resti di un cane e di un maiale. Il primo impianto della villa rustica si data alla fine del I secolo a.C., ma nella prima età imperiale vi furono ripetute ristrutturazioni. Le aggiunte e gli ampliamenti di diversi ambienti nel corso degli anni sono anche il motivo

Qui accanto pianta di Villa Regina: 1. vestibolo; 2. guardiania (?); 3. peristilio; 4. torcularium; 5. cella vinaria; 6. triclinium; 7. deposito. Nella pagina accanto, in alto a sinistra calco del maiale trovato negli scavi di Villa Regina insieme ai resti di un uomo, forse il vilicus. Boscoreale, Antiquarium Nazionale. In basso una veduta di Villa Regina.

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Villa rustica in località Villa Regina

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dell’irregolarità della pianta. L’ingresso principale era sulla parte occidentale della villa con un portone in legno a due battenti. Subito a destra seguiva la stanza del vilicus, il guardiano della fattoria che controllava oltre l’ingresso anche il cortile e la cella vinaria. In questa stanza fu trovato lo scheletro di un uomo, il che fa pensare che si trattasse del vilicus stesso o di un suo incaricato lasciato di guardia mentre gli altri abitanti fuggivano dall’eruzione. Passata la guardiania, si raggiungeva il grande cortile con il porticato su tre lati e la cella vinaria sul quarto. Qui si trovavano 18 dolia, per una capacità complessiva di 10 000 l circa. I grandi contenitori servivano alla fermentazione del mosto ed erano interrati per mantenere un ambiente fresco e una temperatura costante. Il torcularium, invece, dove l’uva veniva pigiata e torchiata, era diviso in due sale, situate nella parte nord della fattoria. Adiacente era la cucina, con un focolare rettangolare al centro e un forno per il pane addossato alla parete d’ingresso. La zona orientale, sul lato opposto dell’ingresso era l’appartamento del proprietario. La sala da pranzo era decorata da pitture del Terzo Stile con pannelli in rosso e giallo sopra uno zoccolo nero. Le altre stanze padronali si trovavano probabilmente nel piano superiore. Sia la decorazione parietale, sia la mancanza di sale di rappresentanza e anche del bagno privato, lasciano intendere che il proprietario non fosse molto ricco. L’ambiente adiacente era il granaio per la conservazione dei viveri destinati alla fattoria stessa. Sul terreno circostante sono visibili i calchi in cemento delle piante che si coltivavano, mentre è stato ripiantato il vigneto per ricostruire il paesaggio antico e il funzionamento dell’azienda agricola di età romana.

A destra una macina, reintegrata nelle parti lignee, e, qui sotto, il calco di una testa femminile con collo e bocca avvolti da un fazzoletto per proteggersi dalla cenere. Entrambi i reperti provengono dalla Villa della Pisanella. Boscoreale, Antiquarium Nazionale. In basso plastico della Villa stessa, copia moderna dell’originale ottocentesco, distrutto durante la seconda guerra mondiale.

Villa della Pisanella

Questa villa rustica prende il nome dalla località Pisanella, su territorio del Comune di Boscoreale. È la piú famosa delle ville rustiche pompeiane per la scoperta del Tesoro di Boscoreale, rinvenuto durante gli scavi nel 1895. La villa risale agli inizi del I secolo a.C. e presenta, come molte altre, una divisione in una parte residenziale, destinata al ricco proprietario, e in una parte riservata alle attività produttive, con gli alloggi dei lavoranti. Come fanno intendere le scale, la villa era sicuramente provvista di un piano superiore. La sala piú impressionante è la grande cella vinaria scoperta e leggermente rialzata rispetto agli ambienti circostanti. La maggior parte dei dolia servivano per la conservazione del vino, alcuni per l’olio, altri per i cereali. Il frantoio era situato negli ambienti a est della cella vinaria; in una sala si trovava un torchio ligneo, nell’altra la macina per le olive. Il vino, invece, veniva prodotto nel torcularium, il grande ambiente con due vasche per la pigiatura, cisterna e torchi lignei per la spremitura delle vinacce. Fra queste due zone produttive erano collocati gli alloggi dei lavoranti: cinque camerette che si aprivano su un portico. La parte residenziale, destinata al proprietario, si trovava sull’altro lato del cortile, come la cella vinaria scoperta, e si articolava, lungo il lato settentrionale, in diverse sale decorate con pitture di Secondo e Terzo Stile. Fanno parte di questo settore un triclinio con anticamera e due camere da letto. Un’ulteriore stanza da letto venne in seguito trasformata in deposito per attrezzi agricoli, mentre piú a nord si trovavano un’ampia cucina e un bagno privato con frigidarium, tepidarium, calidarium e annessa latrina. Dietro la cucina e accessibile solo da essa era una stalla, in cui furono trovati i resti di alcuni cavalli e polli. Nel piano superiore si trovavano due distinti appartamenti, il primo serviva probabilmente al vilicus, il responsabile della fattoria; l’altro, con ambienti affrescati, ancora al proprietario.

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boscoreale

Villa di Numerius Popidius Florus

Nel 1906, non lontano dalla Villa della Pisanella, venne esplorata un’altra villa rustica, anch’essa divisa in un settore padronale e un settore produttivo. Come molte altre ville dell’entroterra di Pompei, la fattoria produceva in primo luogo vino ed era, dunque, provvista di torcularium per la pigiatura e la torchiatura dell’uva e di cella vinaria, nella quale il mosto fermentava. Gli ambienti di produzione si sviluppavano intorno a un grande cortile scoperto, che serviva come cella vinaria con diverse file di dolia interrati. Due iscrizioni, trovate in questo cortile, nominano un certo Numerius Popidius Florus, probabilmente il proprietario della villa. Anche qui la zona padronale era fornita di terme private con le consuete sale per il bagno freddo e il bagno caldo, e di una grande cucina. Un piano superiore in alcune parti della villa era probabilmente destinato ad alloggio dei lavoranti. La villa fu inizialmente costruita nella seconda metà del I secolo a.C. come attestano resti di affreschi in Secondo Stile, e venne in seguito rinnovata e decorata con pitture del Quarto Stile, probabilmente a causa dei danni provocati dal terremoto del 62 d.C.

Villa di Publius Fannius Synistor

Scavata alla fine dell’Ottocento, la villa restituí splendidi affreschi di tardo Secondo Stile (50-40 a.C.) che furono subito distaccati e dispersi in tutto il mondo. I piú famosi si trovano oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e al Metropolitan Museum di New York; altri sono conservati in Belgio, Francia, Olanda. L’attribuzione della villa rustica a Publius Fannius Synistor è dovuta al suo nome inciso sull’orlo di una brocca in bronzo, rinvenuta nel torcularium. Un graffito su una colonna del peristilio ci informa, inoltre, che l’edificio fu venduto nel 12 d.C., forse a Lucius Herennius Florus, il cui nome è conservato su un sigillo. La villa era divisa in due parti: un sontuoso quartiere residenziale con al centro un grande peristilio, e un quartiere rustico con magazzini, stalle e sotterranei, cucina e alloggi servili, e dotato di un torcularium per la produzione del vino. La zona residenziale si sviluppava intorno al grande peristilio e oltre a saloni, camere da pranzo e da letto squisitamente affrescati, era fornita di un esteso quartiere termale privato con apodyterium, frigidarium, tepidarium e calidarium. Il triclinium esibisce sulla parete di fondo affreschi con Dioniso e Arianna, Afrodite ed Eros e le tre Grazie. Sulle pareti laterali erano dipinte grandi statue su un podio raffiguranti, forse, la conquista dell’Asia da parte di Alessandro Magno, oppure scene tratte dalla guerra di Troia. Il Metropolitan Museum di New York acquistò all’inizio del XX secolo gli affreschi staccati dal

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cubiculum M e ricostruí la stanza da letto, integrandola con i pezzi originali. La stanza con anticamera presenta composizioni architettoniche con vedute prospettiche di vari tipi di edifici; si vedono templi, recinti sacri, propilei, ma anche mura, torri, balconi, grotte.


Villa rustica del fondo Antonio Prisco

Un’altra fattoria che produceva soprattutto vino venne scoperta e scavata nel 1903. La forma irregolare della villa rustica è dovuta all’andamento della strada alla quale si addossa. L’ingresso principale si apriva su questa strada e conduceva direttamente in un ampio cortile. Sul lato opposto si trovava un’entrata secondaria. La parte orientale della villa era destinata alla produzione del vino ed era dotata di un grande vestibolo nel quale si rinvenne un carro da trasporto. Nel torcularium si pigiava e poi spremeva l’uva: il mosto defluiva in un apposito recipiente (dolium), che veniva poi trasportato nella cella vinaria, che si trovava probabilmente sul lato opposto del cortile. Gli ambienti meridionali erano ulteriori locali rustici, qui furono trovati attrezzi agricoli e tre dolia. Un piccolo bagno privato con frigidarium e calidarium a ipocausto e la cucina erano situati sulla parte occidentale del cortile. Nell’ambiente 13, generalmente interpretato come un grande capannone, qui si trovarono diversi dolia, oltre ai resti di sei persone e due cani che avevano cercato rifugio dall’eruzione del Vesuvio, ma morirono sotto le macerie della tettoia crollata. La villa aveva un piano superiore, raggiungibile da due scale, destinato ad abitazione.

Villa rustica in proprietà D’Acunzo

La villa produceva sicuramente vino come dimostra il torcularium per la pigiatura e la torchiatura dell’uva. Inoltre si trovarono una macina in pietra lavica, un deposito per il grano e un forno che servivano alla produzione di generi alimentari. Questi erano destinati al solo consumo degli abitanti o forse venivano venduti al dettaglio direttamente nella fattoria, come fanno pensare alcune iscrizioni dipinte su un pilastro.

Villa rustica in proprietà Risi Di Prisco

La villa fu individuata nel 1986 durante i lavori di sistemazione di un terreno agricolo. I successivi sondaggi hanno accertato che si trattava di una villa rustica di modeste dimensioni, databile nella sua prima fase edilizia alla seconda metà del I secolo a.C. Fin’ora si è potuto trovare solo un vestibolo scoperto, affiancato da un larario per il culto domestico e un altro ambiente di ignota funzione. Il larario fa pensare che la fattoria disponesse, oltre che del settore produttivo, anche di una zona padronale.

Qui sopra il cubicolo M della Villa di Publius Fannius Synistor, ricostruito nel Metropolitan Museum di New York, che ne ha acquistato gli affreschi di tardo Secondo Stile, databili al 50-40 a.C., staccati durante gli scavi di Vincenzo De Prisco. Nella pagina accanto, in alto due iscrizioni con dediche a Giove (in alto) e Venere, dal cortile della villa di Popidio Floro. Boscoreale, Antiquarium Nazionale. In alto, a destra statuetta in marmo bianco con monili in oro identificata con Bona Dea, dal larario della villa in proprietà Risi Di Prisco. I sec. d.C. Boscoreale, Antiquarium Nazionale.

Villa di Marcus Livius Marcellus

La villa rustica, trovata nel 1928, è attribuita a Marcus Livius Marcellus in base a un sigillo che porta il suo nome. Si conoscono solo alcuni ambienti destinati alla produzione del vino, scavati attraverso cunicoli sotterranei, poi reinterrati. A un grande cortile con alcuni dolia faceva seguito, verso est, il torcularium, mentre altre sale con pareti grezze seguivano a nord e facevano sicuramente parte della zona di produzione agricola. Il settore padronale si sviluppava forse verso sud, zona non ancora scavata.

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i tesori del re

Nato per iniziativa di un sovrano illuminato, Carlo III di Borbone, Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli è una delle piú importanti raccolte di antichità del mondo

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Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli in una fotografia del 1910. Il nucleo originario delle opere conservate nel Museo risale alla prima metà del 1700, per illuminata iniziativa del re Carlo III di Borbone che fece intraprendere scavi archeologici a Resina, Ercolano, Pompei e Stabiae.

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e origini della città di Napoli si perdono nella suggestione del mito, nel canto delle Sirene ammaliatrici, che, con la loro voce suadente e melodiosa, seducevano i marinai, i quali, non sapendo resistere al dolce richiamo, si lasciavano morire sugli scogli. Ma lo scaltro Ulisse, messo in guardia dalla maga Circe, tappò le orecchie dei compagni con la cera e si fece legare all’albero maestro della nave, riuscendo a sfuggire al mortale incanto. Ligea (dalla voce chiara), Leucosia (la bianca) e Partenope (la vergine) – questi erano i nomi delle tre Sirene –, disperate per non essere riuscite a sedurre Ulisse, si uccisero, gettandosi dagli scogli. Il corpo senza vita di Partenope fu trasportato dalle correnti e si arenò sul litorale della futura Napoli, nell’isolotto di Megaride, dove la sirena venne sepolta, onorata con un monumento e giochi ginnici. A testimoniare quanto sia ancora radicato il mito delle origini, è la definizione «partenopei» con cui, spesso, ci si riferisce agli abitanti della Napoli moderna. Intorno alla metà del VII secolo a.C., coloni provenienti da Cuma fondarono Parthenope, nell’area compresa tra l’isolotto di Megaride, occupato oggi da Castel dell’Ovo, e il Monte Echia, attuale collina di Pizzofalcone. Le fonti tramandano che il fiorente abitato fu abbandonato (o distrutto) dai Cumani e, comunque, intorno al 524 a.C., visse una fase di declino. Nel 470 a.C., all’indomani della battaglia di Cuma (474 a.C.), in cui gli Etruschi erano stati sconfitti delle truppe cumane e siracusane, coloni greci di Cuma fondarono Neapolis, «la città nuova» a oriente dell’antica Parthenope, che divenne, allora Palaepolis, «la città vecchia». Il nuovo insediamento acquistò subito un’importanza strategica, grazie alla sua posizione sul Golfo e alla fertilità del territorio. Neapolis non era una città belligerante, ma fu costretta a difendersi dai Sanniti che, nel 421 a.C., dopo avere soppiantato gli Etruschi nel predominio dell’entroterra, invasero i centri costieri. Cuma e Dicearchia (Pozzuoli) caddero subito, mentre Neapolis e Ischia riuscirono a evitare l’occupazione. Nel 326 a.C., nel corso della seconda guerra sannitica, Neapolis fu conquistata da Roma, ma ottenne lo status di

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| Il mito di Parthenope | «Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba. Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle delle notti serene, (…) quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata a un’altra ombra, è lei con il suo amante, quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire e impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale». (Matilde Serao, Leggende napoletane)

civitas foederata, che le permise di mantenere una certa autonomia sul piano istituzionale e l’uso della lingua greca. Per i Romani Neapolis era un importante veicolo della cultura e della civiltà ellenica, e, per questo, anche nei momenti in cui i rapporti tra le due città divennero tesi, Roma la rispettò sempre. Solo nel I secolo a.C., dopo l’82 a.C., venne punita duramente, quando Neapolis aveva raggiunto il suo massimo sviluppo, ma fece l’errore strategico di sostenere Mario nel corso della guerra civile. Molti cittadini furono uccisi, la flotta confiscata e la vecchia élite commerciale distrutta e sostituita da una nuova classe dirigente. Il flusso commerciale si spostò a Pozzuoli, avviando il lento declino di Neapolis, che divenne una tranquilla città dedita agli otia, molto apprezzata dai ricchi romani come luogo di diletto e di riposo.

Alla scoperta della città antica A chi, anticamente, veniva dal mare, Neapolis si presentava circondata da mura imponenti, con uno scenografico impianto urbanistico disposto su terrazzamenti che seguivano la morfologia del suolo, organizzato con una scacchiera regolare di isolati. Nel cuore del reticolo si trovava l’area forense, nella cui parte centrale del Foro erano ubicati il Macellum e il tempio dei Dioscuri, alle spalle il teatro e il teatro coperto, dove si svolgevano gare ginniche e musicali, che furono a lungo i

A destra testa maschile di un personaggio della famiglia giulio-claudia, forse Germanico, proveniente dal tempio rinvenuto in piazza Nicola Amore, durante i lavori per la costruzione della metropolitana.


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In alto pianta dell’antica città di Napoli, con il circuito delle mura (punteggiato in blu) e (in rosso) le strade orizzontali (plateiai) e verticali (stenopoi) che formavano una scacchiera regolare di isolati. Sono indicati alcuni dei monumenti piú importanti a oggi identificati: 1. teatro; 2. tempio dei Dioscuri; 3. resti del macellum (S. Lorenzo Maggiore). Le altre aree evidenziate in giallo si riferiscono a ritrovamenti effettuati in occasione dei lavori per la realizzazione della nuova linea della metropolitana. Qui sopra, da sinistra un tratto dei gradini in marmo della cavea del teatro greco-romano; uno dei capitelli del tempio di età giulio-claudia rinvenuto in piazza Nicola Amore, durante i lavori della metropolitana; resti delle mura greche di Neapolis.

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monumenti-simbolo della città. Il centro storico di Napoli, Castel dell’Ovo e l’altura di Pizzofalcone conservano ancora i segni dell’originario impianto urbanistico ellenico, leggibili in superficie e sottoterra, attraverso suggestivi percorsi nella Napoli sotterranea. Tratti delle mura greche, risalenti al V-IV secolo a.C., sono sparsi un po’ ovunque nella città. Per esempio a piazza Cavour, corrispondente a un’area un tempo situata alle pendici dell’acropoli, dove è stato messo in luce un lungo settore della fortificazione, alto circa 9 m, con blocchi di tufo che recano incisi i segni della cava, in forma di lettere greche. Dall’odierna piazza S. Gaetano, l’antica agorà greca, si entra nel complesso sotterraneo di S. Lorenzo Maggiore, nel quale sono comprese varie strutture pubbliche di epoca romana, tra cui il Macellum, il mercato della carne e del pesce. Una volta risaliti in superficie, si incontra l’imponente chiesa di S. Paolo Maggiore, eretta sopra un tempio romano del I secolo d.C. dedicato ai Dioscuri, i gemelli Castore e Polluce, figli di Giove, che, con Apollo e Demetra, erano le divinità protettrici di Neapolis. Vicino alla chiesa si apre uno degli ingressi alla Napoli sotterranea, un lungo percorso nelle gallerie di tufo della città, che furono sfruttate a vario titolo per secoli. Da un’entrata sotterranea di un edificio privato, si può accedere ai resti del teatro greco-romano, egregiamente conservato, il cui andamento anulare ha condizionato l’attuale via Anticaglia. Percorrendo via dei Tribunali si arriva al Duomo, dedicato a Maria Assunta, nei cui sotterranei sono visibili delle rovine di epoca paleocristiana, romana e greca.

Storia di una raccolta Il nucleo originario dell’attuale Museo Archeologico Nazionale di Napoli risale alla prima metà del Settecento e si deve alla politica illuminata del re Carlo III di Borbone, salito al trono di Napoli nel 1734. Erede per parte di madre – Elisabetta Farnese, nipote dell’ultimo duca di Parma – di una magnifica collezione di opere d’arte, il sovrano,

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In basso la Sala dei Grandi Bronzi nel Museo Archeologico in una fotografia di Giorgio Sommer, databile fra il 1857 e il 1914. I vecchi allestimenti erano caratterizzati dalla suddivisione dei reperti per classi di materiali, e non sulla base della loro provenienza.

desideroso di fare della sua corte un importante centro di riferimento culturale, nel 1738 affidò all’architetto Giovanni Antonio Medrano la costruzione della Villa Reale di Capodimonte dove collocare il nuovo Museo Farnesiano. Nello stesso anno il re avviò una felice campagna di scavi a Resina, sede di una delle residenze reali che corrisponde all’odierna Portici, nel medesimo sito in cui le esplorazioni condotte vent’anni prima dal principe d’Elboeuf avevano portato alla luce alcune sculture, confluite, poi, nella collezione della moglie di Carlo III, Maria Amalia Walpurga di Sassonia. Dalle nuove indagini emersero altre pregevoli statue, in marmo e in bronzo, oltre a importanti epigrafi, che ben presto si

rivelarono essere parte del ricco arredo della scena del teatro di Ercolano. Dieci anni piú tardi (1748) furono avviati anche gli scavi di Pompei e Stabiae, che arricchirono le collezioni del re di Napoli di una quantità di oggetti straordinari, come le statue e gli eccezionali rotoli di papiro rinvenuti nella Villa dei Papiri di Ercolano (1754-58). Gli scavi delle città vesuviane continuavano a restituire preziosi arredi, mosaici, suppellettili e soprattutto gli affreschi parietali, una nuova tipologia di reperti antichi che non era presente in nessuna raccolta europea. Si rese, pertanto,


necessario trovare al piú presto una sede adeguata per conservare i preziosi materiali e, a partire dal 1750, fu destinata a tale scopo la Villa Reale di Portici che costituí il nucleo storico del Museum Herculanense. Grazie alla politica illuminata del sovrano in campo culturale, Napoli, divenuta capitale del Nuovo Regno, fu tappa obbligata del Grand Tour, un percorso di erudizione che i colti aristocratici europei completavano in Italia per perfezionare le loro conoscenze.

Da Portici a Napoli Dopo la partenza di Carlo III per la Spagna, dove assunse il trono nel 1759, il suo successore, Ferdinando IV di Borbone, poiché il Museo di Portici cominciava a non essere piú in grado di contenere la grande quantità di reperti accumulati e, soprattutto, rischiava di essere sepolto da una nuova eruzione del Vesuvio, decise di riunire tutte le raccolte reali in un unico grandioso museo. Venne scelto il Palazzo degli Studi di Napoli, ubicato alle pendici della collina

In alto il Gran Salone della Meridiana. In primo piano, la meridiana realizzata su progetto dell’architetto Pompeo Schiantarelli, che succedette a Ferdinando Fuga nei lavori di ristrutturazione del Palazzo degli Studi in vista della sua destinazione a museo. L’orologio solare fu installato poiché si pensava di aprire nella sala un Osservatorio Astronomico.

di S. Teresa. Della ristrutturazione del fatiscente edificio fu incaricato il celebre architetto Ferdinando Fuga, a cui seguí, nel 1780, Pompeo Schiantarelli. L’anno seguente venne affrescata da Pietro Bardellino la volta del Gran Salone, dove il re e la consorte sono raffigurati allegoricamente come protettori delle arti. I fondi per il restauro cominciarono ben presto a mancare, soprattutto a causa del terremoto che colpí la Calabria nel 1783, ma Ferdinando IV volle ugualmente dare luogo al trasferimento nel nuovo Museo di Napoli della ricca collezione di antichità di Palazzo Farnese a Roma, ereditata da sua nonna Elisabetta Farnese. Questo difficoltoso passaggio, avviato nel 1787, durò diversi anni e fu accompagnato da vari progetti di ampliamento del museo, tutti, però, respinti per mancanza di finanziamenti, ragioni statiche e per le travagliate vicende politiche del tempo. La prima a essere aperta al pubblico, nel 1801, fu la Real Biblioteca di Napoli nel Gran Salone e poi, finalmente, nel febbraio del 1816, fu la volta del nuovo Real Museo Borbonico. Nel XIX secolo il museo continuò ad arricchirsi, sia con i reperti confluiti dalle collezioni private, sia con i materiali provenienti dalle località vesuviane. Con l’Unità d’Italia, il Real Museo Borbonico divenne proprietà dello Stato e cambiò nome in Museo Nazionale. Negli anni successivi, Giuseppe Fiorelli (1823-1896), l’illustre archeologo, ne fu nominato direttore (1863-75) e riordinò i reperti secondo un criterio tipologico. All’inizio del XX secolo, Ettore Pais procedette a una riorganizzazione dei materiali secondo criteri positivisti, con la divisione in contesti storici, topografici e cronologici. I reperti degli scavi vesuviani e campani continuavano, però, ad arrivare e ben presto il museo non fu piú in grado di contenerli. Si rese necessario, pertanto, trovare al piú presto una soluzione. Nel 1925 fu deciso di trasferire la Biblioteca nel Palazzo Reale di Napoli, e, nel 1957, la Pinacoteca nell’attuale Museo di Capodimonte. Nel Museo Nazionale rimasero cosí solo le collezioni di antichità e, dopo un nuovo allestimento dei materiali, nacque il Museo Archeologico Nazionale, nome tuttora in uso, con la sigla MAN o MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli).

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Dove e quando

itinerario di visita

museo archeologico nazionale Napoli, piazza Museo Nazionale, 19 Orario tutti i giorni, 9,00-19,30; chiusura settimanale: martedí; chiusura festiva: 1° gennaio, 1° maggio, 25 dicembre Info tel. 081 4422149

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l Museo Archeologico Nazionale di Napoli è una delle raccolte di antichità piú ricche al mondo. Nel 2012 sono stati avviati importanti lavori di ristrutturazione dell’edificio per consentire la totale riorganizzazione delle collezioni, con l’allestimento di nuovi percorsi, che prevedono anche l’esposizione di molti dei preziosi reperti attualmente custoditi nei depositi. La conclusione del riordino del piano terra è prevista per il 2015.

Una sala del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. In primo piano è il gruppo noto come «Ettore e Troilo», ma che, piú probabilmente, raffigura Neottolemo e Astianatte (o Achille e Troilo). Inizi del III sec. d.C.


Piano terra

statue da Ercolano N

ell’atrio monumentale vengono esposte alcune delle piú importanti statue recuperate in età borbonica nel teatro e nell’Augusteum di Ercolano. Dal Foro di Ercolano provengono, verosimilmente, le due statue

A destra statua dell’imperatore Claudio, in trono come Giove, dal teatro di Ercolano. A sinistra statua loricata dell’imperatore Tito dall’Augusteum di Ercolano. Entrambe le sculture, conservate nell’Atrio monumentale del Museo Archeologico, sono state rinvenute durante gli scavi di epoca borbonica.

equestri di Nonio Balbo, erette l’una dai Nucerini, l’altra dagli Ercolanesi per commemorare il piú grande benefattore della città. Nel teatro, invece, erano collocate le statue di importanti notabili locali che si erano distinti per opere meritevoli, quali Nonio Balbo, raffigurato in nudità eroica, M. Calatorius Quarto e L. Mammius Maximus, un ricco liberto che finanziò, tra l’altro, il restauro del mercato cittadino, il macellum. Nel teatro erano presenti anche le statue in bronzo di alcuni membri della famiglia imperiale: Tiberio, raffigurato con la toga, Agrippina Minore (madre di Nerone), Antonia Minore (madre di Claudio) e Livia (moglie di Augusto e madre di Tiberio). Dall’Augusteum proviene un ciclo di statue imperiali, la maggior parte delle quali è stata donata dal liberto L. Mammius Maximus. Riconosciamo le due statue in trono come Giove degli imperatori Augusto e Claudio, altre due immagini in bronzo degli stessi imperatori, e la statua loricata dell’imperatore Tito, raffigurato poco dopo l’ascesa al trono. Anche i quattro grandi affreschi esposti in questo cortile provengono dall’Augusteum.

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itinerario napoli

Piano terra

scultura antica dalla Campania Afrodite di Capua Trovata durante gli scavi del Settecento nell’anfiteatro di Capua, Afrodite è rappresentata stante, sulla gamba destra e con il piede sinistro poggiato sull’elmo di Ares. La dea, seminuda, è vestita solo con un mantello che copre la parte inferiore del corpo. Le due braccia sono protese in avanti e reggevano lo scudo di Ares, oggi perduto, nel quale la dea si specchiava. Si tratta di un’opera di età adrianea rielaborata da un originale greco in bronzo della fine del IV secolo a.C. La statua presenta diversi restauri nelle braccia e nel viso risalenti al 1820.

Afrodite Sosandra

In alto l’Afrodite di Capua, rielaborazione di età adrianea di un originale greco della fine del IV sec. a.C., rinvenuta nell’anfiteatro di Capua. La statua è stata messa a confronto con la Vittoria Alata di Brescia, inizialmente Afrodite a cui vennero aggiunte le ali, forse proprio un originale ellenistico del III sec. a.C. A destra l’Afrodite Sosandra (protettrice degli uomini) dal teatro-ninfeo di Baia.

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La statua, alta 183 cm, fu trovata negli anni Cinquanta del XX secolo nell’area del teatro-ninfeo a Baia. La dea, «protettrice degli uomini», poggia sul piede sinistro e ha il destro leggermente aperto che sporge in avanti. Afrodite indossa un chitone, di cui si vede solo un lembo all’altezza dei piedi, e un pesante mantello che ricopre tutta la figura, velando anche il capo. Si tratta della copia romana dell’opera bronzea di stile severo che lo scultore greco Kalamis realizzò intorno al 465 a.C. per i Propilei sull’Acropoli di Atene. Data la ruvidezza del marmo con cui è stato scolpito il mantello, è probabile che la statua non fosse ultimata e aspettasse ancora la politura. Questo dettaglio potrebbe indicare come luogo di produzione una bottega locale di Baia.


A destra Doriforo (portatore di lancia) dalla Palestra Sannitica di Pompei, splendida copia, forse del I sec. a.C., dall’originale realizzato da Policleto nel 440 a.C. In basso il Toro Farnese, gruppo colossale dalle terme di Caracalla a Roma con i gemelli Anfione e Zeto che legano Dirce a un toro.

Doriforo Il Doriforo, il «portatore di lancia», trovato a Pompei presso la Palestra Sannitica, è un’eccellente replica dell’originale bronzeo eseguito da Policleto intorno al 440 a.C. La copia di Pompei sembra risalire al I secolo a.C., ma è ancora in discussione se fosse stata eretta prima o dopo la risistemazione della zona del Foro Triangolare in età augustea. La statua del giovane atleta con la lancia era considerata già in antichità come l’ideale in quanto ad armonia e misura della rappresentazione del corpo nudo maschile, basato su un modulo matematico. In epoca romana fu fra le statue piú copiate, e, delle numerose repliche pervenuteci, il Doriforo di Pompei è una delle migliori.

Piano terra

Collezione Farnese N

el Cinquecento papa Paolo III Farnese cominciò a collezionare antichità romane per la sua residenza romana, Palazzo Farnese, oggi sede dell’Ambasciata di Francia. Scavi nelle terme di Caracalla portarono alla luce grandiose sculture e costituirono il cuore della collezione che andava formandosi. Fu in primo luogo il cardinale Alessandro Farnese, nipote di Paolo III, a incrementare notevolmente la raccolta che, già verso alla fine del XVI secolo, poteva contare su oltre 400 sculture. Poco prima di morire, Alessandro dispose, nel suo testamento, l’inalienabilità della raccolta e la sua perpetua permanenza a Roma. Con Elisabetta si estinse nel 1731 la dinastia Farnese e l’eredità della famiglia passò nelle mani del marito, Filippo V di Spagna. Il loro figlio Carlo Borbone fondò il nuovo Regno di Napoli nel 1734 e cominciò a trasferire le antichità dalle residenze dei Farnese nella Villa Reale di Capodimonte, in fase di costruzione. Sull’importantissima collezione romana, invece, non osò mettere mano, troppo forte era ancora il peso della clausola testamentaria del suo antenato.

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Solo nel 1787, il nuovo re Ferdinando IV, nonostante le proteste dello Stato pontificio, fece trasferire le statue a Napoli.

Toro Farnese Il gruppo colossale, tratto da un unico blocco di marmo di quasi 3 x 3 m e alto 3,70 m, è la piú grande scultura antica a oggi nota. Trovata nel 1546 nelle terme di Caracalla a Roma in diversi frammenti, fu portata a Palazzo Farnese e, nel 1788, a Napoli, per volontà di re Ferdinando IV. La datazione è tuttora discussa. Plinio il Vecchio ricorda un capolavoro degli scultori Apollonio e Taurisco di Rodi, eseguito nel II secolo a.C. in un unico blocco di marmo e in seguito, verso la fine del I secolo a.C., trasportato a Roma per arricchire la collezione del politico e uomo di cultura Asinio Pollione. Probabilmente, invece, si tratta di una copia di

età severiana, commissionata per le nuove terme di Caracalla. Il gruppo colossale raffigura il supplizio di Dirce. I gemelli Anfione e Zeto erano il frutto dell’amore di Zeus e della bellissima Antiope. Dopo la morte del padre, la bella Antiope venne accolta nella casa di suo zio Lico, re di Tebe, i gemelli, invece, furono abbandonati nelle montagne. A Tebe Antiope subí continui maltrattamenti da parte di Dirce, la moglie del re, gelosa della sua straordinaria bellezza. Per vendicare la madre, Anfione e Zeto legarono Dirce a un toro inferocito.

Ercole Farnese La statua colossale (alt. 3,17 m) dell’Ercole Farnese fu trovata nel cortile di una palestra delle terme di Caracalla a Roma verso la metà del Cinquecento. Si tratta di una riproduzione, a grandezza maggiore, databile all’età severiana (primo quarto del III secolo d.C.) di una scultura in bronzo creata nel IV secolo a.C. da Lisippo. Sotto la clava, sulla roccia, è inciso il nome dell’autore della replica: Glicone di Atene. Ercole, stanco, si riposa poggiandosi sulla sua clava, ricoperta dalla pelle leonina. Nella mano destra dietro la schiena tiene i pomi delle Esperidi. Lo sguardo raccolto e la testa inclinata sottolineano la stanchezza dell’eroe che aveva appena terminato la sua undicesima fatica: reggere per un momento il cielo al posto di Atlante per ottenere i pomi d’oro dal giardino delle Esperidi. Ercole deve riposarsi e riprendere forza perché lo aspetta l’ultima e anche la piú dura delle fatiche: battersi con Cerbero, il mostruoso cane a tre teste alla guardia dell’Ade.

Artemide di Efeso La statua, alta 1,30 m, è scolpita in prezioso alabastro; la testa, le mani e i piedi sono in bronzo e fanno parte di un restauro di Giuseppe Valadier, eseguito in occasione del

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In alto l’Artemide di Efeso, copia romana del simulacro della dea collocato nel celebre santuario efesino, realizzata in alabastro. Mani, piedi e testa sono in bronzo, frutto di un restauro di Giuseppe Valadier. A sinistra l’Ercole Farnese, statua colossale rinvenuta nel cortile di una palestra delle terme di Caracalla, replica ingrandita del III sec. d.C. di una scultura del IV sec. a.C. di Lisippo.


A destra i Tirannicidi, statue di Armodio e Aristogitone, uccisori di Ipparco, figlio del tiranno Pisistrato. Copia dell’opera eseguita nel 477 a.C., dagli scultori Kritios e Nesiotes. In basso Venere Callipigia (dalle belle natiche), copia da un originale in bronzo del III sec. a.C., rinvenuta a Roma, forse negli scavi della Domus Aurea.

trasferimento dell’opera da Roma a Napoli. Si tratta di una copia del simulacro di Artemide collocato nel famoso santuario efesino della dea, una delle sette meraviglie del mondo antico, molto noto anche in epoca romana. La dea poggia su entrambi i piedi in modo molto rigido e protende le braccia. Protomi di leoni, tori, cavalli alati, sfingi e api ornano la parte inferiore del mantello, dalla vita in giú. Il busto è ornato da quattro file di curiose protuberanze che vengono interpretate come mammelle o come scroti dei tori sacrificati, e sono sicuramente un simbolo di fecondità. Sul petto Artemide indossa un pettorale con alcuni segni zodiacali, mentre sulla sua testa poggia un copricapo cilindrico a forma di torre o di tempio. La testa della divinità è, inoltre, circondata da un grande disco con protomi di leoni alati.

I Tirannicidi Le statue di due uomini di diversa età in movimento sono collocate su due diverse basi, ma facevano certamente parte di un unico gruppo. Il piú giovane, imberbe, è rappresentato nel momento dell’attacco, mentre fa un passo in avanti e alza il braccio con la spada in mano per colpire. Il secondo uomo, piú maturo e con barba, tende il braccio sinistro in avanti, stringendo la spada per proteggere il compagno. Si tratta di un gruppo marmoreo dell’inizio del II secolo d.C., trovato nel Cinquecento a Villa Adriana, a Tivoli, che fu esposto a Roma, prima a Palazzo Madama, poi a Palazzo Farnese, e quindi trasportato a Napoli nel 1790. Nel 514 a.C., Armodio e Aristogitone uccisero Ipparco, il figlio del tiranno Pisistrato, dando il via alla liberazione di Atene che nel 510 cacciò per sempre i tiranni. Subito dopo, lo scultore Antenore eresse due statue bronzee nell’Agorà di Atene, per onorare i tirannicidi. Durante il saccheggio della città nel 480 a.C., i Persiani presero le statue e le portarono a Susa, dove rimasero fino alla caduta dell’impero

persiano, per poi essere restituite agli Ateniesi dai successori di Alessandro Magno. Nel frattempo, nel 477 a.C., Kritios e Nesiotes plasmarono un nuovo gruppo bronzeo dei tirannicidi che divenne ben presto simbolo di libertà e patriottismo e di cui i tirannicidi della collezione Farnese sono una copia in marmo.

Venere Callipigia La Venere «dalle belle natiche» è la copia romana di un originale greco in bronzo del III secolo a.C. La statua fu trovata acefala nel Cinquecento a Roma, ma non è certo se durante gli scavi della Domus Aurea, come viene spesso riportato. La scultura fu completata, in epoca rinascimentale, con una testa moderna e collocata a Palazzo Farnese. In occasione del trasferimento a Napoli nel 1786, fu restaurata nuovamente da Carlo Albacini il quale aggiunse una nuova testa e diversi parti del corpo: le spalle, il braccio sinistro e un lembo del peplo. La dea è raffigurata nell’atto di sollevare la veste con la mano sinistra, mentre si volge indietro ad ammirare le sue natiche. Lo sguardo tende ad accentuare l’erotismo dell’atto, che, però, è dovuto al restauro moderno della testa e potrebbe non rispecchiare la creazione originale.

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Piano ammezzato

collezione dei mosaici In alto il Mosaico di Alessandro, dalla Casa del Fauno. L’opera, copia di un celebre dipinto ellenistico, raffigura il Macedone che si scaglia contro il re persiano Dario III. Il contesto è, probabilmente, la battaglia di Isso, combattuta nel 333 a.C. In basso rilievo in marmo con scena erotica.

I

n queste sale sono esposti i mosaici rinvenuti negli scavi di Pompei ed Ercolano, con una sezione dedicata alle decorazioni musive della Casa del Fauno di Pompei, scavata negli anni 1830-32. I soggetti ruotano intorno al mondo di Dioniso e del teatro greco, ma presentano anche scene di ambiente egizio con paesaggi nilotici e nature immaginarie.

Mosaico di Alessandro Il grande mosaico, di 5,5 x 3 m, venne trovato in un’esedra vicino al peristilio centrale della Casa del Fauno a Pompei. È stato realizzato con la tecnica dell’opus vermiculatum, ed è

composto da circa un milione di minuscole tessere di marmo pregiato. La scena rappresenta Alessandro Magno in sella al suo cavallo Bucefalo, che, con i suoi soldati, si scaglia contro il re di Persia Dario III, in fuga sul carro. I Persiani rompono le righe e, come il loro sovrano, si apprestano a fuggire. Sull’esito della battaglia non rimangono dubbi: il Macedone conquista l’Asia. Si tratta, presumibilmente, della battaglia di Isso che, nel 333 a.C., mise fine all’impero persiano. Il mosaico della Casa del Fauno è la copia fedele di un famoso dipinto di età ellenistica della seconda metà del IV secolo a.C.

Piano ammezzato

gabinetto segreto Q

uando nel Settecento, durante gli scavi di Pompei, cominciarono ad affiorare statuette e dipinti di esplicito soggetto erotico, l’imbarazzo fu enorme e molti di questi reperti vennero fatti sparire, se non addirittura distrutti. Furono, comunque, nascosti agli occhi dei visitatori in una sala chiusa del Museo di Portici, alla quale si poteva accedere solo con un permesso speciale della corte. Con la creazione del nuovo Real Museo Borbonico a Palazzo degli Studi

prese corpo l’idea di aprire al pubblico questa collezione segreta, ma ben presto il moralismo ebbe la meglio e i reperti in questione furono rinchiusi in un apposito «gabinetto degli oggetti osceni». Nell’Ottocento con il prevalere del puritanesimo, il gabinetto fu addirittura murato e finí nell’oblio. Solamente nel 1967 ci si ricordò dei reperti incriminati che vennero, allora, resi accessibili al pubblico, ma sempre su richiesta. Dopo un riallestimento negli anni Novanta del XX secolo, il gabinetto segreto è


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Gran Salone della Meridiana I

l Gran Salone, che misura oltre 1000 mq di e 20 m di altezza, fu costruito all’inizio del Seicento per ospitare la libreria pubblica, ma rimase a lungo incompiuto. La biblioteca aprí al pubblico solo nel 1783, anche se la sistemazione dei libri e ulteriori trasformazioni si protrassero fino al 1804. In quegli anni Pompeo Schiantarelli realizzò una meridiana lunga 27 m, con medaglioni che raffigurano i segni zodiacali. Nel 1925 la Biblioteca fu trasferita nel Palazzo Reale e oggi il Gran Salone è parte integrante del museo.

Atlante Farnese La statua raffigura il titano Atlante punito da Zeus per essersi ribellato agli dèi dell’Olimpo e condannato a sorreggere la volta celeste. È la copia romana di un originale ellenistico del II secolo d.C. Sul globo sono raffigurate le costellazioni zodiacali. L’Atlante Farnese, esposto nel Gran Salone della Meridiana. Sul globo sono raffigurate le costellazioni zodiacali sulla base, forse, del famoso catalogo stellare di Ipparco di Nicea, scritto intorno al 129 a.C.

ora aperto al pubblico, ma sempre con una punta di riserbo: è necessaria, infatti, una prenotazione, per turno d’entrata, al punto informazioni del museo. Nel gabinetto sono esposti affreschi da Pompei ed Ercolano con la raffigurazione di alcune scene mitologiche piccanti: l’accoppiamento di Leda con Zeus nelle sembianze di un cigno, Dafne che si trasforma in alloro per fuggire alle avances di Apollo, Ermafroditi nudi, le Tre Grazie durante il ballo, Priapo, Pan e satiri

itifallici. Dalla Villa dei Papiri di Ercolano proviene, in particolare, un gruppo marmoreo in cui è rappresentato Pan che si accoppia con una capra, replica romana di un originale di età ellenistica. Questa scultura era fra gli oggetti piú nascosti in età borbonica, persino Johann Joachim Winckelmann non riuscí a vederla. Nel gabinetto segreto si trovano anche gli affreschi provenienti dai lupanari di Pompei che raffigurano in modo esplicito diversi tipi di amplessi sessuali.

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affreschi vesuviani C

onosciamo la pittura romana quasi esclusivamente dalle città sepolte dal Vesuvio. Salvo poche eccezioni, infatti, solo in quest’area le particolari condizioni atmosferiche hanno conservato i fragilissimi pigmenti dei colori antichi, tramandando ai posteri la piú celebre e ricca collezione di affreschi romani. Nel museo di Napoli, come in nessun altro al mondo, è possibile seguire l’evoluzione e le mode della pittura romana dal I secolo a.C. fino al tragico evento del 79 d.C.

Medaglione con giovane donna, la cosiddetta Saffo

Terentius Neo e la moglie

Da Pompei. Regio VI, insula Occidentalis. Quarto stile. Età claudia. Trovato nel 1760 a Pompei, il medaglione con il ritratto di una giovane donna, in atteggiamento riflessivo, con uno stilo nella mano destra e le tavolette cerate nella sinistra, è fra i dipinti piú celebri di tutta l’antichità romana. L’affresco faceva pendant con un ritratto maschile non pervenutoci ed entrambi raffiguravano sicuramente una coppia di cultura e di rango sociale elevato. È invece da escludere l’identificazione con la poetessa greca Saffo.

Ercole e Telefo Al centro quadretto con coppia di coniugi, dalla Casa di Terentius Neo a Pompei. In alto il ritratto femminile convenzionalmente identificato con la poetessa Saffo, un’attribuzione ormai sicuramente scartata dagli studiosi.

Da Pompei, dalla parete di fondo della Casa di Terentius Neo. Quarto Stile, età neroniana. Il quadretto ritrae una coppia benestante e colta, probabilmente il proprietario della casa e sua moglie. La donna esibisce un’acconciatura sofisticata, tipica dell’età neroniana, e indossa orecchini in oro con perle e una collana di perle; con la mano sinistra tiene alcune tavolette cerate e con la destra uno stilo che poggia sul mento in una posa riflessiva. L’uomo in toga bianca ha nella mano destra un rotolo di pergamena che mette ben in vista.

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Da Ercolano. Augusteum. Quarto Stile, età claudia o flavia. Si tratta della copia di un celebre affresco di Apelle che si trovava in un tempio sull’Aventino a Roma, come ci racconta Plinio il Vecchio. Vi è raffigurato Ercole, di spalle, che guarda in basso verso sinistra dove una cerva allatta il piccolo Telefo, vicino all’aquila di Zeus e al leone di Nemea. La figura femminile centrale è una personificazione seduta dell’Arcadia. Il soggetto di Eracle nell’edificio dedicato al culto degli imperatori richiamava decisamente il mito della fondazione di Ercolano.


Achille e Chirone Da Ercolano. Augusteum. Quarto Stile, età claudia o flavia. L’affresco raffigura il centauro Chirone che insegna al giovane Achille a suonare la lira (vedi foto a p. 70).

Bacco e il Vesuvio Rissa tra Pompeiani e Nucerini

Da Pompei, larario di un atrio di servizio della Casa del Centenario. Quarto Stile. Al centro dell’affresco è rappresentato un monte isolato, con filari di viti alle pendici. Sulla sinistra vediamo Dioniso (o Bacco) in piedi, avvolto in un grande grappolo d’uva, con il tirso e il kantharos nelle mani e la pantera ai piedi. In basso si trova un serpente in movimento verso un altare sulla destra; in alto una ghirlanda con uccelli. Di solito il dipinto viene interpretato come un’immagine del Vesuvio prima dell’eruzione e perciò a una sola cima, con Bacco sulla sinistra che simboleggia la terra fertile della zona vesuviana. Un’altra lettura vi riconosce il monte Nisa, sul quale Dioniso trascorse la sua giovinezza.

Da Pompei, peristilio della Casa della Rissa nell’Anfiteatro (I, 3, 23). Quarto Stile. L’affresco ritrae la grande rissa nell’anfiteatro tra gli abitanti di Pompei e quelli della vicina città di Nuceria, scoppiata durante i giochi gladiatori nel 59 d.C. Tacito racconta: «Nello stesso lasso di tempo per lievi motivi scoppiò un conflitto feroce tra gli abitanti di Nocera e quelli di Pompei a proposito d’uno spettacolo di gladiatori (…) La gente, con la mancanza di freni tipica di quelle città, incominciò con lo scambio di ingiurie, poi passò alle pietre, e finirono con l’impugnare le armi; ed ebbe la meglio la plebe di Pompei, dove aveva luogo lo spettacolo. Di conseguenza molti dei Nucerini tornarono nella loro città con il corpo coperto di ferite, la maggior parte piangendo la morte di figli o di genitori. Il principe [Nerone] deferí il giudizio sul fatto al Senato, il Senato ai consoli; poi la cosa tornò ai Padri Coscritti e ai Pompeiani furono vietate per dieci anni riunioni del genere; e le loro associazioni, create illegalmente, furono sciolte» (Annali XIV, 17). Il dipinto ci fa vedere a volo d’uccello la rissa cominciata dentro l’anfiteatro e presto diffusasi nelle strade limitrofe, in modo molto realistico ma priva di prospettiva.

Qui accanto l’affresco che raffigura con vivace realismo la rissa scoppiata tra Pompeiani e Nucerini nell’anfiteatro di Pompei nel 59 d.C. A sinistra affresco a soggetto dionisiaco con la raffigurazione di un monte tradizionalmente identificato con il Vesuvio.

Megalografia dalla villa di Publius Fannius Synistor La villa di Publius Fannius Synistor a Boscoreale fu scavata alla fine dell’Ottocento, in seguito reinterrata. Gli affreschi del tardo Secondo Stile (50-40 a.C.) furono staccati e venduti in tutto il mondo. Il Museo di Napoli conserva una megalografia di soggetto storico proveniente dall’oecus, che è uno dei piú importanti esempi conservati della pittura di Secondo Stile (vedi foto alle pp. 112-113).

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Villa dei Papiri L

a Villa dei Papiri ha restituito uno straordinario arredo con 65 statue in bronzo, 28 in marmo e soprattutto i quasi 1800 rotoli di papiro. Le sculture fanno parte del programma figurativo voluto dal ricco e colto personaggio che fu proprietario della villa in età tardo-repubblicana e augustea. Molti ritratti di uomini famosi, in primo luogo filosofi e oratori, insistono sulla cultura letteraria e storica e le repliche di famosissime statue del mondo greco, classico ed ellenistico,

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rivelano il gusto eclettico e sofisticato del padrone. I temi atletici rimandano al mondo agonistico e del ginnasio, mentre il folto repertorio dionisiaco lascia intendere che la natura selvaggia, il superamento delle regole, l’ebbrezza della vita, facevano parte anche dell’uomo piú civilizzato. I papiri, perlopiú con testi greci di filosofia epicurea, sono oggi custoditi nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel Museo Archeologico, ne sono esposti, a titolo esemplificativo, due, insieme ad alcune foto degli altri.

In basso la sala in cui sono riunite le sculture provenienti dalla Villa dei Papiri. In primo piano, l’Hermes a riposo.


moglie. Negli inferi Zeus condannò ulteriormente le Danaidi, costringendole a riempire d’acqua ininterrottamente una botte senza fondo. Le cinque statue in bronzo della Villa dei Papiri sono copie di età augustea da originali greci della prima metà del V secolo a.C. e presentano cinque donne vestite di peplo in diverse posture.

Lo Pseudo-Seneca

In alto il volto di uno dei corridori trovati nel peristilio della Villa dei Papiri. In basso, a destra il ritratto noto come Pseudo-Seneca.

I corridori Famosissimi, i due corridori vengono spesso rappresentati in spettacolari immagini davanti all’eruzione del Vesuvio, come se fuggissero dalla lava per mettersi in salvo. Le due statue, invece, raffigurano giovani atleti al momento della partenza in una gara di corsa. Erano collocati nel peristilio-ginnasio della Villa dei Papiri dove furono scoperti durante gli scavi borbonici. L’originale di questi bronzi è da ricercare in età ellenistica, verso la fine del IV secolo a.C., intorno alla cerchia di Lisippo.

Le Danaidi Nella Villa dei Papiri si trovarono cinque statue femminili, identificate subito come «danzatrici». Piú probabile è invece l’identificazione di questi bronzi con cinque delle cinquanta figlie di Danao, prima re della Libia, poi, lasciata l’Africa, divenuto re di Argo in Grecia. Le Danaidi vennero costrette a sposare i cinquanta figli del re d’Egitto, ma presto si ribellarono uccidendo ognuna il proprio consorte, salvo Ipermnestra che amava davvero il marito, Linceo. Quest’ultimo vendicò i suoi fratelli e sterminò le quarantanove donne, risparmiando solo sua

Di questo ritratto esistono molte repliche, le prime già conosciute nel Cinquecento, quando fu identificato con Seneca, il famoso filosofo stoico del I secolo d.C. Nel 1754 si trovò un bellissimo esempio del busto in bronzo nella Villa dei Papiri a Ercolano, databile in età augustea. Già Winckelmann cominciò a dubitare che si trattasse di Seneca, ma solo nel 1813 l’attribuzione cadde definitivamente. Fu scoperta un’erma, corredata da un’iscrizione, con un ritratto di Seneca del tutto differente da questo. Da allora sono stati fatti numerosi tentativi d’identificazione senza, però, arrivare a un risultato convincente. Si tratta, probabilmente, del ritratto immaginario di un poeta o di un filosofo greco famoso realizzato in bronzo intorno al 200 a.C. e poi copiato abbondantemente in epoca romana.

Hermes in riposo Hermes appare giovanissimo, seduto in riposo su una roccia (restaurata), la gamba destra posta in avanti, la sinistra flessa e raccolta sotto il corpo. Solo i sandali alati lo identificano come messaggero degli dèi. È probabile si tratti dell’adattamento tardorepubblicano o augusteo di un Hermes creato da Lisippo nel IV secolo a.C. La statua era collocata nel grande peristilio della Villa dei Papiri e rappresentava l’ideale dell’otium, del dolce riposo.

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santuario di Iside a Pompei N

el museo è stato ricomposto l’arredo dell’Iseo di Pompei, trovato in età borbonica. L’edificio è situato nella zona del Foro Triangolare e risale al II secolo a.C. Dopo il terremoto del 62 d.C. il santuario fu completamente rifatto. L’area sacra era protetta da un alto muro, accessibile solo a una ristretta cerchia di fedeli. La preziosa decorazione con pitture e stucchi che abbelliva tutti gli ambienti apparve ancora perfettamente intatta agli scavatori del XVIII secolo ed ebbe una grande risonanza in tutta Europa. La scoperta del santuario di Iside a Pompei contribuí al dilagare di quel fenomeno culturale noto come «egittomania». Le sale dedicate all’Iseo espongono la decorazione architettonica sopravvissuta, ma anche disegni settecenteschi di mosaici e affreschi distrutti o scomparsi, insieme a oggetti di culto. Ben conservata è la fastosa decorazione di Quarto Stile dell’ekklesiasterion con grandi affreschi raffiguranti paesaggi

A sinistra statua di Iside. La dea ha nella mano sinistra un ankh, simbolo di vita, mentre la destra, protesa, reggeva un oggetto oggi perduto.

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egiziani e il mito della ninfa Io. Di rilievo è anche la statua di Iside, vestita di una tunica e di un mantello che le copre le spalle. Nella mano sinistra tiene un ankh, un simbolo della vita, mentre la destra è protesa e reggeva un oggetto perso.


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plastico di Pompei In basso il plastico in scala 1:100 di Pompei, realizzato da Felice Padiglioni su incarico di Giuseppe Fiorelli.

G

iuseppe Fiorelli incaricò Felice Padiglioni di realizzare un plastico di Pompei in scala 1:100, con gli edifici scavati fino all’anno 1879. Il plastico, in compensato, sughero, intonaco e carta, misura 8 x 5 m e rende con incredibile precisione anche le decorazioni parietali e pavimentali. Si tratta di un documento importantissimo, che fotografa la realtà archeologica verso la fine dell’Ottocento.

per saperne di piÚ • Maria Paola Guidobaldi, Domenico Esposito, Ercolano. Colori da una città sepolta, Arsenale, San Giovanni Lupatoto, 2012 • Storie da un’eruzione. Pompei, Ercolano, Oplontis (catalogo della mostra) Mondadori Electa, Milano 2003 • Amedeo Maiuri, Pompei ed Ercolano. Fra case e abitanti, Giunti, Firenze 1998 • Dieter Richter, Vesuvio, Arte’m, Napoli 2010 • Fabrizio Pesando, Maria Paola Guidobaldi, Pompei, Oplontis, Ercolano, Stabiae, Guide Archeologiche Laterza, Roma-Bari 2006 Ercolano • Piccola guida a Ercolano, Nola 2011 • Maria Paola Guidobaldi Ercolano. Guida agli scavi, Napoli 2006, ristampa 2013 • Maria Paola Guidobaldi (a cura di), Ercolano. Tre secoli di scoperte (catalogo della mostra), Electa, Napoli 2008 Ville d’otium, ville rustiche • Piccola guida agli scavi di Oplontis, Nola 2011 • Oplontis. 40 anni di ricerche (catalogo della mostra), Castellammare di Stabia 2004 • Grete Stefani (a cura di), Uomo e ambiente nel territorio vesuviano. Guida all’Antiquarium di Boscoreale, Pompei 2002 • Vincenzo Scarano Ussani (a cura di), Moregine. Suburbio «portuale» di Pompei, Loffredo, Napoli 2005 • Otium ludens. Stabiae, cuore dell’impero romano (catalogo della mostra), Nicola Longobardi Editore, Castellammare di Stabia 2009 Museo Archeologico Nazionale di Napoli • Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Guida, Napoli 2009, ristampa 2012 • Valeria Moesch, (a cura di), fotografie di Luigi Spina, La Villa dei Papiri, Electa, Napoli 2009 • Stefano De Caro, fotografie di Luciano Pedicini, Museo Archeologico Nazionale, Electa, Napoli 2001

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La Villa dei Papiri Con il suo eccezionale apparato scultoreo e le migliaia di rotoli venuti alla luce nel corso degli scavi borbonici, la Villa dei Papiri rappresenta una scoperta archeologica sensazionale sia per la qualità e l’ingente numero delle opere recuperate, sia per la documentazione tangibile che ci offre di un tipico esempio di villa d’otium in cui il proprietario, senza dubbio un esponente di rilievo dell’élite cesariana o proto-augustea, esibisce nella scelta dell’arredo un orientamento culturale marcatamente filelleno. L’esplorazione della grandiosa residenza con il sistema di pozzi e cunicoli ebbe inizio nel 1750 e si protrasse fino al 1761, quando, a causa delle esalazioni di gas, i lavori vennero interrotti. Nel periodo 1763-64 ci fu una breve ripresa delle indagini, ma, non essendo emerso alcun reperto di rilievo, si procedette alla chiusura definitiva dello scavo e dei pozzi d’entrata. Le trascrizioni, i rilievi e i disegni dello scavo borbonico, tra cui spicca la planimetria realizzata da Karl Weber, l’ingegnere militare che dal 1750 affiancò Roque Joaquín Alcubierre nelle indagini, sono ancora oggi considerati di fondamentale importanza per ricostruire le fasi dello sterro settecentesco e identificare i materiali scoperti. Proprio basandosi su questa ricca documentazione, il petroliere John Paul Getty fece realizzare il suo museo a Malibú ricostruendo fedelmente nella struttura architettonica e negli arredi la Villa dei Papiri. Mettendo insieme le informazioni contenute nelle fonti d’archivio settecentesche è stato possibile appurare che nella stagione dello scavo borbonico furono rinvenute 93 sculture, di cui 65 in bronzo e 28 in marmo, 82 delle quali sono conservate oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, mentre le altre 11 sono disperse. Si tratta, nel complesso, di copie da originali ellenistici del IV-III secolo a.C. databili nel terzo quarto del I secolo a.C. All’epoca, inoltre, furono scoperti alcuni frammenti pittorici, distaccati dal piano nobile della villa e conservati anch’essi a Napoli, e 1826 frammenti di rotoli di papiro carbonizzati, custoditi attualmente nell’Officina dei Papiri Ercolanesi nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che raccolgono soprattutto scritti greci di filosofia epicurea. L’analisi dei testi ha consentito di stabilire che nella villa soggiornò per un certo periodo Filodemo di Gadara, un seguace di Epicuro vissuto tra la fine del II e la seconda metà del I secolo a.C., molto legato ai rappresentanti dell’élite senatoria romana e in particolare al suocero di Cesare, nonché console del 58 a.C., L. Calpurnio Sulle due pagine ricostruzione virtuale della Villa dei Papiri. Dopo gli sterri d’epoca borbonica, nuove indagini hanno meglio precisato l’articolazione del complesso.

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Il Peristilio rettangolare

Il peristilio rettangolare si estendeva nel settore nord-occidentale della villa, tra il vasto giardino che si chiudeva con il belvedere circolare e il quartiere del peristilio quadrato. L’area centrale dell’ambiente era occupata da una grande piscina dai lati corti absidati. Nel grande peristilio le opere esposte erano raggruppate in serie omogenee dal punto di vista semantico. I soggetti dionisiaci, frequentemente documentati a decoro dei giardini, sono evidenziati dalla presenza in punti cardine del peristilio delle statue di Satiri e di Pan, mutuati da modelli ellenistici. Allude invece al ginnasio la coppia di corridori in bronzo rinvenuti, uno nell’emiciclo occidentale della natatio, l’altro tra la natatio e il portico occidentale (vedi anche a p. 139). Richiamo evidente al mondo ellenistico è la straordinaria serie di erme marmoree raffiguranti filosofi, poeti e sovrani, esposte a coppie lungo i bordi nord-orientale e sud-occidentale della natatio. Nel portico sud-occidentale erano esposte le cinque statue in bronzo note come le Danzatrici (vedi anche a p. 139). Sull’asse centrale del tablino-grande peristilio si ergeva la statua dell’Athena Promachos.

ambulacro coperto


Il Tablino

L’ampia sala rettangolare si apriva tra il peristilio quadrato e il peristilio rettangolare e nella sua articolazione ricorda la tipologia architettonica del ginnasio greco. Secondo le ricostruzioni proposte, quest’ambiente risulterebbe essere il piú vario sia nella tipologia sia nella cronologia delle sculture che lo decoravano, costituite da ritratti greci di filosofi, oratori e sovrani ellenistici, opere classicistiche e ritratti romani. La statua di Athena Promachos era collocata in posizione centrale, tra le due colonne che monumentalizzano il passaggio verso il peristilio quadrato. A nord-est del tablino, in un piccolo vano furono rinvenuti quattro bustini con i nomi iscritti di Epicuro, Ermarco, Zenone e Demostene, forse utilizzati come segnalibri delle loro opere tra i papiri che erano custoditi negli scaffali.

Il Peristilio Quadrato

Questo grande ambiente porticato, decorato al centro da un euripo (vasca) con nicchie semicircolari, presenta un programma decorativo piú complesso da definire. Ai quattro angoli del porticato, dietro fontane di marmo, erano collocate due erme in bronzo e due busti in bronzo e in continuità tematica con i richiami al ginnasio e al mondo ellenistico presenti nel tablino e nel grande peristilio erano inserite sul lato nord-occidentale le celebri repliche del Doriforo di Policleto e dell’Amazzone attribuita a Fidia.

vestibolo

portico d’entrata

Il quartiere dell’atrio

Indagato dagli scavatori borbonici, questo settore scavato a cielo aperto nelle campagne 1996-98, conserva pochi resti delle strutture murarie, che corrispondono a quanto documentato dalla pianta di Karl Weber. La vasca dell’impluvio, al centro dell’ambiente, era decorata da statuette di satiri, sileni barbuti e putti, che avevano la funzione di fontane, come suggerisce la presenza di condutture per l’acqua al loro interno. Nelle nicchie che scandivano i muri nordoccidentale e sud-occidentale trovavano posto altre due statuette di satiri e due busti di dinasti ellenistici, espressione degli interessi culturali del proprietario. Il settore dell’atrio era decorato con pitture di Secondo Stile, di cui rimangono pochi ma significativi frammenti, alcuni dei quali furono distaccati nel Settecento, rendendo complessa la ricostruzione dell’originario programma decorativo degli ambienti di provenienza. Intorno all’atrio si apriva una serie di stanze, tra cui due grandi saloni affacciati sulla costa, decorati da pitture scenografiche e, sul lato sud-occidentale del piano nobile, un triclinio che conserva un pregevole frammento di megalografia. I dipinti scoperti nel quartiere dell’atrio presentano strette analogie con i piú notevoli cicli pittorici di Secondo Stile trovati in Campania. La datazione al terzo quarto del I secolo a.C. trova riscontri con l’epoca iniziale della costruzione del complesso edilizio.

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napoli

Pisone Cesonino. Sulla base di questo riscontro, avvalorato dalla testimonianza di Cicerone che definisce il console «patrono di Filodemo», la maggior parte degli studiosi è propensa a identificare il proprietario della villa proprio con il Cesonino. In alternativa, sono stati fatti i nomi di suo figlio, L. Calpurnio Pisone Pontefice, Marco Ottavio e Appio Claudio Pulchro, console del 54 d.C., il cui orientamento culturale in senso filo-greco è ben documentato dalle fonti.

I nuovi scavi A circa due secoli e mezzo di distanza dalla chiusura dei pozzi e dei cunicoli borbonici, sono riprese le indagini archeologiche che hanno riportato alla luce un settore della Villa dei Papiri. Dopo alcuni sondaggi preliminari effettuati nel 1986, la nuova campagna di scavo è stata condotta «a cielo aperto», negli anni 1996-98, nell’area limitrofa al parco archeologico di Ercolano, convenzionalmente

Il Piano Inferiore

Le recenti campagne di scavo a cielo aperto nel settore dell’atrio della villa hanno consentito di individuare nella facciata occidentale l’esistenza di almeno due piani inferiori rispetto a quello principale, disposti su terrazzamenti artificiali (foto qui sopra). Sul primo di questi livelli si aprivano una serie di stanze, tutte probabilmente a uso residenziale, di cui una è stata messa in luce in buona parte. L’ambiente, dotato di finestre, era suddiviso in anticamera e sala e le pareti hanno svelato un’articolata sovrapposizione di fasi pittoriche che coprono un arco cronologico compreso tra la seconda metà del I secolo a.C. e il 79 d.C. Di particolare rilievo è la decorazione in stucco che presenta il soffitto a volta della sala, risalente alla prima fase decorativa di Secondo Stile della villa. L’elemento di maggior richiamo dell’intera composizione è il fregio con motivo a catasta di armi in stucco bianco su fondo rosso disposto su un pannello rettangolare. Fra le armi, rappresentate con estrema cura del dettaglio, sono documentate sia quelle di tradizione ellenistica, oltre a quelle orientali e barbare, sia quelle tipiche dei popoli del Nord Europa. Per quanto riguarda la datazione, per il fregio di armi, come per la decorazione pittorica dell’atrio, può essere compresa tra il 40 e il 25 a.C. Sia le pitture sia gli stucchi che decoravano le pareti e il soffitto di questa sala sono stati interessati da almeno due fasi di ridecorazione e restauro. In particolare la pittura venne completamente rinnovata nell’età claudia pur mostrando i segni di un restauro ancora in corso al momento dell’eruzione e si inquadra, quindi, nella fase finale del Terzo Stile. In diversi punti la decorazione era ancora incompiuta, documentando, insieme all’importante ritrovamento dei resti di una probabile impalcatura di legno, che nel 79 d.C. in questo piano inferiore i pittori erano ancora al lavoro per riparare i danni causati dalla sciame sismico che precedette l’eruzione.

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In alto particolare delle pitture parietali venute alle luce durante le piú recenti indagini nella Villa dei Papiri. In basso ricostruzione virtuale di un ambiente della villa, di cui fu proprietario un membro dell’élite senatoria, probabilmente identificabile con L. Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Cesare, nonché console del 58 a.C.

definita Scavi Nuovi. Gli sterri si sono concentrati nel settore sud-occidentale dell’atrio, già scavato nel Settecento, svelando per la prima volta l’esistenza di un piano inferiore della villa e, a una quota piú bassa, un’ampia terrazza sulla quale si ergeva una struttura solo in parte indagata. Nel corso degli scavi sono venuti alla luce una statua di peplophoros e una testa femminile in marmo bianco, che in origine ornavano gli angoli di una grande sala di rappresentanza. Le esplorazioni sono state riprese nel 2007 dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei nell’ambito del POR (Programma Operativo della Regione Campania) che prevede lo studio delle strutture messe in luce, la sistemazione e il restauro dei settori scavati. I dati emersi dalle recenti indagini ci hanno restituito un’immagine della villa molto piú complessa e articolata di quella rilevata dalla lettura delle piante borboniche. I nuovi scavi hanno portato in luce due terrazze inferiori sulle quali si aprivano degli ambienti residenziali. A una quota ancora piú bassa si estendeva una struttura monumentale, una sorta di padiglione che, a quanto sembra, collegava la villa al mare e sul quale si apriva un salone, ornato da rivestimenti marmorei e sculture. L’ambiente era dotato di una grande piscina rettangolare, che, attraverso una scaletta laterale, consentiva la discesa diretta in mare. Questa struttura, aggiunta in età augusteo-tiberiana, fu abbandonata e smantellata all’epoca dell’eruzione. Nel corso degli scavi, sono stati recuperati elementi di mobili lignei di gran pregio, rivestiti di lamine eburnee con decorazioni a rilievo di soggetto dionisiaco. La Villa dei Papiri si configura, quindi, come un complesso residenziale articolato su piú livelli architettonici e in posizione panoramica sul mare, che, in base al decoro parietale e musivo di Secondo Stile rinvenuto nel piano principale e nella sala del primo piano inferiore, si data tra il 40 e il 20 a.C. La Villa dei Papiri è attualmente in restauro e non è visitabile.

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