Archeo Monografie, n. 25, Giugno 2018

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ARCHEO MONOGRAFIE TURCHIA

LA TERRA • LA STORIA • L’ARCHEOLOGIA

€ 7,90

IN EDICOLA IL 6 GIUGNO 2018

Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

TURCHIA

N°25 Giugno 2018 Rivista Bimestrale

T R U T IG

A ESCOI I HUN USE C R SITI I M U T TI I AND

MONOGRAFIE



TURCHIA

LA TERRA • LA STORIA • L’ARCHEOLOGIA testi di Massimo Vidale e Marco Di Branco

6. Presentazione 8. Tutti i siti UNESCO della Turchia 12. Italia e Turchia: la cooperazione archeologica 14. Il territorio Anatolia: culla di civiltà 22. La storia I millenni dell’Anatolia 52. 2018, l’anno di Troia: un mito senza tempo 68. Itinerari Viaggiare nella storia 70. Pergamo, cuore del mondo antico 80. Monte Nemrut, la devozione di Antioco 86. Itinerari Da Roma a Bisanzio 88. Gli splendori di Efeso 92. Afrodisia, città di Venere 94. Hierapolis, la santa 96. Cappadocia, terra mistica 108. Istanbul, una regina fra due mondi 120. La storia Selgiuchidi, la dinastia dell’aquila 126. I musei archeologici della Turchia


O

gni volta che atterro a Istanbul, ho la sensazione di arrivare non solo in una terra dell’Oriente, ma in qualcosa «di piú». La percezione di un lembo d’Europa che si prolunga oltre la frontiera geologica, per estendersi sulla costa occidentale della Turchia, si arricchisce di un fattore nuovo, inatteso: la diversa proporzione degli spazi. Tutto il territorio dell’Anatolia, infatti, è improntato a una dimensione di emozionante grandiosità: estese fino all’infinito appaiono le ondulate colline degli altipiani centrali (quando le percorriamo in macchina, partendo da Ankara, alla scoperta delle rovine della capitale ittita Hattusa); con inedita vastità si propagano le fertili pianure alluvionali nel Sud-Ovest del Paese, incorniciate dalle vette del Boz Daglar – le «montagne argentate» – e da quelle, frastagliate, del Latmos, dove il Meandro si apre nell’Egeo (e che attraversiamo alla ricerca delle rovine di Mileto, Efeso, Priene, Didyma…); di demiurgiche forze naturali ci parlano, invece, i maestosi coni vulcanici e i favolosi mondi di grotte e | TURCHIA | 6 |


Una veduta di Istanbul, città che si è sviluppata sul Mar di Marmara, all’imbocco meridionale del Bosforo, in posizione strategica, a cavallo fra l’Europa e l’Asia.

caverne scavate nel tufo da millenni di erosione fluviale (quando raggiungiamo la Cappadocia)… Ed è solo l’inizio di un viaggio davvero «continentale»: Asia minor era il nome che gli diedero già gli antichi, e del piú grande dei continenti l’Anatolia offre una sintesi straordinaria. Con questa nuova Monografia di «Archeo» desideriamo riportare all’attenzione dei nostri lettori la straordinaria ricchezza e complessità del patrimonio monumentale, storico e archeologico della Turchia. Partiamo dal racconto della preistoria (resa tanto attuale dalle epocali scoperte di Göbeklitepe), per illustrare poi i grandi complessi archeologici, i siti inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità stilata dall’UNESCO, i principali musei (quelli storici e famosi, di Istanbul e Ankara, ma anche quelli nuovi, tra cui il museo di Troia, in fase di completamento mentre andiamo in stampa). Un invito, dunque, a ripercorrere, insieme a noi, momenti indimenticabili di una storia universale. Andreas M. Steiner | TURCHIA | 7 |


SITI UNESCO

TUTTI I SITI UNESCO DELLA TURCHIA

L

a «Convenzione sul Patrimonio Mondiale dell’Umanità» è stata adottata dall’UNESCO nella Conferenza Generale tenutasi a Parigi nel 1972. La Lista è un elenco di siti, presenti in ogni parte del mondo, riconosciuti per l’eccezionale valore culturale e naturale. L’UNESCO, che ha l’obiettivo di garantire la cooperazione internazionale nella difesa dei valori che costituiscono il patrimonio comune

dell’umanità, intende trasmettere e salvaguardare questi siti nati nelle varie epoche storiche perché siano conosciuti e fruiti anche dalle generazioni future. La Turchia ha ratificato la Convenzione UNESCO il 23 maggio 1982. Ha attualmente 17 siti iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO (di cui in queste pagine presentiamo un breve riassunto) e altri 71 siti sono candidati per entrarvi.

1. ISTANBUL, UNA CAPITALE TRA DUE CONTINENTI Le aree storiche di Istanbul, capitale di tre grandi imperi, sono state iscritte nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 1985. Esse comprendono il Parco Archeologico (Piazza Sultanahmet e l’area circostante), la Moschea di Solimano, la Moschea del quartiere di Zeyrek (in precedenza Chiesa di Cristo Pantocratore) e l’area circostante di tutela e le mura della città di Istanbul.

2. BURSA, CUMALIKIZIK E LA NASCITA DELL’IMPERO Situate alle pendici del monte Uludag nella parte nordoccidentale della Turchia, la città di Bursa e il villaggio di Cumalıkızık (iscritti nella lista UNESCO nel 2014) rappresentano un sistema urbano e rurale che ha inciso notevolmente nella storia dell’Impero Ottomano, di cui Bursa divenne la prima capitale e sede del Sultano all’inizio del XIV secolo.

3. SAFRANBOLU, LA CITTÀ DELLA TRADIZIONE Safranbolu, una città anatolica che porta in vita la storia attraverso le sue moschee, il mercato, i quartieri, le strade e le sue originali case, è stata iscritta nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 1994. È una delle poche città rimaste intatte nella seconda metà del XIX secolo. Essa si è sviluppata in conformità con il mutare delle esigenze nel corso del tempo, ma in assoluta armonia con la natura.

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4. ANI, IL MEDIOEVO SULLA VIA DELLA SETA Il sito archeologico di Ani, iscritto nella lista UNESCO nel 2016, si trova nel Nord-Est della Turchia. Questa città medievale combina strutture residenziali, religiose e militari, tipiche di un’urbanistica medievale costruita nei secoli da dinastie prima cristiane e poi musulmane.

5. HATTUSA, GLORIA DEGLI ITTITI Hattusa, che fu la capitale dell’impero ittita durante l’antichità, è stata inserita nella lista del Patrimonio Mondiale nel 1986. Essa, che è un vero e proprio museo archeologico a cielo aperto, fu fondata intorno al 1600 a.C. e divenne il centro dell’arte e dell’architettura dell’epoca. È tra i migliori esempi di scultura in pietra dell’epoca ittita. Il santuario di Yazılıkaya, che si trova a 2 km a nord-ovest di Hattusa, è considerato il tempio a cielo aperto piú importante della città.

7. DIVRIGI, LA MOSCHEA DELLE MERAVIGLIE E IL SUO OSPEDALE

6. IL PAESAGGIO CULTURALE DELLA FORTEZZA DI DIYARBAKIR E DEI GIARDINI DI HEVSEL

Primi edifici turchi a essere iscritti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO (1985), la Grande Moschea e l’Ospedale di Divrigi furono costruiti nel XIII secolo dallo Scià Ahmed e da sua moglie Melike Turan della dinastia dei Mengugekidi.

La fortezza di Diyarbakır ha avuto un importante ruolo come centro di commerci sin dal periodo ellenistico, e poi in epoca romana, sasanide, bizantina, islamica e ottomana, fino a oggi. Il paesaggio culturale iscritto nella lista UNESCO nel 2015 comprende le impressionanti mura della città lunghe 5800 m con le loro numerose torri, le porte, i contrafforti e 63 iscrizioni di epoche diverse, cosí come i Giardini di Hevsel.

8. NEMRUT, IN NOME DEL RE ANTIOCO Il Monte Nemrut, con il tumulo contenente la tomba del re Antioco del Regno di Commagene e diverse statue giganti, è stato iscritto nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 1987.

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SITI UNESCO

9.GÖREME, LA NATURA SCOLPITA Il Parco Nazionale di Göreme e la Cappadocia, iscritti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 1985, sono un unico disegno della natura con pendii ricoperti dai camini delle fate, ricchi di risorse idriche nel fondovalle, una vegetazione abbondante e numerose chiese ricavate nella roccia e affrescate.

10. ÇATALHÖYÜK, LA VITA NEL NEOLITICO Iscritto nella lista UNESCO nel 2012, il famoso sito neolitico si trova nell’altopiano dell’Anatolia meridionale. Çatalhöyük fornisce un’importante prova della transizione dai villaggi all’agglomerato urbano che si è mantenuto nella stessa posizione per piú di 2000 anni.

11. XANTHOS E LETOON, TERRA DI LEGGENDE Xanthos, capitale della Licia tra il 700 e il 300 a.C., è stata il piú grande centro amministrativo della regione nell’antichità. Letoon, inserita nella lista UNESCO insieme a Xanthos nel 1988, fu invece uno dei centri religiosi piú importanti dell’antichità.

12. PAMUKKALE E HIERAPOLIS, STORIA E NATURA Hierapolis – iscritta nella lista UNESCO nel 1988 - fu fondata durante l’era Frigia e ha giocato un ruolo importante nella diffusione del cristianesimo in Asia Minore ed è il luogo dove morí Filippo, uno dei dodici Apostoli di Gesú. A Pamukkale, il travertino è creato da un’acqua termale che deposita il carbonato di calcio in essa contenuto. La meraviglia naturale dei depositi si estende in una cascata che misura 160 m di altezza e 2700 m di lunghezza.

13. AFRODISIA, NEL SANTUARIO DELLA DEA Afrodisia è un’antica città della Caria e, insieme alle cave di marmo che si trovano poco piú a nord, è l’ultimo sito della Turchia a essere stato iscritto nella lista UNESCO, nel luglio 2017. L’attuale villaggio di Geyre, nei cui pressi si trova il sito archeologico, è compreso nella provincia di Aydın (l’antica Tralles).

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14. EFESO, TRA GRECI E ROMANI L’area archeologica di Efeso, situata all’interno di quello che un tempo era l’estuario del fiume Caistro, è stata iscritta nella lista UNESCO nel 2015. Comprende insediamenti ellenistici e romani, che furono costruiti in un ampliarsi continuo della struttura urbanistica.

15. TROIA, SCAVARE NELLA LEGGENDA L’antica città di Troia, nota per la guerra descritta da Omero nel suo poema epico Iliade, è stata iscritta nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 1998.

16. PERGAMO, CAPITALE DEGLI ATTALIDI

17. EDIRNE, IL CAPOLAVORO DI SINAN

Pergamo (Bergama) e il suo paesaggio culturale stratificato sono iscritti nella lista UNESCO dal 2014. La città sorse nel III secolo a.C. come capitale degli Attalidi. Situata nella Regione Egea, cuore del mondo antico, e all’incrocio tra Europa e Medio Oriente, divenne un importante centro culturale, scientifico e politico.

La Moschea di Selimiye e il suo Complesso Sociale a Edirne – iscritti nella lista dell’UNESCO nel 2011 – sono una destinazione obbligata per tutti coloro che, amanti dell’architettura, vogliano scoprire uno dei capolavori del grande architetto Sinan, il Michelangelo ottomano.

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ITALIA E TURCHIA: LA COOPERAZIONE ARCHEOLOGICA

È

di grande rilievo e attiva da decenni la collaborazione tra istituzioni turche e italiane nell’ambito del settore archeologico. Sono diverse le missioni italiane attualmente presenti e gestite dalle seguenti università: • a Yumuktepe (Mersin), l’Università di Lecce svolge una ricerca mirata all’indagine diacronica sulle società antiche della Cilicia (Turchia meridionale), dai primi villaggi neolitici (7000 a.C.), alla cittadella medievale (XIII sec. d.C.). • Il sito di Kinik Höyük (Nigde) è stato individuato da una ricognizione archeologica dell’Università di Pavia. Nel 2010 le indagini geofisiche vi hanno evidenziato la presenza di resti monumentali. Dal 2011 si sono scavati i livelli medievali, ellenistici e della tarda età del Ferro (700-400 a.C.) sull’acropoli e nella città bassa.

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• Arslantepe (Turchia orientale) è un grande tell di piú di 30 m di altezza, costituito da una lunga sequenza di abitati sovrapposti, dal V millennio a.C. all’età bizantina. Gli scavi svolti dall’Università di Roma «Sapienza» hanno rivoluzionato le conoscenze sulla storia millenaria del sito e dell’Alta Valle dell’Eufrate. • A Karkemish (Karkamis, Gaziantep) l’Università di Bologna conduce una campagna di scavi e restauri e di prospezioni topografico-fotogrammetriche. La missione si occupa della realizzazione del Parco Archeologico di Karkemish e della manutenzione del Parco Archeologico di Tilmen Höyük (Islahiye, Gaziantep). • Il sito di Elaiussa Sebaste in Cilicia Trachea (Mersin) è indagato dall’Università di Roma «Sapienza» con lo scopo di promuoverne la conoscenza e di garantirne la conservazione e la


Sulle due pagine Arslantepe (Turchia orientale). Resti dell’edificio delle udienze. IV mill. a.C. In basso placchetta in avorio, da Arslantepe. Produzione neoittita, I mill. a.C.

valorizzazione. Insieme alle attività di scavo sono condotte campagne di restauro dei pavimenti in opus sectile e mosaico, e dei piccoli oggetti. • A Hierapolis di Frigia (Denizli) è attiva, dal 1957, la Missione Archeologica Italiana dell’Università di Lecce. Le attività si svolgono in collaborazione con il Museo di Pamukkale e hanno come oggetto vari interventi di scavo e restauro unitamente ad attività finalizzate al rilievo di complessi monumentali, alla documentazione e allo studio analitico dei reperti di metodologie innovative di ricerca. • Gli scavi dell’Università di Firenze nel sito di Ushakli Höyük (Yozgat) sono finalizzati a portare alla luce la città di Zippalanda, importante centro ittita. Lo scavo si concentra attualmente sul monumentale tempio dell’Area A di età ittita e sulle mura della cittadella di età frigia.

Gli altri progetti in ambito archeologico riguardano: il restauro di Tokalı Kilise, condotto dall’Università della Tuscia insieme al Museo di Nevsehir e al Laboratorio Regionale di Conservazione e Restauro di Nevsehir; l’applicazione di tecnologie innovative da parte dell’ Università «Suor Orsola Benincasa» negli scavi di Hattusa-Bogazköy, gestiti da una missione tedesca; le indagini di superficie a Hatay, nella piana di Amik, svolte dall’Università di Firenze in collaborazione con l’Università Mustafa Kemal di Hatay; scavi nel sito di Misis, Adana, in collaborazione con l’Università di Pisa (2017).

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Göreme, Cappadocia. Le formazioni di roccia tufacea note come «camini delle fate», frutto di antiche attività vulcaniche e della successiva erosione eolica. Come si vede in questa foto, molte di esse sono state sfruttate dall’uomo per ricavarne abitazioni.

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ANATOLIA CULLA DI CIVILTÀ Una terra di grandi spazi ed estremamente variegata: l’antica Anatolia, oggi compresa nei confini della Repubblica di Turchia, ha dato vita ad alcune delle piú grandi civiltà del mondo antico e moderno di Massimo Vidale

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IL TERRITORIO

I

n principio era Anatolè: dal greco anà, «su», e tello, «mostrarsi in alto, salire», perché era proprio l’Anatolia, a est della Grecia, l’orizzonte dal quale i Greci delle coste vedevano sorgere il sole. Poi comparve Asia Minor, in greco Asia è mikrà, ossia l’«Asia piccola», nome che riflette la coscienza dell’immensità continentale dell’Asia oltre il nodo montano del Caucaso e la

sponda orientale del Mar Nero. «Asia», a sua volta, potrebbe derivare da Assuwa, nome con il quale gli Ittiti chiamarono, intorno al 1400 a.C., una lega di piccole nazioni della costa anatolica occidentale, che si era ribellata contro il loro impero. Per i geografi moderni, Anatolia designa la grande penisola rettangolare, verde, montuosa e valliva lungo le coste, dominata da steppe

«La terra dell’Asia Minore si trova in uno snodo cruciale tra i continenti dell’Europa e dell’Asia. Per tale ragione, è stata spesso vista come un “ponte di terra” attraverso il quale viaggiavano influssi e sviluppi culturali. Ma qui si sosterrà che l’Asia Minore è meglio comprensibile nei termini di una terra nella quale gli sviluppi culturali seguirono una propria traiettoria (...) Al proposito, il termine “Asia Minore”, sottintendendo che siamo alle prese con un piccolo continente, cattura un aspetto essenziale di questo territorio» (Bleda S. Düring, The Prehistory of Asia Minor, 2010)

La diffusione delle genti di lingua turca nel continente asiatico.

N 0

1000 Km

Iacuzia

Russia

Polonia

Romania

Ucraina

Altai

Bulgaria

Mongolia

Kazakistan Turchia

Uzbekistan Azerbaigian Turkmenistan

Kirghizistan

Cina

Iraq Iran Arabia Saudita

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Afghanistan Tibet Pakistan

India

Aree in cui oltre il 70% della popolazione è di lingua turca Aree in cui meno del 70% della popolazione è di lingua turca


M ar N e r o Sinop

Kırklareli

Bartin

Ma r di Ma rm a ra

Stretto dei Dardanelli Gökceada

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Ankara

Pergamo

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Kırıkkale

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Gediz

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Denizli

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Burdur

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Kayseri

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Kahramanmaras

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Tarsus

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Gaziantep

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Xanthos e Letoon

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Malatya

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Bodrum

Nevsehir

Konya Çatalhöyük

Mugla

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Aksaray

Pamukkale e Hierapolis

Afrodisia

Mar Egeo

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Afyonkarahisar

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Agri

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Bayburt

Hattusa

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Trabzon

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Amasya Zile

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Balıkesir Kütahya

Lesbo

Corum

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Bilecik

Giresun

Merzifon Cankiri

Bursa e Cumalıkızık

Canakkale Troia

Ordu

Bolu

Adapazari

Yalova

Artvin

Rize

Karabük

Düzce

Izmıt

Ardahan

Samsun

Safranbolu

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Bozcaada

Kastamonu

Zonguldak

Istanbul

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Edirne

Sanlıurfa Tig

Kilis

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Mersin Iskenderun Antakya Eufrate

Mar Medi terra neo N 0

Repubblica Turca di Cipro del Nord

100 Km

all’interno, che si estende come un ponte spezzato tra Europa e Asia – o, se volete, come un possente dito asiatico puntato a ovest –, dall’Asia anteriore, tra il Mar Nero, l’Egeo e il Mediterraneo orientale, e gli stretti che la separano dalla penisola balcanica. Verso oriente, la massiccia regione anatolica termina lungo una linea ideale che si protende da Antiochia (Antakya) e Alessandretta (Iskenderun) lungo l’alto corso dell’Eufrate, a lambire le falde occidentali del massiccio dell’Amano, e i margini occidentali dell’altopiano di Agri; per terminare sulle spiagge sud-orientali del Mar Nero, fra Trabzon e Batumi, al confine attuale con la Georgia. La penisola occupa gran parte del territorio della Repubblica di Turchia, che si estende a ovest oltre gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli, a comprendere le terre piú orientali dell’antica Tracia; mentre verso est abbraccia parte dell’altopiano armeno, con la regione del

grande Lago Van. Appartengono alla Turchia anche alcune isole dell’Egeo e i bacini del Mar di Marmara. Lo Stato turco attuale confina dunque con Bulgaria, Grecia, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Iran, Iraq e Siria.

Alle origini del nome Il nome odierno della Turchia, Türkiye in lingua turca, deriva dalla parola che indica il popolo turco e che compare in antiche iscrizioni asiatiche a partire dall’VIII secolo d.C. Genti di lingua turca (idiomi che appartenevano alla piú vasta famiglia delle lingue dette uralo-altaiche, diffuse nel centro dell’Eurasia) giunsero nella penisola anatolica nel corso dell’XI secolo, e nei secoli seguenti, dopo la sconfitta dell’impero bizantino, gettarono le basi di quello che sarebbe divenuto l’impero ottomano. Di questo grande impero l’odierna Repubblica di Turchia fu il successore. Fu un’origine rapida, nel corso

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della quale le lingue iraniche che avevano dominato per due millenni e mezzo il cuore dell’Asia Centrale furono in larga misura sostituite. Oggi, le lingue turche sono parlate lungo un asse continentale discontinuo, che, dalla penisola anatolica, si allunga alla regione delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, ora indipendenti, e termina sulle regioni costiere nord-orientali dell’Asia russa. Nell’inseguire tre parole diverse – Anatolia, Asia Minore e Turchia – abbiamo già sfiorato luoghi, terre e città dai nomi intrisi di fascinazioni millenarie che, in una terra tanto ricca di storia e arte, possono portarci molto lontano.

Una terra meravigliosa Circa 800 000 kmq di una terra meravigliosa, in larga misura circondata dal mare e 8333 km di coste azzurre; montagne superbe e vasti altipiani, il tutto sagomato dall’erosione di fiumi che, ostacolati da alti rilievi, faticano a trovare sbocco al mare, e si smarriscono in percorsi sinuosi; e da vulcani che emergono da drammatiche fratture causate dal collasso delle placche planetarie d’Africa e d’Arabia contro quella anatolica, addosso all’immensa massa dell’Eurasia. Il Kızılırmak, o «Fiume rosso», anticamente noto come Halys, scorre per oltre 1300 km nel cuore degli altopiani centrali, formando un immenso meandro curvo, prima di raggiungere la costa del Mar Nero; e proprio Meandro (Menderes) si chiamava un altro fiume anatolico che dalle alture di Frigia attraversava la Caria, prima di raggiungere la costa egea nei pressi di Mileto. Grandi riserve d’acqua sono garantite anche dal bacino superiore del Tigri e dell’Eufrate, prima del loro ingresso in territorio siriano e iracheno, e dai due affluenti del Kura e dell’Aras: tutti fiumi che hanno legato il proprio nome, in vari modi e con vari esiti, alle piú importanti civiltà del Vicino Oriente. I fiumi legano tra loro zone dal clima molto variabile. Se le coste orientali, prospicienti l’Egeo, e quelle meridionali hanno clima mediterraneo, senza piogge estive, quelle nord-orientali sono costantemente molto

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IL TERRITORIO

piovose. Le zone degli altopiani interni hanno clima continentale, con rade piogge invernali, inverni freddi e spesso fortemente nevosi ed estati calde e secche, e – come attorno al grande lago di sale del Tuz Gölü, nel centro della regione – vi si vedono steppe e macchie di arbusti desertici.

Vulcani che diventano laghi Dono dell’antica attività vulcanica, e del successivo intervento dell’erosione, sono paesaggi indimenticabili, come laghi formatisi nelle caldere di grandi vulcani estinti, o le formazioni coniche di tufo (dette «camini delle fate») trasformate in abitazioni che l’erosione ha creato in Cappadocia. Spettacolare, tra i molti possibili esempi, è anche l’enorme cratere del Monte Nemrut, un vulcano spento che si eleva a circa 3000 m di quota, 25 km a nord di Tatvan, sulla sponda del lago Van; al suo interno si sono formati tre laghi freddi. Fra l’attuale territorio turco e gli entroterra montuosi di Armenia e Georgia, l’azione dei vulcani e le dinamiche geologiche continentali hanno anche generato vasti affioramenti di metalli come rame, oro, argento, ferro, piombo, e, seppur meno comunemente, di stagno; materie prime essenziali per lo sviluppo dei primi Stati delle età del Bronzo e del Ferro, come della relativa metallurgia, che

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proprio in questa grande regione sembra aver mosso alcuni dei suoi passi piú significativi. Di cruciale importanza fu anche quello che alcuni archeologi hanno definito l’«oro nero» delle età neolitiche, ossia l’ossidiana: un vetro nero naturale, causato dall’emersione e dal veloce raffreddamento in superficie di formazioni magmatiche silicatiche, dal quale gli abitanti dei primi villaggi agricoli ottenevano i coltelli piú taglienti, e una preziosa opportunità di scambio e mercato. Come del resto avveniva per l’«oro bianco», il sale, anch’esso disponibile in importanti giacimenti delle zone centrali.

In alto il maestoso massiccio del Monte Agrı (Ararat): le due cime, denominate Grande e Piccolo Agri, toccano, rispettivamente, i 5615 e i 3915 m d’altezza. A sinistra una ricostruzione ipotetica dell’arca di Noè, collocata sul Monte Agrı (Ararat), dove la leggendaria imbarcazione si sarebbe arenata dopo il diluvio universale.


Qui sopra un esemplare di egagro, detto anche «capra del Bezoar» (Capra aegagrus), progenitore delle capre domestiche. La specie era originariamente diffusa nelle regioni montuose dell’Asia sud-occidentale e dell’Asia Minore e in diverse isole del Mediterraneo orientale.

Le catene montuose principali sono, da ovest a est, i monti Küre e i Monti Sultan, rispettivamente a nord e a sud della regione di Ankara; la catena del Tauro, che si snoda lungo la costa sud-occidentale della penisola; l’Antitauro e il Tauro Orientale, ancora piú a est e fino ai confini iracheno e siriano; la Catena del Mar Nero dell’Est, lungo la parte piú orientale della costa settentrionale, alle spalle di Trabzon.

Sul monte del diluvio In assoluto, la vetta piú celebre entro l’odierno territorio turco è il Monte Agrı (Ararat), che raggiunge i 5137 m ed è il monte piú alto della Turchia: il suo nome è legato alla tradizione biblica del diluvio, e in esso sopravvivono il

nome e il ricordo dell’antico Paese di Urartu, una delle nazioni piú potenti dell’Antico Oriente della prima età del Ferro. I geologi chiamano «linee di faglia» una serie di imponenti crepe, causate da immensi scorrimenti e dall’attrito longitudinale, in direzione est-ovest, delle croste montuose, fratture che, nel corso dei millenni, hanno guidato spostamenti stagionali e migrazioni di uomini e animali. Nel primo Olocene, 11 000 anni fa circa, il paesaggio appariva coperto da immensi boschi di pini, cedri, ginepri, querce e pistacchi. La frammentazione micro-climatica della regione anatolica spiega la forte diversità biologica originaria – cioè l’alto numero di specie animali e vegetali presenti – che la distinguevano. Nello stesso periodo, fra queste specie, soprattutto nelle porzioni sud-orientali dell’attuale territorio turco – che corrisponde all’alta valle dell’Eufrate –, si trovavano ancora molti degli antenati dei cereali, dei legumi e del lino, come degli animali addomesticati nel Neolitico: si tratta dell’urial (pecora selvatica), di capre selvatiche come lo stambecco, dell’uro, antenato dei nostri bovini domestici, e del cinghiale. Questa diffusa, accentuata variabilità ecologica, costretta tra le spiagge di due mari e l’invalicabile nodo montuoso del Caucaso, qualifica l’Anatolia come un continente in miniatura.

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I MILLENNI DELL’ANATOLIA La storia della grande penisola si dipana lungo un arco temporale lunghissimo, i cui primi protagonisti sono i cacciatori del Paleolitico. Da quel momento in poi, la regione tiene a battesimo una serie ininterrotta di eventi epocali, dalla «rivoluzione neolitica» all’avvento del potente impero ittita di Massimo Vidale

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Göbeklitepe (Sanlıurfa) in Anatolia sud-orientale. Il sito si è imposto all’attenzione della comunità scientifica internazionale per la scoperta di un grandioso complesso monumentale di epoca neolitica. Si compone di vari circoli megalitici, al cui interno furono eretti colossali pilastri a forma di «T», alti dai 3 ai 7 m e larghi 1,5 m circa, che ritraggono immagini di animali e, in alcuni casi, di esseri umani.

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LA STORIA

I

l «piccolo continente» anatolico fu certamente abitato e percorso da bande di cacciatori e raccoglitori sin dai primi passi dell’umanità, nei tempi «infiniti» e mutevoli dell’avanzata e ritiro dei grandi fronti glaciali: gli specialisti hanno riconosciuto non meno di otto o nove periodi di avanzata dei ghiacci, intervallati da fasi climatiche piú miti. Prova eloquente del popolamento paleolitico sono le stupefacenti scoperte di Dmanisi, nella Georgia meridionale: a poca distanza dal confine turco, un sito medievale dove, per puro caso, nel substrato geologico sottostante alcune costruzioni medievali, tra il 1991 e il 2005, furono portati in luce cinque crani di Homo erectus risalenti a 1,8 milioni di anni fa. Si tratta della piú antica testimonianza della presenza dell’uomo nel continente euroasiatico. Altrettanto sorprendente, nel 2002, fu la scoperta, a Kocabas, a 26 km dalla cittadina di Denizli, nella regione egea, di diversi frammenti di un altro cranio di Homo erectus, datato a 1,2 milioni di anni fa circa. Questa volta il cranio si era conservato perché era stato inglobato in una spessa e solida formazione di travertino; un’altra traccia esile e casuale, ma per questo ancor piú significativa, della diffusione, che dobbiamo immaginare vasta, dei nostri audaci antenati erectus. Se la vicinanza di Dmanisi fa pensare alla forte possibilità di altri antichissimi siti del Paleolitico Inferiore nella Turchia sud-orientale, il cranio di Denizli espande tale probabilità fino alle coste occidentali. Altre località con tracce di occupazione paleolitica sono state infatti

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Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le testimonianze della presenza dell’uomo in Anatolia fin dal Paleolitico Inferiore In alto ciottolo con figure di un bovide e di un uomo, dalla Grotta Öküzini (Antalya). Paleolitico Superiore. In basso calotta cranica di Homo erectus, da Kocabas (Denizli). Sullo sfondo, la cava in cui è avvenuta la scoperta.

individuate nel cuore del Paese. A Dursunlu, non lontano da Konya, entro livelli lacustri sepolti a piú di 10 m di profondità, tra abbondanti resti di piante e animali preistorici (tra cui rinoceronti, mammut, ippopotami, cavalli, cervidi e uccelli) erano sparse schegge di quarzo distaccate e usate dall’uomo: la data si aggira tra i 900 000 e gli 800 000 anni fa.

Utensili antichissimi A Kaletepe Deresi 3, vicino a Kayseri, il livello piú profondo con tracce umane risale a 780 000 anni fa; si sono contati non meno di 4000 strumenti preistorici fabbricati con rocce vulcaniche come il basalto, l’andesite e la riolite. Altre località con resti del Paleolitico Inferiore sono la grotta di Yarimburgaz, alla periferia di Istanbul, di datazione controversa; i depositi delle grotte di Karain, presso Antalya, che risalgono a 350 000 anni fa circa. L’associazione o l’accertata contemporaneità tra livelli con ciottoli scheggiati (chopper), schegge e livelli con strumenti bifacciali – in apparenza molto piú regolari – di tipo


In basso il tratto di costa nella provincia di Hatay nel quale si apre la Grotta Üçagızlı, punto di riferimento per il Paleolitico Superiore dell’Anatolia e del Levante.

Bulgaria

Grecia Yatak

Mar Nero

Agaçli

Yarimburgaz

Domuzdere Gümüsdere

Georgia

Domali-Alaçali Balitepe Kefken Kustepe

Armenia

Ankara Iran Kaletepe Deresi Kocabas

Dursunlu

Kapaliin Öküzini Belbasi

Çayönü

Karain

Hallan Çemi

Demirköy Sehremuz

Pinarbasi

Körtik Tepe

Kadiini

Beldibi

Kanal

ri

Tig

Üçagizli

Eu

Mar Mediterraneo

Siria

fra

te

Iraq

Libano

Paleolitico (1 200 000-11 000 anni fa circa) I principali siti del Paleolitico della Turchia

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LA STORIA

DALL’ANTIQUARIA ALL’ARCHEOLOGIA

C

ome in altre regioni orientali, anche in Turchia l’archeologia fu praticata inizialmente da studiosi e affaristi europei, ed ebbe come obiettivi le radici del mondo classico (scavi alla ricerca di centri pre-ellenici come Troia, o di città greche della costa egea). La ventata riformatrice che caratterizzò l’impero ottomano fra il 1839 e il 1876, e che va sotto il nome di tanzimat, investí anche le antichità. Il primo regolamento, l’Asar-ı Atika Nizamnamesi, venne stilato nel 1869, per essere poi riveduto e corretto piú volte in seguito, nel 1874, nel 1884 e nel 1906. Le normative in materia di ricerca e tutela ebbero caratteristiche che le avvicinano alla regolamentazione oggi in vigore e, per molti anni, si trattò dell’unica legislazione esistente in Turchia in questo campo. I materiali rinvenuti nel Paese venivano portati a Istanbul, per essere esposti nel Muze-i Humayun (il Museo Imperiale), una prassi condotta fino alla proclamazione della Repubblica di Turchia e che ha posto le basi per lo sviluppo dell’archeologia e della museologia moderne. Nel 1973 fu approvata la legge n. 1710, che mira alla protezione del patrimonio dei beni antichi. Le norme oggi in vigore sono quelle della legge n. 2863 per la Protezione dei Beni Culturali e Naturali, promulgata nel 1983. Nel 1981 la Turchia firma la Convenzione UNESCO del 1970 per la lotta contro il traffico illecito dei beni culturali. Nel 1923, con la nascita della Repubblica di Turchia, l’archeologia viene a essere considerata una componente importante dell’identità nazionale: la preistoria dell’Anatolia divenne un campo di studi privilegiato, sia per studiosi turchi, sia per quelli occidentali. Dagli anni Sessanta in poi, gli interessi archeologici e scientifici si sono concentrati sulle grandi tematiche evolutive aperte dagli scritti di Vere Gordon Childe (1892-1957) e

acheuleano (cultura del Paleolitico Inferiore che trae nome da un quartiere della città francese di Amiens, n.d.r.) sembra negare validità agli schemi piú semplici di evoluzione tecnica lineare adottati in passato dagli specialisti. Come in altre regioni euroasiatiche, in Turchia, le occupazioni del Paleolitico Medio (250 00050 000 anni fa circa) sono attribuite all’uomo di Neandertal, che ha lasciato a Shanidar, lungo i

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sviluppate dagli studiosi che, dopo di lui, hanno investigato le grandi rivoluzioni socio-economiche della preistoria, e lo sviluppo delle «società complesse» del Calcolitico e dell’età del Bronzo. Una semplice occhiata alle tappe di questa evoluzione scientifica rivela immediatamente come alcune delle scoperte piú straordinarie dell’archeologia vecchia e nuova abbiano avuto luogo proprio in territorio turco. Nuove scoperte dirompenti, come quella dei complessi megalitici di Göbeklitepe, stanno continuando a scompaginare le carte dell’archeologia, dimostrando l’inesausta capacità del territorio turco di rivelare quinte inedite del passato umano.

In alto Vere Gordon Childe, padre della moderna paletnologia e autore di intuizioni fondamentali per il moderno studio della preistoria.

pendii occidentali dei Monti Zagros, una serie impressionante di sepolture complete. Pietre scheggiate con tecnologie di affinità neandertaliana sono affiorate a Kaletepe Deresi 3, mentre in una delle grotte di Karain, in livelli datati da oltre 120 000 anni fa in poi, sono stati raccolti denti, vertebre, falangi, frammenti di cranio e di mandibola della stessa natura. E come in altre parti dell’Eurasia, l’avvento del


LE GRANDI TAPPE DELLA RICERCA 1834 L’architetto Charles-Marie Texier (1802-1871) scopre le rovine di Hattusa e il tempio rupestre di Yazılıkaya. 1863 Inizio degli scavi a Efeso. 1870-1890 Otto campagne di scavo sulla collina di Hissarlık (identificata come luogo della città omerica di Troia) da parte di Heinrich Schliemann (1822-1890). 1873 Inizio degli scavi a Mileto. 1878 Inizio degli scavi a Pergamo. L’altare di Zeus, capolavoro ellenistico della scultura di Pergamo, viene portato a Berlino durante il periodo del sultano Abdul Hamid II (1842-1918). dal 1880 in poi Osman Hamdi Bey (1842-1910), fondatore e direttore del Museo Archeologico di Istanbul, e altri studiosi ottomani iniziano a scavare sul Nemrut Dag, a Lagina, Tralles, Alabanda e In basso tavoletta in cuneiforme con la trascrizione del Rituale di Amihatna, gran sacerdote della dea Ishara, da Hattusa. 1650-1200 a.C. Istanbul, Museo Archeologico.

Simara. Osman Hamdi Bey è considerato il primo protettore del patrimonio della Turchia. 1906 Primi scavi a Hattusa presso Bogazköy, capitale ittita della tarda età del Bronzo. Theodore Makridi Bey (1872-1940), curatore del Museo Archeologico di Istanbul, collabora con il tedesco Hugo Winckler (1863-1913) agli scavi di Hattusa del 1906-1907 e 1911-1912, e a quelli di Alacahöyük. Gli archivi di tavolette di Hattusa cambieranno la storia del Vicino Oriente.

esplorazioni di Alisar, Mersin-Yumuktepe, Kültepe-Kanesh, e le nuove indagini condotte a Troia da Carl Blegen (1887-1971). Parallelamente, si registra l’apertura alle missioni archeologiche straniere. 1951-1952 James Mellaart (1925-2012) scopre i primi insediamenti calcolitici (6000-4000 a.C. circa) in territorio turco. 1957-1960 Scavi di James Mellaart a Hacılar, nella regione dei laghi di Burdur.

1914-1917 L’archeologo e orientalista ceco Bedrich Hrozný (1879-1952) legge la lingua ittita e ne dimostra il carattere indoeuropeo.

1961-1965 Gli scavi di James Mellaart a Çatalhöyük (Konya) portano in luce straordinarie testimonianze di arte figurativa del tardo Neolitico.

1923 Con la fondazione della Repubblica Turca vengono avviati un centinaio di scavi, in prevalenza effettuati da studiosi turchi: fra gli altri, vi sono le

dal 1964 in poi Scavi delle Università di Istanbul e Chicago nel sito neolitico antico di Çayönü (Anatolia sud-orientale).

In alto Hattusa, santuario di Yazılıkaya, sala B. Rilievo che raffigura il re Tudhaliya IV, vestito di un abito da cerimonia e abbracciato dal dio Sharrumma. 1993 Scavi di emergenza a Nevali Çori (Sanlıurfa) condotti dall’Università di Heidelberg, sotto la direzione di Harald Hauptmann. Emergono edifici elaborati, databili al Neolitico Antico, e resti di grandi sculture in pietra. 1993 Ian Hodder, allora all’Università di Cambridge, riprende il progetto di scavo a Çatalhöyük. 1995 Una missione congiunta del Museo di Sanlıurfa e dell’Istituto Archeologico Germanico, sotto la direzione di Klaus Schmidt (1953-2014), dà il via agli scavi di Göbeklitepe. Scoperta dei grandi complessi megalitici con rilievi e sculture in pietra.

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LA STORIA

Vasi in pietra con decorazioni incise, da Körtik Tepe (Diyarbakır, Bismil). I manufatti si datano tra il Paleolitico e il Neolitico preceramico.

Paleolitico Superiore, a partire dai 45 000 anni fa, corrispose all’invenzione di piú efficienti ed economici modi di tagliare la selce, creando strumenti a forma di lame ritoccate per raschiare e incidere, e di manufatti in osso abilmente trasformati in punte e punteruoli; e all’uso, sempre piú frequente, di conchiglie marine forate e indossate a scopi decorativi, come testimoniato anche da sepolture. I cacciatori del tempo sfruttavano branchi di daini, cervi, pecore e capre selvatiche. Gli scarsi resti ossei umani rinvenuti (soprattutto denti) associano queste innovazioni alla diffusione delle forme anatomicamente moderne di Homo sapiens. Anche se l’archeologia del Paleolitico, fatta di mute pietre scheggiate, di rarissimi resti fossili umani e poco altro, sembra impallidire di fronte alla grandiosità dei resti archeologici dei millenni successivi, il territorio turco è in realtà molto ricco di resti di queste età arcaiche, che lo pongono al centro dei molti interrogativi che ancora prevalgono in questo tipo di studi.

Gli ultimi cacciatori Una delle grandi transizioni sulle quali si è concentrata l’attenzione degli archeologi ebbe luogo tra i 13 000 e i 7000 anni fa circa in varie regioni del Vicino Oriente, quando clima e vegetazione della penisola anatolica

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cambiarono, trasformando le vaste steppe erbacee che costeggiavano i fronti degli ultimi ghiacci in foreste di querce e pistacchio sempre piú verdi. Nelle grotte del sito di Karain, presso Antalya, in strati riferibili a fasi preistoriche, gli archeologi hanno osservato un netto cambiamento negli strumenti in pietra scheggiata, che divengono microlitici, assumono cioè la fisionomia di lame spezzate in serie di piccoli frammenti di forma geometrica, da montare su supporti di legno od osso. Insieme a questi vi sono ciottoli coperti di sottili e intricati disegni geometrici, piú raramente di segni dipinti in rosso, e di qualche immagine animale e umana; figure di animali, forme antropomorfe e geometriche tracciate in ocra rossa compaiono anche sulle pareti rocciose di un riparo a poca distanza da Antalya. Nei siti del tempo gli strumenti in osso si fanno piú comuni, e, insieme ai resti di pasto, provano l’attuazione di strategie di caccia sempre piú concentrate su pecore e capre. La frequenza di macine e macinelli in pietra, e i resti vegetali, indicano inoltre lo sfruttamento crescente di bacche e semi commestibili, soprattutto di cereali selvatici. Ma l’inventario delle specie vegetali raccolte e consumate in questa fase tarda della preistoria è ben piú ampia: noci e mandorle selvatiche, legumi selvatici, pistacchi, ghiande (commestibili dopo cottura per l’eliminazione del tannino), frutta come pere e uva selvatica, bacche di bagolaro, piú tuberi, bulbi e radici di diverse altre piante. Simili cambiamenti si colgono in una regione molto vasta, dalle sponde del Mar di Marmara al cuore degli altopiani centrali. Non occorre sottolineare l’importanza cruciale che alcune di queste specie, «sperimentate» dagli ultimi cacciatori anatolici, hanno ancora oggi nell’alimentazione dell’intero pianeta. In pratica, dobbiamo all’Anatolia molto di piú di quanto comunemente non si pensi. Nel clima complessivamente favorevole di 12 000 anni fa, il mondo degli ultimi cacciatori-raccoglitori nomadi dell’Anatolia si fece ben presto piú stabile, ricco e complesso.


invece, collegano Hallan Çemi a Körtik Tepe, sempre nei dintorni di Batman e Diyarbakır, alla confluenza del fiume omonimo con il Tigri.

Una straordinaria abilità artigianale

In alto frammenti di oggetti in osso decorati con motivi geometrici e animali incisi del Neolitico preceramico A, da Körtik Tepe (Diyarbakır, Bismil). Nella pagina accanto placchette e ciottoli in pietra decorati datati al Neolitico preceramico A, da Körtik Tepe.

Dobbiamo agli scavi di tell (monticoli artificiali creati dalle stratificazioni archeologiche) come Hallan Çemi, Çayönü e Körtik Tepe la scoperta dei primi edifici della regione: non solo piccole residenze, ma anche edifici di dimensioni maggiori interpretati come sedi di riunioni collettive. A Hallan Çemi, presso Batman, sono edifici circolari, con mura in fango e pietre e pavimenti in terra con focolari, associati a basse piattaforme in pietra o terra, interpretate come basi per silos per cereali. Gli edifici maggiori, di 5-6 m di diametro, erano costruiti alla base con lastre di arenaria, e dotati di una sorta di panca che correva attorno al muro interno; spesso seminterrati, avevano le pareti fatte di pali in legno, fango e canne. Manifestazione di un primo lusso, o di rituali sconosciuti, è una serie di vasi in pietra (arenaria e clorite), con il bordo perforato per essere appesi, e decorati da fini incisioni geometriche e, in qualche caso, da disegni di animali; a forma di animale erano anche mazze in pietra e pestelli con estremità scolpite a forma di capra o maiale. Edifici molto simili sono comparsi anche nei livelli piú antichi del sito di Çayönü (presso Ergani). I vasi finemente decorati in pietra,

Agli inizi del X millennio risalgono infatti i vasi e bicchieri in clorite qui scoperti: alcuni semplici, altri coperti di finissime e intricate incisioni geometriche, e figure animali come stambecchi, serpi e scorpioni, che evidenziano una straordinaria abilità artigianale. Le stesse immagini brulicano anche su raffinati oggetti in osso. Impressionano, a Körtik Tepe, anche una serie di ciottoli o placchette in pietra scolpiti a bassorilievo con enigmatiche immagini stilizzate, forse figure di insetti. Mazze e pestelli scolpiti in forme animali stilizzate sono analoghe a quelle di Hallan Çemi. Alcune sepolture, inoltre, erano coperte di migliaia di perline e bracciali in pietre bianche, rosse e verdi. Allo stesso periodo, 10 500-9500 a.C. circa – che è stato ben definito come l’apogeo dei cacciatori-raccoglitori del primo Olocene –, risalgono anche le ultime, clamorose scoperte In basso ancora due vasi in pietra con motivi decorativi incisi, da Körtik Tepe (Diyarbakır, Bismil).

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LA STORIA

fatte nella «Collina della pancia» di Göbeklitepe, presso Sanlıurfa, nell’alta valle dell’Eufrate. Se i lussuosi manufatti degli altri siti indicavano una società già popolata di artigiani specializzati e di personaggi socialmente emergenti, che si distinguevano dagli altri mediante l’uso di oggetti raffinatissimi, nessuno avrebbe mai immaginato i fantastici scenari dei megaliti figurati di questo ormai celebre e visitatissimo sito preistorico. Poche scoperte hanno scompaginato altrettante nozioni che si credevano acquisite, rivelando la fragilità delle ricostruzioni accademiche. Lo scopritore, Klaus Schmidt (1953-2014), considerò i circoli megalitici di Göbeklitepe come «i primi templi dell’umanità», ma essi sembrano piuttosto versioni monumentali delle prime costruzioni circolari seminterrate con banchina interna che, nello stesso millennio, si diffondevano tra la Turchia sud-orientale e le terre oltre il confine siriano. I giganteschi antropomorfi a forma di «T» coperti di immagini

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stilizzate di creature come volpi, avvoltoi, leoni, scorpioni, vipere, uri, cinghiali e insetti suggeriscono elaborate cerimonie tra clan, piuttosto che culti divini; altrettanto può dirsi per la recente scoperta di frammenti di crani umani incisi appositamente per essere appesi all’interno delle sale. Ma la cautela è d’obbligo, visto il poco che ancora sappiamo delle società e dell’economia del tempo. Sembra tuttavia certo che a Göbeklitepe non si viveva di agricoltura, e che furono i secoli del X millennio a condurre le società anatoliche, vicino-orientali, e in senso lato planetarie, verso la piú grande trasformazione della storia umana: quella del Neolitico e delle sue economie produttive.

I tempi del Neolitico Nella preistoria, le alture dell’alto bacino dell’Eufrate erano state collegate alla costa del Levante da un continuo, verde paesaggio di latifoglie, noto agli esperti come il «Corridoio Levantino», lungo il quale le bande

In alto e nella pagina accanto Çayönü (Diyarbakir). Resti di una delle case a pianta rettangolare con fondazioni dette «a griglia» per via degli annessi formati da fitte murature parallele, quindi ortogonali, a delimitare piccoli ambienti usati come magazzini e depositi per strumenti. Simili strutture sostituirono le abitazioni a pianta circolare agli inizi del IX mill. a.C.


Mar Nero

Bulgaria

Georgia

Grecia

Armenia Çamuslu-Yazilikaya

Ankara

Asıklı Höyük Boncuklu

Cafer Höyük

Iran

Çinaz

Boytepe

Hallan Çemi Yedisalkim Çayönü Demirköy Tirsin Körtik Tepe

Nevali Çori Göbeklitepe Gürcütepe Karahan Tepe

Pinarbasi

ri

Tig

Eu

Mar Mediterraneo

Siria

fra

te

Iraq

Libano

Neolitico (11 000-7000 anni fa) I principali siti neolitici della Turchia (in verde, quelli con incisioni rupestri) A destra Çayönü (Diyarbakir). Una veduta zenitale del cosiddetto «edificio dei crani», una vasta costruzione, eretta e trasformata piú volte nello stesso luogo, ad angoli arrotondati, contenente fosse e vere proprie cripte con i resti, in varie condizioni di deposizione, bruciati e non, di almeno 400 persone, insieme a qualche cranio bovino e a numerosi ornamenti preziosi.

nomadiche che vivevano di caccia e raccolta potevano migrare a piacimento. Fu la grande via delle migrazioni dall’Africa all’Eurasia, e viceversa. In questo favorevole scenario ecologico, destinato a scomparire con il graduale inaridimento degli ultimi 7000 anni, si colloca un estenuante dibattito sul perché e sul come le ricche, dinamiche comunità degli ultimi cacciatori abbiano finito per abbracciare modi di vita sedentari, e, con essi, economie, tecniche e ideologie completamente diverse. Le spiegazioni hanno chiamato in causa grandi trasformazioni climatiche, crescenti pressioni demografiche, migrazioni e adattamento ad ambienti in rapida trasformazione, nel corso del quale uomini, piante e animali cambiarono la propria natura, e si trovarono a dipendere gli uni dagli altri in un nodo ormai indissolubile. Recentemente si è sostenuto che proprio l’abbondanza delle risorse naturali, in questo angolo di mondo, abbia creato concentrazioni umane che richiesero per la prima volta il

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LA STORIA

passaggio alla produzione agricola, e, di conseguenza, a nuove forme (gerarchiche) di organizzazione sociale.

Villaggi e «case dei morti» L’agricoltura del primo Neolitico si basò infine su una ridotta, ricorrente serie di specie gradualmente addomesticate: grano duro, farro, orzo, pecore, capre, bovini e maiali, piú alcuni alimenti integrativi, primi fra tutti legumi. In meno di duemila anni, queste specie permisero il sorgere e la rapida crescita dei primi villaggi stanziali; ma solo intorno alla metà dell’VIII millennio i caprovini sarebbero stati pienamente addomesticati. A Çayönü,

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In questa pagina restituzione grafica e veduta laterale di un gruppo scultoreo ricomposto da diversi frammenti (altezza di 1 m circa), risalente al Neolitico preceramico, da Nevali Çori (Diyarbakir).


A sinistra veduta aerea del sito del Neolitico preceramico di Nevali Çori in corso di scavo. Si nota, sulla destra, il cosiddetto «edificio di culto», del quale viene proposta, qui sotto, la ricostruzione assonometrica, nella seconda e nella terza fase costruttiva.

agli inizi del IX millennio a.C. gli edifici rotondi furono sostituiti da case rettangolari, con fondazioni dette «a griglia» per via degli annessi formati da fitte murature parallele, quindi ortogonali, a delimitare piccoli ambienti usati come magazzini e depositi per strumenti artigianali; e da case a costruzioni di maggiore impegno, con pareti e pavimenti realizzati con lastre di pietra, abbelliti da pavimenti ben levigati e sculture in pietra, interpretate come luoghi di culto. Una delle grandi strutture di Çayönü è nota come «Edificio dei crani»: si tratta di una vasta costruzione, eretta e trasformata piú volte nello stesso luogo, ad

Qui sopra frammento in pietra di testa umana con un serpente scolpito posteriormente (altezza di 37 cm), risalente al Neolitico preceramico, da Nevali Çori.

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LA STORIA

rame nativo, lavorati per martellatura, compaiono negli inventari del sito. Simili elaborate case comparvero anche a Cafer Höyük, presso Malatya, e nel sito di Nevali Çori, dove (8400-8000 a.C. circa) ricompaiono pilastri a forma di «T», accompagnati da frammenti di rilievi, grandi statue in pietra e «colonne» figurate, il tutto distinto da strane contaminazioni tra forme umane e animali. A questo contesto e periodo risalgono anche le prime statuine femminili in argilla cotta.

I primi grandi insediamenti

angoli arrotondati, contenente fosse e vere proprie cripte con i resti, in varie condizioni di deposizione, bruciati e non, di almeno 400 persone, insieme a qualche cranio bovino e a non pochi ornamenti preziosi. Nelle fasi tarde di frequentazione, gruppi di crani erano forse posti su mensole o appesi al soffitto, come a Göbeklitepe. Si pensa che simili «case dei morti» fossero sedi di elaborate cerimonie nel corso delle quali i defunti venivano trasformati in «antenati collettivi» dell’intera comunità, o di suoi importanti segmenti. Contenitori in argilla cruda, perline in malachite e altre pietre, oggetti e frammenti in ossidiana, e una consistente serie di oggetti in

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In alto Göbeklitepe (Sanlıurfa). L’area di scavo con le strutture circolari e i monumentali pilastri a «T». Nella pagina accanto il pilastro 43, dalla struttura circolare D, scolpito con figure di avvoltoi e di un grande scorpione. Alto quasi 4 m, è una delle piú spettacolari stele di Göbeklitepe.

Tra la metà del IX e quella del millennio successivo (8500-7400 a.C.) i piccoli villaggi del primo Neolitico furono sostituiti da abitati molto piú grandi e compatti, esemplificati dalle porzioni scavate di Asıklı Höyük, che, si stima, poteva ospitare fino a 2000 persone. Le basi economiche del centro sono discusse; si praticavano l’agricoltura e l’allevamento, ma sembra che contribuissero solo parzialmente alla sussistenza degli abitanti, i quali continuavano a condurre attività di raccolta e caccia a specie selvatiche, e fabbricavano gli strumenti in pietra solo con l’ossidiana. Qui l’archeologo Ufuk Esin dell’Università di Istanbul, intervenendo nel 1988 sul sito, portò in luce centinaia di ambienti. Anche Asıklı Höyük ebbe inizio come un gruppo di edifici seminterrati, a pianta ovale o rotonda; nei livelli della prima metà dell’VIII millennio, lo scavo estensivo ha rivelato un denso agglomerato di case rettangolari o trapezoidali erette in mattoni crudi e raggruppate in blocchi, restaurati e ricostruiti con continuità sulle stesse fondazioni. Le case erano strettamente addossate l’una all’altra, senza porte di accesso; contenevano in media da una a tre stanze, con focolari, e i muri erano internamente intonacati. Si entrava probabilmente dal tetto, mentre tra le case si insinuano viottoli e stretti passaggi, che conducevano a spazi aperti usati per depositare i rifiuti o per episodiche attività lavorative. Il sito neolitico di Can Hasan III (non lontano da Çatalhöyük, 7500-7000 a.C. circa) – alla luce di


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LA STORIA

una trincea di scavo molto limitata – era un simile, compatto agglomerato di case senza porte, completamente circondate da altre, quindi anch’esse accessibili solo dal tetto. Ad Asıklı Höyük, un’unica strada ampia, pavimentata con ciottoli, univa l’agglomerato, che si è tentati di definire «urbano», a due grandi costruzioni in mattoni crudi e pietra e

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Restituzione grafica di una grande scultura maschile realizzata in calcare risalente al Neolitico preceramico, da Sanlıurfa-Yeni Mahalle.

pavimenti colorati, forse destinati a riunioni e cerimonie collettive. Molte stanze, soprattutto quelle dotate di focolari, ospitavano sotto i pavimenti delle sepolture; i resti umani mostravano spesso i segni dell’esposizione al fuoco. I defunti a volte indossavano perline di rame, denti di cervo e pietre semipreziose; eccezionale è il rinvenimento di un bracciale


nero, finemente perforato e sagomato in fragilissima ossidiana; ancora oggi le sue tecniche di manifattura sfidano l’acume degli studiosi e il potere analitico dei loro macchinari. Grazie alla sua importanza, il villaggio agglomerato di Asıklı Höyük si è salvato dalle acque della diga, e costituisce oggi un importante centro di studio e valorizzazione del patrimonio preistorico della Turchia.

Nel mondo della «dea madre» Fino alla metà del secolo scorso, molti studiosi erano convinti che l’Anatolia fosse stata una «terra di mezzo» marginale a nord dei Monti del Tauro, che segnavano il limite della sfera di influenza del mondo mesopotamico. Gli altopiani sarebbero stati occupati solo a partire dal 3500 a.C. e, sulla base di questa teoria, molte scoperte di materiali e contesti che risalivano a età ben precedenti venivano accantonate o minimizzate, o semplicemente riferite a periodi piú recenti. Nei primi anni Cinquanta queste idee cominciarono a vacillare, sotto il peso di chiare testimonianze archeologiche di abitati databili tra il VII e il V millennio a.C. Nel corso di esplorazioni di superficie sulla piana di Konya, James Mellaart, un giovane archeologo inglese, scoprí ceramiche e altri reperti che non corrispondevano a quanto previsto dalle nozioni allora accettate. Solamente dopo le fortunate campagne di scavo dello stesso Mellaart a Hacılar (1957-1960) e a Çatalhöyük (scoperto nel 1958, scavato tra il 1961 e il 1965), e, grazie al sostegno della nuova tecnica di datazione assoluta mediante radiocarbonio, «circa 5000 anni furono aggiunti alla storia della vita sedentaria dell’Anatolia centrale, che da allora fu riconosciuta come uno dei nodi centrali del Neolitico del Vicino Oriente» (Bleda S. Düring, The Prehistory of Asia Minor, 2010). Intorno al 6500 a.C. si registra un abbandono generalizzato del popolamento del Neolitico. Tuttavia, nello stesso periodo alcuni siti, tra cui lo stesso Çatalhöyük, si ampliarono notevolmente, come se fossero giunti a ospitare le comunità periferiche. Vi è chi pensa

In basso Asıklı Höyük (Aksaray). Alcune delle case ricostruite sperimentalmente in base ai dati di scavo danno un’idea del tipo di insediamento del Neolitico preceramico con edifici addossati gli uni agli altri, privi di finestre e con accesso dai tetti.

che la ragion d’essere di simili comunità fosse la necessità di controllare da stazioni collocate in punti critici un accresciuto flusso di materie prime e prodotti artigianali. Oggi i siti del tardo Neolitico scavati sono numerosi (soprattutto nella piana di Konya e in Cappadocia) e le sequenze, con affidabili date assolute, si sovrappongono, consolidandosi l’una con l’altra. In ogni regione del territorio turco, del resto, depositi neolitici svelano le particolarità uniche di un grande mondo svanito: come la collina di Mezraa-Teleitat, presso Birecik, dove altre immagini antropomorfe in pietra, anch’esse dipinte di rosso, parlano un simile linguaggio; o ancora le orme rimaste nel fango preistorico di Istanbul-Yenikapı, che rivelano, piú prosaicamente, la forma delle scarpe di (segue a p. 41)

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LA STORIA

ÇATALHÖYÜK: SCENE DI VITA QUOTIDIANA

LE CASE di Çatalhöyük erano costruite con grandi mattoni in argilla cruda coperti di intonaco. I tetti erano sorretti da travi che sostenevano strati di stuoie, frasche e stesure di argilla. Sulle pareti interne vi erano vistosi affreschi, che forse in qualche caso imitavano elaborati tessuti oppure kilim appesi in verticale. Gli abitanti ignoravano l’uso della lana, ma erano esperti nella tessitura del lino e di altre fibre. Tra le abitazioni si aprivano cortili dove si custodivano gli animali. | TURCHIA | 38 |

SUI TETTI, come ancora oggi avviene nelle città tradizionali del Vicino Oriente, si svolgeva buona parte della vita quotidiana, tra il lavoro delle donne e degli artigiani, la preparazione dei cibi, il gioco dei bambini e il riposo notturno. L’addensamento delle case favoriva anche la difesa e contribuiva alla climatizzazione delle stanze.


LE CASE

OGNI CASA era provvista di magazzini autonomi per le derrate alimentari e il combustibile, di forni per il pane (tradizionalmente chiamati tannur nel Vicino Oriente), e di bassi focolari collocati a terra, protetti da sponde di argilla cruda.

UNA TOMBA

scavata all’interno di una abitazione viene chiamata «sepoltura intramurale». Questa tradizione aveva avuto inizio in età remote, tra il X e il IX millennio a.C., ma era ancora comune, mille anni dopo, a Çatalhöyük. Nel VII millennio a.C. i defunti erano posti in camere vuote sotterranee, quasi certamente lignee, che venivano riaperte per sottrarre il cranio dello scheletro e venerarlo con speciali cerimonie. Una delle piú recenti ed emozionanti scoperte a Çatalhöyük è stata una tomba in cui il defunto abbracciava al petto il cranio di un altro individuo, cosparso di intonaco rosso.

GRUPPI di cinque o sei abitazioni condividevano edifici particolari, ornati di rilievi in intonaco dipinto, grandi affreschi, nicchie e lunghe banchine in argilla cruda contenenti serie di corna bovine, forse a ricordo dei solenni sacrifici in cui gli animali erano stati uccisi. In piú d’una di queste stanze sono comparsi crani estratti dalle tombe. I vistosi rilievi erano stati restaurati o ricostruiti gli uni sugli altri a piú riprese. Secondo Ian Hodder, l’archeologo che ha ripreso gli scavi del sito nel 1993, tali rilievi – che celebrano nelle teste taurine il principio della sessualità maschile, e nell’immagine stilizzata della partoriente quello femminile – erano opera dell’intero gruppo familiare o clan nel corso delle cerimonie piú rilevanti, mentre gli affreschi potevano essere opere individuali. | TURCHIA | 39 |

D is eg n o d i En r ic Pa s s o la s

di Çatalhöyük non avevano porte, né finestre. Secondo James Mellaart, gli abitanti vi accedevano dall’alto, da aperture o botole ricavate direttamente nei soffitti.


LA STORIA

Çatalhöyük. Il settore dell’area archeologica occupata dalle attuali indagini, in cui, nell’estate del 2011 è stato scoperto un dipinto parietale risalente a 9000 anni fa (nel riquadro, il particolare).

Quel che resta di Çatalhöyük I resti dell’insediamento di Çatalhöyük, di fondamentale importanza per la conoscenza della fase piú antica del Neolitico in Anatolia, si estendono per circa 13 ettari. L’abitato si compone di 18 livelli di occupazione, datati tra il VII e il VI millennio a.C., costituiti da un insieme di edifici in mattoni crudi, addossati gli uni agli altri. Dopo le prime ricerche di James Mellaart, le campagne di scavo sul sito, riprese a opera del Çatalhöyük Research Project, diretto da Ian Hodder, hanno portato alla luce una grande quantità di nuovi dati, raccolti in un database disponibile on line, accessibile dal sito www.catalhoyuk.com

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In alto, a destra Çatalhöyük. Un edificio in corso di scavo. Nell’angolo a sinistra, in alto, si trova una piattaforma in argilla caratterizzata da un paio di elementi plasmati in cui sono inserite corna di bovini.

chi, 8000 anni fa, passava di lí, fermandosi forse a chiacchierare. Tuttavia, nessuna scoperta ha il fascino, o ha raggiunto la popolarità, di Çatalhöyük, un insieme di due nuclei abitati (uno, a est, neolitico, l’altro databile agli inizi del Calcolitico) sulle sponde di un fiume scomparso.

Dimensioni inaspettate Quando Mellaart scoprí il sito, si rese immediatamente conto delle sue dimensioni anomale: il monticolo neolitico misurava ben 275 x 450 m, pari a piú di 12 ettari di rovine, e poteva quindi ospitare migliaia di persone. Mellaart esplorò una superficie di 4300 mq, scoprendo circa 400 stanze. La ripresa degli scavi da parte di Ian Hodder (ora all’Università di Stanford, California), nel 1993, fu pianificata per 25 anni. Una vasta disponibilità finanziaria, il prestigio internazionale dello scavatore e tecniche di scavo e analisi che ai tempi di Mellaart non erano neanche pensabili, fanno del nuovo progetto di Çatalhöyük una punta di diamante della ricerca sul passato. Una seconda anomalia è che il territorio circostante il sito non fu, a giudizio di molti, particolarmente favorevole all’agricoltura, per cui le motivazioni della crescita del centro non

sono del tutto chiare. Tuttavia, la sussistenza si basava su prodotti agricoli come grano, orzo, segale, veccia, lenticchie, ceci e piselli, e sull’allevamento di pecore e capre; i bovini di Çatalhöyük, nei livelli piú antichi, erano selvatici, e venivano cacciati insieme ad altri grandi mammiferi come maiali, cervi, asini, cavalli e orsi. La sequenza abitativa va dal 7000 (quando si diffuse la tecnologia della ceramica) al 6000 a.C. circa. Come ad Asıklı Höyük e a Can Hasan III, le case erano prive di porte e addossate le une alle altre, e in molte si entrava, di conseguenza, dal tetto. Tra esse si aprivano spazi aperti usati come latrine, dove piombavano i rifiuti, e dove si tenevano cani e qualche animale domestico. Lo spazio interno, rettangolare, era spesso scandito da file di piattaforme accostate o compartimenti interni, interpretati come basi per letti. Mentre le comuni case misuravano in media meno di 30 mq, qualche edificio, di natura speciale, misurava da 45 a 60 mq. Parlare delle scoperte piú eclatanti del sito – le pitture parietali, le sculture e i rilievi modellati in intonaco dipinto, con ossa resti animali incorporati, e le installazioni similmente decorate – richiederebbe spazio ulteriore. Le immagini dipinte di Çatalhöyük sembrano

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LA STORIA

UN ARCHEOLOGO CONTROVERSO

R

ivoluzionario scopritore e validissimo innovatore scientifico, James Mellaart fu coinvolto, per scelta o suo malgrado, in piú di una vicenda dai contorni non chiariti. A Hacılar aveva portato in luce splendidi vasi che riproducevano immagini femminili in terracotta, interpretate come immagini divine, ed era stato affascinato dall’idea di una grande dea madre anatolica venerata sin dalla preistoria. A Çatalhöyük, nuove statuette e intriganti pitture murali rafforzarono questa fascinazione. Divulgò cosí l’idea che i pannelli geometrici sui muri di alcune case imitassero complicate figure tessili – una figura che sosteneva due uccelli, forme alate, dee globulari incastrate in nicchie – tutti prototipi di diverse sagome stilizzate nei moderni kilim turchi. L’idea di una sopravvivenza di lunga durata di immagini di una dea madre dal Neolitico alle

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moderne tessitrici di kilim aveva in sé qualcosa di geniale, che deliziò femministe e mercanti di tessuti, specialmente negli Stati Uniti. Il libro di Mellaart The Goddess from Anatolia, pubblicato nel 1989, che conteneva confronti tra i disegni dei kilim e schizzi ricostruttivi delle pitture, entusiasmò molto meno i suoi colleghi archeologi. Alla prova dei fatti, molti dei disegni rapidamente abbozzati

da Mellaart erano da tempo scomparsi, senza alcun supporto fotografico; e molti pensarono che l’archeologo inglese avesse basato i suoi disegni su frammenti indistinguibili, adattandoli a interpretazioni preconcette, e falsando in tal modo, anche se involontariamente, la propria documentazione (il «peccato mortale» di ogni ricerca archeologica). Infine, Mellaart andò incontro a una situazione professionale complicata. Rivelò che nel 1958 si era trovato a Izmir, nella casa di una giovane donna di nome Anna Papastrati, che aveva incontrato in treno. La ragazza indossava un bracciale d’oro che, per la sua foggia antica, aveva incuriosito l’archeologo. Invitato da lei a casa, Mellaart poté esaminare i pezzi di un vero e proprio tesoro degli inizi del III millennio a.C.,


contenere riferimenti a scene di caccia, riti funebri e attività sciamaniche, oppure esprimere sistematiche opposizioni simboliche tra i generi, oppure tra l’uomo e il mondo della natura; Mellaart vi aveva colto la riproduzione di tappeti o kilim i cui disegni geometrici, a suo dire, rappresentavano ardite stilizzazioni di immagini divine e complesse simbologie a esse collegate (vedi box in queste pagine).

Immagini «multimediali»

con vasi, armi, gioielli e figurine d’oro e d’argento, che sarebbe stato illegalmente dissotterrato presso il villaggio di Dorak, vicino l’attuale Bursa, sulle sponde del Mar di Marmara. Non avendo avuto il permesso di fotografare il tesoro, Mellaart ne aveva disegnato i pezzi, fermandosi per giorni a casa della donna. Quindi affidò l’intera storia, disegni compresi, all’Illustrated London News. Le autorità interrogarono l’archeologo, il quale non seppe fornire risposte precise sul tesoro e, da allora, non fu piú autorizzato a effettuare scavi in Turchia. Scomparso nel 2012, James Mellaart deve aver portato con sé molti particolari che resteranno sconosciuti, ma ha potuto avere la soddisfazione di vedere il sito di Çatalhöyük inserito dall’UNESCO nella lista del Patrimonio Mondiale.

In alto frammento di uno dei dipinti parietali con scena di caccia, rinvenuti a Çatalhöyük durante gli scavi condotti negli anni Sessanta del Novecento da James Mellaart. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. Nella pagina accanto, in basso il disegno ricostruttivo dell’insediamento di Çatalhöyük, in epoca neolitica. Lo spazio, privo di strade, era caratterizzato da case addossate le une alle altre, alle quali si accedeva attraverso aperture sui tetti.

Le pitture piú comuni di Çatalhöyük sono disegni di mani, scacchiere, croci, reticoli di esagoni, e le composizioni a base di triangoli dei kilim di Mellaart. Strati e strati di intonaco dipinto indicano che le pitture erano costantemente coperte e rinnovate. Le rare scene figurate parlano di affollate cacce a grandi animali e di avvoltoi che scendono dal cielo a colpire col becco i corpi decapitati di figure antropomorfe. Rilievi tridimensionali in intonaco dipinto, provvisti di corna e denti animali – tra i quali le famose «panche» dotate di file di corna bovine, forse testimonianza dei sacrifici sponsorizzati dai capifamiglia –, duravano piú a lungo. I soggetti di queste immagini complesse e «multimediali» erano leopardi e teste taurine, ai quali si affiancano figure meno facilmente riconoscibili che protendono gambe e braccia (o zampe) in senso orizzontale. Le teste taurine reggono, inserite nell’intonaco, grandi corna di uro. Infine, dai muri a volte protrudono escrescenze arrotondate, chiamate un po’ frettolosamente «seni» entro i quali scavi accurati rivelano crani e zanne di cinghiale, rostri di avvoltoi, crani di volpi e di mustelidi, tutti animali che normalmente si cibano di carogne. Le molte sepolture trovate nel sito (piú di 1000 in tutto) erano state fatte direttamente sotto i compartimenti per dormire delle unità domestiche, come deposizioni collettive (cioè ripetute nel tempo nelle stesse fosse o camere). A pochi individui era stato prelevato il cranio, in un caso rivestito di una «maschera» di intonaco rosso, come nei centri del Neolitico Medio e Tardo del Levante. Il fatto che la sepoltura intramurale (sotto i

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mostrano combinazioni di tratti umani e animali. L’immagine piú famosa resta la «Dea sul trono di leopardi» trovata da Mellaart negli anni Sessanta; nuova e impressionante è una statuetta femminile con ventre e seni prominenti davanti, mentre dalla schiena emerge lo scheletro, in una inedita fusione di idee di vita e morte. Le statuette animali mostrano bovidi, cinghiali, cani e grandi felini. Nelle rovine sono stati trovati anche 35 stampi in terracotta con intricati motivi geometrici, e raramente immagini animali. Dato che non ne sono mai state trovate impronte nell’argilla, è opinione comune che si tratti di stampi utilizzati per decorare tessuti oppure il corpo, e non sigilli in senso stretto. La continuità del modello del villaggio agglomerato attraverso due millenni, insieme alla ricchezza della cultura materiale alle sue particolari proiezioni ideologiche, dimostrano l’autonomia dell’Anatolia preistorica dagli sviluppi contemporanei delle altre regioni del Vicino Oriente. Il Neolitico fu un periodo di cambiamenti e adattamenti graduali, nel corso del quale grandi edifici pubblici e spazi appositi continuavano a essere riservati a feste e cerimonie durante le quali si riproponevano gli antichi valori egualitari dei cacciatori-raccoglitori, mentre nelle comunità aumentava, in contrasto, l’importanza di segmenti di lignaggio e gruppi familiari che si confrontavano politicamente. Lo sviluppo di una tecnologia complessa come quella della ceramica avrebbe giocato un ruolo chiave in questo processo.

Tremila anni di cambiamenti A giudicare dall’estrema raffinatezza delle ceramiche e delle figure dipinte, e dell’elevata organizzazione della vita quotidiana nei villaggi, è difficile immaginare come il mondo visivamente ricco del tardo Neolitico e del Calcolitico della Turchia sia rimasto a lungo

In alto una sepoltura infantile rinvenuta a Çatalhöyük. Accanto allo scheletro, deposto in posizione fetale, alcuni monili in pietra. A destra disegno ricostruttivo raffigurante una sepoltura intramurale realizzata a Çatalhöyük sotto il piano pavimentale di un edificio.

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LA STORIA

sconosciuto. Anche se i dati sono ancora molto parziali, è chiaro che per tre millenni, dal 6000 al 3000 a.C., fu un mondo vasto (diffuso in tutta l’estensione dell’attuale Turchia) quanto dinamico, operoso e in dilatazione verso l’esterno. A Hacılar, Mellaart aveva portato in luce un piccolo quartiere di vasai, racchiuso tra mura, nel quale diverse famiglie esercitavano il proprio mestiere tra fornaci, cumuli di argilla, ciotole piene di pigmenti e pile di vasi.

Messaggi identitari Le comunità scoprirono di colpo che i vasi ceramici, per secoli semplici e non decorati, erano un medium eccellente per esprimere, tramite complicati e affascinanti disegni geometrici, una varietà di messaggi identitari. Nelle fasce meridionali della penisola, ceramiche ben levigate, di color crema, si coprirono di intricati disegni di colore rossastro, mentre le regioni del Nord adottavano vasi piú sobri, di colorazione scura; i manufatti trovati nelle regioni nord-occidentali e lungo le coste del Mar di Marmara mostrano legami stretti con le culture dei Balcani meridionali, mentre a sud-est gli sviluppi culturali sembrano aver risentito maggiormente della grande rete di influenza incentrata sulle piane siro-mesopotamiche. Durante il VI millennio a.C., infatti, alcuni dei centri indagati, sia nell’architettura sia nella ceramica, mostrano contatti con le culture meridionali dette di Halaf, che, in Siria e in Mesopotamia, furono protagoniste di una fase di parziale devoluzione, con un crescente ricorso al nomadismo e alla transumanza. Tuttavia, nel Sud-Est dell’Anatolia questa immagine è arricchita dalla presenza di centri ben organizzati, ampi fino a 20 ettari, nei quali si faceva sempre piú comune l’uso di sigilli a stampo per transazioni economiche e commerciali. In questi centri sono stati trovati indizi di grandi feste nelle quali si sacrificavano e consumavano numerosi bovini. Allo stesso periodo si datano probabilmente le affascinanti pitture rupestri dei monti Besparmak, noto come Monte Latmos (presso Aydın), dove figure femminili rosse,

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Pitture rupestri preistoriche in una grotta dei monti Besparmak, presso Aydın.


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LA STORIA

dipinte di profilo, sembrano affiancare gli antropomorfi maschili: le coppie suggeriscono analogie con dee della fertilità, accoppiate a divinità maschili della tempesta. Nei mille anni successivi, si avverte una forte influenza delle successive culture di Ubaid, che al Sud preludono a un forte sviluppo protourbano. Lo sviluppo sociale e tecnologico, tuttavia, continuò a essere largamente autonomo. Comunità protourbane del tardo IV millennio a.C. come Arslantepe (Malatya), Hacınebi Tepe (presso Sanlıurfa) e lo stesso Tell Brak in Siria, dove prendevano il potere delle élite locali, si dotavano di «uffici» e centri di controllo amministrativo. Ciò avveniva ancor prima del contatto con i gruppi coinvolti nel fenomeno della cosiddetta «espansione di Uruk», il processo ancora in parte misterioso, che portò comunità strettamente legate alla Mesopotamia meridionale a formare enclave, probabilmente commerciali, nell’entroterra siriano e al confine con l’Anatolia.

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Contemporaneamente, aggiungendo mistero al mistero, ai margini orientali degli altopiani si diffondevano le ceramiche delle culture transcaucasiche (3500-2500 a.C. circa). Di questo fenomeno, che interessò Armenia, Georgia, Anatolia orientale e Iran occidentale, gli archeologi non sanno ancora dare precise spiegazioni. Antonio Sagona, uno degli esperti di questa fase culturale, pensa a «una tribú (...) organizzata in gruppi sedentari e nomadici che condividevano diritti territoriali e collaboravano

In alto Arslantepe (Malatya). Un settore dell’abitato riportato alla luce dagli scavi e ora musealizzato. Qui sopra alcuni dei vasi facenti parte del corredo della Tomba Reale scoperta ad Arsalantepe nel 1996.


Bulgaria Asagi Pinar Grecia Hoca Çesme

Yarimburgaz

Mar Nero

Küçükçekmece

Georgia

Istanbul-Yenikapi Fikirtepe

Armenia Pendik Ilipinar Demirci Höyük Aktopraklik Barçin Ugurlu-Zeytinlik Ankara Mentese Iran Keçiçayiri Boytepe Ege Gübre Kaletepe Çinaz Ulucak Asıklı Höyük Çayönü Hallan Çemi Yesilova Tepecik-Çiftlik Cafer Höyük Demirköv Çine-Tepecik Çukurici Kösk Höyük Salat Cami Yani Kuruçay Erbaba Boncuklu Besparmak Körtik Tepe Çatalhöyük Hacilar Pinarbasi Nevali Çori Can Hasan Mezraa-Teleilat Bademagaci Süberde Höyücek Akarçay Tepe Peynirçiçegi Yümüktepe Tig ri

Suluin Siria

Mar Mediterraneo

Eu

fra

te

Iraq

Libano

Neolitico Ceramico (7000-6000 anni fa) Cartina della Turchia con l’indicazione dei principali siti del Neolitico ceramico a oggi noti In basso olletta in ceramica dipinta, da Arslantepe. Bronzo Antico III (2500-2000 a.C.). Malatya, Museo Archeologico.

a livello politico». Due tombe reali scoperte nel 1996 sui pendii di Arslantepe dalla prestigiosa missione archeologica italiana diretta da Marcella Frangipane avevano, come corredo, una singolare associazione di preziosi manufatti chiaramente ispirati a fogge transcaucasiche e altri di stile siro-mesopotamico, che mostrano

la singolare capacità di adattamento e integrazione dei signori di questa importante capitale protostorica del tempo.

La prima Troia Il III millennio a.C., nel mondo anatolico, comprende i secoli della piena rivoluzione urbana, e infine il contatto con il primo Stato sovranazionale della storia, quello accadico, fondato da Sargon in Mesopotamia nel XXIII secolo a.C. Protagonisti della formazione, negli altopiani centrali, furono diversi piccoli centri mediamente estesi per 8-9 ettari, nei quali gruppi di élite, o classi emergenti, giungevano a controllare e a sfruttare i villaggi dei territori circostanti. Esempi di questo sviluppo sono gli abitati di Troia I nel Nord-Ovest, di Beycesultan, Karatas, Küllüoba nelle regioni sud-occidentali, di Liman Tepe, Tarso e Mersin nei distretti occidentali. In simili contesti comparvero i primi esempi di architettura monumentale, con piccoli palazzi e mura di difesa, mentre le

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LA STORIA

In questa pagina la Tomba Reale scoperta ad Arslantepe nel 1996 in corso di scavo e, in basso, una ricostruzione grafica della sepoltura. 3000 a.C. circa. Nella pagina accanto oggetti di pregio rinvenuti all’interno della Tomba Reale, fra cui bracciali e spirali in lega di rame, in argento e in oro, nonché un pugnale in argento. 3000 a.C. circa.

sepolture cominciavano ad abbandonare le camere sottostanti le abitazioni per concentrarsi in apposite aree extraurbane. La popolazione aumentava, come il numero degli insediamenti e dei centri di potere. La chiave di questa trasformazione è universalmente individuata in una fiorente e dinamica metallurgia, agevolata non soltanto dalla naturale diffusione di abbondanti affioramenti di minerali metallici, ma anche dalla crescita di una classe artigianale che padroneggiava tecniche molto sofisticate. Si parla, al proposito, del rapido sviluppo di una «rotta commerciale pan-anatolica» o di una grande rotta carovaniera, che univa la Mesopotamia alle coste della penisola, quindi ai traffici navali del Mar Nero, dell’Egeo e alle vie di traffico che si inoltravano oltre gli Stretti, nei Balcani. Nell’Anatolia sud-orientale, anche a causa di contatti piú stretti con il fiorente

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mondo del Sud, i reticoli territoriali si fecero piú articolati, con centri urbani estesi fino a 35 ettari a dominare città minori, mentre queste, a loro volta, controllavano i villaggi rurali. Opere di muratura urbana, grandi edifici costruiti su terrazze artificiali e tombe a camera ricche di manufatti preziosi testimoniano il predominio acquisito dai leader politici e militari del tempo.

Il controllo dei Dardanelli Nello stesso periodo, intorno al 2300 a.C., venne violentemente distrutto il secondo insediamento di Troia, sorto sulle tracce di un precedente insediamento mercantile di case in pietra (Troia I, circa 3000-2500 a.C.), che sfruttava la sua posizione dominante l’accesso dei Dardanelli. Nel corso del III millennio, l’abitato si era sviluppato come una cittadella di 300 m di diametro, in cui si trovavano una ventina di edifici, tra cui la casa del re o capo,

protetti da imponenti murature in pietra, con torri e porte controllate. La cittadella dominava su una estesa città bassa dove viveva la gente comune. Negli strati di Troia II (2500-2300 a.C.) si celava probabilmente il celebre «Tesoro di Priamo», o «I gioielli di Elena», come lo battezzò Heinrich Schliemann, sbagliando l’attribuzione cronologica (la Troia della tradizione omerica risaliva infatti alla fine dell’età del Bronzo, negli strati denominati VIIa). Il tesoro – non è escluso che si trattasse del corredo di una tomba reale – conteneva punte di lancia e vasi in rame, vasi in oro, argento, elettro e bronzo, anelli e bracciali in oro, una fascia frontale in oro, quattro lussuosi orecchini e due diademi in oro, uno dei quali formati da non meno di 16 000 elementi aurei fissati con filo dello stesso metallo. Allo stesso arco di tempo (2350-2150 a.C. circa) appartengono anche le «Tombe reali» di (segue a p. 54)

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LA STORIA 2018: L’ANNO DI TROIA, UN MITO SENZA TEMPO:

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issarlik – il cui nome significa «piccola città» – è la propaggine di un altopiano calcareo, situata tra le valli del Menderes e del Dümrek, dei due fiumi, cioè, resi celebri da Omero con i nomi di Scamandro e Simoenta. Dal punto piú alto della collina si gode di una buona visuale sulla costa dell’Egeo, distante circa 6 km, e sui Dardanelli, la via d’accesso per le navi dirette nel Mar Nero, distante circa 4,5 km. Non c’è dubbio che la posizione di Hissarlik fosse, da sempre, estremamente favorevole dal punto di vista strategico. Venti anni fa, la collina di Hissarlik – resa celebre dagli scavi ottocenteschi di Heinrich Schliemann, il quale identificò le sue rovine con le vestigia della leggendaria città di Priamo – fu proclamata patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO. Erano gli anni in cui una missione internazionale, guidata dall’archeologo Manfred Korfmann, stava effettuando nuove e sorprendenti scoperte. Alle indagini svolte in quegli anni si deve, infatti, l’individuazione di una vasta «città bassa», munita di un fossato difensivo, di porte e di una propria cerchia muraria, estesa per circa 500 m in direzione sud, di fronte alle fortificazioni a suo tempo scavate da Schliemann. Fu cosí che, nel giro di pochi

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anni, il calcolo della superficie dell’insediamento di Troia si decuplicò, fino a raggiungere un’estensione di circa 270 000 mq. Un piccolo insediamento, di modestissime dimensioni, si trasformò cosí in una città residenziale e commerciale, che aveva il proprio quartiere di governo situato all’interno della cittadella fortificata. Grazie a quelle scoperte, l’immagine stessa di Troia, condizionata per lunghi secoli dalla narrazione omerica, mutò radicalmente: la pianta e le dimensioni della città, le sue mura di pietra e mattoni d’argilla, tutto ciò rinvia chiaramente a un modello urbano tipico dell’ambito culturale vicino-orientale. Dal 2014 gli scavi di Troia sono diretti dall’archeologo turco Rüstem Aslan. Il 2018, invece, è stato proclamato l’«anno di Troia», per celebrare il ventennale dell’iscrizione del sito nella Lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Tra le numerose iniziative messe in atto per promuovere il sito archeologico è prevista anche l’inaugurazione del Museo di Troia, una struttura composta da un grande cubo rivestito con pannelli d’acciaio e da ampi spazi sotterranei, che accoglieranno gli spazi espositivi veri e propri, ma anche laboratori, magazzini, il museum shop, il caffè e il ristorante.


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1. Veduta aerea della collina di Troia. 2. Le mura della cittadella di Troia IV, nell’area Est dell’insediamento. 3-4. Due immagini dell’area del santuario di Ilium, di epoca romana. 5-6. Due immagini dell’Odeon, costruito durante il regno di Augusto, riferibile allo strato di Troia IX.

Troia il nuovo museo Il nuovo Museo di Troia, di prossima apertura (a sinistra una simulazione dell’impatto paesaggistico e, qui accanto, un’assonometria che illustra lo sviluppo degli ambienti sotto il livello del terreno), conterrà reperti provenienti da tutte le zone archeologiche del distretto di Çanakkale. Il progetto prevede l’esposizione di circa 2000 reperti.

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LA STORIA

Alacahöyük, non distante dalla futura Hattusa, con defunti deposti in ampie camere lignee sotterranee, rannicchiati sul fianco e rivolti verso sud. Erano accompagnati da diademi e altri ornamenti aurei, preziose coppe d’oro e di elettro ad alto piede, amuleti, bracciali, collane, fibbie per cinture in oro, elettro, bronzo. Speciali oggetti a forma di cervo o toro, o con forme completamente astratte (cerchi e raggi, svastiche e altri simboli solari) sono comunemente considerati stendardi regali per i carri.

Tra karum e warbatum Anche il quadro successivo ha come oggetto i contatti tra la Mesopotamia e l’Anatolia. Esso inizia intorno al 1950 a.C., quando i primi mercanti Assiri che si muovevano dalla capitale Assur, sulle sponde dell’alto Tigri, frequentavano – pacificamente – l’entroterra anatolico. Qui avevano stabilito i propri karum, vocabolo accadico che indicava normalmente, in patria, un molo o porto, ma che in Anatolia prese a indicare un distretto o un complesso mercantile amministrativo assiro in terra straniera. Warbatum invece indicava stazioni

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In alto ricostruzione di una tomba reale ittita di Alacahöyük realizzata nel Museo Archeologico ed Etnografico di Çorum. A sinistra e nella pagina accanto alcuni degli oggetti di maggior pregio rinvenuti ad Alacahöyük: uno stendardo in bronzo e argento in forma di cervo; uno stendardo in bronzo «a grata»; un calice in oro. III-II mill. a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.


mercantili minori. Lo sviluppo della rete dei karum e dei warbatum era stato reso possibile da tutto ciò che abbiamo sinora visto: oltre all’intensificazione delle attività estrattive e agli scambi dei metalli, l’uso di questi come ricchezza standardizzata circolante, e, naturalmente, la fioritura locale di città ed entità statali, capaci di proteggere (certamente anche a proprio profitto) la presenza e gli spostamenti dei mercanti del Sud, e delle loro ricche carovane.

Un centro nevralgico Il centro del reticolo commerciale assiro era Kanesh, l’antica Nesa (oggi Kültepe, a nord-est di Kayseri). Qui, forme di fusione e pesi standardizzati, sigilli in stili locali e mesopotamici, alcuni di questi ultimi prodotti in loco, facevano parte del kit produttivo e amministrativo dei residenti. Ma il motivo per cui Kültepe è stato scavato senza interruzione per oltre sessant’anni è l’eccezionale documentazione scritta prodotta tra il 1950 e il 1700 a.C. Si tratta degli archivi cuneiformi con l’amministrazione e la corrispondenza di famiglie di mercanti. I testi (ne sono stati contati 26 660) sono scritti su tavolette d’argilla in un antico dialetto assiro della lingua accadica; in grande maggioranza, non sono stati trovati nelle residenze principali, ma nelle case comuni, dove erano conservati a gruppi di 20-30, in cesti, scatole, o vasi sigillati con l’argilla. Le famiglie di Assur mandavano i propri figli maschi a «farsi una fortuna» nell’azienda di famiglia in terra straniera: il business era regolato da un formale diritto commerciale, e consisteva, per semplificare, nell’esportazione da Assur a Kanesh e altre sedi anatoliche di tessuti di pregio di marca assira e stagno proveniente dall’Iran e dall’Asia centrale, scambiarli con partite di oro e argento estratti in Anatolia (sotto forma di oggetti finiti, lingotti, barrette e ritagli), e usare tale incrementata

ricchezza per acquistare in patria nuove partite di tessuti e stagno, aumentando cosí in cicli continui i propri profitti. Tutti i mercanti operavano in modo autonomo; erano bilingui, e sapevano scrivere e leggere, per via del proprio mestiere, un sistema cuneiforme fortemente semplificato. Come capita in casi simili, i mercanti assiri avevano spesso due mogli e due famiglie, una locale a Kanesh, l’altra in patria; litigi, divorzi e ritorni definitivi ad Assur erano regolati da esplicite leggi, che prevedevano multe e punizioni molto piú serie. Malgrado il loro orientamento prettamente economico, le tavolette di Kanesh aprono straordinarie finestre sull’Anatolia della media età del Bronzo: rivelano nomi di città e potenze locali altrimenti sconosciute (oltre a Kanesh, Burhushattum, Luhusaddia, Wahsusana, Zalpa); nominano come Hattum, per la prima volta, la terra all’interno del bacino di Kızılırmak, cuore del futuro impero degli Ittiti (che lo chiamavano, nella propria lingua, Marassantiya), e le sue città del

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LA STORIA

LO SPETTRO DELLE LINGUE

I

testi di Kanesh-Kültepe mostrano che nell’Anatolia del tempo si parlavano almeno 5 lingue principali. Le prime due sono idiomi indigeni, né indoeuropei, né semitici: si tratta dell’hattico (una lingua isolata o forse, secondo alcuni, lontanamente collegata ad antiche lingue del Caucaso) e dell’hurrita, appartenente al gruppo detto hurro-urarteo e parlato nelle terre di confine tra le attuali Turchia e Siria. Mentre la lingua hurrita fu scritta in caratteri cuneiformi, l’hattico è noto solo da toponimi e parole presi in prestito da altre lingue scritte della media età del Bronzo. Lingue indoeuropee erano invece il luvio (parlato nell’Anatolia meridionale e sud-occidentale), l’ittita (diffuso nella grande ansa del Kızılırmak, sede originaria dell’impero ittita) e il palaico, lingua che gli Ittiti chiamavano palaumnili, o «del popolo di Pala», che collocavano a nord e a nord-ovest delle proprie sedi, a ridosso delle sponde sud-orientali del Mar Nero. I primi testi in lingua ittita furono letti dal linguista norvegese Jørgen Alexander Knudtzon (1854-1917), quando si imbatté in tre lettere (scritte in cuneiforme su tavolette d’argilla) provenienti dall’archivio reale del faraone Amenhotep III (1387-1348 a.C.) ad

tempo (Ankuwa, Hattusa, Tawinia, Tuhpia), nonché la contemporanea nazione-Stato di Wamma. I testi mostrano anche che la lingua hattica era diffusa e parlata a Kanesh almeno dal XIX secolo a.C. In tutto, i testi nominano 20 città contenenti karum assiri, e 5 warbatum. La vita economica di questa rete del karum di Kanesh sembra affievolirsi nel XVIII secolo e quindi estinguersi del tutto, probabilmente in conseguenza del deteriorarsi della situazione politica in Anatolia. Forse Kanesh subí anche la concorrenza del sorgere di Hattusa. Con tale dissoluzione, la scrittura sarebbe scomparsa temporaneamente dall’Anatolia, per riapparire in forma diversa secoli dopo nelle corti ittite.

Alle radici di un trionfo Se dessimo, a volo d’uccello, uno sguardo all’Anatolia della media età del Bronzo, vedremmo la vasta penisola come una terra

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In alto tavoletta su cui è impresso a stampo, con due diversi sigilli cilindrici, il resoconto di un processo; il reperto proviene con ogni probabilità da Kültepe. XX-XIX sec. a.C.

variegata e compatta allo stesso tempo, ricca di risorse naturali e abitata da popoli scaltri, esperti nello sfruttamento di rocce e preziosi metalli, nonché abili diplomatici e trasportatori, per terra e per mare. Ogni gente parlava piú di una lingua; aveva ormai idee piuttosto chiare sui Paesi confinanti, e aveva imparato a proprie spese i vantaggi dell’unità e della stabilità politica. Diversi popoli, come a Kanesh, avevano imparato a fondersi creando vaste, permanenti comunità unite dagli interessi economici, piú che dalla religione o dalle ideologie. Città e campagne erano cresciute da sole, senza eccessivi debiti dall’esterno, e senza risentire eccessivamente della distruttiva «mega-siccità» che, nello scorcio del III millennio a.C., spopolò i territori dell’Eurasia meridionale. Su queste basi un nuovo impero nacque rapidamente dai disordini che avevano posto fine all’età dei karum.


Amarna in Egitto che, a differenza delle altre, non erano scritte in lingua accadica. Una tavoletta era in lingua hurrita; le altre due, scambiate dal faraone con un certo Tarhuntaradu, re di Arzawa, erano in realtà scritte in lingua ittita, con logogrammi dei quali si conosceva il significato, ma che non potevano essere letti foneticamente. Malgrado ciò, sulla base di particelle grammaticali, Knudtzon decise che la «lingua di Arzawa» apparteneva alla famiglia indoeuropea, ma pochi gli credettero. Fu l’ orientalista ceco Bedrich Hrozný (1879-1952), nel 1915, ad annunciare pubblicamente che Knudtzon aveva avuto ragione, e che la lingua ittita era effettivamente la piú antica lingua indoeuropea conosciuta. Le antiche scritture anatoliche, oltre al cuneiforme, fecero sporadico uso di propri caratteri geroglifici, che già in pieno II millennio compaiono su sigilli ufficiali. Tuttavia il sistema geroglifico (circa 500 segni) fu usato soprattutto a partire dagli inizi del I millennio a.C. su monumenti in pietra e lastre di piombo per scrivere la lingua luvia.

Il regno di Hatti si formò all’interno della grande ansa del Kızılırmak-Massarantiya. La nascita del centro di potere di Hattusa cade nella seconda metà del XVII secolo a.C. L’espansione dello Stato, nel secolo seguente, è segnata dal sorgere di centri secondari che, nei territori assoggettati, riproducevano su scala minore i tratti urbanistici e monumentali della capitale. Grandi monumenti rupestri che recano i nomi dei sovrani, in gran parte scolpiti nel XIII secolo, a.C. appena prima della caduta finale, riflettono i temporanei confini dell’impero. Tuttavia, la sua geografia viene faticosamente ricostruita piuttosto sulla base dei testi degli archivi reali, che menzionano centinaia di nomi di città e territori in occasione dei rendiconti dei viaggi rituali del sovrano, oppure eventi bellici, senza però collocare tali luoghi precisamente nello spazio. Ancora oggi, centinaia di toponimi sono privi di

In alto un’altra tavoletta probabilmente proveniente da Kültepe e sulla quale, in caratteri cuneiformi, è riportato il testo di una lettera. XX-XIX sec. a.C.

un’identificazione, e altrettanti siti restano senza nome. Inizialmente esteso fino alle coste del Mar Nero, lo Stato, nei suoi cinque secoli di storia (1680-1180 a.C. circa), ebbe principalmente vocazione interna. A nord-est, il confine fu a lungo conteso con le tribú confederate dei Kaskei, che, intorno al 1350 a.C., giunsero a minacciare da vicino la stessa Hattusa. La città di Tapigga (oggi Masat Höyük), un centinaio di chilometri a est della capitale, nei primi secoli dell’impero, fungeva da avamposto contro questi nemici. A sud-est, il monticolo archeologico di Alisar Höyük nasconde i resti di un’altra città fortificata di frontiera. Altri importanti centri provinciali erano Sarissa (Kusakli) e Samuha (Kayalıpınar), a est, in quella che gli Ittiti chiamavano «Terra Superiore», l’alto bacino del Kızılırmak. Nella regione di Malatya, a sud-est, (segue a p. 60)

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LA STORIA GLI ANNI DEGLI ITTITI DINASTIA DI PITHANA E ANITTA

poco dopo il 1800 a.C.

Anitta, re di Kussara, figlio di Pithana, conquista, distrugge e maledice Hattusa e fonda un suo regno con capitale a Nesa (Kanesh).

REGNO DI ZUZU, RE DI ALAHZINA

intorno al 1730 a.C.

Presa di Nesa.

1685-1665 a.C.

PU-Sarruma (il nome è hurrita) è il primo re ad Hattusa.

1665-1640 a.C.

Il re Labarna e la figlia Tawannana estendono il regno alle coste del Mar Nero. I loro nomi diventano titolature reali ufficiali.

1640-1610 a.C.

Dopo una grave crisi dinastica, ha inizio il regno di Hattusili I. Conquiste ad Arzawa e in Siria, scontri con gli Hurriti.

1610-1594 a.C.

Regno di Mursili I. Conquista di Aleppo e saccheggio di Babilonia, che pone termine alla dinastia di Hammurabi.

1594-1520 a.C.

Mursili viene assassinato, e inizia un lungo periodo di conflitti interni ed esterni. Perdita di Arzawa, Kizzuwatna ed altri importanti territori.

1529-1505 a.C.

Regno di Telipinu. Editto contro i crimini dinastici. Tentativi di riprendere la Siria.

1505-1425 a.C.

Altre crisi dinastiche e assassini; perdita di un terzo del regno ai Kaskei del Nord.

1425-1395 a.C.

Regno di Thudaliya II. Risorge l’impero. Sconfitta di Arzawa e Assuwa lungo i confini occidentali, e dei Kaskei a nord-est. Matrimonio dinastico con una principessa hurrita; guerre con i Mitanni e riconquista di territori siriani e di Aleppo.

1395-1375 a.C.

Regno di Arnuwanda I. Conquista di Kizzuwatna, conflitti e tregue con parte dei Kaskei. I Mitanni riprendono le terre di Siria.

1375-1351 a.C.

Regno di Thudaliya III. Disastrosi attacchi da tutti i fronti. Hattusa viene presa e bruciata. Il re e suo figlio (forse illegittimo) Suppiluliuma respingono i Kaskei, riprendono Arzawa ed altri territori.

ANTICO REGNO ITTITA

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NUOVO REGNO ITTITA

1351-1322 a.C.

Suppiluliuma I viene dichiarato re. Guerre con Arzawa e Tusratta, re dei Mitanni. Saccheggio della città di Wazzikanni, capitale dei Mitanni. Nuove pressioni sulla Siria; conquista di Qatna, di Karkemish, Aleppo e delle città costiere del Levante. Dopo eventi confusi, Suppiluliuma muore per una pestilenza, forse importata da una spedizione in Egitto. L’epidemia si diffonde.

1322-1285 a.C.

Regno di Mursili II. Nuove campagne militari contro i Kaskei e contro Arzawa, alleato con gli Ahhiyawa. Trattati di pace con numerose genti sconfitte. Le città della Siria settentrionale si ribellano, ma vengono sconfitte.

1285-1269 a.C.

Regno di Muwattalli, figlio di Mursili II. Trattato di Alaksandu di Wilusa («Alessandro di Ilio»). Spostamento della capitale da Hattusa a Tarhuntassa (Konya, Cilicia). Campagne contro i Kaskei; la sacra città di Nesik viene ripresa. Battaglia di Qadesh (1274 a.C.) con le truppe di Ramesse II (1303-1213 a.C.), che lascia i confini sostanzialmente invariati.

1269-1240 a.C.

La capitale torna ad Hattusa. Dopo alcuni anni di guerra civile con Mursili III, figlio di Muwattalli, che fugge in Egitto, salgono al trono Hattusili III e la sua consorte Puduhepa. Anni di consolidamento e guerre di frontiera con i Kaskei; attriti con gli Ahhiyawa di Millawanda (Mileto); uno scontro militare con la nuova potenza assira.

1240-1210 a.C.

Regno di Tudhaliya IV, figlio di Hattusili I, il re che compare nei rilievi rupestri di Yazılıkaya. Falliti tentativi di riconquistare il regno dei Mitanni. Conquista temporanea di Cipro, Catalogo e restauro di tutti i templi del regno.

1210-1177 a.C.

Regno di Suppiluliuma II. Il re celebra numerose vittorie e conquiste, ma il Paese è afflitto da carestie e da attacchi di pirati (forse provenienti da Sicilia e Sardegna). Intere città a Cipro e la stessa Ugarit sono attaccati e distrutti. Il faraone Ramesse III (1218-1155 a.C.) parla di una migrazione di massa di «Popoli del Mare» per mare e terra. Distruzione di finale di Hattusa. Nella pagina accanto statua del re Suppiluliuma I. Antakya, Museo Archeologico della provincia di Hatay. A destra sigillo del re Hattusili III. XIII sec. Aleppo, Museo Nazionale.

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LA STORIA

si trovava il Paese di Issuwa, conquistato dai re di Hattusa solo in età seguenti. A ovest, altri importanti centri del primo periodo ittita furono le città dei siti di Inandık, Yörüklü-Hüseyindede e Bitik, tutte sedi di importanti edifici pubblici, nei quali si usavano speciali vasi rituali con fregi con scene a rilievo, che restano una delle fonti piú importanti per la ricostruzione dei rituali di corte ittiti. Verso il Tauro e oltre, a sud-est, vi erano le terre di Tarhuntassa e, piú a est, Kizzuwatna, di cruciale interesse geopolitico per le comunicazioni con Cipro e la fascia costiera del Levante. Nella storia dell’impero, tra le regioni piú contese vi furono quelle della costa egea. Nel XIV secolo una potente confederazione di nazioni e città nemiche chiamata Assuwa, localizzata nel Nord-Ovest della penisola, si scontrò con le truppe del re Tudhaliya I, attorno al 1400 a.C. La lista dei membri di Assuwa comprendeva 22 nomi, tra cui [...]uqqa, Warsiya, Taruisa, Wilusiya e Karkija. Se non è certo che i (L)uqqa fossero i Lici, Taruisa presenta una forte assonanza con il nome della Troade, Wiluisya è linguisticamente compatibile con un altro nome legato a Troia, quello di Ilio, e Karkija è quasi certamente la Caria. Il Sud-Ovest della penisola, a sua volta, fu oggetto per secoli di continui conflitti militari. Qui si trovava la terra di Arzawa, un potente nemico di lingua luvia, che insieme agli Ahhiyawa della costa egea (identificabili forse con gli Achei oppure con I Micenei di Efeso) tentavano costantemente di espandere la propria sfera di influenza verso l’interno. La storia politica dell’impero ittita è una lunga vicenda di conquiste, vittorie e sconfitte, espansioni e ritirate, apogei e collassi. Per secoli, lo Stato venne costantemente minacciato su due frontiere deboli: da attacchi portati dalle tribú del fronte nord-orientale, come da continue ribellioni delle città e delle nazioni che si affacciavano sulla costa egea d’Occidente. Piú ancora, fu perennemente minato da spietate guerre di successione, che regolarmente scoppiavano nella famiglia reale alla morte del monarca regnante.

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In basso grande vaso a quattro manici sul quale sono dipinte alcune figure di cervi, da Alisar Höyük. VIII sec. a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

Nei secoli del nuovo regno, oltre a questi endemici fattori di crisi, l’impero si trovò attirato e coinvolto nel complesso gioco politicomilitare che opponeva le grandi potenze del tempo: l’Egitto, i Mitanni, gli Assiri e la dinastia cassita che, dopo Hammurabi e la sua casa, aveva preso il potere a Babilonia. L’Anatolia era definitivamente entrata in un mondo molto piú grande.

La gloria di Hattusa A chi oggi visita il sito di Hattusa (Bogazköy, provincia di Çorum, a est di Ankara) appare un panorama di grandissima suggestione. Hattusa è stata inserita nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 1986, sulla base di criteri culturali. La città sorse al centro di uno sterminato paesaggio ondulato, venne circondata da una cerchia di mura che si sviluppa per 6 km, scandita da porte monumentali abbellite da rilievi raffiguranti guerrieri, leoni e sfingi. Con i suoi 165 ettari di estensione in superficie, la capitale ittita era un centro enorme, costruito con criteri militari.


Le mura, provviste di torri a base quadrata, si susseguono unendo varie sporgenze rocciose. La città sorse su due formazioni rocciose affiancate, una chiamata Büyükkale («Grande Fortezza»), nella parte centro-orientale, e l’altra Büyükkaya («Grande Roccia»), 500 m piú a nord. Il complesso di Büyükkale, anch’esso pesantemente fortificato e separato dalla prospiciente Città Bassa, era il cuore dell’impero. Intorno a tre cortili, ai quali si accedeva tramite porte monumentali, si trovavano gli appartamenti reali, gli edifici usati per l’amministrazione e i magazzini, le residenze del personale e delle guardie di corte, e un edificio di culto. Dagli inizi degli scavi a Hattusa sono state trovate piú di 30 000 tavolette scritte, dalle quali dipende gran parte di quanto sappiamo sulla storia politica del Vicino Oriente del II millennio a.C. Edifici amministrativi sono stati trovati anche nella Città Bassa, dominata dall’enorme tempio urbano dedicato al dio delle tempeste e alla dea del Sole di Arinna, identificati, a partire dal regno di Hattusili III con gli dèi hurriti Teshub e Hebat. Altri templi e luoghi di culto all’aperto si trovavano raggruppati anche a sud, nella Città Alta. Qui, in un solo edificio (Westbau) sono state trovate migliaia di impronte di sigillo di re, regine e principi impresse su etichette di argilla, affisse sugli oggetti da controllare o sui documenti che tali oggetti accompagnavano. Il complesso rupestre di Yazılıkaya si raggiungeva facilmente da una delle porte

In alto il sito di Kusakli, uno dei piú importanti centri provinciali dell’impero ittita. A destra frammento di vaso ittita decorato a rilievo, da Bitik. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

urbane. È un santuario costruito da Tudhaliya IV intorno alla metà del XIII secolo a.C. Nella camera principale 64 divinità sfilano in processione su due pareti parallele: quelle maschili a sinistra, quelle femminili a destra, con corone e lunghe donne. Shaushka (corrispondente a Ishtar o Inanna in Mesopotamia) figura con le divinità maschili, per via della sua associazione con le armi e la guerra. Il gruppo principale dei rilievi mostra Teshup e Hepat, il figlio Sharruma, la figlia Alanzu e una nipote; e i due tori Hurri e Sheri («Notte» e «Giorno»). Tutte queste divinità

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LA STORIA

Città Nord Büyükkaya

Grande roccia

Città bassa

Grande Tempio

Muro a postierla

Ambarlikaya

Büyükkale

Fortezza grande

Nisantepe Sarikale Città alta

Porta dei Leoni

Yenicekale

Porta dei Re

Le porte di Hattusa Veduta interna della Porta dei Re.

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Porta delle Sfingi

hanno nomi hurriti. A Yazılıkaya, Tudhaliya IV scolpí il suo ritratto, identificato da un’iscrizione, come avviene per le altre figure principali. Nella camera minore figurano un fregio di 12 divinità dell’oltretomba e il rilievo di un grande e terrificante dio-spada. La distruzione dei territori anatolici non fu totale, e mentre molte città tornavano alle dimensioni di villaggi, alcuni dei centri principali sopravvissero alla caduta, attraverso radicali cambiamenti nell’architettura, nel cibo e nella cultura materiale. Popolazioni locali si mescolarono a genti immigrate. Le culture si diversificarono, l’economia ricominciò a crescere, e con essa i conflitti, alimentati da una accresciuta disponibilità di armi in ferro, dato che gli investimenti nelle fortificazioni urbane si intensificarono. In tutta la penisola, i nomi di antichi paesi e città dell’età del Bronzo si trasmisero attraverso i secoli, fino ad approdare, cambiati, ma facilmente riconoscibili, nelle geografie della Grecia classica. La frontiera sud-orientale era stata meno colpita dal naufragio del grande Stato unitario ittita, e fu agevolata dal contemporaneo collasso dello Stato medio-assiro sorto nell’alto bacino del Tigri. Qui emerse rapidamente una costellazione di Stati autonomi di varia portata, come quelli di Karatepe, Karamis e Samsat, che mantennero qualche tratto della lingua originaria e spesso l’uso dell’antica scrittura


geroglifica delle corti reali ittite. Diverse città risorsero tra il Tauro e i monti Nur, a Hatay, in Turchia. Di cultura «neoittita», questa fu la terra che le fonti assire chiamarono «Paese di Hatti», e che ha dato alla grande civiltà scomparsa dell’età del Bronzo il nome che oggi le attribuiamo. A partire dal IX secolo a.C., l’Anatolia sud-orientale tornò a essere minacciata dal sorgere di due nuovi, potenti Stati regionali; quello di Urartu a est, dove continuavano a sorgere centri pesantemente fortificati, chiaro segno di un nascente aggressivo imperialismo; e l’impero assiro a sud. Già alla fine dell’VIII secolo, le terre di confine tra Siria e Anatolia si ritrovarono a pagare tributi a questi potenti e spietati vicini.

La capitale di Mida Nel nuovo mondo dell’età del Ferro, a ovest, lungo la costa, forse già a partire dalla tarda età del Bronzo, si erano formate comunità greche. Sempre a ovest emerse il regno di Frigia, con capitale a Gordion. Nel secondo quarto del I millennio a.C. il regno controllava gran parte del cuore dell’Anatolia, e trattava da pari a pari con l’Assiria. Le fonti greche dicono che i Frigi erano giunti dai Balcani, e

In alto Hattusa. La Porta dei Leoni. Qui sopra veduta esterna della Porta dei Re. Sulla sinistra, si riconosce il rilievo raffigurante il dio della guerra.

l’archeologia non smentisce l’affermazione. La loro lingua, infatti, era indoeuropea, e connessa sia a quelle della Tracia, sia al greco, e il loro alfabeto, pur derivando da quelli consonantici del mondo semitico, adottava le vocali. Dal IX secolo a.C. a Gordion comparvero architetture e sculture simili a quelle degli Stati neoittiti del Sud-Est. Nel 740 a.C., quando morí un importante re di Frigia, centinaia di operai abbandonarono il

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LA STORIA

cantiere delle fortificazioni di Gordion, e si misero a costruire uno dei piú grandi tumuli funerari conosciuti; avrebbe ricoperto le spoglie del nonno, o forse del padre del re Mida reso immortale dai racconti leggendari degli scrittori classici. Mida di Frigia, infatti, è considerato lo stesso «Mita di Mushki» menzionato negli annali del re assiro Sargon II dal 718 al 709 a.C. Solo l’iscrizione su un frammento di ceramica, a Gordion, ne riporta il nome. Mita, o Mida, si alleò con gli Assiri; secondo Erodoto fu il primo barbaro a dedicare offerte al santuario di Apollo a Delfi. Nello stesso periodo, bande di Cimmeri, scacciati verso ovest dagli Sciti, penetrarono in Anatolia, sino a prendere Gordion, uccidere Mida e lo stesso Sargon II in battaglia; espugnarono quindi Sardi, uccidendone il re Gige e raggiunsero la costa ionica. Il sito della capitale frigia si estende per 1 kmq. Al centro sorge l’acropoli di Yassıhöyük (13 ettari, per un’altezza di piú di 16 m, con sequenza dall’età del Bronzo al Medioevo); sotto l’acropoli si trovano due zone della Città

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IL SANTUARIO RUPESTRE DI YAZILIKAYA

C

irca 1,5 km a nord-est di Hattusa, sulle pendici di una montagna, si trova il santuario rupestre di Yazılıkaya («la roccia iscritta»), la cui importanza risiede nelle oltre 90 raffigurazioni tra esseri umani, animali e mostri mitologici scolpite sulla roccia. Al santuario si accede attraverso una porta monumentale che conduce a un cortile su cui si affaccia una serie di ambienti.


Una piccola struttura situata nel cortile e interpretata come altare, veniva forse riservata allo svolgimento dei sacrifici. Per un secondo passaggio si giunge agli ambienti cultuali veri e propri. Scoperto nel 1834, quello di Yazılıkaya è un santuario diverso dagli altri templi ittiti: innanzitutto, si trova al di fuori dell’abitato, non protetto da alcun muro di cinta, e con i suoi due

ambienti di culto a cielo aperto, posti negli spazi naturali racchiusi tra le pareti di roccia calcarea alte fino a 12 m. Inoltre, e contrariamente agli altri santuari ittiti, ciascuno dei quali è dedicato a singole divinità, a Yazılıkaya si venerava una molteplicità di esseri divini, quelli raffigurati nei magnifici rilievi che ne decorano le rocce. Sulle due pagine Hattusa, santuario di Yazılıkaya. Immagini dei vari ambienti del complesso, le cui pareti sono decorate da rilievi con cortei di divinità e altri personaggi.

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CAPITOLO

Bassa racchiuse da fortificazioni, e piú oltre ancora la città esterna, racchiusa in un grande aggere in terra. Intorno alle mura si innalzano 200 tumuli funerari, datati tra il IX e il VI secolo a.C.; il maggiore misura 300 m di diametro e 53 di altezza. Al suo interno si trovava una camera lignea, rivestita di grandi pietre e di uno spesso strato di argilla. Conteneva vasi in bronzo e ottone, ornamenti in bronzo e mobilio in legno splendidamente intarsiato. Lastre di cera applicate ai vasi su una trave della camera recavano graffiti dei nomi propri, tracciati nell’alfabeto frigio.

Tutto l’oro di Lidia L’acropoli di Sardi – secondo la tradizione, mai conquistata da assalitori – sorse ai piedi del Monte Buz (Tmolo), sulla cima di un rilievo alto 300 m, fiancheggiato dal corso del torrente Sart Çayı (Pactolo). A nord si estendeva una pianura che conduceva alle sponde del Lago Gigeo. Se la pianura offriva ottima terra coltivabile, i boschi del Tmolo abbondavano di legname di prima qualità, e le sabbie del Pactolo, lo raccontano le fonti greche, erano ricche di polvere d’oro. Presso il lago si trovano

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anche oltre 100 tumuli della necropoli reale, tra i quali quello del re Aliatte II, il padre di Creso (640-560 a.C. circa; 355 m di diametro, 69 di altezza). A partire dal VII secolo a.C., Sardi, sotto la protezione della dea Cibele, fu la capitale del popolo dei Lidi; il re Gige e la sua dinastia, i Mermnadi, regnarono su questo centro espansionista che dal Mar Egeo mirava all’Anatolia centrale. Di Gige sappiamo poco, forse nemmeno il suo nome, che potrebbe derivare dal luvio huha, «nonno», piú un titolo che un nome proprio. Le fonti greche raccontano che era stato un capo militare d’esercito di Mida, quando, nel 696-695 a.C., questi fu sconfitto dai Cimmeri; in seguito, nel 679 (almeno secondo una delle cronologie possibili) sconfisse i Cimmeri e potè consolidare il suo regno occidentale, espandendo la propria influenza alle città della costa ionica. Ma, nel 644, un altro esercito cimmerio ebbe la meglio, prese Sardi e lo stesso Gige, fondatore della Lidia, rimase ucciso. L’ultimo re di Lidia fu il Creso delle leggende greche (596-546 a.C.), sconfitto dai Persiani. La storia dell’incredibile ricchezza di Creso, oltre che alla polvere del Pattolo, era


legata al fatto che proprio in Lidia furono inizialmente fabbricati pezzi d’oro con il marchio ufficiale del regno.

L’Anatolia di Omero...

In alto, a sinistra gli scavi dell’antica città di Gordion. In alto, a destra dritto e rovescio di una moneta lidia, verosimilmente coniata a Sardi, al tempo del re Aliatte. 600-575 a.C.

Quanti parteggiano per la tesi che Omero sia realmente vissuto, collocano la sua vita e opera nell’VIII secolo a.C., in una città della costa anatolica orientale. Le vicende dell’Iliade a lui attribuita hanno come piú probabile sfondo narrativo la tarda età del Bronzo e la cultura degli ultimi centri palatini micenei, alla luce dell’esperienza che il compositore della storia aveva del proprio mondo. Nel Libro II del poema, Omero menziona diversi popoli anatolici come alleati dei Troiani, in una sorta di catalogo che include genti della Troade che parlavano lingue diverse: oltre ai Troiani stessi, i Dardani di Enea, strettamente legati ai Troiani, gli abitanti di Zelea e di altre località del territorio vicino, chiamate Apesio, Adrastea, Pitiea, Practio, Percote, Sesto e Abido. Seguono i Pelasgi «che scagliano la lancia» provenienti da Larissa. Il nome Pelasgi solitamente denota gli indigeni dell’area egea precedenti i Greci – etnonimo che qui sta probabilmente per una comunità non anatolica – e altre genti della Tracia (Ciconi, anch’essi armati di lancia, gli arcieri Peoni e i Paflagoni). Insieme ai Paflagoni compaiono gli Alizoni di Alibe, forse anch’essi immaginati da Omero sulle coste occidentali del Mar Nero. È poi la volta dei Misi (dall’Anatolia nord-occidentale), menzionati insieme ai Frigi, ai Meoni (originari della Lidia), ai Cari e ai Lici. Quest’ultima sequenza sembra percorrere, da nord a sud, l’intera regione costiera egea della penisola, sottolinenado la natura globale del grande conflitto con Troia.

...e quella di Erodoto Come Omero, anche il grande storico greco Erodoto (484-440 o 450 a.C. circa) aveva origini

anatoliche, essendo nato ad Alicarnasso, l’attuale Bodrum. Fu uno dei primi scrittori ellenici a usare la parola «Asia»: specifica che i Lidi dissentivano da chi riconduceva la parola Asia alla moglie di Prometeo, una ninfa oceanina che portava lo stesso nome, facendola invece risalire a un personaggio chiamato Asio, figlio di Coti, figlio di Mane. Le genti anatoliche vengono enumerate dallo scrittore nell’occasione della descrizione dei contingenti dell’esercito e delle navi della flotta persiana, nell’incombenza dell’invasione della Grecia. Erodoto menziona dodici città degli Eoli e altrettante degli Ioni; gli Armeni, definiti «coloni dei Frigi»; i Bitini, arruolati nelle truppe di terra; dei «Siri di Cappadocia»; i Misi, Lidi e Cari, considerati alla stregua di sottogruppi etnici di una originaria popolazione; i Cari della città di Cauno; i Cilici, impiegati nella flotta di Serse, che Erodoto considera originari della costa fenicia; i Cimmeri, protagonisti di assalti contro Gordion e Sardi. Vi sono inoltre i Colchi i quali, sebbene collocati nel margine orientale della penisola, Erodoto, per qualche ragione, considera Egizi, e dei Dori asiatici, nonché Frigi, Lici, Peoni, Panfili, Paflagoni e Teucri – discendendi dal re Teucro che avrebbe fondato Troia, antenato dello stesso Priamo. Sia Omero, sia Erodoto, che non avevano accesso a informazioni alternative, o forse erano mossi da intenti nazionalistici, tendevano a descrivere i popoli anatolici come discendenti da popolazioni greche immigrate. Gli elenchi, tuttavia, ci dicono che entrambi gli autori avevano idee molto chiare sulla composizione etnicamente variegata del mondo anatolico, prima che, alla fine dell’età classica, si compisse una generale omogeneizzazione, accelerata dalla rapida conquista di Alessandro.

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M ar N er o Sinop

Kırklareli

Edirne

Bartin

Moschea Selimiye

Kastamonu

Zonguldak

Istanbul Tekirdag

Karabük

Düzce

Izmıt Yalova

Ordu

Cankiri

Troia

Edremit

Balıkesir

Bursa e Cumalıkızık Bilecik

Zile

ar y a

Eskisehir

Pergamo

Ankara

Kütahya

Sivas

Yozgat

Chio

Izmir

Usak

Salihli

Gediz

Aydın

Efeso

res

Mende

Denizli

Nevsehir

Kayseri

Lago di Beysehir

Burdur

Mugla

Cappadocia Nigde

Konya

Kahramanmaras

Eregli

Çatalhöyük an

Gaziantep

D

Karaman

Xanthos e Letoon

Adana

Antalya Mersin

Mar M edit er r aneo

Osmaniye

Tarsus Iskenderun

Golfo di Antalya

Rodi

Antakya

Repubblica Turca di Cipro del Nord

N 0

100 Km

VIAGGIARE NELLA STORIA La ricchezza del patrimonio archeologico della Turchia ha pochi confronti nel mondo mediterraneo. Non è un caso, dunque, che, a oggi, ben 17 siti siano stati inseriti dall’UNESCO nella lista del Patrimonio Mondiale. Ecco un itinerario alla scoperta delle gemme piú preziose di questo autentico tesoro di Marco Di Branco

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Aksaray Isparta

Moschea e Ospedale

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Pamukkale e Hierapolis

Afrodisia

Mar Egeo

Afyonkarahisar Aksehir

Ödemis

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Kirsehir Manisa

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Hattusa

Kırıkkale

Polatlı

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Merzifon

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Canakkale

Gökceada

Samsun

Safranbolu

Kilis


Ardahan Artvin

Rize

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Kars

Trabzon

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Gümüshane

Un Paese da scoprire

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Bayburt

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Monte Agri

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Malatya

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Lago Atatürk

Batman

Diyarbakır Fortezza e Giardini

Siirt Tigri

Hakkari

Sırnak

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In questa mappa della Turchia sono segnalate tutte le località piú importanti, a cominciare da quelle descritte in queste pagine e, soprattutto, dai siti che l’UNESCO ha inserito nella lista del Patrimonio Mondiale (segnalati dal logo dell’istituzione stessa). Il Paese occupa una superficie molto vasta (774 000 kmq, pari a due volte e mezzo l’Italia) e conta una popolazione di 79 milioni di abitanti.

alla metà del VI secolo a.C. i regni anatolici che vennero a formarsi dopo la caduta dell’impero ittita (in particolare, il regno lidio e quelli di Frigia, Caria e Licia) entrarono a far parte dell’impero persiano grazie all’opera di conquista di Ciro il Grande (546 a.C.). Anche la Ionia d’Asia, in larga parte colonizzata da popolazioni greche, venne presto annessa dagli Achemenidi, sotto il cui controllo le numerose città portuali della Frigia, della Lidia e della Ionia continuarono comunque a crescere e a prosperare. Già prima dell’avvento dei Persiani, la grecità microasiatica, anche grazie agli stretti e fecondissimi contatti con le culture

locali, aveva costituito un grande centro di elaborazione culturale. Qui infatti si formarono molti elementi fondamentali della civiltà ellenica: dall’epica omerica alla poesia lirica, alla filosofia presocratica, alla creazione di un nuovo stile artistico e architettonico. Nel lungo periodo della dominazione persiana, le città greche dell’Asia Minore conobbero un ulteriore momento di fioritura: in quest’epoca, per esempio, venne creato il capitello ionico e furono prodotte preziose opere di scultura e letteratura. L’anno 334, nel quale Alessandro Magno varcò i Dardanelli e diede inizio alla conquista dell’impero persiano, costituí l’inizio di una nuova era nella storia della civiltà greca e, piú in generale, nella storia mondiale: l’età che lo storico tedesco Johann Gustav Droysen (1808-1884) definí «ellenismo». Questo periodo, che ebbe termine con l’avvento di Augusto, vide l’espansione della cultura greca fino all’Asia Centrale e al Nordafrica. La politica culturale di Alessandro, imperniata sul sincretismo, rispettava la mentalità persiana ed era greca nelle forme, ma orientale nella sostanza. Il Macedone era adorato in Egitto come Zeus/Ammon e in Persia aveva costumi achemenidi, introducendo l’uso della proskynesis («prostrazione») di fronte al sovrano. Sotto le due dinastie greche dei Seleucidi e degli Attalidi, la civiltà ellenistica conobbe in Anatolia una stagione straordinaria, sia dal punto di vista economico, sia da quello artistico e culturale, le cui imponenti vestigia archeologiche fanno del viaggio nella regione un’esperienza indimenticabile.

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PERGAMO, CUORE DEL MONDO ANTICO

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no dei maggiori centri politici e culturali dell’ellenismo anatolico era Pergamo (l’attuale Bergama), capitale del regno degli Attalidi. Il sito si trova in posizione dominante sulla valle di Kaikos (Bakır Çayı), nella Turchia egea. Fino al III secolo a.C., la città non era che una piccola fortezza, ma qui l’eunuco Filetero, amministratore del re macedone Lisimaco, trovò rifugio con il tesoro a lui affidato.

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Dopo la morte di Lisimaco, esso venne utilizzato dai successori di Filetero, Eumene I (263-241 a.C.), Attalo I (241-197 a.C.), Eumene II (197-159 a.C.) e Attalo II (159-138 a.C.) per costituire un regno indipendente, che, alla morte di Attalo III, nel 133 a.C., divenne provincia romana (vedi box a p. 74). Gli scavi della capitale furono iniziati nel 1873 e condotti prima dai Musei di Berlino e poi dall’Istituto Archeologico Germanico. Molte


Bergama. Veduta panoramica dell’area del teatro di Pergamo, realizzato sul fianco della collina in epoca ellenistica. Sulla sinistra si riconoscono i resti del tempio di Atena e del tempio di Dioniso, risalenti, rispettivamente, al IV e al III sec. a.C.

delle sculture, fra cui quelle del grande altare dedicato a Zeus, sono oggi conservate nel Museo Archeologico di Berlino e nel Museo Archeologico di Istanbul.

Tra la collina e la pianura La città – che l’UNESCO ha inserito nella lista del Patrimonio Mondiale nel 2014 – era divisa in due principali complessi edilizi: quello della pianura e quello della collina. Il primo, costruito nell’età imperiale romana e non ancora scavato, comprendeva abitazioni, terme, l’anfiteatro e lo

stadio. Dal teatro, un’ampia strada porticata conduceva all’Asklepieion, un grandioso complesso di edifici che comprendeva il tempio di Asclepio, portici, un teatro, varie sale e una fonte salutare. La città ellenistica iniziava dalla cinta muraria costruita da Eumene II ai piedi della collina e comprendeva tre gruppi di edifici: l’agorà inferiore, i ginnasi, e i santuari di Demetra e di Hera, l’acropoli con il palazzo reale e i monumenti principali. Oltre alla cinta muraria di Eumene II esistevano le mura intermedie costruite da Attalo I e una piú antica cerchia sulla

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ITINERARI

sommità del colle, cosicché Pergamo aveva tutte le caratteristiche di una fortezza inespugnabile. I tre nuclei erano collegati per mezzo di una strada lastricata. Il monumento piú celebre della città (e uno dei piú importanti dell’arte ellenistica che sia giunto fino a noi) è l’Ara di Pergamo, un grande altare in marmo asiatico che, secondo l’integrazione piú comunemente accettata della lacunosa iscrizione votiva, sarebbe stato dedicato dal re Eumene II a Zeus e ad Atena Nikephòros, presumibilmente nei primi anni del suo regno. Per renderne possibile la costruzione, furono abbattute le mura dell’acropoli, che avevano molta importanza prima che Eumene II costruisse la cinta inferiore. L’anno dell’inizio della costruzione fu probabilmente il 181 a.C., quando furono istituite (o rinnovate) le feste Nikephòria per la corona d’oro della dea Atena, vincitrice dei

giganti. Per questo si scelse di decorare lo zoccolo dell’altare con le immagini della gigantomachia, lo stesso mito rappresentato da Fidia nelle metope del Partenone. La gigantomachia del grande altare pergameno simboleggiava sia la vittoria della civiltà sulle barbarie, cioè il trionfo degli Attalidi sui Galati (invasori di origine celtica respinti da Eumene II), sia la rinascita della cultura greca nella città di Pergamo. Dopo lo zoccolo e dopo il podio fu eseguito un grande fregio dedicato a Telefo, il mitico fondatore della città. La decorazione marmorea dell’altare fu rinvenuta in frammenti, in gran parte murati nelle fortificazioni bizantine. La ricomposizione del fregio della gigantomachia si deve agli archeologi tedeschi Otto Puchstein e Richard Bohn che furono aiutati dagli scultori italiani Antonio Freres e Temistocle Possenti. Essa fu (segue a p. 74)

L’Ara di Pergamo è una delle massime espressioni dell’arte ellenistica che sia giunta fino a noi dall’antichità

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In basso l’acropoli di Pergamo in una foto scattata durante gli scavi del 1908.


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1. Rotonda di Telesforo 2. Tempio di Asclepio 3. Propilei 4. Biblioteca 5. Fonte sacra 6. Teatro 7. Porta occidentale di accesso alla città 8. Teatro romano 9. Tempio di Atena 10. Anfiteatro romano 11. Stadio 12. Quartiere del Bazar inareto 13. M selgiuchide 14. Corte Rossa 15. Porta dell’acropoli 16. Agorà inferiore 17. Ginnasi 18. Terme 19. Tempio di Era 20. Strada antica 21. Tempio di Demetra 22. Agorà superiore 23. Tempio di Zeus 24. Altare ionico 25. Teatro 26. Tempio di Atena 27. Grande biblioteca 28. Tempio di Traiano 29. G iardino della Regina 30. Caserma

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ITINERARI

A sinistra un gigante serpentiforme, azzannato da un cane di Artemide, particolare del fregio est dell’Ara di Pergamo. Berlino, Pergamonmuseum. In basso testa in marmo, forse un ritratto di Attalo I (241-197 a.C.), dall’acropoli di Pergamo. II sec. a.C. Berlino, Pergamonmuseum.

GLI ATTALIDI, SIGNORI DI PERGAMO

C

apostipite degli Attalidi fu Filetero di Tios (che regnò dal 282 al 263 a.C.), figlio di Attalo, che, nel 282 a.C., fondò un piccolo principato attorno alla fortezza di Pergamo. Gli succedette il nipote Eumene I (263-241), che ne affermò la piena indipendenza. Solo il suo successore, Attalo I (241-197), però, assunse per sé e per i suoi discendenti il titolo di re, dopo aver vinto i Galati. Nel suo lungo regno ebbe tra i principali avversari Filippo V di Macedonia, del quale contrastò il disegno espansionistico, alleandosi, nella II guerra macedonica, con i Romani. La corte pergamena adottò una politica filoromana ed Eumene II (197-159), figlio maggiore di Attalo, fu alleato di Roma contro Antioco III di Siria e nella III guerra macedonica, alla fine della quale fu però sospettato di accordi con il vinto re di Macedonia. Altri sospetti lo colpirono a causa della sua politica verso Antioco IV, cosicché il fratello Attalo II (159-138), succedendogli, preferí rinunciare a una politica estera indipendente. Il suo successore Attalo III (138-133), figlio di Eumene II, lasciò per testamento il proprio regno ai Romani, che, domata l’insurrezione di un altro figlio di Eumene, Aristonico (morto nel 129 a.C.), costituirono con esso la provincia d’Asia.

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resa possibile dal fatto che le lastre del fregio della gigantomachia erano numerate con cifre accoppiate. Al di sotto del fregio, sulla base, erano iscritti i nomi dei giganti e quelli degli artisti; sulla cornice al di sopra del fregio i nomi degli dèi. Anche questi elementi resero possibile la ricostruzione del complesso scultoreo.

Gli dèi contro i giganti Il fregio della gigantomachia del grande altare era formato da piú di 100 lastre alte 2,30 m, ma molto strette, da 0,70 a 1 m. Tale circostanza, dovuta probabilmente alle condizioni della cava, obbligò l’artista che ideò la composizione a disegnare il progetto del fregio con grande esattezza per ordinare alla cava le singole lastre con le misure precise. Il fregio venne lavorato fuori opera, in vari cantieri; ciò è dimostrato dal fatto che nessuna figura oltrepassa l’angolo e che in alcuni punti si nota lo sforzo compiuto per contenere le figure nello spazio di una sola


LA LUNGA STORIA DI UN CAPOLAVORO Prima Eumene II (221-159 a.C.) ristruttura radicalmente metà del la città alta di Pergamo costruendovi il grande II sec. a.C. altare sacrificale in onore di Zeus e Atena, per celebrare la propria vittoria sui Celti galati. Abbellito dal colossale fregio della gigantomachia e da un secondo fregio ispirato al mito di Telefo, l’altare è collegato al vicino piccolo tempio di Atena, il piú antico dell’acropoli cittadina. 90 d.C. Le influenti comunità pagane di Pergamo suscitano il sospetto e l’ostilità delle prime comunità cristiane, al punto che nell’Apocalisse (terza lettera destinata alla Chiesa di Pergamo) l’apostolo Giovanni definisce la città «dimora di Satana», nella quale il demonio «ha il suo trono». Molti vi leggono un’allusione al grande Altare di Zeus e Atena, forse stigmatizzato per l’estrema suggestione delle sue immagini.

viene modificato a piú riprese; il Museo di Pergamo viene inaugurato nel 1930. Per molti si tratta di una «cittadella prussiana», con chiari intenti elegiaci della supremazia tedesca in Europa. 1948 Il fregio dell’Altare viene confiscato dall’Armata Rossa e portato a Leningrado (oggi San Pietroburgo) come parte del pagamento dei debiti di guerra contratti dalla Germania nazista. 1958 I Russi restituiscono il fregio al Museo berlinese, come segno di amicizia nei confronti della Repubblica Democratica Tedesca (DDR).

663-676 d.C. Tra queste date, corrispondenti a due attacchi arabi, l’Altare viene frettolosamente smontato per costruire con le lastre marmoree un nuovo bastione delle mura urbane, limitato alla sommità dell’acropoli. 1864 L’ingegnere tedesco Carl Humann (1839-1896), impiegato dall’amministrazione ottomana per costruire strade, nota nelle murature della fortificazione bizantina resti di un grande fregio scolpito. Contatta il Museo di Berlino segnalando la scoperta e proponendo ricerche archeologiche sul posto, ma viene inizialmente ignorato. 1870-1871 La Prussia, a capo di una confederazione di Stati tedeschi, sconfigge la Francia nella guerra francoprussiana. Guglielmo II viene incoronato imperatore mentre Parigi è cinta d’assedio. Berlino, ora capitale imperiale, vuole munirsi di un polo museale che possa rivaleggiare con il Louvre e il British Museum. 1878-1886 Su incarico del Museo di Berlino, e sotto la supervisione di Alexander Conze (1831-1914; direttore del Museo di Scultura antica e segretario generale dell’Istituto Archeologico Germanico), Carl Humann finalmente ottiene autorizzazioni e fondi, smonta parte del bastione bizantino e porta le lastre scolpite e altri elementi architettonici a Berlino, da rimontare come un gigantesco rompicapo.

In alto le condizioni dell’Altare all’interno del Pergamonmuseum, danneggiato dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, in una foto del 1949. 1990 Riunificazione delle due Germanie e delle collezioni dei patrimoni museali berlinesi. Nuovi progetti di ristrutturazione del Museo di Pergamo e degli altri musei. Inizia un’aspra polemica sulla restituzione del monumento alla Turchia. L’arrivo a Berlino delle sculture provenienti da Pergamo, in una foto d’epoca.

1907-1930 Prima stesura del progetto del Museo di Pergamo da parte dell’architetto Alfred Messel (1853-1909). L’Altare dovrà essere ospitato dalla piú vasta sala museale al mondo, come simbolo ultimo della perfezione della cultura ellenica (e del neoclassicismo). Dopo la morte dell’autore, il progetto

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ITINERARI

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lastra. Come indicano le iscrizioni, purtroppo frammentarie, al fregio lavorarono scultori appartenenti a vari centri artistici: la stessa Pergamo, Atene, Tralles e forse anche Rodi. Conosciamo i nomi di Dionysiades, Menekrates, Melanippos, Orestes e Theorretos e frammenti di iscrizioni che menzionavano almeno altri sette artisti. Gli scultori, fra maggiori e minori, dovettero essere almeno una ventina, ma l’impianto iconografico e stilistico è unitario e si deve certamente a un unico maestro, forse sostenuto, dal punto di vista ideologico e mitologico, dal grande Cratete di Mallo, caposcuola dei grammatici pergameni.

Capitale della provincia d’Asia Dopo essere passata sotto il controllo di Roma, nel 133 a.C., Pergamo si trasformò in una vera e propria metropoli e divenne la capitale della provincia d’Asia. I Romani conservarono le strutture d’età ellenistica, ma dotarono la città degli impianti necessari alle funzioni richieste a un centro imperiale di primaria importanza, quale era ormai Pergamo. Sorsero quindi un Asclepieion, ovvero un santuario salutare, un teatro, un anfiteatro – che è uno dei piú grandi mai realizzati –, un acquedotto, il tempio di Traiano e un Serapeo. In epoca bizantina, per effetto dello spostamento delle rotte

In alto la lotta di Atena, affiancata dalla Nike ad ali spiegate, contro il gigante Alcioneo. Particolare del fregio est dell’altare di Pergamo. Berlino, Pergamonmuseum. Nella pagina accanto particolare del fregio dell’Ara di Pergamo ricostruito, agli inizi del Novecento, nel Pergamonmuseum di Berlino.

commerciali e dei centri politici dalla regione egea all’Anatolia nord-occidentale, e in particolare a Costantinopoli, Pergamo si ridusse al rango di città di media grandezza, ma conservò una notevole rilevanza come sede di una delle sette Chiese d’Asia. All’indomani dell’avvento degli Ottomani, Pergamo visse una nuova stagione culturale, particolarmente evidente nella valle del Bakırçay. La città venne dotata di tutte le strutture necessarie alla vita della popolazione, come moschee, bagno, ponti, khan, bedesten (mercato coperto), arastas (mercato ottomano) e sistemi di approvvigionamento idrico che ricalcavano quelli già apprestati in età romana e bizantina. La sovrapposizione di queste fasi e l’occupazione ininterrotta dei medesimi spazi si riflette nell’assetto urbanistico della città e nelle sue architetture, caratterizzate da frequenti e ben visibili fenomeni di riuso. Ne è prova, in particolare, la chiesa di S. Giovanni, sorta su parte dell’antico Serapeo e che venne poi trasformata in moschea, inglobando anche una sinagoga. Fin dal III secolo a.C., nel territorio circostante la città furono realizzate tombe a tumulo di varia grandezza, a conferma del controllo che Pergamo esercitava sulla valle del Bakırçay. Oltre a questi monumenti funerari vi erano alcuni santuari, come quello dedicato a Cibele a Kapıkaya.

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ITINERARI

IL FREGIO DI TELEFO

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l fregio minore dell’Ara di Pergamo, alto 1,57 m, si stendeva per 79 sulle pareti del portico superiore. Sono stati ritrovati frammenti di 125 figure, che hanno permesso di ricomporre 34,60 m di fregio, nel quale era narrata la storia di Telefo, mitico fondatore di Pergamo: dalla consultazione dell’oracolo da parte di Aleo re di Tegea alla nascita di Telefo, all’arrivo di Auge in Misia, seguita piú tardi da Telefo, che non conosceva la madre, fino alla lotta di Telefo con i Greci sbarcati in Misia, alla riconciliazione con loro, alla

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fondazione di Pergamo e dei culti della città. È il primo esempio di composizione narrativa continua, derivata da schemi iconografici della grande pittura e, come tale, costituisce il precedente piú importante dei fregi storici romani. Appare chiara l’intenzione di rendere lo spazio ambientale in maniera illusionistica, collocando le figure su vari piani, con le piú piccole nella parte piú alta e le maggiori in quella inferiore, in modo da suggerire vicinanza e lontananza. Per tale procedimento pittorico il fregio

di Telefo si distingue da quello maggiore della gigantomachia, dove le figure non sono immerse nel paesaggio ma si stagliano su uno sfondo neutro.

In alto una delle lastre del Piccolo Fregio con la scena in cui Telefo (a destra, vestito di corazza), giunto in Misia, sta per ricevere da Auge le armi con le quali combatterà per il re Teutrante. L’eroe è accompagnato da due giovani misii: l’uno armato di giavellotto e spada, l’altro con indosso un elmo di tipo attico. Alle loro spalle si riconosce un altro personaggio, che muove in direzione opposta e indossa un copricapo di tipo frigio.

In basso la scena raffigura alcuni momenti di un rito di iniziazione al culto di Dioniso: a sinistra un paesaggio con un personaggio barbuto e una fanciulla che reca due torce; poi una colonna che sostiene un leone porta a un’altra scena, con due uomini seduti ai lati di una figura femminile che riceve un oggetto da una donna riccamente vestita, seguita da un’ancella con una scatola in mano. La scena è di difficile interpretazione.


Berlino, Pergamonmuseum. Il plastico dell’acropoli di Pergamo cosí come doveva apparire nel II sec. a.C. La terrazza piú alta è occupata dal tempio di Traiano, piú in basso sorgeva l’altare dedicato a Zeus e Atena.

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ITINERARI

MONTE NEMRUT, LA DEVOZIONE DI ANTIOCO La terrazza occidentale sulla sommità del Nemrut Dag, dove è situata una delle due serie di statue delle divinità venerate nel cosiddetto hierothèsion («sepolcro consacrato da un culto») voluto dal re Antioco I.



ITINERARI

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l sito del Nemrut Dag, la tomba con il santuario sepolcrale del re Antioco I di Commagene, morto fra il 38 e il 32 a.C. rappresenta la perfetta incarnazione del sincretismo ellenistico, che unisce forme e concezioni greche e personali. Il santuario si trova a 2100 m di altezza, su una cima del massiccio dell’Anti-Tauro, coronata da un tumulo alto 50 m e visibile da ogni parte del regno di Commagene. A scoprire il monumento, nel 1881, fu l’ingegnere tedesco Karl Sester, che lavorava in Anatolia orientale per conto del governo turco, per progettare una via di collegamento con l’Anatolia centrale e i porti del Mediterraneo. La scoperta suscitò l’interesse delle autorità tedesche che si tradusse nelle prime esplorazioni del sito, condotte dall’archeologo Otto Puchstein e dallo stesso Sester nel 1882. Nello stesso anno il tumulo fu oggetto di una missione ottomana, condotta da Osman Hamdi Bey, fondatore e direttore del Museo Archeologico di Istanbul, e Oskan Efendi, scultore e docente presso l’Accademia di Belle Arti. Seguí un lungo intervallo, fino al 1938, quando nuove

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In alto veduta della terrazza orientale sulla sommità del Nemrut Dag, dove è situata la serie meglio conservata delle statue delle divinità dell’hierothèsion. A destra pianta del complesso monumentale del Nemrut Dag.

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UNA TESTIMONIANZA PREZIOSA

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l re Antioco I fece scolpire sulla parte posteriore dei cinque troni delle statue di divinità un’iscrizione votiva dalla quale possiamo trarre importanti notizie relative alla struttura dello hierothèsion. Il fatto che l’iscrizione sia stata scolpita sul lato posteriore dei troni su ambedue le terrazze ha reso possibile una ricostruzione quasi integrale del testo, poiché i due esemplari si completano a vicenda. Nel testo Antioco si presenta come annunciatore di una nuova religione, i cui elementi fondamentali derivano dal mondo religioso greco e da quello persiano. L’epigrafe contiene anche una chiave interpretativa delle statue che si elevavano sulle terrazze: stando al testo, al centro troneggiava Zeus Oromasdes (il persiano Ahura Mazda); alla sua sinistra stava seduta la personificazione della «patria Commagene che tutti nutre», rappresentata con una cornucopia nella sinistra,

ricerche vennero svolte dall’archeologo Karl F. Dörner, insieme all’architetto Rudolf Naumann. Nel 1951 il Nemrut Dag fu raggiunto da un’équipe statunitense, della quale facevano parte Theresa Goell e Albrecht Goetze, che si accordò con Dörner – tornato nello stesso anno nella regione – per svolgere ricerche comuni sia sul complesso di Antioco, sia nel vicino sito di Arsamea al Ninfeo (oggi Eski Kahta). Negli anni successivi, Dörner e Goell condussero ulteriori campagne sul Nemrut Dag, dal 1953 al 1956 e poi nel 1958. Nel 1984 il complesso monumentale fu oggetto di

un mazzo di spighe e frutta nella destra e con la testa adorna di una ghirlanda di spighe. Sul lato destro era collocato Antioco divinizzato, mentre i lati esterni erano occupati da Apollo Mithra Helios Hermes (sinistra) e Artagnes Herakles Ares (il persiano Verethragna), riconoscibile dall’enorme clava che teneva nella sinistra. Questa serie di divinità terminava da entrambe le parti con due basi ornate con le statue di un’aquila e di un leone di cui sono rimasti soltanto alcuni frammenti. Nell’iscrizione, inoltre, il re Antioco illustrava ai posteri il significato e lo scopo del santuario. Il monarca non considerava il suo hierothèsion soltanto come il proprio mausoleo, ma desiderava consacrare la cima del Nemrut Dag come luogo santo e trono comune di tutte le divinità. Le figure divine dei grandi dèi da lui dedicate dovevano costituire una testimonianza perenne della devozione del re.

In alto una veduta in dettaglio delle statue poste sulla terrazza occidentale del Nemrut Dag. Sono state identificate, da sinistra, con raffigurazioni di: Antioco I, la dea Commagene, Zeus Orosmasdes, Apollo Mithra Helios Hermes e Artagnes Herakles Ares.

restauri promossi da studiosi tedeschi e dal Ministero turco della Cultura e del Turismo, e quello fu anche l’ultimo anno in cui Dörner lavorò sul Nemrut Dag. Nel 1987, il professor Sencer Sahin, già allievo di Dörner, effettuò una ricognizione fotografica del sito ed eseguí prospezioni geofisiche che miravano a localizzare la camera sepolcrale. Nello stesso anno, il Nemrut Dag è entrato a far parte del Patrimonio Mondiale UNESCO. Nuove ricerche si sono succedute fino al 2004, quando le autorità turche hanno scelto un nuovo approccio allo studio del sito e creato a tale

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ITINERARI

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TRA ROMA E

BISANZIO L’ingresso dell’Asia Minore nell’orbita di Roma è oggi documentato dagli spettacolari monumenti dei piú importanti siti archeologici turchi. La maggior parte dei quali conserva testimonianze altrettanto significative della tarda antichità e dell’Alto Medioevo di Marco Di Branco

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elle operazioni che condussero alla conquista dell’Asia Minore, Roma seppe usare con uguale abilità la leva bellica e quella diplomatica: in effetti, alle azioni militari si alternarono spesso la concessione della cittadinanza romana ai membri dell’élite locale e il conferimento del rango di colonia e di sostanziosi privilegi fiscali alle metropoli microasiatiche piú importanti. Nel I e nel II secolo d.C. le città anatoliche erano fra i piú ricchi e importanti centri di civiltà greco-romana di tutto il mondo classico e le loro imponenti e splendide rovine sono sopravvissute fino a oggi in un eccellente stato di conservazione. In questo periodo il loro carattere è ormai pienamente romano, ed esse si riempiono di teatri, grandi edifici termali, lussuose vie colonnate adorne di statue e dotate di bellissimi portici. Pergamo, Mileto, Sardi, Efeso, Hierapolis, Afrodisia, Priene, Perge, Side, Aspendos…: a partire dal XIX secolo, gli archeologi di tutto il mondo hanno fatto a gara per riportare alla luce i grandiosi monumenti di queste celeberrime città, la cui fase romana rappresenta senza dubbio il momento della loro maggiore fioritura urbanistica, artistica e architettonica. In epoca bizantina si assiste invece da un lato a una decisa contrazione degli spazi cittadini, dall’altro all’affermazione dell’edilizia cristiana, con la costruzione di basiliche, battisteri, martyria e monasteri. Una forte cesura nella vita urbana avviene nel VII secolo, quando gli effetti di una forte crisi economica si saldano a quelli delle lotte e degli attacchi dall’esterno. Il definitivo abbandono dei siti avviene invece fra il XII e il XIII secolo. Due casi eccezionali, a cui dedicheremo particolare attenzione, sono costituiti dalla fondazione e dal millenario sviluppo urbanistico di Istanbul, e dalla vicenda storica e religiosa della Cappadocia, una delle regioni piú affascinanti, anche dal punto di vista paesaggistico, della Turchia attuale.

Priene. I resti del tempio di Atena Polias. IV sec. a.C.

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ITINERARI

GLI SPLENDORI DI EFESO

L’

area su cui sorse la città di Efeso fu colonizzata dagli Ioni sullo scorcio del II millennio a.C. e, nel 334, Alessandro Magno la liberò dai Persiani. Passata sotto il dominio romano divenne capitale della provincia d’Asia (129 d.C.). La città ellenistica e romana si stendeva sulle due colline, il Píon e il Coresso: si conservano tratti della cinta di mura costruita dal diadoco Lisimaco, una fortificazione nella quale si aprivano varie porte, alta 6 m circa, costruita in grossi blocchi e munita di torri quadrangolari. I maggiori edifici della città erano collocati lungo la via Arcadiana,

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fiancheggiata da un duplice porticato e chiusa ai due estremi da due porte. Nella piazza vi erano il teatro, un ginnasio, le terme e il teatro ellenistico (ricostruito tra il I e il III secolo d.C.). Nel III secolo d.C. l’agorà commerciale ellenistica era circondata da portici a due navate con botteghe e magazzini. Nell’altra agorà (costruita sul luogo di una precedente necropoli), si trovavano un odeion del II secolo d.C., una basilica, una fontana e un tempio per il culto imperiale dedicato all’imperatore Domiziano. Tra i monumenti piú famosi della città spiccano il tempio di Adriano, piccolo gioiello di decorazione architettonica di età

La facciata della Biblioteca di Celso, uno dei piú celebri e grandiosi monumenti di Efeso. II sec. d.C.


antonina, e la splendida Biblioteca di Celso, costruita all’inizio del II secolo d.C. per ospitare i libri e la tomba di un ricco bibliofilo cittadino. Dell’antico Artemision, il tempio dedicato alla dea Artemide, divinità protettrice di Efeso (in onore della quale si tenevano feste notturne di carattere orgiastico a cui prendevano parte uomini, donne non maritate e schiave), considerato nell’antichità una delle sette meraviglie del mondo, non restano che pochi elementi. Tra gli edifici cristiani, vi sono la chiesa di fondazione pre-giustinianea dedicata a san Giovanni e, prima della porta di Magnesia, la cosiddetta tomba di san Luca,

costruzione circolare di età classica trasformata in cappella cristiana. Soprattutto, però, va ricordata, 7 km a sud dalla città, la casa della Vergine Maria, una cappella a pianta cruciforme sorta nel luogo in cui la madre del Salvatore avrebbe appunto vissuto e che divenne meta di pellegrinaggi fin dall’antichità. Qui, nel 431, si tenne il terzo concilio ecumenico, uno dei piú importanti nella storia della Chiesa: convocato dall’imperatore Teodosio II e presieduto da Cirillo di Alessandria, condannò la dottrina di Nestorio e proclamò la divina maternità di Maria (theotòkos). L’UNESCO ha inserito Efeso nel Patrimonio Mondiale nel 2015.

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ITINERARI

NEL SEGNO DI ARTEMIDE L’Artemision A sinistra e a destra Selçuk. Due vedute dei resti del tempio di Artemide (Artemision). In basso Istanbul. Ricostruzione ipotetica dell’aspetto dell’Artemision di Efeso realizzata all’interno del parco tematico Miniatürk.

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Dea della fertilità L’Artemide efesina, statua marmorea della dea raffigurata come polimastide («dalle molte mammelle») ovvero come simbolo della fertilità. II sec. d.C. Selçuk, Museo di Efeso.

Ricostruzioni d’epoca Calcografia a colori raffigurante la facciata del tempio di Artemide a Efeso, da un trattato sulle sette meraviglie del mondo. Weimar, 1792.

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ITINERARI

AFRODISIA, CITTÀ DI VENERE

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ome narra Strabone, Afrodisia, una delle piú importanti città della Caria, raggiunse il suo apogeo in età imperiale. Nel I secolo d.C. furono innalzati il grande foro di Tiberio e il teatro, mentre, un secolo piú tardi, furono erette le terme e venne ricostruito il grande santuario di Afrodite. La periferia della città accolse lo stadio.

I tracciati delle principali vie cittadine rivelano una pianta regolare, che unisce la tradizione ellenistica alla monumentalità romana.

La riscoperta Dall’inizio del XX secolo, il sito è stato oggetto di varie campagne archeologiche, condotte da archeologi francesi, italiani e statunitensi. I lavori hanno rivelato, tra l’altro, una piazza misurante 210 × 70 m, circondata su tre lati da un portico ionico, un grande teatro, imponenti terme di età antonina (fra le piú importanti dell’Asia Minore), un odeion. Nel 2017 il sito di Afrodisia è stato inserito dall’UNESCO nella lista del Patrimonio Mondiale. Nel 1961 sono iniziati gli scavi della New York University, che si sono incentrati in primo luogo sul tempio di Afrodite, il principale luogo di culto della città e hanno contribuito a chiarire le principali fasi di vita del santuario pagano e della basilica cristiana in cui il tempio fu

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in quantità, sono senza dubbio le sculture, che comprendono elegantissimi rilievi, intarsi, sarcofagi, ritratti e statuaria. Il materiale portato alla luce dalla missione americana conferma non soltanto l’abilità eccezionale degli Afrodisiensi nella lavorazione del marmo, ma anche grande originalità ed estrema versatilità.

Un cittadino illustre Una delle creazioni piú originali è senza dubbio il fregio di Giulio Zoilos, che onora il cittadino dello stesso nome, rappresentandolo circondato da figure allegoriche come Demos, Polis, Aion, ecc. Dall’odeion e dalle terme di Adriano proviene un numero straordinario di sculture di qualità, fra le quali varie statue di poeti o filosofi seduti, bellissime teste di Apollo, figure di divinità (tra cui una statua colossale dell’Afrodite di Afrodisia, che probabilmente proveniva dal temenos della dea, i cui frammenti furono reimpiegati nelle fondamenta di un muro bizantino) e ritratti di cittadini. Come hanno evidenziato gli studiosi, la scuola di Afrodisia costituisce un importante anello di congiunzione fra la scultura ellenistica In alto veduta dall’alto dello stadio. Lungo 262 m e largo 50, poteva ospitare 30 000 spettatori. Nella pagina accanto, in basso testa marmorea identificata con il ritratto di Apollo o di una divinità femminile. Afrodisia, Museo. A destra il Tetrapylon, porta monumentale innalzata a est del tempio di Afrodite, nel II sec. d.C..

trasformato, probabilmente verso il V secolo d.C. In particolare, i saggi piú recenti hanno portato alla luce le fondazioni della cella pagana che fu completamente distrutta e asportata dai Bizantini. L’ordinamento interno del santuario sembra consistesse in un pronao e in una grande cella. La data di costruzione del complesso, generalmente attribuita all’epoca adrianea (117-138 d.C.), deve essere spostata all’inizio del I secolo a.C., mentre non può essere messa in dubbio la datazione adrianea dell’elegante temenos, certificata dai frammenti dell’iscrizione dell’epistilio. La quantità e varietà dei ritrovamenti di ogni tipo nel corso delle varie campagne archeologiche condotte ad Afrodisia sono notevoli. Ceramica, terrecotte, monete, bronzi, gioielleria e altri oggetti, con datazioni dall’età del Bronzo al XIII secolo, illustrano la lunga e affascinante storia della città caria. Le scoperte piú notevoli però, sia in qualità che

e quella romana. Nella tecnica e nella scelta di temi e soggetti come eroti, centauri, satiri, pescatori, i fondatori della scuola perpetuavano le tradizioni ellenistiche e questa corrente di «ellenismo perenne» rimase viva nella città fino alle soglie dell’età bizantina.

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ITINERARI

HIERAPOLIS, LA SANTA

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iaggiando nella valle del Lico (Çürüsku), affluente del Meandro, ci si imbatte a un tratto in un paesaggio che lascia senza fiato: scogliere marmoree, simili a nuvole o a distese di neve e di cristalli luccicanti, si stagliano sull’orizzonte. Avvicinandosi, si è testimoni del meraviglioso fenomeno naturale che vede l’acqua scorrere levigando le rocce candide, che da lontano assomigliano a morbidi batuffoli di cotone. Si tratta delle piscine marmoree naturali di Pamukkale (il «Castello di Cotone») formate dall’acqua nel corso dei millenni e ora utilizzate come vasche termali, una delle mete turistiche piú rinomate della Turchia. Pamukkale si trova a 20 km circa dal centro urbano di Denizli ed è parte dell’antica città di Hierapolis, celebre per una sorgente di acqua calda, ricca di calcare e di acido carbonico, che sgorgava da una grotta e scendeva in cascate lungo il pendio del monte. Le esalazioni acide rendevano irrespirabile l’aria della grotta, forse chiusa già nel IV secolo d.C., che gli antichi consideravano come una delle porte degli Inferi, e chiamavano Plutonion. La città venne fondata dopo il 190 a.C. da Eumene, re di Pergamo, quale posto di frontiera del territorio da lui conquistato dopo la battaglia di Magnesia. Ben poco si sa della sua storia: ma è noto che, per quanto spesso devastata dai terremoti, fu fiorente per attività commerciali e artigianali e per la sua importanza religiosa, che attirava numerosi pellegrini da tutto il mondo greco-romano. Passata, con il regno di Pergamo, in mano romana, appartenne alla provincia d’Asia e godette del favore degli imperatori Settimio Severo e Caracalla. A partire dal 1957, gli scavi archeologici nel sito di Hierapolis sono stati condotti da una missione italiana. I lavori hanno portato all’identificazione dell’impianto urbano di età ellenistica (un sistema di vie ortogonali, larghe 3 m circa, con la plateia maggiore larga 13 m e

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Il teatro di Hierapolis. Dotato di una cavea di 98 m, poteva ospitare 6000 spettatori ed è uno dei piú grandi edifici per spettacoli della Turchia. Inizi del III sec. d.C.

fiancheggiata da porticati) e delle principali fasi di vita della città: un terribile terremoto, databile all’età neroniana (60 d.C.), causò la distruzione quasi totale della città e determinò la susseguente ricostruzione di monumenti pubblici e la pianificazione di due quartieri situati a nord e a sud della città ellenistica, attestati sul prolungamento della grande plateia; quest’ultima, scandita da pilastri, era fiancheggiata a est da una grande agorà commerciale, in corso di scavo, il cui lato di fondo è dominato da due basiliche con un ingresso monumentale. Al centro della città è stato messo in luce il tempio dedicato ad Apollo Archeghetes, il grande e splendido teatro cittadino, costruito in epoca flavia, e il già menzionato Plutonion. Le necropoli di Hierapolis costituiscono una fonte straordinaria per lo studio della storia dell’architettura funeraria nel corso dell’età ellenistico-romana in Asia Minore e un fondamentale documento dell’organizzazione socio-economica, artistica e culturale della città. Vasti sepolcreti si estendono al di fuori del perimetro dell’abitato: il piú importante, per il numero e la maestosità dei monumenti, si trova a nord, lungo i due lati della strada per Tripolis-Sardi. Una seconda necropoli si sviluppa a sud, lungo la via per Colossi (città della Frigia situata non lontano moderna città di Honaz); una terza è posizionata sulle pendici della collina a Est della città. I monumenti funebri sono varie centinaia e di diverse tipologie e soluzioni architettoniche.

La tomba dell’apostolo L’importanza di Hierapolis cristiana è testimoniata da una grande scoperta recente: quella del martyrion dedicato all’apostolo Filippo, che avrebbe evangelizzato la Frigia sotto Domiziano e sarebbe stato martirizzato a Hierapolis. Intorno alla tomba è stato individuato anche un nuovo grande complesso archeologico, che si estende


sull’intera collina orientale ed è costituito da due chiese, una grande strada processionale, gradinate in travertino, cortili, cappelle, fontane, una serie di vasche termali per la purificazione, alloggi per i pellegrini. Un complesso che dimostra come san Filippo, a

Hierapolis, nei primi secoli della storia cristiana, godesse di grandissima devozione. Nel 1988 il sito archeologico di Hierapolis e il «Castello di Cotone» di Pamukkale sono entrati a far parte, congiuntamente, del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.

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ITINERARI

CAPPADOCIA, TERRA MISTICA

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ome sa bene chiunque – almeno una volta nella vita – abbia diretto i suoi passi verso la magica valle di Göreme e nelle gole tortuose della regione di Nevsehir alla ricerca delle «città segrete», l’ambiente naturale della Cappadocia, scolpito dall’acqua e dal vento, evoca immancabilmente i paesaggi delle fiabe dell’infanzia, dove ogni collina era abitata dalle fate e ogni grotta nascondeva un terribile drago. Situato nel cuore dell’altopiano anatolico, il territorio della Cappadocia è costituito infatti da un antico tavolato di tufo vulcanico, che per effetto di un intenso processo di erosione a opera degli agenti atmosferici, si è fessurato e disgregato, dando luogo alle celebri formazioni geologiche che caratterizzano la regione: coni, torri, piramidi e guglie alte fino a 30 m. Isolati o in gruppo, dai profili aguzzi e tormentati, i coni sono in molti casi coronati da blocchi di roccia piú dura, che hanno opposto maggior resistenza all’erosione: i cosiddetti «camini delle fate»; questi ultimi, quando per l’azione erosiva perdono il proprio sostegno, precipitano, lasciando cosí i profili dei coni regolarizzarsi fino ad assumere forme geometriche quasi perfette; l’aspetto lunare dei coni è mitigato dai delicati colori della roccia, che sfumano dal bianco al grigio, dal rosa al malva, e tutto ciò contribuisce a creare uno dei panorami piú affascinanti della terra.

Nel «Paese dei bei cavalli» Il termine «Cappadocia» – che oggi designa il territorio rupestre inscritto pressappoco tra il fiume Kızılırmak e le città di Aksaray, Kayseri e Nigde – deriva dall’antico persiano Katpatuka, che significa «il Paese dei bei cavalli»: in effetti la bellezza dei suoi cavalli fu per tutta l’antichità uno dei maggiori titoli onorifici della regione. Questa terra dalla «personalità geografica»

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Una veduta dell’Açıksaray («Palazzo aperto»), presso Gulsehir. Nell’insediamento, scavate nella roccia vulcanica, vi sono strutture a uso religioso (chiese e monasteri) e produttivo, databili al X-XI sec.


ITINERARI

cosí forte, celebre sin dall’antichità per i rigori del suo clima – e in particolare per le abbondanti nevicate, che nei lunghissimi inverni la isolavano completamente dal resto del mondo – fece a lungo parte dell’impero ittita e gravitò in seguito nell’orbita dell’impero persiano, finché, nel 334 a.C., non venne conquistata dalle armate di Alessandro Magno. Da questo momento in poi, si stabilí in Cappadocia un regno indipendente, a capo del quale era la dinastia iranica degli Ariarathidi (332 a.C.-95 a.C.).

Da Mitridate a Roma Quando l’ultimo monarca del regno ellenistico di Pergamo lasciò in eredità il suo regno ai Romani, essi accentuarono la loro presenza in Anatolia, scontrandosi con le mire del sovrano Mitridate VI Eupatore (120 a.C.-63 a.C.): ebbe cosí inizio un duro conflitto, che si concluse, dopo alterne vicende, con l’entrata della Cappadocia nell’orbita di Roma. Gli Ariarathidi persero il potere, e sul trono cappadoce si installò una dinastia filoromana, quella di Ariobarzane (95 a.C.-36 a.C.), alla quale mise fine il triumviro Marco Antonio; dopo il lungo regno di Archelao, rampollo di A sinistra didramma di Marco Aurelio. Zecca di Cesarea, 161-166 d.C. Al dritto, il profilo dell’imperatore; al rovescio, il Monte Erciyes (Monte Argeo) sormontato da una stella. A destra dracma di Ariobarzane I, re di Cappadocia. 75-74 a.C. Al dritto, testa laureata del sovrano; al rovescio, Atena, in piedi, con lancia e Vittoria.

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un’illustre famiglia pontica (36 a.C.-17 d.C.), nel 17 d.C., durante l’impero di Tiberio, la Cappadocia divenne infine provincia romana con capitale Mazaka-Eusebeia, ribatezzata significativamente Cesarea. Ormai a tutti gli effetti parte dell’impero (sebbene la romanizzazione delle comunità indigene restasse limitata alle classi elevate), tra il II secolo e il III secolo d.C. la regione conobbe un periodo di grande prosperità, che ebbe fine intorno al 260 d.C., quando l’espansione persiana interessò anche alcune zone della Cappadocia; nel 263 d.C. il re di Palmira Odenato strappò ai Persiani la città di Tiana, ma dieci anni piú tardi l’imperatore Aureliano mise fine al regno palmireno e ristabilí il dominio di Roma sull’Oriente: la Cappadocia tornò cosí a prosperare, anche se si fece sempre piú evidente lo squilibrio fra le grandi famiglie aristocratiche romanizzate – le cui fortune fondiarie permettevano loro di accedere alle alte cariche politiche, amministrative e militari dell’impero – e il resto della popolazione, sottoposto all’implacabile fiscalismo romano. La Cappadocia era celebre per la sua intensa vita religiosa, che fu a lungo caratterizzata da due elementi tipicamente orientali: sincretismo e moltiplicazione delle divinità locali, tra cui spiccano il dio aquila, piú tardi associato a Zeus Ouranos, e il dio cervo antropomorfo, che il cristianesimo trasformò nel cervo teoforo di sant’Eustazio. Ma il culto cappadoce piú importante, che si svolgeva nella città santa di Comana, era quello della dea nazionale Mâ, identificata ora con Atena ora con Artemide ora con la romana Bellona. Nella regione abbondavano anche i mistici e i «santi pagani», il piú famoso dei quali fu Apollonio di Tiana, il grande mago e filosofo vissuto nel I secolo d.C. e straordinariamente venerato in epoca tardo-antica. Nonostante il peso delle sue tradizioni pagane,


In alto Comana di Cappadocia (Sar). I resti della Kırık Kilise, monumento funerario del senatore romano Ermodoro, successivamente trasformato in chiesa bizantina.

la cristianizzazione della Cappadocia fu rapida e profonda. Le leggende locali consideravano evangelizzatore della regione e primo vescovo di Cesarea addirittura san Pietro, rappresentato mentre ordina i suoi primi diaconi in un affresco della «Nuova Chiesa» di Tokalı Kilise («Chiesa della fibbia) a Göreme; nel II secolo d.C. Cesarea e Melitene sono note come sedi vescovili, e, nel III secolo, la Chiesa cappadoce sembra già ben consolidata, con Cesarea quale metropoli. All’inizio del IV secolo d.C. la Cappadocia è ormai quasi del tutto convertita,

soprattutto grazie all’azione missionaria di Gregorio il Taumaturgo e a un clero rurale dedito all’evangelizzazione delle campagne. Un buon numero di vescovi cappadoci parteciparono al concilio di Nicea del 325. Per la Chiesa della regione il IV secolo d.C. fu una vera e propria età dell’oro, l’epoca dei celeberrimi Padri cappadoci: Gregorio di Nazianzo, Basilio di Cesarea, e Gregorio di Nissa. Queste tre grandi personalità della storia ecclesiastica mondiale appartenevano all’aristocrazia locale, nel cui esclusivo ambito,

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ITINERARI

Le chiese e i monasteri scavati nella roccia vulcanica della Cappadocia offrono visioni incantate, rese ancor piú suggestive dalla ricchezza e dalla vivacità delle pitture murali in Cappadocia come nel resto delle province romane, venivano reclutati i vescovi. In epoca bizantina la Cappadocia ebbe grande importanza per il suo status di provincia di frontiera. Nei primi decenni del regno di Giustiniano, i Persiani, approfittando dello sforzo bellico dell’imperatore bizantino, che proteso com’era alla riconquista dell’Occidente lasciava sguarnite le difese dei confini orientali, intensificarono le loro scorrerie all’interno dei territori imperiali; Giustiniano fu dunque costretto a trattare la pace con il re persiano Cosroe I, pace che fu stipulata al prezzo di molte concessioni; tuttavia, la guerra riprese sotto i suoi sucessori Maurizio (582-602) ed Eraclio

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In alto Göreme, Tokalı Kilise («Chiesa della fibbia»), Nuova Chiesa. Pitture raffiguranti il profeta Gioele che predice la venuta dello Spirito (a sinistra) e san Pietro che ordina i primi diaconi. Nella pagina accanto, in alto Eski Gümüs, chiesa del monastero. Affresco raffigurante Gregorio di Nazianzo e Basilio.

(610-641): tra il 605 e il 611 i Persiani occuparono Cesarea, proseguendo poi le loro conquiste in Siria, in Palestina e in Egitto. La piú preziosa di tutte le reliquie, la Santa Croce, cadde nelle mani degli invasori, che devastarono Gerusalemme, incendiarono il Santo Sepolcro e giunsero a minacciare direttamente Costantinopoli. Quando ormai tutta l’Asia Minore era sotto il dominio persiano e sembrava ristabilito l’antico impero degli Achemenidi, la potenza bizantina trovò nell’imperatore Eraclio il suo difensore e salvatore: le vittorie leggendarie dell’imperatore provocarono infatti in pochi anni il crollo della potenza persiana. Nel corso delle (segue a p. 107)


UN ESERCITO DI SANTI

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ell’epoca dell’imperatore Diocleziano (284-305) la persecuzione contro chi abbandonava il culto degli dèi di Roma per abbracciare la fede cristiana assunse forme sempre piú aspre, colpendo in modo particolare le truppe romane di stanza in Cappadocia, tra le quali i cristiani erano numerosi e pieni di fervore. In quegli anni la tradizione colloca il martirio del centurione Gordio, originario di Cesarea, condannato come cristiano nel giorno dedicato dai pagani al culto di Mâ; il martirio dei trenta legionari di Melitene, messi a morte per aver rifiutato di sacrificare agli dèi, e, soprattutto, l’esecuzione dei Quaranta martiri di Sebasteia, che un governatore romano avrebbe fatto morire in un lago gelato: alla loro memoria furono dedicati a Cesarea e a Sebasteia grandi santuari, dai quali il loro culto si diffuse in tutto il mondo cristiano. Anche la piú singolare leggenda agiografica della Cappadocia ha per protagonista un militare, il generale romano Placido: costui, inseguendo un cervo, fu colpito dalla visione della croce di Cristo

fra le sue corna e si convertí al cristianesimo con il nome di Eustazio (l’equivalente greco del latino Placido). Caratteristiche dell’imagerie cappadoce sono, infine, le rappresentazioni dei «santi cavalieri», san Teodoro e san Giorgio (quest’ultimo viene tradizionalmente considerato come nativo della regione).

In basso valle di Ihlara, Yılanlı Kilise («Chiesa del Serpente»). Affresco raffigurante i santi Teodoro (a sinistra, sul cavallo bianco) e Teodoro che trafiggono il drago, scena che simboleggia il trionfo del Cristo sul male.

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ITINERARI

LE «CITTÀ SEGRETE»

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no tra i piú celebri complessi sotterranei della Cappadocia è quello di Derinkuyu («Pozzo profondo»), nella provincia di Nevsehir. Si tratta di una fortezza dalla struttura a nido d’api, con un labirinto inaccessibile di gallerie e di pozzi il cui ordine era noto solo ai suoi abitanti. La roccaforte si sviluppava su dodici livelli e la lunghezza complessiva dei tunnel praticabili era di oltre trenta chilometri, e oggi è possibile visitarne una buona parte. Alcuni passaggi verticali sono profondi anche settanta metri, tanto che un tempo erano utilizzati come pozzi, come condotti di immissione dell’aria o come botole supplementari per la fuga.

Il monastero rupestre di Selime, situato al termine della valle di Ihlara.

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È stato calcolato che il complesso di Derinkuyu potesse ospitare almeno 20 000 persone e un certo numero di animali domestici; le gallerie di comunicazione erano molto strette – in modo da impedire ai nemici di utilizzarvi le loro armi – e venivano scavate da un solo uomo alla volta che utilizzava attrezzi alquanto rudimentali. Il secondo grande complesso sotterraneo si trova nel villaggio di Kaymaklı, 18 km a sud di Nevsehir; esso è composto da otto piani, ognuno dei quali contiene quindici grandi ambienti; vi sono anche diverse chiese e cappelle, e vere e proprie cantine, con torchi per il vino e cisterne di deposito.


In alto, sulle due pagine uno degli ambienti del villaggio sotterraneo di Kaymaklı. L’insediamento si sviluppa su otto piani, capaci di ospitare fino a 5000 abitanti; vi sono anche chiese e cappelle, nonché cantine, con torchi per il vino e cisterne di deposito. Qui sopra una porta-macina nel rifugio di Sivasa (Gülsehir).

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ITINERARI

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GIOIELLI DELL’ARTE CAPPADOCE

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a metà del X secolo è caratterizzata dalla realizzazione di un monumento davvero eccezionale, la «Nuova Chiesa» della Tokalı Kilise («Chiesa della fibbia») a Göreme, scavata e sontuosamente decorata per accrescere il prestigio della ricca famiglia cappadoce dei Foca, un cui membro, Niceforo, salí nel 963 al trono imperiale. La chiesa si apre su un portico da cui si accede a un nartece, che a sua volta immette nella navata principale, di forma trapezoidale con volta a cupola, alla quale furono aggiunti successivamente un transetto e tre absidi. La chiesa deve la sua fama agli straordinari affreschi risalenti al regno di Niceforo Foca che rappresentano scene della vita di Cristo e di san Michele, san Giorgio, san Cristoforo e san Basilio. Poiché queste pitture – di altissima qualità – furono realizzate da maestranze provenienti da un grande centro artistico, l’iconografia di alcune scene non è conforme ai modelli abituali in Cappadocia nel X secolo. Sempre a Göreme si trova la Elmalı Kilise («Chiesa del melo») che risale all’XI secolo: per uno stretto pozzo si giunge in un ambiente ricoperto di pitture (eseguite persino sulle colonne e sugli archivolti), nel quale le tradizionali volte a botte sono sostituite da cupole sostenute da pennacchi. La cupola e il timpano principale sono decorati con moduli a zig zag alternati a croci di colore bianco all’interno di medaglioni rossi. Sulle volte e sui pennacchi sono rappresentati episodi della vita di Gesú; sulle colonne, nelle calotte delle cupole e nelle conche delle absidi troviamo i ritratti degli evangelisti e di profeti e re quali Giona, Mosè, Daniele, Elia e David. A Çavusin, la splendida basilica martiriale di S. Giovanni Battista spicca per la struttura architettonica e le ricche decorazioni. La facciata è ornata di archi poggianti su colonne sormontate da capitelli ionici e di porte con fasce modanate nello stile degli edifici cristiani di Siria. All’interno, numerosi affreschi illustrano la vita di Cristo, san Tommaso e san Bartolomeo, mentre in fondo all’abside sono scavati nella roccia un trono e dei sedili. Sulle due pagine Göreme. La ricca decorazione pittorica della Elmalı Kilise («Chiesa del melo»). XI sec. A destra Cavusin. Un particolare della decorazione scolpita nella basilica martiriale di S. Giovanni Battista.

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ALLA SCOPERTA DELLE «VALLI INCANTATE»

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l primo esploratore europeo ad addentrarsi nelle valli della Cappadocia fu Paul Lucas, che visitò la regione nell’agosto del 1705 nel corso di un’indagine sui Paesi orientali eseguita per conto di Luigi XIV. La sua descrizione delle celebri formazioni geologiche cappadoci è particolarmente suggestiva: «Rimasi incredibilmente sconcertato quando vidi le rovine delle antiche costruzioni lungo il Kızılırmak. V’erano innumerevoli piramidi mai viste prima, che avevano graziose porte d’accesso, scale per arrampicarsi, e ampie finestre per fornire la ventilazione a tutte le camere. Erano costituite da numerosi vani scavati sulla sommità di ciascuna massa rocciosa (...). Queste piramidi sono forse il cimitero di Cesarea e dei suoi dintorni, oppure

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Nella pagina accanto in alto Göreme, Tokalı Kilise («Chiesa della fibbia»), Nuova Chiesa. Il settore settentrionale della navata, con pitture che compongono un ciclo cristologico. Nella pagina accanto in basso i «camini delle fate» in una tavola realizzata da Paul Lucas per l’opera con cui diede conto del viaggio compiuto in Grecia, Asia Minore, Macedonia e Africa, pubblicata nel 1712.

sue campagne militari Eraclio soggiornò in Asia per sei anni alla testa dell’armata: partito da Costantinopoli nel 622, si fermò proprio in Cappadocia, a Cesarea, dove trattenne le truppe fino all’autunno dello stesso anno, ritornandovi poi nel 628 e nel 629.

Soluzioni decorative assai variegate Se la maggior parte dei centri rupestri disseminati nelle campagne della Cappadocia sono privi di pitture, nelle chiese vi è invece uno stretto legame fra architettura e pittura, e i vari modelli architettonici (navata unica con soffitto piatto o volta a botte, longitudinale o trasversale, croce libera o croce inscritta) determinano soluzioni decorative estremamente varie, ovviamente condizionate anche dalla competenza e abilità degli artisti e dall’ambizione dei donatori del monumento.

costituiscono una città realizzata con una speciale tecnica costruttiva, il cui unico esempio nell’universo è qui testimoniato? Agli scienziati la risposta». Le prime esplorazioni scientifiche risalgono all’inizio del XIX secolo e furono condotte principalmente da studiosi inglesi e francesi. Di particolare interesse per il loro carattere multidisciplinare risultano le missioni di Ernest e Maurice B. Chantre (1893-1894), ai quali si deve tra l’altro una delle pagine piú belle dedicate al paesaggio della Cappadocia: «Una fioritura di guglie, di coni, di torri, di piramidi dal colore uniformemente grigio, quasi bianco, che sembrano voler confondere la nostra ragione. All’interno di questa valle solitaria, cosí capricciosamente ornata dalla natura,

Per quanto concerne i soggetti, una delle costanti delle decorazioni pittoriche altomedievali è il programma iconografico basato sull’immagine della croce, che a partire dal X secolo tende a essere sostituito sempre di piú da cicli figurativi (storie dell’Antico Testamento, ciclo mariano, momenti della vita di Cristo, teofanie, Giudizio universale e rappresentazioni a carattere agiografico): un deciso ritorno delle immagini che può essere interpretato come un vero e proprio proclama di ortodossia e di iconodulia (difesa del culto delle immagini sacre, n.d.r.). Il X e l’XI secolo sono segnati in Cappadocia da uno sviluppo artistico senza precedenti: i monumenti attribuiti a questo periodo sono al tempo stesso i piú numerosi e i piú riccamente decorati. Göreme e i siti rupestri della Cappadocia sono Patrimonio Mondiale dell’UNESCO dal 1985.

l’immaginazione può a proprio piacimento popolare e animare queste rocce bizzarre e mute. Certi picchi assomigliano a delle donne con il capo coperto, altri hanno l’aria di uccelli fantastici e irrigiditi per sempre nel loro volo pietrificato (...). Chi sono gli uomini che hanno vissuto in questa valle misteriosa e hanno animato queste lande solitarie e mute, autentici fantasmi perduti per sempre in un luogo incantato di fiaba?». Ma il vero fondatore degli studi sulla civiltà rupestre della regione fu il padre gesuita francese Guillaume de Jerphanion, che nei primi decenni del Novecento diede un impulso decisivo alla conoscenza sistematica dell’architettura ipogea di tipo religioso delle chiese, degli insediamenti monastici e della

loro decorazione pittorica: il suo monumentale trattato Les église rupestres de Cappadoce, une nouvelle province de l’art byzantin, pubblicato a Parigi fra il 1925 e il 1942, costituisce ancora oggi un punto di riferimento fondamentale. A partire dal 1950 le ricerche sulla Cappadocia si dividono in due filoni distinti: il primo riguarda l’architettura religiosa, mentre il secondo concerne le «città segrete», le strutture civili scavate nel sottosuolo. Esponenti importanti del primo filone sono oggi Nicole Thierry e Catherine Jolivet-Lévy, vere e proprie eredi di de Jerphanion, mentre il secondo filone è rappresentato dal geografo tedesco Martin Urban e dal gruppo di speleologi italiani facenti capo al Centro Studi Sotterranei di Genova.

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Istanbul. Una suggestiva veduta del complesso di S. Sofia. VI-XV sec.

ISTANBUL, UNA REGINA TRA DUE MONDI

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l sito in cui sorse Istanbul, un promontorio a forma di triangolo fra il Mar di Marmara e il Corno d’Oro, è collocato in una posizione che ne ha fatto da sempre un caposaldo fondamentale sia dal punto di vista commerciale, sia dal punto di vista strategico. L’area della futura città fu occupata sin dalla fine del III millennio a.C. Prima del VII secolo a.C., vi si installò un emporio fenicio, al quale, nel 660 a.C., si affiancò una colonia di mercanti megaresi, che, dal nome del suo mitico fondatore, Byzas, prese il nome di Byzantion. In epoca romana, la città si schierò con Pescennio Nigro contro Settimio Severo:

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quest’ultimo, nel 193 la assediò e, nel 195, se ne impadroní. Dopo un periodo di decadenza, lo stesso Settimio Severo ne promosse lo sviluppo urbanistico, ampliandone grandemente i confini verso il Mar di Marmara. Insieme alla chiesa di S. Sofia e all’Ippodromo, il complesso di edifici meglio conosciuto grazie alle fonti scritte è il Palazzo imperiale, chiamato nelle fonti palation o mega («grande») palation. Esso non era solo la residenza privata e ufficiale dell’imperatore, ma anche la sede dell’amministrazione, della zecca e del tesoro statale. Non si trattava di un unico edificio, ma di una vastissima area di piú di 100 000 mq,


che, dalla piazza antistante S. Sofia (l’antico Augusteo), si estendeva a sud e a ovest.

Un insieme inscindibile Gli edifici del Palazzo erano ripartiti su sei terrazze di diversa altezza, che dalla costa del Mar di Marmara raggiungevano la zona dell’Ippodromo: come a Roma, infatti, Palazzo e Ippodromo costituivano un insieme inscindibile, nel quale lo spazio della politica si saldava con quello della passione popolare per i giochi, condivisa dall’élite e dallo stesso imperatore, offrendo la possibilità di una comunicazione «pre-politica» tra i vari ceti della

società bizantina. Tutta l’area è oggi occupata da costruzioni successive, che rendono quasi impossibile ricostruire nei dettagli le strutture palatine. Grazie al Libro delle Cerimonie, fatto compilare intorno alla metà del X secolo dall’imperatore Costantino VII Porfirogenito, si può tuttavia ricavare un’idea delle complesse cerimonie ufficiali che vi avvenivano e che avevano l’imperatore come protagonista fondamentale. A differenza dei sovrani occidentali, quest’ultimo lasciava la capitale molto raramente, mentre la sua attività a Palazzo e in città era regolata da un protocollo rigorosissimo, che includeva anche la sua

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CAPITOLO

VII sec. a.C. Viene fondata la colonia megarese di Bisanzio sul Bosforo.

330 d.C. Inaugurazione di Costantinopoli per volere di Costantino il Grande. Edificazione della basilica dei Ss. Apostoli. V sec. Teodosio II ridefinisce l’antico assetto urbanistico della città. Sorge la nuova cinta muraria, con la Porta d’Oro. Viene innalzata la chiesa della Theotokos Chalkoprateia.

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VI sec. Costruzione del primo nucleo

1204 I crociati, guidati dalla flotta

del complesso delle Blacherne.

IX sec. Basilio I promuove l’edificazione della Nea Ekklesia, che diventerà fonte d’ispirazione per gran parte dell’architettura della città nei secoli successivi.

532-537 Realizzazione della basilica di S. Sofia per volere di Giustiniano.

975 La città subisce danni conseguenti a un terremoto. Altre due scosse si verificano nel 1032 e nel 1033.

veneziana, assediano e occupano la città. Nasce l’impero latino d’Oriente.

1082 Costantinopoli concede

1453 Fatih Sultan Mehmed

alla Repubblica di Venezia l’esercizio libero del commercio in tutto l’impero in cambio di appoggio militare.

conquista Costantinopoli.

partecipazione a processioni e cerimonie liturgiche, in occasione delle quali egli visitava in corteo i vari quartieri costantinopolitani. Dopo la conquista longobarda dell’Italia (568), Costantinopoli restò l’unica capitale dell’impero romano, ormai limitato alla parte orientale. Se Giustiniano aveva dotato la città di un gran numero di monumenti, i suoi successori, a lungo impegnati nelle guerre contro Persiani e Arabi, si limitarono a restaurarne mura e fortificazioni. La politica edilizia degli imperatori bizantini riprese solo dalla metà del IX secolo, in corrispondenza con la fioritura economica e finanziaria dovuta alle

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Nella pagina accanto l’obelisco di Teodosio I, monolite egizio del faraone Tutmosi III (1479-1424 a.C.) e collocato in origine nel tempio di Karnak. Il basamento in marmo risale all’epoca della sua erezione nell’Ippodromo di Costantinopoli (388 d.C.). Sulle due pagine disegno ricostruttivo del Gran Palazzo di Costantinopoli, con l’indicazione di alcuni dei suoi edifici piú importanti: 1. Palazzo di Giustiniano; 2. Circo (o Ippodromo); 3. Chrysotriklinos (sala del trono); 4. Chiesa di S. Stefano; 5. Nea Ekklesia (Chiesa Nuova); 6. Stadio del polo; 7. Palazzo della Magnaura; 8. Terme di Zeusippo; 9. S. Sofia.

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ITINERARI

grandi conquiste dei sovrani medio-bizantini. Basilio I (867-886) fece restaurare venticinque edifici sacri e ne costruí altri otto.

Visibile da ogni punto della città L’imperatore Romano III Argirio (1028-1034) fece erigere uno splendido santuario dedicato alla Vergine Maria su una collina che sovrastava il Mar di Marmara: il suo nome, Peribleptos, alludeva al fatto che esso era visibile da ogni punto della città. Nel 1136, Giovanni II Comneno promosse invece la costruzione di un complesso tripartito consacrato a Cristo Pantokrator, la cui mole domina tuttora la cosiddetta «quarta collina» di Istanbul. All’inizio della dinastia dei Comneni (1081-1185)

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risale un’importantissima modifica urbanistica, gravida di conseguenze per il futuro assetto della città: l’imperatore Alessio I fece infatti costruire nel quartiere delle Blacherne, oggi Edrinekapı, cioè nella zona nord-occidentale di Istanbul, nei pressi delle grandi fortificazioni edificate nel VII secolo da Eraclio, una vasta sala da ricevimenti, a cui successivamente se ne aggiunse una seconda eretta da Manuele I. Ben presto, i sovrani bizantini trasferirono la loro residenza in quest’area, abbandonando il Grande Palazzo, che doveva essere molto degradato e che non era piú sicuro. Nel XIII secolo, tutta la corte bizantina si installò nella nuova sede, nota come Tekfur Sarayı («Palazzo delle Blacherne» o «dell’Imperatore»).

In alto un tratto della doppia cinta muraria costruita per volere dell’imperatore Teodosio II, a ovest delle antecedenti mura costantiniane. V sec. d.C.


Mura

MAR DI MARMARA

ISTANBUL

BESIKTAS

Dolmabahce Sarayi

BEYOGLU AYVANSARAY BALAT SISHANE

BOSFORO

UNKAPANI

teodosiane

TOPKAPI

Acquedotto di Valente

Moschea di Solimano

P d i o n te Ga lat a

Torre di Galata

USKUDAR Colonna dei Goti

SARACHANE CAPA

Sublime Porta

Topkapi Saray

Cisterna Basilica

Mura

Hagia Sophia (Ayasofya) Ippodromo Moschea Blu

MAR DI MARMARA

In alto pianta di Istanbul, con l’indicazione dei principali luoghi e monumenti citati nel testo. Qui sopra miniatura raffigurante il grande acquedotto di Costantinopoli, dalle Memorie Turchesche (Ms. Cicogna 1971) . XVII sec. Venezia, Museo Correr.

Se nel primo periodo bizantino il modello urbano dell’impero romano restò sostanzialmente invariato, a partire dalla metà del VI secolo, per una serie di concause, tra cui calamità naturali ed epidemie, violenza urbana e invasioni esterne, le vita cittadina entrò in una crisi profonda e, come mostrano i dati archeologici, molti centri urbani un tempo fiorenti vennero completamente abbandonati. Se l’impero bizantino del primo periodo era un aggregato di città, nel periodo medio esso può descriversi quale aggregato di kastra («fortezze»). Anche nella lingua di ogni giorno il termine polis restò sempre piú limitato a Costantinopoli, mentre località come Ancyra o Efeso sarebbero state designate come kastron.

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ITINERARI

La vita urbana proseguí senza soluzione di continuità solo a Costantinopoli, capitale e sede imperiale, fulcro del potere politico ed ecclesiastico, centro della cultura, polo di attrazione dell’aristocrazia e degli intellettuali che aborrivano la vita di provincia: il luogo in cui tutti avrebbero voluto vivere e prosperare. Una delle principali preoccupazioni degli imperatori bizantini era quella di rifornire la città di generi alimentari, e in particolare di cereali. Il Libro del Prefetto (vedi box alla pagina successiva) elenca tra i generi alimentari venduti nei mercati pane, olio, formaggio,

legumi, vino, burro, carne, pesce. I prodotti facilmente deperibili venivano coltivati in città, nell’area tra le mura di Costantino e quelle di Teodosio II, che garantiva forniture ortofrutticole bastanti per 300 000 persone. La frutta giungeva soprattutto dalla costa asiatica del Mar di Marmara. Una tale abbondanza di prodotti faceva sí che la vita fosse certo piú facile che altrove. In città vivevano comunque molti senzatetto, e altri poveri venivano alloggiati in ospizi. Numerose erano le osterie che ristoravano la gente comune, ma che, in alcuni casi, erano anche luogo di risse, litigi e prostituzione. A causa dei numerosi viaggiatori e della densità della sua popolazione, la città era particolarmente soggetta a epidemie, che ebbero per conseguenza una notevole diminuzione della cittadinanza. La famosa «peste nera» che colpí l’Europa occidentale nel XIV secolo non la risparmiò. Fra le malattie piú comuni degli abitanti di Costantinopoli erano i reumatismi e l’artrosi, dovuti alle condizioni

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Nella pagina accanto Istanbul. Il Palazzo delle Blacherne (oggi Tekfur Sarayı), un tempo residenza degli imperatori bizantini, nel suo stato di conservazione attuale (in alto) e in un disegno ricostruttivo ipotetico del suo aspetto originale (in basso). XIII sec.

climatiche, nonché al freddo e all’umidità delle abitazioni. La città era dotata di alcuni centri di cura, spesso donati dagli imperatori, ma non è chiaro chi potesse accedervi: si suppone che essi fossero riservati ai membri della corte e alle piú alte cariche ecclesiastiche. A vari monasteri erano comunque annessi anche orfanotrofi e ospizi per anziani, che certo non risolvevano i problemi di una città estremamente sovrappopolata.

Un immenso mercato Ma Costantinopoli era anche e soprattutto un immenso mercato internazionale, frequentato da un enorme numero di mercanti provenienti da Oriente e da Occidente. Vi si importavano, fra gli altri, prodotti di lusso quali la seta e le spezie, e opere preziose e di artigiani, pittori e mosaicisti. Inizialmente, gli imperatori bizantini cercarono di evitare di concedere ai mercanti stranieri di stabilirsi all’interno delle mura. I primi a ottenere tale privilegio, verso la metà del X secolo, furono i mercanti di Amalfi; un documento del 992 accorda ai Veneziani l’uso di terreni situati nell’area in cui oggi ha inizio il ponte di Galata; nel 1111 una simile

COSÍ VUOLE L’IMPERATORE

L’

imperatore Leone VI fissò in una serie di ordinanze, nei piú minuti particolari, tanto le funzioni dei vari uffici della corte e dell’amministrazione, quanto l’ordine, le attribuzioni e i doveri delle corporazioni artigianali e mercantili bizantine. Di particolare interesse è il decreto conosciuto con il nome di Libro del Prefetto, poiché ci fa conoscere l’ordinamento corporativo di Costantinopoli nel X secolo e ci fornisce informazioni straordinariamente utili sulla vita economica e sociale della città.

In alto S. Sofia. L’imperatore Leone VI si inginocchia davanti a Cristo in maestà, particolare di una lunetta decorata a mosaico. X sec.

concessione fu fatta anche ai Pisani; infine, nel 1169, anche i Genovesi furono accolti stabilmente in città. Per quanto autonomi, questi insediamenti rimasero comunque sotto il controllo dell’autorità imperiale. E tuttavia, da parte dei mercanti stranieri, non mancarono i tentativi di rendersi indipendenti: i Genovesi giunsero a possedere un intero quartiere della città, denominato Galata (storicamente detto Pera), sulle colline alla foce del Corno d’Oro; nonostante un espresso divieto emanato dalle autorità bizantine, nel 1307 essi fortificarono il

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CAPITOLO

loro quartiere e nel 1348 vi eressero un’imponente torre difensiva, oggi detta appunto «di Galata», che è uno dei nuclei piú caratteristici e affascinanti di Istanbul. A volte le comunità mercantili entravano in conflitto fra loro e potevano allora verificarsi episodi di vera e propria guerriglia urbana.

Un monumento grandioso La basilica di S. Sofia è la piú grande chiesa mai edificata dall’impero romano d’Oriente e conobbe tre fasi di costruzione, che si svilupparono sempre nello stesso sito. Quando

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fu innalzata per la prima volta, assunse il nome di Megale Ekklesia (Chiesa grande, in greco), ma, a partire dal V secolo, fu reintitolata alla Santa Sapienza (Haghia Sophia in greco, da cui S. Sofia). La cattedrale divenne il piú vasto luogo di culto della città in epoca bizantina e in essa si tennero anche le cerimonie di incoronazione dei sovrani. La prima fondazione si deve all’imperatore Costantino (337-361), e il nuovo tempio poté essere consacrato nel 360. Si presentava come un edificio coperto da un tetto ligneo, con un accentuato sviluppo in senso verticale, alla

In alto S. Sofia. Uno scorcio dell’interno. La mole complessiva dell’edificio e l’enorme spazio vuoto sovrastato dalla cupola furono ottenuti superando problemi di statica mai affrontati prima. V-VI sec.


maniera delle basiliche di epoca classica. Nel 404 la chiesa venne distrutta da un incendio scoppiato nel corso della sommossa scatenata dal contrasto fra Eudossia, moglie dell’imperatore Arcadio (395-408), e il patriarca di Costantinopoli Giovanni Crisostomo, che venne esiliato. Un ritratto a mosaico del patriarca si può tuttora vedere nel muro del timpano situato nel settore settentrionale della basilica.

«Azzurri» contro «verdi»

In basso S. Sofia. Mosaico raffigurante la Madonna col Bambino, affiancata dall’imperatore Giovanni Comneno e dall’imperatrice Irene. XII sec.

Il primo rifacimento fu promosso nel 415 dall’imperatore Teodosio II (408-450) ed ebbe come risultato la realizzazione di una struttura basilicale articolata in cinque navate, precedute da un ingresso monumentale. Anche questa seconda chiesa era coperta da un tetto ligneo e anch’essa fu vittima di una sommossa: il 13 gennaio del 532 venne infatti distrutta nel corso della rivolta di Nika, scoppiata nel quinto anno di regno dell’imperatore Giustiniano (527-565), quando le fazioni degli «azzurri», che rappresentavano l’aristocrazia, e dei «verdi», che sostenevano gli interessi dei mercanti, si

unirono contro l’impero. Di questo secondo edificio sono stati localizzati alcuni avanzi nel corso degli scavi condotti dall’Istituto Archeologico Germanico: a una quota di 2 m piú bassa del piano di calpestio attuale sono stati intercettati alcuni gradini del Propylon (porta monumentale), basi di colonne e frammenti con rilievi che raffigurano gli apostoli. Altri frammenti architettonici dell’ingresso monumentale sono stati collocati nel giardino occidentale del complesso. Il monumento che oggi possiamo vedere prese forma sotto la guida degli architetti Isidoro di Mileto e Antemio di Tralle, ai quali l’incarico era stato affidato da Giustiniano. Dallo storico Procopio si apprende che i lavori ebbero inizio il 23 febbraio del 532 e furono ultimati in soli cinque anni, tanto che la chiesa poté essere aperta al culto il 27 dicembre del 537. Secondo le fonti, nel giorno dell’inaugurazione, l’imperatore Giustiniano, entrando nella basilica, avrebbe esclamato «Mio Signore, grazie per avermi dato la possibilità di creare un luogo tanto venerabile», per poi aggiungere «Salomone, ti ho battuto», alludendo al tempio

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ITINERARI

GLORIA DELL’UNIVERSO

A

Costantino Rodio, poeta bizantino del X secolo, dobbiamo una celebre descrizione della chiesa dei Ss. Apostoli di Costantinopoli in 981 trimetri giambici, che, oltre a fornire importanti elementi per comprendere meglio l’architettura della

basilica, colma una lacuna nella storia dell’arte con la descrizione dei mosaici che la decoravano. Costantino scrisse anche questo inno alla capitale dell’impero, nel quale egli esalta con entusiasmo la bellezza e la gloria della regina delle città:

«Qual è, infatti, lo straniero che giungendo in questo mare e vedendo profilarsi all’orizzonte tutto questo, e poi avvicinandosi alla Città da tutti celebrata, non è subito colto da stupore alla sua vista e non rimane attonito davanti alla sua sublimità, e pieno di meraviglia non loda la sua eccelsa potenza rendendo gloria a Dio, quando scorge tanti e tali monumenti, di cui trabocca con straordinaria ricchezza? O, percorrendo spedito la terra, qual è il viandante, l’esperto pedone, il quale, reduce da un cammino lungo e faticoso, quando da lontano posa lo sguardo su tutto questo, sulle torri che svettano nel cielo e soprattutto sulle altissime colonne simili a giganti che avanzano possenti, e sui palazzi e sui templi superbi che innalzano al cielo le enormi cupole, qual è il viandante che non appare subito lieto e appagato e non placa l’ardore della sua anima, e subito non si rallegra scorgendo la bella città dalle auree forme ingioiellata che dà il benvenuto agli stranieri, prima ancora che arrivino a lei, con lo scintillio delle sue meraviglie? E chi è che, spintosi alle mura e avvicinatosi alle porte, subito non la saluta e chinato il collo non si prostra giú a terra, sul nobile suolo, e dicendo, “Salve, gloria dell’universo” non entra in città pieno di gioia?». (da: Silvia Ronchey e Tommaso Braccini, Il romanzo di Costantinopoli, Einaudi, Torino 2010).

di Salomone a Gerusalemme. L’architettura della terza chiesa scaturiva dalla combinazione del tipico impianto basilicale con quello degli edifici coronati da una cupola centrale: si articola in tre navate, con un’abside, e un duplice nartece, uno interno e l’altro esterno. Dall’abside al nartece esterno misura 100 m di lunghezza, per una larghezza di 69,5 m, mentre l’altezza della cupola raggiunge i 55,6 m. Giustiniano aveva chiesto a tutte le province del

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In alto mappa di Istanbul tratta da un’edizione rinascimentale della Cosmographia di Tolomeo (Ms. Latin 4802). XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

suo impero di inviare gli elementi architettonici piú pregiati, cosí da utilizzarli nella costruzione e renderla particolarmente grandiosa. Per questo i marmi impiegati provengono da varie città dell’Anatolia e della Siria, come Aspendos, Efeso, Baalbek e Tarso. In particolare, il marmo bianco è il proconnesio dell’omonima isola nel Mar di Marmara, il porfido verde viene dall’Eubea, il marmo rosa da Afyon e il giallo dal Nordafrica.


Con l’eccezione di quelle rivestite di marmo, tutte le pareti di S. Sofia sono coperte da magnifici mosaici, per le cui tessere furono utilizzati oro, argento, pasta vitrea, terracotta e pietre colorate. I mosaici geometrici si datano al VI secolo, mentre quelli figurati sono piú antichi e risalgono all’epoca dell’iconoclastia.

La seconda vita di un capolavoro Fra il 1204 e il 1261, all’epoca delle crociate, Istanbul venne occupata dalle truppe cristiane e nel 1261, quando l’impero d’Oriente riprese il controllo della città, S. Sofia versava in cattive condizioni. Nel 1453, all’indomani della conquista della città da parte di Mehmed II, S. Sofia fu trasformata in moschea e venne fortificata. Sia in epoca bizantina che ottomana furono aggiunti pilastri di sostegno per porre rimedio ai danni causati da vari terremoti. E allo

A destra Istanbul. Scorcio del Grand Bazaar, uno dei piú vasti e antichi mercati coperti del mondo. Fu realizzato per volere di Mehmed II e completato nel 1461. In basso miniatura raffigurante un mercato all’aperto a Costantinopoli, dalle Memorie Turchesche (Ms. Cicogna 1971). XVII sec. Venezia, Museo Correr.

stesso scopo furono aggiunti i minareti progettati dal grande architetto Mimar Sinan. Fra il XVI e il XVII secolo, il complesso si arricchí di mihrab, minbar, maqsura, di una tribuna per la predicazione e di un mahfili per il muezzin (una piattaforma sopraelevata, collocata di fronte al minbar, sulla quale il muezzin s’inginocchia e canta in risposta alle preghiere dell’imam). Le lampade in bronzo poste ai lati del mihrab furono donate alla moschea da Solimano il Magnifico (1520-1566), mentre i due cubi in marmo d’epoca ellenistica posti ai fianchi dell’ingresso principale furono fatti portare da Pergamo dal sultano Murad III (1574-1595). Importanti ristrutturazioni furono eseguite, fra il 1847 e il 1849, al tempo del sultano Abdulmecid, dagli svizzeri fratelli Fossati. Con un diametro che oscilla fra i 7,5 e gli 8 m, i pannelli con le calligrafie scritti da Kadıasker Mustafa Izzet Efendi e collocati sulle pareti principali dell’edificio sono i piú grandi di tutto il mondo islamico. S. Sofia venne trasformata in museo (Museo di Ayasofya) per volere di Mustafa Kemal Atatürk e cessò di funzionare come luogo di culto dal 1° febbraio 1935, accogliendo da quel momento visitatori turchi e di ogni parte del mondo.

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STORIA

SELGIUCHIDI, LA DINASTIA DELL’AQUILA Nell’XI secolo i discendenti di Selçuk, condottiero della tribú turca dei Kınık, riuniscono sotto il proprio dominio la Persia, la Mesopotamia, parte dell’Asia Minore e la Siria. L’avvento dei Selgiuchidi inaugura un’epoca di straordinaria fioritura, non soltanto economica, ma anche artistica e culturale di Marco Di Branco

In alto un gruppo di dervisci esegue il tipico rito rotante (sema).


Sulle due pagine il caravanserraglio selgiuchide di Sultanhani, nella provincia di Aksaray (Turchia centrale). In basso Buca (Izmir). Monumento moderno dedicato a Mevlana Celaleddin Rumi, meglio noto con l’appellativo onorifico di Mevlana («Nostro Signore»), ritratto mentre pratica la danza rotante.

Q

uesta storia comincia con un uccello sacro, un grande fiume e un eroe leggendario. Simbolo dei Selgiuchidi è l’aquila bicipite, mentre il grifone è il protettore della tribú dei Kınık, appartenente al potente clan turco degli Oguz; il grande fiume è oggi il Seyhun (il Syr-Darya), uno dei corsi d’acqua piú importanti dell’Asia Centrale, sulla cui riva destra la tribú dei Kınık si stabilirono intorno al 950 d.C.; l’eroe è Selçuk, «Piccola Zattera» o «Piccolo Torrente». Selçuk era il capo dei Kınık, dapprima al servizio del principe Oguz, poi – abbracciato l’Islam – suo acerrimo rivale. Nei loro nuovi

possedimenti sul Syr-Darya, i Kınık – che da quel momento in poi si chiamarono Selgiuchidi in onore del loro sovrano-capostipite – si rafforzarono e cominciarono a espandersi, grazie soprattutto alla straordinaria attività bellica e diplomatica dei figli e dei nipoti di Selçuk, i veri fondatori della nuova dinastia. Protagonisti dell’ascesa dei Selgiuchidi nel mondo islamico orientale furono Tugrul Bey e Çagri Bey, figli di Mikail, secondogenito di Selçuk (i primi tre nomi, che significano rispettivamente «Falcone», «Sparviero» e «Leone» – a cui si unisce l’appellativo turco di «Bey», «Signore» – evidenziano una profonda adesione alle credenze religiose delle origini, appena scalfite da un’islamizzazione ancora superficiale). Costoro, dopo aver servito per un periodo il sovrano di Bukhara e Samarcanda e altri dinasti della Transoxiana, seppero accrescere la loro forza, sfruttando abilmente le masse nomadi turcomanne non integrate nella civiltà urbana iranica, finendo per impensierire seriamente i Ghaznavidi, la vera grande potenza dell’area. Questi ultimi, fallito il tentativo di ingraziarsi i capi selgiuchidi con un’alleanza matrimoniale, non riuscirono a fermarli neppure sul campo di battaglia: il grande esercito ghaznavide, celebre per i suoi temibili elefanti e le straordinarie macchine belliche, dovette infatti soccombere davanti alle truppe dei nipoti di Selçuk, inferiori di numero, ma molto piú agili.

Un cambiamento epocale Nel 1038 alcune importanti città dell’Horasan aprirono le porte ai Selgiuchidi e nello stesso anno Tugrul Bey si impadroní della gloriosa e ricca città di Nisabur, dando inizio a un cambiamento davvero epocale nella storia della regione. A Nisabur, Tugrul Bey assunse il titolo di «as-Sultan al-Mua’zzam» («Sovrano sommo») e si preparò ad affrontare la reazione dei Ghaznavidi, che non si fece attendere; essi infatti gli inviarono contro una grande

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STORIA

Bizantini a Manzikert (presso l’odierna Malazgirt, 40 km circa a nord del Lago Van), sconfiggendo le truppe dell’imperatore Romano IV Diogene. L’anno successivo salí al potere Meliksah, terzo dei «Grandi Selgiuchidi» (il ramo piú importante della dinastia fondata da Selçuk). Il nuovo sultano concentrò gli sforzi sulle regioni orientali del suo impero: penetrò molto a fondo in Asia centrale; ottenne dal califfo la tutela delle città sante d’Arabia, Mecca e Medina; in alta Mesopotamia si impadroní di Amida (Diyarbakır), una delle piú importanti piazzeforti di tutto l’Oriente; infine, intervenne in Siria, ponendo sotto il suo controllo Damasco, Aleppo e Antiochia. L’impero selgiuchide sembrava aver raggiunto il suo apogeo, ma, all’indomani della morte di Meliksah, avvenuta nel 1092, le rivalità fra i suoi quattro figli provocarono la parcellizzazione della ragguardevole eredità territoriale lasciata dal sultano. armata, con tanto di elefanti e macchine da guerra; lo scontro avvenne il 22 maggio 1040 a Dandaqan, presso Merw, dove i cavalieri nomadi di Tugrul annientarono il poderoso esercito nemico: i Ghaznavidi fuggirono in India e tutto l’Horasan fu abbandonato ai Selgiuchidi.

Il movimento di conquista La parte occidentale dell’impero ghaznavide cessò di esistere e fu sostituita da un sultanato, governato da Tugrul e da suo fratello Çagri Bey. Se quest’ultimo si dedicò alla definitiva sottomissione dell’Horasan e delle regioni circostanti, Tugrul partí invece alla conquista dell’Iran, in quel tempo frammentato in un nugolo di piccoli regni locali: fra il 1040 e il 1044 furono occupate Ray, Tabriz e Hamadan e la campagna si concluse nel 1059 con la presa di Isfahan, che divenne una delle capitali dell’impero selgiuchide in formazione. Il movimento di conquista selgiuchide continuò con Alparslan e Meliksah. In particolare, nel 1071, il primo ottenne una vittoria decisiva sui

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Nuovi stili di vita

In alto piastrella in maiolica decorata con figura maschile, pesci e fiori, dal palazzo reale di Kubad Abad (Beysehir). XIII sec. Konya, Museo della Madrasa di Karatay. Qui sopra dirham del sultano selgiuchide Kaykhusraw II (1237-1246), coniato a Sivas. XIII sec.

Già prima di arrivare in Anatolia, i Turchi avevano sperimentato con successo forme di associazionismo e di beneficienza, diffuse nei diversi strati sociali e nelle varie attività praticate. Le prime dinastie turche musulmane erano infatti molto attive negli ambiti dell’educazione e della sanità. Dopo il 1071, l’Anatolia accolse dunque i Turchi, che si dedicano con successo al commercio e all’agricoltura, favorendo la crescita economica della regione. Parallelamente, nacquero le grandi associazioni benefiche. Il nomadismo venne progressivamente abbandonato dai Selgiuchidi, che in Anatolia affondarono radici solide e stabili, avviando l’insediamento urbano e un ambiente favorevole alla solidarietà. I Selgiuchidi si dedicarono con grande impegno all’associazionismo sociale e religioso, tanto da tramandare questa funzione anche agli Ottomani, che ne fecero uno degli elementi distintivi del proprio stile di vita.


A destra Beysehir. L’interno della moschea di Esrefoglu. XIII sec. Realizzata per volere di Süleyman Bey, è la piú grande moschea dell’Anatolia selgiuchide.

I Selgiuchidi misero a punto uno straordinario sistema di caravanserragli (khan, in turco) su tutti gli assi carovanieri dell’Anatolia, favorirono gli scambi con l’Europa accordandosi con Venezia, Pisa e Genova, e cominciarono a battere moneta. In ogni caso, il sistema mostrò una notevole funzionalità, e l’epoca selgiuchide si caratterizzò per l’abbondanza e la varietà della produzione agricola, anche grazie a nuovi ritrovati tecnici, quali i mulini a vento e le norie. Un’intensa attività estrattiva (soprattutto di allume, ferro, argento e lapislazzuli) e un artigianato estremamente sviluppato completano il quadro dell’eccezionale vivacità economica e commerciale selgiuchide. Per i Selgiuchidi la città era il luogo principe dell’amministrazione e della cultura: qui risiedeva il governatore con la sua guarnigione; qui si trovava la moschea; qui avevano la loro sede il kadı («giudice»), che amministrava la giustizia, e il muhtasib

In basso rilievo selgiuchide raffigurante due guerrieri, da Konya. XIII sec. Istanbul, Museo di arte turca e islamica.

(«ispettore»), che si occupava dell’organizzazione dei commerci e delle comunità non musulmane.

Un crogiolo culturale comune Con le loro conquiste, che si estendevano in un’area che va dalla Transoxiana alla Persia e all’Anatolia, i Selgiuchidi si trovarono al centro di varie tradizioni e correnti culturali. Essi, infatti, erano in stretto contatto con i Persiani, gli Arabi, i Siri, gli Armeni e i Bizantini, e da tutte queste civiltà attinsero conoscenze, fuse poi in un ampio crogiolo culturale comune. Sotto la loro leadership l’architettura conobbe una fioritura eccezionale, con l’elaborazione di nuove tecniche di copertura degli edifici e di particolari forme ornamentali, come volte a sesto acuto, cupole a volta conica, nicchie a «stalattiti» o a «nido d’api» (le celebri muqarnas). A ciò si aggiunge poi un notevole sviluppo delle arti decorative, soprattutto ceramica, porcellana, calligrafia, miniature, ecc. I sultani selgiuchidi favorirono la costruzione di numerose moschee e scuole coraniche (la piú famosa madrasa selgiuchide è quella aperta a Baghdad da Nizam al-Mulk, che, dal nome del suo fondatore venne chiamata «Nizamiyya») e

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STORIA

In alto Konya. La madrasa di Karatay, che ospita il Museo di arte islamica e ceramica, e custodisce anche i reperti provenienti dal palazzo reale di Kubad Abad (Beysehir). XIII sec.

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In basso stele funerarie nel cimitero selgiuchide di Ahlat, nella provincia di Bitlis (Turchia), una vasta necropoli databile tra il XII e il XV sec.


NELLA CITTÀ DEI DERVISCI ROTANTI

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onya, l’antica Iconium, al centro dell’Anatolia, fu per due secoli la capitale selgiuchide e occupa tuttora un posto assai importante nel patrimonio culturale. Konya è da sempre il cuore della storia religiosa e mistica della regione, e vide fiorire, sin dalla piú alta antichità, il culto della Grande Madre, religioni misteriche e sètte gnostiche di ogni tipo, prima di divenire un santuario delle religioni monoteistiche cristiana e islamica. La città fu evangelizzata da san Paolo e, soprattutto, dal messaggio universalista di Mevlana Celaleddin

furono grandi promotori delle arti, mostrando di aver ben assimilato le risorse intellettuali dei Paesi conquistati.

La vita cittadina Moschea, madrasa e khan costituiscono gli elementi-chiave dell’architettura pubblica selgiuchide. A tali tipologie di edifici si aggiungono quelle dell’hammam – il famoso «bagno turco», che perpetua, innovandola, la tradizione romana e bizantina delle terme – e del türbe, il «mausoleo» – tomba monumentale di sovrani, notabili o personalità religiose di particolare prestigio – che riproduce in pietra la forma delle tende dei nomadi della steppa. Non è possibile concludere un discorso sull’arte selgiuchide senza accennare a una

Rumi, il fondatore della confraternita del sufismo. Il monumento piú importante di Konya, con la sua splendida cupola rivestita di maiolica verde, è il «convento» (tekke) dei dervisci, organizzato intorno alla tomba del fondatore dell’ordine. Il complesso venne innalzato nel 1231 e poi ampliato e restaurato in età ottomana. Il Sema, il rituale durante il quale i dervisci eseguono la loro vorticosa danza rotante, è stato iscritto nel 2008 nella lista dei beni che l’UNESCO considera come Patrimonio Immateriale dell’Umanità.

In alto Konya. Uno scorcio del complesso del Mevlana, da cui si alzano un minareto e l’inconfondibile cupola rivestita in maiolica verde del convento (tekke) dei dervisci. L’insieme di edifici è oggi trasformato in museo, che include anche la tomba di Mevlana Celaleddin Rumi.

forma artistica tuttora ampiamente diffusa in Turchia: quella dei tessuti e ricami (oggi l’acquisto di un kilim costituisce una tappa obbligata di ogni viaggio in Turchia). In questo particolare campo, infatti, l’elemento turco-selgiuchide portò un lievito nuovo tanto nell’Iran quanto nella Mesopotamia, un rinnovamento completo non solo delle forme ma anche dello spirito: i vecchi schemi iconografici furono progressivamente abbandonati, e si diffuse una visione inedita e sostanzialmente diversa, fortemente influenzata dalle antiche rappresentazioni animalistiche dell’Asia centrale (belve feroci, rapaci, combattimenti di animali, ecc.), che ha lasciato una profonda impronta fino ai nostri giorni.

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I MUSEI

LA TURCHIA E I SUOI MUSEI

U

n viaggio attraverso i 198 musei sotto l’egida della Direzione Generale dei Musei e Beni Culturali del Ministero della Cultura e del Turismo di Turchia non può che che iniziare dal Museo Archeologico di Istanbul (Istanbul Arkeoloji Müzesi): fondato nel 1891 come istituzione archeologica centrale del regno ottomano, oggi è il piú grande e importante museo archeologico del Paese. Il grande edificio – situato nel quartiere Sultanahmet, nel centro storico di Istanbul, prossimo al palazzo di Topkapi e non lontano da S. Sofia – deve il suo elegante aspetto neoclassico all’architetto Alexandre Vallaury, mentre l’allestimento del nucleo

iniziale delle raccolte fu realizzato dall’archeologo Osman Hamdi Bey (1842-1910), figura di spicco della vita culturale e artistica di Istanbul nella seconda metà dell’Ottocento. Il grandioso museo – suddiviso in tre grandi unità, il Museo Archeologico vero e proprio, il Museo dell’Arte del Vicino Oriente Antico e il Museo della Ceramica islamica – custodisce reperti provenienti da ogni parte dell’impero ottomano e, piú di recente, accoglie anche le testimonianze archeologiche emerse dalle indagini nella stessa città e nei suoi dintorni. Tra gli innumerevoli «capolavori» del museo citiamo

il cosiddetto «Sarcofago di Alessandro», databile al IV secolo a.C. e scavato, nel 1887, dallo stesso Hamdi Bey a Sidone (odierno Libano), l’altrettanto imponente sarcofago «di Sidamara» (II-III secolo d.C., scoperto vicino Konya nel 1950), la grande sfinge alata in pietra calcarea proveniente dalla capitale ittita di Hattusa (XIII-XII secolo a.C.) e, piccolo ma nondimeno importantissimo, il Calendario di Gezer, una tavoletta risalente al X secolo a.C. e recante un’iscrizione paleoebraica, rinvenuta agli inizi del Novecento nell’omonima località a una settantina di chilometri da Gerusalemme. Il secondo museo archeologico In basso l’ingresso del Museo Archeologico di Istanbul. Nella pagina accanto un primo piano del sarcofago marmoreo cosiddetto «di Sidamara», conservato all’interno del museo. Da Konya. I-III sec. d.C.

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della Turchia si trova, invece, ad Ankara ed è intitolato alle «Civiltà Anatoliche» (Anadolu Medeniyetleri Müzesi): è allestito in un bedesten (un bazar coperto) del XV secolo, ben caratterizzato dalle dieci cupole che formano il tetto della sua corte interna. Le raccolte del museo documentano, seguendo un rigoroso ordine cronologico, la storia dell’Anatolia dalle origini all’età romana. Anche qui, i «capolavori» sono innumerevoli, a partire dalle celeberrime statuette in argilla raffiguranti le dee madri (provenienti dai siti neolitici di Çatalhöyük e Hacilar), per

arrivare ai magnifici stendardi in bronzo ed elettro a forma di cervo e quelli a forma di disco raggiato (da Alacahöyük). Il nucleo centrale del museo – come suggerisce lo stesso nome – è dedicato alla civiltà ittita. Di grande rilievo sono anche i reperti di età tardo-ittita, tra cui le monumentali sculture che decoravano la porta principale di Arslantepe. Il museo è stato rinnovato di recente, aprendo nuove sezioni, tra cui quella dedicata al sito neolitico di Göbeklitepe (presso Sanlıurfa), con i suoi reperti risalenti a oltre 12 000 anni fa.

Nell’impossibilità di menzionare – fosse anche solo con un elenco – gli innumerevoli altri musei archeologici del Paese (quasi ogni centro urbano e sito archeologico può vantarne uno), vi proponiamo qui una scelta tra le istituzioni di piú recente realizzazione. Nel Sud-Est della Turchia sono stati inaugurati il Museo del Mosaico di Zeugma, un’antica città sull’Eufrate nei pressi di Gaziantep, che espone la piú grande collezione di mosaici antichi del mondo. Il Museo del Mosaico di Zeugma è seguito dal Museo Archeologico di Hatay, la seconda piú grande collezione di

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I MUSEI

In questa pagina Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. In alto l’ingresso del museo. Sulle due pagine uno scorcio della sala che espone i rilievi di epoca tardo-ittita. A destra stendardo in bronzo e argento in forma di cervo, dalla necropoli reale di Alacahöyük. 2100-2000 a.C.

mosaici antichi del mondo, e dal Museo di Sanlıurfa, la quinta collezione archeologica della Turchia, con 74 000 reperti storici. Da riscoprire anche il Museo di Kahramanmaras, con i suoi mosaici dell’antica città di Germanicia. Nel Sud-Ovest della Turchia, a Demre (in provincia di Antalya), il Museo delle Civiltà della Licia espone reperti provenienti dalle aree archeologiche di Myra, Patara, Olympos, Arycanda, Tlos, Xanthos, Antiphellos e Pinara. Merita di essere «riscoperto» anche il Museo di Efeso, appena ristrutturato. Il Complesso Museale di Adana (Turchia centro-meridionale), inaugurato a maggio 2017, comprende i Musei di Archeologia, della Città, dell’Agricoltura,

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In questa pagina Gaziantep, Museo dei Mosaici di Zeugma. In alto l’ingresso del museo. A sinistra un primo piano della cosiddetta «Giovane zingara di Zeugma», un frammento di mosaico raffigurante un giovane volto femminile, da Zeugma. In basso, a sinistra scorcio di una delle sale del museo.

dell’Industria, dell’Etnografia, dei Bambini e dei Mosaici. Nella vicina Mersin (sulla costa del Mediterraneo) il Museo Archeologico è stato allestito in un nuovo edificio dove è possibile ammirare i reperti del sito di

Yumuktepe, i piú antichi dei quali risalgono al VII millennio a.C., cosí come quelli dell’antica città di Soli-Pompeipolis, abitata tra il 3000 a.C. e il VI secolo d.C. e, ancora, i reperti provenienti da Elaiussa-Sebaste. Concludiamo questo breve viaggio attraverso i musei della Turchia tornando ad Ankara, per dare uno sguardo al Museo dell’Archeologia e delle Arti di Erimtan, situato nella piazza del Castello. La collezione del museo comprende circa 2000 oggetti raccolti dall’ingegnere e fondatore del gruppo EMT, Yüksel Erimtan, tra cui manufatti di epoca romana, ittita, urartea, ellenistica e bizantina dell’Anatolia.

INFO Maggiori informazioni sulle destinazioni turistiche della Turchia possono essere richieste a: Ufficio Cultura e Informazioni dell’Ambasciata di Turchia Roma, piazza della Repubblica 55-56 tel. 06 4871190 e 4871393; e-mail: turchia@turchia.it www.turchia.it

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MONOGRAFIE

n. 25 giugno 2018 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Marco Di Branco, bizantinista e arabista, è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Ministero Cultura e Turismo-Repubblica di Turchia: copertina e pp. 8 (sinistra), 9 (centro; basso, a sinistra), 10 (basso, a destra), 11 (basso, a destra), 14/15, 22/23, 24 (basso), 27 (alto), 52-53, 84-85, 92/93, 93, 127, 129 – Shutterstock: pp. 6/7, 8 (destra, centro e basso), 9 (alto, a sinistra e a destra; basso, a destra), 10 (alto; centro, a sinistra), 11 (centro), 18/19, 20-21, 46/47, 48/49, 66, 70/71, 80/81, 82, 83, 90 (basso), 96/97, 98/99, 102, 103 (alto), 104-105, 106 (alto), 108/109, 110, 114 (alto), 119 (alto), 120-121, 123 (alto), 124-125, 126, 128, 128/129 – Doc. red.: pp. 10 (centro, a destra), 11 (basso, a sinistra), 25, 26, 28-29, 31, 32-37, 40-45, 48 (basso), 49 (basso), 50-51, 54 (alto), 55 (alto), 58, 61 (alto), 63 (alto), 65, 72-79, 98, 103 (basso), 106 (basso), 112-113, 116-118 – Mimmo Frassineti: pp. 10 (basso, a sinistra), 11 (alto), 86-89, 90 (alto), 91 (destra), 92, 94/95 – Cortesia Missione Archeologica Italiana in Anatolia Orientale: pp. 12-13 – Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 27 (basso), 63 (basso), 119 (basso), 123 (basso); Album: pp. 56-57, 122 (centro); AKG Images: pp. 58/59, 91 (sinistra); De Masi: p. 59; AGE: pp. 62 (basso); 64 (basso), 67, 90/91, 100, 115; Archivio Luca Mozzati/Luca Mozzati: p. 122 (alto) – Alamy Stock Photo: p. 30 – Eric Passolas: disegno alle pp. 38/39 – DeA Picture Library: Ara Guler: pp. 54 (basso), 55 (basso), 60, 61 (basso); G. Dagli Orti: p. 101 (alto); Archivio J. Lange: p. 101 (basso) – Giorgio Albertini: disegni alle pp. 108/109, 114 – Cippigraphix: cartine alle pp. 16, 17, 25, 31, 49, 68/69, 82. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: Efeso. La Biblioteca di Celso, uno dei monumenti piú grandiosi dell’antica città. II sec. d.C.

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