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SASA BIELANOVIC
from Calcio2000 n.241
by TC&C SRL
DOVE SONO FINITI? Sasa Bjelanovi ć
di Daniele Perticari
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A tu per tu con Sasa Bjelanovi ć, ex centravanti, tra le altre squadre, di Genoa, Torino e Verona, oggi direttore sportivo dell’HNK Hajduk Spalato, una delle squadre più importanti della Croazia e di tutta l’ex Jugoslavia. Con lui abbiamo parlato della sua nuova carriera, del calcio nella sua nazione e delle sue prospettive future.
Credit foto: Ufficio Stampa Hajduk Spalato
DIRETTORE E GENTILUOMO
Di corsa, sempre di corsa. Da calciatore, da direttore sportivo, da padre. E anche nel tempo libero. E con un’oasi, vera e propria, da riabbracciare quando si torna a casa. Ogni giorno, 160 km di andata, il lavoro di scrivania e di campo e altri 160 km al ritorno, prima di ritrovare l’affetto della famiglia. Dicevamo dell’oasi: digitate Morske Orgulje su Google o su Youtube o, se siete più fortunati ed avete la disponibilità, andate a cercarlo (nelle stagioni calde) a Zara, casa sua. Ecco, è davanti all’ “Organo Marino” che Sasa Bjelanović trova il tasto per interromperla, la corsa, e guardare il mare che si perde dentro ad una scalinata costruita per fungere da organo, riproducendo suoni di ogni genere che, in tutta sincerità “attraggono molto più i turisti che noi di Zara, ma noi ci andiamo comunque perché è un allestimento bellissimo”. La tranquillità che serve, perché dopo anni a rincorrere il pallone anche se sei un centravanti, e decidi di diventare un direttore sportivo, devi avere nel taschino per essere sempre lucido e sopportare la responsabilità e le pressioni. Già, le pressioni, perché dal 2016 prima da assistente e poi da diesse in carica dell’HNK Hajduk Spalato, sono diverse. “Siamo una delle squadre più seguite e tifate dell’intero territorio balcanico – ci ha detto con fierezza Bjelanović – e da questo consegue il fatto che l’attenzione sia sempre al massimo livello anche se le capacità economiche delle società del calcio croato, non siano uguali agli altri club europei”. Torneremo sullo specifico della gestione di una squadra, ma la curiosità maggiore al momento è quella di capire come e quando, il centravanti tutto cuore, colpi di testa, lotta e gol (22 in Serie A, 42 in Serie B con 3 centri anche in Coppa Uefa e altri da aggiungere allo score nei vari campionati e coppe nazionali) abbia trovato un tassello del puzzle con scritto “Direttore Sportivo” da inserire nello spazio vuoto mancante della propria carriera. “Da sempre, in Italia, ho avuto la predisposizione ed il dono, oltre alla curiosità, di conoscere ogni giocatore, ogni avversario. Dalla Serie A alla Serie C. Prendevo informazioni su tutto e tutti e dato che in Croazia per regolamento, per essere direttore sportivo devi ottenere il patentino di allenatore, ho studiato sia da direttore che da allenatore effettuando tutto il percorso per avere l’attestato “Uefa A”. Se oggi sono questo è perché ho perseguito il mio obiettivo di diventare un direttore osservando anche quelli che ho avuto nelle mie esperienze da calciatore”. C’è un giorno in cui la vita di Bjelanović è cambiata. Via gli scarpini, su la cravatta. Via i sorrisi e la concentrazione da spogliatoio. Dentro le telefonate e gli incontri per supportare prima e disegnare poi, la sua squadra. “Ho avuto la fortuna di non avere periodi morti – ci ha confessato - perché appena decisi di smettere di giocare, iniziai il percorso dirigenziale. Per questo ho potuto usare tutta l’energia che avevo in campo per destinarla al nuovo lavoro. È un po’ come se non avessi mai smesso, almeno dal punto di vista mentale. Anzi, a dirla tutta, questo è un ruolo che richiede un dispendio di forze mentali assolutamente maggiore rispetto a quando giocavo, perché ogni giorno devi gestire, parlare, motivare, negoziare e questo è molto più duro del lavoro di campo, che è prevalentemente fisico”. Se non lo avete mai conosciuto di per-
DOVE SONO FINITI? Sasa Bjelanovi ć
sona o visto dal vivo, Sasa potrebbe sembrarvi il classico marcantonio tutto fisico e potenza, anche nell’esprimersi. Nient’affatto. Il gigante di Zara è un mix di determinazione e gentilezza, eleganza e padronanza di linguaggio, idee decise e faccia pulita. Doti che già i suoi compagni dell’ultima fase della carriera avevano identificato. “Verso la fine della carriera i miei compagni già mi chiamavano “Direttore”, in diverse squadre. Forse per i miei modi di comportarmi, di vestirmi, di parlare con loro. Già iniziavano a vedere alcune mie qualità e caratteristiche per il post carriera. A questo aggiungete che sono un appassionato, anzi possiamo dire proprio “malato” di calcio e il gioco è fatto: è stato facile seguire questa passione”. Spalato, dicevamo. Una città che vive per gli sport di squadra con l’Hajduk che ha nel palmarès 17 campionati vinti (9 jugoslavi, 6 da quando esiste il campionato croato), 17 coppe nazionali (stesso computo dei campionati) e 5 Supercoppe. Una piazza che,
quindi, esige risultati. “C’è una responsabilità enorme in un posto come questo dove la quotidianità, le pressioni mediatiche e della tifoseria, non ti permettono di rilassarti. L’unica cosa che ci dà un po’ di giovamento sono i risultati. Io, però, cerco sempre di stare sul pezzo e anche dopo le vittorie, punto a focalizzare il lavoro da organizzare per le settimane successive”. Insomma, Sasa cerca di portare un po’ di mentalità occidentale dove il calcio e il movimento vive un bel momento in cui si potrebbe però soffrire di vertigini, specie dopo il secondo posto al mondiale di Russia, il più importante risultato di sempre della Nazionale. “In Croazia, come in tutta la ex Jugoslavia - ha confermato – il calcio è basato tantissimo, ancora tantissimo, sul talento, solo ed esclusivamente sul talento. Abbiamo la fortuna di vivere, da questo punto di vista, in una miniera d’oro non solo per il calcio, ma per tutti gli sport di squadra. Mancano però le infrastrutture, gli investimenti su
allenatori e metodologie. Il secondo posto dei mondiali in Russia non è, e ripeto purtroppo, figlio di un lavoro programmatico, ma è quasi esclusivamente il risultato del mix del talento assoluto di molti dei nostri ragazzi, che poi si sono formati a livello tattico e professionale lontano dalla Croazia. Quella che ha perso contro la Francia è una squadra composta da giocatori che sono usciti dal nostro campionato verso l’estero, che erano ancora dei ragazzini. Purtroppo, dietro a questo risultato si nasconde ancora tanta improvvisazione e poca programmazione”. E allora, da dove prende la forza, una squadra, per sfornare giocatori come Boksic, Jarni, Bilić o Rapaić per fare qualche nome del passato dell’Hajduk? Impossibile fare paragoni con le squadre di casa nostra. “I top club croati, a livello economico, non possono essere messi in competizione con quelli di Serie A. Anzi, penso che probabilmente il discorso si possa fare solo con qualche squadra di Serie B. Il problema maggiore è che non ci sono diritti tv che possano aiutarci a chiudere i budget. Il nostro è composto quasi totalmente dai ricavi della vendita dei migliori giocatori, anzi per dirla tutta, dalla vendita di quelli che hanno maggiore mercato. E questo significa, ogni sei mesi, neanche ogni stagione, dover riprogrammare e non poter avere progetti a lungo termine. L’unica soluzione? Destinare risorse al settore giovanile, dal quale riusciamo molto spesso a crescere giocatori importanti che poi arrivano in prima squadra”. La dimostrazione? Prendete le statistiche della stagione e osservate le presenze di Bradarić (terzino sinistro classe ‘99), Nejasmić (centrocampista, ’99), Palaversa (centrocampista, 2000, già venduto al Manchester City), tanto per far qualche nome. “E non è finita qui – strizza l’occhio Bjelanović – perché nella seconda squadra abbiamo altri talenti pronti da sfornare. Due nomi? Uno è Cubelić, un 2003 di cui sentirete parlare, ma soprattutto Vusković, un difensore centrale del 2001 destinato ad avere un futuro veramente importante”. È quasi il tempo dei saluti e di tornare, sempre di corsa, a Zara. Ma prima divertiamoci un po’. Da direttore sportivo e con un budget adeguato, per quali ex compagni avrebbe fatto follie, il direttore Bjelanović, per averli nella sua squadra? “Il Principe Milito con cui ho giocato al Genoa, Vucinic che era con me a Lecce e Jorginho che ho avuto come compagno all’Hellas Verona. E poi Chiesa, dei giocatori di oggi.
Per Chiesa spenderei qualsiasi cifra”. Ovviamente in Italia, perché è quella la destinazione del viaggio del direttore Sasa. “È un pensiero costante, tornare a vivere e non solo a lavorare nel vostro paese. In questo momento sto benissimo all’Hajduk, ho da poco rinnovato il contratto fino al 2022, affronto un lavoro che si svolge in una piazza importante e con tante pressioni e questo significa che sto imparando molto per quello che mi servirà in futuro. L’idea è quella di tornare un giorno, quando sarà il momento, per lavorare in una squadra che voglia programmare a lungo termine e che abbia figure definite in ogni ruolo. Sono una persona che vuole assumersi le responsabilità e che lavora ogni giorno per trovare conferma delle proprie decisioni, e per questo penso che ad oggi di squadre, anche in Italia, che ti diano questo tipo di possibilità, non ce ne siano molte”. Probabilmente ha ragione lui. Che intanto, rallenta la corsa, dopo i soliti più di 320 km al giorno da pendolare del calcio. Arriva a Zara, al Morske Orgulje e si guarda intorno. Non è impossibile trovarsi a passeggiare assieme a qualche concittadino che conosciamo anche noi. Qualche nome? Dado Prso, Danijel Subašić, Šime Vrsaljko. E uno che nel mondo è, diciamo, abbastanza noto: si chiama Luka Modrić. È piccola Zara, ma dev’esserci un’aria particolare…
SCUDETTIAMO Roma 1982/1983
di Patrick Iannarelli
Un urlo: Roma! Dopo 41 anni, i giallorossi tornano a trionfare in Italia conquistando il secondo tricolore della sua storia…
Otto maggio 1983, ore 16:19 circa. Agostino alza la testa, crossa al centro dell’area di rigore e il solito Pruzzo stacca più in alto di tutti, superando un incolpevole Silvano Martina. Servono almeno un altro paio d’ore, ma Roma, di lì a poco, diventerà una bolgia. Dopo il successo iridato dell’estate appena passata, la Capitale è di nuovo in festa. 41 anni dopo l’ultima volta, la Roma è matematicamente campione d’Italia. Spiegare cosa significa vincere a Roma non è cosa semplice, nemmeno Sebino Nela è riuscito ad esprimersi al meglio. Nella città Eterna per antonomasia, dove tutto sembra rimanere fermo al suo po-
sto, vincere non è mai semplice. Un coacervo di emozioni, un insieme di istinti che arrivano direttamente all’interno e che ti fanno amare in maniera folle e a volte esagerata questa squadra. Una compagine bella quanto vincente, a cui è mancato il tassello più prezioso. Quella maledetta Champions League, che sembrava ormai ad un passo da Trigoria. Ma nel calcio, come nella vita, nulla è stato scritto a tavolino. O forse sì. Il problema che il romanziere disponibile in quella notte di maggio non aveva a disposizione strumenti colorati di giallo o di rosso. E scelse una trama fredda, distaccata. Di liverpooliana fattura, in una delle città più calde del mondo. Ma questa è un’altra triste storia, che si discosta da quell’anno magico dominato da una banda di grandissimi giocatori e da un insegnante di vita che nel tempo libero insegnava calcio.
Vincere a Roma non è mai semplice. Lo abbiamo visto nel corso degli anni e con il passare del tempo, quando delle ottime squadre non sono riuscite a portare a casa l’intera posta in palio. Squadre troppo belle per essere vere, compagini spinte fino al baratro da un tifo a volte insostenibile. L’insostenibilità. Forse è proprio questo che rende difficile la vita in una piazza calda come quella giallorossa, che cerca in tutti i modi di spingere la squadra. Non è passione, nemmeno amore. È un sentimento talmente tanto complesso e
IL RICORDO DI NELA
Uno dei simboli dello scudetto, ma soprattutto una carriera scandita anche dalla maglia giallorossa sulle spalle. Sebastiano Nela, in arte Sebino, ci ha raccontato che cosa era quella Roma, ma soprattutto cosa ha significato per la sua carriera vincere uno scudetto da protagonista con i colori giallorossi:
Cosa ricorda in particolare di quell’anno? Qual è stata la cosa più bella?
“È stato un anno dove ci si divertiva tutti i santi giorni. La cosa più bella rimangono i diecimila tifosi che venivano quando si giocava a Torino con la Juventus, era come quasi giocare in casa. C’erano tantissimi tifosi e venivano sempre a sostenerci. È uno dei ricordi più belli anche di tanti miei compagni di squadra”.
Qual è stata la partita in cui avete raggiunto la consapevolezza di poter vincere?
“Eravamo consapevoli di essere una squadra forte. Sicuramente la partita di Pisa, la gara che ci ha convinto del tutto, in quel momento lì abbiamo pensato di poter vincere il campionato. C’è sempre stato rispetto per le nostre avversarie, ma quella è stata la partita determinante per la nostra convinzione”.
Cosa vuol dire vincere uno scudetto a Roma?
“Non si può spiegare, bisognerebbe provare. Erano altre stagioni, altri tempi, altre società. Erano cose diverse rispetto al calcio di oggi. Il tifo, la passione. Sono cose particolari, è difficile spiegarle”.
Quanto ha inciso la vittoria dello scudetto nella sua carriera?
“Io venivo già da due campionati e mezzo al Genoa e subito ho vinto lo scudetto. Mi sono reso conto che potevo essere un giocatore di buon livello per la nostra serie A. Mi ha aiutato tanto il gruppo, era una squadra fortissima che giocava un gran calcio, eravamo avanti a tutti come filosofia calcistica. èstato bello far parte di una squadra così forte e importante, chiaramente ti dà maggiore convinzione. Fin da subito mi sono reso conto del livello di quel gruppo”.
strutturato che risulta difficile sminuire con la semplice passione calcistica. Pacche sulle spalle, nervosismi, voglia di prevalere sui rivali della città. Non ci sono motivi veri e propri, ma semplici pretesti per poter vedere una squadra dominare. Con la voglia di stupire il mondo intero. Non è semplice, assolutamente. Ma chi riesce nell’impresa può dire di aver veramente vinto dieci scudetti. Perché nell’insostenibile peso dell’irrazionalità, l’aritmetica è un’opinione, la Roma no. Chi ha vissuto l’anno dello scudetto è sempre stato consapevole della forza di quella squadra. Lo ha raccontato Luciano Tessari, storico vice di Niels Liedhom, ma anche tantissimi calciatori di quella stagione. Mancava però la conditio sine qua non, quel fattore decisivo che avrebbe unito la finalizzazione di Roberto Pruzzo, le qualità di Bruno Conti e il peso specifico di un simbolo di Roma, Agostino Di Bartolomei. La figura determinante fu proprio quella di Niels Liedholm, uno svedese apparentemente glaciale ma che ha conquistato l’Italia con il suo calcio futuristico e che ricalcava a larghi tratti quello olandese, seppur con diverse accezioni. Spiegare un allenatore come Liedholm è complicato sotto molti punti di vista, anche perché personaggi simili appartengono ad una letteratura di vita ormai scomparsa. Pochi allenatori hanno saputo rapire i sentimenti dei propri giocatori anche a distanza di moltissimi anni. “Anni stupendi”, come lo stesso Sebino Nela racconta. Ma non è soltanto una questione di libertà o meno, l’allenatore svedese ha saputo raccogliere in una squadra tutto ciò che è assolutamente necessario per vincere un campionato. La consapevolezza dei propri mezzi, caratteristica non scontata. L’unione di un gruppo di uomini, di difficile interpretazione sin dalla notte dei tempi. Ma soprattutto la voglia di raggiungere un obiettivo. Senza l’abnegazione non si va da nessuna parte e quella squadra aveva sacrificio da vendere, anche nelle
Gli anni passano ma Falcao resta un idolo assoluto della tifoseria della Roma
partite più complesse. Ma c’erano anche qui simboli che hanno segnato un’epoca e intere generazioni, come ad esempio Agostino Di Bartolomei. Raccontare la storia di “Ago” non è mai facile, soprattutto dopo quel gesto compiuto a dieci anni di distanza dalla maledetta finale di Coppa dei Campioni. Ma quel romano verace ha sempre segnato un movimento incredibile, quel calcio che stava probabilmente cambiando i dogmi futuri degli attuali allenatori. La visione di gioco c’era, un piede niente male anche per il ruolo occupato. Mancava la velocità e in quel momento arrivò una delle mosse più semplici ma allo stesso tempo più significative del tecnico svedese: prendere il numero 10 e arretrarlo in difesa. Maggiore visione di gioco, possibilità di giocare con meno pressione da parte degli avversari e un elemento carismatico in difesa.
Il tecnico Liedholm osserva i suoi assi Falcao e Cerezo allenarsi. Credit foto: Liverani
Un centrocampista di livello a dipingere calcio in maniera artistica, perché Di Bartolomei si nutriva di pallone ma anche di arte. Passione condivisa con lo svedese “napoletano”, come tutti lo chiamavano. Perché non importa da quale parte del mondo vieni, sul rettangolo di gioco le emozioni si mescolano in quel prato verde apparentemente delineato, ma in fin dei conti senza veri e propri confini. Tanto la qualità a centrocampo non mancava di certo. Ancelotti da una parte, Paulo Roberto Falcao dall’altra. Ecco, se un brasiliano arriva a Roma e prende un soprannome come il suo (Ottavo Re, ndr) siamo davanti a qualcuno che ha tracciato un solco indelebile nella storia del club. Per negare un suo trasferimento all’Inter, leggenda narra che ci fu l’intromissione di qualcuno dall’alto, di molto in alto, per bloccare il tutto. Per farvi capire quanto possa contare la Roma tra i tifosi di fede giallorossa. Cinque anni in cui quel brasiliano di Xanxerê ha letteralmente creato calcio anche quando non c’era la possibilità. Un portamento unico, chi ha avuto la fortuna di vederlo giocare dal vivo ancora ricorda quei movimenti che scandivano i suoi 90’ in campo. Ironia della sorte, quel giocatore entrò quasi per caso nella “lista della spesa” di mister Tessari. Uno stop al volo e un tiro di destro di poco fuori bastano per far innamorare anche chi non cerca ritmi compassati. Nonostante ciò che è stato in grado di costruire a Roma, la critica stroncò anche il numero 5. Troppo lento, troppo anonimo. Troppo macchinoso. Ma era colpa di un virus, perché quando Paulo Roberto Falcao ha deciso di prendersi la Roma, non l’ha più mollata. In attacco c’era anche il terminale offensivo adatto, ovvero Roberto Pruzzo. Ma il vero
top player di quella squadra era sicuramente Bruno Conti, che si era appena meritato l’appellativo di “Marazico”. Prima il baseball, in quella Nettuno tanto a stelle e strisce, poi il calcio. Probabilmente fu proprio lui uno dei personaggi decisivi di quel tricolore, visto il mondiale appena giocato. Un campionato del mondo e uno scudetto con la maglia della Roma, in pochi sono riusciti a replicare un’impresa simile. La qualità, l’estro, ma soprattutto le giocate di puro istinto. Perché chi gioca nella Roma e sa cosa vuol dire essere romanisti è ben conscio che il ragionamento lucido e freddo non fa parte delle peculiarità di questi colori. Servirebbero giorni interi per poter raccontare la storia di ogni singolo personaggio di quello scudetto, da Franco Tancredi ad Aldo Maldera, passando per Chierico, Iorio, Nela, Vierchowod e tanti altri che hanno riportato
Bruno Conti, uno degli artefici dello Scudetto giallorosso del 1983
un tricolore in un posto dove mancava ormai da troppo tempo. Una ragnatela perfetta, fatta di uomini, sentimenti e calcio. Giocatori che hanno segnato intere generazioni con partite incredibili, vinte su campi complicati e difficili. Gare giocate su terreni in cui era difficile per tutti poter esprimere un calcio moderno e ideologico come quello dello svedese. Partite in cui la consapevolezza stava emergendo, come quella di Pisa. Ma anche sconfitte brucianti, come le quattro partite stagionali contro la Juventus. Ma in un anno in cui tutto sembrava complicato, in cui c’era entusiasmo per un mondiale vinto ma non si sapeva quale fosse la vera direzione della squadra, quei giocatori sono riusciti ad esprimersi al meglio grazie a tanti fattori e a quella genuina bontà che solo a Roma puoi far tua… Più di qualche interprete appena nominato ha avuto un passato particolare e dei genitori che “volevano altro”. Il calcio ancora non veniva visto come un lavoro, ma soltanto come quel vecchio passatempo che qualcuno aveva portato dalla perfida Albione. E tra scaramanzie del Barone e tanti destini intrecciati nel modo giusto, lo scudetto tornò a Roma dopo 41 lunghissimi anni, riportando il sole in una città che per mille motivi stava vivendo una lunga notte. Ma quando il calcio è una ragione di vita, una filosofia, un credo atipico, tutto cambia e può sballare ogni singola concezione umana. L’immaginazione, la voglia di poter trionfare in un luogo che è mentalmente vessato da chi ha il successo nel sangue, sportivo e non. Ma soprattutto la consapevolezza dei propri mezzi. E dunque non importa quanta oscurità trovi dentro o fuori di te, l’importante è conoscere anche in maniera intima qual è il tuo vero amore, soprattutto calcistico. Ecco perchè non si può spiegare cosa vuol dire vincere con i colori giallorossi. Perché anche nelle notti più buie, anche senza un manto di stelle, Roma bella appare.
Alf a beto dei bidoni Santiago Silva
di Stefano Borgi
Idolo in Sud America, famoso per le sue esultanze naif, in Italia “El Tanque “segnò solo un gol. Per giunta su rigore...
UN CARRO ARMATO CON LE RUOTE SGONFIE...
Santiago Martin Oliveira Silva, in arte “el tanque”, è uno dei tanti misteri, fallimenti, diciamo pure bidoni (nell’alfabeto dedicato lo poniamo alla lettera S) approdati nel campionato italiano.
Ed è addirittura recidivo... La prima esperienza nostrana, infatti, fu nel Chievo (gennaio 2002) voluto fortemente dal direttore sportivo
Giovanni Sartori, ammaliato dai tanti gol che il ragazzo aveva segnato in patria: Central
Espanol, River Plate e Defensor Sporting di
Montevideo. Una media di quasi un gol ogni due partite, non male per un ragazzo allora di soli 22 anni. Ahilui, quello era il Chievo neopromosso di Gigi del Neri, che in serie A faceva faville: Legrottaglie, Corini, Eriberto,
Manfredini, Corradi, Marazzina... Più i futuri campioni del mondo Barone e Perrotta. E poi il gioco spumeggiante, la favola del primo anno tra i “grandi”, un quinto posto finale che volle dire qualificazione Uefa. Capirete che gli spazi per un giovane, rampante centravanti, per di più arrivato dall’estero, erano pressoché inesistenti. Nove anni dopo la seconda possibilità, alla Fiorentina, con Pantaleo Corvino che lo sceglie come vice-Gilardino. Il pedigree stavolta è di tutto rispetto: esperienze in Germania, Portogallo, Brasile e Argentina, caterve di gol con Newell’s Old Boys, Velez
Sarsfield e Banfield. Le folle che lo adorano, anche grazie ad un modo di esultare diciamo così... originale. Eppure, anche il secondo giro nel Belpaese non porta fortuna. Ma andiamo con ordine...
MONTEVIDEO, LA “CIUDAD” DE LOS CAMPEONES
Peccato perché le premesse c’erano tutte: innanzitutto la città natale, Montevideo. Uno può dire, che ci vuole? Montevideo è la capitale, una metropoli da 2 milioni di abitanti, la città più popolosa, il porto più importante, il terminal più all’avanguardia di tutto l’Uruguay. In più Montevideo è la patria della Cumparsita, ballo tipico composto nel 1915 dal musicista Gerardo Matos Rodriguez. E poi lo stadio del Centenario, insignito dalla Fifa del titolo di “stadio storico”, che fu sede della prima finale di coppa del mondo: quella vinta 4-2 dall’Uruguay di Josè Andrade sull’Argentina di Guillermo Stabile. A Montevideo, infine, hanno visto la luce Juan Alberto Schiaffino ed Enzo Francescoli, due tra i più grandi calciatori che abbiano mai vestito la “celeste”. Tra gli attaccanti Daniel Fonseca, Walter Pandiani, Marcelo Otero, Ruben Sousa e Marcelo Zalayeta. Spaziando, invece, in tutte le zone del campo (panchina compresa) citiamo Pablo Montero, Josè Santamaria (difensore pluridecorato col Real di Alfredo Di Stefano) e mister Oscar Washington Tabarez. Infine, e arriviamo così al colore viola, ricordiamo su tutti l’Artillero Pedro Petrone, il primo capocannoniere (1932) della storia viola, anch’esso campione del mondo nel 1930. Narra la leggenda che, grazie alla potenza del suo tiro, i cipressi di Fiesole si inchinassero... piegati da tanta forza e precisione. L’erede naturale, almeno sul prato dell’Artemio Franchi, sembrava proprio
Alf a beto dei bidoni Santiago Silva
rispondere al nome di Santiago Silva, all’apparenza una via di mezzo tra Pasquale Bruno ed il commissario Montalbano. E poi quel nomignolo, “el tanque” (i’ttanche, in vernacolo fiorentino) a dir poco impegnativo: “carro armato”. Silva arriva alla Fiorentina all’età di 31 anni, non certo un ragazzino, ma proprio per questo c’è chi è disposto a scommettere sulla sua riuscita in viola. Come Josè Alberti, agente Fifa ed esperto di calcio sudamericano: ‘’Silva è un giocatore non particolarmente alto, ma nei contrasti è molto forte. È un costante pericolo per le difese avversarie: credo che la Fiorentina abbia fatto un ottimo affare acquistandolo. Credo che nel campionato italiano potrà segnare 18-20 gol. È un giocatore che, a 31 anni, ha già avuto molte esperienze, anche in Europa. Nel suo ruolo è uno dei migliori. Avrà sicuramente modo di giocare, perché, a mio giudizio, si guadagnerà fin da subito uno spazio da titolare. Può calciare di destro, di sinistro ed è molto forte di testa’’. Rincara la dose Sabatino Durante, procuratore ed anch’egli grande conoscitore del calcio argentino: “Santiago Silva, se è stato acquistato per una cifra attorno ai 2-2,5 milioni di euro, è un ottimo affare. Lui è un giocatore che sa fare gol, specialmente negli ultimi anni ha segnato molto. L’unica perplessità riguarda la sua età, perché è un classe ‘80, ma 2 o 3 stagioni a buoni livelli le garantisce sicuramente. È molto forte fisicamente, e grazie a questa sua caratteristica sa far salire la squadra molto bene, favorendo anche gli inserimenti dei centrocampisti. Inoltre, ha i piedi educati: certo non stiamo parlando di Eto’o, ma nel campionato italiano ci può stare tranquillamente. Diciamo che può essere stato preso per sostituire Gilardino, rispetto al quale garantisce un maggior numero di soluzioni offensive”. Tombola! Con queste referenze la Fiorentina (si disse) completa l’attacco, e regala a Mihajlovic un’eccellente vice-Gilardino. Ma si sa, le cose non vanno mai come vorremmo. Iniziamo col dire che quella Fiorentina visse una stagione molto precaria (eufemismo): esonerato Mihajlovic, al suo posto arriva Delio Rossi. Poi la cazzottata con Ljajic, il terzo cambio in panchina con Vincenzo Guerini e la salvezza conquistata alla
L’unico gol di Santiago Silva in maglia viola contro la Roma...
penultima giornata. Insomma... Santiago Silva che arriva in un calcio sconosciuto (col Chievo, 9 anni prima, neppure una presenza da titolare) e si inserisce in un contesto che di certo non lo aiuta. L’esordio è alla prima giornata di campionato: la Fiorentina batte 2-0 il Bologna e “i’ttanche” rileva Gilardino all’80’. La prima da titolare arriva 10 giorni dopo contro il Parma (3-0 per i viola), ma del gol nemmeno l’ombra. E lo stesso non si palesa fino alla 14°, già con Delio Rossi in panchina, quando a Firenze si presenta la Roma di Luis Enrique. Santiago Silva (come sempre) parte riserva, entra al 63’, ed a 4 minuti dalla fine calcia un rigore sotto la Fiesole: destro radente a spiazzare Stekelemburg per il 3-0 finale. L’esultanza? Assai contenuta, e anche in questo traspare tutta la difficoltà di un ragazzo arrivato a Firenze per spaccare il mondo, al contrario relegato al ruolo di comprimario. Fu quello, per “el tanque”, il canto del cigno dalla causa viola: un altro subentro sette giorni dopo a San Siro contro l’Inter (stavolta al posto di Ljajic) e poi la decisione condivisa di separarsi. Lo score totale di Santiago Silva in maglia viola recita: 12 presenze (più una in coppa Italia), tre sole da titolare, un gol inutile su rigore, nessun punto portato alla classifica. Sopratutto nessuna esultanza degna di questo nome. E per uno come lui, affetto da mania di protagonismo, fu lo smacco più grosso.
TRA PAZZE ESULTANZE E LA MAGLIA NUMERO 10
Ripartiamo dalla fine: Santiago Silva arriva in maglia viola per le sue reti, ma anche per la fama dovuta alle esultanze. Strane, pazze, in molti casi fuori di testa. Del resto in Sud America spesso fanno a gara: telecronisti, commentatori, calciatori, è una lotta a chi fa più spettacolo, a chi buca il video e trascina le folle. Ecco, in questo “el tanque” Silva è il numero uno riconosciuto. Si va dal prendersi a schiaffi in mezzo al campo, alla simulazione di un attacco cardiaco, al mettersi alla guida di una macchinina medica, allo sfilarsi uno scarpino e portarlo alla bocca: mimando una telefonata, fingendo di bere champagne. Insomma, di tutto di più. E invece dopo il rigore realizzato contro la Roma, una tenue smorfia di soddisfazione, un veloce abbraccio e via... senza strafare. Infine, la maglia numero 10: Montuori, De Sisti, Antognoni, Baggio, Rui Costa, Adrian Mutu, la numero 10 viola è un concentrato di stile, classe e personalità. Capita però che alcuni anni la numero dieci resti senza padrone, o in attesa di... Ed allora, guarda caso, nel luglio 2011 la maglia casca sulle spalle proprio del tanque Silva, che però dovrà cederla dopo appena sei mesi. Non va meglio da gennaio a giugno 2012 quando un altro uruguagio, tale Ruben Olivera di scuola juventina, subentra al connazionale facendo (se possibile) ancora peggio. Fino ad arrivare ai giorni nostri: da Aquilani a Bernardeschi, da Eysseric a Pjaca, insomma... non c’è proprio di che rallegrarsi.
EL TANQUE OGGI...
La storia di Santiago Silva in riva all’Arno finisce dunque il 20 dicembre 2011, con la panchina nello 0-0 di Siena. Il 17 gennaio 2012 approda al Boca Juniors in Argentina col quale resta 18 mesi segnando 19 gol in 52 gare ufficiali. Quindi 2 anni al Lanus (la città natale di Maradona) col quale si aggiudica la Coppa Sudamericana. Nel 2017 prova un’esperienza in Cile con l’Universidad Catolica di Santiago e nel 2018 viene ingaggiato dalla squadra argentina del Gimnasia de la Plata. Facendo un rapido calcolo... 567 gare ufficiali e 196 reti, con la media di un gol ogni tre partite. Non male per uno che è venuto in Italia per scrivere la storia, ed invece si è dovuto accontentare dell’alfabeto dei bidoni. Boa sorte Santiago...