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Mario A. Rumor
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Il nuovo impero americano delle serie TV: Buffy, C.S.I., Alias e tutte le altre Prefazione di Franco La Polla
Le virgole. Argomenti 3
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I edizione ottobre 2005 Copyright © Tunué Srl Via degli Ernici 30 04100 Latina – Italy info@tunue.com www.tunue.com
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i paesi.
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ISBN: 88-89613-00-9
Progetto grafico e copertina: Daniele Inchingoli
Stampa e legatura: Tipografia Monti Srl Via Appia Km 56,149 04012 Cisterna di Latina (LT) Italy
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Indice
Prefazione di Franco La Polla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .7 Pilot . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .15 I
II
Grandi storie, piccolo schermo . . . . . . . . . . . . . . . . . .19 Il segreto del successo: la scrittura . . . . . . . . . . . .23 C’è posto per tutti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .26 Adolescenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .29 Cominciamo dalla fine: The O.C. . . . . . . . . . . . . .30 Un passo indietro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .34
III Dura lex, sed lex . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .38 The Practice, avvocati in scena . . . . . . . . . . . . . . .39 Il fascino indiscreto di chiamarsi Ally . . . . . . . . . .41 Le altre facce della legge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .43
IV Spie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .47 Alias: le cose non sono (mai) ciò che sembrano . .48 24: Conto alla rovescia in TV . . . . . . . . . . . . . . . . .50 Non tutte le spie riescono col buco . . . . . . . . . . . .52 V
Famiglie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .53 Una serie per amica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .54 Serie molto serie (pure troppo) . . . . . . . . . . . . . . .56
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Intermezzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .59 Tutti perduti sull’isola di J.J. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .59 VI Morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .64 Memorie dal sottosuolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .64 Magical Mystery Tour . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .66 E chi della morte se ne intende . . . . . . . . . . . . . . .67
VII Indagini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .69 VIII Femminile, singolare/plurale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .74 IX Risate in scatola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .78
Season finale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .81
Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .83 Indice delle serie e dei termini tecnici . . . . . . . . . . . . . . . .89
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Prefazione di Franco La Polla Mi piace molto la definizione di questo libro come una «caccia al tesoro» datane dall’autore stesso. In effetti l’ambizione di Mario A. Rumor non è accademica e tutto sommato nemmeno sistematica. Accumulata una serie (sì, una serie!) di conoscenze sulla varia produzione seriale televisiva americana dell’ultima quindicina d’anni, l’autore indica, in effetti, alcune discriminanti differenziative, ma si sente bene che è il piacere di ripercorrere quella conoscenza che la fa da padrone. E tuttavia non si tratta di un’opera semplicemente – ed entusiasticamente – descrittiva. Il primo capitolo infatti offre un’enorme quantità di spunti riflessivi su quell’universo in pollici che siamo ormai anche noi abituati a visitare quotidianamente. Per esempio, non sono ben sicuro che la televisione riesca a raccontare tutto quello che il cinema liquiderebbe subito (ricordo che qualcosa del genere mi disse Sydney Pollack in un’intervista di parecchi anni fa). Probabilmente è vero. Eppure è altrettanto vero e risaputo che da molto tempo il cinema hollywoodiano si è piegato alle esigenze visuali e addirittura ritmiche del piccolo schermo, talché non c’è quasi film americano che non dispieghi frenetico montaggio, campi medi e primi piani, taglio della sceneggiatura adeguato alle interruzioni pubblicitarie e via dicendo. Del resto è cosa nota: oggi il cinema americano non riuscirebbe a vivere senza lo sfogo fornito dallo sfruttamento televisivo dei suoi prodotti; e
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per sfruttamento televisivo intendo anche videocassette e DVD i quali, almeno fino a questo momento, vengono fruiti nelle dimensioni domestiche (home theatre) del piccolo schermo. Che il rapporto fra cinema e televisione fosse vivo e vegeto anche nei primi anni del nuovo mezzo è cosa indiscutibile: il nome del divo che coincide con quello dello show non incomincia con la fine del secolo appena trascorso (penso al travolgente successo cinquantesco di trasmissioni oggi dimenticate come Milton Berle, The Ray Milland Show, The Donna Reed Show – che si inoltrava abbondantemente nei Sessanta – fino ai sessanteschi The Patty Duke Show, The Dick Van Dyke Show, The Tom Ewell Show, The Andy Griffith Show e ai settanteschi The Mary Tyler Moore Show, The Nancy Walker Show, lo sfortunato Shirley’s World con Shirley MacLaine ecc.), ma permea l’intera storia della televisione statunitense. Ma in quel primo capitolo c’è ben altro. Rumor riporta le parole di Joel Surnow, per il quale oggi la televisione è il tempio degli scrittori, mentre il cinema – a suo dire – si divide meglio tra registi e attori. Insomma, la sceneggiatura cinematografica odierna non ha molta importanza se comparata agli effetti speciali e alle star. Dato e non concesso che questo sia vero, non mi sembra un’affermazione generosa, ché essa pecca un po’ di «razzismo mediatico». Per il cinema infatti sarebbe accaduto quello che in passato era capitato ai neri in America: prima li si teneva in condizioni da non potersi neanche sognare di condurre una vita come qualunque altro cittadino degno di questo nome, poi li si accusava di essere diversi, pigri, sporchi, ignoranti. Insomma, si trasformava in natura quello che era semplicemente cultura. E per di più cultura imposta dall’esterno. Col cinema è stato lo stesso: prima lo si è messo in crisi, poi lo si è condizionato in modo da adattarsi alle necessità della televisione, e infine si va dicendo che per esso la scrittura conta poco, per di più appropriandosi di quello che era stato per decenni il fiore all’occhiello di Hollywood: la sua straordinaria tradizione sceneggiativa. 8
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PREFAZIONE
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Non c’è dubbio: questa è davvero un’epoca televisiva. E dovevamo accorgercene sin dagli anni Cinquanta, quando chi andava d’accordo col piccolo schermo non erano tanto i teenager (come si vede, qui non concordo con Rumor) ma i bambini, oltre ovviamente a buona parte degli adulti e soprattutto degli anziani. Intendo dire che la generazione nata con l’avvento della televisione non poteva non istituire con essa un rapporto potente e continuato, rapporto che si sarebbe ancor più consolidato con le generazioni seguenti per le quali la televisione non era una nuova, affascinante invenzione ma un fait accompli. I teenager di allora andavano al drive-in, si crogiolavano davanti alle porte scricchiolanti dei manieri messi in piedi da Roger Corman, alle trovate baracconesche (scheletri che pendono nella sala, piccole scosse elettriche alle sedie eccetera) di William Castle e alla ingenua tridimensionalità dei bellissimi b-movies fantascientifici di Jack Arnold. Furono loro ad aprire la strada al cosiddetto youth movie che avrebbe trionfato per qualche anno a partire dalla fine dei Sessanta, ovvero dall’inizio della New Hollywood. Ma fu solo lo spazio di un mattino. L’epoca, ripeto, è televisiva. Non vorrei però che il lettore si immaginasse quest’ultima frase come fosse pronunciata con un sospiro o magari con sdegno da chi scrive. No no, io credo profondamente alla «buona» televisione (sembra un ossimoro, vero?). Di quella televisione ne abbiamo avuta e ne abbiamo. Ai confini della realtà, Star Trek, Mary Tyler Moore, Seinfeld e oggi I Simpson e Buffy hanno fatto e stanno facendo, fra gli altri, la storia della «buona» televisione americana (o se si preferisce una sorta di controstoria di essa). L’intera produzione MTM è una bandiera sotto la quale si erano raccolti negli anni Settanta alcuni fra i migliori talenti – sceneggiatori, attori, produttori o altro – del piccolo schermo. Ma anche in America è successo quel che abbiamo avuto in Italia: la televisione (via cavo) si è fatta produttrice cinematografica, o quantomeno di film destinati direttamente al proprio canale. 9
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E con pregevoli riuscite: la HBO, per esempio, vanta un formidabile numero di ammirevoli film. In questo quadro che cosa ha da dirci la serialità televisiva degli ultimi quindici anni?
Sarah Michelle Gellar in Buffy – The Vampire Slayer © FOX Television
Molto, credo. Anche se ovviamente in termini profondamente diversi da quella dei tempi pionieristici. La sola figura della donna, per come la riceviamo dal catodico, denuncia una rivoluzione (si fa per dire) alquanto evidente. Dalla casalinga Lucy Ricardo alla single romantica Mary Richards fino alla superdotata e infelice slayer Buffy, la televisione americana ha registrato puntualmente il mutamento dell’immagine e del ruolo stesso della donna nella sua società. A sua volta il sempre più irresistibile inurbamento ha portato a un moltiplicarsi di serie poliziesche d’azione (fra le quali, mi sembra, primeggia per umanità e lucida intelligenza The District), nelle quali non di rado son proprio le donne le principali protagoniste. Ma quel che più colpisce – e che Rumor non manca di evidenziare – è il ruolo della morte, dell’aldilà e spesso e volentieri del 10
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PREFAZIONE
soprannaturale nell’odierna produzione: penso all’originalissimo Sex Feet Under, ma anche allo stesso Buffy, a Tru Calling, a Angel, e tralascio le varie e spesso secondarie esercitazioni stregonesche di non poche altre serie. Buffy mi sembra senz’altro la più vivace, un incontro di diversi generi (martial arts, college movie e horror film) sul terreno di un’idea centrale: i problemi dell’adolescenza e della prima giovinezza. Vi sono pagine, nella serie di Joss Whedon, che non hanno nulla da invidiare alla miglior letteratura (Spike che in un episodio si reca da Buffy per farla finita con lei e, trovandola seduta triste e affranta sul portico di casa, le si pone accanto cercando di consolarla è un momento degno di un poeta). Whedon gioca molto con le parole (è forse la serie avventurosa più splendidamente ironica della televisione grazie al suo frizzante dialogo, per lo più appannaggio di uno dei personaggi, Xander), ma sa anche usare i silenzi, soprattutto nei suoi finali che fanno pensare a dei piccoli tableaux vivants eredi della tradizione del teatro melodrammatico francese, una sorta di freeze che congela la battuta finale lasciando lo spettatore a meditare sul suo valore, le sue implicazioni, le sue eventuali conseguenze. Insomma, una televisione intrattenitiva che fa pensare e nella quale ritroviamo i nostri veri problemi e non i falsi drammi imposti dai furbacchioni del palinsesto. Che cosa si può chiedere di più a questo compromesso medium? Solo, che elabori altri programmi di questo livello e lasci perdere la spazzatura, il reality show (ma quale reality? via, non prendeteci in giro!), i grandi e piccoli fratelli minorati, i famosi che non sono nessuno e via dicendo. Aspettiamo con pazienza, le cose sono in parte cambiate e probabilmente cambieranno ancora. Nel frattempo leggiamo con piacere chi, come Rumor, sta preparando il terreno per una maggiore e consapevole comprensione di un fenomeno di cui non è più lecito liberarsi con una scrollata di spalle. 11
Bologna, estate 2005
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Calista Flockhart e Dylan McDermott in posa per il crossover tra Ally McBeal e The Practice. Š FOX Television
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Pilot
Credo che lei guardi troppa televisione, avvocato. (da The Practice – Professione avvocati)
Questa è l’introduzione più discreta al mondo. Il motivo è banalissimo. Se avete scelto di leggere questo micro-libro sulle serie TV americane, vuol dire che qualcosa già sapete. Non siete un lettore incauto, probabilmente la vostra è una passione di lunga data e quindi abbiamo poco da spiegare. Siccome non siete un lettore incauto, vi domandate anche come sia possibile che cento pagine riescano a catturare un intero universo seriale intriso di passioni collettive o individuali, di anfitrioni con volti da star hollywoodiane che ci/vi introducono in vite parallele e finzionali, o in situazioni action cronometrate al millesimo di secondo oppure altre ancora che straripano di risate fuori scena. O lacrime. La risposta è altrettanto banale: non è possibile. Le serie TV esistono praticamente da sempre, da quando è nata quella scatola delle meraviglie elettronica a cui una celebre famiglia americana di cartoon dalla pelle gialla ad esempio non potrebbe fare a meno. Un postmoderno specchio dei desideri in cui rimirarsi, che esaudisce (quasi) ogni desiderio. Basta saper devolvere ogni titillamento a un telecomando di plastica. Sul ciarpame che questa stessa scatola è in grado di confezionare
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preferiamo azzerare ogni commento. Troppo poco spazio. Per recuperare preziosi secondi di credibilità, diremo allora che in questo libro abbiamo deciso di concentrare ogni attenzione sull’ultimo decennio, o poco più, di produzioni seriali. Forse perché qualcosa si è evoluto nel linguaggio televisivo a cavallo tra questo secolo e l’altro. O forse perché si nasconde qualcosa di televisivamente ancestrale dietro a tutto ciò che gli spettatori intuiscono essere innovativo e originale. Inoltre nella coscienza degli spettatori s’è insediato il sospetto di un avvenuto «rinascimento» delle serie TV americane, verso le quali si è pure inaugurato un rispetto filologico e critico impensabile fino a pochi anni fa, un rispetto coniugato al verbo televisivo più in voga in questi anni: il digitale della pay TV e del DVD.
Manifesto promozionale di Everwood. © The WB
Created by non intende essere una sintesi ragionata del fenomeno ma una «caccia al tesoro» che parte da specifici argomenti su cui ragionare. A spiegare bene, e diffusamente, cosa siano le serie TV e che differenza concettuale esista con i serial, le soap opera e la fiction all’italiana ci pensano ad esempio le pagine introduttive di Aldo Grasso all’ormai cele16
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PILOT
bre Dizionario dei telefilm compilato con perizia certosina da Leo Damerini e Fabrizio Margaria oppure uno dei libri più belli e avvincenti sulla passione telefilmica, scritto da Diego Del Pozzo e intitolato Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani.1 Invece questa nostra piccola creatura, pullulante di vita seriale, va considerata in esergo al fenomeno e solo per questa volta, promesso. Né più né meno come uno di quei trailer trasmessi in televisione, in cui una serie si gioca tutto in pochi secondi per suscitare l’interesse dello spettatore. Ringraziamenti Per la fiducia: agli editori di Tunué Massimiliano Clemente, Emanuele Di Giorgi, Concetta Pianura. Per la pazienza: a Marco Pellitteri. Per il sostegno e un piccolo aiuto: a Cristina e Katya. Per la collaborazione: a Giuseppa Gatto e Francesca Tauriello della Buena Vista. E un ringraziamento speciale a Franco La Polla per la pregevole Prefazione, naturalmente.
M.A.R. Belluno, estate 2005
Note
1 Cfr. Aldo Grasso, «La fortuna di un nome, la fortuna di un genere», in Leo Damerini – Fabrizio Margaria, Dizionario dei telefilm, Milano, Garzanti, 2001. Diego Del Pozzo, Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani, Torino, Lindau, 2002. 17
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Il cast mafioso di I Soprano. Š HBO.
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I Grandi storie, piccolo schermo La televisione ama raccontare storie. Tante e diverse. Dicono che abbia un naso più lungo di Pinocchio e il difetto di voler essere curiosa, a volte morbosa, insospettabilmente premurosa quando impegnata a intrattenere milioni di spettatori che – singolare legge del contrappasso mediatico – adorano sentirsi raccontare quelle storie, sono curiosi, molto morbosi, perfino premurosi verso chi sta dall’altra parte del tubo catodico. In questo le serie televisive rappresentano la più popolare delle armi narrative al servizio della televisione. Quelle statunitensi, in particolare, sono diventate irrinunciabili come la Coca-Cola, un prodotto di consumo tra i più rappresentativi e avvincenti. Quasi una sorta di nuova mitologia nell’era elettronica, dove il principale ammonimento esistenziale pare essere introdotto da un poco ortodosso video ergo sum. Con tutte le conseguenze possibili e immaginabili e cioè una moltiplicazione di sguardi, tanti quante le vite che vengono narrate sul piccolo schermo. Con le sue origini storicamente avvinghiate agli anni Cinquanta del secolo scorso,1 le serie televisive americane sono diventate un appuntamento stabile nella vita degli appassionati del genere.2 perfino riuscendo a replicare sé stesse e i
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loro contenuti spettacolari con molte, altre facce; un luogo dell’immaginario in cui ritrovare una parte di sé, della propria esistenza, di quella degli altri (famiglie comprese), del proprio lavoro e di tutte le magagne che la vita è disposta a cedere a nostro uso e consumo per 25 o 45 minuti circa di programmazione giornaliera o settimanale (a seconda che siamo In Italia o in America). Una dimensione dello spettacolo, soprattutto, che rispetto al cinema gode di una possibilità in più: la durata e quel procrastinare gli appuntamenti narrativi che fanno della «continuità» il segreto del successo di uno spettacolo televisivo. Del resto, un film ha un inizio e una fine, una serie TV può durare svariate stagioni con un carico di ore che permette di approfondire trame e personaggi ben oltre la normale soglia di conoscenza che un film cinematografico consente. A reggere i fili ci pensano il pubblico e il network, nessun altro. Uno show di successo ha la possibilità di andare avanti per dodici anni come N.Y.P.D. Blue (1993-2005), ma se qualcosa andasse storto talvolta un programma nemmeno conoscerebbe il consolatorio traguardo del «gran finale» di una stagione (il termine tecnico è season finale). Come accade spesso, le serie TV sanno giocare con la loro stessa vita e morte: possono assurgere a qualcosa di vicino alla vita eterna tramite il cosiddetto spin-off, mirabile strumento di clonazione di un’idea che trasferisce uno o più personaggi di una serie in un altro contesto simile, come nella serie Law & Order; oppure rigenerarsi attraverso uno stesso genere narrativo: avvocati, poliziotti e famiglie con prole numerosa sono i principali beneficiari di questo strumento terapeutico. Spiega Tom Fontana, executive producer di uno dei polizieschi più interessanti degli anni Novanta, Homicide: Life on the Street (1993-1999): Ritengo che la televisione sia il più ciclico degli attuali media. I network si guardano intorno alla ricerca di qualcosa che possa diventare un successo e tentano di copiarlo. 20
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Provate a pensare a uno spettacolo di mezz’ora in cui alcuni ragazzi e ragazze siedono in un coffee shop. Nel momento stesso in cui questo show dovesse diventare un successo, la programmazione televisiva improvvisamente si intaserebbe di prodotti analoghi.3
L’attaccamento agli ultimi quindici anni di serialità americana – senza nulla togliere a quanto realizzato in precedenza – nasce in questa sede dalla consapevolezza che qualcosa nella sua intimità linguistica effettivamente si è evoluto. La stessa industria dello show business televisivo non è più sembrata così estranea, ed esterna, al mondo del cinema. Quanto piuttosto un suo alter ego, ingigantito a dismisura dalle dimensioni che il contesto catodico gli consente di assumere. C’è pure un insediamento attoriale permanente, un tempo sottostimato e sbeffeggiato, in cui le stelle di Hollywood fanno a gara per prendervi parte e rinnovare la loro immagine divistica. Al punto da dare il loro stesso nome allo show, pur interpretando altri personaggi: se The Cosby Show (il nostro I Robinson, 1984-1992) è uno dei veterani del tempo che fu, oggi questi «nuovi» programmi, indicativamente tutti sit-com, si chiamano ad esempio Geena Davis Show, Ellen (dall’istrionica Ellen DeGeneres), Whoopi, Bette (con Bette Midler), The Bernie Mac Show. Pure in salsa latina, come la commedia George Lopez interpretata appunto dall’attore George Lopez. È quasi impossibile calcolare il flusso migratorio dall’estremo cinematografico a quello televisivo. I divi di Hollywood ne sono contagiati. Glenn Close è finita sul set di The Shield (nella quarta stagione, il 2005); Michael Douglas, Madonna, Elton John, Jennifer Lopez, giusto per fare qualche nome, fanno a gara per essere ammessi come guest star nella sit-com Will & Grace; Martin Sheen continua a fare il presidente degli Stati Uniti nel serial meglio scritto degli ultimi tempi, The West Wing. Ma non è detto che sia una formula di garantito successo: capita anche che grandi attori come Richard 21
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Dreyfuss e Marcia Gay Harden (Mona Lisa Smile) falliscano il bersaglio non riuscendo a far decollare la propria serie, il «familiare» The Education of Max Bickford (2001), ponendo sé stessi come attrazione delle meraviglie o fulcro attoriale di serie A. Il segreto è: meglio vivere un giorno da guest star che cento da protagonisti. E comunque dice bene lo scrittore Phil Rosenthal (Tutti amano Raymond, 1996-2005): «Le star non fanno la TV. È la TV che fa le star».4 Non sono però soltanto i divi a scalpitare per lasciarsi fagocitare dal piccolo schermo. Registi del calibro di Walter Hill sono invitati a dirigere serie aggressive e spiazzanti come Deadwood (2004, western ideato da David Milch che lascia il segno fin dalla sigla di testa), mentre un paziente Quentin Tarantino si mette in fila pur di scrivere e dirigere l’episodio finale della quinta stagione di C.S.I. – Crime Scene Investigation (2000). L’unica risposta che per ora arriva da Hollywood è quella di rifare sul grande schermo i classici televisivi d’un tempo, da Charlie’s Angels a Starsky & Hutch, da Hazzard a un ipotetico Dallas interpretato da Brad Pitt con cappello texano. Non è forse questo un segnale importante su cui riflettere? Guai tuttavia a commettere l’imperdonabile errore di circoscrivere ogni fenomenologia al solo prodotto telefilmico. È l’intero sistema televisivo che va considerato: quello delle miniserie (Angels in America, 2003, diretto da Mike Nichols su testo del drammaturgo Tony Kushner è senza dubbio il più significativo e uno dei più premiati) e dei film TV. Forse per la banalissima ragione che la televisione riesce a raccontare, e può permettersi di farlo, tutto quello che il cinema liquiderebbe subito. Alter ego, dunque, ma anche sublime canale di scarico in cui l’America riesce a vedersi narrata, o sbeffeggiata, per quello che realmente è o crede di essere.
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Il segreto del successo: la scrittura
A volte succede che anche quotati sceneggiatori di serie TV corrano in soccorso del grande schermo. Il caso più eclatante è quello del geniale J.J. Abrams, creatore di Felicity (1998), Alias (2001) e del recente Lost (2004), finito sotto l’ala protettiva di Tom Cruise che l’ha voluto come regista di Mission: Impossible 3 (2006), scaricando senza troppi ripensamenti il già designato Joe Carnahan, anch’egli uno che non scherza in quanto a scrittura: basti vedere il suo splendido Narc – Analisi di un delitto (2002). Questo è solo l’apice di un discorso che andrebbe analizzato a fondo. A suo tempo abbiamo osservato Joss Whedon, creatore di Buffy – The Vampire Slayer, scrivere le sceneggiature dell’innovativo film d’animazione della Pixar-Disney Toy Story (1995, di John Lasseter) e del quarto capitolo della saga Alien (1998). Scrittori che si sono divisi con successo tra grande schermo e TV, o viceversa, sono: Kevin Williamson (autore della serie Dawson’s Creek ma già trionfatore al botteghino con il film Scream, 1996); Aaron Sorkin (per il citato The West Wing); Alan Ball, premio Oscar per American Beauty (2000) e autore della serie Six Feet Under; David E. Kelley con Ally McBeal; la coppia Marshall Herskovitz e Edward Zwick con le loro malinconie tele-generazionali (Thirtysomething, Ancora una volta) e i tripudi guerreschi nuovamente sotto il segno di Tom Cruise (L’Ultimo Samurai, 2003). Tutti sanno quanto sia difficile assicurarsi un minimo di credibilità tra un medium e l’altro. Se necessario corre allora in aiuto il passato e la mente vola al 1985, quando il regista cinematografico Michael Mann diede fondo a tutta la sua irriverenza nei confronti dei consueti codici telefilmici creando Miami Vice; poi al 1990, quando il surreale David Lynch (Dune, 1984 e Velluto blu, 1986) e il «televisivo» Mark Frost (arrivava da Hill Street giorno e notte, 1977) realizzarono uno dei cult più ricordati e amati della televisione, I segreti di Twin 23
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Peaks. Già qui possiamo individuare la chiave di quell’evoluzione che condurrà a gran parte del tesoro telefilmico di questi anni. Un’evoluzione che si basa praticamente sulle stesse mitologie del passato ma le ravviva iniettando loro forza sul piano narrativo: passano gli anni e si avvicendano i tormentoni su misura, dal «chi ha sparato a ‹Gei-Ar›?» di Dallas al «chi ha ucciso Laura Palmer?» di Twin Peaks a «cosa diavolo è la misteriosa creatura che si aggira sull’isola di Lost?», eppure il discorso non cambia di una virgola. Ma in sostanza è la parola scritta a fornire l’alibi per la nuova consistenza visiva e linguistica delle serie di quest’ultimo quindicennio. Più di tutti i mezzi tecnici che si è disposti a investire per trasformare in realtà delle semplici parole. Ne sono convinti pure loro: quelli che la televisione la fanno. Ad esempio riconoscendo che da quando esiste la TV gli scrittori hanno guadagnato il rispetto che meritano, e non solo quando questo diventa metafora di contratti milionari siglati con le major, e che quasi il 70% di essi lavora proprio per il piccolo schermo.
I segreti di Twin Peaks. © ABC
Sul concetto si esprime con convinzione Joel Surnow, autore del Nikita televisivo e dello spettacolare 24, quando dice 24
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che la televisione è il tempio degli scrittori, mentre il cinema si divide meglio tra registi e attori: «Nei film di oggi la sceneggiatura non è importante come il concept, gli effetti speciali à la ILM [Industrial Light & Magic, la factory delle meraviglie degli effetti speciali fondata da George Lucas] e le grandi star. Tutto deve essere big. Pensate forse che un film come Volcano [1998] sia attraente per il suo contenuto drammatico? Certo che no».5 Questo non significa in alcun modo che cinema e TV si guardino in cagnesco. Anzi, semmai tra loro c’è un flirt ininterrotto dove ognuno assimila qualcosa dell’altro, nella consapevolezza che in alcuni spettacoli è possibile filtrare liberamente qualcosa di sé stessi, come ha fatto Kevin Williamson in Dawson’s Creek o Linwood Boomer (era il marito cieco di Mary Ingalls in La casa nella prateria) creando il buffo Malcolm in the Middle (2000). Qualcuno ha evocato William Shakespeare – più o meno dopo il trauma statunitense dell’11 settembre 2001 – per ribadire che tutto si stabilisce in quattro paroline: «amore, odio, dolore, rabbia». E le serie televisive già contengono dentro di sé la struttura estetica ideale per miscelare questi ingredienti drammatici, sotto qualunque forma narrativa. Hanno però un pubblico da accontentare, un pubblico che attende di guardare questi spettacoli per rivoluzionare la propria condotta di pensiero, avvertire il peso dei sentimenti umani e scambiare questi stessi sentimenti con le altre persone. Qualcosa che la vita, forse, nel rutilante mondo di oggi (di ieri e domani) ha congelato, rivestito di finto glamour da patinato reality show in cui cercare l’assoluzione dai problemi di tutti i giorni o investito in succulenti programmi popolari, con o senza pacchi da «scavicchiare». Nella consapevolezza, soprattutto, che per stupire e fare innamorare di sé quel pubblico – magari giusto per non vedersi cancellare dal network – è necessario anche realizzare qualcosa che nessun altro ha mai visto prima: un esempio arriva dalla sit-com Tutti amano Raymond in cui gli autori normalmente partono da situazioni e avvenimenti ordinari per trasformarli sul piccolo 25
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schermo in eventi straordinari, cose che nella vita di tutti i giorni non accadono o non dovrebbero accadere, ad esempio facendo ridere secondo i copioni di un Ray Romano (il protagonista di questa sit-com), che partono sempre da situazioni poco più che reali. C’è posto per tutti
Negli ultimi anni si è rivelata fortissima la volontà di alcune personalità dell’industria cinematografica di allungare le mani su questo fortunato strumento espressivo e spettacolare. Un nome su tutti: Jerry Bruckheimer. Il potentissimo produttore americano che sta dietro a successi commerciali come Armageddon (1998), Pearl Harbor (2001), La maledizione della prima luna (2003) e Il mistero dei templari (2004) è stato abilissimo nel riuscire a infilarsi con altrettanta maestria e lungimiranza nel territorio della televisione, reality compresi (vedi Amazing Race).6 Non serie di secondo piano, bensì show che occupano i primi posti nelle classifiche dei programmi più visti negli USA: dal citato C.S.I. a Senza traccia (Without a Trace, 2002) e Cold Case – Delitti irrisolti (Cold Case, 2003). Tre polizieschi, tre modi di reinventare un genere. Gente con pretese spettacolari più semplici come George Clooney e il regista Steven Soderbergh non ambisce a conquistare le vette delle classifiche settimanali, ma comunque persegue la strada della qualità del prodotto televisivo. Uno strumento per dire la propria (per tale ragione hanno dato vita alla società di produzione Section Eight) e condividere un credo artistico simile. Frutto di questo credo è la serie televisiva in dieci episodi K Street (2004), in cui realtà e finzione si fondono pericolosamente. L’idea è formidabile: penetrare nei corridoi della vita politica e lasciare che a reggere il gioco, e la scena, siano veri politici. Un tipo di show televisivo che si inserisce a meraviglia nel clima «post 11 settembre» e risale la china del trauma 26
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mescolando satira e finzione con la sagacia al vetriolo di cui Soderbergh è capace. Più classici e conservatori Will Smith e compagna, Jada Pinkett Smith (vista nel film Collateral insieme a Tom Cruise), produttori di una sit-com «all black» (cioè con soli protagonisti afroamericani) intitolata All of Us (2003), in cui si ragiona sulla fatica di essere genitori oggi, divorziati ma forti di un lavoro gratificante. Pure qui vengono superati i confini della finzione e viene introdotta una strategia narrativa che mette in campo l’esperienza di vita reale dei due attori. L’attentato alle torri gemelle ha minato l’innocenza sottomessa delle serie americane, le quali hanno reagito nel miglior modo possibile, rispondendo all’invito di chi quell’innocenza vuole vederla ricostruita e solidificata: the show must go on.7 Lo spettacolo deve andare avanti, perché ci sono tante nuove storie che il pubblico desidera farsi raccontare, altre modalità di intrattenimento che sappiano interagire con la realtà più di un qualunque reality. Altrimenti perché mai nella stragrande maggioranza dei manifesti pubblicitari i protagonisti delle serie amate ci guardano dritto negli occhi? Ma è ovvio. Ricambiano il favore che, ogni settimana, gli spettatori fanno loro assistendo a vite finzionali, dannatamente (im)perfette e così tanto americane.
Note
1 Va qui accennato, seppure in modo telegrafico, che la televisione, diffusa nelle case degli americani a partire dalla fine degli anni Quaranta, accolse i suoi specifici tipi di serialità narrativa riprendendoli inizialmente dalla radio, che già proponeva spettacoli seriali quali il radio drama (che ebbe il suo boom negli anni Trenta) e la soap opera (nata negli anni Quaranta). 2 Almeno qui in nota occorre distinguere, per chiarezza, fra generi narrativi (giallo, drammatico, fantascienza ecc., nell’ambito della letteratura per l’appunto cosiddetta «di genere» o popolare) e generi televisivi, fra cui annoverare il quiz, il varietà, lo sceneggiato ecc. Ora, il telefilm è un prodotto girato con 27
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mezzi, mentalità e linguaggi cinematografici, però assume struttura seriale all’interno di una piattaforma mediatica che non è il cinema ma appunto la televisione. In tal senso bisogna stabilire una differenza fra il telefilm e gli altri generi televisivi «simili»: la soap opera e la telenovela, lo sceneggiato, la sitcom ecc. Il telefilm di cui parliamo in questa sede è un genere televisivo a sé stante, perché usa budget spesso rilevanti, regia dinamica e di stampo quasi hollywoodiano o precisamente hollywoodiano (anche per la dislocazione dei set e per le maestranze usate), pellicola o recentemente l’alta definizione digitale. Quindi è un genere televisivo a sua volta chiaramente declinato in generi narrativi. E ovviamente ha contribuito a innovare per la televisione alcuni di questi generi (il poliziesco, la commedia sentimentale, la fantascienza, la teen story ecc.) e perfino alcune delle sintassi cinematografiche. 3 Edward Gross-Douglas Perry, «Must-See TV», Cinescape, Anno IV, n. 1, March/April 1998, p. 61. 4 In Lynette Rice, «Funny Business», Entertainment Weekly, n. 758, April 2, 2004, p. 23. Tutti amano Raymond (Everybody Loves Raymond) è una spassosa sit-com creata da Rosenthal, Stu Smiley e Rory Rosegarten con l’attore Ray Romano nei panni del giornalista sportivo Raymond Barone alle prese con la vita di tutti i giorni in famiglia. Tra gli interpreti Patricia Heaton (la moglie Debra), Peter Boyle (il padre Frank) e Doris Robert (la madre Marie). 5 Edward Gross-Douglas Perry, op. cit., p. 61. 6 Prodotto da Jerry Bruckheimer e creato da Elise Doganieri e Bert Van Munster, Amazing Race è un reality show di genere avventuroso (come Survivor) che conduce ventidue persone divise in coppie in giro per il mondo senza l’utilizzo di cellulare e con un budget personale assai ristretto. Possono viaggiare occasionalmente in aereo e devono spostarsi grazie ad altri mezzi di trasporto (biciclette, treni, autobus): solo quando ogni tappa è stata raggiunta e le prove sono state superate i concorrenti possono passare alla fase successiva. In palio un milione di dollari. Il programma ha esordito il 5 settembre 2001 sul network CBS e oggi è alla sua quinta stagione. 7 Il messaggio più autorevole è arrivato in apertura della 55a edizione degli Emmy Awards, nel 2001, da Walter Cronkite, storico anchor man della CBS. Gli Emmy Awards sono i premi che annualmente vengono attribuiti alle opere prodotte per la televisione: si dividono in «Day Time» (i programmi del mattino) e «Prime Time» (tutto quanto viene trasmesso in prima serata). Walter Cronkite (1916) è uno dei più famosi giornalisti e «mezzi busti» (anchor man) del piccolo schermo americano, avendo condotto per anni il programma della CBS Evening News: tra i suoi servizi più celebri l’annuncio della morte del Presidente John F. Kennedy nel 1963. La CBS (Columbia Broadcasting System) è una delle tre principali reti televisive statunitensi (le altre sono ABC e NBC). Nasce nel 1927 come stazione radiofonica, per diventare emittente televisiva nel 1939; il primo programma a colori vi viene trasmesso nel 1941. Per saperne di più: www.nationmaster.com/encyclopedia/CBS. 28