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Giovanni Russo
King Kong
La ÂŤGrande ScimmiaÂť dal cinema al mito e ritorno Prefazione di Alberto Abruzzese
Le virgole. Autori e Personaggi 4
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I edizione dicembre 2005 Copyright © Tunué Srl Via degli Ernici 30 04100 Latina – Italy info@tunue.com www.tunue.com
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i paesi.
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ISBN: 88-89613-03-3
Progetto grafico e copertina: Daniele Inchingoli
Stampa e legatura: Tipografia Monti Srl Via Appia Km 56,149 04012 Cisterna di Latina (LT) Italy
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Indice
Prefazione di Alberto Abruzzese Introduzione
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II. UOMO E NATURA I natural drama e La pericolosa partita
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IV. DENHAM E GLI ALTRI Kong parte 2: King Kong come discorso metafilmico
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I. I CREATORI Cooper, Schoedsack, Rose
III. DI BELLE E DI BESTIE Kong parte 1: Kong e Fay Wray
V. CROSSOVER DI GENERI Kong parte 3: King Kong e i generi cinematografici VI. SEGUITI ED EPIGONI L’infruttuosa eredità di King Kong
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Prefazione di Alberto Abruzzese King Kong Ovvero: può il post-umano distruggere il non-umano? Nelle grandi raffigurazioni dell’immaginario, sono davvero tali quelle che, lungo l’intero arco di una civiltà o di più civiltà, non muoiono, non si fanno immagine del passato e della storia, sono assoluta presenza, fuori del tempo e dello spazio. Sono cioè la cosa altrimenti al di là di ogni percezione e rappresentazione. In loro – a funzionare socialmente – è un vero e proprio cortocircuito tra origine e futuro (qui il senso dell’immortalità umanamente concepibile): i due poli di un’esperienza irraggiungibile e dunque il frutto emotivo della paura umana di non esistere e del conseguente desiderio di esserci. I miti rendono abitabile il mondo a quella sua parte che si dice soggetto senza davvero sapere quale sia il proprio oggetto, la cosa da cui distinguersi. I miti antichi, entrando nell’epoca moderna, per restare materia viva della sensibilità collettiva e dell’inconscio individuale hanno goduto di continue metamorfosi sino a nascondersi in prodotti dell’industria culturale apparentemente inediti, vale a dire apparentemente dimentichi delle loro radici e delle loro narrazioni di appartenenza. Apparentemente, è la parola giusta: visioni di sé solo in apparenza, poiché, proprio
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apparendo in mentite spoglie, conservano l’effetto della loro ospitale presenza in una memoria collettiva così distante dall’allora invisibile a cui rimandano. Un’esperienza del mondo – quella delle figure capaci di mitologizzazione del presente – che è fatta di oggetti alieni rispetto a quelli di cui già furono costretti a servirsi per dialogare con gli umani. Questo è il passaggio da cogliere: il mito è travestimento sin dalle sue origini. Zeus è altro dall’abito con cui si mostrò all’uomo; è un dio che già si serve della moda per fare intuire all’umano qualcosa di altrimenti inesprimibile. Un dio che parla il linguaggio degli uomini per far sentire qualcosa di non-umano. È difficile trovare una qualche figura dominante nell’immaginario collettivo della società di massa che non abbia in sé i segni aurorali dei miti di fondazione del genere umano. Anzi, forse più che difficile è impossibile proprio perché, per acquisire la potenza solidale di una mitologia, bisogna che la creatività moderna immerga i suoi abiti e oggetti di consumo – le sue mode, i suoi modi d’essere – nelle stesse sostanze originarie, senza facoltà di linguaggio, irrappresentabili, che sono il vero contenuto generativo del mito. Anche King Kong non sfugge a questa regola. La potenza del suo travestimento riesce a riportare l’esperienza metropolitana e i suoi modi di esprimersi in una zona senza spazio e senza tempo: la nuda vita dell’essere umano, là dove le parole gli mancano e dunque là dove può resistere e ribellarsi ai linguaggi sociali che lo parlano. I miti alludono a norme dimenticate, socialmente represse. La normalità simbolica di King Kong è quindi proprio il frutto dei suoi inconfondibili tratti moderni: conflitto natura-progresso, uomo civilizzato-uomo primitivo, realtà e finzione, ordine e disordine, linguaggi dal vivo e riproducibilità tecnica, desiderio e tecnologia, estetica e guerra. Un figura di lunga durata proprio per la quantità e qualità degli ingredienti che vestono la pelle contemporanea del suo segreto origina8
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PREFAZIONE
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rio, della sua misteriosa sacralità: sovranità della bestia e bestialità della volontà di potenza. Questi ingredienti – ora che la dimensione metropolitana e televisiva è sorpassata da quella delle reti digitali – sono in grado di fare sopravvivere King Kong al transito dalla società industriale alla società post-industriale? Forse, ma a patto che i suoi nuovi remakes siano efficaci nel ripetere il mito e non i suoi travestimenti, le sue mode. Forse, ma a patto che le nuove sceneggiature, la loro nuova messa in forma, sappiano riandare al suo più profondo contenuto. Sarebbe davvero significativo che proprio ora, in una civiltà costretta a riconoscersi in una dimensione sempre più post-umana, il corpo di King Kong perdesse lo straordinario incanto di una creazione insorta nell’immaginario proprio per far sentire l’essere non-umano del soggetto moderno.
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KING KONG
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– Hai paura? Hai artigli potenti, affondali nella vita! Ruggisci, scaccia la morte! – Se io fossi un uomo senza dubbio farei quello che voi chiedete. Ma le povere bestie, che vogliano provare il loro amore, non possono far altro che accasciarsi e morire. JEAN COCTEAU, La Bella e la Bestia, 1946
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Introduzione
Premessa metodologica La critica e il problema del fantastico
Nell’introdurre il suo libro Tracking King Kong. A Hollywood Icon in World Culture e nel giustificare la scelta di un soggetto in apparenza così poco in linea con i temi usuali per studi sul cinema che si vogliano «seri», Cynthia Erb aggiunge una motivazione sulla quale non si dilunga oltre, ma che proprio per questo attrae l’attenzione più di tutte le altre, debitamente approfondite e tuttavia meno personali: «Per certi aspetti, la mia scelta è stata dettata dalla mia preferenza per i film d’avventura rispetto a quei drammi domestici che hanno fin qui ricevuto una quota di attenzione persino eccessiva».1 Questa negligenza nell’argomentare non è tanto dovuta al semplice rifiuto di un approccio di tipo aneddotico e personale, quanto piuttosto tesa a prendere le distanze da quel soggettivismo che, benché adottato con sfumature diverse (e con maggiore o minore consapevolezza) da una parte della critica, è tuttora guardato con sospetto in ambito accademico. Soggettivismo non significa tanto l’abbandonarsi inerte alla relatività del gusto, quanto piuttosto il riconoscere che alla base di ogni esperienza estetica, per quanto culturalmente mediata, c’è un momento di riconoscimento originario che è
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Una delle scene più famose di King Kong: la scalata all’Empire State Building
solo individuale e che risulta analizzabile solo attraverso un altrettanto culturalmente mediato processo d’introspezione. E questo atto originario, questo tipo di «personale preferenza», da noi tutti percepito come l’istantaneo svelarsi di un qualche tipo di verità che sentiamo essere rilevante per noi e per il nostro vissuto, sta alla base di ogni possibile discorso critico, sia nel merito, che non può non esserne influenzato, sia nella stessa possibilità di un’attività critica quale che sia; attività che rimane umana e contingente e che da sempre viene esercitata in ogni ambito di quell’entità complessa chiamata «cultura», spesso con pretese universalistiche, senza mai riflettere in modo adeguato sul fatto che lo stesso interrogarsi su di un determinato argomento non ha in sé nulla di più oggettivo di una pura e semplice «personale preferenza». In definitiva, con ironico paradosso, qualora un filosofo riflettesse sull’oggettività del bello lo farebbe solo perché «così gli piace». E se ci si chiede come alla fine del processo d’introspezione si possano ricavare giudizi dotati di una qualche validità generale, è pro14
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prio perché questo riconoscere nel bello parte di noi stessi, questo scoprire in esso una qualche verità umana di natura fondamentale, diventa un’esperienza che non è più soltanto personale, ma tanto più universale quanto più si scavi in profondità.2 Soggettivismo non vuol dire nemmeno misconoscere il valore di approcci di tipo teorico; significa piuttosto considerare gli apporti disciplinari come utili strumenti di analisi più che come teorie con pretese di scientificità, in quanto tali fin troppo facilmente falsificabili in virtù dell’ambiguità delle loro stesse definizioni; e non si parla qui tanto di debolezze interne quanto, più radicalmente, di sfiducia nelle possibilità del linguaggio con cui sono formulate. Questi criteri stanno alla base del presente lavoro, per quanto in forma implicita e non subito evidente al lettore; ma se ho sentito il bisogno di premetterli è proprio in virtù della pretesa futilità dell’argomento, trattandosi qui di un film di quel genere fantastico (o, come dice più in generale Cynthia Erb, «d’avventura») che in genere viene associato alla categoria riduttiva del puro e semplice «divertimento», senza considerare che questo divertimento non andrebbe tanto pensato nei termini negativi impliciti nell’etimologia, ossia come una di-versione, una pura e semplice evasione, ma in quelli positivi di una pulsione motivazionale che ha radici profondissime e che troppo spesso ignoriamo in quanto soggettiva. È da questo bistrattato divertimento che scaturisce quella stessa «personale preferenza» che è alla base di esperienze di carattere estetico di solito considerate di natura ben più elevata, e che alimenta quella componente ludica insita in ogni tipo di attività intellettuale. L’altro motivo per cui l’introduzione di Cynthia Erb attira l’attenzione è proprio in ciò che afferma in modo implicito, ovvero in quella generale tendenza a svalutare il film d’avventura rispetto a narrazioni considerate, a torto o a ragione, più aderenti alla realtà. Se guardiamo alla storia del cinema, o anche solo a quella della riflessione critica sul cinema, ciò a cui assistiamo è un lungo e non ancora compiuto processo di 15
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Kong irrompe nel villaggio di Skull Island
ricerca d’identità, uno sforzo continuo di definire la natura del mezzo e di comprenderne il linguaggio. Al centro di queste problematiche è sempre stato il rapporto fra immagine cinematografica e realtà oggettiva; e a parte il caso isolato di Méliès, che si pone – significativamente, e quasi come esempio «in negativo» – all’inizio di una riflessione che poi avrebbe seguito altre direzioni,3 il fantastico è sempre stato visto come un passo indietro, una via regressiva nel percorso volto al raggiungimento della consapevolezza filosofica sul mezzo-cinema, di cui sembrava eludere quello che era considerato il problema centrale. Se il fantastico è sempre stato snobbato non è soltanto in virtù del suo consolidarsi in genere, con tutto quel che ne segue in termini di standardizzazione contenutistica e formale, ma proprio per la sua natura altra, che rifugge dal confronto col reale e di conseguenza dal faticoso processo di presa di coscienza di sé che ha animato la riflessione sul cinema sin dalle sue origini. E se tutti gli altri generi in un modo o nell’altro hanno finito per essere accettati come semplici «forme», all’interno delle quali fosse ancora possibile operare con quel16
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la consapevolezza del mezzo ritenuta requisito essenziale dell’autorialità, con personaggi quali Ford, Hitchcock o Capra ormai nel novero degli autori a tutto tondo, il fantastico ha finito per essere rinchiuso in una sorta di nicchia autoreferenziale, la cui tipizzazione non era affatto inferiore a quella degli altri generi più in voga, ma i cui autori venivano considerati aver poco o nulla da dire al cinema tout court. Da questo punto di vista, il King Kong realizzato nel 1933 da Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack per la RKO risalta come una significativa eccezione, e anzi la storia quasi autobiografica di un cineasta animato da ambizioni titaniche intenzionato a portare sugli schermi la storia di un gorilla gigante rivela un’assoluta consapevolezza del mezzo, che si fa anche filosofica proprio nel porre con forza il problema della messa in scena, della finzione fantastica che diventa creazione cinematografica pura: un mondo autonomo e non l’imperfetta riproduzione di una realtà la cui cattura su pellicola si dimostra sempre più una chimera irraggiungibile. Questi aspetti metalinguistici sono solo uno dei livelli di significazione di un film che è ormai assurto al rango di vera e propria icona popolare e che tuttavia merita ben più di uno studio in chiave solo sociologica o che s’innesti nell’ambito di quel calderone interdisciplinare che prende il nome di cultural studies. Quel che manca, nel peraltro ottimo libro di Cynthia Erb come in altri saggi focalizzati ora su questo ora su quell’aspetto, è un argomentato giudizio di valore, che nel caso di Erb viene solo evocato dal suo pudico accennare alla «personale preferenza». E alla fine il senso di questa introduzione sta tutto qui, nel premettere che King Kong è una delle più potenti rappresentazioni della capacità creatrice e della forza mitica del cinema, uno dei film più importanti della cinematografia statunitense degli anni Trenta e uno dei più sottovalutati da una critica troppo spesso accecata dai suoi stessi problemi per poter riconoscere chi abbia preferito eluderli percorrendo altre strade piuttosto che affrontarli direttamente. 17
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King Kong è ferito a morte. Si noti la grande espressività della cratura animata da Willis O’Brien, capace di esprimere stati emotivi anche molto complessi
Il fatto stesso che King Kong sia nato all’interno di quella macchina-cinema per eccellenza che è l’industria hollywoodiana, seppure con modalità tutt’altro che rispondenti agli usuali standard industriali, lo caratterizza come prodotto di un cinema per molti versi «puro», frutto della volontà e del talento di molti uomini coordinati in uno sforzo collettivo, ma lontano da quel tipo di consapevolezza autoriale che è un altro dei problemi su cui la critica si andava arrovellando e che era considerata la premessa indispensabile dell’artisticità, in ossequio alle teorie estetiche tradizionali.4 Più che essere un film «d’arte», King Kong rientra nella categoria del «culturalmente rilevante», la cui percezione è possibile soltanto a posteriori, ma della quale è da rivendicare la natura non meramente sociologica bensì estetica in senso proprio, in conformità con quell’approccio soggettivista accennato poco più su e in linea con molte esperienze estetiche tipiche dell’attuale panorama massmediale, che sfidano i concetti tradizionali di autorialità. 18
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Quanto King Kong rimanga importante al giorno d’oggi, a più di settant’anni dalla sua prima apparizione, lo rivela l’imminente rifacimento da parte del regista Peter Jackson, che costituisce fra l’altro l’occasione immediata per questo libro. E non si parla qui tanto di occasione commerciale, ma puramente ludica: quale che sia il risultato di questo nuovo adattamento, in termini sia cinematografici sia commerciali, non posso che ringraziare in anticipo Jackson per avermi fornito lo spunto per un lavoro che altrimenti forse non avrei mai intrapreso; nella consapevolezza, comunque, che nessuna nuova versione potrà mai offuscare la leggenda di quella che rimane la più bella versione del mito della Bella e la Bestia mai raccontata per immagini. Ringraziamenti Se ho potuto scrivere il libro in questa forma lo devo a molte persone, che ringrazio anche se non sapranno mai il perché. Un ringraziamento particolare a Gianluca Aicardi, collega e amico, il cui aiuto nella revisione finale del testo è stato inestimabile. Un grazie di cuore a Alberto Abruzzese, per la sua prestigiosa Prefazione. E infine, un grazie a Peter Jackson, il cui imminente film mi ha fornito l’occasione di tornare a giocare con Kong.
Note
1 Cynthia Erb, Tracking King Kong. A Hollywood icon in World Culture, Detroit, Wayne State University Press, 1998, p. 30. 2 Non è difficile imbattersi in autorevoli opinioni contrarie. Cfr., per esempio, Nazareno Taddei, Giudizio critico del film, Milano, Edizioni i7, 1966. 3 Tralasciamo in questa sede la breve stagione espressionista, il cui utilizzo del fantastico rispondeva al problema di esplorare l’uomo e la sua interiorità più che a quello di interrogarsi sul rapporto con la realtà esterna. 4 su King Kong inteso come «prodotto» dell’industria culturale cfr. Alberto Abruzzese, La Grande Scimmia. Mostri vampiri automi mutanti, Roma, Napoleone, 1979, pp. 160-68. 19
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I
I creatori Cooper, Schoedsack, Rose
Se il cinema ha mai posto, per quella che è la sua intrinseca natura, un problema di autorialità, questo è assolutamente evidente nel caso di King Kong. A partire dall’ambiguità sul ruolo creativo del romanziere Edgar Wallace nello sviluppo del soggetto originale, per poi passare ai fraintendimenti sulla natura industriale del film suscitati dalla massiccia presenza di effetti speciali, fino ad arrivare, più radicalmente, al ridimensionamento del ruolo autoriale di Cooper e Schoedsack e della loro complessiva statura di cineasti, la storia della fortuna critica di King Kong è costellata di superficialità e colpevoli travisamenti, quasi che il film fosse figlio di nessuno, ed emerso dalle pieghe di un inconscio collettivo tanto primitivo quanto la bestia che ne è protagonista. Il problema dell’autorialità in King Kong s’inserisce tuttavia in un contesto più ampio, che è quello del successivo precisarsi della figura dell’autore nell’ambito di un mezzo come quello cinematografico, che in quegli anni stava tumultuosamente cercando di definire la propria identità, in un processo rinnovantesi di continuo e che non può mai dirsi davvero concluso. Se il regista può essere a tutti gli effetti considerato un crea-
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tore d’immagini, tuttavia questa creazione riguarda più il come che non il cosa e si pone a un livello concettuale intermedio fra la concretezza della realtà fenomenica che impressiona la pellicola e quel flusso di significati organicamente connessi che noi chiamiamo «film». Il regista è colui che dirige (il director, appunto) piuttosto che colui che materialmente crea; e questo livello di operatività astratto, questo esercitarsi dell’arte del cineasta più sulle forme che non sui contenuti (in fin dei conti quel che fa il cineasta è «solo» decidere cosa sta dentro e cosa sta fuori da una certa inquadratura), costituisce una caratteristica peculiare del cinema inteso come arte, e uno snodo fondamentale della riflessione sulla natura del mezzo. In questo senso la regia è pura arte concettuale, svincolata da una ben precisa tecnica materiale; e per quanto sia vero che esiste anche nel cinema un bagaglio teorico e pratico, di fatto il segreto dell’arte è potenzialmente inserito in ognuno, in quella maniera quasi istintiva che caratterizza qualità che prese nella loro accezione più ampia sono comunemente ritenute innate, quali un generico «saper raccontare storie». Se nessuno potrebbe fare il musicista senza una formazione specifica alle spalle, formazione che è anche un processo di selezione sociale che dà accesso a quella categoria di «uomini di cultura» dalle cui fila siamo soliti veder provenire gli artisti, al contrario la cinematografia, in quanto arte essenzialmente visiva e non verbale, potrebbe essere accessibile a chiunque, una volta acquisito quel minimo di esperienza sul campo, quanta ne può bastare a un normale operatore. Sarà proprio lo sviluppo dell’industria, con la codifica del linguaggio e la richiesta di figure specializzate, a far evolvere quella di regista in una figura professionalmente e socialmente definita, che necessiti di una preparazione specifica. E se lo status, a livello intellettuale, rimarrà in qualche modo ambiguo, lo sarà infatti più per il sospetto di flirt pericolosi con il business che per lo spettro del dilettantismo. Ma se c’è un aspetto che caratterizza l’evolversi del cinema fino al raggiungimento di 22
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I CREATORI
Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper
quella definitiva identità sociale garantita dalla completa maturazione tecnica e industriale, questo è proprio l’avvicendarsi nello status di artista di figure altamente improbabili, in un eccitante processo di scoperta all’interno di una forma espressiva che si stava inventando e che non aveva una tradizione di riferimento né padri nobili a cui riferirsi. A partire dai fratelli Lumière, inventori e imprenditori molto più che non artisti nel senso tradizionale del termine, i primi decenni di vita del nuovo medium, fino alla sistemazione definitiva coincisa con l’avvento del sonoro e il consolidarsi dello studio-system, sono un succedersi di casi a volte eclatanti di creatività emersa in contesti del tutto imprevedibili; e si va da episodi anche curiosi, come i primi film prodotti dall’ingegner Lèon Gaumont e in realtà realizzati dalla sua segretaria, ad altri di ben maggior spessore come quello di Robert Flaherty, un geologo trasformatosi in esploratore, poi in etnografo, infine in cineasta. Alla stessa razza di «autori inusitati», e proprio sulla scia tracciata da Flaherty, appartengono i creatori di King Kong, Merian Coldwell Cooper ed Ernest Beaumont Schoedsack. 23
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La storia personale di Cooper e Schoedsack è quasi altrettanto movimentata di quelle narrate nei loro film; e se è interessante renderne brevemente conto non è per gusto dell’aneddoto, ma per comprendere appieno quella particolare ideologia avventurosa che sta alla base di tutta la loro opera, che esprime una coerente visione d’autore e non una mera adesione a quella codificazione dei generi cinematografici che andava sviluppandosi a Hollywood.1 Cooper e Schoedsack s’incontrarono per la prima volta a Vienna, nel 1919. Entrambi avevano partecipato alla Prima guerra mondiale, Cooper in aviazione e Schoedsack, da sempre il vero cineasta della coppia (aveva già lavorato come operatore al servizio di Mack Sennett, il «re delle torte in faccia»), come cameraman militare. Finita la guerra e rilasciato Cooper dal campo di prigionia tedesco nel quale era detenuto, i due parteciparono al conflitto fra Polonia e Russia che scoppiò subito dopo l’armistizio: Schoedsack in una missione della Croce Rossa, Cooper in una squadriglia composta interamente da piloti americani e inquadrata nell’esercito polacco. I due s’incontrano di nuovo nel 1921, dopo che Cooper era riuscito ancora una volta a evadere da un campo di prigionia russo, con una rocambolesca fuga lunga più di 500 miglia che lo portò in 14 giorni da Mosca fino ai confini con la Lettonia. Dopo qualche altra peripezia (Schoedsack partecipò alla guerra grecoturca del 1921-’22) i due, riconoscendo il comune desiderio di avventura, cominciarono a pensare alla possibilità di una spedizione in qualche remoto angolo del globo, con l’intento di ricavarne un film. In attesa di poter intraprendere la loro spedizione, i nostri si unirono a quella del capitano Edward A. Salisbury, che già da due anni stava viaggiando per il mondo sotto gli auspici del Southwestern Museum of California. La spedizione portò Cooper e Schoedsack a Addis Abeba, dove filmarono il principe reggente dell’impero abissino Ras Tafari (più tardi imperatore Haile Selassie di Etiopia) mentre passava in rassegna i suoi cavalieri; poi alla Mecca, dove furono i 24
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primi occidentali a riprendere i fedeli in pellegrinaggio; quindi a contatto con i pigmei delle Andamane e con i detenuti dell’Isola degli Assassini, l’isola prigione dove confluivano criminali da tutta l’India. La spedizione finì persino per incagliarsi al largo delle coste yemenite a causa di pirati arabi che avevano distrutto il faro di Mocha; e infine rientrò nel Mediterraneo e riparò a Savona, dove però, a dispetto dell’apparente sicurezza, una fuga di gas che colpì la nave tirata in secco causò un incendio che distrusse buona parte del girato. Terminata la spedizione al seguito di Salisbury, Cooper e Schoedsack iniziarono a pianificare la loro propria, con l’intento finale di realizzare un film che avesse al centro uno scontro fra uomo e natura, sull’esempio di quel che aveva fatto Robert Flaherty con il suo Nanuk l’esquimese (Nanook of the North, 1922). Già in queste prime fasi la collaborazione fra i due aveva assunto la connotazione che avrebbe poi sempre mantenuto: a fronte di un comune spirito avventuroso e di ruoli per molti versi intercambiabili, Cooper era più un organizzatore, dotato di energia ed entusiasmo inesauribili, di un’immaginazione visionaria spesso tendente all’esagerazione e di un talento innato per vendere le proprie idee agli investitori; Schoedsack, più schivo e riflessivo, era invece il vero e proprio regista, il responsabile ultimo delle riprese e degli aspetti creativi delle loro produzioni. L’intenzione di Cooper e Schoedsack era documentare la vita di una tribù nomade alle prese con la migrazione stagionale, e assieme a Marguerite Harrison, finanziatrice reperita da Cooper e a sua volta viaggiatrice e avventuriera, partirono alla volta del Kurdistan. Tuttavia le tribù curde stavano all’epoca combattendo contro gli inglesi, e il terzetto ripiegò così sui Bakhtiari, popolazione persiana nomade che viveva sotto un antico sistema feudale con scarse interferenze dal governo centrale. I tre americani parteciparono alla migrazione vivendo in tutto e per tutto come i nativi, dormendo all’aperto con l’unico ausilio di una coperta (solo Harrison in quanto donna 25
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aveva il privilegio di una piccola tenda) e seguendo una dieta a base di pane secco e burro di pecora. I momenti più emozionanti furono l’attraversamento del fiume Karun, che durò cinque giorni e costò la vita di molti animali e di almeno due uomini, e il superamento della barriera dei monti Zard, alta più di 4000 metri. Il 29 maggio 1924 Cooper scrive nel suo diario: «Io e Schoedsack siamo accampati a metà altezza dello Zardeh Kuh. Sta soffiando un vento infernale, e si gela. Non abbiamo nulla da mettere sotto i denti, e dormiremo al freddo stanotte, quassù, quasi sul tetto della Persia. Ma entrambi siamo al massimo della felicità. Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo assistito a una lotta per l’esistenza tanto grande quanto mai possano essercene. E l’abbiamo su pellicola!».2 Il film che ne risultò fu Grass (1925), con il quale Cooper cominciò a Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack durante tenere conferenze la spedizione per la realizzazione di Grass nelle università e a cercare un distributore per le sale. Schoedsack nel frattempo, per sostenere economicamente la loro società ormai priva di risorse, s’imbarcò da solo in una spedizione di sei mesi nel Mar dei Sargassi e alle isole Galapagos organizzata dalla New York Geological Society, che si rivelò molto importante per il futuro dei due cineasti, visto che aggiunse un nuovo fondamentale membro al loro team. Fu durante la spedizione, infatti, che Schoedsack incontrò quella che sarebbe diventata sua 26
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moglie e che avrebbe poi firmato la sceneggiatura definitiva di King Kong. Ruth Rose era figlia di un importante impresario e drammaturgo di Broadway ed era stata allevata nel mondo del teatro, con alcune esperienze anche in veste di attrice. La sua vita cambiò quando conobbe il dottor William Beebe, che dirigeva la Stazione per le Ricerche Tropicali della New York Zoological Society a Kartabo, nella Guyana inglese. Pur priva di qualunque competenza specifica, Ruth si presentò a Beebe, che rimase colpito dal suo entusiasmo e decise di assumerla. Di punto in bianco, la Rose si trovò catapultata dal palcoscenico a uno sperduto laboratorio nella giungla, il cui compito era quello di catturare, accudire e studiare un’incredibile varietà di animali selvaggi. Le sue doti di scrittura vennero presto riconosciute e in breve divenne la cronista ufficiale dell’attività del laboratorio, collaborando con Beebe alla stesura dei suoi libri, allora molto popolari. Fra i possibili finanziatori a cui Cooper aveva mostrato Grass c’era anche Jesse L. Lasky, il vice presidente della Paramount (nota allora come Paramount – Famous Players – Lasky Corporation), che subito riconobbe il talento dei due cineasti-avventurieri. Il film fu proiettato in anteprima a New York il 30 marzo 1925, con grosso successo di critica e con un positivo riscontro del pubblico newyorchese, che da solo bastò a ripianare il peraltro limitatissimo investimento (appena 10 mila dollari). Se Grass, privo di grandi star e di quella componente romantica ritenuta fondamentale per un film commerciale, non fu in grado d’incassare altrettanto bene al botteghino nazionale, fu tuttavia sufficiente per convincere Lasky a finanziare una seconda spedizione. Nel 1925 Cooper e Schoedsack partirono così per girare il secondo dei loro natural drama, termine da loro stessi coniato per definire le proprie produzioni; questa volta il tema sarebbe stato il conflitto fra l’uomo e la giungla. Dopo estensive ricerche per scovare il luogo ideale, i due partirono per un oscuro distretto allora situato nel Siam settentrionale (oggi 27
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Thailandia), dove si trovava quella che era considerata una delle più impenetrabili porzioni di giungla esistenti al mondo. Girato in 14 mesi fra incredibili difficoltà, Chang (parola che nell’idioma locale significa «elefante») fu un grandissimo successo di critica e di pubblico, pur essendo costato appena 60mila dollari. Ricordò in seguito Schoedsack: «Abbiamo realizzato Chang con quello che abbiamo trovato là, senza aiuti di sorta. Ha richiesto duro lavoro, sudore e malaria, ma in dollari è costato quanto costerebbe girare con una seconda unità per due giorni».3 Il film ricevette anche una candidatura alla prima edizione degli Academy Awards, nella categoria allora indicata genericamente come «Miglior qualità artistica della produzione» e perse per un solo voto in favore di Aurora, il primo film americano di Friedrich Wilhelm Murnau. La scena forse più spettacolare di Chang è una carica di elefanti, ripresa da Schoedsack, con autentico sprezzo del pericolo, da una buca nel terreno ricoperta da tronchi d’albero e dalla quale sporgeva una torretta con il solo spazio per la macchina da presa e per la testa dell’operatore. Altri momenti topici della lavorazione furono la cattura della tigre più pericolosa e temuta dai nativi, e l’attacco di un boa constrictor lungo più di sei metri che era penetrato di notte nella capanna di Schoedsack, costruita, come le tipiche abitazioni locali, su pali di dieci metri di altezza. Il successo di Chang indusse Lasky a proporre a Cooper e Schoedsack di realizzare il loro primo film di finzione trasponendo per lo schermo, con il loro stile particolarissimo, un libro a loro piacere. I due decisero di provare qualcosa di nuovo, combinando un natural drama con le possibilità offerte dagli studios. Nacque così Le quattro piume (The Four Feathers, 1929), adattamento dell’omonimo romanzo di A.E.W. Mason, storia di codardia e riscatto ambientata durante le guerre coloniali inglesi in Sudan. Realizzato (primo caso del genere nell’industria hollywoodiana) unendo pazientemente in fase di montaggio sequenze girate direttamente in 28
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Africa e altre con gli attori ripresi in studio, Le quattro piume poté vantare un grado di realismo molto maggiore rispetto a quello ottenibile con le tecniche di rear projection4 che di solito venivano usate in circostanze simili, e che sono visibili, per esempio, nel primo film sonoro dedicato al fortunato personaggio di Edgar Rice Burroughs, Tarzan l’uomo scimmia (1932). Uscito come film muto quando ormai quasi tutto il mercato si stava orientando verso il sonoro, Le quattro piume fu ulteriormente danneggiato dalle scene aggiunte dal nuovo supervisore del progetto, quel David O. Selznick che sarà poi il superiore di Cooper alla RKO al tempo di King Kong. Dopo Le quattro piume Cooper prese un periodo di pausa dalla sua attività cinematografica, legata all’aumentare dei suoi interessi nel business del- I tre autori che si sono succeduti alla scel’aviazione civile, nel neggiatura di King Kong: il romanziere quale aveva investito i Edgar Wallace, James Creelman e la moglie proventi dei precedenti di Schoedsack, Ruth Rose film. Schoedsack, insieme alla moglie, organizzò alcune spedizioni per suo conto, prima a Sumatra, dove realizzò il suo terzo e ultimo natural drama, Rango (1931), poi in India, dove girò, sempre per conto di Lasky, gli esterni del film di Henry Hathaway I lancieri del Bengala, prodotto secondo lo schema già collaudato ne Le quattro piume. 29
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Fu durante questo periodo di forzata inattività che Cooper cominciò a fantasticare su quella che voleva fosse la più colossale avventura mai portata sugli schermi, e partorì l’idea di un gorilla gigante scaraventato nel mondo moderno. L’occasione di rientrare nel mondo del cinema e di realizzare il suo sogno gli fu offerta da Selznick, che intanto aveva lasciato la Paramount per approdare alla RKO come nuovo chief executive, con la missione di risanare lo studio colpito dalla crisi seguita alla Grande Depressione. Consapevole di aver bisogno di un assistente dotato di polso risoluto, Selznick si rivolse a Cooper, che accettò con la garanzia che avrebbe potuto sviluppare i suoi progetti. All’interno della RKO la strada di Cooper incrociò quella dell’animatore in stop motion e creatore di effetti visivi Willis O’Brien, a quel tempo impegnato assieme al regista Harry O. Hoyt in un ambizioso progetto dal Willis O’Brien titolo Creation, che avrebbe portato a compimento il lavoro con gli animali preistorici cominciato in Un mondo perduto (The Lost World), il film del 1925 tratto dal romanzo di Arthur Conan Doyle e diretto dallo stesso Hoyt. Cooper giudicò il progetto di Creation irrealizzabile, ma capì che O’Brien era la persona giusta per dar vita al suo film sul gorilla. I due iniziarono a lavorare a un rullo di prova, realizzando alcune sequenze di forte impatto spettacolare che avrebbero poi trovato posto nel film finito, fra cui quella del combattimento fra Kong e il tirannosauro; alla sce30
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neggiatura cominciò invece a metter mano il romanziere Edgar Wallace, che era da poco sbarcato a Hollywood con un contratto per la RKO. Wallace tuttavia morì di lì a poco e della sua sceneggiatura ben poco rimane nella versione definitiva, se si escludono le principali sequenze d’azione, come la scalata di Kong all’Empire State Building, che concettualmente erano tuttavia frutto della fantasia di Cooper. Il ruolo di Wallace nella realizzazione di King Kong fu tuttavia enfatizzato per ragioni di marketing, anche se, come ebbe a dire Cooper, «nella versione finale non c’è una sola idea né una sola linea di dialogo attribuibile a Wallace».5 Una seconda versione della sceneggiatura fu affidata a James Creelman, che aveva appena finito di scrivere La pericolosa partita, il film che Schoedsack stava dirigendo da solo usando gli stessi set e buona parte degli attori di King Kong, tra cui Fay Wray e Robert Armstrong.6 Anche questa nuova versione, però, non trovò soddisfatto Cooper, desideroso d’introdurre elementi narrativi, quali la tribù di nativi e il sacrificio umano, che Creelman non riusciva a inserire nella struttura in origine impostata da Wallace, del tutto diversa da quella che conosciamo soprattutto per quanto riguarda i personaggi umani, con Carl Denham, il protagonista, che non era ancora un cineasta ma un impresario circense simile al famoso Phineas T. Barnum, e la presenza di un gruppo di detenuti in fuga da una colonia penale che minacciavano (anche a livello sessuale) l’eroina, e di cui Kong era ovviamente destinato a fare polpette. La sceneggiatura definitiva alla fine fu scritta da Ruth Rose, che le conferì un particolare tocco femminile, evidente per esempio nell’impacciato corteggiamento del capitano Jack Driscoll nei confronti della bella Ann Darrow, così diverso dalla manierate scene d’amore tipiche di molti film dell’epoca; Rose inoltre modellò i personaggi principali sui loro autori e sulla loro storia personale, ricalcando Denham su Cooper, di cui riprende la spregiudicata determinazione, Driscoll su Schoedsack, dal quale eredita il carattere introverso e un po’ scorbutico, e Ann 31
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Tipico esempio di utilizzo della tecnica della rear projection: Fay Wray attaccata dal tirannosauro
Darrow su sé stessa, attrice sui generis più che disposta a imbarcarsi per una spedizione all’altro capo del mondo, e che trova l’amore nella più improbabile delle situazioni. Alla fine King Kong costò circa 600mila dollari, una cifra molto elevata per l’epoca, considerato che il budget massimo di una produzione di fascia alta imposto da Selznick alla RKO post-Depressione era di soli 200mila dollari. Il film tuttavia funzionò molto bene al botteghino (anche se sull’entità del suo successo le fonti divergono fra chi parla di risultato straordinario, capace da solo di risollevare le sorti della RKO, e chi lo definisce semplicemente un buon incasso)7 e si decise di mettere subito in cantiere un seguito, quel Il figlio di King Kong che non godette né della larghezza produttiva né della fortuna che erano toccate al suo predecessore. Nel frattempo Cooper era succeduto a Selznick a capo della RKO e la sua assunzione di un ruolo di primo piano nell’ambito dell’industria portò di fatto alla fine della sua collaborazione creativa con Schoedsack, anche se i due rimasero amici per 32
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tutta la vita. A partire proprio da The Son of Kong i pochi altri film realizzati da Schoedsack sarebbero stati solo lavori su commissione, quasi sempre su richiesta del suo amico ed ex socio. Su tutti si segnalano Gli ultimi giorni di Pompei (1935), dramma storico a sfondo religioso diretto con competenza e senza indulgere nei patetismi tipici del genere (e che sfruttò di nuovo gli effetti speciali di Willis O’Brien per la distruzione finale sotto l’eruzione del Vesuvio) e Dr. Cyclops (1940), piccolo classico del genere fantastico che inaugura quel particolare filone, molto battuto in seguito, con i protagonisti umani rimpiccioliti a dimensioni minuscole e costretti a lottare contro l’ambiente quotidiano diventato fonte d’infiniti pericoli.8 Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, in ossequio alla loro natura avventurosa, entrambi abbandonarono la vita civile per tornare a combattere. Alla fine della guerra Cooper riprese il suo ruolo di produttore esecutivo alla RKO diventando il produttore di molti film di John Ford, fra i quali Un uomo tranquillo e Sentieri selvaggi. Schoedsack invece, tormentato da problemi alla vista, abbandonò per sempre l’attività cinematografica, con l’unica eccezione della nostalgica rimpatriata in occasione de Il re dell’Africa (Mighty Joe Young, 1949), operazione ideata da Cooper e dallo stesso Ford, che vide riunito quasi tutto il team che era stato responsabile di King Kong, segnando il canto del cigno della carriera di Willis O’Brien, premiato con un Oscar, e l’inizio di quella del suo erede, nonché ammiratore adorante: Ray Harryhausen.9 Note
1 Sulla vita di Cooper e Schoedsack cfr. soprattutto George E. Turner, Spawn of Skull Island. The making of King Kong, Baltimora, Luminary Press, 2002. 2 Ivi, p. 75. 3 Ivi, p. 79. 33
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4 Tecnica consistente nel posizionare uno schermo sul set, sul quale vengono proiettate dal retro delle immagini di sfondo che vengono poi nuovamente riprese assieme agli attori in primo piano. Le immagini così rifilmate presentano tuttavia una tipica apparenza «slavata». La tecnica è usata estensivamente in King Kong, per esempio nelle scene che vedono Fay Wray minacciata dal tirannosauro. Una sua variante, anch’essa ampiamente usata nel film, è la tecnica della miniature projection, che vede un piccolo schermo inserito in un set in miniatura usato per l’animazione delle creature, sul quale vengono proiettati, e successivamente rifotografati fotogramma per fotogramma, gli attori precedentemente ripresi. La tecnica è visibile nella scena in cui Kong, dopo aver fatto precipitare il tronco sospeso, minaccia Jack Driscoll che si nasconde in una cavità al di sotto del bordo del burrone. Su tutti gli aspetti tecnici legati alla realizzazione di King Kong si rimanda ancora al già citato testo di Turner. 5 Ivi, p. 102. 6 La giungla di Kong, in particolare, è la stessa che compare in La pericolosa partita, completa del famoso tronco sospeso dal quale Kong scaraventerà giù i suoi inseguitori. La contemporanea lavorazione dei due film comportò qualche tensione fra Cooper e Schoedsack, che si alternavano sul set e si contendevano il tempo della Wray, la cui presenza era necessaria a entrambi. 7 La tesi che il risultato al botteghino di King Kong non sia stato così alto come viene in genere ritenuto è sostenuta da Cynthia Erb in Tracking King Kong, cit., pp. 31-63. Di parere opposto è Turner, in Spawn of Skull Island, cit., p. 33. 8 Una prima variazione sul tema del rimpicciolimento, con gli uomini in miniatura che stavolta rappresentano il male, era in realtà già stata offerta da Tod Browning col suo La bambola del diavolo (1936). 9 Sull’importanza di King Kong nell’indirizzare la futura carriera di Ray Harryhausen si veda la sua introduzione al volume autobiografico Ray Harryhausen: an Animated Life, New York, Billboard Books, 2004.
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