Biliardo sott'acqua di Carol Bensimon

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Carol Bensimon BILIARDO SOTT’ACQUA Traduzione di Daniele Petruccioli




Romanzi collana diretta da

Vanni Santoni e Giuseppe Girimonti Greco (Straniera)


Carol Bensimon BILIARDO SOTT’ACQUA Traduzione di Daniele Petruccioli

tunué


• Collana «Romanzi» #18 • Carol Bensimon Biliardo sott’acqua Traduzione di Daniele Petruccioli Revisione di Jessica Falconi Collana «Romanzi» Diretta da Vanni Santoni e Giuseppe Girimonti Greco (Straniera) Titolo originale: Sinuca embaixo d’água © 2009 Carol Bensimon Published in agreement with Agência Riff, Rio de Janeiro. All rights reserved Progetto grafico Tomomot, Venezia Redazione Alessandro Aureli | a.aureli@tunue.com Redazione Diego Fiocco | d.fiocco@tunue.com Ufficio stampa Silvia Bellucci | ufficiostampa@tunue.com Comunicazione Elena Dardano | accountcomunicazione@tunue.com Progetti speciali Marco Ruffo Bernardini | m.bernardini@tunue.com Amministratore Emanuele Di Giorgi | e.digiorgi@tunue.com Direzione editoriale Massimiliano Clemente | maxcle@tunue.com Per l’edizione italiana © 2019 Tunué isbn: 978-88-6790-332-0 Prima edizione: maggio 2019 Tunué Via degli Ernici 30 – 04100 Latina – Italia T 0773.66.17.60 | F 0773.18.75.156 info@tunue.com | www.tunue.com Stampato in Slovenia I personaggi e le situazioni descritti in quest’opera non sono reali se non nel mondo della finzione; non si riferiscono a persone e fatti concreti, né esprimono opinioni su di essi.


BILIARDO SOTT’ACQUA You can’t put your arms around a memory -ॷ॰ॶॶঁ 7॰ॽॶ६७ॺॻ



Bernardo

È come quando ti levi i roller dopo averci corso per un po’ e senti che i piedi non vanno più d’accordo con il pavimento. Tu vuoi scivolare, passare fluttuando fra le cose e le persone, ma non puoi. Allora pensi Ok, avanti, adesso si cammina, camminiamo dritti per favore, ma non c’è modo di riuscirci subito, perché hai ancora i roller dentro, da qualche parte. La testa dice Cammina, i piedi Scivola. E se per caso incroci qualcuno lungo la strada penserà: Guarda quello, sta proprio messo male! Per questo la gente mi piace sempre di meno e Antônia sempre di più, anche perché diceva che il mondo sembra un ammasso di persone appena uscite dall’oculista e ancora sotto l’effetto delle gocce dilata-pupille: ti entra più luce di quanta ne sopporti e finisce che non vedi più un accidenti. Più luce, più buio. So com’è perché tutti gli anni faccio l’esame in cui devi leggere le lettere sullo schermo e vedo che la miopia avanza simmetricamente, anche se un occhio mi sembra stare molto peggio dell’altro (Antônia che mi tappa l’occhio sinistro e dice: La vedi quella barca dall’altra parte del lago?). Però gli occhiali mi servono soprattutto per toglierli di continuo così poi posso pulirmi le lenti con un lembo di maglietta, visto che non fumo e quindi non so mai bene dove mettere le mani, e bisogna pure far qualcosa con le mani, sempre, strappare le foglie dagli alberi che incontri lungo la via, raccogliere sassi per strada e lanciarli da qualche parte, staccare le etichette di


plastica dalle bottiglie d’acqua, piegare scontrini, estratti conto, e questo biglietto che adesso tengo in mano e se potessi piegherei per mille, finché diventa così piccolo che poi sparisce. Una sera di due mesi fa Camilo mi ha buttato una pallina di carta dalla finestra e più per la mia andatura intontita che per la miopia non ho visto esattamente dov’era caduta. Così son stato un po’ di tempo lì a tentoni sopra il marciapiedi, di quelli con il lastricato irregolare e il muschio negli interstizi, come nei quartieri dove non passano tanti piedi, e mi ricordo di aver sentito le pietre umide e gelate, e mi ricordo anche di un uccello che ha cantato e mi ha fatto venire in mente che esiste un tipo di uccello specializzato nel canto notturno, e che quel tipo di uccello lì mi dava i brividi. Ma il fatto di averci pensato per la prima volta proprio in quel momento mi ha messo in sospetto. Me li aveva dati sempre, i brividi? Non era una cosa di cui potevo essere sicuro. Magari a volte cantano e io non me ne accorgo. Dev’essere successo un sacco di notti, penso. Un animale, se fa una cosa una volta la fa sempre. Saranno stati la nostra colonna sonora. E insomma c’era questo canto nell’aria, questo segnale acustico, quasi un allarme, con l’impressionante regolarità della natura, e in quel momento ho trovato la pallina. L’ho aperta al volo. C’era scritto: passa quando puoi. Ho alzato lo sguardo per annuire e dire di sì, che sarei passato (quando potevo), ma non c’era più nessuno. Perciò quella è stata l’ultima volta che sono venuto qui prima di adesso. Non avrei saputo cosa dirgli, a Camilo, non abbiamo mai scambiato più di quattro parole, e comunque il quandopuoi è un concetto temporale abbastanza vago. Quando non sarai occupato a fare un’altra cosa? Se è così, non è che fossi poi tanto occupato. Quando te la sentirai psicologicamente? Se invece è così, 8


ho paura che due mesi non siano ancora abbastanza, con me qui a stringere un biglietto ripiegato al massimo, tanto che pare una minuscola tenda da campeggio. Il massimo di volte che puoi ripiegare un pezzo di carta è sei, dicono, piegandolo sempre a metà, ma in un programma alla tivù una volta hanno dimostrato che non è proprio così. Cioè, ci hanno provato con un foglio di carta grande come un campo da calcio, il che vuol dire superare un minimo i limiti del buonsenso, e se non sbaglio hanno smesso solo perché si erano stancati di fare avanti e indietro stando attenti a non strappare un foglio di non so quanti chili. E poi sicuramente avevano pure qualche altro equivoco da smontare, che la gente crede alle peggiori cavolate. Oggi c’è un gran bel sole, con barche qua e là, però io smetto di guardare il lago e mi volto verso la casa color salmone. Noto che è fatiscente. Riesco quasi a vedere il sudiciume che si appiccica ai muri a poco a poco e le cose che degenerano una dopo l’altra, tipo un giorno che ha piovuto tanto, per cui c’è stato un gatto che ha spostato una tegola, che poi è caduta portandosi appresso un pezzo di intonaco, che poi è finito in qualche posto con l’erba troppo alta, che a sua volta ha attirato gli insetti i cui cadaveri si vedono ancora in fondo alla piscina. È come guardare un fiore aprirsi e chiudersi e appassire in un video di dieci secondi. Ma secondo me il quandopuoi non deve essere oggi, o almeno non necessariamente adesso. Attraverso la strada senza macchine e cammino fino al bar del Polacco. In questa zona della città non c’è nessuno a quest’ora del pomeriggio oltre a quelli con le barche, alcuni molto vicini, dalle parti del circolo della vela, altri un po’ più lontani, comunque mai tantissimi, anche perché il lago non è che sia la cosa più bella del mondo. Cioè, a tutti piacerebbe che fosse almeno un po’ più azzurro. I laghi di solito sono azzurri, non 9


marroni, e poi la gente ama l’azzurro, è il colore preferito quasi di chiunque, ovviamente, per via del cielo e dell’acqua (certo non di questa qua), l’ho visto pure in un documentario, li guardo sempre prima di andare a letto. Comunque sta aprendo, il bar dove mi sono già seduto un milione di volte a chiacchierare mentre riducevo a brandelli un’etichetta o cercavo di fare una rosa con un tovagliolo, in piedi fuori con un bicchiere di vino usa e getta, oppure a giocare a biliardo nella sala sul retro, che si può dire è stata costruita letteralmente nell’acqua, cosa che ha fatto incazzare a morte il municipio una ventina d’anni fa. A me piace un casino. Da fuori si vede l’acqua che sbatte sul quadrato di cemento e il sole che a sua volta batte sulle finestre coi riquadrini di vetro verdi e blu, oppure niente, solo schegge che un tempo erano riquadri interi verdi o riquadri interi blu. Il Polacco sistema l’ultimo tavolino fuori. C’è poco spazio, basta appena per tre. Mi avvicino, lui mi vede, non sembra affatto contento. In realtà ho la sensazione che avermi visto sia la cosa peggiore che gli potesse capitare, oggi pomeriggio. Mi accorgo del disagio nei suoi occhi e nelle rughe sulla fronte, ripiegata come un foglio di carta. Dice Bernardo, ciao, che è diversissimo dal dire Ciao Bernardo. Magari pensa anche che è troppo presto. E non la smette di sistemare i tavolini. Apre una sedia, va a prenderne un’altra. Il rumore del metallo sfregato sul metallo si accomoda fra il suo ciao e il mio. Quando ritorna ordino una birra e mi siedo davanti al lago, come dire di spalle alla casa. Due mesi fa ero deciso a entrare, e loro erano decisi a non lasciarmelo fare. Mi chiedo che genere di rimozione o reclusione abbia osservato il Polacco, con gli occhi rossi perché sembrava voler bene ad Antônia, mentre stringe lo straccio sporco delle macchie umide e tonde lasciate dai bicchieri quando gli cambi posto. 10


Io al mio gli cambio posto spessissimo, disegno due simboli olimpici e neanche così il Polacco si avvicina. Lo vedo che sta dentro a sfregare la piastra della cucina con una spatola, poi vedo sul mio tavolino due versi di T.S. Eliot scritti con un pennarello rosso da cd. In the room the women come and go Talking of Michelangelo. Antônia queste donne se le immaginava molto grasse. La poesia non lo dice, ma Antônia se le immaginava grasse, che andavano in giro per il Louvre. E mi viene da piangere un’altra volta. Non avrei bisogno di starmene di nuovo qui, visto che abito dall’altra parte della città. In realtà nessuno ha bisogno di venire fino al lago. Di solito le cose succedono sempre lontanissimo da qui, dove ci sono avvocati, medici, fiorai, ristoranti italiani e thailandesi, dove ci sono strade che si incrociano e marciapiedi coi cestini per l’immondizia e appartamenti affittati dagli amici. Tutto a chilometri di distanza. Sono quelli di qui a dover andare laggiù. In the room the women come and go Talking of Michelangelo è come dire che, quando ancora non ci preoccupavamo di sembrare furbi come pensavamo di essere in realtà, né di andare per librerie dell’usato a caccia di riviste porno anni Cinquanta, nell’aula di Estudos Literários I abbiamo fatto una performance, io ero il Signor Prosa e lei la Signora Poesia. Dovevamo insultarci per sei minuti e mezzo mentre ai nostri compagni di Lettere nemmeno piaceva leggere romanzi o poesie, e la professoressa rideva a singhiozzi durante tutto lo spettacolo, che era come dire Apprezzo lo sforzo ma questa roba suona un po’ ridicola, che era come dire che era geniale. Mi piacerebbe riparlarne adesso: Antônia ti ricordi di quanto eravamo geniali quando abbiamo fatto il Signor Prosa e la Signora Poesia? Che è come dire che sono a pezzi. E anche, e soprattutto: ma come hai fatto a dimenticarti 11


che bisogna rallentare quando si va in discesa? Che in discesa ci si può sentire vivi piÚ di quanto si dovrebbe, e che si può morirne?

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Camilo

Ma come ci vai a prendere le sigarette se l’auto è tutta una lamiera contorta e sanguinolenta, frullata anche lei nella centrifuga dei giovani imprudenti, scivolata via come scivola un documento da far sparire nel tritadocumenti dell’ufficio di qualche figlio di puttana. Ancora ancora mancasse da accendere, con l’alcol tiravo una riga dalla cucina e la facevo salire per le scale, entrare dalla porta accostata, passare sopra il letto, scendere di nuovo e arrivare fino a me seduto alla finestra, che aspetto con la sigaretta in bocca. E poi buttarsi giù come una torcia davanti a casa, gli occhi che brillano della mia pazzia. Cazzo, le sigarette. Non ho mai desiderato così tanto accendermi una sigaretta dietro l’altra, vedere le braci di sigaretta nel buio pesto di camera mia. Ma dove le rimedio se il Polacco è chiuso e non ho la macchina per andare fino al benzinaio grande, e se fare a piedi i due chilometri fin lì sarebbe camminare sulle spine, sarebbe sanguinare a ogni passo vedendo che il quartiere è costruito per stare in culo al mondo, come se le porte chiuse delle case con le luci spente dessero l’impressione che oltre a essere chiuse hanno, subito dietro, un armadio o un grosso tavolo di legno massiccio come barriera antipersone, o come se tutti piangessero la morte di Antônia fin da prima della sua nascita. Sono un Axl Rose grasso, da solo in una camera d’albergo, un Kurt Cobain nella serra col fucile appoggiato al palato, 13


e se gli altri hanno un passato brillante a compensare il fallimento finale, io no. Qualsiasi ricordo mi condanna. Prendi il primo pezzetto di me. Ho sei anni, l’asilo è nella strada dietro casa, gnomi e animaletti di gesso nel cortile. Ho rigato il cavallo col pastello. Volevo farlo viola. Nei cartoni era viola. Mi dedicano attenzioni speciali. La maestra chiede: Ma come niente, tesoro? Stacco le braccia dalle sue ginocchia. Nemmeno il pompiere? Si accuccia per guardarmi in faccia. E il dottore, il dottore ti piacerebbe, eh? Mi accarezza i capelli, poi si rialza e si allontana. Va all’armadio, coperto dei nostri disegni attaccati sull’anta con lo scotch. Anche da lontano so riconoscere i miei, in realtà i miei saprei riconoscerli pure dopo vent’anni, gli esseri che disegnavo avevano sempre la coda o le antenne. Apre l’armadio, tira fuori una palla rosa con i brillantini e me la lancia contro. Non muovo un muscolo, mi lascio passare la palla accanto e quella rotola fino in cortile e va a fermarsi ai piedi di un altro bambino che le dà un calcio e scoppia a ridere. «Nemmeno il calciatore?» Nemmeno il calciatore. La maestra chiama i miei e dopo cena loro due si chiudono in camera. Appiccico l’orecchio alla porta. Biscottini di manioca. La settimana prima a scuola avevo fatto i biscottini di manioca, cosa che a mia madre era sembrata bellissima e a mio padre la cosa più vergognosa dell’universo. Insomma si mettono a polemizzare sul significato pedagogico della preparazione dei biscottini di manioca (il barattolo è ancora sigillato, sullo scaffale più alto della credenza). In camera dei miei cade qualcosa. Mio padre dice una parolaccia, io stacco l’orecchio solo per un attimo. Adesso parlano di kayak. Del kayak che da tanto tempo sta a prender polvere in garage. Il problema di andare in kayak è che non era proprio il tipo di gita che un bambino sognava, bastava attraversare 14


la strada e ci si ritrovava in una piscina gonfiabile dietro casa, però di una misura gigante, e però sul davanti. E insomma navigavamo in silenzio, mio padre agitato, bloccato nel kayak solo con me, senza possibilità di incontrare nessuno con cui attaccare bottone per tenermi sempre un passo indietro ai suoi discorsi esclusivi per adulti. Poi il sole è scomparso, sono venuti i nuvoloni grigi e il lago non sembrava più una piscina, io tenevo in mano il remo e facevo quello che ci può fare un bambino, tipo riuscire a malapena a reggerlo, sbatterlo piano sull’acqua in modo irregolare immaginando che più rumore fai e più sei bravo. Mio padre ha detto: Non sei capace a remare, passami quel coso. Io non gliel’ho dato. Lui si è innervosito, ha fatto un gesto brusco e mi ha strappato il remo dalla mano. La barca ha beccheggiato e io mi sono bagnato tantissimo. Nel senso di quell’età in cui pensi che tantissimo è stare per morire, ma mio padre non ci ha mai capito niente di bambini né di nient’altro, per esempio non ha mai imparato la regola più elementare dei giochi, cioè fingere di perdere sennò che gusto c’è. E lì nel kayak mi ha detto: Forse non ti piace niente perché ancora non sai fare niente. Dopo quella splendida giornata al lago, sui miei disegni han cominciato a comparire righe molto calcate col pastello giallo, e c’era sempre meno spazio per appenderli sull’anta dell’armadio, perciò la maestra li appiccicava al buio nella parte dentro e i miei disegni si riuscivano a vedere solo tre secondi fra l’apri e il chiudi. Ma nella discussione successiva che ho origliato dietro la porta mio padre e mia madre non parlavano di me. Parlavano di Antônia, che già era nella pancia della mamma ma ancora senza sesso e senza nome. La verità è che la vita mi ha stancato facile. Tre borse ogni giorno, tre corse, tre partite rubate, ragazze, polemiche, 15


tanti disastri. Dover essere padre e madre e fratello negli spazi vuoti di casa quando partivano senza di noi. Cosa mi interessa? Niente. Cosa fai nella vita? Niente. Qualsiasi discorso comincia sempre con Cosa fai nella vita? Un certo tipo di ragazza mi mollava lì e se ne andava in cerca di chi rispondeva Studio legge, Faccio il praticante, Preparo il concorso, Mio padre ha un’impresa di import-export dalla Cina, Gioco a tennis due volte a settimana. Esisteva anche il tipo di ragazza per me, che mi portava fuori dal bar dove le luci non c’erano più da secoli, dove le onde battevano da non poterne più. Nel frattempo Antônia mi aspettava a casa. Ero uscito per prendere dal Polacco le cose da mangiare più semplici in assoluto, e le patatine fritte si ammosciavano nel sacchetto. Trovavo sempre qualcos’altro da fare. Ma era facile immaginare Antônia ad aspettarmi, lei mi idolatrava, le patatine rinsecchite non erano un problema. Guardavo la finestra di camera mia, vedevo la luce della tivù, solo la luce blu, e sapevo che Antônia stava seduta per terra con la schiena appoggiata al mio letto a guardare Axl Rose che cantava a Tokyo e che prima del mio ritorno avrebbe cambiato look una quarantina di volte, cioè le volte che si cambia nell’intero concerto moltiplicato le volte che quella sera Antônia avrebbe rimesso il doppio vhs. Adesso magari indossava gli shorts con il motivo della bandiera americana. Magari cantava November Rain al pianoforte. Magari si era alla parte in cui portava la maglietta con il Cristo e mia sorella imitava i suoi gesti sopra il letto. Rientrando in casa le avrei chiesto cosa voleva fare da grande, e Antônia voleva sempre fare tante cose da non riuscire mai a decidersi. A questo punto sento il campanello. Chi arriva al campanello deve per forza aver già superato il cancello, e per superare il cancello bisogna sapere che c’è una stanghetta 16


di ferro appoggiata alla grata che se la prendi arrivi al pulsantino e a quel punto basta spingere e sei già in cortile. Suona di nuovo. Nessuno ti verrà ad aprire. Non ho più l’età né la voglia per appoggiare l’orecchio alle porte, ma se lo facessi sentirei una lagna interminabile, la grande tristezza di tutte le epoche, l’unica che può riportare mio padre e mia madre di nuovo nella stessa stanza. Apro la finestra e vedo Bernardo. Alza la testa, ci guardiamo in faccia, mi sembra di sapere che è stato lui a portarmi via Antônia. Non mi è mai andato di parlarci, non mi va di parlarci adesso, adesso meno che mai. Cosa potrebbe dire? Non voglio, ma stranamente sento che tra un po’ di tempo lo vorrò, chissà quando, anzi forse ne avrò proprio bisogno, perciò mi allontano dalla finestra e prendo carta e penna. Subito dopo sto scrivendo un bigliettino. Lo appallottolo, lo butto, do a Bernardo il tempo di sparire. Lui capisce. Non suona più il campanello. Sparisce e basta. Muoio di nuovo dalla voglia di fumare, peggio di prima. Frugo nel portacenere, ma è tutto già fumato fino all’ultimo tiro immaginabile. La cenere si sparge per terra. C’è qualcosa a portata con cui cavarmi un po’ di sangue? Ha sempre funzionato per affievolire il dolore che non si può misurare. Sento la televisione nella casa accanto. Applausi. Gli uccelli. Comincio a sentire suoni completamente nuovi, come la rabbia, come mio padre in cucina che apre un’anta. Mi pare di sentire l’andirivieni del lago, ma la cosa più scioccante è quello che non sento. Non sarebbe un problema fumare le sigarette light di Antônia, addirittura quelle aromatizzate alla cannella o alla ciliegia, o quelle lunghe e sottili, o un sigaro di quelli per le grandi occasioni. Esco da camera mia e sono davanti alla sua. Apro la porta e sono dentro. Se qualcuno mi vedesse ora sarei l’uomo più di merda in assoluto. Come chi scava fino a sbattere il 17


badile sulla bara. Come chi trova un cadavere e gli sfila gli anelli d’oro dalle dita irrigidite. Rivolto i cassetti del comò, senza guardare i libri, senza leggere i fogli, senza vedere che lei sta lì, cullata sull’amaca (si vede il mio braccio), con le mani sugli occhi ma la bocca aperta e la lingua di fuori (ha le unghie rosicchiate), insieme a Bernardo con una scacchiera sopra l’erba (Antônia muove il cavallo). Trovo cinque sigarette sparse.

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