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Gianluigi Ricuperati EST

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Gianluigi Ricuperati EST

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#tuttaunaltrastoria


• Collana «Romanzi» #15 • Gianluigi Ricuperati EST Progetto grafico Tomomot, Venezia Redazione Alessandro Aureli | a.aureli@tunue.com Redazione Diego Fiocco | d.fiocco@tunue.com Ufficio stampa Silvia Bellucci | ufficiostampa@tunue.com Ufficio stampa narrativa Claudia Papaleo | c.papaleo@tunue.com Comunicazione Elena Dardano | accountcomunicazione@tunue.com Commerciale Marco Ruffo Bernardini | m.bernardini@tunue.com Amministratore Emanuele Di Giorgi | e.digiorgi@tunue.com Direzione editoriale Massimiliano Clemente | maxcle@tunue.com Prima edizione: ottobre 2018 © 2018 Tunué/Ricuperati isbn: 978-88-6790-304-7 Tunué #tuttaunaltrastoria Via degli Ernici 30 – 04100 Latina – Italia T 0773.66.17.60 | F 0773.18.75.156 info@tunue.com | www.tunue.com Stampa A4 Servizi Grafici Chivasso (to) – Italia

Quest’opera, come tutte le altre della collana «Romanzi», è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione–Non commerciale–Non opere derivate 3.0 Italia (CC BY-NC-ND 3.0 IT) http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/legalcode


Indice

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Prima parte

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Intermezzo

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Seconda parte



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A Gioele



Prima parte Una storia d’amore con la realtĂ



Gli uomini hanno inventato la macchina del tempo quando è nato il primo bambino. Solo i bambini possono dire: «Sarò giovane». I figli sono versioni perfette di storie imperfette – cioè tutte. Ecco perché non ho mai imparato ad amare gli adulti. Ecco perché ho amato mia figlia fin da quando era una linea sul test di gravidanza. Ecco perché ho imparato a vedere in ogni foto il test di gravidanza del tempo. Ecco perché ho sviluppato il mio handicap. Nel golf l’handicap è un valore assegnato a ogni giocatore dilettante in modo da competere più equamente con i più esperti. Si tratta di un vantaggio assegnato: più sei bravo, meno colpi ti sono concessi per chiudere ogni buca. Io ho sempre odiato il golf, ma ho sempre amato la posizione in cui si mettono i giocatori quando stanno per colpire la palla. Era la fine dell’inizio del ventunesimo secolo, e mi guadagnavo da vivere facendo il fotografo. Ero venuto al mondo da quarant’anni. Avevo ormai capito che il mondo era un magnifico handicap. Anzi. Che era il campo da golf che si poteva affrontare solo con un magnifico handicap. Anzi. Che non tutti gli handicap erano magnifici. Parlo dell’handicap a comprendere, tipico di alcuni. Parlo dell’handicap a perdonare, tipico di altri. Parlo dell’handicap a intuire. Dell’handicap a sostenere. Dell’handicap a immaginare. Dell’handicap a far fiorire. Il paesaggio degli uomini e delle donne mi sembrava in quel momento una labirintica collezione di handicap. Ma nessuno, 11


a quel punto, era messo peggio di me: perché il mio handicap era non sapere amare altri adulti. Così vagavo per il cosmo delle occasioni e dei lavori, lancia libera in un campo di scudi pronto a difendersi, e anche a offendere. E così vagavo nella stanza di un pessimo albergo londinese, quando il direttore creativo più importante d’Europa, Chung-Kuo, una specie di Karl Lagerfeld cinese, mi mandò un messaggio: Piccadilly 99, see u at midnight. Niente di strano, perché gli appuntamenti con Chung-Kuo erano sempre presto la mattina o tardi la sera. Chung-Kuo mi era affezionato. Io ne avevo bisogno, non solo per ragioni professionali, ma perché lui mi pareva uno dei pochi esseri umani che per caso o fortuna o capacità di volontà radicale aveva annullato i propri handicap. Un campione lancinante. E un uomo sincero, equilibrato, a dispetto di una serie di doni naturali superlativi. Io però mi sentivo solo. Amavo solo mia figlia. Da tutti mi circondavo offeso, e offendevo tutti quelli che mi circondavano. Stavo rischiando di rimanere solo come un ramo spento. Così ero venuto a Londra, per fare alcuni scatti “lifestyle” con Another Magazine, la rivista fondata dal mio amico Jefferson Hack. E per vedere Chung-Kuo, uno degli uomini più influenti di quell’ambiente. Ero fortunato, visto da fuori. Se c’era uno che aveva “friends in high places” ero io – e nonostante questo, non riuscivo davvero a spiccare il volo. Anche se la stima di quegli amici mi dava coraggio, continuavo a considerarmi uno strano tipo di merlo indiano. A dieci minuti dalla mezzanotte ero lì a Piccadilly 99, davanti all’unica facciata senza nemmeno una luce accesa, il solo pezzo di architettura che non sembrava scintillare. Anche se ero un po’ in anticipo provai a entrare spingendo la maniglia del portone d’ingresso. Nessun campanello veniva in aiuto. Sentii una voce con accento russo, da una grata invisibile, pronunciare queste parole: «Kto tam?». 12


Dietro la porta, che si aprì con un sibilo elettrico non appena pronunciai il nome di Chung-Kuo, ben più importante del mio, si stendeva una visione difficile da dimenticare. Mura color carta da zucchero inframmezzate da stinte colonne di marmo, pesantissimi tendaggi cremisi, un paio di figure umane con abiti militari immobili ai due lati di uno scalone nobiliare. Poi una specie di reception, con un altro signore in abiti formali grigio chiaro e una sorta di coppola del medesimo colore. Il bancone castano era introdotto alla sinistra da un divano in stile Ottocento. Seduta, un’altra figura che si piegava, a regolarissimi intervalli, come a cercare qualcosa in una borsa, mentre aspettavo al centro dello spazio dai soffitti altissimi illuminati da un candeliere senza fiamme. Poi un pianoforte a coda, con seduta davanti l’ennesima figura, stavolta femminile. Per terra, una moquette rosata che restituiva a ogni passo la dimensione di un sussurro. Infine quattro stendardi di enormi dimensioni, appesi ad altezze diverse come uno scacchiere emotivo: Marx, Lenin, Stalin, una commemorazione della vittoria sui tedeschi nella Seconda guerra mondiale. Tutt’intorno, nel solido ottaedro dell’aria che respiravo, luci basse, si faceva largo una trama musicale che avrebbe potuto promanare da quel pianoforte a coda, ma che in realtà veniva da un sistema stereo nascosto nel controsoffitto stuccato. Musica lieve da accompagnamento di un film muto, qualcosa che apparteneva a un’altra fase della Storia. Tutto, lì dentro, sembrava 13


appartenere a un’altra fase della Storia. Tutto sembrava ammantato di una polvere non ancora depositata, come una piccola tempesta in un cosmo concluso e segreto. I vestiti sembravano vecchi, o quei capi ben conservati che indossano certi vecchi nei paesi in provincia. Si vedeva benissimo, e al contempo si stava come in una nebbia di là da venire, una foschia che non mi impedì tuttavia di riconoscere un dato importante. Nessuna di quelle figure era una persona vera. Quando si muovevano emettevano un ronzio, come il rumore di una motocicletta lontana imitata da un bambino molto vicino alle tue orecchie. Gli unici umani, a parte me, erano i due addetti che stavano seduti dietro il bancone, circondati da telefoni anni Cinquanta e computer contemporanei, lampade da ufficio importante e due cimici radiocomandate all’orecchio, come due guardie del corpo. Ma che corpo stavano guardando? Dov’ero finito? Il cellulare non prendeva più, e mi era appena stato intimato di rimanere fermo, in attesa di istruzioni. Era un nuovo hotel a tema? Era un’installazione? Ero nel posto giusto? Gli addetti avevano occhi ben piantati e distanti, pelle chiara, abiti scuri, non parlavano inglese: a pochi passi di distanza, le auto e i taxi e gli infiniti servizi delle strade di Londra, e il sifone continuo del rumore del parco di notte. Da molto tempo non mi sentivo come in quella parentesi di attesa e domanda. Mi sembrava di essere vivo, come nella stanza in cui aspetti i dottori con il neonato in braccio. Il nervo vago tendeva un filo tra la mente e l’ombelico. Tremavo senza tremare. Ero quasi immobile. Un ghiacciolo di fine inverno. Uno scherzo di carnevale. Cosa stava succedendo? Afferrai di nuovo il telefono dalla tasca, per provare a scattare una foto o due: qualcosa mi diceva che non era un gesto esattamente benvenuto, ma qualcos’altro mi diceva invece di seguire la voglia, che bisogna sempre seguire la voglia. E io avevo voglia di fotografare quel posto che non sapevo cosa fosse e perché, come e quanto, quando e 14


dove. Mentre armeggiavano nelle strane scrivanie di ferro che si adagiavano al denso mobile di legno cupo, non si accorsero del mio movimento eseguito con serenità da terrore, non facendolo pesare nemmeno a se stessi, come se le foto si facessero con le orecchie e non sbattendo le palpebre di uno strumento ottico. Ne scattai due. Poi uno dei due si alzò d’incanto. A differenza del primo, che aveva tutta l’aria di un portinaio di lusso, assomigliava a un armadio. Le dita facevano segno di no, e di rimettere l’aggeggio immediatamente in tasca. Non avevo mai sentito quel genere di paura, perché avevo sempre goduto della pace geopolitica europea della nostra generazione, e neanche avevo mai fatto manifestazioni o scontri con la polizia. Non avevo nemmeno fatto il militare. Aveva il sapore di una forbice, o di un insetto gigante. Gli addetti si assicurarono che cancellassi le due immagini. Ricordo di essermi promesso di rifarle – con maggiore scaltrezza. Cosa che avvenne in una delle visite successive, alla luce tagliente del sole di mezzogiorno. Ma in quell’istante non potevo nemmeno immaginare che ci sarebbe stato un mezzogiorno dopo la mezzanotte che rintoccava da un orologio d’ottone. Oggi, riguardandole, sento soprattutto il suono dell’accento russo di una ragazza scesa di corsa dallo scalone, che formula una frase in un inglese di legno chiaro: «You must be the guest of midnight».

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Qualche giorno prima di partire per Londra avevo aggiornato il mio status di Facebook con queste parole: Appartengo a quel genere di vegetali che necessitano di pressione e grazia, perchĂŠ voglio essere stressato ma con un certo grado di coraggio e purezza. La mia psicologia è basica, eppure simile a quella degli scacchisti che godono nel giocare venti partite contemporaneamente su venti tavoli differenti. L’insieme è imperante. Ogni partita q LPSRUWDQWH 2JQL IRWRJUDÂżD q XUJHQWH &RQ FKLXQTXH VL WUDWWL GL XQ giovanissimo virgulto o di una mega-multinazionale, non tiro mai fuori cose scontate, perchĂŠ ho buon gusto, e sono stato in giro, ho visto le cose bene, conosco le persone che vanno conosciute. Non dico mai di no a un invito intrigante, da chiunque provenga. Il mio ideale GL YLWD q HVVHUH VÂżGDWR VHQ]D ÂżQH 6R EHQH FKH L IUXWWL GHYRQR PRULUH per funzionare davvero. Questa piccola morte è per me familiare e DFFHWWDELOH 9RJOLR HVVHUH XVDWR 6DFULÂżFDWR I am a camera – ma una camera per la coltivazione intensiva. Ma soffro troppo, e quindi devo difendermi, quando coloro che dovrebbero scrollare i rami e usarmi si ritirano nel bosco degli indecisi. In casi del genere, domani, dopo il Lexotan, è un altro giorno.

Le parole, come sempre, erano seguite da tre emoticon:

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Cos’era accaduto? Un cliente mi aveva abbandonato, o qualcosa del genere. Ma non era una questione di lavoro o di orgoglio: era un problema di orologio mentale: ero in ritardo, sentivo un ritardo, riconoscevo un ritardo. Mi piace ricordarlo, ora, perché restituisce la temperatura che misurava la mia vita mentale in quei giorni. Mi buttavo giù. Poi mi tiravo su. Poi di nuovo giù. C’è un’espressione idiomatica inglese, trying times, che descrive bene la sensazione: provare, riprovare, provare ancora. Erano settimane di prove, ma di solito le prove preludono all’esecuzione di qualcosa, qualcosa di importante e impossibile da ripetere due volte. La vita funziona davvero così. Parli del lavoro, e intendi l’amore. Parli dell’amore e influenzi il lavoro. Parli del senso e produci un non-senso. La coscienza è un traditore seriale. Almeno la mia, nei giorni che precedevano Piccadilly 99. Il problema principale è quello che hanno tutti – la coerenza, la tenuta dell’ego, il valore – ma acuito da un senso di disprezzo per i miei limiti che non andava mai in vacanza. Certo, le mie immagini venivano richieste dai marchi di moda e da altri clienti, ma anche nei picchi di flusso di cassa, economica e sentimentale, tenevo una rigida contabilità dei miei limiti. Li sognavo persino di notte, i miei limiti – di carattere, di tempra, di moralità, di talento. Uno dei miei incubi ricorrenti era che la direttrice di un grande museo di fotografia (all’epoca pensavo ancora di sfondare come artista fotografo) mi spiegava con secchezza l’esatta conformazione di quei limiti: «Tu hai già fatto la tua fiammata, e la tua fiammata è questa, queste cose che hai già fatto. Inutile insistere ancora. Lascia perdere. Sei inservibile al progresso di questo linguaggio». Aveva le gote puntate di efelidi e gli occhi azzurro cenere, e una capigliatura rossastra che a volte svelava il teschio del suo viso. Ma era una persona competente, tutti la ritenevano competente. Io la ritenevo così competente che ogni due o tre anni 17


andavo davvero a farmi leggere il portfolio delle immagini che pensavo avrebbero costituito il corpus del mio monumento artistico. E naturalmente era un po’ più falsa e cortese di come squillava nel sogno, ma il succo era molto simile: un acido richiamo a cambiare strada, che quella della fotografia seria, da museo, non era la mia. Si chiamava Paolina, tutti la chiamavano Paoli, e per molte stagioni il mio più grande desiderio fu di vederle scintillare sui denti e sugli occhi lo stesso gradiente di entusiasmo caldo che riservava ai suoi fotografi protetti, quelli che io non sarei mai stato. Paoli aveva frequentato alcuni workshop fondamentali di Jeff Wall e Stephen Shore a Schloss and Solitude, un castello tedesco che con fondi pubblici attraeva in una piccola cittadina di provincia i più grandi maestri del contemporaneo negli anni Novanta – facendone un luogo dove si è reinventato il modo di pensare la fotografia. Dopo andò in America, al Bard College, e finì per portare alla Biennale di Venezia una sezione permanente dedicata alla fotografia. Per chi provava a dire qualcosa con le immagini e la realtà, Paolina era il Papa. Fu a lei che corse il primo pensiero quando la ragazza scesa a darmi il benvenuto mi accompagnò lungo i corridoi e le scale che portavano al grande salone dove avrei capito dov’ero. Tutto, in quei corridoi e lungo quei gradini, riportava alla mente la grande occasione che aspetta ogni occhio fotografico che abbia inciso davvero: un pezzo di mondo insieme interrotto e ininterrotto, naturale e artificiale: le pareti rosse, tappezzeria a buon mercato ma illuminata con sapienza teatrale. Cimeli sovietici che se non erano autentici lo sembravano. Quadri con antiche cartoline in bianco e nero di Odessa o Ekaterinburg. E i soliti manichini, sistemati ovunque lo spazio permettesse una piccola area di sosta dell’arredamento. Se Paoli fosse stata lì, o se avesse messo le mani sulle foto che avrei potuto realizzare se soltanto mi avessero concesso 18


un istante di disattenzione, avrebbe chiosato con le tipiche conclusioni che nascondono la profondità talmente bene da farla ammalare e sparire. Qualcosa come: «Se molti fotografi esplorano lo spazio, questa serie di icone rubate da un iPhone nascosto alla bell’e meglio rivelano qualcosa di più della natura dello spazio che ritraggono. Al centro, brilla lo spazio di un viaggio nel tempo». Ma in questo frangente l’equivoco dello spazio al posto del tempo aveva più pertinenza che mai. Non sapevo ancora dov’ero, ma sentivo a ogni passo una completa distanza dal presente: sapevo quand’ero.

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