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Marcello Ghilardi – Ilenia Salerno

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Estetica e immaginario di un nuovo scenario giovanile Prefazione di Luca Giuliano

Lapilli. Culture 12


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I edizione: ottobre 2007 Copyright © Tunué S.r.l.

ISBN-13 / GS1 978-88-89613-27-6

Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.

Stampa e legatura: Tipografia Monti Srl Via Appia Km 56,149 04012 Cisterna di Latina (LT) Italy

Via degli Ernici 30 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com

Progetto grafico: Daniele Inchingoli Grafica di copertina: Marco Milanese © Tunué Illustrazione di copertina: Roberto Terrinoni © Roberto Terrinoni/Tunué


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Indice

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Prefazione di Luca Giuliano

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Capitolo I – Cos’è un «gioco di ruolo»? I.1 Gli esordi I.1.1 La serie di Dragonlance I.1.2 La rivista Kaos I.2 L’origine di un nome I.2.1 I libri-game I.3 Elementi definitori del GDR I.3.1 Interpretazione e recitazione I.3.2 Interazione tra i giocatori I.3.3 La figura del narratore/guida I.3.4 Il sistema normativo I.3.5 Ambientazione e tipi di GDR I.3.6 Tempo e spazio nei GDR I.3.7 La sorte I.4 I figli dei giochi di ruolo I.4.1 Il gioco di ruolo dal vivo I.4.2 I GDR per computer I.4.3 Il GDR on line I.4.4 Giochi di carte

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Introduzione

Capitolo II – Giochi di ruolo e società I GDR in Italia negli anni Novanta II.1 Gioco e ruolo come categorie sociali II.2 La riscoperta dei GDR nella società occidentale


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66 II.3 La trasformazione del cosiddetto «immaginario sociale» 72 II.3.1 Una breve nota a margine. GDR e giocatori «famosi» 73 II.4 Il GDR e l’opinione pubblica. I processi negli anni del boom

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Capitolo III – Piccola filosofia del gioco (di ruolo) III.1 Immaginazione, fantasia, creazione III.2 I GDR tra immaginazione e fantasia III.3 Il gioco e il fantastico III.4 Giocare e immaginare III.5 Il GDR come costruzione di testi e come sistema complesso III.6 Giocare, fingere, recitare: fare sul serio III.6.1 Un’estetica del gioco

109 Capitolo IV – La funzione educativa del gioco di ruolo Un’esperienza sul campo 109 IV.1 Una necessità interiore 110 IV.1.1 The play must go on 110 IV.1.2 A neverending story 112 IV.2 Pedagogia del gioco di ruolo 113 IV.2.1 Il patto ludico 113 IV.2.2 Materia e consumo 115 IV.2.3 Realtà e finzione 116 IV.2.4 Giochi di rappresentazione e narrazione 118 IV.3 Passato, presente e futuro 119 IV.3.1 Eroismo e modernità 121 IV.4 Liberté, égalité, fraternité 123 IV.5 Un giocatore speciale: il Master 125 IV.6 Teoria e problemi dell’agire pedagogico 130 IV.6.1 Filosofia e educazione 132 IV.7 Un’esperienza sul campo: adolescenti e giochi di ruolo 132 IV.7.1 Due casi particolari 134 IV.7.2 Storie nella storia 136 IV.7.3 Un gioco maschile 139 IV.8 GDR, educazione e crescita


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Capitolo V – Dialogando con i giocatori V.1 Scoprire i GDR V.2 Crescere con i giochi di ruolo V.2.1 Il campionato di Dungeons & Dragons V.2.2 Il torneo V.2.3 I ruoli nel ruolo V.2.4 Giochi on line, giochi di carte e live action role playing V.2.5 Amicizie

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Riferimenti bibliografici

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Conclusioni


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Prefazione

di Luca Giuliano1

Il gioco di ruolo è arrivato in Italia con un articolo scritto da Sergio Masini per il terzo numero della rivista Pergioco: «Viaggio simulato nel mondo fantasy». Era Natale 1980 e fu una sorpresa e un regalo affascinante per molti di noi, allora. Noi, lettori di Pergioco. Un’intera generazione stava scoprendo il mondo del gioco come evento culturale attraverso una rivista mensile venduta nelle edicole con una distribuzione nazionale. Un fatto straordinario. Qualcosa di irripetibile. E che infatti non ha mai più avuto seguito – a parte la brevissima esperienza di Giochi Magazine, 11 numeri dal maggio 1987. Pergioco terminò le pubblicazioni nel luglio 1984, dopo un successo durato 42 numeri. La rivista importava in Italia la fortunata formula del bimestrale francese Jeux et Stratégie che aveva iniziato le sue pubblicazioni nel gennaio 1980 e che fu più longevo con una durata di ben dieci anni di vita. Prima di Pergioco, l’unica presenza rilevante della cultura ludica in Italia era stata la «pagina dei Wutki», su Linus, già dal 1966, ma dedicata quasi esclusivamente agli enigmi matematici e linguistici. In questa carrellata di ricordi non posso dimenticare la pubblicazione, sempre per Linus, dei regolamenti e dei soldatini di carta de La battaglia di Waterloo e La battaglia del Lago Ghiacciato, disegnati da Guido Crepax in esclusiva per gli omaggi agli abbonati e in seguito venduti nei negozi della Città del Sole. 1 Luca Giuliano è professore di sociologia presso l’università «La Sapienza» di Roma, dove insegna Metodologia delle scienze sociali e Strategie di narrazione ipertestuale. Ha creato i giochi di ruolo On Stage! (Firenze, DaS, 1995) e, insieme ad altri autori, I Cavalieri del tempio (San Remo, Rose and Poison, 2005). Ha scritto inoltre numerosi saggi circa la simulazione e i giochi di ruolo, tra cui In principio era il drago (Roma, Proxima, 1991), La maschera e il volto (con Alessandra Areni, Roma, Proxima, 1992), I padroni della menzogna (Roma, Meltemi, 1997), Inventare destini. I giochi di ruolo per l’educazione (con Andrea Angiolino e Beniamino Sidoti, Bari, La Meridiana, 2003) e Il teatro della mente (Milano, Guerini & Associati, 2006).


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Già, i negozi della Città del Sole. Ecco un altro passaggio obbligato per chi vuole percorrere la storia del «gioco per adulti» in Italia (o dei giochi intelligenti, come si usava dire). Al di là di una cerchia ristretta di appassionati che da qualche anno si dedicava ai giochi di simulazione comprando materiale originale all’estero, soprattutto nel Regno Unito e negli USA, è stato il circuito della Città del Sole a importare Dungeons & Dragons in Italia: la famosa «scatola rossa» che tutti noi giocatori di ruolo della prima ora abbiamo afferrato con gioia per poi lasciarci possedere dalla sua magia… e ancora ne siamo rapiti, ora che gli anni, secondo la tradizione, ci vorrebbero consegnati alla saggezza. Niente affatto. Quando si oltrepassa almeno una volta quella soglia che ci permette di entrare e uscire consapevolmente dall’Altrove del mondo, ci si lascia alle spalle questi luoghi comuni e si continua a giocare con l’in-lusio (in ludus), come fanno da sempre gli artisti di ogni genere e coloro che fedelmente li seguono nelle loro fantastiche scorrerie. Il gioco di ruolo fu, allora, una scoperta sorprendente. Il «vero» gioco di ruolo: quello che si svolge seduti intorno a un tavolo, guardandosi in faccia, con la voglia di condividere pienamente un’esperienza che si compie attraverso la parola e ciò che la parola evoca nella mente dei giocatori. Una parola che si fa immediatamente azione: un atto linguistico performativo. Il libro di Marcello Ghilardi e Ilenia Salerno che avete tra le mani in questo momento è dedicato a «questo» gioco di ruolo. Anche se vi sono accenni agli sviluppi complessi cui questo modello di gioco ha dato vita in poco più di trent’anni (libro-gioco, gioco di ruolo dal vivo, adventure per computer, MUD, MMORPG ecc.), e che io stesso ho cercato di inventariare e classificare sotto il nome di «letteratura interattiva», il percorso che essi hanno privilegiato nella loro analisi pedagogica ed estetica è quello che ci riporta alle origini, con giocatori in carne e ossa che interpretano personaggi, in sequenze narrative senza una fine prestabilita e, soprattutto, senza vincitori né vinti. Per me, che ho avuto il privilegio di leggerlo prima di voi, è stata l’occasione, dopo tanti anni, per ripensare a quella scoperta e per reintepretare alla luce del presente ciò che è stato più significativo in quella esperienza.


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Prima di tutto la mia attenzione fu attratta dal «gioco della vita». La simulazione di vite possibili (o impossibili) in una infinità di mondi coerenti, verosimili, abitabili, in cui poter entrare e uscire a piacimento. Il gioco delle identità fittizie che si intrecciano in una rete di narrazioni e pongono in essere realtà alternative in cui esplorare aspetti inconsueti della propria personalità, in cui «far finta di essere un altro». Qui si solleva il velo di una polemica che ha attraversato il gioco di ruolo già dai suoi primi anni di vita e che continua ad appassionare chi pensa al gioco come materiale di invenzione e riflessione anziché limitarsi a una immediata fruizione ludica. Si è detto spesso che i giochi di ruolo della prima generazione, in particolare Dungeons & Dragons, fossero soprattutto dei giochi di simulazione e problem solving inadatti per sviluppare vere e proprie narrazioni condivise. Si diceva, allora, che la costruzione del personaggio per «classi», l’allineamento morale troppo rigidamente precostituito, il flusso delle azioni fortemente ancorato al combattimento contro creature mostruose e al ritrovamento di tesori e oggetti magici, fossero chiavi troppo semplicistiche per permettere ai giocatori di esprimere un’interpretazione del personaggio ricca di sfumature e per dare vita a narrazioni intense e coinvolgenti. Solo successivamente, e in particolare a partire dalla fine degli anni Ottanta, il gioco si è evoluto nella vera e propria forma della «narrazione condivisa», sebbene il capostipite (anche nella terza edizione attualmente in commercio) sia rimasto fondamentalmente fedele a quella visione che alcuni giocatori hanno definito EUMATE: «entra, uccidi mostri, afferra tesori, esci». Credo che questi rilievi critici avessero qualche fondamento. L’evoluzione successiva dei sistemi di gioco ha permesso di correggere questi limiti e di arricchire il gioco di ruolo di nuovi modelli e nuove ambientazioni, traendo ispirazione dal vasto campo della narrativa popolare di ogni genere, dal cinema e dal fumetto. Tuttavia non tutti sono consapevoli, forse perché non hanno seguito gli sviluppi del gioco di ruolo nel tempo, che la narrazione inevitabilmente sottrae qualcosa al gioco, dovendo rispondere a criteri di concatenazione degli eventi che esercitano una coercizione sulle scelte dei giocatori per sottometterli al conseguimento di una coerenza che dipende da un campo limitato di esiti possibili. Il gioco di ruolo, molto prima di essere l’attualizzazione


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di un percorso narrativo, è soprattutto una matrice potenziale di possibilità, una disposizione di elementi che attendono ancora di prendere forma e che nel dare vita a un itinerario specifico giunge a una sorta di cristallizzazione in cui una delle infinite trame che potevano essere raccontate ha preso la sua forma definitiva e irrevocabile. Questa libertà di raccontare storie è sottoposta al rischio dell’incoerenza, del gesto distruttivo, del caos creativo che non trova una soluzione, non trova una convergenza verso un fine riconoscibile. Tutto vero. Eppure, cercando di predisporre, in anticipo, alcune direzioni di sviluppo più coerenti e concatenate tra loro, viene a mancare la spontaneità del «gioco della vita» che ci vede sempre tutti responsabili delle nostre azioni, seppure sottoposti al peso delle circostanze. Il valore pedagogico del gioco di ruolo, la sua forza morale che è molto potente anche al di là delle intenzioni di chi lo utilizza, sta invece nella volontarietà dell’azione da parte del personaggio-giocatore, e quindi nell’etica della responsabilità che nasce dalle sue decisioni, nel mantenimento di quella finzione che permette al gioco di continuare e nella conseguente negoziazione delle regole attraverso le quali egli esprime una libertà che non minaccia, anzi garantisce, la libertà degli altri personaggi-giocatori di esercitare le loro scelte. Il «gioco della vita» assume come punto di vista quello del giocatore che interpreta il personaggio, e gran parte del suo fascino deriva dalla libertà che il giocatore ha di compiere le proprie scelte, di essere padrone del proprio destino attraverso la parola detta (il dialogo con gli altri giocatori e l’interazione con il master-narratore) e il lancio dei dadi (il gesto che porta all’esito irrevocabile dell’azione). Il secondo elemento di attrazione del gioco di ruolo nasceva invece dall’assunzione del punto di vista opposto, quello del master, del narratore (determinante, per me che ho svolto quasi sempre questa funzione). Ciò che mi affascinò sopra ogni altra cosa – ed è così anche oggi – era la possibilità di raccontare una storia che si formava di volta in volta come risultato di una sfida e di un confronto tra la fantasia convergente del narratore e la fantasia divergente dei giocatori. È inutile negarlo. Il narratore rappresenta la volontà della storia di intraprendere uno degli itinerari possibili tra la rete dei percorsi potenziali. È questo quello che fa qualsiasi narratore che si rispetti quando inizia a creare i suoi perso-


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naggi, a delinearne i caratteri e gli eventi che li caratterizzano fino a costruire l’intreccio della storia. In un gioco di ruolo però i personaggi non seguono le indicazioni del narratore, decidono per conto proprio. Il narratore ha un solo modo per mantenere il controllo della storia, assumere il ruolo di demiurgo, assumere la parte di dio nel «gioco della vita». E allora ecco che va in scena quel particolare meccanismo di regolazione della libertà che rende il gioco di ruolo davvero unico. Il master-narratore crea la sua rete di illusioni, attraverso difficoltà, incidenti, misteri impenetrabili, pericoli che solo le volontà eroiche dei protagonisti possono affrontare. Nello svolgimento dell’avventura l’illusione stessa si rende plausibile all’esperienza dei personaggi, diventa la realtà in cui essi si muovono come potenziali vittime, svelando attraverso le loro azioni i segni di una pianificazione a opera degli antagonisti impersonati dal narratore stesso. Questo, di solito è il climax della storia: il disvelamento di una realtà narrativa che era nascosta dietro il velo dell’illusione e che i personaggi-giocatori hanno smascherato. Infine c’è la conclusione che deve essere aperta a molti esiti e giudizi, non essendoci un lettore che attende di essere portato per mano verso un finale, ma essendoci invece dei giocatori che hanno diritto a sentirsi co-autori della storia, fino ad accettarne l’esito negativo, se sarà questo il risultato delle loro scelte. Il vero gioco di ruolo sta nel difficile equilibrio tra il «gioco della vita» e il «gioco di dio» e questo equilibrio può nascere soltanto all’interno di un lavoro di gruppo e di un’esperienza di interazione faccia a faccia. Tutto il resto (soprattutto il gioco di ruolo on line) è soltanto un pallido riflesso (sebbene importante e oggi prevalente nella cultura di massa) di questa esperienza unica. Marcello Ghilardi e Ilenia Salerno esprimono una piena consapevolezza di questa esperienza con una lettura originale e utile di temi che non cessano di presentare aspetti nuovi e interessanti. L.G. Roma, febbraio 2007


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Agli amici Il senso supremo della funzione fantastica, levata contro il destino mortale, è dunque l’eufemismo. Cioè esiste nell’uomo un potere di migliorare il mondo. GILBERT DURAND


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Il libro è stato pensato e redatto insieme dai due autori, quindi ha un carattere comune e unitario. Tuttavia, se si vorrĂ ascrivere a ciascuno dei due una parte determinata, Marcello Ghilardi ha scritto l’Introduzione, i Capitoli I, II, III, e il Paragrafo V.1 del Capitolo V; Ilenia Salerno ha scritto il Capitolo IV e il Paragrafo V.2 del Capitolo V. Le Conclusioni sono state redatte insieme dai due autori.


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Introduzione Ciascuno di noi […] si crede «uno solo», ma è falso. Egli è «cento», signore, è «mille», secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: è «uno solo» con questo, «uno solo» con quello – e questi «uno solo» differiscono per quanto è possibile. E questo, al tempo stesso, con l’illusione di essere sempre «uno solo per tutti», e sempre questo «uno solo» che noi crediamo di essere in tutte le nostre azioni. LUIGI PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore

Il mondo dei «giochi di ruolo», per com’è venuto configurandosi negli ultimi trent’anni, ha raggiunto una diffusione e un apprezzamento su scala planetaria. Esso ha ispirato anche altri mondi legati alla dimensione della cosiddetta pop culture, come i fumetti, i disegni animati e il cinema. A loro volta, i giochi di ruolo sono stati ispirati in origine dal mondo della narrativa fantastica, dai wargame – giochi di strategia militare che spesso riproducono battaglie storiche – e dai boardgame, che si basano sullo stesso principio dei primi ma utilizzano scenari ed eserciti senza attendibilità storica. A questo mondo variegato e multiforme sono stati dedicati negli ultimi anni diversi studi, in Italia e soprattutto all’estero, anche se una vera e propria letteratura scientifica – che consideri i giochi di ruolo nei loro aspetti pedagogici, sociali, antropologici, filosofici – non si è ancora del tutto affermata e diffusa. In Italia, a partire dai primi anni Novanta, alcuni degli studiosi più attenti e informati sono stati Luca Giuliano, Beniamino Sidoti e Andrea Angiolino, che ne hanno analizzato le potenzialità educative e sociali. Inizialmente non sono stati in molti a seguirne le tracce; la tendenza dominante era quella di un giornalismo d’assalto, che cercava più lo scoop per esaltare o denigrare questa pratica ludica, che non lo studio attento e informato. Dallo scorso decennio, epoca in cui questo tipo di giochi cominciava ad avere un seguito non più solo di estrema nicchia, si sono però creati progressivamente centri di studio nelle università e gruppi di ricerca, come per esempio presso la facoltà di Milano Bicocca, nuove modalità di


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approccio a un fenomeno rimasto per lungo tempo relegato agli ambienti delle cosiddette «sottoculture» giovanili. Tali sottoculture sono state a lungo stigmatizzate, nonostante il numero crescente di studi ben documentati. La prima metà degli anni Novanta ha rappresentato in Italia il culmine della scissione: la passione per i giochi di ruolo, talmente diffusa da decretarne quasi una moda, e l’acrimonia di certe critiche – in particolare da parte di associazioni di genitori e di giornalisti e opinionisti – di rado dettate da una presa di posizione consapevole, non lasciavano spazio a discussioni argomentate. Oggi tuttavia i giochi di ruolo – pur non godendo del successo di vendite di dieci o quindici anni fa – si sono assestati come una realtà «normale» nel panorama ludico italiano, ed è quindi possibile riprendere il filo di certi discorsi, e unirli agli studi già avviati. Sebbene le dinamiche dei giochi di ruolo tradizionali restino poco note alla cognizione dei più – soppiantate dalle versioni evolute per i videogame – alcuni studi hanno mostrato come, esplicitandone i contenuti, se ne favorisca l’accettazione e la maggiore comprensione anche da parte di chi se n’è sempre tenuto alla larga.1 Inoltre, delucidarne alcuni aspetti, anche per chi si è sempre limitato al gioco «giocato» senza mai intenderne gli aspetti più sottili o profondi, può evidenziare in essi una ricchezza altrimenti insospettata. Se accettiamo una definizione complessa di cultura, che la vede composta da un insieme di fenomeni sociali, dall’arte alla politica, dalla religione allo sport, non possiamo escludere la componente del gioco come fattore fondamentale nella costruzione di una società e di un complesso culturale, definito in un tempo e in uno spazio;2 gioco che non va isolato, ma visto nel contesto in cui opera e viene agito, letto, studiato – quin1 Cfr. per esempio gli studi di Eric W. Swett, Internal and External Perspectives on the Role playing Gamer Subculture, Senior Research Paper in Social and Behavioural Science, McMinniville (Oregon), Linfield College, 2002; Sönke Tews, Fantasy-Rollenspiele in der Jugendkultur: Eine pädagogische Erörterung, Schriftliche Hausarbeit im Rahmen der Ersten Staatsprüfung für das Lehramt an der Oberstufe – Allgemeinbildende Schulen im Fach Erziehungswissenschaft, Hamburg, Hamburg Universität Verlag, 1999; Aram Ziai, Das Rollenspiel aus soziologischer Sicht. Auswirkungen und Gefahren, Aachen, RWTH Verlag, 1995; Jean Sébastian Dubé, Jouer (dans) le texte. Des jeux de rôle aux médias interactifs narratifs informatisés, Montréal, Presses de l’Université Concordia, 1997; e la rivista edita da Andrew Rilstone e James Wallis, Inter*Action – The Journal of Role playing and Storytelling Systems, London, Hogshead Publishing, uscita con il primo numero nell’agosto del 1994. 2 Cfr. a questo proposito il lavoro di Johan Huizinga, Homo ludens (ed. or. Homo ludens, The Hague, Mouton, 1938), Torino, Einaudi, 1973, che abbiamo tenuto sempre presente nella redazione di questo


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di non può essere impiegato come categoria invariante e monolitica in base a cui ricomprendere e indirizzare ogni analisi. Ci sono giochi e giochi; e uno stesso gioco, pure, si trasforma con il mutare delle età (del gioco stesso e delle sue evoluzioni, di chi lo gioca, e della società in cui si attua). Per questi motivi qui non si vuole tanto fornire un quadro metodologico o una «morfologia» dei giochi di ruolo, quanto tentare una sorta di affresco che renda conto di alcuni loro aspetti rilevanti, specialmente dal punto di vista sociale e pedagogico. In questo lavoro si propone un approccio al mondo e al lavoro dell’immaginazione – «lavoro» nel senso di operatività funzionale, di capacità di attuazione di energie – dal sapore romantico, cioè collegato alle teorie estetiche e filosofiche del Romanticismo. L’idea di «finzione» sottesa ai nostri discorsi non è quella di una verità mancata, di un regime in cui il vero sia addirittura escluso; al contrario, «finzione» si intende qui come possibilità di configurazione e di comprensione dei fenomeni.3 Le possibilità di attribuzione di senso a un’esperienza – che è in primis il giocare stesso, ma che dal giocare si può e si vorrebbe estendere all’orizzonte più vasto delle esperienze quotidiane – vogliono considerare la produttività della finzione come possibilità da parte del soggetto coinvolto di «esporsi» a un evento – il gioco, appunto – che lo trasformi e gli apra scenari imprevisti e ricchi di ulteriori potenzialità. Il gioco è creativo anche in questo senso, ed è per questo che ogni gioco partecipa in modo più o meno diretto alle caratteristiche creative proprie delle arti.4 Al tempo stesso, questo quadro teorico non può esimersi dal confronto con la realtà concreta nella quale sono calati, prodotti, distribuiti e «agiti» i giochi di ruolo e le manifestazioni, gli incontri, gli artefatti a essi legati. In altre parole, come ogni prodotto commercializzabile della nostra contemporaneità, questi giochi e il corredo di immagini che vi si accompagnano non appartengono più (o non soltanto) «all’altrove creato dalla facoltà creativa dell’immaginazione», ma sono ormai «la forma

lavoro; e quello altrettanto famoso di Eugen Fink, Il gioco come simbolo del mondo (ed. or. Spiel als Weltsymbol, Stuttgart, Kohlhammer, 1960), Firenze, Hopeful Monster, 1991. 3 Cfr. Silvana Borutti, Filosofia dei sensi, Milano, Raffaello Cortina, 2006, pp. XXXIV-XXXV. 4 «Creazione indica qualcosa di molteplice: ogni atto per cui una cosa passa dal non-essere all’essere è creazione, per cui tutte le operazioni usate nelle singole arti sono creazioni e i loro artefici sono creatori» (Platone, Simposio, 205b-c; trad. nostra).


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estetica portante di un’economia fondata sulla comunicazione mediale».5 Maghi, guerrieri, draghi appartenenti al mondo fantasy che ha riempito i bestiari di gran parte dei giochi di ruolo; vampiri, uominilupo, mostri di Frankenstein nei quali si possono imbattere gli intrepidi personaggi interpretati dai giocatori di ruolo non sono più soltanto simboli o forme del mito, ma immagini e strumenti di un’economia «libidinale» che veicola desideri e proiezioni invece di merci dotate di un valore d’uso effettivo. Come «il lavoro della comunicazione pubblicitaria consiste […] nel trasformare i beni in rappresentazioni»,6 così l’insieme delle campagne pubblicitarie e delle immagini proposte dai mass media propongono continue ri-simbolizzazioni e ri-soggettivazioni ai consumatori di prodotti o ai fruitori di spettacoli e di «esperienze» attraverso l’offerta fantasmatica di mondi di valori e pratiche di identificazione. Queste pratiche dell’immaginario, di cui la pubblicità è l’esempio più lampante, non ci vogliono felici come pretendono, cioè non ci vogliono «soggetti di senso», perché «l’uomo felice non consuma».7 Cosa c’entra tutto questo con i giochi di ruolo? L’intera industria retrostante a questo tipo di giochi, in linea con i processi globali del capitalismo culturale, «si appropria non solo dei significati della vita culturale e delle forme artistiche che tali significati interpretano, ma anche dell’esperienza vissuta».8 Il rischio – ma più che rischio, ormai, è un dato scontato – è che le forme di godimento presenti nel gioco e le possibilità di crescita legate alla pratica dei simboli siano oggi nient’altro che meccanismi di proiezione di desideri indotti o di assoggettamento a imperialismi culturali. Quanti dodicenni conoscevano l’opera di Tolkien prima di aver visto Il signore degli anelli al cinema? Molto pochi, in rapporto a quelli che ora dicono di «conoscere la storia». Poco male, si

5 Fulvio Carmagnola, Il consumo delle immagini, Milano, Bruno Mondadori, 2006, p. 2 (corsivo dell’autore). 6 Ivi, p. 14. È interessante il rilievo, citato dall’autore, di un noto autore di romanzi a proposito della smaterializzazione della merce e dell’investimento odierno di energie in tecniche pubblicitarie: «oggi la maggior parte della creatività è rivolta alla commercializzazione dei prodotti invece che ai prodotti stessi, che siano scarpe da ginnastica o lungometraggi». William Gibson, L’accademia dei sogni (ed. or. Pattern Recognition, New York, Putnam’s Sons, 2003), Milano, Mondadori, 2004, p. 74. 7 S. Borutti, op. cit., p. 71. 8 Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della New Economy (ed. or. The Age of Access, New York, Tarcher/Putnam, 2000), Milano, Mondadori, 2002, p. 193-94, citato in F. Carmagnola, op. cit., p. 15.


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potrebbe ribattere: il fatto che un mezzo come il cinema estenda la conoscenza di certe narrazioni non è in sé un male: chi vorrà, potrà eventualmente approfondire con la lettura. Eppure, di quanti si può dire che si siano avvicinati al mondo della mitologia norrena, o abbiano letto l’Edda di Snorri Sturluson sollecitati dagli innumerevoli gadget che hanno costituito il merchandising a cui il film di Peter Jackson ha fatto da traino? Fulvio Carmagnola ha ben espresso il fondamento di questo meccanismo: il consumo partecipa alla rielaborazione delle icone narrative mediali dell’immaginario […]. L’estetizzazione del mondo della vita entra a far parte della produzione allargata [tanto che] i luoghi della mente e i luoghi della merce si corrispondono. […] C’è dunque un’economia finzionale e c’è un capitalismo dell’immaginario, una capitalizzazione, una messa a profitto della capacità di finzione degli esseri umani.9

Sembrerebbe finita ogni possibilità di immaginare «liberamente», senza essere in realtà già a priori «immaginati», eterodiretti dall’insieme dei meccanismi dell’immaginario mediale, che impongono di quali immagini servirsi e disporre nelle nostre pratiche. Se non esiste più uno spazio alternativo all’immaginario mediale, che anticipa sempre le nostre possibilità creative, allora non è nemmeno possibile alcuna «controcultura dell’immaginario» che ci sganci dall’essere già, da sempre, agiti, pensati, diretti dall’onnipervasività dei media. Perché è proprio da quell’immaginario mediale, che ne siamo consapevoli o no, che traiamo le nostre idee ed elaboriamo le nostre immagini private. Nulla può opporsi a questo «calcolo dell’economia», che governa addirittura le passioni, le finzioni, le forme di divertimento e di svago? Forse proprio il ritrovare una dimensione ludica nelle nostre pratiche, anche quotidiane. La logica del gioco – sviamento, ma anche apparizione di nuovi aspetti di senso – somiglia a quella del dono. Come nel dono, anche nel

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F. Carmagnola, op. cit., pp. 20-24.


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gioco vi è un détour rispetto alla logica dell’equivalenza mercantile […]. Il gioco non si svolge dunque al di fuori del dominio della merce, […] può funzionare solo come détour interno allo stesso irreversibile processo di mercificazione. Instaura una differente potenzialità di senso usando gli stessi materiali e le stesse energie messe in campo dal processo di mercificazione, dall’universalizzazione del valore di scambio. E come il dono, il gioco «fa nascere qualcosa» – un inaspettato, un supplemento gratuito.10

Carmagnola si riferisce qui a un tipo di gioco come forma di un’educazione estetica che sappia muoversi criticamente nel mondo delle merci mediatizzate, che sappia discernere, riconoscere, «rilevare i tratti di un possibile contorno significativo nel caos delle apparenze». Il gioco di ruolo può facilmente essere riassorbito dalle logiche del mercato: si gioca così come si consuma un prodotto reclamizzato, si interpretano modelli di avventure e personaggi forniti da un sistema a sua volta ricompreso dall’onnipervasiva logica mediale e consumistica. Tuttavia, questo tipo di gioco può sempre essere la porta d’accesso a una «esperienza paradossale di qualcosa che non si dà nell’esperienza»11 comune, che sviluppa una logica alternativa e produce nuove forme di stupore e di attenzione per l’ordine nuovo che crea attorno a sé anche nei luoghi all’apparenza più «contaminati» dall’immaginario prodotto da capitalismo culturale e mass media. Incoraggiando lo sviluppo e la cura per un simile tipo di gioco – o meglio, per un simile atteggiamento nei confronti di questo tipo di gioco – non si vuole ambire al ritorno a un immaginario puro o a una vagheggiata dimensione simbolica come se dovessimo salvarci da un ipotetico totalitarismo delle immagini mediali in cui siamo immersi, volenti o nolenti. Si tratta piuttosto di decidere quale uso fare delle immagini e dei miti che ci vengono consegnati, in qualunque modo ci vengano consegnati. Immaginario o simbolico è l’uso che facciamo delle figure del mito e delle metafore in cui ci imbattiamo, andando al cinema, leggendo fumetti, giocando o anche studiando testi filosofici; altrimenti si 10 11

Ivi, p. 188. S. Borutti, op. cit., p. 147 (corsivo dell’autrice).


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lascia spazio al rischio di far scadere ogni gioco a mero divertissement, funzionale a un sistema che dona ai suoi soggetti l’illusione della libertà solo per poterli tenere meglio sotto controllo. Del resto il trasferimento, lo scambio, la contaminazione dal simbolico all’immaginario, dal libero gioco delle immagini all’inconsapevole accettazione di modelli culturali indotti, è una costante: si tratta di una dialettica che si accentua ed esplode nel mondo contemporaneo ma che sempre è stata attiva e operante. Per comporre questa scissione tra una ricerca del valore del simbolo e il suo dissolversi nella mercificazione dei valori, è necessario un pensiero che sappia vedere insieme l’unità e la differenza dei due aspetti, al tempo stesso collegati e distinti; un pensiero che si rivolge tanto ad appassionati quanto a semplici curiosi dei giochi di ruolo, ma anche a educatori, genitori, insegnanti e a tutti coloro che, per passione o per mestiere, sono interessati ad affrontare alcune dinamiche che attraversano l’insieme sfaccettato della cultura giovanile contemporanea.

I Capitoli di questo libro possono essere letti sia come tappe di un percorso continuo e unitario, che affronta un tema da diverse angolazioni – storica, sociologica, filosofica e pedagogica – sia come unità a sé stanti e indipendenti. Il Capitolo I traccia per sommi capi la storia dei giochi di ruolo, rintracciando le origini del nome e i tentativi compiuti dai primi autori che proposero nuove modalità di gioco negli Stati Uniti, intorno alla metà degli anni Settanta. Sebbene la storia dei giochi di ruolo sia già stata narrata, in modo più o meno sintetico, in altri testi (cfr. la Bibliografia in fondo al volume), è sembrato opportuno ripresentarla al lettore, sia per facilitare la sua lettura degli altri Capitoli, che altrimenti resterebbero privi di riferimento a un quadro storico ben preciso, sia perché i testi che hanno descritto questa storia non sono sempre di facile reperimento, perché fuori catalogo o editi in altri paesi. Il Capitolo II propone qualche spunto di riflessione sociologica e di costume, relativamente al grande successo e alla parallela stigmatizzazione da parte di alcuni giornalisti e gruppi di opinione nei confronti della «moda» dei giochi di ruolo, arrivata in Italia tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Il nostro interesse si è rivolto a un insieme di fenomeni di costume e di pratiche di gioco, e ad alcuni effetti che


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queste hanno prodotto e producono tuttora in alcuni ambiti delle sottoculture giovanili, che hanno segnato, nel bene e nel male, almeno un decennio di cultura popolare italiana, pur non raggiungendo mai le dimensioni di un vero e proprio fenomeno di massa. Il Capitolo III ha il compito di delineare nei suoi tratti essenziali una sorta di «filosofia del gioco», calibrando l’attenzione e le riflessioni sui role playing game e mettendoli in rapporto con alcune riflessioni di estetica e di teoria della letteratura. Il Capitolo IV, integrando elementi di riflessione filosofica con la concretezza di un’esperienza sul campo, si propone di mostrare come il gioco di ruolo possa essere adottato con efficacia anche in campo pedagogico, come strumento utile a sviluppare e migliorare certe qualità interrelazionali e decisionali; in questo caso il gioco di ruolo certo non si deve intendere come sostituto dell’attività didattica tradizionale, né come forma di psicoterapia di gruppo; esso però si rivela momento non solo di svago e ricreazione, ma anche di crescita comune e di approfondimento dei meccanismi inconsci che regolano il nostro vivere in relazione con gli altri e con noi stessi. Si aggiungono in appendice due brevi interviste, o meglio i resoconti di due dialoghi. Il primo incontro è stato possibile grazie alla disponibilità e alla simpatia di un giovane giocatore, che si affaccia per la prima volta sul mondo dei giochi di ruolo; è stato interpellato per presentare l’esempio – tra i mille possibili – di una passione al suo stadio iniziale, per capire come può succedere di avvicinarsi a questo mondo. Il secondo è stato realizzato con un giocatore e appassionato più esperto (pur essendo ancora relativamente giovane) che, negli anni, ha approfondito il suo interesse ed è diventato ora anche un organizzatore di eventi importanti legati ai giochi di ruolo. L’intento è stato quello di mettere a confronto due età e due realtà diverse, che possono incontrarsi e dare un’immagine di quello che si fa, si pensa, si vive con questo tipo di giochi. Parafrasando un pensiero di Wittgenstein, si può dire che una riflessione sul gioco è un lavoro su sé stessi, sul proprio modo di pensare; sul proprio modo di vedere le cose.12 Al di là di una presentazione, più o 12

Cfr. Ludwig Wittgenstein, Filosofia, Roma, Donzelli, 1996, p. 5.


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meno completa, di un mondo ricco e per certi versi complesso e contraddittorio, l’ambizione e la speranza che animano questo testo sono quelle di offrire un contributo al lettore per un analogo lavoro sul proprio modo di pensare. Ringraziamenti

Desidero ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la realizzazione di questo libro: in particolare Adriano Zenilli, che mi ha guidato in questo lavoro, Francesca Gigli e Fabrizio Broggi, per gli indispensabili suggerimenti e Paolo Gatelli, per la disponibilità e il prezioso contributo. Un grazie speciale va a Fabio, per il suo sostegno e il suo entusiasmo in ogni momento. Infine il ringraziamento più sentito va agli amici che mi hanno fatto conoscere il mondo dei GDR e a tutti i ragazzi dei miei laboratori di Dungeons & Dragons, che hanno condiviso con me questa avventura. I.S.

In questo libro confluiscono molti passi, molte voci, molti incontri, e ogni incontro rimanda ad altri; rintracciarli tutti e rendere a ognuno il giusto merito sarebbe un compito infinito. In questo poco spazio vorrei almeno ringraziare gli amici e le amiche che più da vicino hanno contribuito alla realizzazione di queste pagine, e che in un modo o nell’altro le abitano. Grazie a Luca Giuliano, che ha scritto la Prefazione a questo libro e che attraverso i suoi libri ci ha insegnato molte cose. Un grazie particolare anche a Matteo Cocco e Francesco Gatti e per le idee scambiate, i suggerimenti, i contributi a questa e ad altre storie. Grazie ai compagni del gruppo GDR Federico, Filippo, Giorgio e Stefano, così «dediti» alla causa, a Matteo, a Mattia e agli altri amici con cui ho scoperto che i mondi fantastici esistono sul serio. E poi grazie a Mei Xiang, per ogni ispirazione, e per tutto il resto. M.G.


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V. Dialogando con i giocatori

A completamento dell’itinerario argomentativo finora percorso nel libro, si presenta il resoconto di un incontro con due appassionati giocatori di ruolo, diversi per età, provenienza, vita e pensiero. Indagare la loro esperienza può risultare interessante, sia per confrontarla con quella personale, sia per capire come sono cambiate nel tempo la percezione e la fruizione dei GDR e del fantasy. Pertanto è stato chiesto loro come hanno conosciuto il mondo di Tolkien, perché amano cimentarsi in questa attività, che cosa pensano dei giochi di ruolo in generale. I due intervistati hanno così offerto dei punti di vista degni di attenzione che aiutano a completare la visione del GDR proposta da queste pagine. Nel primo caso, trattandosi di un ragazzo adolescente, il colloquio è stato affrontato in modo informale nella sua stessa casa, in un paese in provincia di Padova. Nel secondo caso, invece, l’intervista è stata realizzata con la collaborazione del presidente del «Gruppo Ludika» a Melzo (in provincia di Milano), un’associazione culturale giovanile che dal 1993 promuove il GDR attraverso una serie di iniziative pubbliche e aperte a tutti, tra cui i tornei, che hanno una diffusione interregionale. Il colloquio ha avuto luogo nella sede dell’associazione, uno spazio di alcuni locali che è stato concesso in gestione allo scopo di organizzare delle attività ricreative di tipo aggregativo sul tema dei giochi di ruolo. Entrambi i colloqui si sono svolti nell’autunno del 2006. V.1 Scoprire i giochi di ruolo

Alessandro ha 14 anni, è al primo anno di liceo scientifico nella sua città. È un tipo alquanto dinamico: avere un fratello e una sorella con qualche anno in più l’ha reso attento e curioso a novità e a stimoli di ogni tipo.


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Da quando era in terza media ha iniziato a giocare a Dungeons & Dragons con un gruppo di amici; quattro coetanei, a cui talvolta si aggiungono altri due ragazzi più grandi. Il personaggio che ha creato e che interpreta durante le avventure di GDR si chiama Sovellis Galandel, ed è un elfo druido di settimo livello, segno che il gruppo è progredito rapidamente nei primi mesi di gioco: per la progressione ideale dei personaggi, il sistema di Dungeons & Dragons prevede un avanzamento di livello, dal primo al trentaseiesimo. «Ci troviamo abbastanza spesso», dice infatti Alessandro: «giochiamo di pomeriggio, se riusciamo anche più di una volta alla settimana. Ovviamente, dipende da quanto tempo abbiamo, tra la scuola e gli altri impegni».1 Uno di loro fa il Master, gli altri tre interpretano i PG; qualche volta si scambiano la parte dell’arbitro, così tutti possono provare a costruire l’avventura e a far procedere il gruppo. Gli viene chiesto com’è entrato in contatto con il mondo del fantasy e in particolare con quello dei GDR. «Sono stati gli amici: il fratello maggiore di un mio compagno giocava da un po’ di tempo e ci ha prestato il manuale di regole di base. Così ci siamo appassionati e abbiamo cominciato a giocare anche noi». In effetti, il modo più comune per iniziare a giocare è stato sempre a partire da qualche conoscenza, da qualche amico, magari un po’ più vecchio, che avesse già esperienza e potesse prestare un manuale, parlando del gioco e invitando ad assistere a una sessione. Pare che negli anni queste cose non siano cambiate. Rispetto a quindici anni fa, però, il mondo del fantasy e dei GDR ha avuto moltissime occasioni per farsi conoscere, in gran parte grazie al successo di giochi come Warhammer e Magic o a film come Il signore degli anelli. Alessandro ha ben presenti queste realtà; come la maggioranza dei suoi coetanei non si è perso i film tratti dalla trilogia di Tolkien, oltre ad alcuni classici del genere (Ladyhawke, Dragonheart, fino al più recente Le cronache di Narnia). Ci si stupisce un po’ del fatto che non abbia ancora letto Lo hobbit e Il Signore degli Anelli; forse il film di Peter Jackson ha tolto un po’ del gusto e della sorpresa della lettura dei romanzi da cui è tratto, o forse spaventano le oltre mille pagine della pietra 1 Da qui in avanti, se non diversamente indicato, si riportano tra virgolette le riflessioni dell’intervistato.


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A sinistra, Il Signore degli Anelli: la copertina dell’edizione Rusconi anni Ottanta. A destra, la copertina dell’edizione del 1991 di Dungeons&Dragons: Rules Cyclopedia.

miliare della letteratura fantasy. «Ho visto Il signore degli anelli, al cinema, prima di cominciare a giocare a Dungeons & Dragons», spiega Alessandro. «Gli altri film li ho visti dopo, ero stato incuriosito proprio dal mondo che avevo scoperto con il Manuale delle regole di Dungeons & Dragons e con il film del Signore degli anelli, appunto». Non esiste nessun libro che in qualche modo abbia contribuito a questa passione, o che la accompagni? «C’è una serie divertente, è destinata principalmente a ragazzini ma le storie sono avvincenti e piacevoli da leggere». Così mostra con orgoglio la sua collezione di libri della serie di Deltora, scritti da Emily Rodd, che riscuote un buon successo di pubblico tra i lettori al di sotto dei 15-16 anni. È interessante anche sapere se Alessandro sia appassionato di qualche altro gioco che appartiene al mondo fantasy: tra videogiochi e giochi da tavolo il panorama è veramente ampio. «Conosco alcuni videogame»,


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dice, «come Age of Empires e Final Fantasy, anche se non sono veri e propri giochi di ruolo. So dell’esistenza di Travia, un gioco on line, ma non lo conosco molto bene». E altri giochi, non al computer? «Mi piace Magic: con i miei amici faccio spesso qualche partita». Gli viene chiesto se c’è un luogo particolare in cui si incontra con i suoi amici, per giocare o anche solo per scambiare quattro chiacchiere: «di solito ci troviamo a casa di uno di noi. Invece, per scoprire le ultime novità o incontrare altri, ci diamo appuntamento davanti alla mia scuola, in un negozio specializzato in questo genere di giochi». Cerchiamo allora di capire cosa piaccia effettivamente dei GDR a Alessandro. «Mi piace molto il fatto che siamo noi a poter costruire le nostre avventure, inventando dei personaggi che poi interpretiamo», dice. E non ti disturba il fatto che non ci sia una «fine» chiaramente contrassegnata al gioco, che non ci sia un vincitore e dei perdenti? «Mah, no… Questo non è per noi un motivo di insoddisfazione o di disturbo, al contrario: è divertente e interessante proprio il fatto che i personaggi evolvono e si modificano continuamente, proseguendo di avventura in avventura». Anche sua sorella e suo fratello ascoltano interessati il discorso; la mamma, incuriosita, sembra partecipe, per nulla preoccupata del fatto che suo figlio, il più giovane, sia attratto da questo mondo. L’occasione è perfetta per lanciare una domanda provocatoria: non c’è il rischio che questi giochi possano diventare un po’ alienanti, distogliendo l’attenzione dalla vita di tutti i giorni? non c’è il rischio di confondere le tue azioni con quelle che potrebbe fare, o che vorresti facesse il tuo personaggio? La risposta di Alessandro è spiazzante per la sua serietà e determinazione: «secondo me i GDR possono essere giocati bene solo se si è intelligenti, se si gioca in modo intelligente… Il fatto di dover prendere decisioni, di fare scelte insieme ai compagni, stimola la capacità di capire e di dialogare, non il contrario. Esiste sempre un elemento di casualità determinato dal lancio dei dadi, ma il bello sta proprio nel cercare di trovare soluzioni ai problemi che il Master introduce nell’avventura. Certo, c’è chi gioca anche in modo stupido!». La domanda successiva è se c’è qualcuno con cui non gli piacerebbe giocare, o qualcuno che se n’è andato dopo aver provato una volta i GDR. «Qualcuno c’è, in effetti: alcuni amici che non prendevano sul serio le


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avventure si sono stufati, e anche noi non ci trovavamo bene. Il modo per giocare bene e divertirsi con i GDR è interpretare seriamente i personaggi, non fare continuamente battute o distrarsi»: l’idea non è quella di rendere i GDR un’attività «sacrale», ma se è vero che ogni gioco ha le proprie regole, anche i GDR esigono che le loro vengano rispettate. V.2 Crescere con i giochi di ruolo

Paolo ha ventinove anni. Ha letto Il signore degli anelli quando era in terza media, poi ha comprato il gioco in scatola di Dungeons & Dragons e ha iniziato a giocarci con gli amici: in seguito ha cominciato a partecipare ai tornei. Attualmente è il presidente della citata associazione culturale giovanile «Gruppo Ludika» di Melzo (MI) che, insieme ad altri gruppi di tutta Italia, si occupa di diffondere i GDR e in particolare Dungeons & Dragons presso un pubblico più ampio, grazie all’organizzazione di tornei e campionati. V.2.1 Il campionato di Dungeons & Dragons

«L’idea di promuovere un campionato regionale di Dungeons & Dragons – racconta Paolo – nasce nel 1996 da alcuni gruppi di gioco della Lombardia che, in occasione di un torneo, hanno deciso di estendere l’iniziativa in altre città. Allora non si usava internet ed era difficile venire a conoscenza del fatto che vi fossero altri tornei nella nostra regione. Piuttosto, si poteva trovare per caso un foglio di avviso in una ludoteca, o in biblioteca, in cui un numero di telefono era l’unico punto di riferimento per chi volesse partecipare a queste attività. Tramite il passaparola, siamo riusciti a creare questo campionato regionale, chiamato SDG Arena, che si svolge ogni anno. Il torneo è soprattutto un divertente spazio di confronto e un grande momento di aggregazione per chi vuole condividere la sua passione per i giochi di ruolo con altri. Per questo dalla Lombardia siamo entrati in contatto con altri gruppi d’Italia». Nonostante il torneo costituisca una sfida importante, l’idea non è nata dallo spirito di competizione, ma «dal semplice desiderio di gioca-


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re. Durante le sessioni di gioco e alla fine del campionato facciamo una grande tavolata in cui ci riuniamo tutti: ogni volta c’è il piacere di ritrovarsi insieme a vivere questa esperienza». Forse è stato proprio lo spirito di amicizia a decretare il successo di questo campionato. Un gruppo di amici si incontra per proporre qualche idea nella fase preliminare di creazione dell’avventura, che viene a mano a mano perfezionata e alla fine quasi completamente stravolta, arrivando in tal modo a una visione condivisa della trama. Così nasce il torneo, a cui partecipano ragazzi venuti da tutta la regione e anche da più lontano. Ma, aggiunge Paolo, «il piacere di preparare l’avventura è simile a quello che prova il regista che dirige un film: è bello che le persone giochino, fruendo di qualcosa che tu hai prodotto, e che si appassionino alla storia che hai creato. Il regista, lo sceneggiatore, lo stesso scrittore hanno il piacere di condividere con altri una loro intuizione, una loro visione fantastica del mondo». Ovviamente, bisogna considerare in via preliminare quali siano i possibili destinatari di questa esperienza ludica: l’avventura deve essere giocabile, divertente e originale. Bisogna fare attenzione nel proporre qualcosa di coerente, che abbia un certo equilibrio fra combattimenti, incontri, indagini e perlustrazioni, che mostri una via da seguire ai giocatori e non sia troppo complicata, dato il ristretto margine temporale della sessione ludica.2 «L’obiettivo è creare qualcosa di bello: quando la gente partecipa divertendosi e appassionandosi significa che è entrata nel giusto spirito di gioco. È molto gratificante, per noi organizzatori, sapere che altri sono entrati nel nostro stesso mondo fantastico e lo condividono con noi. Invece, chi vi prende parte solo per sviscerare e demolire la struttura dell’avventura corrompe il gioco e non coglie lo spirito del torneo di GDR, cioè vivere una bella esperienza». D’altro canto, per quanto concerne il GDR in senso classico (vale a dire quello che si costruisce volta per volta, in anni di giocate settimanali), il tipo di organizzazione, la preparazione dell’avventura e la fruizione sono molto diversi: vengono meno quei vincoli obbligati dal contesto ufficiale del torneo. Le campagne possono durare anche più di un anno, mentre i PG trascorrono ore e ore a svolgere lunghissime indagini, in 2

Solitamente le sessioni di gioco del torneo durano una giornata, dalle otto alle dodici ore.


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situazioni che possono essere poco avventurose: «quando giochi un’avventura e interpreti il ruolo di un personaggio per anni, con le stesse persone si arriva al punto di essere completamente calati nella parte e nell’ambientazione. Pertanto si possono trascorrere serate intere a far parlare i PG fra loro, magari dell’avventura stessa, di fatti accaduti o di PNG incontrati molto tempo prima: qualcuno inizia a ricordare una circostanza passata, o qualche episodio divertente, e si trascorre la serata ridendo dei bei tempi andati». Questo succede perché si è creata una situazione di quotidianità non solo fra i giocatori, ma anche fra i PG che si muovono nel mondo fantastico. A quel punto salta l’obiettivo primario, quello di arrivare alla soluzione finale, ma si fanno strada la spontaneità e la volontà del giocatore di interpretare il ruolo, calandosi in un contesto che sia il più realistico possibile. «Dopo due giornate di gioco puoi avere intorno a te una locanda, o una piazza. Dopo qualche mese costruisci l’immagine della città intera, vedi il bosco, le montagne e le terre confinanti: sei inserito in un contesto ampio e completo, che ti sembra effettivamente realistico perché lo conosci nei dettagli». Una volta che i PG «hanno il mondo intorno» guadagnano anche la possibilità di parlare di sé, trasformandosi in personaggi pirandelliani che riflettono su sé stessi, ricordano, parlano della loro vita e del loro ruolo. «Per questi motivi, se all’inizio di un’avventura si preparano tante mappe, personaggi non giocanti, avversari, dopo un certo tempo il mondo fantastico è talmente ben definito che si prepara solo l’idea dell’evento che può succedere, mentre i PG si muovono da soli. La capacità del Master sta proprio nell’offrire un contesto realistico dove ci si possa muovere autonomamente». Tornando ai discorsi fatti in precedenza, si potrebbe dire che il Master, con il proseguire dell’avventura, perda sempre più quel potere di detenere le sorti dei PG e della missione, ma guadagni la capacità di interagire con loro in un contesto spontaneo e libero. Rispetto al torneo, dove c’è l’esigenza di arrivare in fondo e risolvere la missione il prima possibile, l’avventura settimanale del GDR lascia nell’ombra l’aspetto competititivo, mentre tende a esaltare la capacità di calarsi liberamente nel personaggio che si muove nel mondo fantastico.


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V.2.2 Il torneo

La seguente tabella presenta, in modo schematico, i componenti e le caratteristiche principali di un torneo di GDR, così come si svolge in genere tra giocatori esperti, o meno, grazie all’organizzazione di associazione ludiche. Descrizione

Squadre PG

Scheda dei PG

In generale si tratta di una forma competitiva di GDR divisa in più sessioni di gioco, in cui vi sono tante squadre di giocatori che partecipano a un’unica avventura. Quest’ultima ha un inizio e una fine ben definiti e si svolge solitamente nell’arco di un giorno. Il torneo è diviso in più partite, in cui può accadere (ma non è d’obbligo) che ogni avventura sia il seguito della precedente; alla fine di tutte le sessioni di gioco, che possono durare un anno, il torneo termina con la premiazione della squadra vincitrice e dei giocatori che hanno interpretato meglio di tutti i PG. Ogni squadra può essere composta da 3 a 6 giocatori.

I creatori dell’avventura scelgono i personaggi da interpretare e li forniscono di un background particolareggiato e preciso, in cui ne specificano la storia, la personalità e i comportamenti tipici. Generalmente vengono scelti dei PG dotati di caratteri diversi, capacità complementari e obiettivi conflittuali fra loro, in modo da consentire una maggiore ricchezza di possibilità all’interno della stessa squadra. Ogni personaggio può anche disporre di una breve presentazione degli altri PG dal suo punto di vista personale (come li ha conosciuti, cosa ne pensa di loro ecc.). Anche la scheda del personaggio viene fornita già compilata con poche informazioni essenziali allo svolgimento dell’avventura.


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Master

Svolgimento

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Il Master ha le stesse funzioni che espleta in un GDR classico, come l’interpretazione dei PNG, ma ha il compito principale di valutare come i partecipanti si comportano nel gioco (come interpretano il ruolo dei PG, se seguono coerentemente il background, se si servono delle abilità in maniera appropriata). Ogni Master riveste il ruolo dell’arbitro e del giudice che assegna i punteggi.

In un torneo, tutte le squadre vivono le stesse avventure e interpretano gli stessi personaggi, mentre gli esiti possono essere molteplici a seconda delle scelte di azione. Alcune squadre possono anche «non arrivare alla fine dell’avventura», perché non hanno svelato il mistero o non hanno compiuto l’azione prevista dagli organizzatori per concludere il gioco.

Alla fine di ogni sessione viene dato un punteggio alle squadre e ai singoli giocatori per l’interpretazione. La somma di tutte le votazioni ottenute durante il torneo serve a stilare una classifica finale in cui viene designata la squadra vincitrice e i migliori interpreti dei personaggi. Il metodo di assegnazione dei punti varia in relazione agli organizzatori e ai Master, ma in generale prevede: 1. la valutazione della capacità di interpretare il personaggio; 2. il conteggio delle azioni che sono state portate a termine; 3. il giudizio generale su su come è stato gestito il gioco, sulle conoscenze tecniche, sul compimento della missione.

Come si può verificare dalla tabella riassuntiva, il torneo ha delle caratteristiche specifiche molto diverse dal GDR, in alcuni casi anche contrastanti: come conferma il presidente del Gruppo Ludika, «bisogna stare molto attenti nella gestione di un campionato, in quanto si rischia di attuare delle scelte che vanno contro lo spirito del gioco di ruolo stes-


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so. Infatti non si potrebbe affatto dire che in un GDR si compiano delle scelte o delle azioni che risultano giuste o sbagliate: questo giudizio va totalmente contro lo spirito e il senso del gioco, che vuole rendere massima la libertà di azione e interpretazione». Per quanto si cerchi di valutare e quindi quantificare l’avventura in un punteggio, al fine di decretare un vincitore, questo tipo di valutazione, anche se calcolabile, non sarà mai realmente obiettiva. A ogni modo, per realizzare un’iniziativa di questo tipo, che mira alla diffusione dei GDR e all’incontro fra i suoi giocatori, è necessario rendere «misurabili» le loro scelte e le loro strategie, in modo tale da poter stilare una classifica tra i vari gruppi. Per questo motivo, a differenza dei GDR giocati ogni settimana, in cui prevalgono le parti di discussione e ragionamento con poca azione, le avventure del torneo privilegiano l’aspetto competitivo e sono ricche di missioni da compiere, misteri da svelare, enigmi da sciogliere, luoghi da esplorare e combattimenti da affrontare. Se il punteggio quantifica con più facilità queste azioni, quando si estende al giudizio sull’interpretazione risulta ancora meno obiettivo: il Master ha il suo modo di rapportarsi ai giocatori e ciò è del tutto soggettivo. Per esempio, un arbitro può apprezzare particolarmente l’interpretazione comica di un giocatore e conferirgli un punteggio alto, nonostante quest’ultimo contribuisca in maniera poco attiva alla missione, oppure può essere più esigente nel dirigere i PG e non gradire le iniziative personali che allontanano dagli eventi prestabiliti. «In definitiva, avviene che i giocatori esperti (quelli che conoscono tutti i manuali a memoria, giocano molto spesso e fanno cose esaltanti durante le loro campagne settimanali) raggiungano o meno il successo meritato al torneo, solo in virtù dell’alchimia che si crea all’interno dell’avventura con il Master. Quest’ultimo può essere bravo o meno, può valutare una frase come sbagliata o di troppo, può tener conto del fatto che il PG abbia seguito delle piste che invece non doveva considerare. Sono tante le piccole cose che condizionano l’andamento della storia. Alla fine i giocatori, soprattutto gli «ambiziosi» o i «tecnici» (cfr. il Paragrafo seguente), rimangono spesso delusi dal risultato del torneo e, se rifiutano l’idea di non aver vinto, preferiscono pensare che il Master abbia commesso degli errori. In realtà, nessuno dovrebbe prendersela perché


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Torneo di Dungeons&Dragons – Melzo (MI), 2005 (foto tratta dal sito www.revelshblindbeholders.net).

in un gioco di ruolo non si può sbagliare». Proprio per questo, l’interpretazione conta più di ogni altra cosa in un torneo: vengono premiati soprattutto i migliori interpreti dei PG. «Da una parte gli arbitri dovrebbero considerare le azioni positive più che contare quelle “sbagliate”, dall’altra non bisognerebbe prendersela se non si vince. Non è una sfida, perciò nessuno dovrebbe mettere in difficoltà gli altri. I migliori giocatori alla fine sono quelli che giocano in simpatia, che non sono lì per dimostrare nulla: giocare con loro è molto più divertente. La premiazione dei vincitori è solo una parte formale del torneo, ma lo scopo primario è solo giocare di ruolo, divertire e divertirsi». Alla luce di tutte queste considerazioni, Paolo ribadisce come anche il torneo incarni in generale quello che è lo spirito del GDR, perché costituisce un momento di aggregazione importante e favorisce la socializzazione e la comunicazione fra le persone. «Viene sempre prima lo stare insieme e poi il giocare: nessuno direbbe mai che vuole giocare a


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Dungeons & Dragons e non gli importa se quella sera non c’è nessuno disponibile o non gli interessa chi c’è e chi non c’è». Proprio perché il GDR rimane in ogni sua manifestazione un fenomeno sociale. V.2.3 I ruoli nel ruolo

Grazie al ruolo di Master e di organizzatore di tornei di Dungeons & Dragons, il presidente del «Gruppo Ludika» ha adottato l’abitudine di osservare i giocatori che partecipano alle sue avventure. In tal modo si è accorto che, nonostante esista un campione eterogeneo di persone che si accostano al GDR, le quali sono diverse nell’età, negli interessi, nell’approccio e negli obiettivi stessi all’interno del gioco, ricorre comunque una distinta tipologia di persone, di ruoli e di personaggi.

L’AMBIZIOSO «Non è infrequente incontrare nel contesto del torneo quello che vi partecipa solo per dimostrare di essere il migliore: giocando abitualmente due o tre volte a settimana, studiando i manuali e leggendo continuamente i libri e gli aggiornamenti, questo appassionato di GDR conosce a fondo le regole, ma anche molti personaggi, situazioni e ambientazioni. In virtù di queste competenze è un esperto giocatore e si prefigge di conseguenza l’obiettivo di vincere. Ma la vittoria non avviene in maniera automatica: con suo grande disappunto, può succedere che questo esperto non colga il senso dell’avventura e non giunga di conseguenza alla fine».

L’INTERPRETE «Un altro giocatore tipico si riconosce facilmente dalla bravura con cui interpreta il suo personaggio: si tratta solitamente di quelle persone dotate di talento teatrale, dal carattere brillante e gradevole, che hanno interesse a divertirsi e far divertire gli amici, più che a risolvere l’avventura in sé». L’AMICO Non tutti i giocatori dei tornei hanno la passione dei GDR. Ci sono anche ragazzi che vengono trascinati dagli amici e vogliono solo trascor-


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rere una giornata facendo qualcosa di diverso dal solito. Proprio perché manca loro l’interesse per questa attività, hanno la tendenza a sdrammatizzare l’avventura. Si tratta di persone che non giocano spesso o che giocano solo per stare in compagnia: «fanno continuamente battute spiritose e in alcuni momenti si assentano perfino dal gioco perché non hanno interesse ad affrontare alcune parti più difficili e pesanti, come un enigma che non si riesce a svelare o un’indagine particolarmente lunga».

IL LEADER In ogni squadra di GDR c’è sempre un capo riconosciuto da tutti che prende in mano il gioco, suggerisce gli approcci, dà disposizioni agli altri, ha delle teorie su cui si sviluppano gli eventi. È colui che sceglie il personaggio più importante e autorevole: «è quello che potrebbe scegliere di interpretare Gandalf o Aragorn».3 Quando si prepara l’avventura, si prevede sempre una guida, un personaggio che in determinate situazioni sia di esempio per gli altri, conduca il gruppo verso il compimento della missione e risolva le situazioni critiche; «anche se vi sono altri giocatori che possiedono un carisma forte, è necessaria la presenza di una persona che abbia un livello di leadership elevato e che diriga gli altri verso una visione condivisa e un’azione comune, altrimenti ognuno andrebbe per la sua strada e non si riuscirebbe a giocare. Questo tipo di caratteristiche sono spesso anche quelle che definiscono lo stesso Master».

LA SPALLA Ogni leader ha la sua spalla, un giocatore che è bravo a interpretare ed è un acuto osservatore. «È l’uomo di fiducia del capo, il suo braccio destro: anche se non ha la capacità di imporsi sugli altri, è dotato di grande perspicacia e può dare ottimi consigli su come risolvere l’avventura o su come interpretare i PG». 3 Gandalf e Aragorn, due dei personaggi principali del Signore degli anelli – rispettivamente, un mago e un guerriero – rappresentano non solo un modello di intelligenza e coraggio, ma anche l’esempio di come guidare e organizzare un gruppo, rincuorare chi si scoraggia, impiegare il proprio carisma per dare coerenza all’azione da intraprendere e motivare i propri compagni.


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IL TECNICO È il giocatore esperto che conosce tutte le regole, prende appunti durante l’avventura, dà spiegazioni sugli incantesimi e sui personaggi. «Solitamente non possiede un grande intuito, ma è in grado di cavarsela in ogni situazione grazie alla sua esperienza. Di conseguenza sa giocare molto bene e si guadagna la fiducia di tutti».

Questa tipologia di giocatori, inquadrata da Paolo, è tratta dalla sua esperienza ma presenta molte analogie con la tipizzazione dei ruoli che effettua Kurt Lewin. Nei suoi studi sulla psicodinamica dei gruppi,4 Lewin arriva a riconoscere dei ruoli significativi e degli stili di vita ricorrenti, come: 1. soggetti che svolgono compiti da leader; 2. soggetti che non sono dei leader, ma che ne adottano i comportamenti tipici: di solito presentano un carattere sereno e brillante, sono molto portati per la socializzazione e abili a instaurare delle relazioni. Per questo riescono ad accattivarsi la simpatia degli altri componenti del gruppo e ad attirare su di sé le preferenze; 3. soggetti gregari, che si lasciano trascinare in modo passivo, adeguandosi in tutto alle scelte e ai desideri altrui. 4. soggetti isolati, che non riescono a fare parte del gruppo in modo totale, ma si distinguono con comportamenti singolari e scelte individuali, e coltivano rapporti instabili e interrotti con gli altri. La corrispondenza fra l’esperienza personale di un giocatore e gli studi scientifici di Lewin dà un’ulteriore conferma di come il GDR possa fornire un utile strumento di comprensione degli altri. Se giocare di ruolo consente di esprimere più lati della personalità, è possibile scoprire nel PG alcuni tratti del comportamento di chi lo interpreta, ma anche delle qualità insospettate: può succedere che una persona, di indole arrendevole e tranquilla, in apparenza di scarso temperamento, immetta nel suo PG delle caratteristiche opposte come l’arroganza e l’intraprendenza; oppure che un’altra, a prima vista apatica, si scateni in un’inter4 Kurt Lewin, Principi di psicologia topologica (ed. or. Principles of Topological Psychology, New York, McGraw-Hill, 1936), Firenze, Organizzazioni Speciali, 1961; Id., Teoria dinamica della personalità (ed. or. Dynamic Theory of Personality, New York, McGraw-Hill, 1935), Firenze, Giunti, 1965.


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pretazione brillante del suo PG, che risulta essere loquace, spiritoso e arguto. «Quando il carattere del personaggio – continua Paolo – non corrisponde a quello del giocatore nella vita reale, non significa che si stia facendo un’interpretazione a caso e mal gestita: anzi, i personaggi creati nel GDR mostrano sempre una grande coerenza e forti valori. Questo si può verificare anche dal fatto che in un’avventura si devono compiere continuamente delle scelte fra il bene e il male, la cosa giusta e quella sbagliata, l’azione corretta e quella che non sembra esserlo. I giocatori cercano di interpretare il personaggio secondo l’idea che se ne fanno. La domanda tipica che ci si pone è: come agirebbe il mio personaggio adesso? Ovviamente non si riesce a dare una risposta obiettiva e le scelte di gioco restano influenzate dal proprio carattere. Per esempio, se una persona che nella vita reale non è portata per il rischio sceglie un PG di classe ladro può trasferire in lui la sua stessa prudenza: se vi è la possibilità di essere scoperti, il giocatore più audace può compiere il furto, quello più prudente probabilmente non lo fa. Grazie al GDR è possibile scorgere nel PG lati del carattere della persona reale: questo non significa che il giocatore stia interpretando sé stesso, ma solo che è difficile astrarsi completamente dalla propria persona e diventare qualcun altro». Basandosi totalmente sull’interpretazione, il GDR presenta delle consistenti somiglianze con il teatro, illustrate più volte nei precedenti Capitoli. A tal proposito è stato chiesto a Paolo qual è secondo lui la differenza fra queste due forme di espressione. «L’attore ha sostanzialmente un compito di rielaborazione del personaggio: ha già tutto a disposizione, la storia, le frasi e le azioni. Al contrario nel GDR niente è stabilito prima, occorre creare totalmente il personaggio e scegliere le azioni, operazioni che implicano un giudizio in base ai propri valori e comportamenti. È difficile dare al PG criteri diversi dai tuoi, perché sei tu a costruire il personaggio. Può accadere spesso che esso non rifletta il suo giocatore e viceversa, ma qualcosa viene sempre trasferito dall’uno all’altro». L’arbitro, che gestisce le azioni di tutti i PNG, deve essere sempre bravo a interpretare anche personaggi con cui ha poco in comune. «Dopo aver fatto il Master per tanto tempo è facile passare da un PG all’altro, perché si interpretano continuamente tanti personaggi diversi fra loro: maschi, femmine, vecchi, bambini, mostri…».


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Foto di una rappresentazione di GDR dal vivo (foto tratta dal sito www.casadelpaleotto.it).

V.2.4 Giochi on line, giochi di carte e live action role playing

In questo libro si è trattato anche di altri giochi che presentano delle affinità con i role playing game, ma che non sono, come già ribadito in precedenza, dei GDR veri e propri. In effetti «i cosidetti giochi di ruolo on line in realtà non hanno nulla a che vedere col GDR perché mancano di alcuni elementi fondamentali che rientrano nella sua dimensione». Come prima cosa, manca il racconto, integrato nel suo criterio di trasmissione orale e corale. Non esiste l’interazione fisica fra i giocatori e i personaggi, quindi la possibilità di comunicazione sociale è differente perché il singolo interagisce in prima battuta con una macchina e, attraverso di essa, con altri singoli giocatori. «Questo ha poco a che vedere con il GDR, dove la prima cosa che si fa è sedersi a un tavolo guardandosi in faccia, per comunicare, osservare, conoscere altre persone e confrontarsi con loro». Se la parte fondamentale di questa attività ludica


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consiste nel dare la propria voce al personaggio e creare l’avventura in itinere insieme al gruppo, davanti allo schermo l’immaginazione rischia in alcuni casi di venire soffocata e incanalata in schemi contemplati a priori dal programmatore. Esistono certo anche videogiochi che ampliano in modo straordinario le possibilità immaginative e creative dei giocatori; tuttavia, tali modalità di gioco non sono da confondere con quelle più specifiche dei GDR classici. «Davanti a un computer non ci può essere la creazione dell’avventura, ci sono solo molte immagini che scorrono sulle schermate già impostate: è come guardare un film o uno spettacolo teatrale e niente di più. Nel GDR non si può prescindere dall’interazione fisica: l’espressione role playing game significa ‘gioco in cui si interpreta un ruolo’: mettersi davanti a un computer è invece ben diverso. In sostanza si tratta di giochi di strategia». Oltre ai compagni di gioco, è assente la figura fondamentale di riferimento, quella che crea il contesto, l’ambientazione e l’avventura vera e propria e che, a seconda delle sue capacità, rende il gioco più o meno divertente e interessante: il Master. Il problema di questi GDR on line è proprio che diffondono un’idea falsata del GDR, equiparandolo a un qualunque videogioco. «Per quanto riguarda Magic, la questione non si pone assolutamente perché si tratta di un gioco di carte come briscola». Fra i vari tipi di GDR tratti dal mondo dei role playing game, vi è in ultima analisi il genere del gioco di ruolo dal vivo (GDRV, cfr. supra, Paragrafo I.4.1). Si tratta di giochi di ruolo dove l’azione non viene solo immaginata, ma interpretata e vissuta in prima persona, come potrebbe fare un attore. Per questo è necessario giocare in luoghi dagli ampi spazi, che possono essere al chiuso o all’aperto. Inoltre, dato che il coinvolgimento è molto forte ed è corroborato dalla lunga preparazione di costumi, scenografie e strumenti di vario tipo, le sessioni di gioco sono più lunghe e possono durare giornate intere o anche più giorni di fila. «In generale, i GDRV sono molto suggestivi e pittoreschi: si indossano dei costumi caratteristici e ci si cala del tutto nella parte del personaggio». Molte sono le differenze con il GDR in senso classico, come nella scelta del PG: mentre in questo si può optare liberamente per un qualunque tipo, nel GDRV si consiglia di interpretare quello con cui l’indole del gio-


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catore presenti maggiori affinità. Si tratta pertanto di una scelta obbligata, a volte quasi forzata. Anche il modo di interpretare è rigido, infatti viene subito fornita una descrizione psicologica precisa e molto dettagliata a cui attenersi. Oltre all’identificazione fisica tra giocatore e personaggio, nei GDRV c’è anche una sovrapposizione fra il mondo esteriore e quello fantastico in cui dovrebbe muoversi solo il personaggio giocante: di solito le ambientazioni dei GDRV si costituiscono in un mondo i cui eventi storici, la situazione politica, sociale, economica, fino ad arrivare alla moda e all’urbanistica, sono tratte dalla realtà di oggi. Il contesto non può essere molto diverso, perché è necessario inserirsi nel mondo esterno. Per esempio, un Master può scegliere di far svolgere l’avventura nella Metropolitana di Milano: i giocatori devono recarvisi fisicamente, non solo per finta, e fare la loro parte. È evidente come non si possa prescindere dal considerare determinati elementi e regole di comportamento (orari, norme e divieti sull’uso del mezzo di trasporto) che sono d’obbligo in quel luogo e sono parte del mondo reale più che di quello fantastico. «L’identificazione di mondo reale e fantastico può essere pericolosa, perché diventa difficile per i giocatori porre una linea di demarcazione tra la realtà e la finzione. Il pericolo dei GDRV è che la parte del fantastico in cui ci si muove idealmente per un paio d’ore alla settimana si estenda alla vita reale, fino a sovrapporsi con essa. Ti vesti come deve essere vestito il tuo personaggio, ti siedi al tavolo dove e come si siede lui, se ti alzi e cammini durante il gioco è il tuo personaggio che lo fa; il luogo fisico in cui si dovrebbe muovere il personaggio si trasforma nello spazio fisico reale in cui si trovano i giocatori, e allora i PG girano per il palazzo, per il parco, o la metropolitana, ma realmente e fisicamente, non soltanto idealmente». Nel GDR classico questo non succede, si rimane consapevoli che il fantastico è qualcosa di diverso dalla realtà. Magari può accadere che nel mondo immaginario si scoprano alcune parti della realtà che sfuggono alla percezione usuale, o che qualcuno possa sovrapporre la finzione ludica e la realtà, «ma questo non è assolutamente il caso dei giochi di ruolo, in cui ci sono i dadi e le mappe sul tavolo: il fantastico è e deve restare all’interno dei suoi confini». Tutto è comunque relativo alla personalità e alle capacità intellettive di chi si accosta a questo tipo di esperienze.


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Diverso è il caso di Javier Rosado (cfr. supra, Paragrafo. II.4). «Il fatto che questo ragazzo abbia ucciso per gioco, quindi per follia, riuscendo a trascinare un altro nell’omicidio, fa capire che entrambi avessero dei problemi a livello psicologico, non che il gioco di ruolo porti la gente a impazzire e diventare degli assassini. Oppure dovremmo dire che anche il calcio fa impazzire i tifosi, ed è colpa di questo sport se ci si accoltella per strada. In realtà sappiamo che non è così, ma che lo stadio è solo uno spazio dove certe violenze trovano terreno fertile. Se c’è qualcuno come Javier Rosado che, per un divertimento distorto e maniacale, comincia a giocare di ruolo proiettando e sfogando in esso la sua volontà malsana di compiere omicidi e fare altre cose che nella vita reale non sono consentite, questo non è originato dal GDR ma dalla personalità stessa di queste persone». Secondo Paolo la sovrapposizione della funzione ludica con la realtà, che dà origine a situazioni di pericolo sociale, non nasce nel gioco di ruolo o negli stadi, al cinema o per strada, semmai è originato dal disagio psichico e sociale. «Probabilmente il GDR presenta una certa attrattiva per queste persone, in quanto è un modo per applicare le loro follie senza pagarne le conseguenze, restando impuniti. Il gioco di ruolo in sé non può corrompere, ma è facile sfogare in esso delle tendenze violente, perché è un mondo asettico e protetto». Nelle storie dei giochi di ruolo vi sono sempre i «buoni» che lottano contro i «cattivi». Le missioni delle avventure fantasy seguono quasi sempre un senso morale: di solito l’eroe è un personaggio positivo, che lotta contro le forze del male. «All’inizio di un’avventura, i giocatori sanno sempre che dovranno portare a termine qualcosa di buono e si siedono al tavolo nell’ottica di arrivare a “fare il bene” nel senso oggettivo del termine. Qualche anno fa avevamo creato un’avventura per un torneo in cui i protagonisti erano quattro mostri, perseguitati dall’Inquisizione: i PG erano tutti invitati a un conclave in cui avrebbe dovuto incarnarsi e scendere sulla Terra il loro capo, che li avrebbe guidati in guerra contro le forze del bene. Noi pensavamo di aver ideato un gran colpo di scena, infatti il capo dei PG-mostri era un cattivo a tutti gli effetti, che avrebbe sterminato anche loro. La cosa curiosa fu che i giocatori, ignari del finale, nonostante avessero ricevuto l’indicazione di comportarsi da “cattivi” cominciarono subito a muoversi con l’idea di compiere il bene: dopo


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varie indagini, capirono cosa sarebbe successo e impedirono la reincarnazione del demone. Quando i giocatori si siedono al tavolo per giocare di ruolo, mirano comunque a una soluzione positiva: nessuno gioca con lo scopo di distruggere tutto, ma tutti credono di dover compiere una missione, che di solito è salvare qualcuno, qualcosa o il mondo stesso». V.2.5 Amicizie

«Una delle qualità più pregevoli del gioco di ruolo è la possibilità di stringere nuove amicizie. Soprattutto nel contesto del torneo è naturale incontrare tante persone e fare nuove conoscenze. Per quanto riguarda il GDR in generale, a cui si gioca in settimana, succede spesso di apprezzare molto lo stare con le persone piuttosto che il giocare in sé. Ho visto nascere molte amicizie intorno a questa esperienza». L’ultima domanda riguarda il motivo, o lo scopo, il che cosa spinga una persona a praticare i GDR. Le risposte, ovviamente, possono essere molte e varie, perché resta evidente che vi siano numerose esigenze individuali che trovano soddisfazione in questa attività che promuove le relazioni sociali. «Per quanto mi riguarda – continua Paolo – mi piace ritagliare due o tre ore del mio tempo alla settimana per staccare dalla quotidianità e vivere in un mondo fantastico: c’è chi ama leggere e si rifugia nelle avventure narrate nei libri, chi va al cinema o a teatro… il GDR offre lo stesso tipo di esperienza, con la differenza che si fa qualcosa di attivo, di libero e creativo, mentre in tutti gli altri casi si fruisce di qualcosa che è stato creato da altri».



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