Il secolo del fumetto
Lo spettacolo a strisce nella societĂ italiana 1908-2008 A cura di Sergio Brancato Contributi di: Alberto Abruzzese, Daniele Barbieri, Sergio Brancato, Stefano Cristante, Adolfo Fattori, Enrico Fornaroli, Gino Frezza, Fabio Gadducci, Marco Pellitteri, Luca Raffaelli, Matteo Stefanelli
Dal 1908 a oggi, da lì a qui, le soggettività che attraversano e caratterizzano la scena della storia sono mutate all’estremo, incarnando prospettive e sviluppi che mettono radicalmente in crisi il senso complessivo della modernità. Il fumetto è, appunto, uno dei luoghi in cui tale differenza può essere ricostruita e dunque riconosciuta. Anche a costo di perdere la sua vocazione infantile, le sue giovanili seduzioni, il suo sequenziale procedere per incantamenti del mondo.
Sergio Brancato (Napoli 1960) insegna Sociologia della comunicazione presso l’università di Salerno e Sociologia della industria culturale presso l’università «Federico II» di Napoli. Si occupa di media, società e cultura di massa. Ha lavorato nel mondo della comunicazione come giornalista, autore di programmi e consulente scientifico.
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Il secolo del fumetto
Lo spettacolo a strisce nella società italiana 1908-2008
A cura di Sergio Brancato
Contributi di Alberto Abruzzese – Daniele Barbieri – Sergio Brancato Stefano Cristante – Adolfo Fattori – Enrico Fornaroli Gino Frezza – Fabio Gadducci – Marco Pellitteri Luca Raffaelli – Matteo Stefanelli
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I edizione: ottobre 2008 Copyright © Tunué Srl Via Bramante 32 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.
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ISBN-13 GS1 978-88-89613-49-8
Progetto grafico e illustrazione di copertina: Daniele Inchingoli Grafica di copertina: Marco Marcucci © Tunué
Stampa e legatura: Tipografia Monti Srl Via Appia Km 56,149 04012 Cisterna di Latina (LT) Italy
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Introduzione Un secolo di fumetto, da lì a qui di Sergio Brancato I
Sul luogo del delitto Metafore della critica e inattualità del fumetto di Alberto Abruzzese I.1 Gli studi sul fumetto, fra analisi e chiromanzia I.2 Dentro un balloon di coazioni a ripetere? I.3 Il potere salvifico del fumetto I.4 Trovare la sostanza più clamorosa dei fumetti I.5 La confisca del giocattolo e la critica incolta I.6 Studiare, per piacere I.7 La costituzione carnale del fumetto I.8 Lo sciamanico fluire del fumetto fra le nuove reti
II Uno sguardo disincantato, ma non spento Dei formati comunicativi di Gino Frezza II.1 Il fumetto e l’acuta intelligenza del presente II.2 La scena del divertimento familiare, sovranazionale e figlia del tempo II.3 L’altrove mito-narrativo II.4 L’immaginario ibridato del fumetto del dopoguerra II.5 Sesso esploso, malinconia del presente storico e avventura bonelliana
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II.6 La stagione delle riviste e la nuova immaginazione del desiderio II.7 I mille, metaforici altrove del fumetto II.8 La macchina del mito. E del sogno
III Il filo del racconto Fumetto italiano e trasformazione delle culture seriali di Sergio Brancato III.1 I comics tra immagine e scrittura III.2 Origini della serialità a fumetti III.3 Origini e strategie della serialità in Italia III.4 Un più moderno narrare: la serialità multimediale
IV Il fumetto extrapopular Due estetiche a confronto nella grande stagione delle riviste di Daniele Barbieri IV.1 Estetica dell’identificazione ed estetica della contrapposizione IV.2 Popular ed extrapopular IV.3 Le riviste a fumetti extrapopular IV.4 L’extrapopular degli anni Settanta e Ottanta V Il fumetto a scuola: paradossi e opportunità Musealizzazione culturale e discontinuità delle strategie istituzionali di Marco Pellitteri V.1 Il paradosso di Bonelli V.2 Scuola e musealizzazione del fumetto Con quattro corollari V.2.1 La graduale deriva della scuola V.2.2 La musealizzazione del fumetto V.2.3 Quattro corollari. Catacresi, pratica, diffusione, continuità fra scuola e mondo esterno V.3 Come viene presentato il fumetto a scuola V.3.1 Cosa pensano gli adolescenti dei fumetti
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V.3.2 Cosa sanno i diciottenni di oggi del fumetto V.3.3 Cosa proporre agli studenti dell’ultimo anno L’equivoco persistente
La storiografia del fumetto in Italia Tradizioni e strategie culturali di Fabio Gadducci – Matteo Stefanelli VI.1 Lo specchio pedagogico e la stampa per ragazzi VI.2 L’alba della storiografia e il problema della collocazione VI.3 L’invenzione della tradizione L’«età dell’oro» tra nostalgia e americanismo VI.4 L’apertura al «visivo» e la storiografia dilemmatica VI.5 Canone italiano: il Novecento e il pendolo tra «scuole» e «supporti» VI.6 Centenario alla deriva Vecchia e nuova storiografia a confronto
VII Uccide il padre e si scopre umano Il viaggio dell’eroe nel fumetto italiano di Luca Raffaelli VII.1 La fine del viaggio VII.2 Il padre a fumetti VII.3 L’eroe oltre la figura paterna… VII.4 … E di nuovo alla (vana) ricerca del padre
VIII Aquila della Notte forever La tenacia dell’immaginario western classico nella gestione del cambiamento di Adolfo Fattori VIII.1 Evidenze VIII.2 Tex è un fumetto western VIII.3 Tex è un prodotto seriale VIII.4 Tex è un eroe «senza macchia e senza paura» VIII.5 Tex e il «reincanto del mondo»
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IX De Julia Autorialità e serialità in un graphic novel popolare di Stefano Cristante IX.1 Julia Kendall, criminologa IX.2 Definizione del personaggio e forza del contesto IX.3 Tutti i volti noti (l’Intrepido riesumato) IX.4 Julia come graphic novel
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X Dino Battaglia, graphic storyteller Fumetto e letteratura nella biblioteca visiva di un grande narratore di Enrico Fornaroli X.1 Battaglia e la grande letteratura X.2 Le tre vocazioni di Battaglia
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Note sugli autori
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Riferimenti bibliografici
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IL SECOLO DEL FUMETTO In memoria di Antonio Fabozzi, impareggiabile compagno di viaggio nell’esplorazione dell’immaginario
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Introduzione Un secolo di fumetto, da lì a qui di Sergio Brancato
Questo libro nasce da un’occasione e, insieme, da un disagio. L’occasione è data dall’anniversario del fumetto italiano, i primi cento anni di vita di un medium dallo straordinario impatto sociale, che per la comunità di studiosi, critici e appassionati (ma molto spesso questi ruoli si confondono tra loro) nasce convenzionalmente il 27 dicembre del 1908, quando nelle edicole nazionali appare una filiazione del Corriere della Sera dedicata ai più piccoli. La nuova testata si chiama Corriere dei Piccoli e costa dieci centesimi, un prezzo tutto sommato popolare, sebbene non accessibile proprio a tutti. Al suo interno ha più o meno i medesimi contenuti delle altre pubblicazioni che, nell’Italia in crescita alfabetica del primo Novecento, puntavano all’allargamento del mercato dei lettori attraverso la conquista dell’infanzia. C’è tuttavia una novità in quella ventina di pagine di giornale, l’ingresso in punta di piedi di un nuovo mezzo della comunicazione, di un dispositivo mediatico che da diversi anni seduceva il pubblico – infantile e no – della stampa popolare statunitense. Il fumetto fa solo capolino tra le pagine ancora zeppe di piombo e scrittura di quello che poi diventerà confidenzialmente il «Corrierino». Le politiche culturali italiane confermano anche lì la propria testarda arretratezza ideologica, il disperato quanto vano «resistere» alla modernità industriale e ai suoi modi di edificazione del mondo, il caparbio opporsi a processi di trasformazione dei media e del territorio che tuttavia s’erano già realizzati. Eppure è con il Corriere dei Piccoli che – parafrasando un grande personaggio che su quelle pagine vide la luce e a lungo visse – «comincia l’avventura» del fumetto italiano, costantemente giocata sull’interpretazione creativa dei modelli internazionali (soprattutto americani) e su una peculiare capacità di tessere narrazioni originali, in grado di
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Sezione superiore del primo numero del Corriere dei Piccoli, 27 dicembre 1908. Il fumetto ivi pubblicato è Mimmo (Buster Brown, 1902, di Richard Felton Outcalt).
restituire in filigrana la consistenza più intima delle identità nazionali e delle loro trasformazioni: dal Signor Bonaventura di Sergio Tofano (1917) al Diabolik delle sorelle Giussani (1962) la distanza sembra tanta, perfino incolmabile, ma può tuttavia essere ricostruita nella sua sostanziale continuità se adottiamo un’adeguata e moderna attrezzatura teorica. Il disagio a cui si faceva cenno in apertura nasce, per l’appunto, dall’insoddisfazione relativa a ciò che negli anni si è fatto e scritto, nel nostro paese, «intorno» al medium disegnato. Dai limiti sempre più evidenti dei saperi disciplinari a cui fa ancor oggi riferimento chi dei comics parla (o ritiene di parlare) dall’alto di una competenza in grado di svelarne i misteri e interpretarne il senso. Limiti che si riverberano, spesso se non sempre, su chi orchestra le politiche culturali del fumetto in Italia attraverso le linee editoriali delle case editrici o la gestione delle (poche) istituzioni e delle (tante) manifestazioni che hanno sede nelle nostre città. La criticità culturale del fumetto costituisce una delle costanti nella vita del medium, e ne determina gli sviluppi e i punti d’arrivo. Già l’approccio del «Corrierino» era penalizzante rispetto al potenziale espres-
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sivo e politico del linguaggio-fumetto, poiché tentava di edulcorarne il senso audiovisivo (e dunque realmente innovativo) e comprimerne il baricentro verso la matrice letteraria. Qual è il significato degli interdetti editoriali al balloon in favore delle leziose didascalie in rima se non quello di opporsi all’avanzata dei «nuovi» media dell’epoca, fondati su di un’inedita relazione tecnologica tra immagine e suono, visti dalla «classe dei colti» come portatori di un inquietante disordine sociale? Alla base del rapporto tra fumetto e mondo intellettuale italiano c’è questo insanabile pregiudizio, basato su una tassonomia delle arti che penalizza l’emergere del nuovo e non contempla gli esiti della modernità. Storia vecchia? Non proprio. Il disagio di chi scrive nasce proprio dalla constatazione che ancor oggi la critica italiana trova i suoi presupposti teorici all’interno di una visione idealistica dei processi culturali, ovvero di un «ordine» del mondo che non ha ancora affrontato la rivoluzione del Moderno e dunque non ne ha saputo interpretare gli effetti. È quanto riscontriamo ogni volta che affrontiamo il discorso sul fumetto, la sua storia e il suo stato attuale in una qualsiasi circostanza in cui si riuniscano gli esponenti del comicdom nazionale. Oppure quando si tenti di affrontare tali questioni in ambito accademico. Non a caso, una delle definizioni più fortunate che vengono adoperate per definire il medium è quella di «letteratura disegnata». Coniata a quanto pare da Hugo Pratt, l’autore-personaggio che sintetizza in sé il meglio e il peggio dell’esperienza del fumetto italiano,1 questa espressione piace a molti poiché sembra collocare l’oggetto del comune amore sui sacri altari della legittimità culturale. Solo in pochi paiono cogliere che quegli altari sono ormai diventati sepolcri imbiancati, ricoperti di polvere, e che rischiano di impolverare «per contatto» anche lo splendore cromatico dei comics. Tentare di nobilitare il fumetto attraverso una sua identificazione con le arti e le modalità comunicative preesistenti è un segno di debolezza analitica. La storia della comunicazione e la sociologia dei processi cul1 Il meglio è la capacità di produrre salti qualitativi nell’organizzazione del medium attraverso il dispiegamento di una straordinaria creatività che si connette all’evoluzione del pubblico dei lettori e gli fornisce risposte di grande efficacia culturale; il peggio è il produrre modalità di astrazione del medium dallo stesso pubblico dei lettori, fino a perderne il contatto (come è accaduto, per esempio, con il cinema italiano alla metà degli anni Settanta).
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turali hanno dimostrato che il fumetto è un medium in sé, compiutamente strutturato e codificato, capace di evolversi in maniera autonoma e tuttavia di continuare a dialogare con gli altri linguaggi dell’industria culturale. Occorre superare il vecchio equivoco, la partigianeria un po’ ottusa di chi cerca la gratificazione di un riconoscimento (del medium tanto amato, e infine di sé stesso) attraverso l’adesione alle piattaforme del potere letterario – o, per converso, di quelli delle tradizionali arti figurative. Il fumetto non ha più bisogno di essere giustificato presso i padri severi delle arti, anche perché quei padri sono ormai morti e lontani nella memoria. Il mondo che abitiamo ha altre forme da quelle che hanno visto la genesi del fumetto. Forme digitali che riscrivono nel profondo le logiche della rappresentazione e il rapporto tra la tecnica e il referente. Le celebrazioni, dunque, possono avere un significato finché costituiscono un momento di riflessione e di aggiornamento dei saperi e delle culture del fumetto. Finché ci permettono di essere consapevoli delle sue trasformazioni che rimandano alle trasformazioni più generali del presente. Finché i musei si rendono luoghi di elaborazione dell’idea di futuro più che sacrari di un tempo irrimediabilmente perduto. Questo libro nasce così, in maniera molto viscerale, dalla necessità di tradurre la circostanza del centenario in un momento di riflessione e, anche, di posizionamento da parte di una piccola ma significativa comunità di studiosi e operatori culturali che negli anni si è automaticamente riconosciuta in un atteggiamento di innovazione critica e di insoddisfazione per i rituali in cui s’è impaludata una parte cospicua del mondo dei fumettari/fumettofili italiani. In tempi molto stretti, sollecitati dal sottoscritto, alcuni intellettuali – in modi tra loro diversi, «innamorati» del fumetto – hanno partecipato a un’iniziativa che, prendendo spunto dal centenario, si pone un semplice obiettivo: quello che l’occasione rituale non si esaurisca ancora una volta nel riproporre punti di vista, posizioni, ideologie e «folklori» che caratterizzano l’orizzonte nazionale dei comics più o meno dal 1965, periodo in cui accadono molte cose importanti ma che certo non costituisce la «fine della storia» per le teorie e le pratiche del fumetto. Questa è essenzialmente una raccolta di punti di vista sullo stato dell’arte del fumetto italiano. Si pone il fine di sollecitare un dibattito piuttosto stanco, sebbene non del tutto denutrito. Pur non avendo pretese di organi-
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cità, né tanto meno di esaustività, i saggi che lo compongono si rimandano tuttavia l’un l’altro, ricostruendo un tessuto teorico e discorsivo meno frammentato di quanto possa apparire a un primo sguardo. L’auspicio è che questi materiali possano contribuire a fare del centenario – celebrato anche da un Comitato Nazionale nominato dall’uscente Ministro Francesco Rutelli il 9 aprile 2008 a Lucca – il pretesto per un rinnovamento, ormai inderogabile, della cultura dei comics nel nostro paese. I 100 anni del fumetto in Italia segnalano, infatti, processi complessi e questioni che si estendono oltre i confini del medium disegnato. Tutti gli autori dei saggi contenuti nel presente volume hanno sempre operato, sia pure all’interno di storie diverse e differenti modelli disciplinari, per spostare la riflessione sui comics in un contesto teorico più ampio e attuale. Non si vuole certo disconoscere, qui, il contributo di chi (da Elio Vittorini a Gianni Rodari, da Umberto Eco a Oreste del Buono, da Roberto Giammanco a Ermanno Detti, da Paola Pallottino a Antonio Faeti) ha contribuito a integrare il fumetto nel novero delle cose dicibili. Si vuole solo affermare che ormai esiste, in Italia, una tradizione di studi sul fumetto, più recente e caratterizzata sul piano generazionale, che ha determinato la messa a punto di una sofisticata attrezzatura teorica in grado di rischiarare il corpo dell’immaginario disegnato e di tirarlo fuori dai soffocanti cassetti dell’amatorialità. La raccolta di saggi che avete tra le mani tenta quindi di rispondere all’esigenza di rilanciare, anche provocatoriamente, il dibattito sui comics in Italia, riaprendo interrogativi e spazi di problematicità, e spostando l’ordine del discorso verso le grandi trasformazioni di scenario a cui il fumetto partecipa sebbene sia passato un secolo dalla sua nascita, oppure proprio per questo: cento anni che separano non solo due tempi storici, ma forse due antropologie. Dal 1908 a oggi, da lì a qui, le soggettività che attraversano e caratterizzano (in un senso letterale di performance) la scena della storia sono mutate all’estremo, incarnando prospettive e sviluppi che mettono radicalmente in crisi il senso complessivo della modernità. Il fumetto è, appunto, uno dei luoghi in cui tale differenza può essere ricostruita e dunque riconosciuta. Anche a costo di perdere la sua vocazione infantile, le sue giovanili seduzioni, il suo sequenziale procedere per incantamenti del mondo.
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È quanto suggerisce, per esempio, l’intervento di Alberto Abruzzese, una delle voci più irrituali della sociologia contemporanea, che tanto ha rinnovato in passato gli approcci allo studio del fumetto. Nel suo scritto, Abruzzese interroga il lettore di comics, ma anche il loro studioso, sul senso che attualmente riveste la pratica del consumo di immaginario disegnato. Funziona ancora, il fumetto, per permettergli di legger-si nel mondo? È una domanda centrale, forse la domanda che dobbiamo porci per approdare a una nuova dimensione socioculturale del medium. Sempre che questa sia possibile, oppure utile. Nella misura in cui li «sfida», l’incipit di Abruzzese è la pietra angolare che collega tra loro gli interventi del libro. Vi fa esplicito riferimento Gino Frezza nella sua tanto accurata quanto appassionata ricognizione nei formati che hanno segnato l’esperienza del fumetto italiano, i suoi piani di riconoscimento collettivo in cui leggiamo le trasformazioni delle culture mediatiche nazionali in relazione ai mutamenti dell’industria culturale sino alle soglie della rivoluzione digitale. Vi fa riferimento anche il sottoscritto, nel tentativo di ricostruire il mutare dei modelli di serialità del fumetto in Italia, nel quadro di una sistema dei media segnato dall’incompiutezza delle dinamiche industriali e dai limiti dell’antimodernismo. Il saggio di Daniele Barbieri recupera invece la riflessione, estremamente conflittuale e mai sciolta, sul nesso tra originalità e ripetizione nella produzione delle forme estetiche. Un tema aristotelico che nel fumetto, bizzarro oggetto mediatico in cui il vero «originale» è costituito dall’immagine tecnologicamente riprodotta, diventa particolarmente interessante e incline al paradosso, sconvolgendo le consuete categorie di interpretazione dell’opera d’arte e della cultura di massa. Il lavoro di Marco Pellitteri si orienta sulla difficile ecologia instauratasi in Italia tra comunicazione a fumetti e strategie della scolarizzazione di massa. Interrogandosi sui modi in cui la scuola italiana si è relazionata ai comics, Pellitteri individua alcuni punti di grande pertinenza e criticità sul rapporto tra emergenze generazionali e vitalità dei processi di alfabetizzazione nel nostro paese. Un argomento che confina, per molti versi, con la ricostruzione delle storiografie nazionali del fumetto effettuata da Fabio Gadducci e Matteo Stefanelli: anche qui, infatti, conflitti di culture e assetti di potere si intrecciano determinando uno scena-
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rio complesso, dove tuttavia si può cogliere sia il mutare della percezione dei comics nella vita culturale della nazione, sia il rispecchiarsi dei problemi di metodo nella più generale questione della legittimità del medium (e qui il pensiero torna a Abruzzese e alla sua domanda sull’utilità e funzionalità dei metodi). Luca Raffaelli recupera un tema essenziale dell’immaginario a fumetti, interrogandosi sulla relazione tra la figura dell’eroe – ovvero del protagonista, spesso antieroico, del fumetto italiano a partire dal dopoguerra – e quella del padre. Raffaelli analizza un’ampia galleria di personaggi alla ricerca delle ricorrenze significative tra vissuti dell’infanzia, struttura familiare e dimensione individuale, rintracciando nella centralità mitopoietica del parricidio una possibile chiave di lettura del rapporto tra eroe, autore e lettore. Adolfo Fattori e Stefano Cristante scelgono di occuparsi di due personaggi seriali della fabbrica Bonelli. Il primo individua in Tex e nella sua mutevole identità di genere un oggetto essenziale nel quadro della modernizzazione dei media nazionali (aspetto, peraltro, irrinunciabile per comprenderne l’estrema ed efficace longevità nell’economia dei consumi di comics). Il secondo procede all’analisi di un character più recente e per molti versi innovativo, confermando la qualità sincretica delle produzioni bonelliane ma anche la loro capacità di rinnovare modelli seriali e parametri dell’immaginario. Infine, attraverso una breve quanto densa ricostruzione del lavoro di Dino Battaglia, autore nevralgico nel panorama del fumetto italiano, Enrico Fornaroli mette in gioco in una prospettiva singolare alcuni nodi importanti: il rapporto tra fumetto e letteratura, il fecondo dialogo tra testi della cultura di massa e repertori tecnici dell’arte, l’incrocio produttivo tra racconto e sperimentazione grafica audiovisiva. In tal senso, l’analisi di Fornaroli trascende la figura del grandissimo Battaglia per rimandare a un più vasto orizzonte tematico, comprensivo di molte delle questioni che si legano a un secolo di vita, passione e lavoro del fumetto italiano.
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III. Il filo del racconto Fumetto italiano e trasformazione delle culture seriali di Sergio Brancato
III.1 I comics tra immagine e scrittura
Il fumetto è, per sua natura, un artefatto seriale. Se guardiamo alle origini di questo linguaggio, al magma delle dinamiche culturali in cui si definiscono reciprocamente le sue tecniche e le sue pratiche, esso ci appare come un luogo – un vero e proprio spazio socialmente condiviso e, per molti versi, abitato – in cui si evidenziano le formidabili tensioni ideative della società di massa nella fase della sua piena affermazione a partire dalle logiche della produzione e del consumo in serie. Perfino il ritardo storico e tecnologico registrato al momento della sua genesi dal fumetto italiano (fenomeno culturale che per convenzione largamente accettata vede la luce sulle pagine del Corriere dei Piccoli nel 1908, dunque oltre un decennio dopo la fatidica apparizione di Yellow Kid sul New York World) rientra in questo assunto e ne conferma il significato globale nella misura in cui rimanda ai più generali ritardi e alle peculiari anomalie dei processi di industrializzazione nel nostro paese. Forse nessun altro linguaggio dell’industria culturale palesa con tale chiarezza l’insieme dei conflitti legati alle pratiche che ridefiniscono la forma del quotidiano nel tempo della metropoli. Certo, il cinema – medium coevo e perfino «complice» delle strategie mediatiche dei comics – dispiega una superiore potenza tecnologica, lo splendore spettacolare del grande schermo, il massiccio impatto economico dei suoi apparati; tuttavia il fumetto condensa, nel ristretto perimetro visivo delle sue tavole e nella estrema sintesi grafica delle sue strip, la manifesta attitudine all’ibridazione – dall’intertestualità all’intermedialità – di un linguaggio che architetta sé stesso sulla faglia instabile collocata fra le tra-
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dizioni della scrittura e l’emergenza dirompente di un rinnovato rapporto con l’immagine, la dinamica culturale che segna l’avvento novecentesco dei mass media audiovisivi in virtù della loro capacità di restituire le mutazioni profonde del corpo individuale come di quello sociale. Il fumetto reperisce il proprio originario significato seriale dentro questo processo generale, caratterizzato da modalità di comunicazione strettamente correlate con lo sviluppo e le esigenze del capitalismo moderno, dunque con le necessità di un modello di organizzazione sociale che ridefinisce radicalmente le funzioni del corpo. Il fulcro della natura seriale dei comics risiede nei processi di affermazione della riproducibilità tecnica delle forme estetiche,1 un movimento complesso, lungamente protrattosi nel tempo della modernità, che riscrive il significato dell’arte nell’orizzonte della fabbrica e dei suoi paradigmi.2 Se ricostruiamo il processo che porta alla cosiddetta «arte sequenziale» del fumetto (secondo un’intrigante definizione di Will Eisner),3 ci rendiamo conto che la genesi di questa narrazione per immagini risiede non negli innumerevoli esempi di connubio funzionale tra immagine e testo, ma nella «guerra» sistematica che il tempo del Moderno registra tra egemonie della scrittura e inquietudini del corpo, irriducibilità del simbolico, metaforicità dell’immaginario. Il fumetto si fonda, dunque, non su un’alleanza (scrittura e testo all’interno del medesimo spazio di significazione) quanto piuttosto su un dissidio, sull’aspro conflitto tra razionale e irrazionale, o – se si vuole – tra «ragione» e «sentimento», quindi logiche del controllo sociale e sovversioni del corpo. I media scaturiti dalla rivoluzione industriale incamerano sempre tali istanze di mutazione, a cui è legata la loro estrema «mobilità», restituendoci le immagini del conflitto che ruota intorno ai processi di modernizzazione. Il recupero dell’illustrazione nei piani lin1 Cfr. Walter Benjamin, «Das Kunstwerk in Zeitalter technischen Reproduzierbarkeit» (1936), in Id., Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955 (trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966). 2 Cfr. Alberto Abruzzese, Forme estetiche e società di massa. Arte e pubblico nell’età del capitalismo, Venezia, Marsilio, 1973. 3 Cfr. Will Eisner, Comics and Sequential Art, New York, Poorhouse Press, 1985 (trad. it. Fumetto & arte sequenziale, Torino, Pavesio, 1997).
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I COMICS TRA IMMAGINE E SCRITTURA
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Hogan’s Alley (1894), la serie di tavole su cui apparve il personaggio Yellow Kid.
guistici della galassia Gutenberg,4 operato attraverso i corredi iconografici che integravano l’azione narrativa della scrittura nelle pagine dei libri, non partecipa alla ricerca dell’armonia tra diversi codici espressivi quanto alla lotta, corpo a corpo, tra culture sospese sulle differenti traiettorie di sviluppo della società di massa. Espressione di un tempo storico – la benjaminiana infanzia della metropoli5 – in cui era forse ancora possibile tentare di discernere i diversi codici delle pratiche comunicative, opponendoli tra loro nella demarcazione dei campi di potere delle ideologie della modernità, l’il-
4 Sui processi di affermazione dell’egemonia del testo stampato, cfr. Marshall McLuhan, The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic Man, London, Routledge & Kegan Paul, 1962 (trad. it. La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando, 1976). 5 Sulla genesi dell’esperienza metropolitana, cfr. Walter Benjamin, Schriften, cit. (trad. it. Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962).
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lustrazione recupera i repertori iconografici delle precedenti tecniche espressive (la pittura e soprattutto il disegno, con le convenzioni relative alla rappresentazione grafica del corpo in movimento che ereditiamo dai laboratori estetici del manierismo cinquecentesco) all’interno della nascente industria culturale, ma li subordina alla preponderanza della scrittura nell’economia politica della comunicazione. L’illustrazione è tale poiché illustra le parole del testo inscritto nel procedimento razionale della gabbia tipografica, innestandosi su di esso e nei corpi dei fruitori su un piano ancora marginale, surrettizio, di corredo. Non a caso, l’interpretazione etimologica del termine in questione rimanda a significati inerenti l’illuminare, il render chiaro, l’esporre, lo spiegare, l’interpretare: illustrare la scrittura significa quindi lavorare sull’accessibilità del suo costituirsi in «testo», ma ancora all’interno delle logiche dello sguardo, di quelle pratiche dell’occhio che costituiscono la mediazione spettacolare tra identità individuale e pubblico di massa. Nel puntellare l’immaginazione del pubblico attraverso le illustrazioni, si diradavano le nebbie della scrittura, il ricorso a termini e concetti dal significato spesso iniziatico (ad esempio: che cos’è il «babirussa» che spesso ricorre nel ciclo malese di Emilio Salgari? cosa sono gli «alamari» che rendevano eleganti le divise dei moschettieri dumasiani?), ma al contempo si moltiplicava il mistero dell’atto comunicativo, l’imprevedibilità del consumo rispetto ai generi e alle loro varianti, il «segreto» del piacere seriale legato agli oggetti industriali della cultura di massa, alla loro ripetizione nel ciclo dell’economia metropolitana. L’interazione tra differenti codici linguistici, la sistematica contaminazione di culture e tradizioni del comunicare, rappresenta la condizione imprescindibile di quel principio del lavoro collettivo che ha prodotto il sistema dei media novecenteschi, sostenendo l’avvento della serialità come ideologia e prassi delle nuove modalità di socializzazione. Se ricercassimo una semplice linearità in questo processo di ricostruzione dei linguaggi di massa, allora potremmo assumere il dato – in sé neppure errato – che l’illustrazione costituisca, nelle sue diverse accezioni e strategie di genere, lo snodo tra Ottocento e Novecento nelle pratiche della comunicazione grafica. Ma una simile lettura ridurrebbe l’invenzione sociale del fumetto a una operazione interna ai testi, alla loro for-
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mulazione e interpretazione, ai loro rapporti di potere, mentre il problema teorico a cui dobbiamo far fronte si lega alle motivazioni che determinano l’estrema disponibilità dello spettatore ottocentesco – ovvero del consumatore di merci culturali che si muove in un’oscillazione sempre più frenetica tra lo spazio della scrittura e quello delle immagini – a integrare nel proprio orizzonte d’esperienza un corpus di tecniche complesse come quelle necessarie a governare il rapporto con i cicli simbolici dell’immaginario.6 Il motore di questa fase aurorale del medium disegnato va individuato dunque nel corpo del consumo e nelle sue pulsioni, individuali e collettive, nella propensione al desiderio che torna a declinarsi nelle tecniche del disegno riprodotto a stampa, nell’iteratività originaria del corpo e delle sue immaginazioni condivise. È questa fisicità del fumetto che, per molti versi, anticipa le tendenze più generali dei media audiovisivi: partendo dall’illustrazione, che sembra collaborare da brava ancella alle strategie del testo mentre in realtà complotta contro le sue tradizioni e gerarchie valoriali, si arriva a un’espansione esponenziale dello spazio dedicato alle immagini, una crescita accelerata che si lega all’avvento delle masse metropolitane e alla loro azione volta a disinnescare i meccanismi di interdizione ed esclusione tipici delle culture letterarie. L’avvento del fumetto, e il suo «imprevedibile» successo nelle pratiche quotidiane della comunicazione novecentesca, va visto in questa prospettiva come l’evento che sancisce il definitivo superamento del dualismo tra immagine e scrittura, nonché il conseguimento di un nuovo ordine generale della comunicazione, configurandosi in definitiva come il terreno prioritario di quelle ibridazioni spinte che colgono la natura mutante e cibernetica del nuovo consumatore.7
6 Sulla costruzione sociale del linguaggio dei comics, cfr. Sergio Brancato, Fumetti. Guida ai comics al sistema dei media, Roma, Datanews, 1994. 7 Cfr. Alberto Abruzzese, Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, Genova, Costa & Nolan, 1996.
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III.2 Origini della serialità a fumetti
In questa prospettiva, i comics costituiscono la piattaforma espressiva in cui il rapporto tra scrittura e immagine ridefinisce le proprie forme alla luce della riproducibilità tecnica resa possibile dalla progressiva meccanizzazione della stampa come dall’emergere di nuove culture del consumo. La dimensione seriale di questo processo è centrale. Il fumetto emerge da due tra le principali filiere produttive che nel corso del secolo XIX avevano contribuito a far convergere le tradizioni culturali premoderne nell’alveo delle logiche industriali: da un lato, la produzione letteraria (con il suo correlato di generi e di dispositivi di relazione con il pubblico); dall’altro, la produzione grafica (con un variegato retaggio di repertori visivi, tecniche, finalità e canali di diffusione). Sia la letteratura che l’illustrazione avevano affrontato, perfino prima della rivoluzione industriale, un processo di serializzazione legato al mutare delle condizioni del consumo. Ma è con l’avvento pieno del secolo XVIII e delle sue radicali trasformazioni che entrambi i linguaggi si avviano a trovare soluzioni sempre più spinte verso un’inedita «prossimità» al corpo sociale. La natura dei supporti tecnici è decisiva: nel momento in cui la letteratura si ritrova nello spazio testuale e fisico della stampa popolare, in cui riemerge con forza il problema della «dicibilità» del corpo e delle sue pulsioni, essa deve adattarsi alle nuove condizioni di consumo attraverso la messa a punto di nuove culture della produzione. L’esempio più emblematico è quello delle pubblicazioni a dispense di romanzi. Come accade nel 1836 con Il circolo Pickwick di Charles Dickens, il cui successo senza precedenti costituì il precedente per una profonda riformulazione sociale del romanzo borghese e del suo ruolo nel sistema delle arti.8 A sua volta, già nel corso del Settecento è ormai ampiamente diffusa la circolazione delle stampe, soprattutto di quelle satiriche, spesso realizzate da grandi artisti della pittura aperti al senso del nuovo scenario della comunicazione.9 8 The Posthumous Papers of the Pickwick Club, abbreviato in The Pickwick Papers. Sulle origini della serialità, cfr. Daniela Cardini, La lunga serialità televisiva. Origini e modelli, Roma, Carocci, 2004. 9 Pensiamo all’estrema modernità del lavoro di William Hogarth (1697-1764), pittore e incisore inglese, che ottenne una grande notorietà soprattutto con le sue stampe satiriche e scrisse un trattato estrema-
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Il fumetto delle origini, dunque, si ritrova all’interno di un conflitto di culture che adegua il consumo delle arti ai nuovi modelli di produzione industriale. La dimensione seriale del linguaggio si riconduce alla natura della fabbrica, ovvero alla produzione di massa intesa come realizzazione in serie di oggetti che aderiscono a criteri di standardizzazione. Ma le stesse condizioni del lavoro creativo del fumetto presumono forme seriali di espressione: generatosi nell’inquieto articolarsi dell’illustrazione e dei suoi differenti piani di declinazione, fortemente imparentato con le strutture della letteratura di massa (da cui desumerà, a partire dal gennaio del 1929, l’applicazione strategica del sistema dei generi – vi ritorno in seguito), il fumetto «nasce» davvero nel momento in cui si pone lo stesso problema che permette al cinematografo di trasformarsi da tecnologia auto-esibita in un linguaggio espressivo, ovvero nel cinema così come lo riconosciamo e accettiamo. Il problema di cui si sta parlando è quello di riuscire, in maniera adeguata alle nuove emergenze culturali del pubblico metropolitano, a raccontare storie.10 Qui cominciamo a registrare i più profondi processi di diversificazione tra le forme ottocentesche dell’illustrazione popolare e i comics, ovvero di quel particolare medium che – agendo sulla base delle culture grafiche e delle loro tecniche di riproduzione seriale – conquista una posizione non secondaria nelle dinamiche di interazione tra media novecenteschi e pubblico di massa. Per alcuni versi sarebbe possibile affermare che il fumetto sta all’illustrazione come il cinema sta alla fotografia: in entrambi i casi, lo sviluppo dei due media audiovisivi si fonda sulla concatenazione significativa di elementi di base, che nel cinema sono costituiti dai fotogrammi e nel fumetto dalle immagini grafiche, nel quadro di una strategia che traduce il piano narrativo delle singole componenti in un racconto strutturato d’insieme. Ma è chiaro che questa analogia risulta un po’ meccanica e riduttiva, poiché non tiene conto del contributo di competenze specifiche che ciascun medium richiede al proprio pubblico per potersi attivare. Come a dire che, così come il cine-
mente innovativo sulle trasformazioni in atto al suo tempo nelle pratiche dell’arte. Cfr. William Hogarth, The Analysis of Beauty (pr. ed. 1753; trad. it. L’analisi della bellezza, Palermo, Aesthetica, 2001). 10 Cfr. Edgar Morin, Le cinéma ou l’homme imaginaire. Essai d’anthropologie sociologique, Paris, Les Éditions de Minuit, 1956 (trad. it. Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli, 1962).
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ma si sviluppa sulla base di una crescita culturale del rapporto tra immagine fotografica, antropologia dello sguardo e racconto, in ugual misura il fumetto sviluppa il proprio specifico linguistico sulle tensioni che agitano il piano «inquieto» dell’illustrazione, da sempre luogo di scontro e conflitti tra codici espressivi, controllo sociale, istanze della sessualità. Mentre il cinema si rende possibile ed «esiste» nella sua dimensione dinamica, dunque temporale, moltiplicando l’attimo del singolo fotogramma in una catena semantica organizzata dalla tecnologia otticomeccanica che ne è alla base, il fumetto mette a punto altri dispositivi – forse perfino più sofisticati, almeno sul piano culturale – per incamerare il tempo e rendersi, così, compiutamente narrativo. Lo fa dapprima attraverso un uso sperimentale e spettacolare della prospettiva, o degli «sfondamenti» delle regole di questa (per esempio, nella tensione allucinatoria dei trompe l’œil che spesso ricorrono nella fase di sperimentazione sociale del medium), e poi definendo i termini grammaticali e sintattici della sequenzialità grafica, vera e propria svolta verso l’adesione del mezzo cartaceo alla nascente cultura degli audiovisivi. È come se i tradizionali confini dell’illustrazione, contenuti e sagomati dallo spazio della pagina, esplodessero sotto l’azione di un duplice lavoro, quello dei creativi eredi delle tradizioni dell’arte impegnati nella definizione di campo della cultura di massa (da James Swinnerton a Richard F. Outcault, da Winsor McCay a Lyonel Feininger) e quello del crescente pubblico dei lettori/spettatori, impegnati nell’elaborazione sociale di una pratica comunicativa capace di integrare gli opposti codici della scrittura e dell’immagine. La cornice dell’illustrazione non riesce più a contenere il fermento che attraversa il corpo sociale, le sue tensioni verso una rimediazione sostenuta dal progresso tecnologico e dalle mutate condizioni ambientali della vita metropolitana.11 Come accade nelle trasformazioni di sistema, le vecchie forme si adeguano alle nuove sollecitazioni dell’utenza sino ad acquisire inedite morfologie. Ma soltanto se cogliamo la centralità del supporto che ospita lo sviluppo del medium disegnato si 11 Sui processi di ri-mediazione, cfr. Jay David Bolter – Richard Grusin, Remediation: Understanding New Media, Cambridge (MA), MIT Press, 1999 (trad. it. Remediation. Competizione e integrazione fra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini e Associati, 2002).
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rende possibile comprendere appieno gli esiti del processo che qui si sta ricostruendo: i comics si ancorano sin dall’inizio alle sorti della stampa quotidiana che, nello snodo tra Ottocento e Novecento, soprattutto negli Stati Uniti, conquista il ruolo di tessuto connettivo dei moderni statinazione. In altri termini, i giornali garantiscono la diffusione delle informazioni necessaria a sostenere i nuovi ritmi di espansione del capitale, riorganizzando le società in direzione di un modello di sviluppo fondato su produzione e consumi di portata industriale. Il fumetto si insedia e definisce, all’interno di questa dinamica di trasformazione, delle modalità di contatto e conoscenza del mondo moderno, rientrando nel quadro di quella «invenzione» sociale del tempo libero che rimodella pubblici e confini del consumo culturale,12 e non sarebbe possibile senza l’affermazione della stampa quotidiana come contenitore del tempo collettivo e – dunque – politico, un tempo costituito dalle istanze del lavoro come da quelle dello svago. Le prime espressioni del fumetto rispondono all’esigenza dei nuovi strateghi della carta stampata (i veri architetti delle grandi catene di giornali, governate da Joseph Pulitzer e William R. Hearst) di allestire nello spazio del quotidiano un’offerta di generi, modulata tra l’informazione e l’intrattenimento, in grado di intercettare i diversi bisogni del pubblico di massa. I comics si evolvono all’interno di questa sperimentazione, volta a negoziare nei consumi metropolitani le nuove forme della comunicazione. Il laboratorio diffuso del cambiamento mediatico si lega così, inevitabilmente, alla frequenza dei «contatti» tra spettatori del fumetto e apparati produttivi, in cui si intrecciano le logiche dell’industria e il lavoro artistico finalizzato alla riproducibilità tecnica: dall’erotismo di questi reiterati contatti, veri e propri sfioramenti libidinali, non a caso riconducibili alla sfera composita del «piacere del consumo» e del «consumo del piacere», si definisce il modus operandi della serialità a fumetti, che dopo una dozzina d’anni passa dalla ciclicità settimanale della sunday page (la grande illustrazione policroma che comincia a ospitare tempi e temi narrativi più complessi, organizzando la scansione del racconto attraverso la 12 Cfr. Gary Cross, Time and Money: The Making of Consumer Culture, London, Routledge, 1993 (trad. it. Tempo e denaro. La nascita della cultura del consumo, Bologna, Il Mulino, 1998).
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A sinistra: Little Nemo in Slumberland (1905) di Winsor McCay. Sopra: Mutt and Jeff (1907) di Bud Fisher.
prospettiva o recuperando la successione in quadri già presente nelle tradizioni dell’arte) alla quotidianità della strip, il breve «film» di carta che dal 1907, con il varo della prima daily strip di successo (Mutt and Jeff di Bud Fisher), scorre dinnanzi agli occhi del lettore aprendogli una nuova e dinamica frontiera della comunicazione di massa. La serialità dei comics si evolve ininterrottamente, trovando nuove piattaforme espressive che producono effetti sia sulle estetiche, sia sulla qualità del lavoro intellettuale che ne è alla base. Tra la sunday page e la strip si instaura una feconda reciprocità: mentre la striscia in bianco e nero assolve il compito di coprire la quotidianità con la sua presenza discreta e continuativa, che riprende i criteri di scansione a puntate tipiche del feuilleton, il paginone domenicale a colori riallarga il campo della spettacolarità grafica, donando respiro visivo al racconto della serie. Ormai si è, appunto, a questo: il fumetto si struttura per serie, per lo più fondate su personaggi dall’immediata riconoscibilità, perpetuando
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così una consuetudine consolidata ma procedendo, gradualmente, alla serializzazione intima dei propri presupposti narrativi; per esempio, affermando la priorità degli apparati produttivi sulla centralità intellettuale dell’autore. Sebbene ancorato per lunghi anni all’identità del genere comico e scandito da una ritmica del racconto che tendeva ad aprirsi e chiudersi nell’arco di un iter sempre uguale a sé stesso, fondato sulla produttività della ripetizione rituale, il fumetto si attesta sulla prossimità al consumo che l’industria culturale garantisce attraverso l’integrazione organica tra ciclo della merce e struttura elementare del mito, ovvero di una narrazione ricondotta alla sua basilare funzione di mettere ordine nell’esperienza caotica del mondo. Solo nella proiezione sugli archi temporali della produzione in serie può darsi il radicamento del consumo di fumetto e delle sue specificità mediatiche. Tutta la storia successiva del medium può essere ricondotta alle strategie che si sono susseguite nel corso del Novecento per aggiornare il rapporto con le culture del consumo e per adeguarsi alle trasformazioni in atto nel sistema dei mezzi di comunicazione, che inevitabilmente riposizionavano i comics nell’economia mobile dei media industriali, costringendoli così a rifondare le proprie forme a partire dall’organizzazione dell’interfaccia con il pubblico. La serialità a fumetti si è articolata in un sistema che, moltiplicando i supporti (per esempio, attraverso la nascita del comic book negli USA, alla metà degli anni Trenta), si è resa in grado di ampliare il proprio orizzonte d’azione, coinvolgendo segmenti sempre più specializzati di pubblico. III.3 Origini e strategie della serialità in Italia
La vicenda che si è fin qui ricostruita riguarda per lo più le dinamiche dell’industria culturale negli Stati Uniti, la nazione in cui i processi di modernizzazione hanno avuto modo di svilupparsi in maniera avanzata, riverberandosi sul resto del pianeta. È importante ricordare questa centralità, poiché la storia dei media di massa europei si fonda sulla relazione a distanza con il mondo, insieme mitico e alieno, prossimo e distante, degli USA: non potremmo capire quanto accade al cinema del vecchio continen-
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te negli anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, per esempio, se non assumessimo il parametro hollywoodiano quale criterio essenziale nello sviluppo delle estetiche filmiche europee, e non solo di quelle.13 Il «riverbero» dello splendore di Hollywood è, in realtà, solo parte di un più vasto processo di mitizzazione dell’altro mondo, del Nuovo Continente che ospita, nel medesimo tempo, il vecchio immaginario esotico (in cui primeggia la figura di Calibano, il «selvaggio» pellerossa destinato a testimoniare in negativo la storia dell’Occidente) e gli esiti futuristici dell’immaginario tecnologico, entrambi sospesi sullo spazio pluridimensionale di una «frontiera» che sintetizza in sé i conflitti del Moderno, figurandoli con assoluta efficacia. L’amore per il genere western che gli italiani confermeranno nel dopoguerra con il successo senza possibili raffronti di Tex (il più antico personaggio seriale italiano in attività) o con l’exploit internazionale di Sergio Leone (che traduce la serialità connaturata al western su un piano autoriale) indica, al di là delle considerazioni più banali sull’escapismo della cultura di massa, l’intensità con cui il pubblico nazionale perseguiva la rincorsa ai modelli di vita della modernità. Ma il vero punto di partenza, che restituisce lo stato del fumetto italiano delle origini, è senza dubbio costituito dall’esperienza del Corriere dei Piccoli. Certo, non va dimenticato che anche in Italia si registra la medesima azione genetica dell’illustrazione e del racconto popolari ricostruita, nei precedenti paragrafi, in relazione all’industria culturale d’oltreoceano, sebbene con numerosi e non secondari distinguo legati all’arretratezza di sistema – insieme culturale e tecnologica – del nostro paese in merito all’industrializzazione e alla massificazione della società. Anche da noi la storia delle narrazioni grafico-letterarie vede una forte preesistenza dell’illustrazione come corredo delle innovazioni letterarie,14 ma ovviamente i fermenti sono molto più normativizzati e appesantiti dal retaggio di una tradizione culturale che penalizza la sperimentazione e la messa in discussione delle egemonie consolidate nel testo. 13 Basti pensare all’influenza delle scenografie hollywoodiane sui riti di massa della politica. A riguardo, cfr. Sergio Brancato, La città delle luci. Itinerari per una storia sociale del cinema, Roma, Carocci, 2003. 14 Su letteratura e illustrazione in Italia, con particolare riferimento all’orizzonte d’esperienza dell’infanzia, cfr. Antonio Faeti, Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l’infanzia, Torino, Einaudi, 1972.
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Il 27 dicembre 1908, dunque, può essere assunta come una credibile data di innesco della comunicazione a fumetti in Italia nella misura in cui il Corriere dei Piccoli, sia pure continuando a proporre una serie di attardamenti e di interdetti, manifesta la sopraggiunta disponibilità di produzione e consumo a confrontarsi sul terreno di un sostanziale rinnovamento del sistema dei media. Tuttavia, anche qui dobbiamo comprendere che questo processo presenta tratti meno netti di quanto di solito si supponga: occorre non dimenticare, infatti, che nel passaggio tra Ottocento e Novecento il fumetto è, in Italia, solo una delle opzioni possibili perseguite – dapprima in maniera rapsodica, poi con crescente convinzione – dalle pubblicazioni che, rivolgendosi alla famiglia, tendevano a estendere il proprio bacino d’utenza.15 Dunque, in quel primo numero del «Corrierino» (che seguiva precedenti iniziative similari come Il Giornalino della Domenica di Vamba, alias Luigi Bertelli) solo quattro delle venti pagine sono dedicate a fumetti, peraltro concepiti o tradotti nella versione che non prevede il balloon ma la frase in rima collocata in basso, sotto la cornice della vignetta, come dire «a sostegno» dell’immagine: la tavola d’apertura, collocata in prima pagina, italianizza col nome di Mimmo il celebre personaggio Buster Brown, creato da R.F. Outcault nel 1902, mentre all’interno ritroviamo Maud di Frederick Burr Opper, serie del 1905, ribattezzata Checca mula scostumata. Non v’è alcun riferimento all’origine delle tavole o dei loro autori, mentre le due storie italiane – l’edificante Mario e Maria e l’assai più interessante Bilbolbul – sono invece firmate, con il solo nome, da Attilio Mussino. Il problema giuridico del diritto d’autore si sposa a quello culturale della legittimità artistica degli autori di comics. Tuttavia, sebbene in maniera implicita, le modalità dell’esordio dei fumetti sulle pagine del «Corrierino» costituiscono un primo chiaro momento di ibridazione e apertura del consumo nazionale di comics, di incrocio produttivo con gli apparati più evoluti dell’editoria statunitense, una relazione che continuerà nel tempo portando in Italia molti character americani e, al contempo, il loro potenziale di innovazione tecnoculturale. 15 Sulla storia del fumetto italiano, cfr. Claudio Gallo – Giuseppe Bonomi, Tutto cominciò con Bilbolbul. Per una storia del fumetto italiano, Zevio (VR), Perosini, 2006.
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Occorre considerare, tuttavia, che anche dall’interno del sistema italiano della comunicazione si registrano movimenti in avanti. Le prime pagine del Corriere dei Piccoli, in vendita alla domenica al costo di 10 centesimi di lira, possono essere inquadrate in un grande processo di modernizzazione della carta stampata che stava avendo luogo nell’Italia primonovecentesca. Il «Corrierino» conferma la politica del Corriere della Sera – sua testata madre e già allora maggior quotidiano nazionale – di allargare il raggio d’azione della comunicazione, implementandone l’accessibilità e variegandone gli obiettivi, per esempio attraverso la pubblicazione della Domenica del Corriere (1899-1989), altra importante sperimentazione della comunicazione grafica, stavolta sul piano dell’informazione, il cui percorso finirà inevitabilmente per incrociare le strade del fumetto italiano e confermare l’avviato processo di interazione funzionale tra differenti media, generi e linguaggi dell’immaginario. In sintesi, è possibile considerare l’integrazione dei pubblici operata attraverso la diversificazione delle testate giornalistico-letterarie del Corriere della Sera un importante segnale dei processi di modernizzazione delle culture nazionali che caratterizzarono l’età giolittiana.16 Nella sua apparente «ingenuità», il Corriere dei Piccoli funziona come collettore delle iniziative editoriali che l’avevano preceduto, inaugurando un nuovo linguaggio – che sarebbe diventato sempre più presente e importante negli anni a seguire – e potenziando il meccanismo dell’attesa nel rapporto tra le serie e il loro pubblico: di settimana in settimana, i lettori del «Corrierino» (non necessariamente «piccoli», poiché il target comincia da subito ad allargarsi) rincorrevano le narrazioni iterative di Bilbolbul, probabilmente il primo vero personaggio del fumetto italiano,17 e degli altri caratteri disegnati da autori di assoluto rilievo quali Antonio Rubino, Guido Moroni Celsi o Sergio Tofano. 16 Cfr. Claudio Carabba, Corrierino, Corrierona. La politica illustrata del Corriere della Sera, Milano, Baldini & Castoldi, 1998. 17 Almeno nella misura in cui è il primo ad aderire in maniera scoperta e proficua al modello dell’enfant terrible che, a partire dalle malefatte di Max e Moritz (i monelli terribili creati da Wilhelm Busch nel 1865), fornisce al nascente fumetto la principale materia prima della sua affermazione presso il pubblico delle famiglie, ovvero una formidabile rappresentazione cifrata del conflitto tra mondo dell’infanzia e mondo adulto.
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Checca mula scostumata (cioè Maud, 1905, di Frederick Burr Opper).
Proprio al grande Tofano, in arte Sto, straordinario attore teatrale e cinematografico nonché brillante autore di libri per ragazzi, dobbiamo l’immagine forse più esemplare del primo modello di serialità italiana, che permise il radicamento del medium disegnato – sia pure con riemergenti ostracismi che ne limitavano la presenza sul mercato – e il suo affermarsi come risposta a bisogni e desideri del pubblico: attraverso il personaggio del Signor Bonaventura, apparso nel 1917, si afferma in via definitiva lo schema fondato sulla reiterazione delle coordinate del racconto, scandito dalla ripetitività della filastrocca che accompagna le immagini. In un arco di tempo molto lungo, Bonaventura (considerato da alcuni l’ultima maschera della commedia dell’arte) rinnova il mito provvidenzialistico della ricompensa per la buona azione, toccando la sensibilità del «giovane» lettore metropolitano con la qualità seriale delle storie (che garantiscono al pubblico la gratificante emozione del ritrovare il già noto) e la sensibilità grafica di un universo narrativo che rende acces-
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sibili stili e tonalità della ricerca artistica più aggiornata, rimandando in maniera costante il fruitore al corpus eterogeneo di riferimenti che costituisce l’essenza della cultura di massa e della sua onnicomprensività socio-semiotica. In un contesto di questo tipo, la stessa persistenza del ricorso alla didascalicità in versi della filastrocca sembra rimandare a una sofferta aspirazione di tecnologie audiovisive ancora di là da venire. Il fumetto italiano, quindi, si origina all’interno di contenitori che raccolgono frammenti linguistici e soggettività in trasformazione, assemblando i primi in nuovi assetti strategici e sostenendo le seconde nel confronto con un universo mediatico estremamente dinamico. Nelle pagine del Corriere dei Piccoli si riannodano i fili tra le fondamentali esperienze della modernità ottocentesca e gli esiti primonovecenteschi della cultura di massa, incontrandosi in maniera non casuale nel corpo in formazione dell’infanzia, nel «fanciullino» o nel «monello» che mettono in figura le inquietudini di una trasformazione chiaramente in atto generazione dopo generazione: di lì in avanti, il complesso processo di adeguamento nazionale al «destabilizzante» orizzonte dei media audiovisivi può compiersi, consumando definitivamente la memoria dei testi letterari, che ritroveranno attualità come presupposto e fondamento del cinema e del fumetto, dunque come scrittura soggiacente all’organizzazione della società dello spettacolo. Al valore innovativo di tale azione, tuttavia, si contrappone ancora la resistenza alla modernità sancita da alcune politiche editoriali. Va ricordato, in tal senso, l’ostracismo di Antonio Rubino e dei suoi successori, tra cui spicca Giovanni Mosca, verso un fumetto reso compiutamente audiovisivo attraverso l’adozione linguistica del balloon piuttosto che l’ancoraggio alla conservatrice letterarietà della didascalia.18 Il grande ritardo che affligge l’industria culturale italiana, in sé mai davvero compiuta, è integralmente riconducibile alla scarsa qualità che sempre hanno palesato i suoi segmenti nel procedere per sinergie.19 18 Cfr. Sergio Brancato, «La malinconia della voce fuori campo: confondere i ruoli tra autore, personaggi e lettore. Appunti su Eisner, Micheluzzi e Miller», in Daniele Barbieri (a cura di), La linea inquieta. Emozione e ironia nel fumetto, Roma, Meltemi, 2005. 19 Cfr. David Forgacs, Italian Culture in the Industrial Era 1880-1990: Cultural Industries, Politics and the Public, Manchester – New York, Manchester University Press, 1990 (trad. it. L’industrializzazione della cultura italiana, 1880-1990, Bologna, Il Mulino, 1992).
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Questo è il motivo per cui le singole esperienze nazionali hanno sempre fatto fatica a interagire tra loro, dunque ad arricchirsi reciprocamente attraverso lo scambio di professionalità, tecniche, competenze creative e imprenditoriali. Il fumetto italiano non si affranca da questa condizione, e procede per lente innovazioni e assai più rapide appropriazioni degli scatti tecnici e linguistici che si verificano altrove: come a dire che il lavoro del consumo risulta in quegli anni più efficace e nell’insieme decisivo rispetto a quello degli apparati produttivi e delle egemonie culturali che li abitavano. Uno di questi scatti è costituito dallo snodo tra la pagina domenicale e la striscia, a cui segue – in maniera forse inevitabile – l’affrancamento del medium dalla centralità del genere comico, sin lì favorita da due fattori: in primo luogo, il retaggio di una tradizione che, almeno da Rodolphe Töpffer20 in poi, aveva privilegiato un uso satirico e grottesco del mezzo grafico di massa; in secondo luogo, lo spostamento dei comics verso aree di consumo più estese, ormai non più limitate all’identificazione generazionale con la fruizione infantile. A partire dal 1929, infatti, grazie al successo ottenuto – prima negli USA e poi, rapidamente, nel resto delle nazioni occidentali – dalle serie dedicate a Tarzan con i disegni di Harold Foster e a Buck Rogers di Phil Nowlan con i disegni di Dick Calkins (in un binomio che esaltava i valori tradizionali dell’esotismo e quelli innovativi della science fiction), il repertorio di genere del fumetto comincia ad ampliarsi velocemente, innervandosi alle mutazioni di ordine generale che investivano i processi della comunicazione. Va infatti ricordato che nel 1926-1927 si assiste alla nascita del cinema sonoro e parlato, grazie all’iniziativa della Warner Bros. di applicare al medium filmico la nuova tecnologia del Vitaphone, una delle innovazioni legate al mutare del rapporto con la comunicazione sonora, che negli anni Venti vede una prodigiosa accelerazione legata soprattutto alla prima diffusione della radiofonia. In Italia è soprattutto la radio, individuata dal regime fascista quale medium dagli interessanti sviluppi propagandistici, a seguire le tendenze internazionali. 20 Rodolphe Töpffer (1799-1846) è stato un versatile artista svizzero. Scrittore e illustratore di notevole successo, viene da molti considerato uno dei padri fondatori del fumetto. Nel 1833, infatti, diede alle stampe – grazie anche alle pressioni di Goethe, suo entusiasta lettore – il libretto Histoire de Monsieur Jabot, una sequenza di vignette corredate da poche righe di testo che Töpffer replicherà in altre opere basate, serialmente, sul medesimo personaggio e dispositivo.
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In uno scenario che vede ampliarsi l’orizzonte quantitativo e qualitativo dei media, nonché il loro caratterizzarsi in modo sempre più compiutamente narrativo, il fumetto registra un salto in avanti delle tecniche e delle possibilità espressive, uno scatto leggibile soprattutto nella rapida proliferazione dei generi – desunti dalla letteratura come dal cinema – che rimettono in discussione, tra le altre cose, i consueti modelli della sua serialità. Nel corso degli anni Trenta, così come era accaduto all’inizio del secolo, in Italia assistiamo a una svolta nelle strategie seriali dell’offerta di comics: la reiterazione schematica delle tavole alla Bonaventura si evolve in una narratività più sofisticata, che trova il proprio spazio in contenitori spinti sul piano dell’avventura, intesa come genere «di snodo» in grado di incamerare l’energia generata dalle trasformazioni del pubblico e dalla sua incessante attività di riformulazione dell’immaginario. Ciò che occorre sottolineare, nell’ambito di tale dinamica, è che all’arricchirsi del bouquet mediatico a disposizione del pubblico corrisponde un significativo atteggiamento di quest’ultimo a operare contaminazioni linguistiche e crossover narrativi tra i singoli media, spingendo le logiche della serialità in direzione di una sempre più spinta e proficua intermedialità. Alle strategie editoriali rivolte a un’infanzia dal sapore ancora ottocentesco, coltivata attraverso una pedagogia intrisa di cattolicesimo e un’utopistica presunzione di controllo sui processi della comunicazione, si sostituiscono velocemente dinamiche di serialità assai diverse, ma egualmente in grado di incontrare e affiancare i vettori della trasformazione sociale. Coadiuvata dall’importazione coatta dei prodotti americani, si realizza una coincidenza sempre più spinta tra modelli di serialità e immaginario: il disegno si fa coinvolgimento corporeo, cifra sessuale di un desiderio espanso in molteplici direzioni, spostamento visivo analogo alla dirompenza spaziotemporale del cinema, e così anche la sceneggiatura delle storie, che sviluppa un armamentario di tecniche sofisticate in grado di narrare storie dal respiro sempre più articolato. Se il Corriere dei Piccoli e le altre pubblicazioni che ne imitano il profilo hanno proposto la figura centrale del bambino, individuando in essa la possibilità di mettere in scena la dimensione del conflitto in un quadro narrativo sostanzialmente normativizzato, sulle pagine di Jumbo,
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L’Audace, l’Intrepido e L’Avventuroso (tutti varati nella prima metà degli anni Trenta) cominciano ad apparire le immagini di un’adolescenza inquieta, in qualche misura essa stessa metafora del fumetto italiano, un medium «giovane» ma non più «infantile» che – sia pure nella condizione di subalternità alle industrie culturali più avanzate – comincia a sviluppare caratteri originali e sorprendentemente moderni rispetto ad altri settori della produzione culturale nazionale. Alle storie che si allungano, spezzando la danza circolare della vecchia serialità e le sue esasperate reiterazioni narrative, corrisponde il progressivo abbandono della didascalia a favore del balloon, ovvero di una convenzione espressiva finalizzata a un avanzamento complessivo delle culture del medium disegnato verso la fisicità della comunicazione audiovisiva. All’interno della «nuvoletta» che, a quel punto, diventerà il nome stesso della «cosa» in questione (fumetto, appunto), si raccoglie il nuovo corpo del consumo delle forme estetiche, generando la competenza necessaria a superare un determinato ordine storico degli assetti mediatici. Il superamento della didascalia non comporta, dunque, una semplice differenza estetica: è la stessa forma del fumetto che ne viene ridefinita, aprendosi a un universo di pratiche assai diverso dal passato. L’aprirsi del medium ai generi, poi, costituisce il pieno superamento dell’Ottocento e delle sue strategie comunicazionali: con l’ingresso nei piani espressivi dell’avventura (sia essa collocata nel passato, nel presente o nel futuro, su questo mondo o in altri), il fumetto produce uno scatto forte all’interno delle proprie tecniche e delle proprie culture, riorganizzando identità e prassi professionali dei suoi autori così come la fisionomia del proprio pubblico. Rispondendo a un’esigenza di cambiamento così determinata e diffusa da aver luogo anche in Italia, sia pure attraverso modalità autenticamente borderline nei riguardi del lavoro intellettuale. Nelle mirabolanti vicende a puntate di Mandrake (di Lee Falk e Phil Davis, 1934) o L’Uomo Mascherato (The Phantom di Lee Falk, 1936), parziali italianizzazioni di famosi character statunitensi, oppure in personaggi più autarchici quali Furio Almirante (1940, di G.L. Bonelli e Carlo e Vittorio Cossio), Capitan L’Audace (1939, di Federico Pedrocchi, Walter Molino e Edgardo Dell’Acqua) o il formidabile Dick Fulmine (1938,
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di Vincenzo Baggioli e Carlo Cossio, autentica cartina al tornasole del dialogo a distanza con l’immaginario internazionale), il disegno perde l’astrattezza caricaturale e antinaturalistica delle origini spostandosi sul recupero delle tecniche della verosimiglianza grafica, approdando così a un nuovo equilibrio nel rapporto tra immagine e testo nella comunicazione a stampa. In questo transito di tecniche e immaginari, la basilare vocazione della serialità industriale si scopre in modo definitivo: essa è infatti tesa a ricucire corpi e distanze all’interno delle proprie piattaforme espressive, cortocircuitando tra loro le diverse narrazioni del mondo; a interrompersi costantemente, puntata dopo puntata, senza mai fermarsi davvero; a scandire il tempo del consumo organizzandone grammatiche, economie, politiche.21 Allo stesso modo del cinema, con cui stringerà un’alleanza sempre più stretta, il fumetto trova il proprio destino storico nella figurazione della modernità industriale, di cui incorpora scopertamente ideologie, tecnologie, immaginazioni. III.4 Un più moderno narrare: la serialità multimediale
Gli anni Trenta costituiscono, anche in Italia, il punto di massima strutturazione dell’industria culturale. L’albo a fumetti, inaugurato da piccoli editori coraggiosi quali Giuseppe Nerbini o Lotario Vecchi, funziona come un contenitore in grado di aderire a quelle che sono le trasformazioni del consumo e delle sue aspettative, allontanandosi dalla matrice del giornale quotidiano per approdare a una formula più vicina alla grande innovazione vissuta dal medium nello stesso periodo in America: l’invenzione del comic book, ovvero di un supporto specifico in grado di intercettare le identità dei nuovi «spettatori» del fumetto, ormai molto distanti dall’idea di pubblico scarsamente specializzato del «Corrierino» e già spostati in un orizzonte che presuppone l’interazione culturale tra i vari linguaggi che definiscono il moderno sistema della comunicazione. 21 Cfr. Gino Frezza, La scrittura malinconica. Sceneggiatura e serialità nel fumetto italiano, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1987.
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Dick Fulmine (1939) di Vincenzo Baggioli e Carlo Cossio. © Eredi Baggioli e Cossio e ulteriori aventi diritto.
Dopo il secondo conflitto mondiale questo processo registrerà un’ulteriore accelerazione, legata al mutare delle condizioni politiche del consumo culturale nel transito dal regime fascista alle egemonie cattolica e comunista. Alcune testate storiche si eclissano, altre sopravvivono rinnovandosi (per esempio Il Monello, che sperimenterà per molto altro tempo le nuove forme della serialità a fumetti). Altre ancora nasceranno, segnalando ulteriori metamorfosi di sistema. Tutte queste esperienze saranno caratterizzate dal loro rimandare a evoluzioni di ordine generale che riconfigurano le forme della serialità. Testate come l’Intrepido, per esempio, si trasformano nel tempo in collettori delle nuove estetiche della cultura di massa, delle innovazioni relative agli immaginari e ai linguaggi, restituendo dapprima la loro prossimità al cinema con storie e disegni (esemplari quelli di Walter Molino) dalla chiara qualità paracinematografica, prima di elaborare – a partire dagli anni Sessanta – una
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Tex nel caratteristico formato albetto a striscia del secondo dopoguerra.
modalità che invece integrava nella gabbia delle tavole i ritmi e la scrittura serrata del telefilm (sintomatici, in tal senso, personaggi come Billy Bis, Ghibli, Crystal).22 Nell’insieme, i dispositivi editoriali del fumetto italiano seguiranno una linea di diversificazione che finirà per coprire un’estesa geografia della fruizione di comics. Una delle esperienze più interessanti è senza dubbio il Topolino di Mondadori, che raccoglie l’eredità di Nerbini già nel 1935, ma che solo nel dopoguerra, a causa di alcune contingenze, muta il formato dell’albo disneyano intervenendo, così, anche sulla sua struttura seriale. È in questo snodo postbellico che si definiscono i caratteri peculiari della produzione italiana dei fumetti Disney, differenti da quelli statunitensi per una maggiore attenzione alle dinamiche di serialità e di intertestualità, in una logica che porterà topi e paperi a dialogare strettamente dapprima con i classici della letteratura, poi con le nuove mitologie degli altri media. A partire dagli anni della ricostruzione e in prossimità del boom economico, nel Topolino di Mondadori e nelle serie avventurose come il Tex bonelliano si afferma un principio nuovo – in qualche misura più indu22 Billy Bis e Crystal, creati nel 1965 da Antonio Mancuso e Loredano Ugolini; Ghibli, di Antonio Mancuso e Lino Jeva (1972).
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striale – dei criteri di produzione. Il sentimento viscerale del lavoro concreto, pienamente «artigianale», che aveva animato l’esperienza del fumetto italiano delle origini, comincia a incrinarsi già negli anni Trenta, come detto, in virtù di nuove generazioni di disegnatori e sceneggiatori che si confrontavano con un’editoria che si modernizzava sul piano delle tecniche ma soprattutto su quello delle culture professionali. Alcune realtà risultano più esemplari di altre. Lo sviluppo di Tex Willer da personaggio dei piccoli albi economici in forma di striscia, che caratterizzarono l’Italia del dopoguerra a causa della persistente crisi della carta (1948), all’albo mensile di cento pagine (1958), si riconduce a due dinamiche convergenti. La prima è la crescita della domanda sia in termini di quantità che di qualità seriale: qui si lega la necessità di allargare il parco autori, passando dal rapporto di «possesso» della serie di Gian Luigi Bonelli e Aurelio Galleppini – che avevano realizzato la prima fase della vita seriale di Tex – al coinvolgimento di altri collaboratori, per esempio Giovanni Ticci e Guglielmo Letteri, in grado di sostenere l’aumento di tavole mensili che il nuovo formato e il nuovo meccanismo seriale avevano prodotto. La seconda riguarda la mutata condizione di contesto del fumetto italiano, che comincia ad affrontare la concorrenza del medium televisivo, una competizione sempre più agguerrita nel corso degli anni Sessanta e Settanta, prima di scontrarsi criticamente sull’avvento generazionale dei videogame, impatto questo che riposiziona radicalmente i comics nell’economia generale dei media. La serialità continua a trasformarsi, in accordo con le motivazioni del consumo, le sue finalità, le sue differenti disponibilità di spesa, la sua attenzione verso ciò che accade di interessante nei territori dei singoli media. Il mutare dei formati editoriali rimanda anche all’uso che il pubblico fa dei contenuti che reperisce all’interno delle nuove formule di offerta. L’aumento della durata di lettura degli episodi di Tex (e la loro più diradata scansione mensile) sancisce l’avvento di un consumatore più consapevole, meno episodico, ma anche di un sistema della comunicazione più integrato e affidabile nelle sue componenti. Il Tex mensile costituisce quindi un affinamento della serialità a fumetti, sebbene nel formato e nelle stesse logiche narrative esso anticipi un oggetto in apparenza antitetico, quel graphic novel che taluni pongono come alternativa
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alle logiche della serie e che invece di queste rappresenta l’ultimo approdo, quello più efficiente in un orizzonte caratterizzato da forti processi di de-massificazione culturale; l’esempio più chiaro è Corto Maltese, nato come personaggio «singolare» per poi ritrovarsi ampiamente serializzato fino alle sue traduzioni transmediali e in un ampio merchandising. Anche questo è spesso un argomento su cui grava il fraintendimento che vuole la serialità come inconciliabile al contributo d’autore e alla sacralità dell’opera finita in sé.23 Si tratta del punto di vista apocalittico di chi continua a vedere l’arte e la fabbrica come opposte tra loro. Nel dopoguerra, in realtà, comincia in Italia una stagione assai ricca di fermenti che scindono le strategie del fumetto in due direzioni: da un lato, la modernizzazione del medium attraverso l’accettazione, più o meno palese, della sua natura industriale e della necessità di fare i conti con essa in merito alle strategie di produzione e alle logiche di serializzazione; dall’altra, il medesimo recupero delle ideologie dell’autore che caratterizzavano anche il nostro cinema, riaffermando il ruolo sociale del creativo e la necessità di concepire l’opera come chiusa e definita in sé. In questa apparente dicotomia ideologica cogliamo l’eco dei conflitti che avevano animato sin dalle origini il dibattito sulle forme e i modelli della cultura di massa. Pensiamo all’esperienza di un editore come Sergio Bonelli, che diventa la maggiore espressione del fumetto italiano grazie a un’organizzazione del lavoro sospesa a metà tra modelli artigianali, in cui ancora si rende riconoscibile il contributo personale dei singoli autori, e dimensioni della fabbrica, necessarie a raggiungere i traguardi imprenditoriali e le grandi tirature di massa. La necessità di ridimensionare il portato artigianale della casa editrice Bonelli in favore di una sua più marcata dimensione industriale non riguarda soltanto il rapporto tra lavoro intellettuale (con tutto il suo corredo di retaggi e tradizioni) e lavoro astratto della fabbrica: l’industrializzazione del fumetto italiano, sulla scorta di quello degli altri paesi occidentali, costituisce la risposta a un nuovo equilibrio tra i soggetti in gioco nelle pratiche della comunicazione. In altri termini, la serialità – con il suo insieme di regole – non riguarda unicamen23 Cfr. Sergio Brancato, Senza fine. Immaginario e scrittura della fiction seriale in Italia, Napoli, Liguori, 2007.
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te i livelli della produzione, ma anche quelli del consumo e dell’interpretazione sociale dei testi, aspetti sempre più caratterizzati da incroci testuali, rimandi ad altri immaginari e linguaggi, partecipazione attiva del pubblico alla definizione di materiali e architetture del prodotto stesso. La serialità, in quest’ottica, non costituisce soltanto un processo di ottimizzazione delle risorse nel quadro del ciclo economico, quanto un processo di incessante adeguamento della società nel suo insieme alle trasformazioni che investono tecnologie e culture: essa costituisce l’ambito in cui si progettano i testi nella loro dimensione di mediazione tra le diverse soggettività sociali e l’esperienza individuale. È sintomatico che il conflitto tra modelli di serialità implicito nella contrapposizione tra albi alla Bonelli (il più efficiente dispositivo di veicolazione della forma fumetto in Italia, visto che funziona ancor oggi in relazione a personaggi e serie dai caratteri assai diversi da quelli di Tex, confermando la possibilità di una lunga serialità anche nei comics) e la rivista-contenitore per adulti, che vive il suo momento di gloria negli anni Ottanta, si risolva per decisione del pubblico in una sostanziale sconfitta del fumetto d’autore, incapace di interpretare i mutamenti di sensibilità verso il medium e museificatosi ben presto in una ricerca di legittimità artistica non più sostenibile nell’universo della comunicazione globale. A questa crisi della rivista corrisponde, in generale, anche un sostanziale decadimento della strip, che ormai trova – anche negli USA – grande difficoltà a confermare i propri consueti spazi di presenza all’interno della stampa quotidiana. Siamo al cospetto di nuove, radicali trasformazioni dello scenario della comunicazione che stanno ridisegnando le piattaforme mediali a noi note. La serialità dell’odierno fumetto italiano si presenta come espressione particolare di un sistema dei media fortemente appiattito sulle logiche della televisione, e al contempo animato da tensioni profonde provenienti dai territori emergenti della comunicazione in rete. Ne ritroviamo le tracce se osserviamo oltre la grande evidenza dei pochi imprenditori che ancora lavorano nell’ottica strategica dell’editoria di massa, gettando lo sguardo sul frantumato arcipelago dei piccoli editori in cui si sperimentano le forme del nuovo e si ospitano le nuove emergenze generazionali. Negli anni Sessanta la concorrenza del nascente medium televisivo aveva portato la serialità a fumetti a spostarsi su un piano fortemente con-
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correnziale e dai caratteri perfino «sovversivi», intraprendendo nuovi sentieri di genere (per esempio, anticipando la tendenza del cinema all’estetica dell’eccesso attraverso personaggi e serie del fumetto nero).24 Gli anni Ottanta, invece, erano stati caratterizzati da una massiccia convergenza dell’immaginario in serie (da Martin Mystère a Dylan Dog) capaci di accendere una partecipazione attiva del lettore attraverso la continua sollecitazione al riconoscimento del già noto, dunque a un’emozione collettiva fondata sul ritrovamento di sé stessi nel quadro complessivo del racconto.25 Superata anche questa fase, il fumetto italiano si ritrova oggi di fronte alla spiazzante possibilità di un radicale mutamento dei propri consueti supporti: nelle pratiche sempre più diffuse del web, il medium (sempre meno) disegnato potrebbe indicarci delle prospettive di trasformazione del tutto esterne alle sue tradizioni e alle sue identità storiche, fino a perdersi in flussi e azioni sociali incontenibili per qualsiasi museo.
24 Cfr. Sergio Brancato, «Da Occidente a Oriente. Trasformazioni del fumetto in Italia», Comunicazioni sociali, anno XXIII, nuova serie, n. 1, gennaio-aprile 2001. 25 Cfr. Jordi Balló – Xavier Pérez, Yo ya he estado aquì. Ficciones de la repeticiòn, Barcelona, Editorial Anagrama, 2005 (trad. it. Io sono già stato qui. Fiction e ripetizione, Napoli, Ipermedium, 2007).
Il secolo del fumetto
Lo spettacolo a strisce nella società italiana 1908-2008
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A cura di Sergio Brancato
Nel 2008 il fumetto compie in Italia cento anni. Il 27 dicembre 1908, con il primo numero del Corriere dei Piccoli, «comincia l’avventura» dei nostri comics, giocata sull’interpretazione creativa dei modelli internazionali e su di una peculiare capacità di tessere narrazioni in grado di restituire, in filigrana, le identità nazionali e le loro trasformazioni. La storia della comunicazione e la sociologia dei processi culturali hanno dimostrato che il fumetto è un medium compiutamente strutturato e codificato, capace di evolversi in maniera autonoma ma di continuare a dialogare con gli altri linguaggi dell’industria culturale. Le celebrazioni del centenario possono dunque avere un significato finché costituiscono un momento di riflessione e di aggiornamento dei saperi sui comics. Il sociologo Sergio Brancato ha sollecitato un gruppo di studiosi, scelti fra i più assidui frequentatori dell’immaginario disegnato, a esprimersi sullo stato del fumetto nella nostra società. I saggi che compongono questo libro costruiscono un tessuto teorico e discorsivo che si propone di contribuire a fare del centenario il pretesto per un rinnovamento, ormai inderogabile, della cultura dei comics nel nostro paese.
Illustrazione di Daniele Inchingoli Copyright © Tunué
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