Viaggi nell’animazione

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Viaggi nell’animazione

Interventi e testimonianze sul mondo animato da Émile Reynaud a Second Life

A cura di Matilde Tortora

Contributi di Luciana Bordoni – Patrizia Cacciani – Mario Franco – Mario Gerosa Gianni Rondolino – Matilde Tortora – Nunziante Valoroso Interviste a Bruno Bozzetto – John Canemaker – Michel Ocelot

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I edizione: ottobre 2008 Copyright © Tunué Srl

ISBN-13 GS1 978-88-89613-45-0

Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.

Stampa e legatura: Tipografia Monti Srl Via Appia Km 56,149 04012 Cisterna di Latina (LT) Italy

Via Bramante 32 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com

Progetto grafico: Daniele Inchingoli Grafica di copertina: Marco Marcucci Illustrazione di copertina: Simone e Julia Massi © Simone e Julia Massi/Tunué


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Indice

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Introduzione, di Matilde Tortora I

Origini e nascita del cinema d’animazione di Gianni Rondolino I.1 I precursori I.2 Émile Reynaud e il prassinoscopio I.3 L’animazione cinematografica da Émile Cohl in poi I.4 L’animazione come cinema, il cinema come animazione

II Il pianeta Disney di Nunziante Valoroso II.1 I lungometraggi animati II.1.1 La rinascita dopo la crisi: gli anni Novanta II.2 I cortometraggi animati II.3 Disney in TV II.4 I sequel dei lungometraggi II.5 Il restauro digitale e il cinema in tre dimensioni II.6 Conclusioni. Le influenze della Disney sul mondo del cinema d’animazione: omaggi, parodie e citazioni Per un vocabolario del movimento Conversazione con John Canemaker di Matilde Tortora

III I film d’animazione nell’archivio storico Luce di Patrizia Cacciani


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III.1 Il secolo degli archivi III.2 Luce dell’animazione III.2.1 All’origine dell’animazione italiana: Luigi Pensuti III.2.2 Corrado D’Errico e l’animazione nella rivista Luce III.3 Le animazioni propagandistiche dell’Archivio Storico Luce III.3.1 Lo strano caso del Dottor Churkill Il perfetto balletto dell’animazione Conversazione con Bruno Bozzetto di Matilde Tortora

IV Il passo (uno) di danza di Tim Burton di Mario Franco IV.1 A passo uno IV.2 Vivere il cinema IV.3 La duplice città futura IV.4 L’uomo è un essere incompiuto IV.5 L’illusione realistica VI.6 Biografia e fantascienza VI.7 Il regno della paura e quello della scienza VI.8 Pesci dolci e bugie. Appunti sull’arte d’amare VI.9 Come diventare una farfalla

L’animazione come atto poetico e di cittadinanza Conversazione con Michel Ocelot di Matilde Tortora

V Intelligenza artificiale e animazione di Luciana Bordoni V.1 Per Eliza V.2 OZ senza il mago V.3 Un Cybercafé con i Woggles


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V.4 I «mediattori» e le loro molte applicazioni V.5 La realtà (virtuale) in scena

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VI Il cinema in Second Life. Autori, convergenza e videocamere in un circuito esistenziale chiuso di Mario Gerosa VI.1 Dal videogioco al cinema, nel mondo virtuale VI.2 Il «machinima»: fare cinema su Second Life VI.3 Dogma 95 su Second Life VI.4 Alcuni esempi di video girati su Second Life VI.4.1 Second Life, musica e pubblicità VI.5 Recitazione virtuale? VI.6 Verso la fusione dei generi e dei media

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Note sugli autori

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Riferimenti bibliografici


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VIAGGI NELL’ANIMAZIONE Alla memoria di Simona Gesmundo


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Introduzione

di Matilde Tortora

Si può affermare senza tema di smentita che oggi, nell’ambito dello spettacolo audiovisivo, siamo entrati nell’«epoca del cinema d’animazione», considerato che questo, nell’era del digitale e dell’applicazione dell’intelligenza artificiale, confina o si fonde con diversi altri campi. Si può inoltre affermare allo stesso modo che siamo all’inizio di una nuova era del cinema tout court; i testi che formano questo libro mostrano quanto e in che modo il cinema d’animazione davvero nutra di sé il più innovativo presente e quanto pure esso si situi come parte attiva e trainante nello scenario più fervido del futuro del cinema, quale esso si va attualmente configurando. Antecedente addirittura al cinema dei Lumière, nata con le proiezioni che Émile Reynaud tenne col suo Théâtre Optique al Museo Grévin a Parigi nel 1892, l’animazione consentì che una serie di disegni mostrati in rapida successione fosse in grado di raccontare delle storie e dispiegare un racconto; e da allora gli avvenimenti che il cinema d’animazione crea per mezzo di strumenti diversi dalla ripresa «dal vero» sono originati da e intessuti interamente di quel che gli uomini ideano e che fanno apparire in immagini del tutto originali. Nei primi anni del cinema, accanto ai primi drammi e ai film documentari, vengono proiettati già disegni animati, lastrine pubblicitarie, i film «fantastici» di Georges Méliès (pochi sono i suoi film girati «dal vero»), indi i film di James Stuart Blackton, di Segundo de Chomón, di Émile Cohl, di Winsor McCay, i pionieri del cinema d’animazione. Furono i loro film a motivare altri artisti, che per lo più venivano dal campo del disegno e anche della caricatura, a cimentarsi nel cinema d’animazione: Max e Dave Fleischer, Otto Messmer, Walt Disney e i suoi


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«Nine Old Men», Tex Avery. Frattanto si andavano costituendo cinematografie d’animazione in varie nazioni e si sperimentavano nuove tecniche: Oskar Fischinger e Norman McLaren, per citarne solo due, furono sperimentatori eccelsi di altri modi di fare animazione. E costantemente del nuovo si è, nel corso del tempo, sostanziato il cinema d’animazione (l’intera sua storia lo attesta), e non di rado ha dato linfa anche al cinema «dal vero», sebbene questo per tanti decenni l’abbia fatta da padrone nelle produzioni, nelle distribuzioni e nelle fruizioni cinematografiche; basti pensare a certi richiami in film d’autore,1 alle animazioni in film con attori in carne e ossa,2 all’utilizzo dell’animazione in titoli di testa rimasti tra l’altro celeberrimi,3 alle pubblicità televisive dagli anni Cinquanta in poi e oggi al mondo digitale. Pertanto si è pensato a un nuovo libro che consentisse un viaggio (costituito in effetti di molti viaggi) nell’animazione, che non solo ci ricordasse le invenzioni, le ricerche e le innovazioni dalle origini in poi, ma che trattasse anche dei diversi campi virtuali di cui l’oggi si avvale. È forse un caso che su YouTube si ritrovino i film di Winsor McCay e che un giovane d’oggi, a cent’anni di distanza, possa deliziarsi a guardare Gertie the Dinosaur in azione?4 Basta che egli lanci in internet le parole chiave, ed ecco che anch’egli vedrà, assiso alla sua scrivania-teatro di varietà, il giovane e intraprendente McCay che monta in groppa a Gertie. Si può, nel mondo moderno, considerare il contributo della tecnologia audiovisiva in due campi: uno strumento per la creazione e un mezzo di rappresentazione. In un’intervista a Cinémonde del 2 settembre 1947, 1 Per esempio il film La Marsigliese (1937) di Jean Renoir, in cui il regista ricostruisce un tipico teatrino di ombre cinesi (il teatrino di Caran D’Ache). 2 Già lo stesso Émile Cohl realizzò film con personaggi in carne e ossa che spesso includevano scene in animazione; così in La guerra e il sogno di Momi (1916) di Segundo de Chomón e Giovanni Pastrone, in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) di Robert Zemeckis e in tanti altri film. 3 Il lavoro svolto dalla coppia David DePatie e Friz Freleng per i titoli di testa del film La pantera rosa (The Pink Panther, di Blake Edwards, 1963) fu talmente riuscito che diede origine a un un vero e proprio cortometraggio animato autonomo, che vinse anche un Oscar, e poi a una serie di altri cartoon. Il regista Sergio Leone, per il suo film Per un pugno di dollari (1964), volle i titoli di testa in animazione, influenzando anche altri registi negli anni Sessanta. Come non ricordare poi il coinvolgimento nei titoli di testa di vari film di genii dell’animazione come Emanuele Luzzati, e, nell’epoca degli effetti digitali, il lavoro di Kyle Cooper, che ha inventato i titoli di Se7en (di David Fincher, 1995) e di Spider-Man (di Sam Raimi, 2002). 4 Il film del grande pioniere dell’animazione è del 1914. Cfr. Youtube.com/watch?v=UY40DHs9vc4.


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Walt Disney dichiarò: «Fra quarant’anni, forse, non avremo che da premere un bottone per assistere a uno spettacolo che combini assieme la televisione, la radio e il cinema animato, e lo spettacolo sarà senza dubbio completato da questa recentissima scoperta, la “modulazione di frequenza”».5 Chissà che cosa avrebbe detto vedendo la breve sequenza che gli animatori della Disney hanno animato di recente, basandosi sui disegni che l’artista spagnolo Salvador Dalì eseguì nel 1945; per lui che lo volle collaboratore per il film Destino, film che non fu mai realizzato, ma che, grazie alle moderne tecniche di animazione, possiamo oggi vedere come sarebbe stato. Quanti film sono poi oggi soggetti a restauri, che consentono di preservarli, restaurarli e infine consentirne la proiezione, proprio grazie alle tecniche digitali? e quante simulazioni, anche in campo scientifico, sono consentite proprio dalle nuove tecnologie? Quanti effetti speciali sono stati resi possibili al cinema nella sua lunga vita dall’impiego di tecniche d’animazione e quanti costi, grazie a esse, sono stati abbattuti nel realizzare film! Grandi battaglie, che prima abbisognavano di moltitudini di figuranti, sono state visualizzate già dai primi anni Duemila con migliaia di comparse digitali animate da appositi software: per esempio, per animare le schiere del film Il Signore degli Anelli6 è stato sviluppato un programma chiamato Massive, in grado di fornire una rudimentale quanto efficace intelligenza artificiale a ogni singola figura; e da allora sempre più progressi sono fatti in questo campo. Questo libro ha preso ispirazione dalla passione e dall’impegno di Simona Gesmundo, una giovane studiosa, competente spettatrice e talentuosa autrice di cortometraggi animati, la quale purtroppo non è più, e il cui testimonio è stato da noi raccolto.7 Alcuni degli autori di cinema d’animazione e degli studiosi ai quali si devono i testi che comWalt Disney, «Ce que sera le cinéma dans 40 ans», Cinémonde, a. XV, n. 683, 2 septembre 1947, p. 7. Il Signore degli Anelli è la trilogia del regista Peter Jackson, basata sugli omonimi romanzi di J.R.R. Tolkien (The Lord of the Rings – The Fellowship of the Ring, Nuova Zelanda/USA, 2001; The Lord of the Rings – The Two Towers, Nuova Zelanda/USA, 2002; The Lord of the Rings – The Return of the King, Nuova Zelanda/USA, 2003). 7 Simona Gesmundo (Napoli 1976-2005), tra i primi studiosi in Italia sull’intelligenza artificiale (IA) applicata al cinema, laureata col massimo dei voti e la lode accademica in DAMS Multimediale all’università della Calabria, è scomparsa nel 2005, non avendo ancora compiuto 29 anni. Autrice dell’impor5 6


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pongono questo volume non hanno conosciuto Simona, tutti erano però conosciuti da lei, che era, oltre che autrice, attiva ricercatrice sull’intelligenza artificiale applicata al cinema; d’altronde, come è peculiarità del cinema, sia il farlo, sia il fruirne, sia l’esserne studioso, o spettatore, o autore, sono campi prolifici di costanti interazioni. Scrivere e riflettere sul cinema ha da sempre una sua fecondità: ci sono libri che, a distanza di decenni, ancora oggi gettano luce e ci fanno scorgere delle novità; ci sono poi libri che per quanto agili, possono essere utili (e nel contempo godibili) per una decodifica dell’oggi, di cui molto spesso siamo distratti abitatori. Ed è questo pure l’intento di questo libro. Attraverso la parabola di saggi che compongono il volume, scritti da alcuni dei maggiori esperti italiani – con il contributo, sotto forma di intervista, di tre autori di alto prestigio internazionale – viene compiuto un percorso in tappe nel cinema d’animazione dalle origini ottocentesche fino ai recenti sviluppi delle sperimentazioni informatiche degli «agenti intelligenti» e del mondo virtuale di Second Life, i quali sostanziano il tema dell’intelligenza artificiale applicata non solo al cinema d’animazione e al cinema dal vero, ma anche ai nuovi mondi interattivi di internet. Certo è che il cinema d’animazione parla di tutti noi, dei nostri mondi, dei nostri problemi, dei nostri sogni. Il grande animatore Bruno Bozzetto ha detto – come riportato anche più in là in questo volume – che «il cinema d’animazione è uno strumento molto versatile, con cui si possono tante saggio (pubblicazione postuma della sua tesi di laurea) Molloy: dall’intelligenza artificiale al cinema, edito nel 2005 e al quale è stato conferito il premio «Migliore libro per il cinema» alla LX edizione del Festival Internazionale del Cinema di Salerno. Molloy, l’«agente pedagogico» da lei creato con un sofisticato programma di IA, è un’irresistibile nonna-canguro che racconta favole, ed è protagonista anche di corti d’animazione indipendenti. Nel 2005 si è costituita l’associazione che porta il suo nome e nel 2006 è stato bandito il Premio «Simona Gesmundo Corti d’animazione», assegnato da una giuria internazionale, tra i cui componenti figura Robert Kalman, membro del Comitato esecutivo dell’UNESCO. Alle edizioni del premio (realizzato dall’Associazione con il supporto, fin da subito, del Laboratorio Sperimentale G. Losardo di Cetraro) hanno concorso film da diversi paesi del mondo; tra essi anche grandi nomi dell’animazione italiana e straniera (cfr. Premiosimonagesmundo.com). Il Premio ha il patrocinio dell’ASIFA e partecipa, uno dei soli tre in Italia, alla Giornata Mondiale del Cinema d’animazione. La prestigiosa rassegna internazionale NapoliFilmFestival dal 2008 ha inserito la Sezione «I corti animati del Premio Simona Gesmundo». I riscontri in Italia e all’estero ottenuti dal suo operato e dai suoi studi innovativi fanno sì, in modi molteplici, che la sua opera sia consegnata al futuro: il Comune di Napoli ha decretato all’unanimità l’attribuzione del nome Simona Gesmundo alla scuola materna di via Aquileia che, dal 20 maggio 2008, è la scuola materna «Simona Gesmundo»; in data 29 maggio 2008 il Presidente della Repubblica, On.le Giorgio Napolitano, ha decretato l’attribuzione della Medaglia d’oro alla memoria di Simona Gesmundo, benemerita della Cultura.


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comunicare agli spettatori miriadi di informazioni. Perché limitarlo alla finzione o ai film per l’infanzia, quando si può magari spiegare al pubblico, divertendolo e interessandolo, anche la meccanica quantistica?».8 Parafrasando poi quel che il teorico francese Christian Metz scrisse nel 1970, cioè che «la maggior parte dei film realizzati al giorno d’oggi – siano belli o brutti, originali o no, commerciali o no – hanno in comune la caratteristica di raccontare storie; in questo senso appartengono tutti allo stesso, unico genere, quello narrativo»,9 noi possiamo affermare che la maggior parte dei film (ma anche spot commerciali, videoclip, giochi interattivi e quant’altro) che si realizzano oggi, avendo in comune il ricorso alle tecniche già proprie del cinema d’animazione, di quest’ultimo decretano, in un certo senso, il primato. Né c’è chi possa non riconoscere che il cinema d’animazione pervade oggi dei suoi semi fecondi non solo i campi sopra indicati, ma anche tutto il cinema: infatti, oltre che essere sempre più presente anche nei titoli di testa e/o di coda dei film con attori in carne e ossa, esso circola in tutto il cinema di oggi, in quanto cinema digitale. Ciò, dal momento che, come ha notato lo studioso e animatore Lev Manovich, la costruzione manuale delle immagini del cinema digitale rappresenta un ritorno alle pratiche precinematografiche del diciannovesimo secolo, quando le immagini erano dipinte a mano e animate artigianalmente. All’inizio del ventesimo secolo il cinema delegò queste tecniche manuali all’animazione e si definì come un medium di registrazione del reale. Ma con l’ingresso del cinema nell’era digitale le tecniche manuali tornano a essere al centro del processo cinematografico.10

Di conseguenza, il cinema non può più essere distinto dall’animazione. Cfr. l’intervista a Bruno Bozzetto «Il perfetto balletto dell’animazione» a p. 87. Christian Metz, Langage et cinéma, Paris Larousse, 1970. 10 Lev Manovich, «Cinema and Digital Media», in Jeffrey Shaw – Hans Peter Schwarz (eds.), Perspektiven der Medienkunst – Perspectives of Media Art, Ostfildern, Cantz Verlag, 1996. Manovich è l’autore, tra l’altro, di Little Movies, il primo film digitale creato per la rete, un progetto nato nel 1994, quando il world wide web stava diventando un fenomeno di massa. Partendo dall’idea che ogni nuovo medium rivive sul contenuto dei media precedenti, Little Movies mette in scena i momenti chiave nella storia del cinema e interpreta i media digitali degli anni Novanta da un ipotetico futuro. 8 9


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Ringraziamenti Si ringraziano Gaetano Gesmundo, Presidente dell’Associazione «Simona Gesmundo», che ha avuto per primo l’idea di questo libro, dando l’input a che venisse realizzato, e Vittorio Martinelli, al quale va il nostro grato ricordo, per le immagini dal suo archivio privato che ci inviò, appena seppe di questo libro, del film La guerra e il sogno di Momi (1916) di Segundo de Chomón e Giovanni Pastrone.


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II. Il pianeta Disney di Nunziante Valoroso

Nel 2008 gli studi Disney hanno compiuto 85 anni. È un traguardo importante di un percorso iniziato nel 1923 in un piccolo garage di Hollywood da Walt Disney, un giovane nato nel 1901 e deciso a farsi strada nella mecca del cinema, e suo fratello Roy. Ripercorrere la storia di Walt e della sua company significa ripercorrere la storia del cinema. Le scoperte e le innovazioni messe a punto da Disney e dai suoi collaboratori, infatti, sono state importantissime per il cinema tout court. Se non fosse arrivata a colori sugli schermi una principessa dalla pelle bianca come la neve, molto probabilmente non sarebbero stati girati in Technicolor né Il mago di Oz né Via col vento. Se Disney non avesse avuto la geniale intuizione di Fantasia, oggi non ascolteremmo i film in Dolby Digital. Questo solo per citare due tra i casi più eclatanti. Già la prima produzione dei neonati studi Disney, una serie di cortometraggi animati chiamata Alice in Cartoonland, era sbalorditiva dal punto di vista tecnico. Combinando animazione e ripresa dal vero, Disney narrava le avventure di una bambina vera in un moderno paese delle meraviglie totalmente animato. Fu nel 1928 però, con la nascita di Mickey Mouse (Topolino), probabilmente il più popolare personaggio animato occidentale del XX secolo, che iniziò la leggenda disneyana. Steamboat Willie, terzo cortometraggio realizzato con Topolino (i primi due erano stati Plane Crazy e The Gallopin’ Gaucho, nello stesso anno, qualche mese prima), fu il primo dei tre a essere proiettato, e con enorme successo, il 18 novembre 1928 al Colony Theatre di New York. Esso, soprattutto, fu il primo cartoon con la colonna sonora sincronizzata alle animazioni (solo l’anno precedente la Warner Bros. aveva presentato The Jazz Singer, il primo film con delle parti di dialogo sincronizzate alle imma-


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gini) e il pubblico gridò al miracolo. Disney allora presentò gli altri due short di Topolino che aveva pronti, appunto Plane Crazy e Gallopin’ Gaucho; e il Topo divenne una star. L’anno successivo, un’altra pietra miliare: con il cortometraggio The Skeleton Dance (La danza degli scheletri) venne sancita la definitiva fusione tra musica e immagini. The Skeleton Dance fu il primo cartoon della celebre serie denominata Silly Simphonies (in Italia Sinfonie Allegre), che per un intero decennio fece furore sugli schermi di tutto il mondo, mietendo premi Oscar e altri importanti riconoscimenti e fungendo da banco di prova per ulteriori meraviglie tecniche. Tra esse è doveroso citare almeno Flowers and Trees (Il bosco incantato, 1932), premio Oscar, rimasto nella storia del cinema come prima produzione in Technicolor tricromatico; Three Little Pigs (I tre porcellini, 1933), altro Oscar, caratterizzato da una canzone motivo conduttore rimasta leggendaria e composta da Frank Churchill; The Wise Little Hen (La gallinella saggia, 1934), in cui compare per la prima volta il personaggio di Donald Duck (Paperino); Who Killed Cock Robin (Chi ha ucciso Cock Robin, 1935), in cui compare il personaggio della passerotta Jenny Wren, parodia dell’attrice Mae West; e The Old Mill (Il vecchio mulino, 1937), ancora un Oscar, in cui viene sperimentata per la prima volta la macchina da presa a piani multipli (multiplane camera), che riesce a dare l’illusione della profondità ai semplici disegni bidimensionali, collocando le celluloidi dei personaggi e i vari elementi dello sfondo, dipinti su lastre di vetro, a distanze differenti dall’obiettivo, permettendo di ricreare gli stessi movimenti e inquadrature della ripresa dal vero. Pure spettacolare il sistema di ripresa Technicolor che permetteva, per i disegni animati, ripresi un fotogramma alla volta, la fotografia in sequenza dello stesso disegno per tre volte attraverso tre filtri/colore diversi, uno per ogni colore fondamentale della tricromia (verde, blu, rosso). Da questo negativo in bianco e nero venivano sviluppati tre positivi matrice che contenevano ciascuno le informazioni di un colore primario. Queste matrici, imbibite di un colorante appropriato, imprimevano poi la loro immagine su una pellicola vergine che restituiva, con un procedimento simile alla stampa litografica, i colori originari del soggetto ripreso. Tale sistema, due anni dopo l’applicazione ai disegni animati, fu sperimentato con successo


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In questo disegno di Giovan Battista Carpi per la copertina del volume I 4 filibustieri (Mondadori, 1961), ritroviamo i principali protagonisti dei cartoon disneyani: Topolino, Pippo, Pluto e Paperino. © Disney

anche nel cinema dal vero (utilizzando stavolta una macchina da presa speciale in cui scorrevano contemporaneamente tre negativi sensibili ognuno a uno dei colori primari dello spettro) e, da allora, il Technicolor si impose come il principale sistema di ripresa e stampa a colori. La Disney lo utilizzò costantemente per i successivi quarant’anni. II.1 I lungometraggi animati

La realizzazione delle Silly Simphonies servì come banco di prova per quello che era il sogno principale di Disney: realizzare un film a disegni animati che potesse competere con i normali lungometraggi proiettati nelle sale. A favore di questo progresso giocavano anche dei fattori economici: l’introito derivante dai cortometraggi spesso non riusciva a recu-


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perare gli ingenti costi di produzione; inoltre, la diffusione nei cinema americani della consuetudine del «doppio programma» con due film proiettati al prezzo di uno, faceva sì che spesso i gestori sopprimessero cinegiornali e disegni animati, con evidente danno economico dei produttori. Per cui, una sera del 1934, Disney chiamò a raccolta i suoi collaboratori e raccontò loro, per filo e per segno, tutta la storia di Biancaneve e i sette nani, recitandone tutte le parti e dichiarando, dopo un paio d’ore di rappresentazione: «questo sarà il nostro primo lungometraggio».1 Quando si sparse la notizia che Disney stava realizzando un lungometraggio animato, molti ne predissero il fallimento. Ma Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, di David Hand, 83’), presentato al pubblico il 21 dicembre del 1937 dopo tre anni di intenso lavoro e con un costo astronomico di un milione 500 mila dollari, dimostrò che il giovane produttore aveva ragione.2 Il pubblico affollò le sale, la critica fu unanime nel definirlo un capolavoro e il film vinse addirittura un premio Oscar speciale: un Oscar grande attorniato da sette piccolini, in omaggio ai sette nani che, con le loro scoppiettanti personalità, seppero deliziare il pubblico. Altrettanto riuscite le figure femminili del film, la principessa Biancaneve, una deliziosa figurina di grande carisma, e la minacciosa Regina Grimilde che, in una sequenza degna del migliore cinema horror, si trasformava in una strega di spaventevole bruttezza. I grandi incassi di Biancaneve avrebbero portato qualunque produttore a voler ripetere subito la formula. Invece Walt presentò subito dopo due lungometraggi totalmente diversi per stile e atmosfere. Pinocchio (id., di Ben Sharpsteen e Hamilton Luske, 88’, 1940) è considerato da molti uno dei migliori film d’animazione della storia del cinema. La multiplane camera trovò in questo film l’impiego ideale e molte sequenze, tra cui quella iniziale in cui la macchina da presa parte dalla Stella dei Desideri nel cielo e si avvicina alla casa di Geppetto, sono rimaste insuperate. I fondali furono dipinti a olio (per Biancaneve era stato usato 1 L’aneddoto è riportato da Bob Thomas nella sua biografia Walt Disney, Milano, Mondadori, 1980, pp. 141-42; la dichiarazione è a p. 142. 2 Cfr. Christopher Finch, The Art of Walt Disney: From Mickey Mouse to the Magic Kingdom, New York, Harry N. Abrams, 1973; edd. ampll. 1995, 1999, 2004 (trad. it. L’arte di Walt Disney, Milano, Rizzoli, 2001).


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Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, 1937). © Disney

l’acquerello) per ricreare almeno in parte le atmosfere cupe e inquietanti del racconto originale. La lunga trama collodiana, nata per un racconto a puntate, fu sfrondata di molti episodi, il Grillo Parlante fu trasformato in Coscienza Ufficiale del burattino e la Fata Azzurra,3 le cui animazioni sono splendide, fece da deus ex machina della trama. Il tutto fu ambientato in un villaggio alpino tirolese (suscitando le ire di non pochi componenti il pubblico italiano)4 e il film fu un grande successo se non commerciale (lo scoppio del secondo conflitto mondiale aveva chiuso parecchi mercati esteri) senza dubbio artistico. 3 Nel film di Disney la Fata dai Capelli Turchini fu trasformata in un’affascinante versione bionda e matura di Biancaneve e il colore azzurro passò dai capelli al vestito; il personaggio fu chiamato Blue Fairy, nella versione italiana Fata Azzurra, appunto. 4 Uno dei maggiori oppositori del Pinocchio disneyano fu Paolo Lorenzini, nipote di Collodi, che protestò col Minculpop affermando che il personaggio poteva essere scambiato per un americano. L’aneddoto è riportato da Oreste de Fornari nel suo volume su Disney della collana «Il Castoro Cinema». Cfr. Oreste De Fornari, Walt Disney, Milano, Il Castoro, 1995.


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Il progetto di Fantasia5 nacque dall’idea di Disney di rinverdire la carriera di Topolino. Un incontro casuale a pranzo con il direttore d’orchestra Leopold Stokowski, desideroso di collaborare con Walt, e l’idea di realizzare una versione a disegni animati con Topolino protagonista del famoso brano di Paul Dukas L’apprendista stregone fecero il resto. Stokowski incise il brano a Hollywood con la sua orchestra e Disney fu talmente colpito dal risultato da proporre al Maestro un intero lungometraggio d’animazione composto da brani di musica classica illustrati da cartoon in movimento. Le musiche sarebbero state eseguite dalla prestigiosa Orchestra di Filadelfia. A mano a mano che l’animazione procedeva, Walt si rendeva conto che la semplice colonna ottica monofonica non avrebbe reso giustizia alla magnificenza dell’esecuzione e alle fantasmagorie in Technicolor che avrebbero preso vita sullo schermo. Ecco allora l’invenzione del Fantasound, un particolare sistema di ripresa e riproduzione del suono in grado di ricreare nei cinema l’effetto di una sala da concerto. Ciò fu possibile utilizzando tre microfoni posizionati strategicamente in sala per la registrazione e tre colonne sonore ottiche incise su una pellicola separata da 35 mm che scorreva separatamente dalla pellicola con le immagini, ma in sincrono con essa. Oltre ai tre altoparlanti disposti dietro allo schermo, nelle tre colonne era compresa anche una pionieristica codifica surround per inviare specifici effetti sonori a 65 piccole casse audio disposte nel cinema. Con un simile, spettacolare impianto, è facile immaginare la resa di scene come l’assalto del Tyrannosaurus Rex nella Sagra della Primavera di Stravinskij o il terrificante sabba dei demoni nella Notte sul monte Calvo di Musorgskij. Ricordo brevemente gli altri episodi del film: Toccata e fuga in re minore di J.S. Bach (fantasia di immagini astratte e colori che si susseguono sullo schermo); la celebre suite dello Schiaccianoci di Ciajkovskij (un inno alla natura con danze di fate, fiori e frutti sullo schermo e un favoloso valzer finale affidato ai folletti del gelo); 5 Id., supervisione di Ben Sharpsteen, regia episodi di Samuel Armstrong, James Algar, Bill Roberts, Paul Satterfield, Hamilton Luske, Jim Handley, Ford Beebe, T. Hee, Norman Ferguson, Wilfred Jackson; 120’, 1940.


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La Pastorale di Beethoven (ambientata sul monte Olimpo tra le schermaglie amorose di centauri e centaurette, un giocoso dio Bacco e Zeus che si diverte a scatenare tempeste); La danza delle ore dall’opera La Gioconda di Ponchielli (una scatenata parodia del balletto classico affidata a struzzi, elefanti, ippopotami e alligatori ballerini); e L’Ave Maria di Schubert (una processione in una foresta simile a una cattedrale), episodio finale che chiude il film con un tocco di speranza e di fede. Il film, nonostante alcune critiche positive, non ebbe successo commerciale per motivi diversi (fra i quali, come nel caso di Pinocchio, lo stato di guerra mondiale) e Disney si trovò con le spalle al muro: infatti fu costretto ad accettare che la RKO, distributrice del film, lo accorciasse a 81 minuti per inserirlo in un «doppio programma». Walt aveva bisogno di denaro per il nuovo studio di Burbank. Putroppo, anche in versione accorciata, il film, che era costato ben due milioni 280 mila dollari, produsse perdite anche superiori a quelle di Pinocchio.6 Fu solo nel 1956, quando Fantasia fu riedito in una nuova versione stereofonica con sonoro magnetico (le originali piste ottiche del Fantasound furono riversate sulle piste magnetiche) e su schermo panoramico (il Superscope brevettato dalla RKO) che il film fu rivalutato e da allora è stato continuamente riproposto, fino alla trionfale uscita in videocassetta nel 1991. L’anno successivo, in cui avvenne la distribuzione di Dumbo (id., di Ben Sharpsteen, 64’, 1941), deliziosa storia di un elefantino dalle lunghe orecchie capace di volare, fu una boccata d’aria per le esangui casse dello studio; ma avvenimenti successivi, come l’entrata in guerra degli Stati Uniti in seguito all’attacco di Pearl Harbor, un lungo sciopero da parte degli animatori dello studio e l’occupazione dello studio stesso da parte dell’esercito, misero a dura prova la sua stessa esistenza. In questo periodo Disney si dedicò in larga parte alla produzione di cortometraggi di propaganda bellica e gli stessi cartoon con Paperino e Pippo, che ormai avevano superato Topolino in popolarità, avevano una ambientazione bellica o un preciso messaggio di propaganda da riferire. Comunque la produzione di lungometraggi non fu abbandonata. Nel 1942 fu la volta di Bambi (id., di David Hand, 69’, 1942), tratto da un libro di Felix Salten, 6

Cfr. B. Thomas, op. cit., p. 175.


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Un disegno pubblicitario per «La Danza delle Ore» di Fantasia (Id., 1940). © Disney

la commovente storia di un cerbiatto dalla nascita alla maturità, raccontata con animazioni mozzafiato (l’incendio della foresta, l’acquazzone primaverile, il passaggio delle stagioni) e scene molto coinvolgenti (l’uccisione della mamma cervo da parte dei cacciatori). I due film successivi, Saludos Amigos e The Three Caballeros (I tre caballeros),7 nacquero da un viaggio in Sud America effettuato da Disney e da alcuni suoi animatori per conto del governo degli Stati Uniti, ansioso di attuare una politica di buon vicinato con i paesi confinanti, vista anche la situazione mondiale. Quelli che videro la luce come pellicole quasi su commissione, sarebbero diventati, nel corso del tempo, dei veri cult movie, oltre ad assumere il valore di documenti sugli usi e costumi dell’America Latina del tempo. Saludos Amigos, lungo 42 minuti, è una raccolta di quattro cortometraggi intervallati da riprese dal vero di Disney e dei suoi collaboratori: il brano che ne ha fatto un classico è certamente Aquarela do 7 Saludos Amigos, supervisione di Norman Ferguson, regia di Bill Roberts, Jack Kinney, Hamilton Luske, Wilfred Jackson; 43’, 1942 e I tre caballeros, supervisione di Larry Lansburgh, regia di Clyde Geronimi, Jack Kinney, Bill Roberts, 69’, 1944.


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I Tre Caballeros (The Three Caballeros, 1944). In questa lobby card francese, i tre protagonisti animati del film danzano con Aurora Miranda, sorella della più celebre Carmen, al ritmo della canzone di Ary Barroso Os Quindins de Yaya. © Disney

Brasil, in cui Paperino visita la città di Rio accompagnato dal pappagallo José Carioca e impara a ballare il samba, il tutto condito da due classici della musica come Brazil e Tico Tico. Nei Tre Caballeros a Paperino e José si aggiunge l’irruento galletto messicano Panchito. Anche questo film ha una struttura a episodi (il pretesto è un regalo di compleanno da parte degli amici sudamericani a Paperino) e lo svolgimento è entusiasmante. Il film è importante per le magnifiche sequenze in cui Paperino e i suoi amici ballano con attori in carne e ossa: bellissima la sequenza in cui il Papero corteggia la ballerina Aurora Miranda. L’effetto fu ottenuto con due diversi sistemi. In un primo caso l’animazione fu ripresa a parte e poi proiettata su uno schermo davanti a cui recitavano gli attori, dando l’impressione di interagire con i disegni; in altre sequenze i personaggi animati furono inseriti grazie a un procedimento di stampa spe-


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ciale direttamente nelle scene riprese dal vero, combinando due diverse pellicole. In entrambi i casi il risultato è entusiasmante e la presenza di canzoni come Bahia e Os quindins de Yaya nella colonna sonora non fa che aumentare il fascino del risultato. Forse la più bella realizzazione Disney di questo periodo è però il film Song of the South (I Racconti dello zio Tom, di Harve Foster e Wilfred Jackson, 94’, 1946), ambientato nel Sud degli Stati Uniti e tratto da una popolare serie di racconti di Joel Chandler Harris. Ansioso di diversificare la sua produzione, e anche per contenere i costi, stavolta l’animazione fu utilizzata esclusivamente per visualizzare le storie che lo zio Tom, il vecchio saggio interpretato da James Baskett, racconta al piccolo Johnny (Bobby Driscoll). Anche se si tratta soltanto di tre storie, le avventure animate di Fratel Coniglietto, Compare Orso e Comare Volpe si impongono come alcuni tra i momenti più validi della storia del disegno animato e fanno dei Racconti un vero classico che, tra l’altro, vinse anche due premi Oscar, uno per la migliore canzone (Zip a dee doo dah) e l’altro per la toccante interpretazione di Baskett. Nella seconda metà degli anni Quaranta, lo studio si dedicò essenzialmente alla produzione di lungometraggi animati a episodi, oltre alla tradizionale produzione di cortometraggi con Topolino, Pippo e Paperino e altri personaggi. Make Mine Music (Musica Maestro, 1946)8 riprendeva la ricetta di Fantasia utilizzando però in larga parte brani di musica leggera. Sono notevoli i contributi alla colonna sonora di artisti come Benny Goodman e Dinah Shore. Il film è rimasto essenzialmente famoso perché contiene la versione disneyana della celebre fiaba in musica di Sergej S. Prokof’ev Pierino e il lupo; tecnicamente sono però molto affascinanti anche gli episodi Due siluette (Two Silhouettes) in cui appunto le sagome dei due ballerini russi Tatiana Riabouchinska e David Lichine, ricalcate fotogramma per fotogramma da una ripresa dal vero, danzano su fondali animati e La balena che voleva cantare l’opera, in cui una balena di nome Gianni, col talento della voce melodiosa, sogna una carriera da gran cantante prima di essere arpionata in un tragico finale. 8 Supervisione di Joe Grant, regia di Jack Kinney, Clyde Geronimi, Hamilton Luske, Bob Cormack, Joshua Meador.


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Nel 1947 due mediometraggi, Bongo e Topolino e il fagiolo magico, rilettura della storia di Jack e il fagiolo magico interpretata da Topolino, Paperino e Pippo, furono combinati nel lungometraggio Fun and Fancy Free (Bongo e i tre avventurieri),9 presentato dal Grillo Parlante di Pinocchio e dal ventriloquo Edgar Bergen insieme alla piccola attrice Luana Patten. Molto interessanti le scene che combinavano attori e animazione: quelle col Grillo e lo strepitoso finale in cui il gigante scoperchia il tetto della casa di Bergen, ancora alla ricerca di Topolino. Il successivo film a episodi Melody Time (Lo scrigno delle sette perle, di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson, Hamilton Luske, Jack Kinney, 75’, 1948) riprendeva la ricetta del precedente Musica Maestro. Tra i suoi episodi è d’obbligo ricordare almeno Pecos Bill e il magnifico Blame It on the Samba, con Paperino, José Carioca e l’esilarante uccello aracuan dei Tre Caballeros, impegnati in una sfrenata danza in un calice da cocktail gigante al cui interno l’organista Ethel Smith suona e danza in una entusiasmante e tecnicamente ineccepibile mistura di riprese dal vero e in animazione. L’ultimo film a episodi del periodo, The Adventures of Ichabod and Mr. Toad (Le avventure di Ichabod e Mr. Toad, di Jack Kinney, James Algar, Clyde Geronimi, 70’, 1949), è ancora la combinazione di due mediometraggi separati. Nessuno di questi film soddisfece appieno Walt, che, nuovamente, decise di rischiare il tutto per tutto producendo il primo lungometraggio animato del dopoguerra: il celeberrimo Cinderella (Cenerentola, di Wildfred Jackson, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, con la supervisione di Ben Sharpsteen, 74’, 1950), tratto dalla fiaba di Charles Perrault, che ottenne grande successo commerciale e artistico. Tematicamente il film è una fiaba classica come Biancaneve, ma lo stile grafico e lo svolgimento sono piuttosto differenti. Qui non mancano gli intermezzi comici dovuti alla storia parallela dei topini amici della protagonista in lotta col gatto Lucifero, e molti tocchi umoristici derivano dalle scene col Re e il Granduca. I fondali sono molto meno particolareggiati di quelli dei film precedenti, hanno quasi uno stile impressionista; d’altra parte le figure umane, equamente divise tra realistiche (Cenerentola, la 9

Di William Morgan, Jack Kinney, Bill Roberts, Hamilton Luske, 73’, 1947.


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Una celebre immagine coi protagonisti di Le avventure di Peter Pan (Peter Pan, 1953). © Disney

Matrigna) e caricaturali (le sorellastre, la Fata), fanno un ottimo lavoro e convivono magnificamente per tutto il film. Il lungometraggio successivo, Alice in Wonderland (Alice nel Paese delle Meraviglie, di Wilfred Jackson, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, con la supervisione di Ben Sharpsteen, 75’, 1951), rimane la migliore versione cinematografica del libro di Carroll e trasferisce brillantemente in termini visivi gran parte dell’umorismo verbale dell’autore, anche grazie a una sceneggiatura eccezionale e a visionarie scenografie fotografate in Technicolor.


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Con Peter Pan (Le avventure di Peter Pan, di Wilfred Jackson, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, 77’, 1953) Walt Disney realizza il vecchio sogno di produrre una versione animata della celebre storia di James M. Barrie. La particolarità sta nell’aver abilmente sorvolato sulla dimensione tragica della perenne giovinezza di Peter: il ragazzo volante del film Disney non è terrorizzato dall’età adulta, è perfettamente consapevole che i bambini crescono, e che l’essenziale è mantenere lo spirito della fanciullezza nel cuore. Tra i personaggi del film sono molto ben riusciti il malvagio Capitan Uncino, sottilmente perfido eppure comico nella sua cattiveria, e la deliziosa fatina Trilli. Nel 1955 la tecnica dell’animazione fa ancora un passo avanti. Nelle case è da poco arrivata la televisione e il cinema, per contrastare la perdita di spettatori, inventa lo schermo panoramico e il suono stereofonico. Il Cinemascope, brevettato dalla 20th Century Fox, è il sistema di ripresa e proiezione che si rivelerà più duttile e duraturo: in fase di ripresa, un apposito obiettivo aggiunto a quello normale «schiaccia» le immagini fissate sulla pellicola, che appaiono quindi allungate. Un altro obiettivo, durante la proiezione, riporta le immagini alle dimensioni originarie, che risultano circa il doppio di quelle di un fotogramma normale. Disney è entusiasta della novità e la impiega subito, prima in un cortometraggio musicale, Toot, Whistle, Plunk and Bloom (Suona, fischia, canta e balla, di Ward Kimball, 1953), che è la storia degli strumenti musicali; poi in un lungometraggio di grande successo, Lady and the Tramp (Lilli e il Vagabondo, di Wilfred Jackson, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, 75’, 1955), che racconta la storia d’amore tra una bella cockerina e un simpatico randagio. La particolarità delle riprese sta nel fatto che lo schermo allungato è funzionale al punto di vista canino e gli esseri umani, di conseguenza, appaiono quasi sempre inquadrati dalle ginocchia in giù. Il lungometraggio successivo, Sleeping Beauty (La Bella Addormentata nel Bosco, di Eric Larson, Wolfgang Reitherman, Les Clark, con la supervisione di Ken Peterson e Clyde Geronimi, 75’, 1959), tratto nuovamente da una classica fiaba di Perrault, fu concepito come la più colossale realizzazione a disegni animati mai realizzata: il pittore Eywind Earle ideò scenografie che ricalcavano i dipinti del primo Rinascimento, George


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Ecco il Professor Owl, che insegna alla sua classe di allievi pennuti l’origine della musica e degli strumenti musicali nel cortometraggio Suona, fischia, canta e balla (Toot, Whistle, Plunk and Bloom, 1953), premiato con un Oscar e girato in Cinemascope. © Disney

Bruns compose la colonna sonora basandosi sui temi del celebre omonimo balletto di Ciajkovskij; la colonna sonora fu interamente registrata in Germania, dove all’epoca era possibile incidere in stereofonia con sistemi all’avanguardia. Al suono stereofonico si aggiunse la decisione di riprendere l’intero film con lo spettacolare sistema panoramico Technirama, appena inventato dalla Technicolor: le immagini erano riprese su una pellicola normale che scorreva però orizzontalmente nella cinepresa; in fase di stampa era possibile sia ricavare dal negativo dei positivi in formato 70 mm, sia positivi normali 35 mm a scorrimento verticale, con immagini schiacciate da proiettare con gli stessi obiettivi del Cinemascope ma col vantaggio di maggiori definizione e nitidezza, dovute al negativo gigante. Per meglio sfruttare le potenzialità del sistema fu ideata una multiplane camera orizzontale che permetteva di manovrare con agilità l’enorme macchina da presa del Technirama. Nonostante l’immane dispendio di energie, l’ottima sceneggiatura e i deliziosi personaggi, tra cui la terrificante strega Malefica, uno dei più


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efficaci cattivi mai apparsi sullo schermo, il film almeno alla sua prima uscita non andò granché in attivo (anche per l’enorme costo iniziale di sei milioni di dollari) e Disney, deluso, decise, per il lungometraggio successivo, di tornare a una storia moderna. Tratto da un romanzo di Dodie Smith, 101 Dalmatians (La carica dei 101, di Wolfgang Reitherman, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, 79’, 1961) narra la storia di una perfida signora dell’alta società londinese, Crudelia de Mon, smaniosa di procurarsi una pelliccia di cane dalmata e che, a tal scopo, organizza il rapimento di 99 cuccioli pezzati. I cani verranno poi salvati, tra rocambolesche avventure, dai genitori di una cucciolata inclusa tra i piccoli rapiti. La novità tecnica del film è che, per la prima volta, i disegni a matita non furono ricalcati sulle celluloidi ma fotocopiati su di esse per mezzo di un apparecchio Xerox appositamente adattato. Ciò permetteva di conservare, sulle celluloidi, la spontaneità del tratto originario del disegnatore e di «duplicare» senza noiosi ricalchi il numero desiderato di cuccioli dalmata nell’inquadratura. Lo stesso stile grafico fu adottato anche per la maggior parte degli sfondi, che vennero realizzati stendendo semplicemente il colore sulle tele e aggiungendo poi i contorni sovrapponendo al fondale un foglio di celluloide su cui questi erano stati tracciati. La carica dei 101 fu un grandissimo successo e Crudelia divenne una vera e propria icona del periodo, con una popolarità che ancora oggi non accenna a diminuire. Nel 1997 la Disney ha prodotto perfino un remake dal vero del celebre film, con Glenn Close nel ruolo di Crudelia, film che ha saputo astutamente sfruttare la popolarità del suo predecessore animato: la frase di lancio, inglobata addirittura nel titolo, era «questa volta la magia è vera». Tre anni dopo abbiamo avuto l’immancabile sequel, La carica dei 102, sempre con Glenn Close. Nel frattempo il disegno animato originale è stato riedito in DVD con enorme successo. Con The Sword in the Stone (La spada nella roccia, di Wolfgang Reitherman, 79’, 1963) Disney prese spunto da un romanzo «serio» di Terence Harbury White sulla giovinezza di Re Artù per creare uno spassoso e irriverente pastiche medievale sulla leggenda di Mago Merlino e sull’educazione da lui impartita al futuro re d’Inghilterra. Ricco di riferimenti all’epoca in cui fu realizzato, il film non ebbe gran successo pres-


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Il piccolo Semola è acclamato Re ne La spada nella roccia (The Sword in the Stone, 1963). © Disney

so il pubblico anglofono, che evidentemente non gradì la garbata presa in giro di un personaggio per loro quasi sacro come Merlino. Il resto del mondo invece non ebbe problemi a rendere La spada nella roccia estremamente popolare. Tra le tante deliziose sequenze è d’obbligo citare almeno il favoloso duello che Merlino ingaggia con la perfida strega Maga Magò che ha rapito il suo allievo. Una sarabanda di trovate e trasformazioni comiche da assoluta antologia della storia del cinema. L’anno successivo, con Mary Poppins (id., di Robert Stevenson con Hamilton Luske, 140’, 1964), Disney produsse la pellicola che può considerarsi la summa di tutta la sua poetica, tratta da una popolare serie di racconti della scrittrice inglese Pamela Lyndon Travers su una governante capace di volare. Il film è essenzialmente una commedia musicale con attori, arricchita dalle celebri canzoni di Richard e Robert Sherman (Un poco di zucchero, Supercalifragilistichespiralidoso) e diretta con maestria da Robert Stevenson, regista di fiducia di Walt per tante sue pellico-


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le con attori. Il film vinse cinque Oscar, tra cui quello per la migliore attrice protagonista, Julie Andrews, ed è importante per il cinema d’animazione in quanto, grazie alla competenza tecnica di Ub Iwerks, la fusione tra attori e animazione raggiunse i massimi livelli, tramite l’illuminazione di uno schermo con lampade a vapori di sodio, davanti al quale recitarono gli attori. Il colore arancione dello schermo permise una maggiore versatilità nell’aggiunta successiva delle parti animate all’inquadratura e, rispetto al classico blue screen tipicamente usato in questi casi, le sovrapposizioni di immagini utilizzate risultarono meno visibili. Walt Disney morì solo due anni dopo, nel 1966, mentre era in produzione quello che sarebbe diventato uno dei suoi lungometraggi animati più popolari, The Jungle book (Il libro della Giungla, di Wolfgang Reitherman, 79’, 1967). Ispirato molto liberamente ai Libri della Giungla di Rudyard Kipling, il film narra le avventure di Mowgli, il «cucciolo d’uomo» allevato dai lupi e perseguitato dalla tigre Shere Khan, e della sua amicizia con l’orso Baloo e la pantera Bagheera. La pellicola fu un grande successo, dovuto anche alle belle musiche di George Bruns e alle canzoni dei veterani fratelli Sherman. Dopo la morte di Walt, gli studi per qualche tempo proseguirono sulla scia da lui iniziata, portando a compimento alcuni dei progetti da lui ideati. Il primo, The Aristocats (Gli Aristogatti, di Wolfgang Reitherman, 78’, 1970), è una deliziosa commedia animata dal sapore europeo (è ambientata a Parigi) che racconta della raffinata gatta Duchessa e dei suoi tre gattini rapiti dal cattivo maggiordomo Edgar, che vuole impadronirsi della loro eredità. A soccorrerli arriverà un simpatico gatto randagio di nome Romeo, che riuscirà a riportarli a casa. Una brillante sceneggiatura e uno stile grafico che ricrea con sapienza le atmosfere francesi fecero di questo film un grande successo. L’anno successivo il film musicale dal vero (Pomi d’ottone e manici di scopa (Bedknobs and Broomsticks, di Robert Stevenson con Ward Kimball, 117’ – versione restaurata 140’, 1971), interpretato da Angela Lansbury nel ruolo di una simpatica aspirante strega, miss Price, presenta una splendida sequenza d’animazione in cui attori e disegni convivono brillantemente come era già successo in Mary Poppins. Si tratta di una partita di calcio tutta giocata da animali, arbitrata dall’attore David Tomlinson (nel ruolo di Mr. Browne, l’insegnan-


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te della Lansbury) e che è senza dubbio il miglior lavoro d’animazione della Disney degli anni Settanta. Il primo vero progetto animato ideato dagli studi senza l’apporto di Walt è Robin Hood (id., di Wolfgang Reitherman, 83’, 1973), una spassosa versione della leggenda dell’arciere di Sherwood tutta interpretata da animali: Robin è una volpe, Little John un orso, lo Sceriffo di Nottingham un lupo e così via. È curioso notare che Disney aveva prodotto nel 1952 una versione «dal vero» della storia, girata in Inghilterra con attori del calibro di Richard Todd e Peter Finch, The Story of Robin Hood and His Merrie Men (Robin Hood e i compagni della foresta, di Ken Annakin, 83’), al quale si rifanno parecchie scene del disegno animato. Sorretto da un copione spiritoso e da belle musiche, il film fu un successo. Tecnicamente però è piuttosto debole: le scenografie sono piatte per evidenti ragioni di risparmio e molte delle animazioni più complesse sono evidentemente «ricalcate» da film precedenti quali Biancaneve, Il libro della giungla e Gli Aristogatti. Un particolare tecnico storicamente importante è che questo è l’ultimo film a essere ripreso col sistema Technicolor, il cui utilizzo era cominciato nel 1932 con una Silly Simphony, la citata Flowers and Trees. Nel 1977 esce il lungometraggio The Rescuers (Le avventure di Bianca e Bernie, di Wolfgang Reitherman, John Lounsbery, Art Stevens, 77’), storia di una coppia di topolini investigatori che accorrono in aiuto di bambini in pericolo. Il film si ricorda principalmente per il personaggio della cattiva Madame Medusa, una specie di cugina volgare di Crudelia de Mon, che al posto di cagnolini a scopo pelliccia rapisce povere orfanelle a scopo recupero diamanti preziosi. Lo stesso anno un altro film musicale Disney propone ancora una volta un personaggio animato all’interno di una storia con attori. Si tratta di Elliott, il simpatico drago protagonista di Pete’s Dragon (Elliott, il drago invisibile, di Don Chaffey con Don Bluth, 125’ – ed. it. 106’, 1977) che aiuta l’orfanello Peter a fuggire dai suoi malvagi genitori adottivi. La protagonista del film è la popolare cantante Helen Reddy, interprete di Candle on the Water, un bel motivo di Al Kasha e Joel Hirschhorn che ottenne la candidatura all’Oscar. Gli effetti speciali sono sbalorditivi e il drago animato interagisce con il mondo reale in maniera, per quei tempi, perfetta.


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Particolare del manifesto italiano della riedizione del 1988 di Red e Toby nemiciamici (The Fox and the Hound, 1981). © Disney

Nel 1981 il lungometraggio The Fox and the Hound (Red e Toby nemiciamici, di Art Stevens, Ted Berman, Richard Rich, 83’) segna un giro di boa per lo Studio. È l’ultimo film a essere supervisionato da coloro che avevano collaborato direttamente con Walt e, al tempo stesso, segna l’inizio di un periodo di grande incertezza per la Disney, dovuta all’abbandono degli studi da parte di un gruppo di giovani animatori, capeggiato da Don Bluth, Gary Goldman e John Pomeroy, desiderosi di mettersi in proprio e riproporre un tipo di disegno animato più vicino a quello dell’epoca d’oro di Walt. In effetti proprio Red e Toby, pur potendo contare su molti personaggi simpatici, tra cui spicca la civetta Gran Mà, presenta pochi virtuosismi tecnici; molti effetti d’animazione sono evidentemente realizzati «al risparmio» e il tono malinconico del rac-


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conto (incentrato sulla amicizia tra un cucciolo di volpe e uno di cane da caccia che, una volta adulti, si troveranno a essere naturalmente su fronti opposti) non fa che aumentare la sensazione di tristezza e di abbandono dello spettatore. Gli anni Ottanta sono di certo il periodo più nero dello studio, costretto mai come stavolta a sopravvivere tra un film e l’altro e a sopportare il fallimento commerciale di molte ambiziose produzioni dal vero, come i film di fantascienza The Black Hole e Tron, fagocitati al botteghino da Spielberg e Lucas con le loro saghe di Indiana Jones e Guerre Stellari. Tentativi maldestri di seguire il cambiamento del gusto del pubblico si registrano con film d’animazione cupi come The Black Cauldron (Taron e la pentola magica, di Ted Barman e Richard Rich, 80’, 1985), addirittura girato in Technirama, o film apparentemente scanzonati ma con un retrogusto sadico decisamente stonato per una produzione disneyana: in The Great Mouse Detective (Basil l’investigatopo, di John Musker, Ron Clements, David Michener, Burny Mattinson, 74’, 1986) per la prima volta, in un film Disney, un gatto mangia un topo! Tuttavia essi non riportano la Disney agli antichi fasti. L’uscita, nel 1988, di Oliver & Company (id., di George Scribner, 72’), una versione moderna di Oliver Twist, tutta interpretata nei ruoli principali da cani e da un gattino e ambientata a New York, è un timido passo avanti verso tempi migliori; ma ci vorranno due compositori di Broadway e una famosa fiaba classica di Andersen perché la Disney ritrovi il successo strepitoso degli anni passati. II.1.1 La rinascita dopo la crisi: gli anni Novanta

The Little Mermaid (La Sirenetta, di John Musker e Ron Clements, 82’, 1989) era un vecchio sogno di Walt Disney, che già durante la lavorazione di Fantasia stava progettando un lungometraggio a episodi tratto dalle fiabe di Andersen. Howard Ashman e Alan Menken, che avevano ottenuto grande successo a Broadway con il musical Little Shop of Horrors (La piccola bottega degli orrori), scrissero delle canzoni memorabili e lo Studio tornò ai bei tempi di Biancaneve e Cenerentola. I personaggi sono tutti molto riusciti e tra essi, oltre alla protagonista Ariel, spiccano il granchio Sebastian (che canta la più celebre canzone del film, Under the Sea


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cioè In fondo al mar) e la cattiva piovra Ursula. Tecnicamente il film ha delle sequenze sottomarine molto spettacolari; purtroppo però lo stile con cui è disegnata la protagonista è piuttosto altalenante e spesso si ha la sgradevole sensazione che il personaggio sia stato troppo evidentemente tratteggiato da mani diverse. È importante ricordare che questo film fu l’ultimo in cui i disegni furono fotocopiati su celluloide e colorati a mano, a parte una delle scene finali, in cui i protagonisti vanno via sotto l’arcobaleno. Già quella scena fu infatti realizzata col sistema CAPS progettato per la Disney dalla Pixar: un software di compositing e coloritura digitali. A partire dal film successivo The Rescuers Down Under (Bianca e Bernie nella terra dei canguri, di Hendel Butoy e Mike Gabriel, 74’, 1990) i disegni sarebbero stati colorati con un programma computerizzato e tutti i movimenti di macchina e gli effetti di tridimensionalità degli sfondi sarebbero stati realizzati dal computer, mandando definitivamente in pensione la gloriosa multiplane camera. La colorazione computerizzata è estremamente evidente in Beauty and the Beast (La Bella e la Bestia, di Gary Trousdale e Kirk Wise, 85’, 1991), uno dei più grandi successi Disney e primo lungometraggio animato ad avere ottenuto la candidatura all’Oscar come miglior film tout court. Il film è senza dubbio un capolavoro moderno della Disney: l’animazione dona un nuovo e originale fascino a una storia già portata più volte sullo schermo e la perfetta sceneggiatura ha lo stesso calore che Walt in persona infuse in Biancaneve e La Bella Addormentata. Le musiche e le canzoni, sempre del duo Ashman-Menken, ottennero, come già era avvenuto per la Sirenetta, l’Oscar. La scena tecnicamente più impressionante è quella del ballo nel salone del castello dei due protagonisti che volteggiano a 360 gradi grazie a movimenti di macchina computerizzati che permettono una illusione di profondità prima impensabile. Il lungometraggio successivo, Aladdin (id., di John Musker e Ron Clements, 90’, 1992), fu tratto dalle Mille e una notte e fu un altro grande successo, grazie anche al vulcanico personaggio del Genio della Lampada, a cui diede la voce, nella versione originale, Robin Williams. Le canzoni vennero ancora una volta affidate a Alan Menken, con i testi di Howard Ashman. La prematura scomparsa di quest’ultimo, però, fece sì che, per completarne il lavoro, Menken fosse affiancato da Tim Rice, autore dei libretti di Jesus Christ Superstar e Evita.


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I protagonisti della versione disneyana della celebre fiaba, nel bozzetto originale per il manifesto del film La Sirenetta (The Little Mermaid, 1989). © Disney

Nel 1994 ecco arrivare il più grande successo al botteghino di tutti i tempi per la Disney: il celeberrimo The Lion King (Il Re Leone, di Roger Allers e Rob Minkoff, 88’). Anche se pubblicizzato come il primo film tratto da un soggetto originale degli artisti dello studio, in realtà, a ben guardare, si tratta di un abile mix di personaggi e situazioni già visti in Il Libro della Giungla, in Bambi e, a detta di molti, in Jungle taitei (‘L’imperatore della giungla’, noto in Italia e negli USA come Kimba il leone bianco), fumetto (1950), serie TV (1965) e film animato (1966) di Osamu Tezuka, il quale a sua volta si era ispirato con ammirazione al Bambi dello stesso Disney. Se al cocktail aggiungiamo una accattivante colonna sonora di Hans Zimmer e le orecchiabili canzoni composte dalla pop star Elton John, ecco spiegato il grande successo mondiale del


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I protagonisti dei due film della serie Toy Story, Woody, Buzz Lightyear e Jessie torneranno presto in un terzo capitolo, mentre il primo film verrà riproposto in versione completamente digitale e in 3D. © Disney/Pixar

film. Il lungometraggio successivo, Pocahontas (id., di Mike Gabriel e Eric Goldberg, 78’, 1995), segna per la Disney il ritorno a un soggetto tratto dalla storia e dal folklore americani. Si tratta della storia d’amore tra la giovane nativa americana Pocahontas e il soldato inglese John Smith, arrivato in Virginia con una spedizione a scopi di conquista. Il film è molto interessante dal punto di vista grafico (molti disegni e fondali hanno uno stile primitivo e immediato, quasi da graffito) e la rinuncia al classico lieto fine (i due innamorati sono costretti a lasciarsi) ne fa un’opera unica all’interno della filmografia disneyana. Nel frattempo, il mondo dell’animazione sta cambiando. In quello stesso anno esce un film interamente realizzato al computer, Toy Story (Toy Story – Il mondo dei giocattoli, di John Lasseter, 81’, 1995), pro-


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dotto dagli studi Pixar e finanziato proprio dalla Disney. Presentando una storia in cui i giocattoli parlano, si muovono e provano emozioni, il film ottiene un grandissimo successo e le conseguenze per l’animazione tradizionale realizzata con carta e matita saranno di non poco peso, negli anni successivi. Il computer può consentire la realizzazione di tutto un mondo in digitale, con un grande risparmio di tempo rispetto ai disegni animati tradizionali. Tornando all’animazione classica, l’anno successivo negli studi Disney si cambia ancora rotta: il nuovo lungometraggio è The Hunchback of Notre Dame (Il Gobbo di Notre Dame, di Gary Trousdale e Kirk Wise, 90’, 1996), tratto dal capolavoro di Victor Hugo. In realtà, molto della sceneggiatura del film, impostato di nuovo come un musical «serio» con canzoni di Menken e Schwartz, deriva direttamente dal celebre film del 1939 diretto da William Dieterle e interpretato da Maureen O’Hara e Charles Laughton, compreso il lieto fine con la zingara Esmeralda salvata dalla condanna a morte. Le scene e i fondali sono spettacolari (la stessa cattedrale, dipinta dagli artisti Disney, sembra più carismatica dell’originale), i personaggi sono ricchi e sfaccettati; il tono però tende a essere fin troppo serio rispetto alle abitudini del pubblico verso gli stili disneyani (il giudice Frollo che prega la Vergine di «far diventare sua» Esmeralda è stato reputato da molti fuori luogo) e non tutti si lasciano incantare: in patria il successo è moderato, i francesi non perdonano alla Disney le libertà nei confronti del capolavoro letterario e il film non incassa quanto sperato. La mancanza di fantasia comincia a farsi sentire ancora di più col successivo Hercules (id., di John Musker e Ron Clements, 93’, 1997), la cui sceneggiatura non è altro che un abile taglia e incolla di mitologia greca, della storia di Sansone e Dalila e del film mitologico Clash of the Titans (Scontro di Titani) prodotto dalla MGM nel 1981 con gli effetti speciali di Ray Harryhausen. Da antologia rimangono però le Muse che raccontano la storia in stile coro greco con le accattivanti note rhythm & blues composte da Alan Menken e David Zippel. Un ritorno all’originalità lo troviamo nel successivo Mulan (id., di Barry Cook e Tony Bancroft, 88’, 1998), tratto dalla famosa leggenda cinese della ragazza che si traveste da uomo per arruolarsi nell’esercito e combattere gli invasori unni. Le animazioni sono al solito spettacolari, il computer aiuta a realizzare una


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incredibile scena dell’attacco degli Unni tra la neve e i colori richiamano perfettamente quelli degli acquerelli cinesi. Tra i personaggi spicca l’irresistibile draghetto Mushu. L’anno dopo tocca a un altro classico del cinema e della letteratura, Tarzan (id., di Kevin Lima e Chris Buck, 88’). Il «Disney touch» è profuso a piene mani in questa bella versione della storia originale di Burroughs, impreziosita dalle canzoni di Phil Collins. Viene anche introdotto un nuovo sistema computerizzato di realizzazione e ripresa degli sfondi, il deep canvas, che consente alla macchina da presa di simulare movimenti prima impensabili, seguendo l’uomo scimmia nelle sue evoluzioni. È innegabile però che i personaggi non riescano a imporsi nell’immaginario collettivo degli spettatori adulti e a sostituire la celebre interpretazione classica dal vivo di Johnny Weissmuller. Il 2000 è l’anno di due tra i più riusciti lungometraggi del «nuovo corso»: Fantasia 2000 (id.)10 e The Emperor’s New Groove (Le follie dell’imperatore, di Mark Dindal, 78’). Il primo, fortemente voluto da Roy E. Disney, nipote di Walt, è una sorta di seguito al classico del 1940. Realizzato in origine nello spettacolare formato IMAX su pellicola gigante, viene poi ridotto al formato normale per la distribuzione generale. Sotto la direzione d’orchestra di James Levine, stavolta non c’è il Fantasound ma un più «ovvio» Dolby Digital e la colonna sonora non si fonde coi movimenti dei personaggi così perfettamente come nel classico del 1940, ma il film offre comunque molto. Oltre all’Apprendista Stregone, ripreso da Fantasia, tra gli episodi più affascinanti è d’obbligo citare L’intrepido soldatino di stagno, tratto da Andersen e commentato dal secondo concerto per piano di Sˇostakovicˇ; il finale del Carnevale degli animali di Saint-Saëns con uno strepitoso fenicottero amante degli yo-yo (l’episodio è tutto realizzato tradizionalmente all’acquerello!) e la fantastica Rapsodia in blu di Gershwin, che ricrea la Manhattan degli anni del jazz tutta dipinta appunto in toni di azzurro. Le follie dell’imperatore, dal canto suo, potrebbe essere definito la Spada nella roccia del nuovo secolo, con i suoi simpaticissimi perso10 di Pixote Hunt, Hendel Butoy, Eric Goldberg, James Algar, Francis Glebas, Gaëtan Brizzi, Paul Brizzi, 75’.


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Mr. Incredibile, Elastigirl e i loro figli sono gli spassosi protagonisti del lungometraggio Pixar Gli incredibili (The Incredibles, 2004). © Disney/Pixar

naggi: il giovane imperatore Kuzco, viziato ed egoista, tramutato in lama dalla cattiva Yzma e salvato dall’amicizia col contadino Pacha. Tutto il film è un fuoco di fila di battute e situazioni irresistibili e diventa in poco tempo un vero cult movie. Intanto, l’animazione digitale continua i suoi progressi e il pubblico le si affeziona sempre più; le produzioni proliferano, la Pixar mette a segno altri grandi successi come Toy Story 2 (Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa, di John Lasseter, 92’, 1999), Monsters, Inc. (Monsters & Co., di Peter Docter, Lee Unkrich e David Silverman, 92’, 2001) e soprattut-


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Monsters e Co. (Monsters Inc., 2001) è stato uno dei più riusciti lungometraggi in 3D. © Disney/Pixar

to gli strabilianti Finding Nemo (Alla ricerca di Nemo, di Andrew Stanton, 100’) e The Incredibles (Gli Incredibili – Una normale famiglia di supereroi, di Brad Bird, 115’), usciti nel 2003 e nel 2004 ed entrambi premiati con l’Oscar per il miglior lungometraggio animato. Nel contempo, l’animazione tradizionale, riduttivamente ribattezzata «in 2D» (dimenticando le meraviglie della multiplane camera), comincia un rapido declino: le due superproduzioni Disney del 2001 e del 2002, Atlantis, the Lost Empire (Atlantis, l’impero perduto, di Kirk Wise e Gary Trousdale, 96’) e Treasure Planet (Il pianeta del tesoro, di John Musker e Ron Clements, 95’), sono dei clamorosi flop al botteghino. L’unico cartoon Disney che ottiene un vero successo in questi anni è Lilo & Stitch (id., 2002), tenera storia dell’amicizia tra una bambina hawaiana e un «cane» extraterrestre. I successivi Brother Bear (Koda fratello orso, di Aaron Blaise e Robert Walker, 85’, 2003) e Home on the Range (Mucche alla riscossa, di Will Finn e John Sanford, 76’, 2004),


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Ratatouille (id. 2007), è forse il miglior film mai prodotto dalla Pixar, uscito dopo che la casa era stata inglobata dalla Walt Disney. Vincitore dell’Oscar e del Golden Globe come miglior film d’animazione è la storia di un piccolo topo, Rémy, che ha l’ambizione di diventare un celebre chef. © Disney/Pixar

pur ottimamente realizzati, non incontrano favore tra il pubblico e convincono la Disney a chiudere, almeno temporaneamente, con l’animazione tradizionale e a buttarsi nella mischia dell’animazione computerizzata, anche senza la partnership con la Pixar, realizzando tutto in proprio. Purtroppo questi tentativi danno vita a una serie di pellicole davvero mediocri, pur se ammirevoli sul piano della tecnica: Dinosaur (Dinosauri, di Eric Leighton e Ralph Zondag, 82’, 2000), Chicken Little (Chicken Little, amici per le penne, di Mark Dindal, 81’, 2005) e The Wild (Uno zoo in fuga, di Steve Williams, 79’, 2006) rappresentano senza dubbio la peggiore involuzione degli studios. A mio parere, sono lungometraggi deboli con personaggi sciatti e, in almeno un caso (Uno zoo in fuga), una ripresa poco fantasiosa di Madagascar della DreamWorks (di Eric Darnell e Tom McGrath, 88’, 2005). Dopo un altro exploit Pixar nel 2006, Cars (Cars – Motori ruggenti, di John Lasseter e Joe Ranft, 113’,


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penalizzato però da molte lungaggini nella trama), le cose migliorano leggermente con Meet the Robinsons (I Robinson, una famiglia spaziale, di Stephen J. Anderson, 87’, 2007), ancora prodotto senza il coinvolgimento della Pixar, ma è solo con il magnifico Ratatouille (id., di Brad Bird e Jan Pinkava, 111’, 2007), stavolta della Pixar, che l’animazione computerizzata disneyana potrà firmare un nuovo, autentico capolavoro. Non è un caso che questo sia il primo film prodotto dopo l’acquisizione definitiva della Pixar da parte della Disney: il «Disney touch», chiuso fuori dalla porta, rientra dalla finestra per narrare alla maniera di Walt l’irresistibile vicenda del topo Rémy, che diventa un grande chef a Parigi. I tempi sono ormai maturi per il ritorno in grande stile dell’animazione classica: le parti animate del lungometraggio con attori Enchanted (Come d’incanto, di Kevin Lima, 103’, 2007), in cui una principessa, Giselle, viene scaraventata da una strega cattiva nel mondo reale e frenetico della Manhattan dei giorni nostri, sono di ottimo auspicio per una rinascita definitiva della grande animazione Disney. II.2 I cortometraggi animati

Anche dopo il grande successo di Biancaneve, gli studi Disney continuarono regolarmente a produrre cortometraggi animati per oltre vent’anni. Dalla metà degli anni Sessanta la produzione è diminuita fino a limitarsi ad alcune uscite «speciali», spesso abbinate a riedizioni di lungometraggi classici o di nuovi film. Il solo Topolino ha in filmografia 120 cortometraggi, a partire da Plane Crazy, The Gallopin’ Gaucho e Steamboat Willie del 1928 per finire con Runaway Brain del 1995; Paperino lo supera di poco, con ben 128 titoli, il primo dei quali è Donald and Pluto (Pluto e Paperino, 1936) e l’ultimo lo straordinario The Litterbug (Paperino e l’ecologia, 1961). Pippo (orig. Goofy) ha all’attivo solo 48 short come protagonista, ma è stato spesso ospite delle serie dei suoi due amici, in capolavori come Lonesome Ghosts (Topolino e i fantasmi, 1937) e Clock Cleaners (L’orologio della torre, 1937) in cui è alle prese con le statue animate di un campanile che gliene combinano di tutti i colori. Oltre ai


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A sinistra, la locandina originale di Steamboat Willie, la prima apparizione cinematografica di Topolino (Mickey Mouse) nel 1928. © Disney A destra, la locandina di Pippo e l’home theater, nuovo cartoon di Pippo che riprende la celebre serie degli anni Quaranta e Cinquanta «How to…». © Disney

già citati è doveroso ricordare, tra i tanti short disneyani, almeno Band Concert (Fanfara, 1935), il primo Topolino a colori, con il nostro impegnato a dirigere l’ouverture del Guglielmo Tell, nonostante l’arrivo di uno spaventoso tornado; Der Fuhrer’s Face (1942), film di propaganda ormai leggendario, in cui Paperino sogna di essere prigioniero nella Germania nazista (il cartoon fu premiato con l’Oscar); The Art of Skiing (Pippo sciatore, 1941), in cui Pippo ci insegna cosa non si deve assolutamente fare sulle piste da sci; Trick or Treat (Paperino e la maga, 1952), forse il più bel cartoon di Paperino, in cui la simpatica strega Nocciola aiuta i nipotini Qui, Quo e Qua a impadronirsi dei dolci dello zio; Donald Duck in Mathmagic Land (Paperino nel mondo della matemagica, 1959) dove il Nostro impara come la matematica sia alla base di tutto ciò che ci circonda, e, infine, Aquamania (1961), in cui Pippo


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viene coinvolto dal figlio in una disastrosa gara di sci nautico in cui si ritrova invischiato perfino un innocente polpo. Tra i cortometraggi «speciali» fuori serie è d’obbligo citare almeno Ben and Me (Il mio amico Beniamino, 1953), storia dell’amicizia fra il topo Amos e Benjamin Franklin; Winnie the Pooh and the Honey Tree (Winny Puh, orsetto ghiottone, 1966), tratto dai libri di A.A. Milne, che ha dato il via a una serie di cartoon e film per cinema e TV che prosegue con successo ancora oggi; The Small One (L’asinello, 1978), commovente storia del ciuchino che porta Maria a Betlemme, diretto dal grande Don Bluth; Mickey’s Christmas Carol (Canto di Natale di Topolino, 1983), in cui tutti i classici personaggi Disney reinterpretano A Christmas Carol di Charles Dickens. Con l’uscita, nel 2007, di un nuovo cortometraggio di Pippo intitolato How to Hook Up Your Home Theater (Pippo e l’home theater), siamo di fronte a una possibile rinascita delle serie di cortometraggi animati disneyani. II.3 Disney in TV11

Walt Disney fu anche un maestro del mezzo televisivo, in un’epoca in cui la maggioranza dei produttori di Hollywood vedeva la televisione come un mortale nemico. Essendo invece convinto che il piccolo schermo domestico fosse un potente alleato nel pubblicizzare le sue produzioni cinematografiche, Walt propose alla ABC la serie Disneyland, nata inizialmente per finanziare il celebre parco di divertimenti e diventata poi, per oltre trent’anni, un’affascinante vetrina in cui i personaggi Disney annunciavano le novità di prossima programmazione nelle sale e mostravano alcuni dei brani più salienti delle produzioni del passato. Il programma, che ebbe inizio nel 1954, passò nel 1961 alla NBC e, trasmesso da allora in poi a colori, fu reintitolato The Wonderful World of 11 Per una panoramica generale sulle principali serie prodotte dalla Walt Disney dagli anni Cinquanta agli anni Settanta per la TV, si veda il mio saggio «I telefilm Disney», in Giuseppe Cozzolino – Carmine Treanni, Planet Serial. I telefilm che hanno fatto la storia della TV, Roma, Aracne, 2004.


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Color e contribuì non poco alla diffusione nelle case degli apparecchi a colori. Del resto, anche la maggior parte delle puntate del vecchio Disneyland era stata girata a colori e poté essere replicata con successo. La serie era suddivisa in tematiche che prendevano spunto dai quattro paesi del parco Disney: Frontierland, dedicato alle storie western; Adventureland, che presentava le classiche storie di Robert Louis Stevenson e Jules Verne e affascinanti viaggi nel mondo della natura; Tomorrowland, che illustrava le meraviglie del futuro; e Fantasyland, in cui veniva presentato il meglio dei disegni animati e delle fiabe Disney. Per il pubblico era affascinante vedere Disney in persona presentare la maggior parte delle puntate e interagire, grazie a raffinate combinazioni di riprese dal vero e animazione, con personaggi come la fatina Trilli (ambasciatrice ufficiale del programma), Paperino (che spesso rifiutava il contatto col pubblico e spariva dai disegni rifugiandosi sotto lo scrittoio di Walt) e un nuovo personaggio che si affiancò a Walt stesso nella presentazione quando la serie divenne a colori: lo zio di Paperino Ludwig Von Drake, che divenne popolarissimo anche in Italia col nome di Pico de Paperis. Questo simpatico e saccente professore «tuttologo» si divertiva ad affrontare gli argomenti più disparati, dalla musica alla poesia, alla biologia, creando situazioni confusionarie ed estremamente comiche. Un altro presentatore d’eccezione del programma era lo Specchio Magico di Biancaneve e i sette nani, interpretato da Hans Conried (le sequenze in cui compariva utilizzavano comunque molti effetti d’animazione), a cui Walt ricorreva spesso per le puntate che avevano a che fare con la magia. Celebre l’episodio All about Magic (‘Tutto sulla magia’, 1957) che presentava il corto Trick or Treat (‘Dolcetto o scherzetto’) e il brano della Fata Madrina di Cenerentola. Altri episodi della serie rimasti memorabili sono From All of Us to All of You (‘Da tutti noi a tutti voi’, 1958), una fantastica antologia dei classici Disney i cui brani erano presentati sotto forma di biglietti d’auguri natalizi dal Grillo Parlante e l’eccezionale A Rag, a Bone, and a Box of Junk (‘Uno straccio, un osso e una scatola di cianfrusaglie’, 1964), che mostrava un interessante «dietro le quinte» del reparto effetti speciali dello studio, con particolare riguardo all’animazione a passo uno di pupazzi e oggetti utilizzata nei cortometraggi Noah’s Ark (L’arca di Noè, 1959) e A Symposium on Popular Songs


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(‘Un simposio sulle canzoni popolari’, 1962), entrambi riproposti nella puntata. È importante notare che, a differenza della maggior parte delle animazioni realizzate appositamente per la televisione, quelle disneyane del periodo si distinguono per l’ottima qualità. Molte delle puntate della serie furono perfino proiettate, in Europa, direttamente a cinema: è il caso di The Hunting Istinct (Le avventure di caccia del Professor Pico de Paperis, 1961), distribuito in Italia nel 1962, e di The Goofy Sports Story (Pippo Olimpionico, 1956), distribuito in Italia nel 1972. Altra importante trasmissione è la famosissima Mickey Mouse Club (Il Club di Topolino), che fece furore negli Stati Uniti dal 1955 al 1958 e venne poi trasmessa, in syndication, dal 1962 in poi, in diversi paesi del mondo, Italia compresa. I vari momenti della trasmissione, che inizialmente durava un’ora, erano presentati da ventiquattro ragazzi denominati «Mouseketeers»12 e da due adulti, il fantasista Jimmie Dodd e l’animatore Roy Williams. In vari siparietti animati Topolino in persona presentava i vari momenti dello show, che comprendeva anche parecchi cartoon classici. È rimasta celeberrima la sigla animata del programma, la famosa Marcia di Topolino, in cui il Topo dirigeva la banda, Paperina fungeva da majorette e Paperino si sforzava di gridare il suo nome ogni volta che il coro acclamava Topolino. Il gran finale della sigla era comunque tutto del papero, che doveva dare un colpo di gong su un esemplare molto grande dello strumento. Il risultato dei suoi sforzi era ogni volta diverso e il pubblico tentava di indovinare cosa gli sarebbe successo di volta in volta (il gong poteva spaccargli la testa o i timpani, o farlo vibrare all’impazzata, oppure il papero poteva aggrovigliarvisi); forse la trovata più carina fu quando Paperino si prese finalmente la rivincita e, invece di suonare il diabolico strumento, si esibì su un minuscolo triangolo. Dalla metà degli anni Ottanta13 si è intensificata la produzione di serie animate esclusivamente per la TV. Un grande successo ha riscosso Duck Tales (Avventure di Paperi), una serie trasmessa in tutto il mondo, prodotta dal 1987 al 1992, che narra le avventure di Paperon de Paperoni e dei suoi nipotini Qui, Quo e Qua. Molti dei soggetti degli episodi riprenGioco di parole tra Mickey Mouse e musketeer (‘moschettiere’). Per le notizie sulle serie animate ho consultato il fondamentale testo di Dave Smith The Official Encyclopedia Disney from A to Z, New York, Disney Editions, 2006. 12 13


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Paperino cerca di attirare l’attenzione di Walt Disney durante la presentazione di una puntata di Disneyland a lui dedicata. © Disney

dono le trame delle celebri storie a fumetti di Carl Barks degli anni Quaranta e Cinquanta e tra gli antagonisti di Paperone compaiono Amelia, la fattucchiera che ammalia, i Bassotti e il rivale Cuordipietra Famedoro. Dalla serie è stato tratto anche un lungometraggio animato, Ducktales: The Movie – Treasure of the Lost Lamp (Zio Paperone alla ricerca della lampada perduta, 1990),14 un esempio di produzione internazionale: il soggetto è stato messo a punto negli USA, l’animazione realizzata in Inghilterra e Francia, i cel dipinti in Cina. Chip’n’Dale Rescue Rangers (Cip e Ciop agenti speciali, 1989) è un’altra serie di successo in cui i due famosi scoiattolini sono a capo di una organizzazione segreta volta a risolvere casi criminosi «impossibili». Molto divertente per gli appassionati è la serie House of Mouse, andata in onda a partire dal 2001, in cui tutti i personaggi Disney si ritrovano in un loro «night club» 14

Di Gaëtan Brizzi, Paul Brizzi, Bob Hathcock, Clive Pallant, Mathias Marcos Rodric, 75’.


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Topolino dirige la banda nella celebre sigla La marcia di Topolino. © Disney

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(il Topoclub) per assistere alla proiezione di cartoon, all’esibizione di gruppi musicali e alle spiritose presentazioni di Topolino in persona. Dietro le quinte Paperino, Minni, Pippo, Paperina e Pluto cercano di fare in modo che lo spettacolo proceda, nonostante gli inevitabili intoppi. Molto carini i due special della serie prodotti esclusivamente per il mercato home-video: Mickey’s House of Villains (Topolino e i cattivi Disney, di Jamie Mitchell, 70’, 2002), in cui la banda dei cattivi tenta di impadronirsi del Topoclub e Mickey’s Magical Christmas: Snowed at the House of Mouse (Il Bianco Natale di Topolino, di Tony Craig e Robert Gannaway, 65’, 2001) in cui tutti i personaggi celebrano il Natale bloccati nel Topoclub da una tempesta di neve.


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Proseguendo nella valorizzazione dei personaggi classici, i Mickey Mouse Works, prodotti dal 1999 al 2001, sono una nuova serie in cui Topolino, Paperino e i loro amici tornano in moltissimi cortometraggi nuovi realizzati apposta per la televisione. In seguito, la Disney ha poi prodotto, sulla falsariga della serie, il lungometraggio Mickey, Donald, Goofy: The Three Mouseketeers (Topolino, Paperino e Pippo in «I tre Moschettieri», di Donovan Cook, 68’, 2004), amabile parodia musicale del classico di Alexandre Dumas, distribuito solo per l’home-video, ma che avrebbe meritato senz’altro una distribuzione cinematografica. II.4 I sequel dei lungometraggi

Un altro filone inaugurato negli anni Novanta dalla Disney è quello della produzione, quasi esclusivamente per il mercato home-video, di seguiti dei lungometraggi classici. Molti di essi, come per esempio The Little Mermaid II – Return to the Sea (La sirenetta II – Ritorno agli abissi, di Jim Cammerud e Brian Smith, 75’, 2000) e Cinderella II – Dreams Come True (Cenerentola 2 – Quando i sogni diventano realtà, di John Kafka, 73’, 2002) sono caratterizzati da animazioni più scarne, di tipo televisivo, e da trame e musiche dimenticabili. Altri invece, come per esempio Return to Neverland (Ritorno all’Isola che non c’è, di Robin Budd e Donovan Cook, 72’, 2002), buon seguito di Peter Pan, nobilitato da un finale struggente e Cinderella III – A Twist in Time (Cenerentola III – Il gioco del destino, di Frank Nissen, 70’, 2007), caratterizzato da ottime animazioni e una trama originale, sono produzioni dignitose che non mancano di interesse, pur rimanendo lontane anni luce dai film capostipite. L’ultimo sequel realizzato – ma in realtà, narrativamente, è un prequel – è The Little Mermaid III – Ariel’s Beginning (la Sirenetta III – Quando tutto ebbe inizio, di Peggy Holmes, 2008), che mostra l’infanzia di Ariel ed è stato anticipato da una gustosa preview in cui il granchio Sebastian si produce nel calypso Jumpin’ the Line di Harry Belafonte.


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II.5 Il restauro digitale e il cinema in tre dimensioni

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In anni recenti alla Disney si è proceduto al restauro e al recupero dell’immenso patrimonio filmico, scannerizzando al computer i negativi originali Technicolor e realizzando nuove edizioni in DVD di tutti i lungometraggi classici. Il restauro digitale di Biancaneve è stato eseguito nel 1993 utilizzando l’allora nuovissimo sistema Cineon installato nel laboratorio della Cinesite in California. Il sistema, in origine, era stato progettato semplicemente per rielaborare sequenze di effetti speciali nei film, ma, con ulteriori ricerche, è stato possibile applicarlo al restauro di un’intera pellicola. In questo modo si è potuto analizzare un fotogramma alla volta e ripulirlo completamente, per poi trasferire il risultato, tramite una cinepresa digitale, su un nuovo negativo.15 In seguito sono stati sottoposti al restauro digitale anche altri film come Bambi, Pinocchio, Cenerentola, Le avventure di Peter Pan, sempre partendo dal negativo originale Technicolor al nitrato d’argento, per assicurare massima fedeltà all’opera originale. L’ultimo spettacolare restauro è quello de La Bella Addormentata nel Bosco, realizzato a ben 4k di definizione per l’edizione del film in Blu-Ray,16 utilizzando il negativo originale Technirama a esposizione successiva (ogni disegno venne ripreso successivamente interponendo davanti all’obiettivo un diverso filtro di colore rosso, verde e blu) e permettendo per la prima volta la visione di particolari dell’immagine ai bordi, che non erano mai stati visti sullo schermo del cinema. Altra spettacolare innovazione tecnologica è quella della proiezione tridimensionale digitale. Con i moderni sistemi di proiezione digitale, infatti, non è più necessario l’utilizzo di due proiettori che sovrapponga15 Per le notizie sul restauro digitale cfr. il pressbook del film Biancaneve e i sette nani, Milano, Buena Vista Italia, 1994. 16 Il film è stato restaurato in alta definizione: il termine 4k si riferisce al numero di pixel di cui è composta l’immagine elettronica ricavata dalla scansione del negativo originale, ed è la migliore risoluzione attualmente ottenibile; l’immagine è formata da ben 1080 linee orizzontali. Il Blu-Ray è il nuovo dischetto ottico destinato a sostituire in un prossimo futuro il DVD video e presenta una capacità di immagazzinamento dati cinque volte maggiore di un DVD con immagini ad alta definizione, sei volte più nitide del normale DVD.


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Particolare del manifesto italiano della riedizione 1969 de La Bella Addormentata nel Bosco (Sleeping Beauty, 1959), primo lungometraggio classico a essere stato trasferito in alta definizione in Blu-Ray Disc. © Disney

no le immagini da visionare con gli occhiali polarizzati. Le due immagini vengono ricreate direttamente sovrapposte da un’unica fonte e il nuovo sistema di polarizzazione degli occhiali elimina molti inconvenienti. Col nome commerciale di «Disney Digital 3D» sono stati proiettati con questo sistema i film Chicken Little e I Robinson, e inoltre è stato adattato in 3D anche il celebre lungometraggio in stop-motion di Tim Burton Nightmare before Christmas. È stata poi annunciata una riedizione tridimensionale di Toy Story.


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II.6 Conclusioni. Le influenze della Disney sul mondo del cinema d’animazione: omaggi, parodie e citazioni

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È innegabile che Walt Disney e gli studi da lui creati siano stati per molto tempo sinonimo di cinema d’animazione per la maggior parte del pubblico, oltre ad aver influenzato più di una generazione di animatori e di disegnatori di fumetti. Già nel 1939 la Paramount, abbagliata dal grande successo di pubblico di Biancaneve, praticamente impose a Max e Dave Fleischer, creatori di Betty Boop e Braccio di Ferro, la realizzazione del lungometraggio Gulliver’s Travels (I viaggi di Gulliver, di Dave Fleischer, 76’, 1939), tratto dal celebre romanzo di Jonathan Swift. Purtroppo la frettolosa realizzazione e l’impreparazione dei Fleischer alla gestione di un simile progetto (la sceneggiatura è farraginosa e le animazioni di Gulliver, maldestramente ricalcate col «rotoscopio» da una ripresa dal vero, mal si armonizzano con quelle dei piccoli lillipuziani) ne decretarono il fallimento commerciale. Né migliore fortuna ebbe il successivo lungometraggio Mr. Bug Goes to Town (Hoppity va in città, di Dave Fleischer, 78’, 1941): i Fleischer furono costretti a cedere la loro attività alla Paramount. Gli studi della Warner Bros. e della Metro-Goldwyn-Mayer (MGM) realizzarono gustose parodie delle fiabe classiche e delle Silly Simphonies disneyane. Due titoli per tutti: Coal Black and de Sebben Dwarfs (più o meno ‘Neracarbon e i sedde nani’, 1943), diretto da Bob Clampett per la Warner, divertente parodia di Biancaneve in stile all black, e Red Hot Riding Hood (‘Cappuccetto rosso bollente’), scatenata versione di Cappuccetto Rosso diretta da Tex Avery per la MGM in cui la protagonista è una cantante di night club, la nonna è una ninfomane e il Lupo un damerino sciupafemmine. Grandissima è poi l’influenza di Disney sui due lungometraggi italiani (girati addirittura in Technicolor!) e distribuiti entrambi nel 1949: La Rosa di Bagdad di Anton Gino Domeneghini, 70’ e I fratelli Dinamite (87’) di Nino Pagot, che sarà poi l’inventore di Calimero. Il primo, le cui riprese a colori furono realizzate in Inghilterra, è una fantasia ispirata alle Mille e una Notte, pregevole nei fondali (opera del grande illustratore Libico Maraja) e nel disegno dei personaggi, realizzati da Angelo


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A sinistra, uno splendido dipinto realizzato da Libico Maraja (autore delle scenografie del film) per il volume Mondadori tratto da La rosa di Bagdad di Anton Gino Domeneghini: il Genio della Lampada di Aladino accorre in aiuto del piccolo Amin, trasformato in moretto dal mago Burk. A destra, la piccola intraprendente protagonista del lungometraggio Putiferio va alla guerra realizzato dalla Gamma Film nel 1968. Le canzoni della colonna sonora erano interpretate da Rita Pavone.

Bioletto, ma che purtroppo, nel tentativo di imitare Disney, si perde in «ridondanze canore e manierismi di vario genere».17 Il secondo, storia fantastica di tre pestiferi fratellini che mettono a soqquadro ogni luogo, dall’Inferno al Carnevale di Venezia, ebbe minor fortuna ed è stato solo recentemente restaurato a partire da due positivi Technicolor fortunosamente ritrovati. Molto bello e sicuramente debitore a Disney di parte del suo fascino è il lungometraggio sovietico Snezhnaia Koroleva (La Regina delle Nevi, 74’, URSS 1957) di Lev Atamanov, ricco di personaggi interessanti. 17 In tal senso cfr. Marcello Garofalo, «Le origini della fiaba», in Aladdin, storia di un capolavoro, Milano, Disney Libri, 1994, versione italiana ampliata di John Culhane, Disney’s Aladdin: The Making of an Animated Film, New York, Hyperion, 1992.


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Nel 1968, in Italia, i fratelli Gino e Roberto Gavioli, per la Gamma Film, già autrice di molti «Caroselli» animati, realizzano il curioso lungometraggio Putiferio va alla guerra (di Roberto Gavioli, 91’), pure recentemente restaurato e ricco di tocchi disneyani nel narrare la storia della guerra tra formiche gialle e formiche rosse, infine rappacificate dalla lotta contro il comune nemico formichiere. Dagli anni Sessanta cominciano a imporsi anche i disegni animati prodotti in Giappone, dove molti sono gli estimatori di Disney. Non poche influenze disneyane si trovano nel lungometraggio Nagagutsu o haita neko (Il Gatto con gli Stivali, 80’, 1968), di Kimio Yabuki, che dà origine anche a due sequel, e in Hakucho no ôji (in Italia Heidi diventa principessa, 70’, 1977) di Akihiro Ogawa, distribuito con questo titolo italiano per sfruttare la somiglianza della protagonista con la piccola orfanella della popolarissima serie televisiva, ma tratto in realtà dalla popolare fiaba di Andersen I cigni selvatici. Negli Stati Uniti Don Bluth, che aveva abbandonato la Disney proprio per produrre film alla maniera tradizionale di Walt, si avvicina molto al suo illustre modello con The Secret of NIHM (Brisby e il segreto di NIHM, 82’, 1982) e tenta con esiti discreti la strada del musical animato con Thumbelina (Pollicina, di Don Bluth e Gary Goldman, 86’, 1994). Sarà solo nel 1997 con Anastasia (degli stessi registi, 94’), prodotto dalla 20th Century Fox e girato in uno spettacolare Cinemascope, che Bluth firmerà forse il suo capolavoro. Il successivo lungometraggio, Titan A.E. (stessi autori, 94’), distribuito nel 2000, sarà un clamoroso flop che porterà al fallimento gli studi d’animazione della Fox e metterà in crisi l’attività stessa di Bluth. Tornando al Giappone, nell’ultimo decennio hanno avuto grande riscontro le opere di Hayao Miyazaki, premiato con un Oscar per Sen to Chihiro no kamikakushi (La città incantata, 125’, Giappone 2001) e con un Leone d’Oro alla carriera a Venezia nel 2005. Nei suoi lungometraggi sono pure evidenti molti richiami a Disney, in particolare in La città incantata è possibile notare echi di Fantasia e di Alice nel Paese delle Meraviglie. Nell’ultimo decennio il cinema d’animazione ha visto sorgere nuove realtà produttive direttamente concorrenti con la Disney. Il caso più ecla-


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tante è quello della DreamWorks, la casa fondata da Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg e David Geffen che ha messo su una florida sezione per l’animazione. Le sue produzioni, caratterizzate da un umorismo spesso ripetitivo e diretto maggiormente a un pubblico adulto, oltre che spesso di dubbio gusto (vedi la parodia delle fiabe nella serie di Shrek), hanno però un notevole successo al botteghino. Talvolta le ambientazioni e le trame dei film animati DreamWorks sono sospettosamente simili ad analoghi progetti Disney (e viceversa). Impossibile non notare le somiglianze tra Shark Tale (di Bibo Bergeron, Vicky Jenson, Rob Letterman, 90’, 2004) e Alla ricerca di Nemo, oppure tra Antz (Z la formica, di Eric Darnell e Tim Johnson, 83’, 1996) e A Bug’s Life (A Bug’s Life – Megaminimondo, di John Lasseter e Andrew Stanton, 95’, 1998). Infine non si può non citare Bruno Bozzetto, che, nel 1976, ha realizzato un affettuoso omaggio-parodia di Fantasia con Allegro non troppo (85’). La stessa Disney si è poi evidentemente ispirata ai bozzettiani West and Soda (86’, 1965) e a Vip, mio fratello superuomo (79’, 1968) per i suoi Mucche alla riscossa e Gli incredibili.


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Per un vocabolario del movimento Conversazione con John Canemaker di Matilde Tortora

Figura chiave nel movimento americano di animazione indipendente, John Canemaker, Premio Oscar nel 2006 per il suo corto The Moon and the Son: An Imagined Conversation, ha introdotto elementi e temi innovativi; le sue opere fanno parte della collezione permanente del Museum of Modern Art di New York. Jytte Jensen, Curatore associato del Dipartimento di film e video del MOMA, dice di lui: «non esiste soggetto che sia off limits o considerato troppo difficile per l’immaginazione-animazione di John Canemaker, un artista dall’abilità straordinaria, le cui qualità pittoriche e il movimento energico e raffinato delle linee esprimono la sua visione artistica». Canemaker è anche un eminente docente d’animazione e studioso dei grandi pionieri del cinema d’animazione statunitense, ai quali ha dedicato diversi studi e libri: Winsor McCay, Otto Messmer, Walt Disney e i suoi «Nine Old Men», Tex Avery. Questa conversazione con lui ci consente un excursus, e dei migliori, nella grande storia del cinema d’animazione statunitense dai primordi a oggi e nel laboratorio creativo di uno dei maggiori autori contemporanei.

Quali sono i meriti, le peculiarità e la grandezza di Winsor McCay in quanto animatore?1 Cosa ci comunica ancor oggi la sua opera e cosa continuerà a comunicare alle generazioni future? Winsor McCay (1867-1934) è stato uno dei primi pionieri dell’animazione, insieme a Émile Cohl e James Stuart Blackton. È 1 Winsor McCay (1867-1934), uno dei più grandi autori nella storia del fumetto, creatore di Little Nemo in Slumberland (1905-’14). Artista di varietà, cominciò a disegnare caricature e brevi sequenze animate, inizialmente per proiettarle durante i suoi spettacoli in teatro. Fu un grande pioniere del cinema d’animazione con film come Little Nemo


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stato il primo a cercare di animare la «personalità», in lavori nei quali i personaggi dessero la sensazione di avere un proprio pensiero e mostrassero distinti tratti comportamentali (per esempio in Gertie the Dinosaur nel 1914). Questo modo di rendere i personaggi animati più distintivi convinse molti artisti a diventare animatori (come Walter Lantz, Vladimir Tytla, Paul Terry ecc.).2 L’eredità di McCay confluì, come sua massima espressione artistica, nel lungometraggio Biancaneve e i sette nani, realizzato dalla Walt Disney nel 1937, e continua nei film digitali, per esempio nelle storie della Pixar, basate sull’approfondita caratterizzazione dei personaggi.

Lei ha studiato anche l’opera di altri grandi del cinema d’animazione delle generazioni precedenti, alcuni dei quali ha anche avuto modo di conoscere personalmente. Ho avuto il privilegio di incontrare, intervistare e, in alcuni casi, diventare amico di molti importanti artisti e personalità del mondo dell’animazione, quali John A. Fitzsimmons, che fu assistente di Winsor McCay; John Randolph Bray, uno dei primi proprietari di studio e produttore nell’epoca del muto, fra le altre, di una celebre serie di film animati (Colonel Heeza Liar, iniziata nel 1913); (1911), trasposizione sullo schermo del celebre suo personaggio, How a Mosquito Operates (1912) e nel 1914 l’innovativo Gertie (cfr. John Canemaker, Remembering Winsor McCay, 1976, documentario oggi confluito nel DVD Winsor McCay: The Master Edition; il suo libro Winsor McCay: His Life and Art, New York, Abbeville Press, 1987, nell’edizione riveduta e aggiornata del 2005 per la Harry N. Abrams di New York). Questa e le seguenti Note sono a cura di Matilde Tortora. 2 Walter Lantz (1899-1994), animatore e produttore di disegni animati; nel 1979 ricevette un Oscar alla carriera per il suo contributo all’animazione, e in particolare per la sua creazione del personaggio Woody Woodpecker (in Italia, Picchiarello). Vladimir Tytla (1904-1968) fu supervisore all’animazione e creatore grafico di molti dei più importanti film della Walt Disney Pictures (cfr. John Canemaker, «Vladimir Tytla: Master Animator», Animation Journal, vol. 4, n. 31, Fall 1994). Paul Houlton Terry (1887-1971) fu fumettista, sceneggiatore, regista e uno dei più prolifici produttori cinematografici nella storia. Tra il 1915 e il 1955 produsse oltre 1300 disegni animati, compresi i famosi Terrytoons.


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Gertie The Dinosaur, di Winsor McCay, 1914.

Margaret Winkler Mintz, primo distributore di Disney e dei cartoon degli studi di Max e Dave Fleischer; Elfriede Fischinger, la determinata vedova di Oskar Fischinger e instancabile promotrice dei film astratti del marito; Chuck Jones, probabilmente il più grande regista della Warner Brothers; Richard Williams, Frank Thomas, Ollie Johnston, Marc Davis, Ward Kimball, Len Lye, Faith Hubley, George Griffin, Michael Sporn, Kathy Rose, Joe Ranft, Brad Bird, John Lasseter, Pete Docter, e tanti altri.3 Tutti questi si sono consacrati al lavoro nell’animazione, indipendente3 Max Fleischer (1883-1972) verso la metà degli anni Dieci, con il fratello Dave (1894-1979), sperimentò una nuova tecnica chiamata rotoscopio. Dopo la guerra i due mescolarono le figure riprese dal vivo ai disegni animati, con Max nei panni dell’inventore del clown KoKo nella serie Out of the Inkwell. Il successo proseguì fino al termine degli anni Venti, finché non arrivarono le altre loro creature, Betty Boop e Popeye (Braccio di Ferro), negli anni del sonoro. Oskar Fischinger (1900-1967) fu un animatore e pittore tedesco, autore di cortometraggi d’animazione astratta. Realizzò oltre 50 cortometraggi e circa 900 tele. Tra i suoi film, Motion Painting No. 1 (1947) fa parte dello statunitense National Film Registry. Charles Martin «Chuck» Jones (1912-2002), una delle colonne portanti della Warner Bros., nonché l’inventore di tantissimi personaggi diventati delle vere e proprie icone,

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mente dal periodo in cui hanno lavorato o dalle tecniche che hanno usate. Otto Messmer, che negli anni Venti diresse circa duecento film con il Gatto Felix come protagonista e che fu il genio guida dietro al personaggio, era un signore modesto e schivo. Quando l’epoca del muto ebbe termine, fu la fine anche per Felix e allora Messmer lavorò per circa trent’anni nella creazione di animazioni pantomimiche per le gigantesche insegne luminose di Times Square a New York e di altre capitali nel mondo.4 come Wile E. Coyote, Pepé Le Pew, Yosemite Sam e Speedy Gonzales. È ricordato anche per essere stato produttore e regista di alcuni corti di Tom & Jerry. Frank Thomas (1912-2004), Ollie Johnston (1912-2008), Marc Davis (1913-2000) e Ward Kimball (1914-2002) sono fra gli autori di cui Canemaker ha ampiamente scritto nel suo libro Walt Disney’s Nine Old Men and the Art of Animation (New York, Disney Editions, 2001), i più stretti collaboratori di Disney dell’epoca d’oro. Gli altri grandi vecchi della Walt Disney furono Les Clark (1907-1979), Milt Kahl (1909-1987), Eric Larson (1905-1988), John Lounsbery (1911-1976) e Wolfgang Reitherman (1909-1985). «Nine Old Men» era il nome scherzoso con cui Disney si riferiva ai suoi principali animatori, riprendendo il nomignolo dato da Roosevelt alla Corte Suprema. Phillip «Brad» Bradley Bird (1957) è un regista, animatore e sceneggiatore statunitense. Vincitore nel 2005 di un premio Oscar per il miglior film d’animazione con The Incredibles, ha lavorato per le più importanti case di produzione d’animazione fino al suo ingresso alla Pixar di John Lasseter. John Alan Lasseter (1957), regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense, è uno dei membri fondatori della Pixar, della quale ha supervisionato tutti i film, fungendo da produttore esecutivo. Il celeberrimo Luxo Junior (1986) è il primo corto della Pixar Animation Studios, diretto da John Lasseter, a cui sono seguiti, fra gli altri, Red’s Dream (1987), Tin Toy (1988) e Knick Knack (1989). Ha inoltre diretto Toy Story (1995), il primo lungometraggio interamente animato al computer, e il suo seguito (1999), A Bug’s Life (1998) e Cars (2006). Lasseter ha vinto due premi Oscar, per il miglior cortometraggio d’animazione (Tin Toy) e per Toy Story, e un Golden Globe per il miglior film d’animazione con Cars. Nell’aprile 2006 la Disney ha acquistato la Pixar e Lasseter è oggi direttore creativo della Pixar e dei Walt Disney Studios. Pete Docter (1968) dal 1990 è uno dei talenti creativi della Pixar, per la quale ha realizzato spot pubblicitari collaborando anche alla sceneggiatura e agli storyboard di Toy Story e Toy Story 2. Monsters & Co. (2002) è il suo primo lungometraggio da regista. 4 Otto Messmer (1892-1983), regista e animatore statunitense. Nel 1914 conobbe Henry «Hi» Mayer, con il quale iniziò a collaborare girando film pubblicitari. L’anno successivo fu chiamato da Patrick «Pat» Sullivan (1887-1933) a lavorare nel suo studio, dove rimase per circa vent’anni, e presso il quale disegnò nel 1919 Felix the Cat (in Italia noto anche come Mio Mao), protagonista di più di 150 corti animati nell’epoca del muto. Felix diventò presto famosissimo, tanto da essere scelto come mascotte da


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Felix The Cat, creato e animato da Otto Messmer, prodotto da Pat Sullivan. I classici punti di domanda o esclamativi di Felix si possono tramutare in qualsiasi cosa. Qui si tramutano in un paio di pattini.

Qual è il suo rapporto con il computer e con le nuove tecnologie? Si potrà prescindere mai dall’opera delle mani dell’uomo, dai suoi disegni o dalle carte ritagliate o dalle matite? Nei miei film di solito utilizzo vari media e somigliano a un collage (uso la pittura, la fotografia, filmati d’archivio così come carta e matita). I miei film sono disegnati a mano, ma uso il computer per altri compiti, come il compositing, il montaggio, la stampa su pellicola, il missaggio del suono ecc. Gli animatori, oggigiorno, possono scegliere di utilizzare la tecnica che preferiscono. Questo è il bello dell’animazione di oggi: la varietà di scelte disponibili in fatto di tecniche. Charles Lindbergh per la sua trasvolata oceanica. Con l’avvento del sonoro abbandonò il cinema per dedicarsi prima alla realizzazione di fumetti e poi alla produzione di disegni animati per la TV. Cfr. John Canemaker, Otto Messmer and Felix the Cat, documentario, 1977, e Id., Felix: The Twisted Tale of the World’s Most Famous Cat, New York, Pantheon Books, 1991.

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Insegna all’università ed è coordinatore del corso di animazione presso la Tisch School of Arts della New York University. Fra i suoi propositi v’è quello di insegnare ai suoi studenti un «vocabolario del movimento». Cosa significa questa espressione e cos’altro principalmente vuole che i suoi studenti apprendano? Nelle lezioni di «Analisi dell’azione» mettiamo l’accento sull’animazione di base e sui principi del movimento quali, per esempio, lo squash & stretch, l’anticipation, il follow through e così via. Questi principi, che formano ciò che noi chiamiamo vocabolario di base, sono una dozzina.5 Gli studenti sono tenuti a conoscerli e conoscere gli effetti che producono sullo schermo per operare delle scelte e comunicare in modo chiaro e diretto con il pubblico. Nella nostra scuola, la Tisch School of the Arts – Kanbar Institute of Film & Television della New York University, offriamo agli studenti, ogni semestre, diciassette corsi diversi sull’animazione, tenuti da dieci docenti. Le lezioni sono condotte sia con i tradizionali metodi di disegno a mano sia con tecniche di disegno al computer.6 Ha anche contribuito alla realizzazione di diversi documentari, quali You Don’t Have to Die prodotto dalla HBO (1988, vincitore del premio Oscar) e Break the Silence: Kids Against Child Abuse, prodotto dalla CBS (1991),7 dirigendone le sezioni filma5 L’autore allude alle dodici regole d’oro dell’animazione disneyana e in genere di quella tradizionale e umoristica. Esse sono squash & stretch (‘compressione e dilatazione’), timing (‘temporizzazione’), anticipation (‘anticipazione’), staging (‘messa in scena’), follow through & overlapping action (‘susseguenza e azione sovrapposta’), straight ahead action & pose to pose action (‘animazione passo-passo e animazione da posa a posa’), slow in & out (‘rallentamento in entrata e in uscita’), arcs (‘traiettorie ad arco’), exaggeration (‘esagerazione’), secondary action (‘azione secondaria’), solid drawing (‘disegno volumetrico’), appeal (‘attrattiva’). Cfr. Frank Thomas – Ollie Johnston, The Illusion of Life: Disney Animation, New York, Disney Editions, 1981, pp. 47-69. 6 La pagina web della scuola è Filmtv.tisch.nyu.edu/object/ug_filmtv_courses.html. 7 You Don’t Have to Die, di Malcolm Clarke e Bill Guttentag, e Break the Silence: Kids against Child Abuse, di Arnold Shapiro, Brenda Reiswerg, J. Canemaker e Melissa Jo Peltier.


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Koko il Clown disegnato dalla stilografica di Max Fleischer, il suo creatore, nella serie degli anni Venti Out of the Inkwell.

te in animazione. Può parlarne? Inoltre, quanto conta l’animazione per trattare anche temi della realtà, alcuni dei quali decisamente scottanti? Prima di lavorare su un documentario con scene in animazione, domando sempre al produttore perché vuole usare l’animazione nel film. Credo che ci debba essere una buona ragione per farlo come, per esempio, usare l’animazione per andare in luoghi inaccessibili alle riprese dal vivo o per presentare un argomento che in animazione risulta diverso. Nel documentario sull’abuso sui bambini abbiamo adoperato l’animazione per mostrare come l’abuso veniva psicologicamente vissuto dalle vittime, e non come appariva in superficie. L’animazione può personificare le emozioni e i pensieri. I simboli usati per rappresentare la realtà possono essere molto forti ed efficaci nel comunicare idee e sensazioni. L’animazione deve essere usata con parsimonia e in modo appropriato, nel rispetto della struttura e dei propositi del documentario.

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All’interno della collezione permanente del Museum of Modern Art di New York è ospitata una serie di suoi cortometraggi animati. Il MOMA ha organizzato, fra l’altro, due retrospettive di film a lei dedicate. Quali sono, a suo avviso, le relazioni tra arti visive e cinema d’animazione fin dalle origini e quali sono stati i suoi ispiratori nella pittura e nel cinema d’animazione? L’animazione è una grande forma d’arte perché include molte altre arti, quali, per esempio, grafica, musica, teatro, danza, poesia, mimo, recitazione, sceneggiatura. Per i miei film, mi ispiro a tutte queste discipline. Tra i miei artisti visivi preferiti ci sono Arthur Dove, Charles Burchfield, Milton Avery, Honoré Daumier, Henri Matisse, Len Lye, Oskar Fischinger, Winsor McCay, Walt Disney e molti altri.

Simona Gesmundo aveva creato un personaggio animato in 3D al quale aveva dato nome Molloy, poiché le sue passioni erano il cinema d’animazione e lo studio dell’intelligenza artificiale ma anche la letteratura: infatti il nome Molloy lo derivò dalla commistione dei nomi di due personaggi, uno tratto da Beckett e l’altra da Joyce. Professor Canemaker, i suoi film e in particolar modo il suo cortometraggio animato The Moon and the Son: An Imagined Conversation, vincitore del premio Oscar 2006, hanno una tale carica di poeticità e di capacità narrativa, che mi viene fatto di chiederle quali sono i suoi autori letterari preferiti e soprattutto che cosa l’ha spinta inizialmente a volere creare animazioni. Tra i miei scrittori favoriti ci sono, tra gli altri, Janet Malcolm, Joan Didion, Virginia Woolf, Ray Bradbury, Christopher Hitchins. Ho cominciato a creare film d’animazione quando ero adolescente, nei tardi anni Cinquanta, poi li ho accantonati per circa quindici anni prima di ritornarvi nei primi anni Settanta. Ero e sono attratto dal vedere come un disegno arrivi a prendere vita.


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Questa è la magia e l’incanto di questa forma d’arte, sia nel mio ricordo personale sia oggi, per quello che l’animazione mette in campo attualmente, di fronte ai nostri occhi.

Come descriverebbe lo stato attuale del cinema d’animazione indipendente nei diversi paesi del mondo e anche della possibilità che si ha oggi di fruirne? Quali, poi, le sue previsioni per il futuro? E inoltre a che cosa sta lavorando attualmente? Lo stato attuale del cinema di animazione indipendente è oggi molto buono e ci sono più opportunità di mostrare i propri lavori sia attraverso le nuove tecnologie, come internet, sia attraverso strumenti e occasioni più tradizionali, come DVD, festival ecc. Attualmente sto lavorando a un nuovo libro per le Edizioni Disney che verrà pubblicato nel 2009; sto anche lavorando con la produttrice Peggy Stern a un documentario con animazione sulla dislessia; sto dirigendo come ospite un episodio della serie televisiva The Wonder Pets e sto lavorando a un altro film indipendente. Simona Gesmundo, come pure tantissimi giovani nel mondo, si è formata anche sui suoi libri di storia del cinema d’animazione, sui suoi articoli, sulle sue lezioni, e ha trovato materia e fonte d’ispirazione in tutti i suoi film; per questo motivo desidero ringraziarla calorosamente per la sua gentile disponibilità a concedere questa intervista. Grazie. È stato un piacere.

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