Lo spettacolo dell’immaginario

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Silvia Leonzi

Lo spettacolo dell’immaginario I miti, le storie, i media


La rielaborazione eccentrica, dinamica, attuale di simboli e figure archetipiche, rintracciabile nella vasta produzione di immaginario che circola nelle storie, nei luoghi, nelle vite dei personaggi alimenta la creazione di nuovi mondi, in cui la memoria dell’umanità si intreccia con il presente degli uomini, che anche sulla scia di queste narrazioni sognano futuri possibili.


Silvia Leonzi è professore associato in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Roma «La Sapienza» dove insegna Media e studi culturali, Analisi dell’industria culturale e Processi culturali e comunicativi. Si occupa di comunicazione, consumi culturali, immaginario e audiovisivo, memoria. Tra le sue pubblicazioni La Fiction (Napoli, 2005), Michel Maffesoli. Fenomenologie dell’immaginario (Roma, 2009), e diversi articoli in saggi collettanei.


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Silvia Leonzi

Lo spettacolo dell’immaginario I miti, le storie, i media

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I edizione: ottobre 2009 II edizione aggiornata: giugno 2010 Copyright © Tunué Srl Via Bramante 32 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.

ISBN-13 gS1 978-88-89613-78-8 Progetto grafico: Daniele Inchingoli grafica di copertina: Tunué © Tunué Stampa e legatura: Andersen Pubblicità e Marketing Via Brughera IV 28010 Frazione Piano Rosa – Boca (No)


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Indice

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Introduzione

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PARTE I – L’IMMAgINARIo CoME oggETTo SCIENTIFICo

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I L’immaginario nella società della comunicazione I.1 Un nuovo paradigma scientifico I.1.1 Una diversa sensibilità culturale I.2 Immagine e immaginario I.2.1 Immaginari collettivi I.3 Un approccio ecologico allo studio dell’immaginario I.3.1 Miti e archetipi

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II Immaginario e industria culturale II.1 Il mercato dell’immaginario: alchimie produttive II.1.1 La forza del verosimile: i media audiovisivi II.2 La narrazione come transgenere: tra fiction e non fiction II.3 Le strutture narrative dell’immaginario II.3.1 Viaggi di eroi e di antieroi

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PARTE II – FoRME IN TRANSIZIoNE: DAgLI ARChETIPI AgLI STEREoTIPI

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III Gli archetipi del Femminile III.1 Fenomenologia della Madre III.1.1 All’alba della storia: le veneri di pietra III.2 Madri terribili III.2.1 Il legame con la terra: da Medea a Sue Ellen


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III.2.2 La Marchesa e le «relazioni pericolose» III.3 L’ambivalenza del Femminile: giovani innocenti e madrine del Regno di Mezzo III.4 Tremate... Tremate... III.4.1 Femmes fatales e dark ladies

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IV Gli archetipi del Maschile IV.1 Per una sociologia del Puer aeternus IV.1.1 La psicologia dell’eterno fanciullo e l’ossimoro archetipico IV.1.2 Il Puer aeternus nell’immaginario moderno IV.2 Il Sé e il lato oscuro IV.2.1 Le dimensioni dell’ombra IV.2.2 Il mostro, il robot e l’alieno IV.3 Mondo Noir IV.3.1 Romanzi criminali

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Conclusioni. Percorsi crossmediali

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Riferimenti bibliografici

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Lo SPETTACoLo DELL’IMMAgINARIo


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Introduzione

In questa breve introduzione, anziché soffermarmi su una possibile definizione di immaginario, definizione che proporrò in seguito, vorrei in primo luogo sottolineare un dato di scenario, preliminare alle riflessioni che seguiranno: una disamina del ruolo dell’immaginario nella società contemporanea non può prescindere dalla consapevolezza dal valore performativo delle pratiche comunicative. A mio parere, infatti, la proliferazione di piattaforme e contenuti mediali non ha prodotto soltanto un ampliamento delle possibilità di conoscenza e fruizione culturale, ma anche, e soprattutto, una vera e propria rielaborazione delle caratteristiche dell’immaginario in direzioni che attualmente possiamo soltanto intravedere. La capacità dei mezzi di comunicazione di attivare dinamiche di rielaborazione del mito anche attraverso la proliferazione di contenuti, modelli e linguaggi della narrazione, soprattutto a partire dai primi anni del Novecento, ha inciso profondamente sulla graduale costruzione e sedimentazione di un immaginario prima moderno, quindi tardomoderno. La creazione costante, e per stratificazioni, di uno spazio immaginale espanso, tuttavia, non ha affatto gettato le proprie fondamenta sulle ceneri delle precedenti tradizioni culturali, superate da nuove forme di creazione e rappresentazione. Al contrario, si può idealmente far riferimento all’immaginario della tardomodernità come a una sorta di luogo ipermediale, estremamente complesso ed evoluto, oltre che costantemente aperto, un archivio di conoscenze in costante movimento, pur nella riconoscibilità delle matrici e dei riferimenti. È proprio in considerazione della significatività di uno scenario in cui la solidità delle forme universali si fonde costantemente con il dinami-


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INTRoDUZIoNE

smo della comunicazione e dei media, che ho scelto di sviluppare un percorso di analisi che prendesse in considerazione le modalità attraverso cui oggi l’immaginario si concretizza, in una miscela di arcaico e tecnologico che appare uno dei tratti più significativi del nostro tempo. Quando si riflette sull’impatto che i mezzi di comunicazione hanno avuto sulle modalità di trasmissione, fruizione e archiviazione della cultura, intesa in tutte le sue possibili espressioni, spesso la variabile tecnologica tende ad assumere un valore centrale. La loro intima natura di canali, di strumenti attraverso cui possono essere veicolati contenuti, amplifica l’idea di una moltiplicazione di opportunità comunicative e di stili di consumo culturale, che evolve parallelamente alle tecnologie e alla loro diffusione. Al tempo stesso, però, è opportuno sottolineare che accanto alla dimensione più profonda di tecnè degli apparati comunicativi, nella società contemporanea i media tendono a porsi sempre di più come ambienti. Anzitutto, ambienti virtuali, che nascono dalla costruzione e condivisione di reti sociali tecnologicamente determinate, dove si mettono in gioco le identità e i loro simulacri. Quindi ambienti fisici, rispetto a cui la crescente pervasività di strumenti mediali, più o meno mobili, tende a ridefinire costantemente le nostre percezioni di spazio e tempo. Infine, ma non certo in ordine di importanza, ambienti cognitivi. In questo senso, intendo in generale la funzione implicita che i media hanno da sempre svolto nel corso della storia umana, in qualità di vere e proprie categorie interpretative capaci di offrire modalità di riduzione della complessità adatte alle differenti fasi dell’esperienza e della conoscenza, anche rispetto all’evoluzione di una realtà sempre più articolata e difficile da interpretare. D’altra parte, l’incremento delle possibilità di percorrere con crescente immediatezza le coordinate che circoscrivono le mappe dei saperi e le loro applicazioni, anche grazie ai differenti dispositivi e sistemi di comunicazione, offre agli individui l’opportunità di integrare i propri paradigmi di orientamento, comprensione e immaginazione secondo linee di sviluppo inedite e sempre meno prescrittive. L’attuale ricchezza del panorama mediale e comunicativo, sancita dalla transizione da un sistema di industria culturale centripeto a un ar-


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cipelago di industrie culturali in grado di attivare dinamiche centrifughe di composizione e ricomposizione delle sinergie produttive, dei contenuti, delle pratiche di consumo, corrisponde a un multiverso globalizzato in cui gli individui, immaginando più mondi, vivono più vite. Nell’ambito delle elaborazioni teoriche relative agli effetti sociali dei media, il riferimento alle modificazioni cognitive del soggetto nel lungo periodo ha sempre rappresentato un nodo problematico, anche per le riflessioni meno «apocalittiche». Questo tipo di analisi si è scontrato non solo con problemi relativi alle possibilità di misurazione, comprensione e spiegazione di queste conseguenze attraverso modalità di verifica empirica, quanto soprattutto con la difficoltà di stabilire un ipotetico punto zero a partire da cui fosse possibile valutare l’effettiva incidenza del potere dei media, da un lato, e dipanare una complessità sistemica capace di sottrarsi a un’ipotesi mediacentrica, dall’altro. Alla luce di queste brevi considerazioni, mi sembra che l’idea di soffermarsi sull’analisi di un testo creato nel corso della sedimentazione della cultura e della storia della civiltà umana, al cui interno sono presenti rimandi costanti a miti, immagini, simboli e percorsi narrativi, possa efficacemente costituire uno dei punti di partenza fondamentali per tentare di descrivere la complessità dell’immaginario contemporaneo e delle relazioni che esso intrattiene con la società della comunicazione. La complessità di un mondo che, anche grazie ai media, «è diventato favola»,1 suggerisce del resto l’opportunità di affinare e sperimentare strumenti teorici e concettuali adeguati a esplorare con lo stesso rigore metodologico le pratiche sociali, l’universo mediale e la produzione di mondi immaginari. Con la consapevolezza che soltanto partendo dalla parzialità di uno sguardo capace di concentrarsi sul frammento, sulla superficie, sull’apparenza si può sperare di aggiungere una tessera all’infinito mosaico della conoscenza, mantenendo la coscienza del rischio di perdersi tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Un rischio che va ad aggiungersi ai molti altri pericoli in cui spesso si può incorrere quando si affrontano tematiche legate alla cultura, alla so1 Cfr. Friedrich Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, o come si filosofa col martello, Roma, Newton & Compton, 1980.


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cietà e all’individuo, ma che tuttavia è necessario assumersi in qualità di studiosi dei processi culturali e comunicativi della nostra epoca. La stessa urgenza che in un altro testo – nei cui confronti, e non soltanto per assonanze di titolo, il presente volume vorrebbe porsi idealmente come una prosecuzione – Mario Morcellini già descriveva significativamente in questi termini: l’importanza tutt’altro che retorica di un tema e l’urgenza di un impegno sistematico di ricerca e di conoscenza finalizzato non ad aspetti e frantumi dell’industria culturale, ma proprio a ciò che attribuisce ad essi uno straordinario significato sociale: l’interazione tra i diversi consumi, il senso che essi rivestono per la società e per gli individui, e la necessità di un approccio globale per i momenti della produzione e del consumo.2

Anche nell’ottica di seguire le coordinate di un percorso che, valorizzando le dimensioni del consumo e della ricezione, ha finito per dare nuovo splendore allo spettacolo dell’immaginario, il mio obiettivo allora non è quello di proporre una lettura univoca e risolutiva, ma, più realisticamente, quello di tentare di mettere a punto una possibile mappa. Una mappa certamente ancora implementabile, ma sufficientemente delimitata da costituire, auspicabilmente, uno strumento per comprendere e orientarsi.

Ringraziamenti Desidero ringraziare coloro che hanno collaborato a questo volume, rendendone possibile la realizzazione: Enrica Bolognese, Antonio Di Stefano, Paolo Fedeli, giada Fioravanti, Alessandro Porrovecchio, Christian Ruggiero. Un ringraziamento particolare va inoltre a Mario Morcellini e a giovanni Ciofalo.

2 Mario Morcellini (a cura di), Lo spettacolo del consumo. Televisione e cultura di massa nella legittimazione sociale, Milano, Franco Angeli, 1986, p.20.


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Parte I L’IMMaGInaRIo CoMe oGGetto sCIentIFICo


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II. Immaginario e industria culturale

II.1 Il mercato dell’immaginario: alchimie produttive L’elaborazione teorica del concetto di industria culturale, la sua messa a punto e, infine, la graduale evoluzione che ha attraversato potrebbero già da sole rappresentare tre tappe fondamentali del percorso di progressiva destrutturazione e ristrutturazione avvenuto a carico dell’immaginario da parte dei sistemi di produzione, e riproduzione, industriale della cultura. L’immaginario, del resto, come è stato anticipato nel precedente Capitolo, si fonda su dimensioni compresenti e non necessariamente conflittuali, ma anzi intimamente sinergiche. La coesistenza, per l’appunto, di una sfera sociale e di una individuale, di una capacità di cristallizzazione e di una costante vocazione al cambiamento costituiscono complessivamente, e significativamente, anche i tratti specifici di un altro concetto fondamentale che incorpora e, a sua volta, è inglobato, senza possibilità di individuare precisi confini di demarcazione, dall’immaginario stesso: la cultura. Chiaramente, non si vuole in alcun modo proporre una semplice equivalenza, che inoltre non potrebbe reggere a una dettagliata analisi dei molti aspetti che tanto la cultura quanto l’immaginario, singolarmente, tendono ad assumere, attraverso una varietà di declinazioni. L’ipotesi alla base di questo ragionamento, invece, consiste nella presa d’atto dell’esistenza, non soltanto teorica, di una zona di netta sovrapposizione al cui interno la cultura alimenta l’immaginario e viceversa. Il riferimento a un concetto come quello di industria culturale, pertanto, non rappresenta soltanto un atto dovuto nei confronti di una tradizio-


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IMMAgINARIo E INDUSTRIA CULTURALE

ne di studio e ricerca che, da Adorno e horkheimer1 in poi, si è posta il problema di esaminare i meccanismi di creazione, diffusione e fruizione dei prodotti culturali nella nostra modernità. Piuttosto, si tratta del tentativo di utilizzare tale categoria interpretativa come indispensabile strumento di indagine per misurare e, soprattutto, per comprendere la portata del cambiamento che l’avvento di un sistema mediale complesso e tecnologicamente evoluto, come il nostro, ha effettivamente prodotto sul piano sociale, individuale, culturale e immaginale. Dal punto di vista teorico, la consapevolezza dell’avvenuto passaggio da un’epoca a un’altra è facilmente riconducibile ad alcune delle più importanti opere di sociologia, sociologia della cultura e sociologia della comunicazione. Da Tönnies a Weber, da Simmel a Benjamin, solo per citare alcuni tra i più grandi studiosi nel campo delle scienze umane e sociali, la constatazione della fine di un’era, caratterizzata da una diversa architettura sociale e, sempre di più, da un differente livello di sviluppo di canali di traduzione, trasmissione e diffusione della conoscenza e della cultura, diviene un tratto comune. Adorno e horkheimer, allora, sono paradossalmente gli ultimi in grado di rielaborare le considerazioni dei loro predecessori, al fine di giungere a una formulazione in qualche modo definitiva e per molti aspetti in grado di ridurre la complessità dello scenario di riferimento. La loro «industria culturale» è, infatti, l’espressione di una critica profonda a un sistema rispetto a cui, almeno per loro, è ancora possibile chiamarsi fuori. Dopo il 1947, simbolicamente, diventerà sempre più difficile, in funzione di un’accelerazione inarrestabile dei processi di innovazione tecnologica e, contestualmente, sulla spinta della costante sete di contenuti da parte dei «grandi» media, utilizzare la società premoderna come termine di paragone per giudicare, valutare e, persino, condannare la società successiva. La carica apocalittica della definizione coniata dai due fondatori della Scuola di Francoforte andrà, inevitabilmente, incontro a un depotenziamento semantico dovuto tanto a un profondo cambiamento della sensibilità culturale degli attori sociali, quanto a una crescita ipertrofica dell’immaginario stesso. 1

M. horkheimer – T.W. Adorno, op. cit.


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Una cultura e un immaginario, per esempio, che riusciranno a integrare in modo convincente Arthur Conan Doyle, Edgar Allan Poe e, più in generale, la cosiddetta paraletteratura, prima considerata scadente, inferiore e per nulla avvicinabile alla letteratura, fino al punto da farne una sorta di paradigma di riferimento produttivo per la successiva proliferazione, e commistione, dei generi. generi non più soltanto paraletterari, ma potremmo dire, sfruttando le più recenti formulazioni teoriche, già crossmediali: in grado cioè di rappresentare idealmente schemi e strutture valide per qualsiasi medium e già predisposti ad assecondare, più che il vago desiderio di una massa indefinita, anonima e inerte, le crescenti esigenze e aspettative di pubblici differenti e sempre più segmentati. È esattamente nel riconoscimento di una maggiore capacità di selezione e attività da parte dell’uomo della società di massa e, contemporaneamente, nello slittamento «dalla forma alla formula» che Morin coglie, a pochi anni di distanza dalla pubblicazione della Dialettica dell’illuminismo, l’essenza profonda dello spirito del suo, e del nostro, tempo.2 La definitiva messa a punto di un sistema nuovo che, seppure criticabile, non è più certamente comparabile, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo, con ciò che culturalmente e produttivamente lo aveva preceduto.3 Se in ambito teorico, allora, il concetto di industria culturale, in alcuni casi anche declinato laicamente al plurale,4 cambiando di significato e perdendo una connotazione esclusivamente negativa, consente di fotografare lo sviluppo della cultura occidentale, la stessa rispetto a cui poi MacDonald proporrà nuove modalità di schematizzazione,5 dal punto di vista pratico la questione riguarda inevitabilmente sia l’emersione definitiva di settori industriali che troveranno nella cultura e nell’immaginario le loro pregiate materie prime, sia l’istituzionalizzazione di modalità più estese di accesso, condivisione e personalizzazione della conoscenza nelle forme più varie. Cfr. E. Morin, Lo spirito del tempo, cit., p. 51. Uno stravolgimento paragonabile soltanto a quello prodotto dall’avvento di internet e del digitale, con la sostanziale differenza che, in questo caso, siamo noi i testimoni di una radicale, e per giunta ancora non completata, ridefinizione degli assetti del sistema. 4 Nicholas garnham, Capitalism and Communication: Global Culture and the Economics of Information, London, Sage, 1990. 5 Dwight MacDonald, Masscult e Midcult, Roma, e/o, 1997. 2 3


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Rinviando a una successiva trattazione quest’ultimo elemento, per quanto concerne le complesse alchimie produttive che, nel corso di più di un secolo, hanno condotto a una maturazione degli apparati dell’industria culturale, si può prendere per esempio il destino di un mezzo di comunicazione sui generis come il fumetto. Chiaramente, va precisato che la riflessione relativa all’analisi dei processi di ri-mediazione del fumetto potrebbe abbastanza agevolmente essere estesa ancora una volta alla paraletteratura, ma anche alla fotografia oppure al cinema, di cui, tuttaIllustrazione tratta da Yellow Kid (1895). via, tratteremo in particolare nel prossimo Paragrafo. I comics hanno una storia complessa e internazionale. Per quanto riguarda le loro prime manifestazioni concretamente strutturate ed evidenti dal punto di vista mediatico, occorre riferirsi agli Stati Uniti di fine ottocento, dove si presentarono inizialmente come supplemento illustrato dei quotidiani. In tal senso il fumetto nelle sue prime fasi di vita rappresentò, anche in Europa, attraverso i newspapers e i settimanali illustrati – soprattutto per bambini ma non solo – un’ulteriore offerta di consumo culturale, ancora più accessibile, del romanzo d’appendice ottocentesco.6 Va sottolineato, a questo punto, che già la sola comparazione tra la valutazione culturale riservata al prodotto fumetto negli USA e in Europa, in particolar modo in Italia, si rivela fondamentale per comprendere il diverso grado di resistenza culturale in contesti sociali differenti. Tuttavia, pur limitandosi ad analizzare sinteticamente soltanto il contesto americano, 6 In diversi ambienti accademici internazionali, specie anglosassoni, viene dedicata da decenni una certa attenzione al fumetto, a livello interdisciplinare. Dal punto di vista sociologico e dei processi culturali e comunicativi, uno dei contributi italiani più interessanti è Sergio Brancato, Fumetti. Guida ai comics nel sistema dei media, Roma, Datanews, 1994.


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emerge immediatamente la capacità di questo mezzo di porsi come perfetto prototipo di una cultura orientata alla soddisfazione di un diffuso bisogno di intrattenimento. Se la sua notevole economicità dal punto di vista produttivo concorre alla implicita stereotipizzazione di elementi archetipici dell’immaginario, e dunque a una sua serializzazione, al tempo stesso offre margini di sperimentazione creativa quasi illimitati. Il fumetto infatti innova, seppure attraverso forme di semplificazione, le strutture narrative e persino i generi. La fortuna editoriale raggiunta tra gli anni QuaranIllustrazione di Batman. © degli aventi diritto. ta, Cinquanta e Sessanta dal genere supereroico, per esempio, ne è una evidente testimonianza, a ulteriore conferma che l’immaginario, seppure attraverso canali differenti, trova la sua più specifica vocazione nelle forme di ibridazione tra gli elementi appartenenti alla tradizione e quelli più attuali e «perturbanti». La metropoli di Batman, l’adolescenza problematica dell’adolescente Spider-Man, le impervie dinamiche di integrazione degli x-Men costituiscono, a tutti gli effetti, soltanto alcuni dei molti temi che questo genere specificamente fumettistico è stato in grado di tradurre in termini di vignette e nuvolette. La ri-creazione di nuovi miti, come nel caso di Superman e dei suoi molti epigoni, ha permesso a molti personaggi delle nuvole di entrare a far parte a tutti gli effetti dell’immaginario collettivo moderno, trascendendo spesso la sola appartenenza alle pagine cartacee, per straripare nell’arte, nella letteratura, nella televisione, nel cinema. Un percorso che, seppure caratterizzato da momenti di altalenante fortuna, ha trovato nell’innovazione tecnologica più recente, quella del digitale, la sua tappa più attuale.7 Le opportunità garantite dai nuovi effetti cinematografici hanno permesso di offrire 7 In particolare, si fa qui riferimento alla crescita esponenziale della produzione dei film di diretta ispirazione fumettistica registrata negli anni Duemila.


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un archivio enorme di storie e personaggi, costruito a partire dagli anni Trenta del Novecento, a un pubblico molto più vasto e non certo esclusivamente limitato a quello dei soli lettori di fumetti. Sulla scia di un simile cambiamento, si è innescato un effetto a catena: un processo su larga scala che ha condotto, anzitutto da parte di editoria e cinema, a modalità sempre più frequenti di maggiore accettazione/legittimazione e trasposizione di contenuti prettamente fumettistici in altri formati, amplificando, oltre i confini delle pagine, il potere di fascinazione dell’immaginario del fumetto. II.1.1 La forza del verosimile: i media audiovisivi Il rapporto tra audiovisivo e immaginario, come è stato in parte già annotato al Capitolo I, si mostra quanto mai interconnesso e caratterizzato dalla crescente creazione di relazioni di reciproca interdipendenza. L’immaginario si compone di temi archetipici, personaggi, strutture universali, apparentemente fuori tempo, che forniscono all’audiovisivo un substrato simbolico fondamentale a cui attingere; al tempo stesso, l’audiovisivo consente di attualizzare tale immaginario nel tempo in cui viene consumato, vissuto. In questo senso, il cinema è di certo uno dei media più avanzati in merito alla capacità di sostituire o aggiornare il racconto popolare e il mito, interpretando, contaminando, ibridando, modellando determinati miti universali in base ai temi narrativi della società contemporanea. Tali forme archetipiche diventano storiche nel momento in cui, rimodellate, entrano nelle matrici del presente, dell’attualità, trasformandosi in simboli, narrazioni della società che in quel momento immagina. Esiste, di conseguenza, una sorta di simbiosi tra queste forme universali, veri e propri contenenti che vengono riempiti di contenuti dal carattere contingente perché appartenenti a quel luogo, a quella fase storica, a quello spazio, che aiutano una società a dare senso e significato ai racconti, anche degli stessi mezzi di comunicazione. Il cinema, come detto, crea alcuni mondi immaginari e verosimili in cui gli archetipi riemergono, trasmutati, dal mondo reale. Nel momento in cui questi universi costituiti di simboli, miti, sogni, paure, bisogni dell’essere umano si incontrano con l’audiovisivo, ci troviamo in presenza del cinematografo, che proprio at-


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traverso il fantastico saprà trasformarsi nel cinema.8 Questo, dunque, diventa tale nutrendo le proprie immagini del fantastico, ovvero dell’insieme delle paure e dei desideri che alimentano il vissuto e l’esperienza dell’uomo. Il cinema stesso cristallizza tali forme simboliche e le lascia, come una sorta di riflusso, sulla riva, creando un sedimento di immagini e situazioni che poi entreranno nelle storie successive. Il fantastico è in qualche modo riconducibile a un avvenimento soprannaturale, dando origine non a caso a una se- Scena tratta dal film Viaggio nella Luna (1902) di georges Méliès. rie di generi e sottogeneri che sono il fantasy, la fantascienza, l’horror. ogni prodotto di fiction in cui compaiono elementi soprannaturali fa parte dell’immaginario, ovvero trae le sue origini, in maniera caricaturale, esagerata, dagli aspetti del perturbante, cioè da qualcosa che irrompe nella vita naturale degli esseri umani manifestandosi in modo innaturale.9 Potremmo definire il fantastico un non-luogo, una zona grigia tra la percezione che sia accaduto un evento, prodotto dalla fantasia e dall’immaginazione, che non può essere vero, e la consapevolezza che esiste un mondo parallelo, altro, che non conosciamo in cui quell’evento è accaduto. Questa esitazione, questa percezione di un mistero è, in qualche modo, il fantastico. Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli, 1982. Il concetto di perturbante è stato introdotto nella letteratura scientifica di approccio psicanalitico da Sigmund Freud, nel testo Das Unheimliche (Il Perturbante) del 1919. Per una possibile applicazione di tale concetto alla teoria narrativa si rimanda a Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Milano, garzanti, 1977. 8 9


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Sin dalle origini, quindi, il cinema ha messo in scena questo universo, proiettando lo spettatore in una dimensione indefinita che si nutre dell’incertezza tra reale e non reale. Si pensi, per esempio, al film di george Méliès Viaggio nella luna (1902), una parodia del romanzo di Jules Verne, Dalla terra alla luna (1865), che è esattamente il prototipo del cinema fantastico degli esordi; non a caso, il regista era un illusionista e lavorava proprio intorno alla creazione e alla messa a punto di queste realtà fantascientifiche. Il successo del medium cinematografico dipende anche dall’abilità di comporre storie verosimili, attingendo ad aspetti legati alla realtà, all’universo ordinario, alla vita comune e a elementi appartenenti alla sfera del fantastico; in questo modo, l’immaginario riesce a tradursi in simboli collettivi, nei quali una società riesce a riconoscersi. La forza del fantastico sta nella possibilità di attuare quella sospensione dell’incredulità, per cui lo spettatore accetta che le regole su cui si basa la finzione siano reali, che all’interno della loro cornice esista un mondo dotato di una propria coerenza. Soltanto questa illusione consapevole fa sì che l’audiovisivo, soprattutto la fiction, possa attivare dinamiche di coinvolgimento attraverso le emozioni.10 In questo senso, il cinema può essere definito una proiezione di proiezioni dell’individuo: immaginare è un esercizio psicologico e mentale, vuol dire mettersi al posto di un altro, richiamando quindi l’identificazione con il personaggio che in quel momento sta narrando la sua storia. Proprio rispetto al processo di identificazione è interessante citare una recente scoperta della neuroscienza, i neuroni-specchio, da parte di un’équipe italiana:11 quando un essere umano osserva le azioni compiute o recitate da qualcun altro si attiva nella corteccia cerebrale un processo di identificazione profonda, ovvero è come se fosse egli stesso a compiere quelle azioni. Questi neuroni vengono chiamati, appunto, neuroni specchio, in quanto, attraverso il loro funzionamento, si mettono in moto processi cerebrali che coinvolgono il sistema neurale, per cui, istintivamente, il soggetto imita il modo di esprimersi, negozia il significato, Silvia Leonzi, La fiction, Napoli, Ellissi, 2005. Marco Iacoboni, I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Torino, Bollati Boringhieri, 2008. 10 11


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attivando una sorta di sinergia a livello fisico che fa sì che egli riesca a identificarsi con l’altro. I neuroni specchio, quindi, sono la base biologica dell’empatia e forniscono un fondamento scientifico, neurologico, ad alcuni processi che in precedenza venivano indagati prevalentemente attraverso riflessioni sociologiche, filosofiche e psicologiche. Di conseguenza, tornando ai prodotti di fiction, l’obiettivo di tali contenuti è quello di costruire un mondo che esiste in un’altrove immaginario nel quale la realtà è coerente, dotata di proprie regole, anche se differenti da quelle del mondo reale in cui vive lo spettatore. Come osserva Jost: Un uomo si butta da un grattacielo e… spicca il volo per salvare all’ultimo momento un bambino che sta per essere investito… Per giudicare l’ammissibilità di questa scena, lo spettatore non la paragona alle situazioni di cui ha fatto esperienza nella sua vita, ma la interpreta sulla base di altre informazioni […]12

Il salto che Superman compie dal grattacielo è verosimile nel suo universo perché segue le leggi che lo regolano, mentre può accadere che altri prodotti culturali non riscuotano successo proprio per l’incapacità di rispettare i principi e le regole dell’universo creato, e dunque di risultare verosimili. La diegesi, infatti, è la coerenza del mondo inventato, «un mondo che corrisponde a un racconto dato, cioè un insieme di oggetti animati e inanimati, dotati di proprietà diverse e che può essere più o meno accessibile al mondo naturale».13 Un contributo importante in questo senso è stato fornito anche da Umberto Eco,14 attraverso l’idea della forza del falso, ovvero l’ipotesi dell’esistenza di universi immaginari, regolati da leggi interne, che sono in grado di influenzare il mondo reale, mostrando l’esistenza di un legame profondo tra immaginario e realtà. Il concetto di falso è importante per comprendere che se un fatto viene immaginato come reale, sarà reale nelle sue conseguenze. Secondo Eco, le storie false sono storie legittime a tutti gli effetti, sono racconti, narrazioni e, in quanto tali, sono dotate di un potere di persuasione al pari del 12 13 14

François Jost, Realtà/Finzione. L’impero del falso, Roma, Il Castoro, 2003, p. 27. Ivi, p. 28. Umberto Eco, «La forza del falso», in Id., Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2002.


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mito. gli esempi che propone sono molteplici, ma si pensi nello specifico alle Terre Australi, un continente che si riteneva esistesse davvero, ma che in realtà era del tutto immaginario. Eppure, di fatto, molti navigatori tentarono di raggiungerlo, ovviamente senza mai riuscire nell’impresa. In questo caso, la creazione fantastica aveva a che fare con richiami archetipici legati all’esplorazione, al viaggio, alla sfida, all’andare oltre, che, da Prometeo a Ulisse, hanno rappresentato aspetti tipici della natura umana. Eco definisce queste storie narrazioni verosimili, ovvero narraScena tratta dal film Medea (1969). © San zioni completamente immaginarie Marco SpA, Le Films Number one e Janus Film che tuttavia hanno riflessi nella realund Fernsehen. tà, poiché la forza del falso coinvolge lo spettatore attraverso l’attivazione dei neuroni specchio. Questi elementi fantastici, regolati da leggi proprie, sono comunque connessi con un immaginario sociale, un aspetto fondativo attraverso cui una determinata società riesce a radicare la propria identità all’interno e all’esterno dei propri confini. Coloro che ne fanno parte attingeranno a quell’immaginario per interpretare lo svolgimento narrativo delle proprie esistenze o della società tout court e dar loro un senso. Nei prodotti dell’industria culturale sono contenute le speranze, le illusioni, i progetti, le paure, le utopie di un’epoca e di un luogo; un’opera di finzione non è mai il prodotto di un singolo autore: un film è sempre un’opera collettiva, perché nasconde nelle trame, nell’estetica, nello stile, l’immaginario proprio di una società, i suoi miti fondativi. In tal senso, quindi, un prodotto audiovisivo può essere scomposto in due parti interagenti: da un lato le forme universali, archetipiche, dall’altro le forme storiche, dinamiche. La capacità di far dialogare questi due aspetti è una qualità importante per la creazione di prodotti culturali


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concorrenziali sullo scenario internazionale, che siano in grado di esprimere contemporaneamente la vitalità dell’immaginario del tempo e la profondità di temi universalmente condivisi. Un esempio emblematico in questo senso è rappresentato dall’esperienza del Neorealismo: nata a ridosso del dopoguerra, questa corrente cinematografica racconta quasi in «tempo reale» la rivoluzione antropologica causata dalla guerra, mettendo in scena un’umanità dolente ma che tuttavia coltiva la speranza di una rinascita. Tratteggiando caratteri e situazioni nazionali e personaggi che in alcuni casi (come per esempio, in La terra trema)15 si esprimono addirittura in dialetto, registi come Rossellini, De Sica, Zavattini sono apprezzati all’estero perché le loro narrazioni si prestano a una lettura extranazionale, percorsa da sentimenti e temi universali. Così, quando Pasolini gira Medea (1969), mette in scena una storia che riflette un certo immaginario, le sue idee politiche, il suo umanesimo integrale, ma Medea è anche un archetipo, un mito, è la grande Madre crudele che inghiotte i suoi figli, il femminile che dimora nel mondo infero, che dimora nel mondo degli inferi. Al tempo stesso, le storie noir che hanno come protagonista la femme fatale, ovvero la donna che seduce un malcapitato conducendolo alla sciagura, rappresentano figure femminili che tendono a differenziarsi a seconda del contesto culturale, pur fondandosi sul medesimo archetipo della giovane strega, il femminile trasformatore negativo, che trascina l’uomo verso la perdizione.16 Si tratta solo di alcuni esempi della storia dei rapporti tra immaginario e industria culturale, relazioni tanto più proficue ed efficaci nella creazione di prodotti, quanto più gli autori sono stati abili nell’attivare le dinamiche di scambio tra storia presente e tempo universale. Parlare di archetipi, quindi, non significa in alcun modo prefigurare un mondo composto da strutture statiche, rigide, sterilmente perenni, perché queste forme eternamente presenti si offrono alla dinamicità della storia e della cultura per esserne plasmate e riemergere ogni volta in una nuova costellazione. Di Luchino Visconti, 160’, Italia 1948. Al riguardo, si rimanda a Erich Neumann, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, Roma, Astrolabio, 1981. Sulle diverse declinazioni dell’archetipo del femminile si concentrerà il Capitolo 3 del presente testo. 15 16


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II.2 La narrazione come transgenere: tra fiction e non fiction La centralità della narrazione in quella che, comunemente, definiamo la società della comunicazione è divenuta evidente in molteplici ambiti della vita quotidiana, soprattutto a fronte della significativa pervasività raggiunta dai media e della loro capacità affabulatoria di «tradurre in racconto» il vissuto collettivo. Non è sorprendente, dunque, che proprio la narrazione abbia costituito uno dei fattori in grado di spiegare e motivare le distanze e le differenze, almeno in termini di conoscenza e di legittimazione del sapere, tra la società moderna e quella postmoderna, che Lyotard ha valutato proprio in termini di «fine delle grandi Narrazioni».17 In realtà, il concetto di postmodernità appare problematico sotto diversi punti di vista, anche per il tentativo di definire attraverso il prefisso «post» quei processi che le categorie epistemologiche della modernità non sono più in grado di spiegare. Tuttavia, il merito di Lyotard sta nell’aver colto il senso di una frattura «rivoluzionaria», osservando come non sia più possibile descrivere il percorso dell’umanità attraverso i grandi eroi, le grandi mete, i grandi eventi. Se, come già sottolineato, l’idea che l’esperienza storica abbia uno svolgimento unitario, dotato di senso, orientato verso un miglioramento universale, si è smarrita, e l’aura di certezza che l’avvolgeva nella sua fase di progettazione si è trasformata solo in una delle infinite possibilità, questo, tuttavia, non significa che lo svolgimento del tempo in forma di narrazione sia anch’esso al tramonto. La fine delle grandi Narrazioni coincide piuttosto con l’affermazione di una moltiplicazione di trame narrative frammentate, più prossime all’orizzonte percettivo e alle istanze immediate dell’individuo contemporaneo e alle sue reti microsociali, che al macro-territorio delle ideologie, della politica, delle istituzioni. Il problema è che il progressivo affermarsi dell’individualizzazione, da non considerare in termini di mero individualismo,18 non è stato il risultato di una reale progettuali17 18

F. Lyotard, op. cit. Sul tema cfr. Pietro Barcellona, L’individuo sociale, genova, Costa & Nolan, 1996.


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tà,19 ma piuttosto il prodotto di condizioni sistemiche che da un lato hanno sfavorito i soggetti più deboli da un punto di vista sociale, dall’altro hanno svuotato di senso istituzioni collettive e forme di mediazione attorno a cui si componevano gli interessi dei singoli. La stessa idea di nazione, per esempio, non transita più o soltanto attraverso il ruolo giocato dai partiti o dai grandi protagonisti della scena politica e culturale, i quali sono sottoposti a forme anche estreme di corrosività e di messa in discussione del loro potere simbolico.20 Il passaggio che si è compiuto all’interno di questo scenario, da una significativa strutturazione della società a un sistema sociale caratterizzato da una molteplicità di stratificazioni, è stato valutato dai saperi esperti e percepito dagli stessi individui come una condizione nuova e problematica, soprattutto a fronte di una ridotta capacità di rimpiazzare o innovare le agenzie tradizionali destinate a orientare il soggetto e a «sostenerlo» in tempo di crisi. Laddove è l’individuo che deve farsi carico delle negligenze e delle mancanze delle istituzioni, può accadere che egli ricerchi «altrove», ovvero non nella socialità pesante21 ma nelle trame più leggere e orizzontali delle reti sociali o nei media, le rassicurazioni di cui ha bisogno. Il processo di narrativizzazione del reale che sembra caratterizzare la contemporaneità non si spiega evidentemente solo in questi termini, ma costituisce di certo un fattore determinante nel soddisfare il bisogno antropologico di coesione sociale, di solidarietà e di identità. In fondo, le comunità umane tendono a riconoscersi nelle loro narrazioni, ed è attraverso i racconti che ogni gruppo sociale costruisce e tramanda i propri miti di fondazione.22 oggi, tutto, informazione, tv, politica, stampa, è guidato dal principio dello storytelling, che sarebbe il racconto di una storia. E perché ci sia narrazione cosa si deve fare? Si deve mischiare informazione alta e bassa. La crisi dell’informazione viene da lì. Tutto dev’essere racconto, non ci può essere raZ. Bauman, op. cit. B. Anderson, op. cit. Alberto Melucci (a cura di), Fine della modernità?, Milano, guerini, 1998. 22 Roland Barthes, «Introduzione all’analisi strutturale dei racconti», in Id., L’analisi del racconto, Milano, Bompiani, 1969. 19

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IMMAgINARIo E INDUSTRIA CULTURALE gionamento. È come se fossimo ritornati ai tempi dei greci, quando si raccontavano solo miti.23

In questa affermazione, come possiamo osservare, la centralità del momento narrativo viene esplicitata, tuttavia l’autore la collega a un deficit di informazione, valutandolo non tanto in termini di forma quanto soprattutto di sostanza, come un elemento responsabile di inquinare la descrizione della realtà. Ma una così netta frattura, che separa l’informazione, la verità, da una parte, e il mito, l’immaginario, il racconto, Jade goody sulla copertina della rivista OK! dall’altra, mi sembra appartenere a (2009). © Northern & Shell. una visione del mondo che resta ancorata all’idea di un nucleo oggettivo della conoscenza che si raggiunge soltanto attraverso una presunta purezza dell’osservatore. In effetti, come vedremo, il rapporto tra verità e racconto si concretizza sempre attraverso una significativa e reciproca contaminazione e generale interdipendenza. La riflessione non va condotta soffermandosi tanto su un insoddisfatto principio di verità, quanto compiendo analisi sociologiche che puntino a comprendere la capacità d’impatto, di presa sul pubblico, di un certo tipo di informazione, valutando le modalità di costruzione della realtà e la coltivazione di idee, valori, atteggiamenti da parte delle audience.24 Un esempio interessante, in questo senso, è rappresentato dalla comunicazione sociale. Si pensi alle numerose campagne condotte nel nostro paese, negli anni Novanta, con l’obiettivo di favorire una più consapevole prevenzione nei confronti dell’AIDS, nelle quali tendevano a prevalere 23 Carlo Freccero, «La tv alla deriva, che ormai racconta solo storie», Il Venerdì di Repubblica, 20.02.2009, pp. 28-29. 24 Michael Morgan (a cura di), Against The Mainstream: the Selected Works of George Gerbner, New York, Peter Lang, 2002.


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messaggi informativi che si configuravano come veri e propri fear appeals, basati su una emotività negativa, e su un’eccessiva e poco rassicurante responsabilizzazione del soggetto, in termini di colpa e devianza. I risultati ottenuti da questo modello ingegneristico della comunicazione non sono stati soddisfacenti, non riuscendo a modificare atteggiamenti e comportamenti dei soggetti eterosessuali. Le analisi post-campagna, infatti, hanno mostrato come la diffusione di emozioni negative abbia prodotto effetti boomerang di rimozione del problema, soprattutto nel target dei soggetti eterosessuali.25 Questo insuccesso naturalmente è stato causato da numerosi fattori, che non è possibile enumerare in questa sede, tuttavia se confrontiamo il loro esito con quello ottenuto, in modo indiretto, da Jade goody, una delle protagoniste del Grande Fratello inglese nell’edizione del 2002, possiamo cogliere più chiaramente il senso della nostra analisi. Infatti la giovane donna, ammalatasi di tumore all’utero, ha deciso, poco prima di morire, di raccontare la sua storia personale ai media, con l’obiettivo di ricavarne un guadagno e assicurare un futuro migliore ai figli che avrebbe lasciati di lì a poco. Al proposito, si sono registrate numerose e anche giustificate polemiche relative al sempre più diffuso processo di spettacolarizzazione del dolore, ma da un altro punto di osservazione non si può negare che la sua narrazione sia stata efficace, contribuendo in un lasso di tempo relativamente breve a un incremento nel numero di donne che si sono sottoposte all’esame per il tumore del collo dell’utero, con una maggiore attenzione alla prevenzione e una crescente sensibilizzazione da parte dell’opinione pubblica.26 Certo, sarebbe opportuno effettuare analisi di lungo periodo per verificare il mantenimento nel tempo del cambiamento di comportamenti, atteggiamenti e valori. Tuttavia quanto accaduto in questa circostanza costituisce il segnale della presenza di un bisogno disatteso, anche di tipo psicologico, nei confronti del quale non sono sufficienti le rassicurazioni razionali, le raccomandazioni colpevolizzanti, e le informazioni tout court, basate su un’idea lineare, trasmissiva e verticale dei flussi comunicativi. 25 Franca Faccioli – Cristina Porcheddu, «Comunicazione pubblica e problemi sociali. Le campagne sull’Aids», Sociologia e ricerca sociale, 17 (49), 1996. 26 Si rimanda al rapporto del NhS Information Centre del 2009. Per maggiori informazioni, cfr. Ic.nhs.uk.


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In questo, come in altri casi, la strategia narrativa si è dimostrata maggiormente produttiva agendo anche su un piano di empatia, facendo sì che il pubblico potesse identificarsi in modo più immediato e prendere coscienza del problema.27 La narrazione, quindi, costituisce un nodo fondamentale della contemporaneità, da un lato identificabile come società del rischio,28 dall’altro come società fondata sui mezzi di comunicazione. In un mondo in cui, tramontata la certezza del progresso e della felicità, gli individui fanno fatica a mantenere elevati standard di fiducia nei confronti delle agenzie tradizionali e dei saperi esperti, le strutture narrative creano flussi comunicativi coerenti, offrendo un terreno possibile per la costruzione, l’accoglienza e la condivisione di storie personali. A tale proposito, è interessante prendere in esame alcuni esempi di narrativizzazione del reale che presentano, pur nella loro peculiarità, caratteristiche similari e pertinenti con i termini del nostro discorso. Il genere della cronaca nera proteso all’immediato, al clamore, capace di suscitare emozioni, riflette, in modo sintomatico, lo spirito del tempo, trasformandosi sempre più spesso in una sorta di fiction seriale, in cui l’informazione si tinge dei colori del giallo e del nero. La cronaca, nel senso più ampio del termine, è divenuta narrazione quando, di fatto, una realtà sempre più complessa e mediata è stata scomposta dai mezzi di comunicazione in episodi, in trame irrisolte che, ricomposte, assemblate, potevano delineare veri e propri flussi narrativi,29 secondo schemi utilizzati dalle crime stories: l’individuazione di un colpevole, il disvelamento delle pratiche sottotraccia di una comunità, la legittimazione del punto di vista attraverso l’utilizzo di esperti30 e la presenza di «oggetti» dotati, in ogni differente situazione, di un loro specifico vissuto.31 Cfr. Mary Douglas, Purezza e pericolo, Bologna, Il Mulino, 1975. Cfr. Ulrich Beck, La società del rischio, Roma, Carocci, 2000; A. giddens, op. cit. 29 Sul concetto di «flusso» si veda in particolare Raymond Williams, Televisione. Tecnologia e forma culturale, Roma, Editori Riuniti, 2000. 30 A tal proposito, la protagonista del cosiddetto Caso Cogne, Anna Maria Franzoni, è stata descritta dai media come se fosse una Medea moderna, «una madre cattiva». 31 Un tipico esempio di serialità nell’informazione legata alla cronaca nera è senz’altro la trasmissione Porta a Porta, in cui inoltre è sempre più frequente una sorta di mise en abyme, e cioè una rap27 28


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Una forma più antica di narrativizzazione della realtà è quella che, per esempio, è possibile individuare nella pratica pubblicitaria. In Italia, sin dalla comparsa di Carosello nel 1957, la pubblicità televisiva ha assunto con una evidente impostazione narrativa, in parte o del tutto abbandonata tra la fine degli anni Settanta, coincidenti appunto con l’ultima puntata di Carosello (1977), e l’inizio degli anni ottanta, con l’affermazione di quella che Eco ha definito neotelevisione32 e con la diffusione degli spot nella TV di flusso. Il ritorno a una forma di pubblicità narrativa, di tipo seriale, si è concretizzata nell’ultimo decennio in misura evidente, nella scelta di formule e trame maggiormente evolute, nelle quali il linguaggio utilizzato si modella su una dinamica che si snoda nel tempo e nello spazio, esattamente come si trattasse di una storia. Un ulteriore esempio è rappresentato dai reality, che costituiscono a tutti gli effetti un racconto per tappe, al pari di un vero e proprio viaggio dell’eroe,33 disseminato di prove, alleati, avversari fino al trionfo finale e alla ricompensa. In questo caso, è evidente una ricerca di personaggi «tipici»; di tipi umani riconoscibili, di «maschere» costruite, di trame preconfezionate, di passaggi obbligati, insomma di elementi archetipici che vengono trasformati in stereotipi e vengono poi criticati dallo stesso mezzo televisivo, in una sorta di metacomunicazione che si autoalimenta, trasponendo la narrazione su differenti piani e piattaforme e amplificandone la portata. Su un piano decisamente differente di narrativizzazione del reale si colloca il teatro civile, i cui esponenti più importanti sono Marco Paolini e Ascanio Celestini. Nelle loro performance, il racconto svolge a tutti gli effetti una vera e propria funzione civile, nell’intenzione di raccontare le storie delle persone comuni che non hanno avuto cittadinanza e voce, di testimoni inconsapevoli di alcune delle tragedie più significative del nopresentazione della rappresentazione della scena del crimine, che sposta ulteriormente in avanti la soglia dell’empatia con il conduttore-investigatore, che attraverso l’uso di plastici dei luoghi del delitto, di corpi del reato, come il mestolo e la villetta dove è avvenuto il delitto di Cogne o la bicicletta con le tracce di DNA, nel caso dell’omicidio di garlasco, coinvolge lo spettatore nel racconto «a puntate». 32 Umberto Eco, «Tv: la trasparenza perduta», in Id., Sette anni di desiderio. Cronache 1977-1983, Milano, Bompiani, 1985. 33 Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe, Roma, Dino Audino, 1992.


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stro paese, come nel caso della tragedia di Ustica o della diga del Vajont.34 Un altro esempio di costruzione narrativa del reale è rappresentata dalla narrativizzazione medica, poco diffusa nel nostro paese al contrario di quanto acScena tratta dalla pièce teatrale Infinities (2002), regia di Luca Ronconi. cade invece negli © Marcello Norberth. Stati Uniti. In questa prospettiva, il rapporto tra medico e paziente viene indagato secondo un approccio di tipo narrativo35 e negoziale, vale a dire che il momento del loro incontro non si risolve in una mera anamnesi, ma si definisce nei termini di un percorso comune e condiviso in cui la malattia viene raccontata e dunque ricollocata all’interno della trama biografica del paziente.36 Si tratta di un approccio che mira al superamento degli effetti negativi che la malattia attiva in qualità di evento disturbante e, nei casi più gravi, perturbante, stravolgendo il flusso di una narrazione quotidiana, routinaria, rassicurante. Attraverso la creazione di una nuova trama diventa possibile, anzitutto, stabilire una maggiore empatia tra medico e paziente, inserire la malattia all’interno di un flusso, ricollocandola nella storia di vita dell’individuo, e ricomporre un nuovo ordine che rimpiazzi quello che all’improvviso è stato negato. In questo contesto, sia le attività di prevenzione che il momento della diagnosi, e soprattutto il percorso di cura e di auspicabile guarigione, rappresentano modalità interpretative che en34 Cfr. Marco Paolini – gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Milano, garzanti, 1997; Marco Paolini – Daniele Del giudice, I-TIGI: Ustica, ballata in forma di teatro, Rai Due, ore 21,50, 6 luglio 2000; Ascanio Celestini, Cecafumo. Storie da leggere ad alta voce, Roma, Donzelli, 2002; Id., Radio Clandestina. Memoria delle Fosse ardeatine, Roma, Donzelli, 2005. 35 Si rimanda nello specifico a Byron J. good, Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente, Torino, Edizioni di Comunità, 1999. 36 Silvia Leonzi, La salute tra norma e desiderio, Roma, Meltemi, 1999.


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trambi i soggetti, il medico e il paziente, coinvolti nella relazione terapeutica, condividono.37 Ancora in questa prospettiva, si può citare l’esperimento condotto da Luca Ronconi con la messa in scena di Infinities,38 a partire da un testo scritto dal matematico John D. Barrow, in un’ottica di integrazione e differente relazione tra la narrazione teatrale e la corrosione dei cosiddetti saperi esperti.39 Anche in questo caso il racconto assume un ruolo centrale: l’oggetto ma costituito dall’infinito, ovvero da un elemento considerato astratto, teorico e matematico, quindi apparentemente arido e inafferrabile dal sapere comune. Viene collocato all’interno di una drammaturgia particolare che utilizza storie apparentemente prive di un senso logico, assurde, surreali. L’obiettivo è quello di far comprendere come, attraverso la contaminazione dei mondi, della scienza e del teatro, dell’estetica e dell’espressività, si riesca a raccontare contenuti estremamente specialistici, apparentemente per un pubblico profano. Lo spettacolo è allestito nelle stanze di un albergo, definito appunto Infinito, e lo spettatore partecipa in modo attivo. In questo senso, dunque, la narrazione diviene una sorta di ipertesto che prevede un viaggio del pubblico attraverso cinque stanze e altrettanti paradossi nello spazio teatrale, attraverso un sistema di traiettorie che il pubblico delinea compiendo specifiche scelte. L’ibridazione di linguaggi scientifici e linguaggi espressivi è anche alla base di una altro lavoro di Luca Ronconi, che ha realizzato una rappresentazione a partire da un saggio di bioetica, Biblioetica. Dizionario per l’uso.40 Agli spettatori veniva data la possibilità di spostarsi da una scena all’altra, scegliendo di attivare determinati link che comparivano 37 Cfr. Francesco Milani, Storie di psico-oncologia. Racconti e riflessioni tra medicina e psicoanalisi, Perugia, Aguaplano, 2009. Su questi temi cfr. Silvia Leonzi, La salute tra norma e desiderio, Roma, Meltemi, 1999. 38 Infinities costituisce a tutti gli effetti un esperimento di tipo «ecologico», poiché integra un concetto matematico come l’infinito con la rappresentazione teatrale. gli attori recitano ruoli diversi all’interno delle stanze di un albergo, la cui struttura complessiva si divide e ricompone costantemente. gli stessi spettatori sono anche coautori del testo poiché partecipano attivamente alla messa in scena attraverso la concretizzazione di scelte, che influenzano il divenire del percorso narrativo. Per un approfondimento si rimanda a Piccoloteatro.org/infinities/index.html. 39 Cfr. A. giddens, op. cit. 40 gilberto Corbellini – Pino Donghi – Armando Massarenti, Biblioetica. Dizionario per l’uso, Torino, Einaudi, 2006.


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su uno schermo, e che li accompagnavano all’interno di un’altra narrazione, in un percorso metanarrativo. L’elemento della scelta è il motore di questa messa in scena, basata sull’idea che la bioetica non possa che riguardare le opzioni individuali, dal momento che la stessa scienza non ci può più fornire alcuna certezza su questioni che attengono a una zona grigia, in cui sfumano i confini tra vita e non vita, fede e ragione. Non possiamo sapere a priori se una scelta sia giusta o sbagliata, ma la scelta compiuta coincide con lo svolgimento di una trama narrativa che ci conduce lungo un percorso da cui non è possibile tornare indietro. Tale riflessione sulle dinamiche di narrativizzazione del reale conferma ancora una volta l’infondatezza di una concezione della comunicazione41 come mero strumento di appiattimento delle coscienze, e al tempo stesso ci mostra l’irrealizzabilità della «società trasparente».42 Il motivo per cui le distopie e le utopie comunicative si sono rivelate tali, in realtà, è il medesimo, poiché queste due concezioni, apparentemente opposte, si fondano sull’idea che la comunicazione rappresenti una forza a sé, svincolata dalle variabili di tempo, luogo, personalità, regolata esclusivamente da logiche razionali, che dunque sia sufficiente attivare un flusso comunicativo perché questo raggiunga il ricevente nel senso voluto dall’emittente. La società contemporanea coincide oggi con una realtà costruita a partire dalle infinite possibili contaminazioni delle immagini che ci forniscono i mezzi di comunicazione, dalle interpretazioni che ne vengono date, dai racconti che vengono costruiti intorno a quelle stesse interpretazioni. La comunicazione costituisce il nostro habitat43 e non esiste un altrove che sia più reale; pertanto non ha più senso riflettere in termini di realtà e immaginazione come categorie mutuamente esclusive, né tantomeno è pensabile immaginare una separazione netta tra natura e cultura.44 Cfr., tra gli altri, Mario Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004. gianni Vattimo, La società trasparente, Milano, garzanti, 1989. Silvia Leonzi, «La comunicazione come cultura: media e dinamiche di civilizzazione», in Mario Morcellini (a cura di), Il Mediaevo italiano. Industria culturale, TV e tecnologie tra XX e XXI secolo, Roma, Carocci, 2005. 44 La nostra natura è artificiale, è mediata, così come è stato perfettamente rappresentato nella lunga sequenza che funge da antefatto di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, nella quale l’osso che per la scimmia diviene uno strumento e un’arma costituisce l’esteriorizzazione del corpo umano che si fa cultura, comunicazione, civiltà. 41 42 43


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Inoltre, la progressiva affermazione della società della comunicazione ha aumentato la possibilità di moltiplicare i punti di vista, di documentare gli eventi, di amplificare le voci. In fondo, narrare significa prima di tutto esprimere valori, mettere in relazione simboli, offrire a una comunità la possibilità di negoziare forme di condivisione attraverso la presentazione di mondi «di realtà» immaginari, composti di eroi, personaggi storici, guerre, persone «comuni». Attraverso la narrazione, inoltre, è possibile creare connessioni temporalmente significative tra diverse unità di esperienza, attribuendo loro un ordine e un senso e attribuendo al soggetto un ruolo centrale nell’attività di significazione degli eventi. In questo senso, essa si rivela determinante anche nelle dinamiche di costruzione dell’identità, abituando l’individuo a vivere all’interno di una trama scandita da un tempo: – passato (quel che è stato, ciò che è accaduto); – presente (ciò che sta succedendo ora); – futuro (quel che accadrà). In questo senso, l’identità è prima di tutto una narrazione incarnata, una storia di vita che: – nel passato costruisce le sue certezze; – nel presente vive il suo divenire; – nel futuro proietta le sue speranze (o le sue paure). Va osservato, tuttavia, come la tendenza alla narrativizzazione coesista con l’orientamento al presente della società della comunicazione, tendenza ben rappresentata anche da alcuni comportamenti «estremi» caratterizzati da un’elevata assunzione di rischio da parte di categorie sociali come, per esempio, i giovani, che sembrano vivere la difficoltà di estendere il proprio orizzonte cognitivo in direzione sia del passato che del futuro.45 In particolare, il sentimento del tempo si lega al tema della memoria, dal momento che nella narrazione del passato l’individuo e la comunità proiettano storie personali e collettive che, intrecciandosi, formano nodi e cristallizzazioni nella trama della storia. La costruzione della me45 Michel Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Milano, guerini, 2004. Su questi temi cfr. S. Leonzi, Michel Maffesoli, cit.


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moria, nelle società orali, transitava attraverso racconti dal vivo estremamente ridondanti, ricchi di epiteti e metafore,46 forme poetiche che svolgevano una funzione di trasmissione della memoria, piuttosto che una funzione estetica. Questo tipo di narrazione, centrata sull’hic et nunc, naturalmente era più soggetta a essere perduta, dimenticata (verba volant, scripta manent). Nelle società moderne invece, la scrittura, la stampa e in seguito l’audiovisivo, hanno notevolmente accresciuto le possibilità di conservazione del passato, ma hanno anche creato47 il rischio di una costante delega della memoria ai supporti tecnologici, i quali se, da un lato, facilitano l’archiviazione di una quantità enorme di dati, dall’altro rendono sempre più complicato l’accesso a tali contenuti per il pubblico e complessa la loro conservazione.48 È interessante rilevare la compresenza nella società della comunicazione di due processi, dalla cui convergenza sono nate esperienze narrative particolarmente significative del rapporto dinamico che può stabilirsi tra passato, presente e futuro. Da un lato, una nuova sensibilità ha contribuito a inventare nuove forme di racconto che, rievocando zone d’ombra della nostra storia, hanno messo al centro della scena le infinite microstorie della «gente comune», ispirandosi alla prospettiva sociale e processuale dell’École des Annales; dall’altro, a fronte di una comunicazione sempre più individualizzata e alla diffusione dei personal media,49 in occasione di eventi di interesse globale si sono celebrate grandi cerimonie mediali, capaci di far convergere potenti frammenti di immaginario su una dimensione rituale e collettiva. Alla base del primo di questi processi si colloca senz’altro il tema della passato comune, che proietta nel tempo il rapporto tra memoria e immaginario collettivo. Non possiamo non sottolineare come l’idea di una memoria condivisa costituisca un dato problematico in una società sempre Walter ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, il Mulino, 1986. Cfr. M. McLuhan, op. cit.. 48 Cfr. Franco Ferrarotti, Il silenzio della parola. Tradizione e memoria in un mondo smemorato, Bari, Dedalo, 2003. 49 Cfr. Enrico Pedemonte, Personal media. Storia e futuro di un’utopia, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. 46 47


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più complessa, e in particolare nel nostro paese che sconta un importante deficit di identità civile e nazionale.50 È sufficiente riflettere, per esempio, sulla storia culturale, civile, politica italiana per rendersi conto della molteplicità di questioni irrisolte, rispetto alle quali non esiste ancora una visione unitaria. La stessa Resistenza, come già sottolineato, che può essere considerata come il secondo momento fondativo della nostra na- Copertina del DVD Vajont 9 ottobre 1963. Orazione civile (1994), di Marco Paolini e gabriele Vacis. © Rai Trade, Elleu. zione, dopo il Risorgimento, presenta ancora oggi aspetti controversi e letture niente affatto condivise.51 La memoria, quindi, è anche, forse soprattutto, un terreno di conflitti, uno spazio di negoziazione, al cui interno le pratiche narrative assumono un’importante funzione fàtica di mantenimento del dialogo tra prospettive divergenti, i cui contrasti su questioni passate si riverberano su aspetti del presente, pregiudicando la condivisione del futuro. Il riferimento che è stato fatto, in precedenza, al teatro civile costituisce, in proposito, un utile elemento di riflessione rispetto ai punti ora brevemente analizzati. Infatti, nel definire le performance di autori come Marco Paolini e Ascanio Celestini, molto spesso si tende a utilizzare una interessante formula, quasi ossimorica, vale a dire «diretta della memo50 Cfr. Umberto Cerroni, L’identità civile degli italiani, Lecce, Piero Manni, 1997; Paolo Sylos Labini, Un paese a civiltà limitata. Intervista su etica, politica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 2006. 51 Cfr. giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile, Milano, Sperling & Kupfer, 2006.


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ria», dal momento che vengono utilizzati i primi piani, per cogliere il valore dell’oralità attraverso le espressioni del viso, le movenze di chi racconta e si mettono in scena rappresentazioni che spesso si svolgono nei luoghi in cui sono avvenuti i fatti narrati. Si può dunque sostenere che in queste forme di oralità secondaria52 esista una sorta di extratesto a cui fanno riferimento gli autori stessi: la comunicazione, soprattutto quando si fa narrazione, implementa il vissuto, rileggendolo attraverso forme di rappresentazione «alternative», facendo rivivere nel presente eventi altrimenti trascurati o negati. gli esempi sono molteplici, ma sarebbe sufficiente limitarsi a citare la tragedia del Vajont, frutto dell’urbanistica selvaggia che aveva accompagnato, senza un piano regolatore adeguato, il boom economico italiano, divenendo nel tempo una memoria negata.53 La capacità di creare un terreno di confluenza tra le tante storie individuali e la grande Storia è anche alla base del successo di prodotti cinematografici che sono riusciti a intrecciare questi due piani, restituendo voce e colore alle biografie anonime e dimenticate. In particolare, a metà degli anni Settanta, proprio quando stava per aprirsi uno dei periodi più aspri della lotta politica, il nostro cinema aveva per lo più abdicato all’aspirazione di raccontare la realtà, o meglio, al di là dell’impegno del cosiddetto cinema di denuncia, la maggior parte della produzione filmica risultava distante da una sensibilità volta a restituire una fotografia d’insieme della società italiana.54 Per diversi anni, accanto alle pellicole d’autore, sono stati girati film piuttosto intimisti, sintomo di un generale ripiegamento sulla sfera del privato e del presente, a fronte della difficoltà di fare i conti con i traumi provocati dal terrorismo, da un conflitto di classe violento e disperato, con il lato inquietante e oscuro di un potere spesso corrotto e percorso da sussulti antidemocratici.55 Soltanto a metà degli anni Novanta nuove produzioni cinematografiche hanno riportato alla luce queste zone d’ombra, raccontando, nell’inCfr. W. ong, op. cit. Cfr. guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2005. 54 Cfr. gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano. Vol. II, Dal 1945 ai giorni nostri, RomaBari, Laterza, 2004. 55 Ivi. 52 53


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treccio di storia e memoria, eventi, vicende, personaggi che hanno avuto un ruolo decisivo nel percorso compiuto dal nostro paese attraverso gli «anni di piombo». Film come La meglio gioventù di Marco Tullio giordana (2003), Buongiorno notte di Marco Bellocchio (2003), Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli (2003), Romanzo criminale di Michele Placido (2005), Il divo di Paolo Sorrentino (2008) e Gomorra di Matteo garrone (2008) hanno inaugurato una nuova fase del rapporto tra cinema, memoria e società, caratterizzato dal tentativo di riallacciare i fili spezzati vent’anni prima. Nella stessa direzione si sono mossi quei registi che nei loro film hanno scelto di riproporre il controverso tema della “guerra civile” e della Resistenza, come nel caso di I piccoli maestri di Daniele Luchetti (1998), Il partigiano Johnny di guido Chiesa (2000), La finestra di fronte di Ferzan ozpetek (2003) e altri. Il secondo aspetto inerente al ritorno dell’oralità secondaria nella società contemporanea riguarda la natura rituale, collettiva, globale di molti recenti eventi mediali. In queste circostanze la narrazione proietta in uno spazio simbolico la relazione tra memoria e immaginario. Assistere a matrimoni regali, a funerali di personaggi famosi, alle partite di un mondiale, a un concerto live aid e così via, ci fa sentire parte di una stessa umanità che ancora in queste occasioni, attraverso la condivisione «in diretta», sperimenta la dimensione della collettività, dell’agorà. Sapere che altri, insieme a noi, stanno assistendo allo stesso programma, stanno ridendo delle stesse battute, stanno compartecipando alle stesse sofferenze e alle stesse gioie che la diegesi sta costruendo per noi, ci riconforta, ci fa sperimentare l’emozione di essere insieme, ci proietta in una dimensione di solidarietà, empatia e condivisione la cui esigenza, se non soddisfatta nella realtà, vive e opera dentro di noi in una sorta di residuo di un’adolescenza forse rimossa, ma mai completamente dimenticata.56 Una considerazione importante, in conclusione di questo percorso, riguarda la forte presenza di processi di finzionalizzazione nella società 56

Franco Bonazzi, Televisione e serialità: il tempo ritrovato, Milano, Franco Angeli, 2001, p. 103.


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attuale, in quanto nessun racconto coincide completamente con la pura realtà, non perché non sia vero, ma perché accade sempre in un secondo momento, o, anche quando si svolge «in diretta», è comunque il frutto della percezione e della prospettiva del narratore.57 Anche nella diretta esiste uno scarto spaziale, invece che temporale, rappresentato da una narrazione che avviene da un’altra parte rispetto al luogo in cui è posizionato lo spettatore (nel caso di una radiocronaca di una partita di calcio o del racconto di bombardamenti). La narrazione mette il mondo a distanza, trasformandolo in qualcosa di diverso dalla realtà. La relazione tra fiction e non fiction rappresenta una delle contaminazioni più tipiche della società della comunicazione. In generale, quando parlo di fiction mi riferisco alla sua accezione più ampia, più generale. In questo senso, si può definire un iper-luogo della produzione culturale, un territorio vasto, trasversale, in cui è sempre più difficile marcare confini netti, a causa dei costanti processi di ibridazione delle forme e delle formule narrative. Il termine finzione deriva dal latino fictio, vale a dire fingere, e da un certo punto di vista la fiction può essere considerata un inganno, non in senso completamente negativo, ma come un’azione che modella la realtà, la ricolloca in mondi immaginari, la dissimula, la rielabora. La finzione, tradizionalmente, è stata contrapposta, come è stato già rilevato, a una presunta verità ontologica, ma nella prospettiva che abbiamo assunta si rivela più utile il già citato approccio di Umberto Eco, che sostanzialmente rovescia i termini del discorso, valutando la finzione dal punto di vista della sua affermatività. Le principali funzioni assolte da questo genere possono essere identificate nella capacità affabulatoria, nella familiarizzazione del mondo e nel conseguente processo di costruzione della realtà sociale. Il patto comunicativo che unisce produttore e consumatore di fiction si fonda su questo atto di fiducia, ma anche di immaginazione. Quando si entra nella sala cinematografica o si guarda un prodotto di fiction in televisione, vengono accettate tacitamente regole che altri hanno stabi57

Cfr. M. Morgan (a c. di), op. cit.


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lite: si è disposti a entrare in un universo immaginario e a credere che ciò che sta accadendo sia vero. Se così non fosse non sarebbe possibile alcun coinvolgimento, nessuna forma di proiezione e identificazione. Nel momento della fruizione, ciò che accade è verosimile, vale a dire che lo spettatore accetta di sottoporsi a questo inganno con consapevolezza: la finzione è a tutti gli effetti un contratto comunicativo tra la realtà e l’immaginazione.58 In realtà, al di là della differenza tra vero e falso, reale e immaginario, ogni tipo di racconto è irreale nel suo fondamento, poiché il mondo viene «messo a distanza» nel momento stesso in cui viene raccontato: attraverso i media assistiamo a qualcosa che avviene in un altrove, più o meno reale o immaginario. II.3 Le strutture narrative dell’immaginario In uno dei suoi testi più famosi, La libido. Simboli e trasformazioni (1912), Jung parla di «immagini primordiali», in grado di generarsi autonomamente, percepibili dalla coscienza ma derivanti da una matrice inconscia comune a tutti i popoli, senza distinzioni di tempo né di luogo. Nel 1919, in un intervento dal titolo Istinto e inconscio, lo psicoterapeuta svizzero sviluppa le ipotesi precedenti parlando apertamente di «archetipi». Nella formalizzazione definitiva di questa intuizione Jung opera una sostanziale distinzione tra i contenuti dell’inconscio personale, costituiti dai cosiddetti «complessi a tonalità affettiva», che rappresentano la componente intima e personale della vita psichica, e gli archetipi, che costituiscono i contenuti fondamentali dell’inconscio collettivo.59 Le immagini per Jung non rappresentano soltanto un sintomo del rimosso, ma piuttosto un ponte, un mezzo di comunicazione tra l’inconscio e l’universo, forme ricche di contenuti soggettivi che cambiano attraverso il tempo e lo spazio, elementi di connessione tra l’individuo e la 58 Su questi temi cfr. Milly Buonanno, L’età della televisione. Esperienze e teorie, Roma-Bari, Laterza, 2006; S. Leonzi, La fiction, cit. 59 Carl gustav Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Torino, Bollati Boringhieri, 1977.


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realtà universale della natura. Freud, a sua volta, nel testo sulla sessualità femminile aveva sottolineato l’importanza delle relazioni dei bambini con i genitori: in questo caso, a esercitare una profonda influenza, non era tanto il rapporto reale quanto l’immagine che il bambino possedeva di quel rapporto.60 Jung propose di attribuire a tale rappresentazione il nome di «Imago», parola ispirata dal romanzo del 1906 di Carl g.F. Spitteler. Per riuscire a spiegare l’esistenza di differenze tra la figura della madre reale e la sua imago, Jung formulò la teoria secondo la quale a essere significativa era un’immagine inconscia, universalmente presente nella psiche umana. Il concetto di imago rappresenta pertanto un elemento di transizione tra il concetto di complesso e quello di archetipo.61 Il concetto di archetipo, che sostituisce il termine imago, invece, non chiama in causa solo un’immagine in quanto tale ma anche un’articolata attività dinamica, che si manifesta nella numinosità e nella forza affascinante di figure primordiali: nell’inconscio gli archetipi sono in relazione tra loro, in uno stato di contaminazione e fusione. Nella formulazione junghiana, l’inconscio collettivo trascende i confini delle relazioni familiari, per rappresentare più in generale un essenziale momento di transizione verso la costruzione dell’immagine del mondo da parte dell’individuo. gli archetipi non si sono diffusi universalmente mediante i processi di migrazione, le tradizioni, il linguaggio, ma hanno il potere di manifestarsi in tempi e luoghi differenti senza l’intervento di fattori esterni. Da questa evidenza si può dedurre che ogni psiche contiene modelli, idee, forme che, pur essendo inconsce, sono in grado di incidere attivamente sulla vita degli individui. L’immaginario junghiano, in sostanza, non è un luogo «del rimosso» come nella psicologia freudiana ma, piuttosto, una sorgente perenne da cui scaturiscono immagini, simboli, miti, dotati di fascinazione in quanto universali. Nel suo disegno fondamentale l’archetipo è immutabile, nei suoi modi di manifestarsi è eternamente mutevole: è uno schema capace di organizzare i contenuti delle rappresentazioni che nascono dall’esperienza del soggetto. 60 61

Sigmund Freud, Introduzione alla Psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1985 Carl gustav Jung, La libido: simboli e trasformazioni, Torino, Bollati Boringhieri, 1965.


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Il legame tra inconscio collettivo e immaginario emerge con forza nei prodotti dell’industria culturale, in cui le immagini universali, gli schemi narrativi che connettono la realtà al mito, e i simboli, modellati dalla cultura e dalla storia, si riempiono di contenuti comprensibili, riuscendo a coinvolgere empaticamente lettori e spettatori di una determinata configurazione sociale.62 Una teoria che preveda una così stretta interazione delle funzioni consce dell’individuo con schemi, contenuti, immagini di relazione che si agitano nel suo inconscio, deve necessariamente introdurre figure che fungano da elementi di mediazione tra il mondo della coscienza e quello dell’inconscio. Le immagini simboliche sono allora il reale motore del divenire psichico dell’individuo; ciò che consente di individuare un luogo di congiunzione tra parte cosciente e forme inconsce transpersonali, a partire da una continua elaborazione individuale e collettiva. Un passaggio di energia tra questi due ambiti, che non fosse in qualche misura regolato e indirizzato, rischierebbe di tradursi in un accesso al mondo della fantasia come mera fuga dal reale, mentre l’attività immaginativa rappresenta un’essenziale funzione di irrealtà,63 un esercizio di creazione che, attraverso l’immaginazione, crea un ponte tra l’uomo e il mondo sensibile. Sono due secondo Jung, in particolare, gli elementi in grado di mediare tra la coscienza e l’inconscio, rispecchiando inoltre una distinzione fondamentale alla base della natura dell’uomo e della donna, e cioè i concetti di Anima e Animus. Allo scopo di raggiungere l’equilibrio del Sé occorre stabilire una cooperazione fra i tratti femminili e maschili che convivono in esso: nel corso dell’esistenza, il Sé maschile coltiverà quindi un’immagine del femminino, rappresentata dall’archetipo dell’Anima, mentre il Sé femminile farà altrettanto sviluppando un’immagine del maschile incarnata dall’archetipo dell’Animus. Solo in questa maniera è possibile che le qualità più specificamente femminili, come sensibilità, intuitività, empatia non vengano espunte dal carattere maschile e, viceversa, che il carattere femminile possa far ricorso alle caratteri62 Sulla capacità dell’industria della cultura di identificare strutture universali e renderle in termini coerenti con quelle impostazioni particolari che ogni epoca riconosce come sue e che trascendono in buona parte il concetto di «gusto». cfr. E. Morin, Lo spirito del tempo, cit. 63 Carl gustav Jung, Opere. 6: Tipi psicologici, Torino, Bollati Boringhieri, 1969.


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stiche più propriamente maschili del coraggio, dell’attitudine al comando, della forza fisica, dell’assertività. In particolare, il termine Anima definisce l’atteggiamento interiore, le modalità con cui un individuo gestisce il proprio rapporto con i processi psichici interni, con le emozioni, la disposizione con la quale si volge verso l’inconscio, esprime la relazione che il soggetto ha con «quei vaghi e oscuri moti, sentimenti, pensieri e sensazioni che non possiamo dimostrare provenienti dalla continuità».64 Jung, in effetti, pone un’attenzione maggiore alla definizione dei caratteri sia dell’Anima che dell’Animus, e afferma, «l’Anima può essere definita come l’immagine o l’archetipo o la sedimentazione di tutte le esperienze dell’uomo con la donna»,65 che, data la natura bipolare, dell’Anima, si dipanano lungo un asse che va dal positivo al negativo: «l’Anima è bipolare può quindi apparire ora positiva ora negativa, ora giovane ora vecchia, ora madre ora fanciulla, ora fata ora strega, ora santa ora prostituta».66 L’archetipo dell’Anima, come tutte le forme archetipiche, non è soltanto una forma universale atemporale, ma si incarna nelle concrete figure e nei modelli di donna che attraversano i secoli. osservando i cambiamenti nel modo di rappresentare il femminile e quindi l’Anima, è possibile ripercorrere le trasformazioni e i rivolgimenti della storia sociale del mondo. Se «agli uomini dell’antichità l’Anima appariva come una dea o una maga, mentre l’uomo del Medioevo alla dea sostituì la Regina del Cielo e la Madre Chiesa»,67 Michel Maffesoli fa rilevare come il femminile sia stato progressivamente depurato dai tratti meno «luminosi» e, per molti versi, costretto entro le vesti virginali della Madre di Dio che, abdicando alla parte «negativa», perde la forza e il dinamismo in cambio di un’immobile, unilaterale santità.68 Tuttavia, nella loro formulazione originaria, non direttamente rivolta allo studio delle metamorfosi di miti e simboli nel tempo e nello spazio, aspetto su cui si incentreranno gli analisi antropologiche sull’immagiIvi, p. 419. Carl gustav Jung, Opere. 13: Studi sull’alchimia, Torino, Bollati Boringhieri, 1988, p. 49. Carl gustav Jung, Opere. 9.1: Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Torino, Bollati Boringhieri, 1980, p. 193. 67 Ivi, p. 28. 68 Michel Maffesoli, La parte del diavolo. Elementi di sovversione postmoderna, Roma, Luca Sossella Editore, 2003. 64 65 66


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nario, i concetti di Animus e Anima sono anzitutto funzionali alla formazione ideale di una coppia divina, una struttura di relazioni tale da garantire l’influenza reciproca dei due elementi nell’ambito del processo di individuazione.69 In numerose narrazioni in cui l’elemento centrale è costituito da un viaggio compiuto da un eroe o da un’eroina, metafora del viaggio interiore compiuto dal Sé, nella produzione letteraria come in quella audiovisiva o paraletteraria Anima e Animus si scontrano e si incontrano fino a una risoluzione finale della trama narrativa che, a seconda del genere e del registro utilizzato dall’autore, può dare luogo a una felice unione degli opposti o a un definitivo abbandono, in cerca di altre ricomposizioni. Un esempio cinematografico illuminante70 di questa dinamica è il film All’inseguimento della pietra verde:71 alla ricerca della sorella scomparsa e di una favolosa pietra preziosa, una scrittrice di successo, Joan (Kathleen Turner), vive in prima persona avventure di cui ha finora solamente scritto, in compagnia di un avventuriero spericolato di nome Jack (Michael Douglas). Le interazioni tra le due soggettività si rivelano con maggiore evidenza a mano a mano che il carattere insicuro e fragile di Joan riscopre dentro di sé caratteristiche sopite di indipendenza, libertà, impulsività e forza che vengono alla luce grazie all’incontroscontro con Jack. Quest’ultimo, a sua volta, nell’innamorarsi di Joan riesce a mettere in secondo piano l’egoismo, l’insensibilità e il cinismo del suo carattere per scoprire e magnificare la sua affidabilità, la sua generosità, la sua attenzione nei confronti della donna. Il parallelo viaggio interiore dei due protagonisti non è riconducibile esclusivamente alla conquista dell’oggetto del desiderio, a un forzoso e temporaneo adattamento delle reciproche specificità allo scopo l’una di ritrovare la sorella e la pietra, e l’altro di ottenere il suo compenso o una conquista sentimentale. Si tratta, piuttosto, della capacità della riscoperta di caratteri di cui si avverte la necessità, fino al punto da avviare processi di integrazione, utili al completamento del proprio Sé. Carl gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, Milano, TEA, 1991. Riportato in William Indick, Psicoanalisi per il cinema. Meccanismi e patologie dell’inconscio per costruire storie e personaggi universali, Roma, Dino Audino, 2005. 71 Romancing the Stone, di Robert Zemekis, 106’, USA 1984. 69 70


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Un altro esempio efficace dell’incontro di Anima e Animus si può individuare nel film Lezioni di piano di Jane Campion (1993), in cui la musica è al centro del rapporto di scoperta del Sé e dell’Altro che coinvolge Ada (holly hunter), moglie muta del colono Alisdair (Sam Neill), e il rude maori george Baines (harvey Keitel). Ambientato nella Nuova Zelanda del xIx secolo, il film racconta l’incontro di due universi opposti che, attraverso la passione e il desiderio, raggiungeranno insieme una maggiore consapevolezza di sé, prendendo coscienza delle proprie debolezze e fragiliScena tratta dal film Lezioni di piano (1993). © tà. Altri titoli esemplificativi sono Australian Film Commission, CiBy 2000, New sicuramente i remake della fiaba La South Wales Film & Television office. bella e la bestia, in cui l’amore riesce ad andare oltre le apparenze, o il musical My Fair Lady di Alan Jay Lerner (1956), nel quale la relazione tra i due protagonisti richiama il mito di Pigmalione, o la commedia Tootsie di Sydney Pollack (1982) in cui il travestimento forzato dell’attore Michael (Dustin hoffman) che veste i panni della donna di mezza età Dorothy lo porta a entrare in stretto contatto con la sua parte femminile trasformandolo in un uomo più completo. Animus e Anima rappresentano le reciproche proiezioni del Sé nell’uomo e nella donna, ma gli archetipi del maschile e del femminile contengono aspetti differenti, lati di luce e di ombra in cui si articolano le due polarità. Per analizzare queste peculiarità, possiamo partire da una rappresentazione schematica (Figure 2 e 3) che ripartisce in quattro differenti modalità i principali archetipi del maschile e del femminile. Come appare con evidenza in una rappresentazione necessariamente parziale della varietà con cui le figure archetipiche legate all’universo del femminile e del maschile possono manifestarsi nel mito, nella letteratu-


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Schema 2 – Archetipi del femminile. Rielaborazione da Erich Neumann, La Grande Madre.

ra e nei prodotti audiovisivi la raffigurazione dei due poli fondamentali si amplia e si complessifica, a partire dai concetti di Anima e Animus.72 Il femminile si struttura, secondo la teorizzazione di Erich Neumann,73 lungo due coppie di assi ortogonali. La doppia coppia rappresentata dalla linea continua orizzontale ha un versante femminile «positivo» e un versante femminile «negativo». Il versante positivo accoglie gli aspetti del femminile come generatore di vita: sul lato sinistro troviamo la Dea, intesa come madre divina, madre terra, risveglio del sentimento materno (incarnato nelle protagoniste di film come La ciociara74 o Gloria una notte d’estate),75 e sul lato destro l’Anima, simbolo dei misteri dell’ispirazione, legati a figure virginali che 72 I riferimenti che seguono agli schemi archetipici del maschile e del femminile sono oggetto di un’analisi più approfondita nei Capitoli III e IV. 73 E. Neumann, op. cit. 74 La ciociara, di Vittorio De Sica, 100’, Italia 1960. 75 Gloria, di John Cassavetes, 123’, USA 1980. Vedi anche il remake omonimo di Sidney Lumet del 1999.


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appaiono sensibili, affettive, intuitive, in grado di fungere da muse ispiratrici per l’eroe – dalla giovane dottoressa Constance Peterson in Io ti salverò76 alla protagonista di La ragazza con l’orecchino di perla).77 Nel versante negativo, nel secondo semicerchio orizzontale, quello inferiore, si collocano le figure femminili contaminate dal loro lato d’ombra: a sinistra, il carattere della Strega, legato alla seduzione e al pericolo, che si sostanzia nelScena tratta dal film La ciociara (1960). © Titanus. le molte figure di femmes fatales (da Circe alla protagonista di Attrazione fatale);78 a destra, nel quadrante dedicato alla Matrigna (da Medea a Joan Crawford così come ritratta in Mammina cara),79 quello castrante della madre cattiva. Le due coppie individuate, invece, dagli assi tratteggiati rappresentano le contrapposizioni ideali tra queste figure, secondo quelli che possono essere considerati i caratteri fondamentali del femminile: alla Madre Buona (Dea) si contrappone così la Madre Terribile (Matrigna), al carattere trasformatore80 positivo (Anima) quello negativo corruttore (Strega). Anche per il versante maschile, partendo da alcuni archetipi junghiani è possibile costruire uno schema quadripartito, che si dipana attorno al viaggio interiore che il Sé è chiamato a compiere.

Girl with a Pearl Earring, di Peter Webber, 100’, gB/Lussemburgo 2003. Mommie Dearest, di Frank Perry, 129’, USA 1981. 78 Spellbound, di Alfred hitchcock, 111’, USA 1945. 79 Fatal Attraction, di Adrian Lyne, 119’, USA 1987. 80 Cioè maggiormente in grado di spingere il figlio, o l’eroe della storia, verso un’azione trasformativa di tipo positivo o negativo, per esempio aiutandolo o distraendolo dalla sua impresa. 76 77


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Schema 3 – Archetipi del maschile. Rielaborazione da William Indick, Psicoanalisi per il cinema.

In questo caso appare più difficile assegnare alle quattro coppie di archetipi individuati dai due assi ortogonali orizzontale e verticale una divisione tra un versante «positivo» ed uno «negativo». Più interessante è, invece, concentrarsi sulle due contrapposizioni espresse dalla coppia di assi rappresentata dalle linee tratteggiate, che costituiscono gli elementi fondamentali di ogni narrazione.81 Il primo abbinamento coinvolge l’Eroe, la figura che incarna il Sé e al tempo stesso la Persona, maschera del Sé che viene mostrata al mondo, e l’ombra, alter ego dell’eroe, suo doppio (come in Lo strano caso del dottor Jekill e di signor Hyde,82 o nel film Psycho)83 o proiezione del suo conflitto interiore (che troviamo nei personaggi di Batman o di Robin hood). Il confronto/scontro tra Eroe e ombra è di fatto il motore narrativo di tutte le storie, e il topos che rende 81 Come sottolinea Campbell, le schematizzazioni relative ai processi narrativi ruotano principalmente attorno alla figura dell’eroe di sesso maschile. Cfr. Joseph Campbell, Il potere del mito, Parma, guanda, 1990. 82 Robert Louis Stevenson, The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, 1886. 83 Psycho, di Alfred hitchcock, 109’, USA 1960.


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possibile il completamento dell’avventura ma anche del processo di individuazione che si compie nell’interiorità: nella fase del climax, lo scontro tra Eroe e Antagonista risolve il conflitto finale e, in alcuni casi, induce il protagonista a mettere da parte i tratti più miti del suo carattere per integrare nella sua personalità l’aggressività e la violenza necessari ad affrontare e sconfiggere il nemico (come accade per esempio nel conflitto tra Sam Bowden e Max Cady in Cape Fear).84 La seconda contrapposizione in cui si articola l’archetipo del maschile ha come protagonisti il Senex, rappresentazione del maschile «adulto» che aiuta il Sé/Eroe a realizzare il proprio percorso di individuazione, fornendogli aiuto, consiglio, saggezza (si tratta di figure come il padre, il profeta, il mago, il guaritore, per estensione il mentore, che nel cinema moderno prende la forma dell’insegnante, del medico, dell’allenatore) e il Puer, incarnazione del fanciullo vivace, curioso e brillante, ma egocentrico, incapace di fare i conti con la realtà, per molti versi «senza cuore» (come J.M. Barrie definì il suo Peter Pan).85 Figure ancillari nello svolgimento della storia, Puer e Senex rappresentano tuttavia una possibile estensione del carattere trasformativo già incontrato nel femminile, in quanto simboli per eccellenza dell’irrequietezza della gioventù, del mutamento obbligato anche nella direzione dell’autodistruzione, da un lato, e della sedimentazione di tratti del maschile quali il cinismo e l’immobilismo, dall’altro. Polarità opposte dell’archetipo del maschile, che rimandano alla tensione tra vitalità e ordine, le figure di Puer e Senex86 rappresentano un continuum che termina con il disvelamento del carattere nella vecchiaia87 e che rappresenta l’avventura del compimento del Sé. II.3.1 Viaggi di eroi e di antieroi «L’eroe è il simbolo di quell’immagine divina e redentrice che è nascosta dentro ognuno di noi e che aspetta solo di essere trovata e riportata in 84 Cape Fear, di J. Lee Thompson, 105’, USA 1962. Il conflitto tra i due personaggi, interpretati originariamente da gregory Peck e Robert Mitchum, è stato riproposto sul grande schermo da Nick Nolte e Robert DeNiro nell’omonimo remake di Martin Scorsese del 1991. 85 Cfr. James M. Barrie, Peter Pan, or The Boy Who Wouldn’t Grow Up, 1904. 86 Cfr. James hillman, Puer aeternus, Milano, Adelphi, 1999. 87 Cfr. James hillman, La forza del carattere. La vita che dura, Milano, Adelphi, 2000.


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vita»,88 quindi, quando gli aspetti dell’ombra, del Puer e del Senex si uniscono coerentemente in un unico individuo che riesce a dominare la propria parte oscura, fare tesoro dell’esperienza senza tuttavia perdere l’energia vitale che porta al rinnovamento, siamo in presenza di un Eroe. L’eroe rappresenta per Jung il Sé, ovvero l’unità e la totalità della personalità, che comprende la parte conscia e quella inconscia. La realizzazione del Sé costituisce la meta ideale della terapia junghiana, che segue il difficile cammino del paziente verso Faust (1650), Rembrandt. la propria individuazione: «Rappresentando una complexio oppositorum, una sintesi degli opposti, esso può apparire anche come diade unificata, quale è per esempio il Tao, fusione della forza yang e della forza yin, come coppia di fratelli oppure sotto l’aspetto dell’eroe e del suo antagonista (drago, fratello nemico, nemico mortale, Mefistofele per Faust). Ciò vuol dire che nel concreto il Sé appare con un’alternanza di luce e di ombra, anche se concettualmente esso è inteso come un tutto organico e quindi come un’unità nella quale gli opposti trovano la loro sintesi».89 Nella descrizione fornita da Freud, l’eroe corrisponde al substrato cosciente e consapevole della psiche, in conflitto tra le tentazioni dell’Es, che portate alla superficie della narrazione possono assumere le fattezze suadenti di un’ammaliante tentatrice o la ruvida brutalità di un acerrimo nemico, e gli ammonimenti del Super Io, il censore della coscienza, esem88 89

Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Parma, guanda, 1958, p. 15. C.g. Jung, Opere. 6: Tipi psicologici, cit., pp. 467-68.


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plificato dal personaggio del grillo parlante, che, poggiato sulla spalla di Pinocchio, gli suggerisce norme e regole conformi all’integrazione nella società. Il Super Io rappresenta il bisogno di controllare gli impulsi inconsci attraverso l’assunzione di comportamenti adeguati. È la rappresentazione inconscia delle convenzioni morali e sociali che l’individuo interiorizza a partire da personalità autoritarie di riferimento, in genere figure paterne che offrono un modello comportamentale. Queste figure archetipiche, Illustrazione The Hill: Hobbiton across the water tratta dal che spesso vestono i panni libro Il Signore degli Anelli. © J.R.R. Tolkien. del vecchio saggio (Senex), sostengono l’eroe, gli indicano la retta via, gli forniscono la forza psicologica, gli strumenti e l’esperienza per affrontare le prove di cui è costellato il suo cammino. ogni eroe che si rispetti è infatti il protagonista di un viaggio, di un’avventura, che equivale alla presa di coscienza della ineluttabilità del proprio destino, al distacco dall’infanzia, luogo delle infinite possibilità e della spensieratezza incosciente del Puer aeternus, del volo leggero di Peter Pan. Percorrendo questa strada si entra nel mondo degli adulti, costellato di responsabilità, di scelte, di tappe da percorrere, di alternative da abbandonare, per raggiungere la meta prefissata. La parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe costituisce una metafora dei riti di passaggio che ogni individuo deve compiere nel proprio percorso di formazione per raggiungere la completezza del proprio essere e la piena integrazione nel proprio universo sociale.


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Il viaggio dell’eroe è fondamentalmente interiore, un viaggio verso profondità in cui oscure resistenze vengono vinte e resuscitano poteri a lungo dimenticati per essere messi a disposizione della trasfigurazione del mondo […] il periglioso viaggio non ha per scopo la conquista, ma la riconquista, non la scoperta ma la riscoperta.90

In quanto prerogativa di ogni essere umano, un percorso speculare al viaggio dell’eroe91 si compie all’interno del proprio animo, terreno di cruente battaglie e sanguinosi scontri in cui l’identità viene riportata in superficie come la luce di un tesoro sul fondo del mare di cui resta solo il ricordo: la persona, infatti, non è altro che la maschera che l’eroe indossa per interpretare sé stesso nella convivenza con l’altro, l’esito ultimo di un processo che l’ha portato a superare numerose prove prima di ricongiungersi con l’oggetto del desiderio: la donna amata, un cimelio smarrito o la propria natura più profonda. ogni viaggio si articola in tre fasi principali: la separazione o partenza; le prove e vittorie dell’iniziazione; il ritorno e reinserimento nella società. All’inizio del suo percorso l’eroe o l’eroina sono inseriti nella loro quotidianità. La routine ordinaria del mondo descritto costituisce uno scenario rassicurante, che si prepara a essere sconvolto. L’eroe viene chiamato a scuotersi da questo stato di calma apparente e scaraventato in un nuovo mondo, estraneo, spesso ostile, sconosciuto, a cui non può sottrarsi perché in ogni caso non gli sarà più possibile tornare a casa senza prima aver percorso il suo cammino. Da quel momento niente sarà più come prima. Un esempio efficace e immediato è quello della saga di Tolkien, Il signore degli anelli,92 uno dei casi più spesso citati nella descrizione delle fasi di crescita e sviluppo dell’arco narrativo dei personaggi.93 In questo caso il riferimento è alla Contea di hobbiville, come esempio del mondo ordinario di Frodo e dei suoi compagni hobJ. Campbell, L'eroe dai mille volti, cit., pag. 15. Cfr. J. Vogler, op. cit. Sul tema delle strutture narrative e del viaggio dell’eroe cfr. Vladimir Propp, Morfologia della fiaba. Le radici storiche dei racconti di magia, Roma, Newton & Compton, 1976. 92 John R.R. Tolkien, The Lord of the Rings, edito in tre volumi fra il 1954 e il 1955. Trasposto in tempi recenti dal regista Peter Jackson in altrettanti film. 93 Luigi Forlai – Augusto Bruni, Archetipi mitici e generi cinematografici, Roma, Dino Audino, 1998. 90 91


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bit. La Contea, infatti, è un luogo idilliaco, in cui gli abitanti, legati da rapporti intimi basati sulla conoscenza diretta, così come avviene all’interno di una comunità, trascorrono una vita tranquilla, al riparo da minacce e pericoli. Quando l’anello arriva nelle mani di Frodo tutto cambia: il Male ha raggiunto non solo il giovane hobbit, ma minaccia la Contea stessa. Questo pericolo diffuso, che rompe gli equilibri precedenti, costringe l’eroe all’azione, per il suo bene ma anche per quello della comunità a cui appartiene. Una volta accettata la sfida e definita la posta in gioco, l’eroe si prepara ad affrontare le prove e i nemici che incontrerà lungo il cammino, in un climax di difficoltà e dispendio di tutte le energie in suo possesso, fino alla sfida finale. Nel suo viaggio, l’eroe incontrerà alleati preziosi che lo metteranno nelle condizioni di acquisire competenze e facoltà di cui lui stesso non è consapevole, o gli offriranno strumenti e oggetti magici. Allo stesso modo, nella saga di Guerre stellari, Luke Skywalker è destinato a uccidere Lord Fener,94 ma per farlo dovrà avvalersi dell’aiuto del saggio obi Wan Kenobi che lo addestrerà nell’uso della spada laser e gli mostrerà, sacrificando la sua stessa vita, che spesso per il bene della collettività è necessario pagare un prezzo molto alto. Il principio comunitario è quello che guida molti supereroi nelle loro imprese quotidiane, in una prospettiva di responsabilizzazione del potere (come nel caso dell’Uomo Ragno, «da grandi poteri derivano grandi responsabilità») che transita necessariamente attraverso la messa in discussione di logiche individualistiche. Alla fine del suo viaggio l’eroe è pronto ad affrontare la prova suprema, sconfiggere il drago, il nemico, il Male e tornare nella società con una nuova consapevolezza. In questa fase l’eroe «muore e rinasce», la sua trasformazione è compiuta e come Neo (Keanu Reeves), il protagonista del film Matrix,95 è in grado di fermare la pallottole e uccidere l’agente Smith (hugo Weaving). La presa di coscienza di essere stato scelto come l’«Eletto» gli permette di usare quella forza che era già 94 In originale, Darth Vader. Il film è Guerre stellari – Il ritorno dello Jedi (Return of the Jedi— Star Wars: Episode VI), di george Lucas, 134’, USA 1983 95 Matrix (The Matrix), di Larry Wachowski e Andy Wachowski, 136’, USA/Australia 1999.


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contenuta in potenza dentro di lui ma che aveva bisogno di una motivazione forte per potersi manifestare. Dopo la «resurrezione», dunque, l’eroe subisce un cambiamento, una trasformazione esistenziale, prendendo possesso dell’oggetto del suo desiderio e raggiungendo lo scopo della sua ricerca. Rispetto a questa tipizzazione generale96 esistono poi almeno due principali forme di racconto: la narrazione lineare tradizionale, caratteristica della mitologia, che assolve la funzione di proiettare nella parte inconscia dello spettatore/lettore la metamorfosi dell’eroe; e la narrazio- Locandina del film Chocolat (2000). © Miramax. ne lineare a specchio, in cui, mantenendo fisso il coinvolgimento emotivo, a mutare specularmente è il punto di vista da cui l’inconscio percepisce il processo di cambiamento. Un tipico eroe delle narrazioni a specchio che, generalmente, coinvolgono un’intera comunità è il nomade, colui che sin dalle prime battute si inserisce in un contesto estraneo con lo scopo di sconvolgerne gli equilibri e riformularne i valori etici, per poi scomparire una volta condotto a termine il suo compito. Il nomade è portatore di un sistema etico fisso e inamovibile: da un lato è rappresentato come ambiguo, dissimulatore e sfuggente, dall’altro invece vengono sottolineati come tratti salienti del suo carattere una perfezione e una coerenza interna che non necessitano di alcun cambiamento. Uno degli gli «eroi» nomadi più noti è il biblico Caino, condannato a vagare per le strade del mondo dopo l’uccisione di Abele, così come sono eroi erranti gilgameš, Ulisse e giasone. Nell’ambito dell’industria culturale, sono presenti numerosi tipi di eroi, che ricorrono in altrettanti macrogeneri narrativi e incarnano i principi 96

Cfr. L. Forlai – A. Bruni, op. cit.


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funzionali con cui l’essere umano si relaziona con il mondo circostante. Tra queste, è interessante segnalare i quattro tipi citati da Forlai e Bruni: il Re per il genere fantastico/fantasy, principio di ordine, creazione e organizzazione del caos primordiale; il Guerriero per l’azione/western, prinScena tratta dal film Il Padrino (1972). © Paramount Pictures. cipio di salvaguardia dell’ordine e canalizzazione degli istinti; il Mago nelle detective story, principio di controllo e governo sensoriale dell’ordine, discriminatore dell’apparenza dal vero, ispirazione e creazione artistica, abilità tecnica, percezione relazionale; infine, l’Amante nelle narrazioni romanti- co/sentimentali, principio creativo-riproduttivo, comunione e comunicazione sensoriale col mondo.97 Il Re rappresenta l’equilibrio, la sicurezza, la fierezza e si muove all’interno di tre principali percorsi narrativi: la nascita e la conquista del trono; la ricerca del regno; la perversione del re, ovvero la trasfigurazione del sovrano in tiranno. Nella prima tipologia di racconto il Re viene rappresentato spesso nella sua lotta per la riconquista del trono, usurpatogli ingiustamente da personaggi di solito indegni di ricoprire quella carica. Il Re legittimo, infatti, a differenza dei suoi usurpatori non si lascia accecare dal potere e dal denaro, agisce per il bene della collettività, fino al sacrificio della propria vita. Numerosi gli esempi, dal mito originario di Saturno spodestato dal figlio giove al Riccardo Cuor di Leone di Robin Hood,98 sostituito nella rappresentazione disneyana da un pavido Principe giovanni disegnato come un leone senza criniera, all’ Aragorn del Signore degli anelli, fino al già citato Neo di Matrix, fino allo shakespeariano Re Lear. 97 98

Ivi. Robin Hood, di Wolfgang Reitherman, 83’, USA 1973.


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Se il più celebre esempio di viaggio verso la riconquista del proprio regno è quello di Ulisse, incapace di raggiungere Itaca per un maleficio degli dèi, nelle accezioni più moderne si fa riferimento a quest’archetipo anche per indicare le lotte intestine per l’eredità tra membri di una famiglia o tra gli affiliati di gruppi societari, come nel caso del film Philadelphia,99 in cui il giovane avvocato Andy (Tom hanks), licenziato ingiustamente perché malato di AIDS, compie un viaggio giudiziario per riconquistare il proprio privilegio e riavere ciò che gli spetta di diritto. Nel momento in cui pecca di superbia, l’Eroe/Re si trasforma in un tiranno, sedotto dal suo lato d’ombra che lo rende temibile e potente. Le figure storiche di capi divenuti tiranni e dittatori, tra cui si possono citare Salomone, Caligola e Riccardo III, vengono trasposte nell’industria culturale dando vita a personaggi come l’ex cavaliere Jedi Anakin Skywalker, che si trasforma nel signore oscuro Dart Fener, e Michael Corleone in Il padrino: parte II,100 sul quale mi soffermo al Capitolo IV. Il guerriero rappresenta il principio funzionale della salvaguardia dell’ordine, le sue caratteristiche sono il coraggio e la forza con le quali difende la comunità dalle minacce provenienti dell’esterno. Le sue prerogative sono la risolutezza sugli obiettivi da perseguire e la totale determinazione nella loro realizzazione. Tra i tanti esempi possibili, i personaggi interpretati da John Wayne e Clint Eastwood nelle pellicole di genere western. Bisogna specificare, tuttavia, che il guerriero, pur combattendo per la tutela dell’ordine sociale è spesso un emarginato, un solitario che non ambisce a ricoprire ruoli di prestigio o di riconoscimento, e svolge il suo compito per poi allontanarsi di nuovo a difesa dei confini. Il mago, malgrado il suo esplicito richiamo al fantasy, è un tipo di eroe che compare solitamente all’interno di storie di detection. Il suo è un ruolo di tutela e salvaguardia, ma a differenza del guerriero le sue armi non sono la forza e la prestanza fisica, bensì l’arguzia, l’intelligenza, l’ipersensibilità, fino al ricorso a elaborate strumentazioni, come nel caso di alcuni personaggi delle serie NCIS,101 o Criminal Minds.102 Philadelphia, di Jonathan Demme, 117’, USA 1993. The Godfather: Part II, di Francis Ford Coppola, 200’, USA 1974. 101 NCIS, di Donald P. Bellisario, Don Mcgill, 2003. 102 Criminal Minds, di Jeff Davis, 2005. 99

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Chiamata all’avventura

Separazione dal femminile

Rifiuto della chiamata Aiuto soprannaturale Attraversamento della prima soglia Il ventre della balena Il percorso delle prove

Identificazione con il maschile Il percorso delle prove L’illusorio dono del successo Le donne forti sanno dire «No»

L’incontro con la Dea

Iniziazione e incontro con la Dea

La donna come tentatrice Riconciliazione con il padre

Urgenza di riconnettersi con il femminile guarigione della ferita di separazione Madre/Figlia

Apoteosi

Trovare l’uomo interiore con sentimento

La ricompensa finale Rifiuto del ritorno Il volo magico Il salvataggio dall’esterno Attraversamento della soglia del ritorno Maestro dei due mondi

oltre la dualità

Libertà di vivere Tabella 1 – Il viaggio dell’eroe e dell’eroina a confronto. Rielaborazione da Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti e Maureen Murdock, The Heroine’s Journey


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Si pensi a tutti gli investigatori privati del genere giallo dal sofisticato Poirot di Agatha Christie, al geniale Maigret di Simenon, fino ad arrivare a un particolare tipo di investigatore, che attraverso brillanti deduzioni scova il male prima che uccida la vittima: il medico protagonista di Dr. House.103 L’amante è il protagonista delle storie romantiche, sia nell’accezione drammatica che in quella più leggera della commedia sentimentale, più o meno sofisticata. Le sue caratteristiche sono l’energia vitale legata a uno spirito artistico e ribelle, l’amore per la vita e la ricerca Immagine tratta da Dr. House - Medical Division del piacere da perseguire a ogni co- (2004). © NBC. sto. gli esempi più classici sono i donnaioli Casanova e Don giovanni, personalità istrioniche dal fascino leggendario, ma anche i più tragici Cyrano de Bergerac e con lo shakespeariano Romeo. È impossibile enumerare le moltissime pellicole cinematografiche che dal cinema delle origini hanno avuto come protagonista l’amante, tuttavia nella cinematografia più recente, l’eroe assume due ruoli principali: da una parte il glaciale uomo d’affari, senza scrupoli e sentimenti che scopre il suo lato romantico al cospetto di un’insospettabile «ragazza giusta», come nel celebre Pretty Woman,104 o il single impenitente che colleziona avventure prima dell’inevitabile presa di coscienza; per citare qualche esempio: il sarcastico Billy Crystal in Harry ti presento Sally,105 il dandy Jude Law in Alfie106 e gli italiani protagonisti di L’ultimo bacio107. Nei suoi aspetti perversi l’amante può comparire come maniaco omicida nel genere thrilDr. House – Medical Division, di David Shore, 2004. Pretty Woman, di garry Marshall, 115’, USA 1990. When Harry met Sally..., regia di Rob Reiner, 1989. 106 Il riferimento è ad Alfie, regia di Charles Shyer, 103’, gB/USA 2004, che costituisce il remake della pellicola del 1966 di Lewis gilbert che aveva come protagonista Michael Caine. 107 L’ultimo bacio, regia di gabriele Muccino, 115’, Italia 2001. 103 104 105


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ler, di norma ossessionato da una vittima femminile verso cui prova un interesse morboso. Uno dei film più rappresentativi a tale proposito è Il collezionista di gary Fleder (1997), con Morgan Freeman e Ashley Judd, in cui un serial killer, che si firma Casanova, rapisce e uccide giovani donne di talento per soddisfare il suo bisogno spasmodico di bellezza e amore. Una lettura interessante delle variabili in grado di influenzare l’andamento del meccanismo narrativo di una storia proviene dall’innovativo tentativo di Maureen Murdock di immaginare un viaggio dell’eroe «al femminile».108 Che il ruolo sociale di un maschio sia profondamente diverso da quello riservato a una femmina emerge anzitutto da studi comparati delle religioni e dei miti, che costituiscono il campo d’azione di studiosi come Joseph Campbell. Nel constatare che l’eroe è un’entità dai mille volti, Campbell non può esimersi dal sottolineare come il viaggio dell’eroe, al centro dei miti più conosciuti, sia un viaggio al maschile: le condizioni di vita rendono più appariscente il ruolo dell’uomo, che realizza la propria identità nel mondo esterno, mentre il lato eroico della donna si estrinseca nella funzione di dare la vita e accudire la prole, che è troppo lontana dall’archetipo dell’avventuriero per interpretare una chanson de geste. Non solo: i riti di iniziazione delle società primitive sono infinitamente più «eroici» per un maschio, che viene strappato alla famiglia e sottoposto a una serie di prove per entrare nell’età adulta. Il film 300109 si apre con il racconto del capitano della guardia del re, che narra di come Leonida abbia superato queste prove: All’età di sette anni, secondo le usanze di Sparta, il ragazzo fu strappato dalle braccia della madre e scaraventato in un mondo di violenza […] Costantemente messo alla prova, gettato nella foresta, lasciato a misurare ingegno e volontà contro la furia della natura.

La sua possibilità di ritornare a Sparta, da re, è subordinata alla capacità di sfidare e sconfiggere i pericoli insiti nella foresta, di scontrarsi con un lupo gigante, «artigli di acciaio nero, pelo scuro come notte, occhi rossi di fuoco». Questo tipo di racconto può essere tramandato e generare miti e 108 109

Maureen Murdock, The Heroine’s Journey, Boston, Shambhala Publications, 1990. 300 Spartans, di Zack Snyder, 117’, USA 2006.


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leggende, in misura molto maggiore dell’evento che segna il passaggio di una donna all’età adulta: all’arrivo delle mestruazioni, la giovane donna deve rimanere per un certo periodo in isolamento, per comprendere il suo nuovo status di potenziale madre. Paradossalmente, il fatto che il passaggio dalla vita di fanciulla a quella di donna sia segnato da un dato biologico, la porta a essere esclusa dai più importanti meccanismi sociali di attestazione di tale passaggio all’età adulta.110 Lo sforzo di Murdock, allora, è di immaginare un viaggio le cui tappe solo in parte si sovrappongano a quelle delineate da Campbell, concentrandosi più che sulle funzioni mitopoietiche del viaggio dell’eroe sul carattere intimista del viaggio dell’eroina. Willam Indick,111 dopo aver passato in rassegna le celebri «fasi» del viaggio dell’eroe sulla scia delle riflessioni di Campbell e Vogler, esemplificati dalle gesta di Massimo/Russell Crowe in Il gladiatore112 e di William Wallace/Mel gibson in Braveheart – Cuore impavido,113 elabora una corrispondente traccia del viaggio dell’eroina, modellato sulla storia di Erin/Julia Roberts in Erin Brockovich – Forte come la verità.114 Non sono tanto il minor numero di «stadi» dell’avventura quanto la differente natura delle prove, da un lato, e gli «spazi bianchi» messi in evidenza da un confronto tra i due percorsi, dall’altro, a permettere di leggere lo scostamento tra i due schemi. La «chiamata all’avventura» per l’eroe si manifesta attraverso la richiesta da parte di una figura autoritaria di intraprendere un viaggio o una lotta, separandosi dal «mondo del vivere quotidiano», che non necessariamente è la sua casa o la sua patria: Ulisse è chiamato a lasciare Itaca per unirsi alla guerra di Agamennone contro Troia, Massimo riceve da Marco Aurelio il compito di democratizzare l’impero romano quando la logorante guerra in cui entrambi sono impegnati sarà finita. L’eroina compie il primo passo verso l’avventura senza un esplicito richiamo dall’esterno, rifiu110 Sul viaggio dell’eroe, trattato più approfonditamente altrove in questo volume, i riferimenti essenziali sono J. Campbell, L’eroe dai mille volti, cit., ma anche Id., Il potere del mito, cit., e C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, cit. 111 W. Indick, Psicoanalisi per il cinema, cit. 112 Gladiator, di Ridley Scott, 164’, USA 2000. 113 Braveheart, di Mel gibson, 179’, USA 1995. 114 Erin Brockovich, di Steven Soderbergh, 130’, USA 2000.


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tando i tradizionali ruoli femminili che la società le impone, senza che in questo intervenga alcuna autorità né tantomeno un aiuto soprannaturale. L’eroe compie il suo «attraversamento della prima soglia» superando il guardiano che gli sbarra la strada verso l’avventura, si tratti di «vedere quant’è profonda la tana del Bianconiglio» (il che vale tanto per Alice che segue «materialmente» un coniglio bianco per accedere al Paese delle Meraviglie quanto per Neo che accetta di ingoiare la «pillola rossa» che gli permetterà di vedere il mondo così com’è e non come lo proietta Matrix) o di scendere per la prima volta sul campo di battaglia alla guida delle truppe scozzesi, come per William Wallace. La «prima soglia» dell’eroina, invece, è un passaggio meno definito, che in buona parte coincide con lo stesso richiamo all’avventura. I due percorsi segnano un altro punto di contatto nella fase di profonda trasformazione che l’eroe, sotto la guida di un mentore, compie nel «ventre della balena», che corrisponde alla prima esperienza sul campo di battaglia per Wallace e nel Colosseo per Massimo. Il corrispettivo nel viaggio dell’eroina viene individuato da Murdock nell’identificazione di una figura maschile con forti tratti mentorici, che la guida verso il raggiungimento del suo obiettivo non-femminile, come il vecchio avvocato Ed (Albert Finney) conduce Erin verso la vittoria nel campo delle battaglie legali. «Il percorso delle prove» è naturalmente il momento di maggior impegno della trama sia nel viaggio dell’eroe che in quello dell’eroina. Ma mentre nel primo caso «l’incontro con la Dea» è immediatamente consequenziale, e il ricordo delle rispettive mogli rende completi e più forte i protagonisti maschili delle storie, la protagonista femminile, prima di ottenere il contatto con l’archetipo della Dea, deve «guadagnarselo». Al contrario della struttura abbastanza lineare che conduce l’eroe a comprendere la sua missione, a raccogliere gli strumenti terreni e spirituali che gli occorrono e a raggiungere il suo obiettivo, l’eroina è tentata da una «illusoria» convinzione di poter raggiungere il successo sia come uomo che come donna. È il momento in cui Erin crede di riuscire a gestire la sua carriera e il suo ruolo di madre senza perdere nulla su nessuno dei due fronti, smentita quando il suo uomo le rivela che ha perso le prime parole di suo figlio perché in quel momento si trovava al lavoro. Il ruolo eroico della donna si sostanzia a questo punto nella capacità di mettere in pratica una sorta di


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autodisciplina tesa a ripristinare l’equilibrio nella sua vita, ridimensionando le proprie ambizioni e imparando a dire «no» a chi pretende troppo da lei, sottraendole tempo ed energia. Solo dopo aver superato quest’ostacolo, l’eroina sarà «degna» di incontrare l’archetipo della Dea in una forma differente da quella in cui si trovava nel primo stadio: per Erin, la Dea si incarna nella figura di Donna (Marg helgenberger), la madre di un ragazzo che sta morendo per un avvelenamento tossico causato dalla negligenza della Pacific gas and Electric Company. Tale incontro imporrà all’eroina una «riconnessione» con il femminile a un livello molto più profondo di quello che richiede all’eroe di «riconciliarsi con il padre», ossia in ultima analisi di imparare dagli errori del suo mentore e non fallire là dove aveva fallito quegli. Allo stesso modo, il momento pù spirituale dei due viaggi avviene su terreni sensibilmente differenti. La «morte metaforica» che coglie Wallace tradito in battaglia dal suo compagno più fidato, Robert de Bruce (Angus MacFayden), e Massimo durante il suo ultimo combattimento nell’arena del Colosseo, con il più forte dei gladiatori, assalito contemporaneamente da tigri feroci, gli consente di entrare in contatto con il mondo degli dèi e di acquisire un potere tale da rinascere e sconfiggere i loro nemici. Per Erin, l’equivalente dell’apoteosi sembra consistere nel raggiungimento del definitivo equilibrio tra le funzioni di Animus e Anima, attraverso il ricongiungimento con il suo uomo, che mostra di essere in grado di integrare nel suo ruolo alcune caratteristiche tipiche del femminile. Coerentemente con lo sviluppo delle fasi che si sono susseguite, il termine del viaggio dell’eroina non solo non comprende gli elementi soprannaturali del suo «omologo», ma sembra «fermarsi» allo status di «Maestro dei due mondi»: raggiunto il successo nel mondo del lavoro e in quello degli affetti, Erin è completa, ma al suo viaggio, al contrario di quello di Wallace e di Massimo, manca la capacità di ispirare un «sub-eroe» a rimettersi in cammino, a iniziare un nuovo percorso.115 115 A conclusione di questo percorso, l’autore introduce il simbolo fondamentale del cerchio, che racchiude tutto, «la sfera concentrica delle relazioni umane e la rinascita all’interno della circolare enclave dell’utero» (W. Indick, op. cit., p. 130). Ma allo stesso tempo la rappresentazione grafica delle fasi del viaggio dell’eroina, un ovale da leggersi strettamente in senso orario, sembra indicare un percorso maggiormente «interiore» e in un certo qual modo «ristretto» rispetto al viaggio dell’eroe «canonico».


Lo spettacolo dell’immaginario

I miti, le storie, i media

® L’immaginario costituisce un oggetto scientifico interessante, ma anche estremamente complesso. La progressiva sedimentazione di storie e di personaggi, con il passare del tempo, ha dato origine, attraverso costanti processi di contaminazione, ibridazione e ri-mediazione, da un lato a uno smisurato territorio ricco e articolato, al cui interno non sempre risulta semplice orientarsi; dall’altro a una decisiva «riscoperta dell’immaginario», non più relegato a una sfera dominata dall’irrazionale, dal sogno, dalla religione o dalla follia. Anche attraverso un’analisi critica del contributo che le discipline psicologiche, antropologiche e sociologiche hanno dato alla definizione dei contenuti e delle strategie rappresentative dell’immaginario collettivo, questo volume punta a sottolineare il ruolo centrale giocato dalla comunicazione in quanto luogo di sperimentazione di pratiche e narrazioni, veicolo di rappresentazioni e costruzioni di significati e infine spazio di contrattazione tra saperi esperti e conoscenze profane, attori sociali e istituzioni, testi e contesti. Certamente non nell’ottica di giungere a una sistematizzazione radicale e definitiva, piuttosto con l’obiettivo di proporre linee interpretative indispensabili per la costruzione di una mappa del nostro immaginario contemporaneo.

Copertina: elaborazione grafica Tunué

Euro 14,90


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