Con gli occhi a mandorla

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Con gli occhi a mandorla Sguardi sul Giappone dei cartoon e dei fumetti — SECONDA EDIZIONE AGGIORNATA —

A cura di Roberta Ponticiello e Susanna Scrivo Prefazione di Luca Raffaelli

Contributi di Claudia Barrera – Giulia Basso – Ilaria Capasso Max Ciotola – Gianluca Di Fratta – Susanna Impegnoso Giacomo Leone – Andrea Molle – Marco Pellitteri Roberta Ponticiello – Cristian Posocco – Susanna Scrivo Alessandro Vegliante – Elena Vitagliano – Yupa

Lapilli. Culture 2


I edizione: febbraio 2005 II edizione aggiornata: marzo 2007 Copyright © Tunué Srl Via degli Ernici 30 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.

ISBN-13/EAN 978-88-89613-21-4 Progetto grafico e illustrazione di copertina: Daniele Inchingoli Grafica di copertina: Carlo Piscicelli © Tunué Stampa e legatura: Arti Grafiche del Liri Srl Via Napoli 85 03036 Isola del Liri (FR) Italy


Indice

XI 3

Prefazione di Luca Raffaelli Introduzione di Roberta Ponticiello – Susanna Scrivo

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I

TV Invaders. Quando gli anime arrivarono in Italia di Roberta Ponticiello

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I pacifici «invasori» I.1 Come sopravvivere nella giungla televisiva I.2 Considerazioni sul piano stilistico

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Uno sguardo sulla programmazione degli a n i m e in Giappone di Roberta Ponticiello e A k i h i ro Tsuchiya

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II Anime quotidiane di Susanna Impegnoso

38 40 43 45 51 54 55 57

58

II.1 II.2 II.3 II.4 II.5 II.6

Famiglie giapponesi Abitazioni Abbigliamento Divertimenti giapponesi Struttura delle strade e mezzi di trasporto Passeggiando per Tôkyô I quartieri più popolari visti negli anime II.7 Curiosità II.8 Il linguaggio: come il modo di esprimersi influenza il comportamento e viceversa Cibo e manga del Sol Levante di Giulia Basso

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Glossario


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III Anime violente di Max Ciotola

65 65 66 68 70 70 73 74 77 77 78 79 81 81 84 85

Introduzione III.1 Invasione III.1.1 Made in USA III.1.2 Made in Japan Parte I III.2 Studiare (sul serio) la violenza III.2.1 Tipi violenti III.2.1.1 Interludio 1: l’anima dei cartoon III.2.1.2 Interludio 2: la morale è sempre quella III.2.2 Applicare gli schemi III.2.3 Luoghi poco comuni III.2.4 Giochiamo alla guerra? Parte II III.3 Miti e leggende III.3.1 La verità è là fuori IV A Est di Oliver Twist di Marco Pellitteri

85 92 93 99 103 107 115

IV.1 Romanzo sociale, romanzo d’appendice, romanzo di formazione IV.2 Lacrime, Bildungsroman e soap opera nei cartoon giapponesi IV.2.1 Anime tratti da classici stranieri IV.2.2 Anime di sola ideazione nipponica ma ambientati in Occidente IV.2.3 Anime di sola ideazione nipponica e ambientati in Giappone IV.3 Conclusioni. La società giapponese, anello mancante V Pop & Japan: le tante facce della cultura popolare giapponese di Claudia Barrera

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V.1

Il fenomeno Banana Yoshimoto e la pop culture di Haruki Murakami


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Quando i giapponesi diedero un’anima ai videogiochi di Alessandro Vegliante

117 128

Pac-Man e i suoi fratelli Videogiochi consigliati

129

V.2

129

Le nipotine di Lady Oscar

Letteratura fra anime, manga, film e drama

di Susanna Scrivo

140

Uno sguardo al cinema giapponese di Giacomo Leone

140 141 145 149

Una piccola premessa Cinema di oggi, di ieri, Oriente, Occidente Inversioni di tendenza

VI Anime alla moda di Ilaria Capasso

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Premessa. I manga come espressione popolare del sociale VI.1 La moda nel manga e nell’anime VI.1.1 Gli anni Sessanta: minimaghe e minigonne VI.1.2 Gli anni Settanta: pantaloni a zampa e carrozzerie sgargianti VI.1.3 Gli anni Ottanta e la moda metropolitana VI.1.4 Gli anni Novanta e la moda globale VI.2 La moda come stato interiore: Ai Yazawa VI.3 La moda in anime e manga, oggi VI.4 Ancora sul kawaii nella moda Conclusioni VII Anime a scuola di Susanna Impegnoso

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VII.1 Sistema scolastico e struttura delle lezioni VII.2 Edificio scolastico e organizzazione interna VII.3 Le uniformi


181 183 184 187 192 197

VII.4 VII.5 VII.6 VII.7 VII.8

Rapporti fra studenti e vita scolastica quotidiana Fantasmi e prove di coraggio I club Sport e rappresentazione drammatica Esempi di manga e anime sportivi

VIII Dèi, dèmoni, angeli e messia di Yupa

201 205 209 212 217

VIII.1 VIII.2 VIII.3 VIII.4

Dèmoni dallo spazio Deus sive Natura Satana a Tôkyô Tecnoapocalissi

IX La via dei samurai di Gianluca Di Fratta

217 218 223 226 228 232 234

IX.1 IX.2 IX.3 IX.4 IX.5 IX.6 IX.7

236

Morire per un gruppo che ci odia…

Il bushidô Seishinshugi: lo spirito vince la materia G i r i: il senso del dovere G a m a n: il sacrificio di sé Ideali e virtù Spirito di gruppo Uomini soli

di Andrea Molle

243

X

L’impero dei disegni di Cristian Posocco

253

L’e m a k i m o n o,antenato del manga di Elena Vitagliano

259

XI Manga e anime a confronto di Elena Vitagliano

260

XI.1

Due forme di comunicazione a confronto


260 261 262 263 265 265 267 267 269 270 272

275

XI.1.1 L’arte della sequenza XI.1.2 L’arte delle immagini disegnate dinamiche XI.2 Genesi operativa di due forme espressive XI.2.1 Nascita di un manga XI.2.2 Lavorazione di un anime XI.2.2.1 Ideazione XI.2.2.2 Realizzazione pratica XI.2.3 Il character designer XI.3 Rapporti fra manga e anime XI.3.1 Il manga di Oniisama e… XI.3.2 Differenze tra il manga e la versione animata di Oniisama e… XII Fumetti e cartoon da Est e da Ovest, una serena convivenza di Marco Pellitteri

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303

310

323 333

XII.1 XII.2 XII.3 XII.4

Ut disneiana animatio docet Dall’animazione totale all’animazione (quasi) nulla Frattanto, in Giappone Una breve analisi comparata XII.4.1 Differenze di ordine storico-grafico Sketch e c a rtoon VS. emakimono e kami shibai XII.4.2 Differenze di ordine sociolinguistico e antropologico. Vaudeville, chalk talk e tipi umani VS. teatro K a b u k i, teatro Nô e idioma multidimensionale XII.4.3 Differenze di ordine semiotico-comunicativo Enfasi verbale d’impostazione teatrale VS. predominio dell’immagine sulla parola XII.5 Conclusioni. Il XXI secolo, la globalizzazione e tutto quanto

Riferimenti bibliografici Gli Autori



Prefazione di Luca Raffaelli

Ricordo che un giorno uscì un Radiocorriere TV con gli occhiali per guardare in 3D un cartone giapponese. Non vorrei sbagliare, ma credo che fosse R e m ì. Avevo intorno ai diciotto anni e avevo già messo piede nel mondo del fumetto e dell’animazione con una rivista, L’ u r l o, a cui collaboravano Boschi, Bruno, Caroti, Coniglio, Cristante e vari altri amici ora ben noti nel settore e non solo. Il nostro atteggiamento era di interesse generale verso tutto quello che era fumetto e cinema d’animazione. C’era però un’eccezione: il cartone animato giapponese. Allora non si chiamava ancora anime. Né, d’altra parte, a quel tempo si era ancora visto un solo m a n g a. I cartoni giapponesi erano considerati brutti, cattivi e fastidiosi. E stupidi erano considerati, generalmente, tutti quelli che li guardavano. Così, vedendo quegli occhialetti del Radiocorriere T V pensai: un’altra trappola per convincere i ragazzini a guardare questi cartoni giapponesi. Questi brutti cartoni giapponesi che sfruttano la lacrima e la violenza per farsi apprezzare. Che vogliono affascinare per corrompere il pensiero e le capacità critiche degli spettatori. Mi ricordo che sull’Urlo pubblicammo anche un articolo di una brava giornalista di Paese sera, quotidiano per cui a quel tempo collaboravo, che era una sorta di appello dei genitori di sinistra contro i responsabili televisivi. L’obiettivo era: eliminare i cartoni giapponesi. Mi pare chiaro. C’era qualcosa però che non quadrava con la mia coscienza. Lo dico senza ironia. Ed era una cosa fondamentale. Un fatto che rendeva così discutibile la mia posizione antigiapponese da sembrare a me assolutamente odiosa. Il fatto era che io quei cartoni giapponesi non li avevo mai visti. Da quando erano apparsi in TV mai mi ero soffermato a darci


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PREFAZIONE

un’occhiata. Oppure, non me lo ricordo, ma un’occhiata di sfuggita magari l’ho gettata, solo per convincermi che non era il caso di prestare attenzione a quella roba. Si sa che c’è un’età nella vita, diciamo intorno ai dodici anni, in cui molti abbandonano insieme la religione e i cartoni animati. Io l’ho fatto. Ai cartoni però sono ritornato (con la religione la faccenda è molto diversa). Anche se c’era questo problema dei cartoni giapponesi, da condannare senza averli visti. Oddio, proprio senza averli visti per niente no. Io sono stato fra i primi a vederli, ma quando li facevano al cinema, non in TV. Quando andavo al Cinema Belsito o al Clodio o al Dei Piccoli di Villa Borghese (a Roma) a vedere Le meravigliose favole di A n d e r s e n, Il gatto con gli sti v a l i, L’orsetto Panda e gli amici della foresta. Guardando questi cartoni ero perfettamente consapevole che si trattava di roba nuova e diversa. Mi accorgevo anche di certi trucchi per risparmiare sui disegni, ma quando il racconto funzionava – soprattutto nel caso dell’orsetto Panda, ma non solo – la cosa mi rendeva felice e curioso. Avrei voluto saperne di più (adesso con internet sarebbe un’altra cosa) ma non sapevo come. Allora non si sapeva nulla di nulla. O, peggio, quel che si sapeva era fuorviante: capivo da me che il regista dell’orsetto Panda non si poteva chiamare Al Bisney, com’era scritto sui manifesti. Per me tutto cambiò nel 1985. Avevo ventisei anni. Quell’anno venni inviato dal festival di Lucca a seguire la prima edizione del festival di Hiroshima. Per la prima volta ero in Giappone. Mi si rivelò un altro mondo affascinante, complesso, di straordinario interesse. In quei giorni densi d’emozione e di solitudine (ero l’unico italiano presente) strinsi la mano di e parlai con Osamu Tezuka sapendo solo vagamente chi fosse. Poi, per una serie di ragioni che sarebbe lungo raccontare, mi ritrovai per una settimana di agosto a Tôkyô, da solo, e così, quasi per caso, andai a visitare gli studi della Tôei e della Tôkyô Movie Shinsha (TMS). Per caso incredibile mi capitò anche di cenare a Shinjuku con una giornalista canadese e Mœbius, che era a Tôkyô per collaborare alla realizzazione di Little Nemo, lungometraggio che la TMS stava realizzando. Comprai dei rodovetri originali, altri me li regalarono. Due sono dello Sherlock Holmes che Marco Pagot realizzò con Hayao Miyazaki. Mi accorsi che tutto era fatto a mano, tutto, da giapponesi che il più delle


PREFAZIONE

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volte arrivavano al lavoro in bicicletta. Vidi che non c’era un computer, non uno con cui gli studi realizzassero le loro serie TV. I responsabili con cui parlai mi fecero leggere lettere di appassionati italiani, che loro non riuscivano a capire. Erano emozionanti, parlavano di una passione segreta, quasi clandestina, del desiderio di imparare il giapponese per andare a vivere e lavorare lì. Il volo allora era di ventiquattr’ore, due scali compresi. Dal finestrino dell’aereo riuscii a guardare attraverso il cielo privo di nuvole tutta una fetta di mondo, che dal Giappone arrivava fino all’Italia. Mi sentivo frastornato ed elettrizzato, come un esploratore dopo una scoperta importante. Tornato a casa, cercai di recuperare, di capire, di vedere. Non era facile, allora, senza le videocassette. Ma piano piano entrai in questo pianeta di grande interesse, che riservava piaceri e sorprese. Ebbi allora una conferma dalla vita. Che una cosa soprattutto si rifiuta, che di una cosa soprattutto si ha paura: ciò che non si conosce. Io avevo rifiutato il cartone giapponese in TV perché non sapevo cosa fosse e sapevo che sarebbe stato un bell’impegno capirlo. La scorciatoia, la strada facile, era quella di rifiutarlo, di accodarmi al coro che lo demonizzava. A tutti coloro che amano l’anime e vogliono capire il perché, ma anche a tutti coloro che pensano di non amarlo, sono dedicati libri come questo, scritto con l’accurato impegno di chi vuol approfondire i motivi di una propria passione, e che questa analizza attraverso punti di vista diversi. Perché ci sono due cose importanti da fare nella vita: conoscere quello che non capiamo, e capire ciò che amiamo. Roma, febbraio 2005



CON GLI OCCHI A MANDORLA


Av v e rtenza lessicale Alcune brevi chiarificazioni linguistiche vanno fatte subito, anche se il lettore le incontrerà altrove nel corso del volume. Il cinema d’animazione in Italia viene chiamato in più modi. Uno di questi è il termine cartoon, che in inglese vuol dire ‘disegno caricaturale’ e, associato all’aggettivo animated (‘animato’), indica i disegni umoristici animati ma che oggi, tanto in inglese quanto in italiano, designa colloquialmente l’animazione in generale. Tuttavia in italiano l’animazione è per lo più indicata con «cartoni animati», espressione che cerca di tradurre l’inglese animated cartoon ma è formalmente scorretta. Qui in genere si è preferito l’uso dei termini cartoon e disegni animati, che designano una delle tante tecniche del cinema d’animazione e in particolare quella usata per la gran parte dell’animazione giapponese; tuttavia, poiché l’espressione «cartoni animati» è di uso ormai universale in italiano, e possiede un’aura semantica quasi affettuosa (ancorché un po’ sminuente, in certi contesti), s’è scelto di usare nel libro anche tale definizione, seppure con moderazione. Nel volume si usano spesso i termini anime e m a n g a. Il primo indica l’animazione nipponica, specialmente di ambito televisivo ma non solo, crasi del termine inglese anima t i o n; il secondo designa il fumetto nell’idioma giapponese. Nota sulle norme editoriali I termini stranieri, tranne alcuni casi comunemente accettati (la g a g, gli s t u d i o s, la naï veté ecc.), sono di norma al singolare e al maschile. I rinvii biografici sono così costituiti: Autore/i, Titolo della pubblicazione, pagina/e di riferimento (se necessario; per esempio: U. Eco, Apocalittici e integrati, pp. 23 sgg). I dati completi di ogni citazione testuale sono sempre riscontrabili nei Riferimenti bibliografici. I nomi giapponesi sono indicati, per maggior chiarezza del lettore, con il sistema occidentale Nome-Cognome (es. Machiko Hasegawa), laddove invece in Giappone vige il sistema Cognome-Nome (es. Hasegawa Machiko). Avvertenza linguistica Per i termini giapponesi è stato adottato il sistema di trascrizione Hepburn, secondo cui le vocali sono pronunciate come in italiano e le consonanti come in inglese. In particolare: ch è un’affricata come la c nell’italiano cena; g è sempre velare come la g nell’italiano gara; h è sempre aspirata; j è un’affricata come la g nell’italiano gesso; s è sorda come nell’italiano sasso; sh è una fricativa come l’italiano sc di scena; u in su e tsu è quasi muta; w va pronunciata come una u molto rapida; y è consonantica e si pronuncia come la i dell’italiano ieri; z è dolce come l’italiano rosa; o come in zona se iniziale o dopo la n. û, ô, â e in generale le vocali con l’accento circonflesso indicano l’allungamento della stessa, in luogo del macron (¯).


Introduzione di Roberta Ponticiello – Susanna Scrivo

Un istintivo fascino lega da secoli Oriente e Occidente: agli occhi degli abitanti di entrambe le aree le caratteristiche peculiari, sia fisiche che culturali, di ciascuna di esse risultano infatti esotiche. L’avvicinamento reso possibile nel tempo, dapprima dagli scambi commerciali, poi da quelli culturali in senso stretto e attualmente da quelli mediatici, ha sicuramente consentito una maggiore conoscenza delle lingue, delle tradizioni, delle credenze o delle produzioni culturali dei rispettivi popoli, senza riuscire, però, a garantirne al tempo stesso una reale comprensione. Ciò nonostante, soprattutto nell’ultimo secolo, alcuni di questi aspetti «alieni» sono stati assorbiti, criticamente o meno, all’interno del tessuto socioculturale della «controparte». In quest’ottica può essere visto per esempio l’arrivo in Occidente, in Italia ma anche in buona parte d’Europa, delle serie animate giapponesi che, entrate a far parte della quotidianità dei più giovani a partire dai tardi anni Settanta, suscitarono il disappunto del pubblico adulto il quale, disapprovandone non solo il livello dell’animazione ma anche le tematiche affrontate, si preoccupava per i possibili effetti sui bambini, di contro rapiti ed entusiasmati da questi «cartoni animati». 1 Il libro è nato dall’idea che se fosse possibile guardare queste produzioni attraverso gli occhi di un giapponese si potrebbe comprendere il motivo di gran parte delle scelte stilistiche e contenutistiche in esse adottate. 1 L’espressione «cartoni animati», sebbene di uso comune, è in realtà imprecisa in quanto trae origine da un’impropria traduzione di animated cartoon, dove c a rt o o n non sta per ‘cartone’ (cardboard) ma per ‘disegno caricaturale’, ‘vignetta’. Bisognerebbe quindi definire tali produzioni come disegni animati o cinema (f i l m) d’animazione.Tuttavia si è scelto di non escludere del tutto l’utilizzo della locuzione «cartoni animati», alternandola a più «elevati» sinonimi, perché immediata e facilmente identificabile da tutti.


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Qualcuno potrebbe chiedersi allora perché gli autori non siano giapponesi. Innanzitutto perché questo fenomeno dei malintesi culturali, per ovvie ragioni, non ha certo coinvolto il paese d’origine; ma soprattutto perché le persone che hanno lavorato a questo progetto editoriale, nate e cresciute negli anni Settanta e Ottanta, durante quella che alcuni hanno definito «invasione nipponica», hanno rivolto, da grandi, i loro studi e interessi proprio verso il Giappone. Ed è questo forse l’effetto più vistoso e diffuso che la visione degli a n i m e, la lettura dei manga2 o ancora l’aver giocato con i videogiochi nipponici ha avuto sui bambini di allora. Allargando lo spettro d’analisi a tutti i paesi occidentali è impossibile non notare come la maggiore familiarità con gli usi e i costumi del Giappone, dovuta forse anche alla diffusione di queste forme d’intrattenimento, abbia deviato, negli ultimi decenni, i meccanismi d’attrazione degli occidentali verso il Sol Levante. Dall’iniziale fascinazione esotica si è passati a un interesse diffuso, più consapevole nei confronti delle espressioni culturali (animazione e fumetto in primis, seguiti da cinema e letteratura), di quelle tradizionali e spirituali (dalle arti marziali alle religioni) o ancora di alcuni aspetti della quotidianità (dall’arte culinaria all’arredamento). D’altra parte il Giappone, più di ogni altro paese orientale, si è rivelato altrettanto ricettivo, se non di più, nei confronti di moltissimi aspetti della cultura occidentale, che infatti convivono e si mescolano con quelli locali così come di norma avviene tra gli elementi tradizionali e contemporanei della cultura nipponica. Oggi la maggior parte dei giapponesi vive in città ultramoderne, ricostruite dopo la guerra, o in seguito a terremoti e incendi, dove gli aspetti tradizionali del Giappone, laddove persistono, sono per lo più relegati a quartieri ormai turistici, come Asakusa a Tôkyô; si percorrono ogni giorno distanze inimmaginabili per un occidentale per recarsi al proprio posto di lavoro, e gli orari dei salarymen (i «colletti bianchi» giapponesi) sono inconcepibili altrove. La tradizione e la cultura nipponiche sono continuamente bombardate e contaminate da ogni genere di prodotto 2 La parola anime deriva dalla contrazione dell’inglese a n i m a t i o n e indica i disegni animati giapponesi. Manga (composto da m a n, ‘svago’ e ga, ‘immagine’) è il termine con il quale in Giappone si designano i fumetti.


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proveniente da culture diverse, e non si può certo negare che i giapponesi si mostrino molto ricettivi verso le influenze straniere. La musica, il cinema, i modi di vestire e tutte le tendenze contemporanee sono influenzate dalla cultura occidentale e benché molti possano rammaricarsi per la perdita dei valori tradizionali, non è possibile ignorare un fenomeno pervasivo come quello dell’occidentalizzazione della vita quotidiana dei giapponesi. Anche la lingua sta cambiando: vengono pubblicati di continuo dizionari per i termini di derivazione straniera, per lo più di provenienza angloamericana, e nel caso di scrittori come Haruki Murakami è la struttura stessa dello stile scrittorio che viene modificato, tanto da sembrare una traduzione dall’inglese piuttosto che un giapponese di prima mano. Le immagini di una tentacolare società dei consumi hanno influenzato i rappresentanti della letteratura nipponica contemporanea nella scelta dei loro temi e soggetti. La visione che essi offrono è quella di un Giappone in continua evoluzione e le pagine dei loro racconti sono attraversate da indizi che testimoniano dell’incredibile velocità con cui tutto ciò che è nuovo e diverso viene individuato e venduto per la distribuzione di massa. Come dire che, se il mondo fosse un gigantesco m a n g a, questi scrittori moderni ne sarebbero gli sceneggiatori. Per il citato Haruki Murakami, come per altri scrittori giapponesi contemporanei quali Banana Yoshimoto, Eimi Yamada e Ryû Murakami, la citazione diventa omaggio. Ponendosi non criticamente, ma in modo quasi sentimentale verso il repertorio culturale con il quale nutrono le loro opere, essi riescono a superare l’imbarazzo dell’accostamento fra cultura «alta» e cultura «bassa» e a donare dignità letteraria anche a semplicissimi esempi di cultura pop quali gli anime, la musica leggera e i m a n g a. D’altra parte il Giappone stesso sta affrontando solo recentemente un dissidio culturale che altri paesi moderni, come gli Stati Uniti o l’Inghilterra, avevano già cominciato ad affrontare prima della Seconda guerra mondiale, senza per questo esserne ancora venuti realmente a capo: la divisione tra cultura popolare e cultura classica. In paesi dalle forti radici culturali, come appunto l’Inghilterra, non è semplice accettare la popular culture come parte della «cultura seria», perché essa entra in conflitto con le tradizioni letterarie in cui la cultura alta si rico-


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nosce e si identifica, dando spazio alla descrizione di realtà umane più globali. Alcuni giovani scrittori giapponesi, rinunciando nei loro racconti alle descrizioni delle tradizionali cerimonie del tè e dei ciliegi in fiore, hanno dato vita a un nuovo stile letterario che trae ispirazione non più dai grandi autori degli anni Cinquanta e Sessanta, ma piuttosto da una letteratura d’importazione, più in sintonia con la vita di tutti i giorni, e con toni fortemente occidentalizzati. La taishû bungaku, o letteratura di massa, costituisce un imponente fenomeno sociale, legato al forte interesse da parte dei giapponesi per la lettura e allo straordinario sviluppo dell’industria editoriale, notevolmente incrementato soprattutto dopo l’era Meiji (1868-1912). Ciò nonostante essa è ancora molto sminuita dalla critica ufficiale, che tende a relegare questo tipo di letteratura a un ruolo secondario, considerandola altra cosa rispetto alle letture cosiddette serie. D’altra parte la letteratura non è più l’oggetto di studio esclusivo degli ambienti accademici e dotti: essa deve ormai passare anche al vaglio del pubblico più vasto che, giudicandola secondo il proprio gusto, meno competente forse, ma sicuramente degno di considerazione, ne ha cambiato i parametri estetici e contenutistici. Una delle principali ragioni di questa sorta di snobismo culturale da parte di alcuni intellettuali tradizionalisti sta nel carattere leggero, a volte quasi adolescenziale, che questo tipo di letture presuppone. La critica ufficiale, pur così attenta a ogni novità e così scrupolosa nel registrare fenomeni d’avanguardia – sia pure solo per contestarli – ama mantenere un silenzioso distacco di fronte a un prodotto di largo consumo, convinta forse del fatto che un tipo di letteratura troppo commerciale non possa essere considerata qualitativamente valida. Il bagaglio culturale di questi nuovi scrittori affonda le proprie radici nella pop cultu re occidentale, lontana dal gusto degli autorevoli esponenti della letteratura ufficiale, ed è molto difficile, in effetti, comprendere il linguaggio di autori come quelli sopra menzionati se si è a digiuno di cinema, car toon e musica leggera. I critici locali, dunque, spesso non sono in grado di giudicare tali prodotti e opere, perché non ne comprendono il simbolismo né la strategica importanza negli effettivi, e oggi massivi, consumi culturali della popolazione nipponica. Non è possibile, per l’appunto, ignorare l’interesse che questi autori


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suscitano nel grande pubblico di lettori, né i riconoscimenti ufficiali che hanno ricevuto e che continuano a ricevere. Ci si trova dunque di fronte al problema di dover ufficializzare un tipo di arte che, seppure abbia radici fortemente popolari e non del tutto indigene, rappresenta comunque un chiaro specchio della società giapponese contemporanea, che ha ormai assimilato molti aspetti della cultura occidentale. Questo spiega forse l’enorme divario di opinione che esiste fra la critica ufficiale e il pubblico dei lettori, i quali non trovano affatto oscure le metafore di questi scrittori, anzi le riconoscono come qualcosa di vicino e tangibile, che racconta di fatti noti in un linguaggio a loro più comprensibile di quanto possa esserlo quello usato da scrittori classici come Yukio Mishima, Yasunari Kawabata o Jun’ichirô Tanizaki, pur molto vicini nel tempo ai nostri giorni. Negli anni Cinquanta e Sessanta questi autori hanno fatto conoscere la letteratura giapponese ai lettori internazionali, offrendo loro una visione romantica e stereotipa del loro paese, un Giappone che certo era allora molto più vicino a quelle immagini di quanto non lo sia oggi. Sono passate solo poche decadi, eppure molte cose sono cambiate. E sono cambiate così in fretta che molti critici letterari non hanno nemmeno avuto il tempo di rendersene conto. Altri, invece, sembrano aver saputo cogliere i cambiamenti che hanno reso l’uomo un essere assorbito dal caos delle metropoli e sempre più alienato da sé stesso, un c y b o rg quasi che, stando a film come M a t r i x, non può più fare a meno della tecnologia, e infine un destinatario della letteratura e della cultura in generale al quale non è più necessaria «la volontaria sospensione dell’incredulità», perché in questo mondo tutto è ormai possibile. Haruki Murakami una volta ha spiegato a un intervistatore quale sia la situazione che uno scrittore contemporaneo deve affrontare per riscuotere un buon successo di pubblico. La lettura di romanzi, secondo lui, deve competere con lo sport, la radio, la TV, il cinema, la cucina e un milione di altri passatempi piacevoli. Uno scrittore non deve aspettarsi che il lettore impieghi tempo e fatica per cercare di comprendere una vicenda troppo astrusa. Il suo compito è quello di raccontare storie di impatto immediato, usando un linguaggio comprensibile e, se possibile, divertente. È quindi la letteratura che va incontro al pubblico, parlandogli in


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un linguaggio familiare, che mette i lettori a proprio agio e racconta loro, spesso e volentieri, cose che conoscono, non lontane dalle loro realtà, e quindi, per l'appunto, «popolari». Allo stesso modo, fumetti e disegni animati parlano in Giappone a un pubblico se possibile ancora più ampio di quello raggiunto dalla letteratura, sia in patria che all’estero. E nella fattispecie in Italia, dove gli anime vengono spesso proposti in TV, a torto o a ragione, anche a bambini in età prescolare e dove i manga sono fra le letture più vendute presso il pubblico adolescenziale e giovanile. Ma questo nostro pubblico, sia esso di età giovanile o adulta, è davvero pronto a raccogliere e comprendere appieno il valore di queste due forme di comunicazione? Questa è la domanda che ci siamo poste, e alla risposta che ci siamo date, «no», abbiamo sentito la necessità di pubblicare questo volume, modesto veicolo d’informazione e d’analisi su di una cultura lontana dalla nostra, della quale, però, ormai anche più d’una generazione è resa partecipe proprio grazie ad anime e manga, strumenti della pop culture particolarmente amati. I saggi che compongono Con gli occhi a man dorla parlano di moda e di religione, di censura e di s a m u r a i, di orfani e di quotidianità, e di molto altro: descrivono e analizzano gli aspetti della cultura giapponese che ci raggiungono, come essi vengano fraintesi e come, invece, potrebbe essere guardare un «cartone animato» con occhi nuovi, con gli occhi di chi capisce cosa succede, di chi comprende o almeno si sforza di comprendere di cosa si stia parlando. Comprensione come base della cultura. E proprio questo è quello che speriamo di offrire. Una nuova, piccola possibilità di comprendere qualcosa di estraneo ma non tro p p o.


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Ringraziamenti Innanzitutto entrambe rivolgiamo un ringraziamento particolare a tutti gli autori che hanno aderito e creduto in questo progetto: senza la loro professionalità e la loro passione non saremmo mai arrivati fino a questo punto. R o b e rta Ponticiello Sono passati due anni dalla prima edizione e, da allora, sono cambiate tante cose. Ho sentito così l’esigenza di modificare i miei ringraziamenti, innanzitutto dedicando questo libro a Francesco, la persona più positiva che abbia mai conosciuto. Mi mancherai tanto. Ringrazio tantissimo mia madre, nonché mia migliore amica, e il mio tenace papà sognatore. Ale, insostituibile compagno di viaggio; Susanna per aver condiviso ancora una volta con me questa splendida avventura e i miei cugini Achille, Carolina (ora non sono più così piccoli), Giorgia e Giordana (sempre più dura la distanza!). La vita milanese, sebbene difficile, mi ha riservato delle belle sorprese e voglio ringraziare tutti quelli che hanno contribuito a renderla un’esperienza interessante: le mie colleghe, e ora grandi amiche, Elena, Ilaria, Laura, Luisa e Valeria, e poi Dario (il mio «legale», latitante) e Paolo; i miei compagni di giapponese, soprattutto Daniela, Davide, Mario, Thomas e Ting Ting; le mie coinquiline (alle quali ora si è aggiunta Manù! Sono troppo felice!) e la mia grande amica Gabriella. Il mio cuore però è ancora a Napoli: un ringraziamento speciale va ai miei zii, ai miei nonni e a tutti gli amici che purtroppo vedo poco. Cristiana e Luca, siete ancora uno dei motivi per cui desidero tornare; Paolo, resti il mio guru in fatto di sigle dei cart o o n; Alessandro Rak, credo che non smetterò mai di ringraziarti per aver realizzato la copertina della prima edizione, e Marco, sono proprio contenta di essere di nuovo in contatto con te, anche se tra un po’ partirai… Non posso che ringraziare poi: Raffaella, che segue ancora con interesse le mie iniziative; Gianluca, con il quale è un piacere confrontarsi e Carlo, senza il quale non avrei mai avuto il coraggio di tenere la lezione! L’angolino serioso si è allargato: oltre a Luca Raffaelli, Fabrizio Margaria e Simona Fabbri, voglio ringraziare Alberto e Daniela per avermi dato la grande opportunità di crescere professionalmente, e Giannalberto Bendazzi che mi ha reso più sicura di me stessa.


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INTRODUZIONE

Susanna Scrivo Oltre agli ovvi, ma mai sufficienti, ringraziamenti a Roberta, per la sua professionalità e pazienza, e a tutti gli autori, ancora, per la loro disponibilità e collaborazione, ringrazio i professori Giorgio Amitrano e Paolo Calvetti per i preziosi insegnamenti, Baby Grotto per il supporto morale (e informatico!), Maiko Mori, Michiko e Keisuke Namekawa, Gota Senda e Reiko-chan per la loro amicizia (o sewa ni natta!), l’Opossum e mio fratello Stefano per il lap link cable! Infine, un grazie particolare a mio papà, che mi ha trasmesso la passione per i fumetti, e a mia mamma che ci sopporta!


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TV Invaders Quando gli anime arrivarono in Italia di Roberta Ponticiello Ma questi cartoni giapponesi non sono proprio adatti ai bambini!

I pacifici «invasori» I primi «cartoni» animati giapponesi ad arrivare nelle TV italiane, Barbapapà (13 gennaio 1976), Vickie il Vichingo (2 gennaio 1977) e Heidi (7 febbraio 1978),1 furono trasmessi nell’ambito della programmazione pomeridiana della RAI, determinata ad abbandonare la consueta formula della TV dei Ragazzi.2 Questi anime, malgrado non ricordassero i cartoon cui il pubblico italiano era abituato, riuscirono a passare piuttosto inosservati, complici sicuramente le origini occidentali dei tre soggetti3 e la delicatezza dei disegni e delle storie. Se però per Vickie il Vichingo e Barbapapà il tratto grafico, non direttamente riconducibile agli stilemi di una precisa scuola nazionale d’animazione, e la scelta di suddividere le avventure in episodi autoconclusivi, non rendevano tali serie poi tanto diverse dalle produzioni statunitensi ed europee per la TV (quelle che avevano per pro1 Dati ufficiali RAI. Anche se, va detto, altre fonti riportano che Heidi giunse in Italia già nel 1976 (cfr. IF – Immagini & Fumetti, speciale Orfani e ro b o t, n. 5/8, 1983, Milano, Epierre). Inoltre, va da sé che qui si sta parlando di c a rt o o n televisivi, poiché già negli anni Sessanta e primi anni Settanta alcuni film d’animazione giapponesi per il cinema avevano raggiunto le nostre sale. 2 In onda dal 1954 al 1976, La TV dei Ragazzi era un programma contenitore quotidiano della durata di circa due ore, che prevedeva appuntamenti settimanali con documentari, spettacoli in studio, telefilm e disegni animati americani. 3 I protagonisti di Barbapapà (id.), del 1973, furono ideati da Annette Tison, francese, e Talus Taylor, americano, per la versione stampata; ma fu dalla collaborazione fra la casa olandese Polyscope e la giapponese Topcraft che nacque la serie animata. Vickie il Vichingo (Chiisana Viking Vi k k e), del 1974, è tratto dai racconti dello svedese Runer Jonsson, Kinderbuch Vickie Viking (1963). Heidi (Alps no shôjo Heidi), anch’esso del 1974, è invece tratto dal celebre romanzo (1880) della scrittice svizzera Johanna Spyri. Entrambi sono frutto di una coproduzione con la Germania: Taurus Film – Zuiyo (oggi Nippon Animation) – Fuji TV – ZDF – ORF.


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tagonisti i supereroi Marvel o i simpatici personaggi ideati dalla HannaBarbera), per Heidi il discorso era diverso. Sia lo stile grafico che la struttura narrativa presentavano già quelle che sarebbero diventate poi le caratteristiche distintive delle produzioni provenienti dal Sol Levante. La presenza nello staff, però, di due dei più grandi maestri dell’animazione nipponica, Isao Takahata e Hayao Miyazaki,4 contribuì indubbiamente a rendere la serie un’opera intramontabile, un vero e proprio c u l t, capace infatti di ottenere, ancora oggi, altissimi risultati d’ascolto.5 Il 4 aprile del 1978, poco tempo dopo la messa in onda di H e i d i, con grande entusiasmo dei giornalisti fu trasmesso, durante Buonasera con…,6 Atlas UFO R o b o t, con il celebre Goldrake: tempo fa […] Retedue, mandò in onda una fortunata serie di fumetti [s i c] in TV che piacque molto. Adesso, memori di questa esperienza […] «Buonasera con…» propone alcuni fumetti [s i c !] legati a due personaggi extraterrestri: Superman e Atlas Ufo-Robot. Il primo è un eroe popolarissimo anche ai meno giovani, mentre il secondo, creato in Giappone, è poco conosciuto in Italia. Ma sia la storia di Atlas UfoRobot, sia quella di Superman […] sono abbastanza simili: in tutte e due, un ragazzo, scampato alla distruzione del suo pianeta, raggiunge con una navicella spaziale la terra e vive sotto sembianze umane. […] La Rai ha pensato di abbinare a questa serie televisiva (iniziata la scorsa settimana) un concorso a premi, forse per stimolare un maggiore ascolto. Se è così, non c’era da preoccuparsi: in tempi dove a vedere «Guerre stellari» e «Incontri ravvicinati del terzo tipo» corrono milio-

4 Allora essi erano ancora sconosciuti in Occidente, ma attualmente godono dell’ammirazione dei loro colleghi americani e anche del favore di critica e pubblico. Basti pensare che La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi), diretto da Miyazaki e prodotto dalla compagnia creata con Takahata, lo Studio Ghibli, ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2002 e il premio Oscar nel 2003, e I l castello errante di Howl (H a u ru no Ugoku Shiro) è stato presentato al Festival di Venezia nel 2004. 5 La serie, storicamente in onda sulle reti RAI, è stata di recente acquistata dalla Mediaset e ha ottenuto dati d’ascolto all’altezza delle più moderne produzioni rivolte ai bambini; trasmessa nel periodo 18.05.2004 – 28.08.2004 alle ore 17, ha ottenuto uno share medio del 17,81%, mentre la recentissima e amata serie Hamtaro, piccoli criceti grandi avventure, in onda, nella stessa fascia oraria, dal 30.08.2004 al 29.10.2004, ha registrato uno share medio inferiore, del 15,93% (dati Auditel – Mediaset). 6 Contenitore che abitualmente ospitava serie d’azione americane.


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ni di spettatori, si può star certi che un programma imperniato sugli extraterrestri piacerà, come si dice, a «grandi e piccini».7

Gli elementi di profonda originalità e innovazione, in linea con l’interesse manifestato all’epoca per la fantascienza, e l’effettiva similitudine con le avventure dei supereroi americani8 furono ben presto sostituiti da un diffuso atteggiamento di preoccupazione legato ai possibili effetti negativi che la visione di questo tipo di cartoon avrebbe potuto avere sui bambini. Se ne fece un gran parlare, in particolare da parte della stampa, la quale assolse a uno solo dei suoi «compiti»: essa fece da cassa di risonanza amplificando la portata dei pregiudizi nei confronti dell’animazione nipponica,9 piuttosto che fornire informazioni corrette. Si giunse così, nel corso del ’78, addirittura a un’interrogazione parlamentare affinché venisse sospesa la trasmissione di Atlas UFO Robot.10 La TV di stato italiana, che sin dall’esordio, il 1° gennaio del 1954, si era legata all’animazione trasmettendo I Fratelli dinamite11 e che negli anni successivi aveva sempre dato spazio ai grandi classici cinematografici targati Disney, Warner Bros. e Metro-Goldwyn Mayer (MGM), così come alle produzioni realizzate per il piccolo schermo dal prolifico studio Hanna-Barbera,12 o ancora ai cortometraggi d’autore europei trasmessi all’interno del programma Mille e una sera…, aveva forse osato troppo portando nelle case di tutti gli italiani una serie animata come Atlas UFO R o b o t?Cos’aveva questo prodotto narrativo di così sbagliato da suscitare tanto scalpore nel pubblico?

«La TV ci regala due Superman», la Repubblica, 13 aprile 1978. Analogia che potrebbe essere estesa a molte serie d’azione nipponiche, prima fra tutte Dragon Ball. 9 «Per realizzare Goldrake e C., questi emuli di Disney dagli occhi a mandorla, hanno fatto ricorso a un cervello elettronico nel quale hanno inserito i dati riguardanti le vicende, il tipo di disegno e i colori previsti. Il computer ha quindi fornito tutti i ragguagli tecnici perché i cartoni animati risultassero perfetti. Una tecnica fantascientifica», nell’articolo «Anteprima! Torna Atlas Ufo Robot!», To p o l i n o, n. 1181, 16 luglio 1978; e ancora «Fortunati quelli che hanno il televisore a colori: la tecnica giapponese in questo campo ha fatto passi da gigante introducendo apparecchiature elettroniche che programmano sia i movimenti che i colori», nell’articolo di Paolo Cucco, Tv Sorrisi e Canzoni, n. 51, dicembre 1978. 10 Senza per questo ottenere i risultati sperati. 11 Uno dei primissimi lungometraggi a colori realizzati in Italia, a opera, nel 1947, dei fratelli Pagot. 12 Tutti cartoon accomunati da un’inconfondibile ironia e dalla scelta di tematiche scanzonate e divertenti o da forti richiami all’immaginario favolistico e fiabesco occidentale, e dove il lieto fine è d’obbligo. 7 8


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In alto, a sinistra, Vickie il Vichingo (Chiisana Viking Vi k k e), 1974 © Taurus Film – Zuiyo (oggi Nippon Animation) – Fuji TV – ZDF – ORF. A destra, Goldrake ovvero Atlas UFO Robot (UFO Robot Grendizer) © Go Nagai/Dynamic Planning/Toei Animation. Sopra, a sinistra, Heidi (Alps no shôjo Heidi), 1974 © Taurus Film – Zuiyo (oggi Nippon Animation) – Fuji TV – ZDF – ORF. A destra, merchandising dei Barbapapà (id.), 1973 © Annette Tison – Talus Taylor – Polyscope – Topcraft.


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Per rispondere a questa domanda bisogna fare un piccolo passo indietro e analizzare il contesto nel quale questo c a rt o o n si inserì. Dopo oltre vent’anni di esclusivo e incontrastato monopolio statale13 lo scenario televisivo italiano stava modificando il suo aspetto, e in modo molto rapido. Contemporaneamente all’introduzione nelle case italiane delle prime televisioni a colori iniziarono a nascere le prime emittenti locali, a cui presto si aggiunse anche la terza rete RAI.14 In quegli anni tutte le convinzioni ormai consolidate, così come le abitudini di consumo, furono costrette a un repentino cambiamento, trovando tuttavia impreparata la maggior parte degli italiani. Era forse normale che si cominciassero ad avere timori nei confronti di un mezzo di comunicazione così invasivo e in tale crescita (sia in termini di aumento delle emittenti che del numero di ore di trasmissione quotidiana) come la TV, figurarsi poi se tra i programmi in onda erano previsti prodotti tanto diversi e distanti non solo dalla consueta programmazione pedagogica proposta dalla RAI15 ma più in generale dalla cultura e dall’immaginario occidentali. È infatti in questo scenario di panico latente che ebbe inizio una sorta di «inquisizione» non appena ci si rese conto che, piuttosto che presentare le solite favolette o le rocambolesche avventure tipiche dei cartoon americani, le produzioni giapponesi affrontavano, usando un «linguaggio per bambini», tematiche inusuali, complesse, talvolta piuttosto forti 13 Periodo durante il quale la maggiore novità era stata rappresentata dalla possibilità offerta agli spettatori di scegliere tra la programmazione di due canali. Il 4 novembre 1961 fu lanciato il Secondo canale che, per molti anni (fino al ’75), ebbe una programmazione giornaliera limitata a poche ore nel tardo pomeriggio, o a volte solo alla sera, rispetto alla dozzina circa su cui si era attestato in quegli anni il Primo canale. 14 Nel 1977 si cominciarono a diffondere le prime TV a colori, sebbene tecnologicamente sarebbe stato possibile introdurre questa tecnologia già sul finire degli anni Sessanta. Riscontrata, a seguito di varie sentenze nel corso degli anni Settanta, l’incostituzionalità del monopolio statale, fu consentita a una serie di emittenti private la trasmissione limitata ai rispettivi territori locali; negli anni Ottanta le reti principali si consociarono formando i primi circuiti televisivi e trasmettendo, in determinate fasce orarie, in contemporanea in tutte le regioni, gli stessi programmi; nacquero così Canale 5 di Berlusconi, Italia 1 di Rusconi e Rete 4 di Mondadori, riunite tutte poi sotto l’ala Fininvest nel 1984 trasformandosi in net w o r k. Le prime trasmissioni di RAI Tre risalgono invece al 15 dicembre 1979. Per approfondire la storia della TV in Italia cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Venezia, Marsilio, 1992 e l’Enciclopedia della televisione, a cura di Aldo Grasso, Milano, Garzanti, 2002. 15 Basti pensare che, fino ad allora, durante la fascia oraria destinata ai bambini (che oscillava tra le ore 16 e le 18) non solo veniva trasmessa una buona dose di documentari ma erano previste, prima o dopo, delle pause nella programmazione o la messa in onda di TG o programmi educativi (Non è mai troppo tardi per esempio), per evitare che i giovani fossero distratti dalle loro attività scolastiche.


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o forse troppo vicine alla realtà. Non più, quindi, atmosfere edulcorate, ma esplicita rappresentazione, talvolta esasperata, anche del dolore, della sofferenza, della guerra e persino della morte.16 Non solo finzione e divertimento, insomma. Ogni aspetto della vita poteva, e ovviamente può tuttora, diventare oggetto dell’animazione nipponica, affrontato in modo realistico oppure umoristico, grottesco o fantastico a seconda delle finalità narrative o più spesso in base al pubblico al quale il cartoon è rivolto. E questo è un punto cruciale sul quale bisogna soffermarsi: il target. In Giappone l’ingente produzione di manga, dai quali molto spesso vengono tratti gli a n i m e, è divisa per fasce d’età e per sesso: dai bambini in età prescolare (ovviamente più la versione animata che quella stampata, data la loro incapacità di leggere) agli scolaretti, dagli adolescenti ai giovani in età post-adolescenziale, fino a raggiungere una parte ragguardevole di consumatori adulti. Dunque l’animazione era considerata dai giapponesi, già allora, precorrendo un po’ i tempi rispetto a noi occidentali, non semplicemente una forma d’intrattenimento a esclusivo appannaggio dei bambini, ma un vero e proprio linguaggio audiovisivo capace di modellarsi con efficacia a seconda del pubblico e del mezzo di comunicazione per i quali viene creato. Tutto questo doveva risultare strano, se non inconcepibile, agli occhi degli adulti, in particolare dei genitori, della fine degli anni Settanta, ormai assuefatti agli scanzonati cortometraggi Warner e alle romantiche fiabe Disney, rivolti innanzitutto ai bambini ma al tempo stesso perfetti per tutta la famiglia. 17 Anzi è 16 Per rappresentazione esasperata si intendono per esempio i lacrimoni che sgorgano come fiumi in piena dai grandi occhi di Candy Candy o più recentemente da quelli di Rossana e Magica Doremì nelle serie eponime, oppure la sdrammatizzazione della morte in Dragon Ball, dove nessun personaggio muore realmente ma, grazie alla magia, ha la possibilità di essere fatto resuscitare. O ancora in serie come Yattaman, in cui gli scontri tra il bene e il male, pur concludendosi sempre con la sconfitta dei cattivi, suggellata da un’esplosione che ricorda molto il fungo atomico (inevitabilmente parte integrante dell’immaginario nipponico), non ne portano all’eliminazione o alla consegna alla giustizia ma a una divertente fuga dopo la quale, nell’episodio successivo, essi saranno pronti ad affrontare nuovamente i loro avversari. Per considerazioni più estese sui valori e sui concetti veicolati dagli a n i m e cfr. i Capitoli III, IV, VIII e IX. In particolare, a proposito della morte cfr. l’approfondimento contenuto nel Capitolo IX. 17 Quest’affermazione rappresenta una voluta semplificazione. Se è vero che fino agli anni Novanta, con le dovute eccezioni, la produzione occidentale, soprattutto televisiva, era poco segmentata, è anche vero che le primissime sperimentali animazioni, sia europee che americane, erano prevalentemente rivolte a un pubblico esigente e adulto; bisogna anche ricordare che gran parte dei cortometraggi della Warner o della MGM venivano realizzati per precedere la proiezione di lungometraggi cinematografici dal vero non necessariamente rivolti ai bambini. Cfr. in proposito il Capitolo XII.


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possibile che la maggior parte di essi, e ci si riferisce anche ai responsabili della programmazione, ignorasse che a ogni cartoon può corrispondere una precisa fascia di pubblico, altrimenti sarebbe difficile spiegarsi tante scelte quanto meno azzardate. Va poi aggiunto che, malgrado i molteplici aspetti negativi ravvisati dagli adulti, dalla qualità visiva ai contenuti, i bambini nati a partire dagli anni Settanta in poi – pur senza rinunciare agli immancabili appuntamenti al cinema o in TV con i lungometraggi Disney e le divertenti gag di Wile Coyote e Beep Beep, o con le avventure di Scooby Doo e dei Flintstones – stravedevano per i loro nuovi beniamini nipponici e per tutti i giocattoli, le figurine, i 45 giri o gli albi da colorare che portavano la loro effigie.18 In tal senso non è poi così difficile capire la reticenza dei genitori ad accettare questi nuovi personaggi. In pochissimi anni erano avvenuti troppi cambiamenti perché potessero essere recepiti in modo equilibrato e consapevole. Dal nuovo assetto televisivo alla massiccia presenza della pubblicità, dal crescente numero di ore dedicate ai programmi per bambini all’inferiore varietà degli stessi: se fino a pochi anni prima erano previsti documentari, giochi in studio e più di rado cartoon, negli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta la proporzione si ribaltò. L’arrivo dei prodotti giapponesi, indubbiamente massiccio, fu percepito come una vera e propria invasione. E in questo quadro la loro diversità divenne sinonimo di pericolosità. I disegni animati nipponici diventarono così, tutti indistintamente, il bersaglio di facili accuse, accolte però di buon grado dall’opinione pubblica, che ormai formava un fronte compatto. Malgrado diversi tra loro per generi, stili grafici e tematiche affrontate, gli anime vennero visti come un’unica entità omogenea per la quale valevano più o meno le stesse considerazioni: erano brutti, freddi e con un’animazione «a scatti» (perché si presumeva fossero creati da fantomatici computer), troppo violenti e/o troppo drammatici, portatori di messaggi considerati diseducativi e con frequenti ammiccamenti al sesso. Bisogna ammettere che descritti così farebbero preoccupare chiunque. 18 Questo fenomeno non era una novità. Il primo a rendersi conto delle infinite possibilità di guadagno legate alla vendita di oggetti associati ai carismatici personaggi dei cartoon fu Walt Disney, che già sul finire degli anni Venti, dopo lo strepitoso successo di Mickey Mouse, fece in modo che Topolino fosse presente su tutti i prodotti capaci di attirare l’attenzione dei bambini.


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Se il contesto storico, in cui Atlas UFO Robot19 fece da apripista, rappresenta una componente essenziale nell’aver generato tanto scalpore nel pubblico, a determinare una tale reazione furono le tematiche affrontate e forse più di tutto le modalità espressive. Malgrado le similitudini con serie americane come Superman, nei cartoon seriali americani accomunate dalla presenza di un supereroe alieno in lotta contro il male, la scelta nipponica di affidare le sorti della Terra a una macchina, nella fattispecie un robot (sebbene a guidarlo fosse un ragazzo), piuttosto che a un extraterrestre dalle fattezze umane, risultò meno facile da accettare. Inoltre, contrariamente a quanto accade in Atlas UFO Robot, durante il confronto tra Superman e il cattivo di turno nessuno si ferisce. Molti combattimenti nelle serie robotiche risultano invece letali almeno per il nemico. Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché mostrare anche ai bambini gli aspetti brutti della vita. Forse perché ne fanno parte? Ma forse anche per un’inconscia necessità di esorcizzare l’attacco nucleare subìto nel ’45, creando personaggi supertecnologici di cui potersi avvalere per fronteggiare faccia a faccia il nemico. Intervengono infine due sostanziali differenze culturali: la concezione del bambino giapponese, che, più responsabilizzato (in misura proporzionale alla sua età), viene protetto meno dalla realtà rispetto a quanto si faccia abitualmente in Occidente, e il rapporto con la morte. Non bisogna pensare però che Gô Nagai, il creatore di Goldrake, avesse ideato il suo robot pensando di rivolgersi ai bambini più piccoli, ma ai ragazzini dai dieci anni in su.20 Ecco perché la scelta italiana di collocarlo all’interno dei programmi per bambini, intendendo con questo un pubblico che andava indistintamente dai quattro ai dodici anni, creò non pochi problemi. 19 Goldorak (questo il nome francese) ebbe sorti simili in Francia. Trasmesso qualche mese più tardi rispetto all’Italia, venne programmato dalla responsabile della programmazione di Antenne 2 durante le vacanze estive (a partire dal 7 luglio del ’78), con la speranza di non destare troppo l’attenzione degli spettatori. Contrariamente alle sue aspettative, malgrado la presenza nell’a n i m e di contenuti forti, la serie ebbe un successo straordinario che impedì, in seguito, la sospensione della messa in onda. Per maggiori informazioni sul fenomeno francese si rimanda al sito http://djspace.club.fr/introd.html. 20 Sebbene la nascita di Atlas UFO Robot (in originale UFO Robot Gre n d i z e r) sia legata alla pressione esercitata sul suo ideatore, Gô Nagai, dall’azienda di giocattoli Bandai dopo i risultati clamorosi delle vendite di altri robot inventati dall’autore, Nagai è ben più famoso per la sua produzione indirizzata a un pubblico di adolescenti e adulti, che viaggia su registri ben più cruenti e drammatici rispetto alle serializzazioni televisive per i ragazzini dai dieci anni in poi (cfr. al proposito il Capitolo VIII).


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Ciò nonostante nel giro di cinque anni (dal ’78) molti altri robot entrarono nelle case italiane: Mazinga Z e il Grande Mazinga, Jeeg Robot, Daitarn 3 e Gundam sono forse gli esempi più rappresentativi. È interessante rilevare, tuttavia, che di questi solo un numero piuttosto contenuto passò sulle reti RAI e inoltre che a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta l’acquisizione di serie fantascientifiche subì una vistosa battuta d’arresto anche sui canali privati. Le cause vanno probabilmente attribuite da un parte al desiderio di evitare le consuete polemiche legate a questo genere di produzione nipponica, ma dall’altro anche all’incredibile varietà di serie disponibili sul mercato. Anime come Anna dai capelli rossi (RAI Due, 1980),21 Bia, la sfida della magia (RAI Due, 1981), Candy Candy (Canale 5, 1982), Lady Oscar (Italia 1, 1982) o Mimì e la Nazionale di pallavolo (Italia 1, 1983), che puntavano più su un pubblico femminile,22 o come Lupin III (reti locali, 1979) Rocky Joe (Rete 4, 1983), Carletto il principe dei mostri (Rete 4, 1983), diretti prevalentemente a quello maschile,23 o ancora L’ape Maia (RAI Uno, 1980), Don Chuck Story (reti locali, 1980) e Doraemon (RAI Due, 1982), rivolti invece ai più piccini, riuscivano a suscitare un grande interesse nel pubblico; accortesi di ciò, tutte le emittenti decisero di effettuare una maggiore diversificazione. Alcune di queste scelte, però, non evitarono alle reti critiche sulla programmazione, dovute alla presenza in diversi anime di tematiche che potevano risultare piuttosto forti per i più piccoli. Per risolvere questa situazione le emittenti avrebbero potuto sospendere i programmi «incriminati» o programmarli in appropriate fasce orarie. La RAI, optando per serie dai toni, dai ritmi e dai contenuti soft, operò una scelta abbastanza coerente e che, nel rispetto dei suoi doveri come TV di stato, diede la giusta importanza alle esigenze dei bambini. La Fininvest invece ritenne opportuno intervenire sugli anime già in suo possesso con 21 I dati relativi alla messa in onda di queste serie derivano da note rilasciate dagli attuali responsabili della programmazione delle rispettive emittenti e dalla consultazione del sito www.listacartoni.it, fonte inesauribile di interessanti informazioni. 22 Alcune di queste serie in realtà erano già apparse in Italia sui canali locali qualche anno prima – per esempio Candy Candy apparve sulle reti locali dal 1980 e Mimì e la Nazionale di pallavolo dal 1981 – ma si è ritenuto più interessante indicare la data in cui tutti gli italiani poterono apprezzarne la visione. 23 Questa considerazione vale più per Rocky Joe che per Lupin III e C a r l e t t o; quest’ultimo, in particolare, basato su di una grottesca reinterpretazione di personaggi come il Mostro di Frankenstein o il Conte Dracula, riusciva con il suo umorismo a catturare anche il pubblico femminile.


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operazioni censorie, allo scopo di piegare il prodotto alle esigenze televisive. Rispetto ai primi passaggi, le repliche di Lady Oscar o Lupin III, per esempio, subirono diversi tagli: alcune scene o intere sequenze vennero eliminate. L’unico risultato fu però solo quello di alterare la normale successione narrativa rendendo, molto spesso, davvero difficile la comprensione della storia, senza riuscire a offrire un buon servizio neanche al pubblico che avrebbero dovuto proteggere. Per quasi vent’anni le reti Fininvest/Mediaset portarono avanti questa politica applicandola anche alle nuove acquisizioni.24 Piuttosto che effettuare una selezione più accurata o creare fasce orarie dedicate al pubblico adolescenziale (target al quale molti anime sono generalmente destinati), diverse serie subirono notevoli modifiche attraverso non solo il rimontaggio degli episodi ma anche la sostituzione dei nomi giapponesi dei personaggi con altri occidentali, o ancora lo stravolgimento dei dialoghi originali. Se negli anni Ottanta questa strategia non era nota ai più e destava solo l’attenzione di una minoranza rappresentata da ragazzini davvero appassionati, le differenze e le discrepanze con i primi adattamenti, o con la versione giapponese, vennero alla luce nel decennio successivo. I bambini di allora erano ormai cresciuti e adesso avevano gli strumenti e le capacità per dimostrare il loro disappunto.25 Gli adolescenti degli anni Novanta continuavano a essere infatti profondamente legati all’animazione nipponica (anche di nuova concezione) e desideravano dimostrare quanto l’intervento dei responsabili Fininvest/Mediaset avesse contribuito a distruggere quelli che, con le dovute eccezioni, potevano essere considerati invece dei buonissimi prodotti. Alessandra Valeri 24 A proposito delle acquisizioni effettuate dagli anni Ottanta in poi, non solo dalle reti Fininvest, è interessante notare che il 1982 e il 1983 furono gli anni in cui si registrò il maggior numero di nuove produzioni in onda sulle emittenti italiane, cifra che subì una progressiva flessione (compensata senza dubbio da un alto numero di repliche delle vecchie serie) nel corso degli anni Ottanta, toccando il massimo picco negativo nel 1993 per poi risalire lentamente, con alti e bassi, negli anni successivi, senza mai raggiungere però i valori del 1982. Queste considerazioni sono frutto dell’analisi del numero di serie classificate sul sito www.listacartoni.it, che, sebbene sia aggiornato al 2002 e presenti ben 107 titoli non classificati, risulta senza dubbio la fonte più completa in rete. 25 Internet in questo fenomeno ha svolto un ruolo determinante, in quanto ha consentito la diffusione di informazioni e il contatto tra appassionati e studiosi. È possibile trovare in rete non solo siti dedicati a ogni serie e all’analisi per esempio di tutti i tagli effettuati in ciascuna, ma anche quelli di associazioni come ADAM Italia (Associazione per la difesa di anime e m a n g a), impegnata nella battaglia contro la censura. Cfr. www.adamitalia.org.


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Manera, per anni responsabile della programmazione per ragazzi delle reti berlusconiane, a lungo è stata considerata quasi una «icona del male» dagli appassionati di cartoon giapponesi, anche se bisogna ammettere che senza di lei molti disegni animati, sebbene snaturati, non sarebbero mai arrivati sui nostri schermi. E in tal caso tutti noi non avremmo avuto proprio nulla di cui parlare. Nel corso degli anni Novanta l’assetto televisivo terrestre raggiunse una sorta di punto d’equilibrio26 e al contempo gli spettatori dimostrarono, rispetto al passato, di avere un approccio più sereno, maturo e consapevole nei confronti della TV e delle problematiche a essa legate. Al panico incontrollato si sostituì in genere un atteggiamento più costruttivo e propositivo, che portò le associazioni di consumatori, ma anche i singoli, a manifestare espressamente l’esigenza di un insieme di norme che regolamentassero l’operato della televisione, in vista soprattutto della tutela dei minori (ma su questo punto si riferisce più avanti). Nel contempo s’è assistito a un lento ma sostanziale cambiamento delle strategie adottate dalle varie emittenti, soprattutto a partire dalla seconda metà del decennio. Le reti RAI, per esempio, hanno ridimensionato ulteriormente il numero di ore dedicate all’animazione nipponica in favore delle neonate coproduzioni con altre emittenti europee, create appositamente per le varie fasce di pubblico coperte dalla programmazione della TV di stato, i bambini in età prescolare e scolare. La decisione di MTV, canale giovanile per eccellenza, di trasmettere dal 1998, in prime time, un tipo di animazione (dapprima di propria produzione, poi anche giapponese) piuttosto adulta, sia per i contenuti che per il linguaggio, visivo e verbale, ha rappresentato una svolta decisiva nel modo italiano di proporre animazione in TV. Da quel momento è stato infatti riconosciuto anche al pubblico non infantile uno spazio all’interno della programmazione in cui poter trovare cartoon ricercati, trasmessi in versione integrale e senza equivoci sul target di riferimento.27 26 Sul fronte terrestre, ai sei canali nazionali in realtà, negli ultimi dieci anni, si sono aggiunti MTV e La7 (ex TMC), che rappresentano il terzo polo. Sempre negli anni Novanta sono nate inoltre le prime pay TV e pian piano una moltitudine di canali satellitari. Il settore, ancora piuttosto giovane, risponde a regole e strategie diverse e pertanto non viene analizzato in questo contesto. 27 Sicuramente per le caratteristiche proprie del canale, che nasce per un pubblico di adolescenti e giova-


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Un tentativo, in realtà, era stato già fatto nel 1991, quando Canale 5 propose in seconda serata The Simpsons,28 ma non si trattò di una scelta strategica e duratura. In meno di un anno infatti l’appuntamento con la «famiglia più irriverente della TV» cambiò più volte, fino a stabilizzarsi, nell’autunno del ’97, nell’ormai consueta collocazione, il primo pomeriggio di Italia 1. Fascia orientata al pubblico dagli adolescenti in su, nella quale nel tempo si sono avvicendate serie classificabili, proprio come I Simpson, tra le animated sit-com. Negli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo Italia 1 puntò ancora una volta sull’animazione per adulti programmando in tarda serata un cartoon comico americano, South Park, e in seguito Berserk, un anime d’azione. Malgrado l’entusiasmo di una grossa fetta di appassionati i risultati d’ascolto non furono altrettanto soddisfacenti per la rete che, nel giro di poco tempo, si vide costretta a far sparire dai palinsesti questo tipo di programmi. Più in generale però si può riconoscere che la programmazione di animazione effettuata negli ultimi anni da Italia 1 è nettamente migliorata: la selezione risulta infatti più oculata, più rispettosa delle varie fasce di pubblico e quasi priva di tagli indebiti. Che il merito vada attribuito alla politica adottata dal nuovo responsabile della fascia ragazzi della Mediaset? Molto probabile. Le recenti migliorie nella programmazione italiana, che consistono sostanzialmente in una maggiore valorizzazione dei prodotti e in una diversa attenzione nei confronti del pubblico, di tutte le fasce d’età, tuttavia non sono ancora riusciti a scalfire i pregiudizi nei confronti dell’animazione nipponica. Tuttora molti giornalisti continuano ad alimentare i luoghi comuni riguardanti queste produzioni, divenute più volte capri espiatori di ogni male giovanile.29 ni, per la scelta della fascia oraria ma anche perché ogni programma che presenti contenuti forti è preceduto da un «cartello» (disclaimer) che dà alcune informazioni allo spettatore, in modo ironico ma efficace, sulla natura del prodotto. 28 Storicamente non era la prima volta che una serie animata americana andava in onda in quella fascia oraria; sbalordirà forse sapere che prima The Flintstones (Gli Antenati), nel 1963, poi The Jetsons (I Pronipoti) l’anno seguente, furono programmati sul Secondo canale dopo le 21. Ma si trattò comunque di casi isolati. 29 Può capitare infatti che tra le notizie di cronaca l’identikit di un ragazzo/a «con problemi» preveda, oltre alle difficoltà familiari, che ami Marilyn Manson, gli anime e i videogiochi. Sulle polemiche contro i c a rto on giapponesi un resoconto complessivo è in Marco Pellitteri, Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguag -


COME SOPRAVVIVERE NELLA GIUNGLA TELEVISIVA

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I.1 Come sopravvivere nella giungla televisiva Non è il caso in questo contesto di sostenere quanto, e se, la TV sia innocua o pericolosa. Tuttavia le teorie sui mezzi di comunicazione di massa sviluppate da due studiosi cileni, Humberto Maturana e Francisco Varela,30 riescono a fotografare bene la realtà. Dopo avere individuato un intimo legame tra la comunicazione e l’origine biologica della vita, i due affermano che non esiste un elementare e immediato rapporto stimolo/risposta (un meccanismo quindi di causa/effetto) ma piuttosto che le trasformazioni avvengono solo se il soggetto è predisposto a tali cambiamenti. In altri termini sarà possibile riscontrare effetti negativi legati all’esposizione, ripetuta, a un determinato stimolo (un programma televisivo per esempio), solo nelle persone già naturalmente portate a sviluppare il comportamento, cosiddetto deviante, veicolato dal prodotto in questione. Questo, se da una parte vuol dire che l’impatto non coinvolge le masse indiscriminatamente, dall’altro evidenzia che i soggetti deboli sono potenzialmente a rischio. Aspetto che non si può certo ignorare. È anche vero, però, che l’oggetto in questione, il «cartone animato», è di per sé anomalo. Il carattere «realistico» delle immagini televisive e la familiarità dello spettatore con le convenzioni del medium danno spesso l’impressione che la TV sia una sorta di «specchio», di «finestra sul mondo», cioè un dispositivo «neutro» in presa diretta con il reale. Invece quello della televisione è un vero e proprio linguaggio, che non riflette la realtà ma la «ri-crea», e che produce significati appoggiandosi a sistemi di regole.31

Fra i prodotti televisivi, però, il cartoon può essere considerato il meno «realistico», in quanto ciò che si vede non esiste ma deve essere gi della Goldrake-generation (I ed. Roma, Castelvecchi, 1999), II ed. riv. e ampl. Roma, King|Saggi, 2002, cfr. anche Loredana Lipperini, Generazione Pokémon. I bambini e l’invasione planetaria dei nuovi «giocat toli di ru o l o »,Roma, Castelvecchi, 2000. 30 Cfr. Humberto Maturana – Francisco Varela, El Árbol del Conocimiento. Las bases biológicas del entendimiento humano, Santiago, Editorial Universitaria, 1985 (trad. it. L'albero della conoscenza. Un nuovo meccanismo per spiegare le radici biologiche della conoscenza umana, Milano, Bompiani, 1992). 31 Francesco Casetti – Federico di Chio, Analisi della televisione, Milano, Bompiani, 1998, pp. 219-20.


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creato, disegnato. La costruzione, e successiva decodifica, di un prodotto d’animazione, richiede un’astrazione dalla realtà e la condivisione, da parte dell’autore e del fruitore, di un vero e proprio codice. Ma, se il car toon ha uno specifico linguaggio e al tempo stesso è costretto a adeguarsi anche a quello del medium per il quale viene creato, in realtà è come se avesse un d o p p i o codice, un doppio linguaggio. Non si può che giungere alla conclusione che un disegno animato televisivo è totalmente irreale, insomma una pura finzione. Ogni testo definisce i suoi significati in rapporto al contesto attraverso un processo collettivo di costruzione del senso […].[…] il significato del testo nasce da un confronto tra il testo e il suo destinatario: un confronto che porta a una vera e propria negoziazione del senso. […] Il fruitore interpreta [infatti] il messaggio «processandolo» attraverso i suoi schemi mentali32 [definibili anche come brainframes33]. […] ma affinché la significazione si attivi, è necessario che qualcosa assicuri la corrispondenza tra significanti e significati, allo scopo di formare un repertorio e fissare regole comuni tra mittente e destinatario. [Questo processo però] non è naturale ma culturale: infatti il legame tra significante e significato è arbitrario […]. Per questo motivo guardare la TV, se pure non richiede alfabetizzazione, richiede comunque apprendimento e competenza: lo spettatore deve imparare le regole del mondo che la televisione rappresenta e le regole del modo in cui lo rappresenta.34

Se, come si affermava su, la televisione (così come tutti gli altri media) non riflette la realtà ma per così dire la filtra, la interpreta, la «ricrea», è necessario che lo spettatore sia a conoscenza delle regole attraverso le quali ciò si attua, dato che maggiore sarà la sua competenza, minore sarà la sua fiducia incondizionata rispetto ai messaggi che gli vengono proposti. Questo è vero per tutti i programmi che prevedono la presenza di persone in carne e ossa; nel c a rt o o n, l’implicito carattere di I v i, pp. 255-59. Cfr. al proposito Derrick De Kerckhove, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato (ed. or. Brainframes. Technology, Mind and Business, Utrecht, Bosch & Keuning, 1991), Bologna, Baskerville, 1993. 34 F. Casetti – F. di Chio, op. cit., pp. 221-23. 32

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irrealtà35 costringe immediatamente lo spettatore alla «sospensione del dubbio», all’abbandono della ricerca di una qualsivoglia plausibilità in quanto «in un cartone animato tutto è possibile», anzi la regola basilare è proprio lo stravolgimento di qualsiasi «legge umana».36 D’altronde, se si presume che uno spettatore adulto, o comunque al di sopra dei dodici anni (potenzialmente interessato ai prodotti di animazione), possa essere considerato «competente» in materia, e quindi meno esposto ai pericolosi processi di immedesimazione ed emulazione, il problema sorge con i più piccini, non ancora perfettamente in grado di distinguere la realtà dalla finzione. Si converrà tuttavia nel ritenere che tra un prodotto di animazione, come già detto doppiamente irreale, e un film o telefilm dal vero, è senza dubbio il secondo tipo a presentare per un bambino più problemi di discernimento. Una recente ricerca Eurispes/Telefono Azzurro37 dimostra per esempio che le immagini televisive violente che impressionano di più i bambini sono quelle presenti in film, telefilm e telegiornali, soprattutto se il fatto di cronaca coinvolge un minore. Nessun riferimento quindi all’animazione. Tuttavia, è utile fornire alcune piccole indicazioni legate alla fruizione televisiva italiana degli anime (molte considerazioni possono essere estese però all’animazione in generale), dato che i minori restano comunque i più esposti ai «pericoli» della TV e inoltre è ancora troppo diffusa la convinzione che l’animazione sia un prodotto solo per bambini. D’altra parte è vero che i bimbi sono istintivamente attratti più da un cartoon che da un prodotto live action e che non è sempre facile, per uno spettatore «ingenuo», riconoscere le serie meno adatte ai più piccoli a una prima occhiata. Appurato che in base alla fascia di pubblico varia la complessità narrativa e linguistica di un anime, in che modo è possibile individuare il pubblico di riferimento, senza dover visionare per intero una serie o 35 Legato al proprio linguaggio, dunque alla forma in cui si presenta, e a quello del medium a cui si appoggia. 36 Dodicesima regola ideata da Walt Disney e dai suoi collaboratori, quella della exaggeration, e principio fondante del modo di fare animazione di Tex Avery. Cfr. Luca Raffaelli, Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoon da Disney ai Giapponesi, Roma, Castelvecchi, 1994. 37 Terzo rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza elaborato da Eurispes e Telefono Azzurro, del 2002. Ben descritto nell’articolo di Emanuele Imperiali su Il Mattino il 14.11.2002, «I giovani? Peter Pan con le chiavi di casa», dove tuttavia si coglie l’occasione per un attacco – fuori luogo – non troppo bene informato ai disegni animati.


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effettuare delle accurate ricerche? Un criterio di massima, suscettibile di imprecisioni ma comunque piuttosto efficace, per individuare agevolmente la fascia di pubblico di una serie consiste nel confronto con l’età dei protagonisti. Seppure non sia possibile sostenere l’esistenza di una perfetta corrispondenza fra l’età dei personaggi principali e quella del loro pubblico, è facile constatare che, soprattutto nel caso delle produzioni seriali televisive, la necessità di fidelizzare lo spettatore, creando i presupposti per un’istintiva immedesimazione, abbia portato e porti tuttora i produttori a effettuare scelte di questo tipo. In altri termini è molto probabile che un cartoon i cui protagonisti sono in età prescolare non nasca per gli adolescenti, e viceversa. È anche vero però che sui bambini in generale gioca molto un fattore aspirazionale, per cui è naturale che essi siano attratti da serie i cui personaggi abbiano qualche anno in più, a patto che le loro avventure, o le problematiche affrontate, siano in qualche modo condivisibili. La fascia di pubblico compresa tra i sei e i dodici anni è la più complessa e delicata in quanto, pur essendoci inevitabili differenze, tanto negli interessi quanto nella sensibilità e maturità, v’è comunque una contiguità. È plausibile quindi che una serie che analizza la fase di passaggio dall’infanzia alla pubertà sia perfetta anche per i più piccoli, soprattutto se si considera che raggiunti i dodici anni i ragazzini molto spesso smettono, temporaneamente, di vedere i prodotti d’animazione ritenendoli «cose da bambini». Quanto affermato finora potrebbe sembrare in contraddizione con l’incredibile successo che invece a n i m e come L u p i n III, L a d y Oscar o lo stesso Atlas UFO Robot hanno avuto negli anni Ottanta proprio tra i bambini italiani, piuttosto che tra gli adolescenti di allora, originario target di riferimento in Giappone. È necessario precisare che il criterio sopra illustrato può rappresentare un ausilio nell’individuare gli obiettivi produttivi, e talvolta di programmazione, al solo scopo di proteggere i più piccoli dalla visione di storie più complesse (dalle quali non è detto che non siano attratti) in quanto destinate a spettatori di età maggiore. Un’ulteriore precisazione è d’obbligo. Se applicato, per così dire, alla lettera, questo metodo selettivo porterebbe a ritenere le serie su citate adatte esclusivamente a un pubblico prossimo ai trent’anni, mentre si rivolgono senza dubbio anche agli adolescenti. L’approccio più corretto


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è invece quello di avvalersene solo come indicazione di un ordine di grandezza, per cui in linea di massima maggiore è l’età dei protagonisti meno le serie sono adatte ai bambini piccoli. Un secondo aiuto per capire a quale platea ciascun c a rt o o n si rivolge, a condizione che le emittenti televisive effettuino scelte consapevoli, può essere rappresentato dalle fasce orarie in cui i programmi d’animazione vanno in onda. Da diversi anni, dapprima con effetti blandi ma più recentemente con risultati tangibili, esiste un Codice di autoregolamen tazione TV e minori e un relativo Comitato di applicazione38 che hanno come finalità quella di indicare dei principi generali che guidino le emittenti televisive a limitare le scene e i messaggi volgari, violenti o di natura sessuale in tutti i programmi televisivi (da quelli di informazione alle fiction, dai varietà agli spot pubblicitari) e a far rispettare un insieme di norme che regolamentano la programmazione televisiva divisa in specifiche fasce orarie, violate le quali vengono avviati procedimenti sanzionatori. Le tre fasce orarie in oggetto sono quella definita «per tutti», che va dalle 7 alle 22,30, in cui è previsto un controllo generale sui contenuti e l’utilizzo di segnalazioni iconografiche, in sovrimpressione, che indichino la maggiore o minore adeguatezza dei programmi al pubblico dei minorenni; all’interno di questa vi è la fascia «protetta», dalle 16 alle 19, quella destinata ai bambini e in cui pertanto è richiesta la messa in onda di programmi consoni al pubblico di riferimento; e infine quella dalle 22,30 in poi, in cui viene riconosciuta una maggiore libertà alle emittenti. Il C o d i c e, che aveva tutte le premesse per rappresentare un valido strumento, tanto per le emittenti televisive quanto per gli spettatori, in realtà presenta, almeno sul fronte animazione, una rilevante lacuna: non viene fatto, per l’appunto, alcun riferimento all’animazione.39 Pertanto, se i principi generali vengono comunque seguiti dai responsabili della programmazione, soprattutto nella fascia protetta ci si deve affidare più alla loro sensibilità che a una normativa specifica. 38 Il 29 novembre 2002 è stato firmato da tutte le emittenti televisive italiane il suddetto C o d i c e, diventato attivo a partire dal 28 gennaio 2003, data in cui si è insediato il Comitato, presieduto da Emilio Rossi. Per la lettura del Codice si rimanda al sito www.urpcomunicazioni.it. 39 Ho affrontato più diffusamente l’argomento nell’articolo «Animazione in TV e minori: norma, problemi, polemiche», eMotion, n. 9, aprile-maggio 2004.


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La seguente indicazione risulterà forse ovvia, eppure è solo da una decina d’anni che la programmazione televisiva segue con rigore quella che può essere individuata come la linea editoriale del canale. Ogni rete ha infatti una propria identità che viene costruita nel tempo e che stabilisce una sorta di tacito patto di fiducia con gli spettatori, che nutrono quindi aspettative precise da ciascuna emittente. Italia 1, RAI Due e MTV, con le dovute e profonde differenze, sono i canali con la maggior quantità di programmi per ragazzi, ivi inclusi i prodotti d’animazione. RAI Uno, Canale 5 e La7 (per non parlare di Rete 4) ormai non dedicano più spazio all’animazione, se non molto raramente e nel caso di lungometraggi cinematografici trasmessi durante i periodi festivi. RAI Tre, già da diversi anni, si è specializzata invece nella programmazione per i bambini in età prescolare. La consueta programmazione di animazione settimanale è così ripartita: la fascia mattutina che, sia per la RAI che per Mediaset, va dalle 7 alle 9 è rivolta nella prima ora ai bambini in età scolare, seguita poi da cartoon adatti ai più piccoli; la fascia dell’ora di pranzo, dalle 13 alle 15, su Italia 1 è dedicata (a differenza di quanto avveniva negli anni Ottanta e nei primi Novanta) a un pubblico che va dagli adolescenti ai ragazzi in età postadolescenziale, mentre su RAI Tre ai bimbi in età prescolare; il cuore del pomeriggio, che corrisponde alla fascia protetta, sia su Italia 1 che su RAI Due è diretto a spettatori in età compresa tra i sei e i tredici anni al massimo. Da molti anni è scomparso sulle reti Mediaset il consueto appuntamento serale, mentre RAI Due propone cortometraggi classici americani, puntando così su tutta la famiglia. La programmazione in prime time di MTV (anche nella replica del day time) invece si rivolge espressamente al suo core targ e t, i ragazzi di età compresa tra i quindici e i venticinque anni. A fine settimana la programmazione e il relativo pubblico risultano più omogenei: sia Italia 1 che RAI Due e di recente anche RAI Tre si rivolgono con strategie diverse, sia per quanto riguarda il tipo di cartoon che le fasce orarie coperte, primariamente alle famiglie. Quanto detto finora si basa sull’assunto che anche se la TV ha delle responsabilità nei confronti del suo pubblico, e in particolare rispetto ai minori, spetta sicuramente ai rappresentanti della categoria degli educatori (genitori, docenti) svolgere un ruolo di filtro e supporto nella fruizio-


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ne televisiva.40 Infatti, indipendentemente dalle precauzioni che possono essere prese in fase di programmazione, non va mai dimenticato che proporzionalmente alla complessità del programma e all’età del pubblico (di minorenni) aumenta la necessità di una visione assistita, di un confronto e aiuto, ovviamente da parte degli adulti, nella decodifica dei messaggi veicolati, verbalmente o visivamente, nel corso della narrazione.

I.2 Considerazioni sul piano stilistico Se in estrema sintesi si dovesse indicare l’aspetto più rappresentativo degli a n i m e, si potrebbe individuare il frequente ricorso al d r a m m a, inteso in una duplice accezione. Una positiva, quando cioè gli eventi narrati vengono drammatizzati, e una negativa, quando sono invece sdrammatizzati. Tale approccio narrativo, in entrambi i casi, si contraddistingue soprattutto per la profonda intensità delle emozioni evocate e dunque per il forte e totale coinvolgimento, in una parola il pathos, che genera in chi vi partecipa come spettatore. Gli animatori giapponesi, soprattutto quelli impegnati nelle produzioni televisive (dunque con budget minimi a disposizione), per poter suscitare questo stato d’animo, non potendosi avvalere di una sofisticata, spettacolare e articolata animazione, tipica delle produzioni cinematografiche, hanno dovuto inventare un proprio stile. Alla centralità della storia, spesso legata alla vita di tutti i giorni, e dell’intreccio narrativo, interrotto sapientemente proprio nel momento culminante, viene così affiancata una ricercatissima regia, ispirata a quella del cinema dal vero, che si potrebbe definire emotiva. Tale affermazione si basa sull’osservazione delle scelte stilistiche adottate più frequentemente: lunghe panoramiche di luoghi desolati, lente zoomate sui volti dei personaggi durante

40 Per facilitare tale compito sarebbe senz’altro auspicabile che venissero istituiti dei corsi di m e d i a education in modo da consentire il rafforzamento delle capacità critiche del bambino e dell’adolescente rispetto ai messaggi veicolati da tutti i media, primo fra tutti la televisione. L’on. Alfredo Meocci, commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e relatore del progetto speciale sulla tutela dei minori, ne è uno dei maggiori promotori in Italia.


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le loro sofferte riflessioni, ritmi incalzanti del montaggio e delle musiche di sottofondo nei momenti di tensione o pericolo, dilatazione temporale. La presunta «pericolosità» di tali cartoon consiste forse più nella straordinaria capacità di creare un intimo legame con i personaggi e una sincera partecipazione alle loro vicende, dunque una facile immedesimazione, che nella presenza di messaggi realmente diseducativi.41 Non va dimenticato, poi, che i toni drammatici generalmente si smorzano nel caso delle serie rivolte ai più piccini e soprattutto che esiste una vastissima fetta di produzioni che, attraverso una demenziale e dissacrante rappresentazione della realtà, tende invece a sdrammatizzare in modo grottesco i problemi e le difficoltà della vita. Per quanto riguarda le produzioni televisive americane, il loro comune denominatore è rappresentato dalla scelta di ricorrere ai toni allegri, leggeri e disimpegnati tipici delle commedie, che implicano l’assenza di tematiche che possano turbare anche minimamente il pubblico, risultando quindi pienamente accettati dall’opinione pubblica. D’altra parte, però, proprio questo aspetto determina un coinvolgimento inevitabilmente inferiore (non v’è infatti alcun pathos) e dunque una minore affezione. Ovviamente a esse va riconosciuto, soprattutto se ci si riferisce ai grandi classici, l’indiscutibile e impareggiabile capacità di provocare una sincera ilarità e un momento di aggregazione tra gli spettatori di tutte le età. Un discorso a parte meritano poi le recenti produzioni statunitensi rivolte a un pubblico più adulto, dove la commedia si trasforma in cinica e parodistica satira della società attuale, suscitando pertanto amare risate. Vale la pena infine di riallacciarsi a un discorso accennato in precedenza: la percezione – negativa – che in Italia si ebbe, e si ha, dell’animazione nipponica. Senza addentrarsi nelle analisi che verranno affrontate in modo completo ed esaustivo nei Capitoli successivi e soprattutto senza entrare nel merito dei gusti personali e della valutazione dei diver41 Mi sia consentito, almeno in nota, un piccolo richiamo alla mia esperienza personale. Ricordo di aver pensato più volte, da bambina, d’essere stata adottata, influenzata senza dubbio dalle vicende di un gran numero dei protagonisti degli anime (ispirati peraltro molto spesso ai classici della letteratura europea, cfr. il Capitolo IV), ma al contempo d’essere sempre stata colpita dall’elevato insieme di valori e principi positivi proposti, riguardanti soprattutto la forte carica e spinta a non perdere mai la speranza, ad apprezzare le piccole cose della vita, a credere nelle proprie forze e a lottare per un ideale.


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si canoni estetici che due culture diverse necessariamente comportano, va posta l’attenzione su alcuni interrogativi (volutamente retorici) nati dal confronto con le produzioni americane, troppo spesso accettate acriticamente, e dai tanti luoghi comuni che ruotano attorno al fenomeno dell’animazione giapponese.42 Nel definire gli anime «brutti», a quali parametri si fa riferimento? I classici americani destinati originariamente al cinema come B i a n c a n e v e e i Sette Nani o Bugs Bunny sono in genere paragonati a serie televisive nipponiche come L’ape Maia o Atlas UFO R o b o t. Perché non si r o v esciano mai i termini di paragone, per esempio confrontando un bel lungometraggio cinematografico giapponese, come Kiki’s Delivery Serv i c e di Hayao Miyazaki, con una serie televisiva statunitense, come Scooby D o o? Risulterebbe altrettanto equo un parallelo tra produzioni live action per il cinema come Psycho o The Ring e serial televisivi come L’ispettore Derr i c k o Buffy l’ammazzavampiri? E poi, nella valutazione ci si riferisce ai contenuti, allo stile grafico, alla qualità dell’animazione, ai modelli di comportamento, ai messaggi veicolati? si può affermare con assoluta serenità che l’animazione e il disegno dei personaggi di una serie americana come The Flintstones siano superiori a quelli del cartoon giapponese Conan, il ragazzo del futuro? cos’è potenzialmente più destabilizzante per un bambino, fra il sapere che Paperino parla, non ha genitori né fratelli, però tre nipotini, e vive serenamente, oppure che Heidi non ha i genitori, ma un nonno che l’adora, e che malgrado le difficoltà che la vita le riserva ha un animo gentile e un’allegria contagiosa? Perché non scandalizza tanto che Biancaneve e Cenerentola siano orfane, eppure se questa condizione è presente nell’animazione giapponese ha invece una valenza negativa? Quale messaggio può creare più confusione fra Wile Coyote che, schiacciato da un masso, travolto da un auto, precipitato in un burrone si rialza indenne, e Rubber (dalla serie giapponese One Piece – 42 Sul tema dell’animazione giapponese a confronto con le scuole del cartoon americano cfr. L. Raffaelli, op. cit.; su una trattazione complessiva sugli anime e sulla loro vicenda italiana cfr. M. Pellitteri, op. cit.


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A l l ’ a rrembaggio) che, dopo aver affrontato i nemici più agguerriti, non riporta alcun segno, ma solo perché da piccolo ha ingerito un frutto magico che lo ha reso di gomma? La morte della mamma di Georgie (protagonista di Lady Georg i e) all’inizio della serie è forse più agghiacciante di quella della mamma di Bambi? Le angherie subite remissivamente da Cenerentola sono forse più giustificabili di quelle che vengono inflitte a Candy? L’infinità di merchandising associato alla giapponese Magica Doremì è davvero così diverso da quello delle italiane Winx? È davvero credibile che i giapponesi si avvalessero di avanzatissime tecnologie, come i tanto decantati, ma inesistenti computer, già a partire dagli anni Sessanta, mantenendo un prezzo di mercato tanto basso da consentire a tutte le emittenti italiane un gran numero di anime in onda, se in realtà tali tecnologie solo nell’ultimo decennio sono diventate di uso comune tanto da poter realmente ridurre i tempi di lavorazione e abbattere i costi? E, infine, un cartoon americano composto da tanti episodi autoconclusivi in cui non v’è nessuno sviluppo narrativo e dove i personaggi restano per decenni in un presente atemporale è preferibile a un anime s t r u tturato invece in altrettante puntate ma concatenate, in cui è possibile seguire una storia, fatta di cambiamenti, crescita fisica e mentale dei protagonisti, e che alla fine volge a una conclusione, quasi sempre lieta?


UNO SGUARDO SULLA PROGRAMMAZIONE DEGLI ANIME IN GIAPPONE

Uno sguardo sulla programmazione degli anime in Giappone Da un confronto con Akihiro Tsuchiya1 di Roberta Ponticiello In questo piccolo approfondimento viene descritto a grandi linee il sistema televisivo giapponese e il suo rapporto con i disegni animati, per rendere conto delle differenze e somiglianze rispetto al sistema televisivo italiano, di cui s’è riferito sommariamente nel corso del Capitolo. Il panorama televisivo giapponese prevede un’ampia scelta di reti con diffusione locale e sette emittenti terrestri capaci di coprire quasi tutto il territorio nazionale; a queste si aggiungono circa 140 canali satellitari. Tra le reti nazionali due sono statali, NHK (Nihon Hoso Kyôkai) 1 e 2; e NTV (Nippon Television Group), TBS (Tôkyô Broadcasting Service), Fuji TV, TV Asahi e TV Tôkyô sono private.2 Se si considera che la costruzione del palinsesto si modella sulle abitudini di consumo degli spettatori, che a loro volta dipendono dallo stile di vita imposto dalla società, risulterà chiara la presenza della maggior parte delle novità televisive nei mesi primaverili, quelli in cui in Giappone ha inizio l’anno scolastico e lavorativo. Seguono poi per importanza l’autunno e in generale i periodi festivi (Natale e Capodanno, la g o l den week all’inizio di maggio e la fine delle vacanze estive, nelle ultime settimane di luglio). Il prime time, sui canali terrestri, va 1 Akihiro Tsuchiya è stato nel triennio 2000-2003 Senior programmer di MTV Japan. Attualmente vive a Londra, dove ha frequentato un master in Media & Communications Regulation and Policy presso la London School of Economics. Questo breve approfondimento sulla televisione giapponese è frutto di alcune conversazioni private e di scambi di notizie e informazioni con lui. 2 È opportuno precisare che molti di questi possiedono delle sottoemittenti locali: NTV Group conta 27 sottocanali, TBS Group ne ha 28, Fuji TV Group ne possiede 26, TV Asahi Group ne annovera 24 e TV Tôkyô ne ha 6.

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dalle 19 alle 23; il cuore di questa fascia, dalle 20 alle 22, viene definito golden time. Sulle emittenti satellitari tutto slitta di qualche ora, per cui il prime time corrisponde alle 21-24 e il golden time alle 22-23. Passando alla programmazione per ragazzi innanzitutto bisogna sottolineare che tradizionalmente in Giappone è previsto un appuntamento settimanale con ciascuna serie, piuttosto che la «striscia» quotidiana cui siamo abituati in Italia. Tra i canali terrestri prima indicati i più seguiti dai bambini sono TV Tôkyô e Fuji TV, oltre alle TV di stato, mentre tra i satellitari Animax, Cartoon Network, Disney Channel, Kids Station e Nickelodeon, che trasmettono animazione (e in generale spettacoli per bambini) 24 ore su 24. I programmi rivolti agli spettatori più piccoli occupano, sui canali terrestri, prevalentemente la fascia mattutina, che durante la settimana va dalle 7 alle 9 e nel weekend dalle 9 alle 11. Sulla TV di stato le produzioni in onda non si differenziano molto da Sesame Street o i Teletubbies, i canali commerciali prevedono invece serie animate come P o k é m o n. Il primo pomeriggio è dedicato ai bambini in età prescolare, dato che quelli più grandi rincasano da scuola, o comunque dalle varie attività collaterali, solo verso sera. A partire delle 18 inizia così il cosiddetto prime time dei ragazzi, fascia oraria che non supera quasi mai le 20, durante la quale vanno in onda le serie più commerciali rivolte anche agli adolescenti, tratte dai manga di successo. Gli anime più sofisticati e/o cruenti, destinati a un pubblico dai sedici anni in su, non occupano il prime time ma vengono trasmessi a notte fonda, verso le 2, spingendo la maggior parte dei ragazzi interessati a registrarli piuttosto che a guardarli all’ora di messa in onda. Possono invece essere considerate serie evergre en in Giappone cartoon come Doraemon e soprattutto Sazae-s a n, inedito in Italia. Trasmessi da oltre vent’anni da Fuji TV, solitamente durante il tardo pomeriggio delle domeniche estive, otten-



UNO SGUARDO SULLA PROGRAMMAZIONE DEGLI ANIME IN GIAPPONE

gono costantemente altissimi risultati d’ascolto, un po’ come avviene in Italia con H e i d i, Lady Oscar e Lupin III. È interessante notare che proprio questi a n i m e, fatta eccezione solo per i film di Lupin III, in Giappone invece non hanno alcuna attrattiva sui bambini e incontrano poco anche il favore degli spettatori più grandi; non a caso da anni non sono più presenti nei palinsesti locali. Una serie che invece sembra riuscire a eguagliare in Giappone, ma in realtà anche in Italia, i risultati dei grandi classici, è Detective Conan (Meitantei Konan). Afferma infine Tsuchiya: «In ogni modo, ma è solo una mia teoria, penso che molti bambini in Giappone preferiscano leggere i m a n g a, piuttosto che vederne la versione animata in TV, perché gran parte del loro tempo libero lo trascorrono a scuola nelle pause tra le varie lezioni. I manga non solo possono essere facilmente scambiati tra amici ma possono essere letti ovunque e in qualunque momento. Lo stesso discorso vale anche per i giovani adulti, di età compresa tra i diciotto e i venticinque anni, che leggono sicuramente molti m a n g a, forse anche più dei bambini». Chissà se l'incessante sviluppo e diffusione di dispositivi elettronici portatili, in grado quindi di consentire il consumo di opere audiovisive (ivi inclusi gli a n i m e) in qualunque luogo non soppianterà nel giro di pochi anni il prolifico e affermato mercato dei manga anche in Giappone.

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