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Gianna Marrone
Il fumetto fra pedagogia e racconto Manuale di didattica dei comics a scuola e in biblioteca Prefazione di Marco Pellitteri
Lapilli. Culture 5
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Questo testo è l’edizione completa, riveduta e aggiornata del libro Leggere a fumetti, Roma, Seam, 1996 I edizione: dicembre 2005 II edizione: settembre 2009 Copyright © Tunué Srl Via Bramante 32 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.
ISBN 88-89613-02-5 ISBN-13 GS1 978-88-89613-02-3 Progetto grafico e copertina: Daniele Inchingoli © Tunué Stampa e legatura: Andersen Pubblicità e Marketing Via Brughera IV 28010 Frazione Piano Rosa – Boca (NO)
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INDICE
Prefazione di Marco Pellitteri Premessa
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I – LA COMUNICAZIONE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO I.1 I linguaggi della comunicazione I.2 Il libro a stampa I.3 La letteratura per l’infanzia I.4 Ascoltare, guardare, leggere I.5 La fiaba, depositaria dell’oralità primaria I.6 La letteratura a fumetti I.7 Albi, giornalini e fumetti
7 7 10 12 16 18 26 28
II – I LUOGHI DEL FUMETTO II.1 Leggere nelle strisce II.2 I luoghi del fumetto II.3 Linee storiche II.4 Fumetti e giornalini
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III – FUMETTO E COMUNICAZIONE III.1 I codici del fumetto III.2 Il messaggio culturale III.3 I ruoli sociali III.3.1 Da 3 a 6 anni III.3.2 Da 6 a 8 anni III.3.3 Da 9 a 11 anni III.3.4 Da 12 a 14 anni III.4 Il fumetto in biblioteca
47 47 49 55 60 61 62 62 65
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III.5
Raccontare con le immagini
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IV – TRAME E STRISCE IV.1 Il fumetto va a scuola IV.2 Quali fumetti a scuola? IV.3 Il fumetto parla tre lingue IV.4 Vignetta, striscia, storia IV.5 Dentro i contorni della vignetta IV.6 Leggere per il piacere di leggere IV.7 Esprimersi con i sensi IV.8 Costruire con le mani IV.9 Animare immagini e parole
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DUE NOTE A GUISA DI CONCLUSIONE
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APPENDICE Corrierino (già Corriere dei piccoli) Dylan Dog – L’indagatore dell’incubo Il Giornalino – Il grande giornale dei ragazzi Linus – Rivista di fumetti e altro Lupo Alberto Topolino L’Uomo Ragno (Spider-Man)
121 124 126 128 129 131 132 133
Bibliografia
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Prefazione di Marco Pellitteri
Il mondo accademico è piuttosto strano. La riforma dell’università vi sta aggiungendo altre anomalie, analogamente a quanto è già avvenuto per quelle toccate alla scuola. Ma l’università è strana già di suo. Fra le mille stranezze del mondo accademico v’è quella di procedere per quelli che dagli anni Sessanta si suole chiamare «paradigmi»: argomenti faticosamente proposti da ricercatori «pionieri» che, con fatica, salgono un’ideale china e, per insistente pressione progressiva verso l’alto, a poco a poco ricevono attenzione anche dall’establishment accademico, cambiando l’assetto dei paradigmi in vigore e creandone degli altri, che solo col senno di poi verranno percepiti come scientificamente più corretti o completi rispetto a quelli precedenti. Chi, per amore della conoscenza e con una nitida sicurezza della necessità culturale di indagare determinate tematiche, si dedica a temi di studio verso i quali le posizioni di potere dell’accademia sono magari poco ben disposte, ebbene chi svolge questo lavoro controcorrente è il più delle volte di età giovanile, agli esordi della sua eventuale carriera di ricerca; e malgrado tutto sceglie la via più difficile, non si sa se per quella che dall’esterno e forse con superficialità può essere definita «follia» o «scarso senso pratico» o invece se per quello che i più romantici potrebbero definire «fuoco sacro della scienza», «passione», «coerenza intellettuale». Forse per una mistura di tutto ciò. Sta di fatto che in molte tradizioni scientifiche chi sussurra «eppur si muove» non è detto che incontri subito il favore dell’ambiente accademico. Oggi il fumetto è ancora, in folti settori dell’università e in certo mondo educativo, uno di quegli argomenti che spesso suscitano indifferenza o ilarità. Esistono ambienti di lavoro, naturalmente, che favoriscono o almeno tollerano lo studio di temi oggi considerati ancora anticonvenzionali. Questi ambienti sono per lo più le facoltà di Scienze della
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comunicazione e alcuni settori della sociologia, della psicologia e dell’antropologia culturale, serbatoi di strategie di ricerca più aperte al nuovo e in cui sono trattate questioni altrove trascurate. Si pensi ai dipartimenti di semiologia di varie università e alla Scuola superiore di studi umanistici di Bologna, all’Osservatorio sulla comunicazione e allo IULM di Milano, al Dipartimento di sociologia e comunicazione della Sapienza di Roma, all’ateneo salernitano e ad altri che non nomino per brevità, ma che meriterebbero menzione per il fatto di avere affrontato il fumetto con competenza e sotto i più vari approcci disciplinari. Ma in altri ambienti è più difficile fare accettare la realtà evidente che il fumetto è un tema da studiare non perché solletichi l’entusiasmo di questo o quel ricercatore, ma in quanto forma d’espressione e comunicazione fra le più potenti del XX secolo, al punto che tutte le sue peculiarità e i suoi linguaggi costitutivi si sono riversati in molti altri veicoli mediatici e/o espressivi quali il cinema, il videogioco, la televisione, i telefoni cellulari, i computer domestici, l’internet, i manuali d’istruzioni, i romanzi, la pubblicità, i videoclip musicali. Pensare, nel XXI secolo, che il fumetto sia un semplice insieme di figurine per bambini poco scaltri è uno dei più colossali errori che possano riguardare la riflessione sulla comunicazione del nostro tempo. Il fumetto, come ambiente di senso complesso, è penetrato nella vita di chiunque usi i media sopra citati e dunque, che vi piaccia o no, nella vita dei vostri figli. Dal momento in cui il vostro pargolo è stato capace di maneggiare gli oggetti, che si trattasse del mouse del vostro PC o del telecomando del televisore, è stato anche in grado di prendere fra le dita l’albo a fumetti che voi, proprio voi, gli avete acquistato in edicola. All’inizio è stato Topolino e ancora il vostro batuffolo di ciccia e borotalco forse non sapeva nemmeno leggere; poi è toccato ai fumetti dei supereroi e alle loro fantasie di potenza; in seguito probabilmente vostro figlio stesso, negli anni dell’adolescenza, è passato a comprare fumetti avvincenti e spesso molto ben fatti ma dalle apparenze per voi repellenti come i manga, cioè i fumetti giapponesi; oppure se n’è allontanato, affascinato adesso dalle ragazze e dai videogiochi. Ma gli sarà impossibile, per il resto della vita, dimenticare le emozioni, i linguaggi e le strategie comunicative del fumetto, perché senza nemmeno accorgersene coscientemente (o forse sì,
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e questo è un quesito che da solo meriterebbe un libro a sé) se li ritrova nell’interfaccia grafica del telefonino o del lettore musicale MP3, nelle suggestioni dinamiche dei film d’azione hollywoodiani e nei colorati spot pubblicitari in televisione. Il fumetto insomma è comunicazione – quindi cultura, il più delle volte popolare ma di frequente anche «alta» – e parti di esso sono presenti in moltissime manifestazioni del mondo dei mass media e della narratività, che essa sia verbale o audiovisiva. E il fumetto è, nella sua fusione perfetta di disegni in sequenza, eventi, dialoghi, simboli iconici, un linguaggio estremamente duttile a fini educativi. Nel suo basarsi sull’immagine il fumetto, come Gianna Marrone opportunamente nota in questo libro, è in perfetta sintonia con la mentalità infantile, che si trova benissimo nel confrontarsi con tutto ciò che è visivo, ben più che con la parte verbale della comunicazione. C’è un vecchio e ormai introvabile libro al quale qui mi rifarò per diverse citazioni. Quel volume sembra scritto ieri e questo può dare l’idea di quanto poco sia cambiata in trent’anni la mentalità di chi gestisce la scuola, nonostante il faticoso ma frammentario ingresso negli ultimi tempi di una nuova generazione di docenti. Per esempio quando si chiama in causa la responsabilità non solo degli editori e degli intellettuali preposti a tirare le fila della diffusione e della qualificazione dei mezzi di comunicazione di massa, ma anche degli educatori, che [nella prima metà del Novecento, ma anche dopo] non capirono quanto sarebbe stato utile dentro le pareti scolastiche un discorso educativo che avesse come argomento il fumetto. [Marco Dallari – Roberto Farné, Scuola e fumetto. Proposte per l’introduzione nella scuola del linguaggio dei comics, Milano, Emme Edizioni, 1977, p. 11]
Usare il fumetto con i bambini a fini didattici e di accrescimento culturale è non solo qualcosa di auspicabile, ma forse anche di necessario. In quanto il fumetto, proprio perché presente in vario modo un po’ ovunque nel mondo dei media – anche se i più distratti proprio non vogliono avvedersene – costituisce per certi aspetti un filtro ambientale, un modello grazie al quale è possibile una più consapevole lettura degli altri media.
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PREFAZIONE Come si può vedere, siamo quindi di fronte ad una cultura iconica, che ormai ha tutta una serie di regole […] che hanno nell’immagine un loro supporto, o comunque un loro rilevantissimo aspetto, e che pure non sono mai stati elevati alla dignità di materia di studio, in quel tempio del sapere che è la scuola italiana. [Ivi, p. 40] Ora non si vuole sostenere che bisogna fare del fumetto […] una materia in più da aggiungere alla scuola per rinnovarla. Il problema si pone […] a livello di impostazione metodologica. Il fumetto […] è un linguaggio che appartiene con codici propri alla comunicazione di massa e farlo entrare di diritto nella scuola, deve voler dire soprattutto tendere attraverso la conoscenza, all’appropriazione e all’uso di un codice espressivo in più. [Ivi, p. 71]
Non solo. Il fumetto – declinato nelle sue tante storie, scritte da autori validi e seguendo una capillare segmentazione in generi, scuole grafiche, intenti poetici o di svago – è un bacino sconfinato di suggestioni narrative e di contenuti formativi sia per i bambini sia per gli adolescenti. Lo è anche per gli adulti, naturalmente, perché esiste una vastissima produzione di opere letterarie a fumetti, fra cui i graphic novel (sui ‘romanzi grafici’ cfr. Daniele Bonomo, Will Eisner. Il fumetto come arte sequenziale, Latina, Tunué, 2005), dai contenuti talmente sofisticati e consapevoli da guadagnarsi il plauso della critica letteraria «ufficiale». Ma, rispetto agli scopi del libro che state per leggere e utilizzare, fra i vari tipi di fumetto il più utile per integrare le strategie didattiche della scuola dell’obbligo è proprio quello indirizzato ai bambini. Il fumetto fra pedagogia e racconto è un manuale molto puntuale su come potere usare il fumetto con i cuccioli d’uomo che si avviano alla scoperta del mondo circostante. Un mondo che è fatto, e il processo è ormai irreversibile, di multimedialità, globalizzazione culturale, integrazione sistematica delle tecnologie e dei loro linguaggi d’uso. La scuola negli ultimi anni ha mancato molti appuntamenti con il mondo reale. Trincerata dietro a una cultura libresca oggi anacronistica – e gli stipendi invero troppo bassi o gli scarsi mezzi sono nonostante tutto scuse dietro alle quali molti insegnanti della vecchia guardia si rifugiano per non volere ammettere le proprie carenze culturali o la loro mentalità impie-
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gatizia, indirettamente frutto, in parte, di politiche culturali deleterie che sono partite e continuano a partire dai Ministeri – la scuola ha provocato uno scollamento sempre più ampio fra ciò che viene insegnato nel suo mondo fittizio e ciò che andrebbe trasmesso per attrezzare correttamente i ragazzi e i bambini alla vita al di là dei banchi. Perché il problema non è certo insegnare a un fanciullo cosa significhi la nuvoletta di una storia a fumetti, come si accenda il televisore o come funzioni il sistema operativo di un computer; il punto è insegnare loro il confronto critico con tutti questi oggetti e ambienti comunicativi che riversano sulle persone, continuamente, valanghe di messaggi; far capire loro come discriminare tra forma e contenuto e quale sia la differenza fra l’usare davvero qualcosa rispetto all’esserne usati senza rendersene conto. Questo, è ovvio, tenendo ben saldo anche l’insegnamento canonico. E ciò vale, mi pare, soprattutto rispetto alle differenze culturali e socio-economiche, quindi anche di accesso ai mass media e a un loro uso consapevole, fra le classi egemoni (in senso gramsciano) o più in generale borghesi, e quelle subalterne. Del resto la paura che la scuola ha sempre avuto dei nuovi saperi non è solo il terrore di una frattura inconciliabile fra due tipi di cultura, una canonica e istituzionalizzata e un’altra moderna, o meglio postmoderna e frutto di un forte métissage di linguaggi. Oggi mi trovo costretto – segno che le politiche culturali governative conservano ancora molti difetti endemici – a dovere ancora richiamare quanto già scritto da Dallari e Farné i quali, nel 1977, da una posizione ideologica di sapore marxiano, che oggi appare un po’ polemica ma che comunque non mi sembra inattuale, definivano tale inevitabile frattura soprattutto in senso storico-politico: la scuola […] continua a fornire […] modelli […] superati ai figli di una classe borghese, che troveranno comunque gli strumenti per avere un adeguato inserimento culturale ed una adeguata appropriazione di segni storicamente contemporanei all’interno dell’ambiente di appartenenza […]. Al proletariato invece tale fumetto [gli autori si riferivano agli albi di bassa lega a cui avevano accesso le classi popolari in quegli anni, si pensi al fumetto nero ed erotico criptofascisti, come Hessa e altri simili] offre contenuti e segni ai quali il proletariato in quanto tale è completamente impermeabile, e alla proposta dei quali
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PREFAZIONE reagisce o con un atteggiamento di rifiuto […] o con un atteggiamento di assorbimento passivo di tutta una serie di messaggi e di segni […] perché questa scuola, che, secondo la Costituzione, dovrebbe emanciparlo o quantomeno farlo partire alla pari […] non è o non vuole essere in grado di dargli gli strumenti per valutare criticamente e selezionare i messaggi che la società nella quale vive, e che non è quella di cui parla la scuola, gli propone, e che sono anche messaggi di fumetto. [Ivi, p. 17]
Ripeto, la lettura di Dallari e Farné oggi, nell’epoca anestetizzata in cui viviamo, potrebbe sembrare esasperata, ma in realtà non credo lo sia, dal momento che l’educare è un atto politico e anche sotto questo aspetto va considerato. E oggi, nonostante la buona volontà di molti insegnanti e le iniziative – frammentarie, si badi bene, ma non per colpa del corpo docente – volte a rendere la scuola più «multimediale», la situazione politica dell’educazione non pare migliorata a sufficienza. Ma resta il fatto che il fumetto può servire da strumento di discernimento. Non sarà sensuale come il videogioco, multifunzionale come il computer, roboante come il cinema e attraente come la televisione, però richiede al lettore un’attenzione critica, un’elaborazione dei suoi contenuti grafici e verbali, l’immaginazione nel ricreare il movimento là dove questo è solo suggerito, e perciò è il coacervo primigenio della più autentica multimedialità. A ciò aggiungete l’esistenza di narrazioni pedagogicamente formative, di personaggi affascinanti e della possibilità di usare tutto ciò in classe, e avrete un cocktail didattico esplosivo. Ora il presente volume, scritto qualche anno fa da una dei maggiori esperti italiani nel campo della letteratura per l’infanzia (nella prima edizione si intitolava Leggere a fumetti ed era uscito per i tipi di un altro editore), si presenta fra le vostre mani in una versione notevolmente aggiornata con il compito preciso di fornire una guida per gli insegnanti e per gli educatori in generale; quindi anche per i genitori. Cioè per tutti coloro che portano sulle spalle il grave e nobile compito di avviare alla vita le generazioni di domani. Il fumetto può fornire un valido aiuto per tutte le ragioni che qui ho anticipato rapidamente e che Gianna Marrone spiega con precisione analitica e con la professionalità di un’accademica che è stata anche insegnante della scuola dell’ob-
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bligo, e che dunque conosce nel dettaglio le dinamiche e i problemi della classe. Torno ora al tema con cui avevo aperto questa prefazione, i miei punzecchiamenti nei confronti di quella parte dell’accademia che spesso snobba lo studio del fumetto. Uno dei motivi di fondo è, mi pare, un limite strutturale di certo mondo scientifico e consiste nel tentativo, spesso perfino inconsapevole ma comunque inopportuno, di arginare nuovi filoni di ricerca, perché coloro che detengono le redini della conoscenza alle volte provano titubanza per i saperi emergenti: dunque un tipo di apprensione, rilevo en passant, che accomuna l’università e la scuola, cioè le due principali istituzioni depositarie della trasmissione della conoscenza. Il fumetto, sia per il colossale equivoco culturale di cui soffre in Italia – a partire dal suo nome, che implicitamente, dal punto di vista semantico, lo sminuisce – sia per l’oggettivo calo qualitativo che lo colpì fra gli anni Sessanta e Settanta e che lo portarono ad accogliere un retrofascismo implicito e un erotismo tutt’altro che spensierato (si pensi anche solo al memorabile servizio Fascio e fumetto curato da Umberto Eco su L’Espresso/Colore n. 13 del lontano 1971), ancora oggi non si è del tutto scrollato di dosso le sue ombre e nel settore pedagogico continua a incontrare molte resistenze, nonostante che proprio da quel fatidico 1977 da cui Dallari e Farné scrivevano si sia aperta per il fumetto una stagione straordinaria di sperimentazioni, picchi di qualità e maturazione progressiva in senso non solo grafico-artistico ma anche, e forse soprattutto, poetico e letterario. Io credo che Il fumetto fra pedagogia e racconto farà, ancora, la sua parte nel combattere la visione riduttiva e deformata che la scuola ha del fumetto. Nel passato hanno dato il loro contributo – e rimango per semplicità al solo ambito scolastico-pedagogico – ricercatori e scrittori di grande valore come Gianni Rodari nei suoi determinanti interventi su La Scuola, Problemi dell’infanzia, Rinascita; Domenico Volpi, con il suo bel libro Didattica dei fumetti (anch’esso di quel cruciale 1977 e ormai introvabile se non in qualche benemerita biblioteca) e Ermanno Detti, soprattutto con il volume Il fumetto tra cultura e scuola e la direzione della rivista Il Pepeverde, che dedica spesso ampi spazi agli studi sul fumetto. Gianna Marrone stessa dagli anni Settanta, cioè fin da ragazza
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– e mi ricollego qui al tema della coerenza intellettuale dei giovani ricercatori, anche condita di un pizzico di temerarietà – all’interno del suo lavoro di ricerca in campo letterario e pedagogico e durante la sua esperienza da insegnante scolastica ha studiato il fumetto nei suoi rapporti con l’infanzia. Non senza difficoltà. Ma i suoi sforzi nel farlo accettare come materia di ricerca accademica – e chiaramente in ambito pedagogico lo studio del fumetto è finalizzato anche al suo uso didattico – hanno dato ottimi frutti. La sua generazione di studiosi e quella appena precedente (i pionieri richiamati in apertura), e penso a nomi noti come quelli di Luigi Volpicelli, Romano Calisi, Antonio Faeti, Giulio C. Cuccolini e a pregevoli esperienze della metà degli anni Settanta come la rivista Comicscuola, hanno svolto un lavoro di sensibilizzazione che è andato per anni controcorrente rispetto a quanto si andava pubblicando nella stampa generalista. Per esempio sui quotidiani, come notò anni fa Umberto Eco, si scriveva la parola «fumetti» fra virgolette, come per pudicizia. Se oggi quegli stessi giornali divulgano curate collane di libri a fumetti come allegati prestigiosi, e se nelle università i direttori dei dipartimenti di ricerca danno ad altri giovani analisti il via libera a progetti di ricerca che interessano lo studio del fumetto nei suoi più vari aspetti – sociali, psicologici, estetici, mediologici – be’, credo che in buona parte lo dobbiamo a quegli studiosi della prima o della seconda ora, che in qualche caso hanno anche messo a rischio la loro credibilità di fronte a interlocutori piuttosto dubbiosi ma ai quali, col senno di poi, va se non altro ascritto il merito di avere dato fiducia a chi proponeva loro di studiare fumetti, figurine e giornaletti. Trento, novembre 2005
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IL FUMETTO FRA PEDAGOGIA E RACCONTO
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Premessa
Questo libro, indirizzato a insegnanti, genitori, bibliotecari, animatori culturali e studenti universitari dell’area educativa, desidera porsi come strumento di lavoro dedicato al fumetto e al suo ricco rapporto con la lettura. Il volume si concentra sulla letteratura per ragazzi, sull’educazione all’immagine, sul passaggio dall’oralità primaria alla scrittura, su alcuni dei cambiamenti più rilevanti che negli ultimi decenni hanno positivamente influito sulla comunicazione. Al centro del discorso, comunque, rimane sempre il fumetto, del quale si esaminano le potenzialità linguistiche e iconografiche e i vantaggi che, da medium versatile qual è, si rivela in grado di offrire agli insegnanti dal punto di vista didattico e ai genitori sotto il profilo educativo. Sempre che essi nei confronti del fumetto non abbiano pregiudizi. Questa forma espressiva infatti, tranne qualche rara eccezione, non è accettata a scuola, sui suoi contenuti sono stati espressi spesso giudizi negativi e si è arrivati persino a dire che allontanerebbe dalla «buona» e «sana» lettura. A parte il paradosso implicato – la fruizione di un fumetto è lettura a tutti gli effetti – è importante sottolineare che è anche lettura impegnata e impegnativa, che prevede la decodifica di almeno tre diversi linguaggi principali: immagine, parola scritta e simbologia grafica (si pensi anche solo all’onomatopea visuale), che convivono in una stessa narrazione e quindi nelle strisce disegnate che le danno vita. Quando il bambino è agli inizi dell’apprendimento della lettura la presenza dell’immagine può aiutarlo a comprendere più facilmente il messaggio scritto, e questo principio è valido sia per il libro illustrato sia per il fumetto; ma nel caso del fumetto il rapporto tra parola e immagine è molto più diretto e immediato, quindi può favorire il processo di apprendimento rendendolo meno faticoso e più piacevole.
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PREMESSA
Gli aspetti positivi del fumetto non finiscono qui. Esaminando la sua ricca tipologia e la sua articolata struttura scopriamo di avere a disposizione materiali con i quali è possibile costruire percorsi didattici, raccogliere documentazione scientifica, progettare unità di apprendimento. Come raggiungere questi obiettivi è dettagliatamente descritto nei quattro Capitoli che compongono il volume. Risultera però utile, in questa Premessa, spendere due parole su tipologia e struttura del fumetto, per definire meglio i contorni di una produzione che i profani non vogliono riconoscere come letteraria e invece letteraria è. Parlando di tipologia scopriamo che esistono diversi tipi di supporti comunicativi propri al fumetto. In particolare, la distinzione più importante in questo contesto è tra giornalino e albo a fumetti, ma se operiamo un breve excursus storico scopriamo che formati della narrazione a fumetti quali la tavola, la vignetta e la striscia hanno occupato spazi anche nei quotidiani, nelle riviste e in altri veicoli tipografici. Del resto il Corriere dei Piccoli, il primo giornalino italiano a proporre vignette e relative strisce, nacque nei primi del Novecento come supplemento domenicale del Corriere della Sera, un settimanale nel quotidiano, una lettura per i figli dei lettori adulti, un intento positivo e di grande valore culturale poiché il giornalino, sia quello di ieri sia quello di oggi, offre una varietà di rubriche, allegati, inserti, schede, che sono già di per sé didatticamente validi; il suo formato può essere variabile, da quello del quotidiano a quello della rivista, ed è comunque normalmente più grande di un albo a fumetti. Topolino per esempio, che racchiude caratteristiche sia del giornalino che dell’albo a fumetti – poiché è entrambi allo stesso tempo – è passato dal grande formato dei primi anni ai piccoli albi con un solo fumetto al formato che ancora oggi è in commercio, che contiene storie a fumetti alternate a rubriche d’informazione e di giochi. L’albo a fumetti seriale, a differenza dei precedenti tipi di pubblicazione, contiene invece una o più storie a fumetti e lascia pochissimo spazio alle rubriche, dedicate di solito solo allo spazio della posta: «tutto fumetto» quindi, ma ciò non esclude assolutamente che se ne possa fare un buon uso, specie quando i contenuti hanno un buon livello culturale e stimolano approfondimenti su argomenti trattati all’interno delle storie proposte. Ottimi esempi di fumetto culturalmente valido sono, per
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rimanere all’ambito di produzione occidentale, Martin Mystère, Julia, Elf Quest, Magico Vento, I Classici Disney; ma l’elenco potrebbe estendersi, tenendo conto che il fumetto ha una potenza fascinatoria e, in potenza, un valore narrativo analoghi a quelli della letteratura solo scritta o solo orale, anzi superiori, se si tiene conto della triplice funzione iconico-scrittoria-sonora che rimane prerogativa indiscussa di questo medium. Il fumetto fra pedagogia e racconto vuole insomma essere una guida per capire e rispettare la «letteratura disegnata», riconoscerne il valore culturale e narrativo, imparare a utilizzarla proficuamente nella scuola, in generale con i bambini e i ragazzi e, naturalmente, goderne per il piacere di leggere.
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I. La comunicazione nel tempo e nello spazio
I.1 I linguaggi della comunicazione La storia della cultura è un processo tempo-spaziale complesso e profondo, nato con l’uomo e cresciuto con esso e che, fin dalla preistoria, ha impresso i segni della sua presenza nei tempi e nei luoghi in cui si è materializzato e modificato. I graffiti rinvenuti nelle caverne preistoriche rappresentano il primo esempio di trasmissione della cultura umana, da cui si snodano le interessanti tappe evolutive che culminano nell’invenzione della stampa, momento di partenza della informazione diffusiva e di declino dell’amanuense la cui opera, pur essendo già un mezzo di diffusione e trasmissione della cultura, aveva però il difetto di essere rivolta a una élite che non poteva e non voleva coinvolgere la massa. Il grande passaggio, usando una suggestiva definizione di Fulchignoni, «dal primo universo magico dei primi riti mortuari, fino ai personaggi ombra del cinematografo» ha permesso «la dematerializzazione dell’idolo nella impalpabile fugace parvenza dell’ombra».1 Il concetto stesso di simbolismo, definito da Fulchignoni «processo psicologico incosciente, primitivo, rudimentale, che predomina nelle forme più elementari del pensiero, nell’uomo primitivo, nel bambino, nel sognatore»,2 ha assunto un carattere convenzionale che, identificandosi con particolari elementi del reale, si inserisce sotto forma di mediazione nella comunicazione orale diffusiva e multimediale della civiltà contemporanea. La stessa trasmissione orale della cultura che caratterizzava i popoli primitivi e quelli appartenenti alle civiltà più antiche è giunta sino a noi 1 2
Enrico Fulchignoni, L’immagine nell’era cosmica, Roma, Armando, 1972, p. 39. Ivi, p. 207.
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LA COMUNICAZIONE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO
non solo attraverso un messaggio esclusivamente verbale, ma anche grafico, pittorico, artistico. Né si può affermare che questo antico sistema, impiegato per tramandare usanze, tradizioni, valori culturali di singole civiltà, sia andato perduto nel passaggio verso nuovi modelli di comunicazione. Le tesi proposte negli anni Sessanta da Fulchignoni possono costituire un valido momento di riflessione: Quando tutte le forme d’espressione più caratteristiche delle differenti culture e civiltà, dai geroglifici d’Egitto ai templi Maya, dai vitraux alle cattedrali gotiche agli ipogei delle civiltà sumere e mediorientali, non erano accessibili che a qualche privilegiato, tutto il processo conoscitivo finiva per limitarsi al valore e al contenuto iconografico. Oggi invece, grazie alla possibilità di un contatto diretto o sensibile offerto dalle riproduzioni è possibile passare da questa antica forma di pedagogia concettuale a nuove prospettive di carattere più articolato e meno dogmatico. Il pubblico si moltiplica grazie alla moltiplicazione delle informazioni.3
La prima vera rivoluzione legata alla possibilità di «mantenimento» della trasmissione della cultura è però di gran lunga precedente l’invenzione della stampa, infatti, come fa notare William V. Harris nella sua elaborata ricerca sulla lettura nel mondo antico, «la scrittura possiede una dignità intrinseca, derivante dalla sua sfida contro il tempo».4 Naturalmente, nel momento in cui alla scrittura è stata offerta l’opportunità di poter utilizzare canali di diffusione più efficaci, come è avvenuto con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, la possibilità di costruire nuove strade comunicative da far percorrere alla cultura è stata ampiamente sfruttata dall’uomo per raggiungere traguardi sempre più vantaggiosi e proficui. È indiscutibile che ancora oggi venga riconosciuta all’invenzione della stampa a caratteri mobili un posto da leader, ciò che invece non appare altrettanto ovvio è il complesso di variabili che tale tecnica è 3
Ivi, p. 11. William V. Harris, Lettura e istruzione nel mondo antico (ed. or. Ancient Literacy, 1989), RomaBari, Laterza, 1991, p. 33. 4
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I LINGUAGGI DELLA COMUNICAZIONE
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stata in grado di introdurre. Infatti alla parola «stampa» viene istintivamente abbinata la parola «libro», mentre questo processo mentale snatura il significato degli effetti: fin dagli inizi l’arte tipografica si aprì versi altri prodotti che più facilmente del libro avrebbero potuto raggiungere le masse. I manifesti e i fogli volanti rappresentarono i primi esempi di una letteratura di informazione che, nel corso dei secoli successivi, continuò non solo ad affiancare il libro ma ad ampliarsi verso altre forme e altri contenuti. Dispense, giornali, lunari, riviste, giornalini per bambini e fumetti furono a pieno titolo mezzi di diffusione della stampa di informazione e di divulgazione, ma essendo rivolti al popolo furono sempre considerati letteratura «di serie B». Questo errore di valutazione ha segnato secoli di cultura e ha in molti casi anche stravolto il significato intrinseco del concetto di comunicazione, poiché sono i «contenuti» e non le «forme» che hanno sostenuto l’uomo nel suo cammino verso la conoscenza. È una certezza che i numerosi millenni che sono intercorsi tra l’uso del graffito e la nascita del fumetto e fra la tradizione di narrare oralmente riti e miti e la loro trascrizione sotto forma di fiabe, sono la nostra «storia» e i nostri «contenuti», ma quando sono stati tramandati attraverso quelle «forme» alle quali viene riconosciuto un posto secondario, in quanto appartenenti alla letteratura etichettata come «minore», hanno corso il rischio di scatenare polemiche e di essere deragliati su binari morti. La letteratura dedicata all’infanzia e la letteratura a fumetti, ma anche prodotti più recenti come i libri-gioco, il cinema d’animazione e i videogiochi, continuano a soffrire le conseguenze di questi pregiudizi che guardando alla forma, anomala rispetto al libro classico, perdono di vista il forte carisma contenuto nel messaggio che sono in grado di trasmettere, sia in termini di cultura che di comunicazione. Partendo quindi dalla storia della stampa è interessante verificare le peculiarità di queste forme letterarie, perché tali sono, e sottolinearne i valori storici e educativi altrettanto validi di quelli offerti dal «formato» libro.
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I.2 Il libro a stampa L’invenzione della stampa a caratteri mobili, realizzata da Johann Gutenberg nel XV secolo, permise all’uomo di assumere con la cultura scritta un rapporto diverso da quello che, nei secoli precedenti, solo un esiguo numero di privilegiati era stato in grado di instaurare. Le antiche forme di governo, infatti, non favorivano una diffusione ampia della conoscenza della scrittura, poiché tale politica permetteva di mantenere i cittadini all’oscuro sugli affari comuni e, ad agevolare questa situazione, contribuiva la mancanza di strumenti atti a favorire la diffusione di opere e documenti scritti. L’arte scrittoria assunse quindi caratteristiche diverse a seconda della cultura storica di riferimento; per lo scriba,5 ad esempio, era una semplice «professione», anche se prestigiosa, mentre per i monaci amanuensi era «depositaria di un sapere» che doveva essere protetto ma non diffuso. Visto con l’ottica moderna il libro a stampa può, quindi, a ragione essere definito il primo mezzo di comunicazione di massa poiché, a differenza dei tomi manoscritti, non richiede tempi lunghi e un paziente lavoro di copiatura per essere riprodotto in più copie e raggiungere strati ampi di popolazione. Mentre la preziosità e la rarità dei manoscritti si avviava a diventare un ricordo, il processo di diffusione dei volumi a stampa continuò comunque, per lungo tempo, a interessare soprattutto quei ceti della popolazione che possedevano i mezzi e la cultura per interessarsi a questo nuovo prodotto. Possedere un libro, cento libri, una biblioteca, continuò a rappresentare, nei secoli che seguirono l’invenzione di Gutenberg, un segno di prestigio più che di cultura, soprattutto perché l’accesso all’istruzione continuava a essere prerogativa di pochi privilegiati. Infatti, anche se il libro potenzialmente avrebbe potuto essere stampato in migliaia di copie, le istituzioni scolastiche non offrivano pari opportunità. Si era ancora ben lontani dall’idea di un’istruzione per tutti. Il libro, in sostanza, pur avendo acquisito le caratteristiche di un 5
Sulla professione di «scriba» cfr. Marcel Detienne, Sapere e scrittura in Grecia (ed. or. Les savoirs de l’écriture en Grèce ancienne, Lille, Presses Universitaires de Lille, 1988), Bari, Laterza, 1989, pp. 34-41.
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IL LIBRO A STAMPA
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prezioso mezzo di diffusione della cultura, non era alla portata di ciascuno: l’analfabetismo era dilagante, le classi sociali erano chiuse entro schemi rigidi che non favorivano la crescita sociale delle frange più indigenti. I confini entro cui le produzioni a stampa potevano trovare consenso rappresentavano anche il limite entro cui venivano definiti gli argomenti da trattare per essere accettati dagli editori. Lettori colti e adulti regolavano il mercato editoriale di quei tempi. Tomi massicci, legati in pelle, stampati su carta spessa e resistente, rarissime le illustrazioni. Donne e bambini non facevano parte del numero dei potenziali lettori. Per le donne non era prevista una istruzione che le potesse avvicinare al libro. I bambini, se destinati a essere istruiti, dovevano dedicarsi a letture finalizzate a prepararli al genere di vita decisa per loro. Se volevano leggere liberamente dovevano attingere dalle biblioteche di famiglia. Ma cosa trovavano i bambini in quelle biblioteche? Jean-Jacques Rousseau commenta nelle sue Confessioni le caratteristiche dei libri che erano appartenuti al nonno materno: Per fortuna ve ne erano dei buoni e non poteva essere diversamente poiché questa biblioteca era stata raccolta da un ministro, anche dotto, come era di moda in quel tempo, e uomo di gusto e di spirito. La storia della Chiesa e dell’impero, di Le Sueur, il discorso di Bossuet su La storia universale, gli Uomini illustri di Plutarco, La storia di Venezia di Nani, Le metamorfosi d’Ovidio, […]. Vi presi un interesse veramente raro ed eccezionale per la mia età. Plutarco, tra tutti, divenne la mia lettura favorita […].6
Esperienze di questo tipo erano abbastanza diffuse tra i fanciulli che prendevano amore per la lettura, poiché non potevano che attingere a biblioteche così strutturate. Ma tali letture spesso potevano rivelarsi troppo mature per una mente infantile procurando nel lettore cresciuto più rimpianti che ricordi piacevoli. Così fu infatti per Rousseau ed egli lo espresse apertamente quando nel suo trattato sull’educazione ritenne che il suo discepolo non dovesse leggere altro che il Robinson Crusoe. 6
Jean-Jacques Rousseau, Opere, a cura di Paolo Rossi, Firenze, Sansoni, 1972, in Le Confessioni, Libro I, p. 749.
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Rousseau, probabilmente, non sarebbe arrivato a scrivere «Io odio i libri; essi non insegnano che a parlare di quello che non si sa»7 se da bambino avesse potuto leggere libri più confacenti alla sua età. Infatti, sempre nell’Emilio, sottolinea l’importanza del rispetto dell’infanzia con termini quasi appassionati: Per non correre dietro a delle chimere, non dimentichiamo ciò che conviene alla nostra condizione. L’umanità ha il suo posto nell’ordine delle cose; l’infanzia ha il suo nell’ordine della vita umana: bisogna considerare l’uomo nell’uomo, e il fanciullo nel fanciullo. Assegnare a ciascuno il suo posto e fissarvelo, ordinare le passioni umane secondo la costituzione dell’uomo, è tutto quanto noi possiamo fare per il suo benessere.8
Indicando come lettura da offrire a Emilio il Robinson Crusoe, poiché in esso poteva trovare insegnamenti che coincidono con quelli della natura, Rousseau anticipa una teoria pedagogica che prenderà piede solo nel XIX secolo, cioè offrire al bambino libri scritti appositamente per lui, destinati non solo a istruirlo ma anche a divertirlo.
I.3 La letteratura per l’infanzia La volontà di creare una produzione letteraria rivolta ai ragazzi comincia a concretizzarsi nel pensiero pedagogico dell’Ottocento ma, come era prevedibile, non trova grande consenso tra i maggiori letterati del tempo poiché non esisteva tra le due correnti, pedagogica e letteraria, uniformità di pareri sui contenuti da dare a tale produzione. Il rischio di poter alterare la struttura estetico-artistica di un’opera letteraria con contenuti didascalici preoccupava non poco i letterati, purtroppo a giusta ragione, infatti i primi libri scritti per ragazzi, quelli cioè che dovevano datare la nascita di un nuovo genere, in realtà si configuravano come un sottoprodotto scadente sia nella struttura sia nei conte7 8
Ivi, p. 472. Jean-Jacques Rousseau, op. cit., in Emilio o dell’educazione, p. 384.
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LA LETTERATURA PER L’INFANZIA
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nuti, quindi non ancora idoneo a ricevere il riconoscimento ufficiale di genere letterario per i più giovani. Ciò spiega perché, ancora per decenni, la letteratura per l’infanzia continuò a essere considerata una pseudoletteratura e la produzione che ne faceva parte era esclusivamente quella definita «letture per ragazzi». Per ben intendere come questo processo si sviluppò e si affermò è utile riflettere sulla descrizione di come tale iniziativa fu avviata: Nel 1833 la Società fiorentina dell’istruzione elementare di cui facevano parte Gino Capponi, Neri Corsini, Cosimo Ridolfi e altri illustri uomini i quali, insieme al Lambruschini e al Thouar guardavano alla scuola popolare come al fulcro d’ogni rinnovamento civile e politico, bandì il concorso per un libro che servisse di lettura e d’istruzione morale per ragazzi dai sei ai dodici anni.9
Il primo concorso, senza vincitori, fu rinnovato nel 1836 e il premio fu assegnato al Giannetto di Parravicini, che i critici del tempo definirono però «opera scialba ove né vita, né storia si coloriscono mai, filastrocca di pedanti lezioni senza che un soffio d’arte e di amore susciti un carattere, una personalità, un educatore, un fanciullo vero, in tanto materiale accumulato».10 Neanche libro di lettura, quindi, ma piuttosto una piccola enciclopedia che, secondo la pedagogia del tempo, poteva accompagnare il ragazzo per mantenere vivi gli insegnamenti morali che vi venivano impartiti. Questo concetto si mantenne saldo nei suoi principi ancora per decenni ed era soprattutto alla scuola che veniva demandato il compito di assolverlo. Nella scuola popolare della prima metà dell’Ottocento e ancora nelle prime scuole comunali post-risorgimentali questi libri costituivano un mezzo per istruire, non un diletto. La letteratura per l’infanzia nacque in sostanza non nel senso in cui viene considerata normalmente la «letteratura» ma come materia di educazione; di conseguenza il contenuto dei libri che venivano scritti appositamente per i ragazzi doveva essere esclusivamente educativo. 9
Vincenzina Battistelli, La letteratura infantile moderna. Guida bibliografica, Firenze, Vallecchi, 1923, p. 9. 10 Ivi , p. 15.
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Dal momento in cui nacque e fin quasi a tutta la prima metà del XX secolo, questa letteratura continuò a essere proposta come rinforzo degli insegnamenti morali da dare al bambino. Questo stato di cose chiarisce anche la ragione per cui questi libri molto spesso venivano utilizzati come libri di lettura nelle scuole, ma proprio per questi motivi riesce molto più naturale considerarli libri di testo piuttosto che di letteratura per l’infanzia. Secondo la storia della letteratura il settore dedicato all’infanzia deve quindi essere considerato materia relativamente giovane ma, una volta affermata l’idea, anche materia a cui non si può più prescindere dall’assegnare significati e limiti entro i quali deve operare. Dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi struttura e contenuti della letteratura per l’infanzia si sono ampliati e modificati, di conseguenza gli studiosi della materia hanno dovuto fermare la loro attenzione sulla necessità di valutare seriamente quanto, di una produzione già esistente, potesse entrare a far parte di questo nuovo genere letterario dedicato esclusivamente ai ragazzi. E limitare i contenuti di questa materia esclusivamente alle produzioni tramandate dalla tradizione scritta ne avrebbe ridotto fortemente le potenzialità di sviluppo e di affermazione, tant’è vero che i soggetti narrativi che oggi si ritiene debbano essere rivolti all’infanzia derivano principalmente dalla tradizione orale e popolare. Ne consegue che, anche se ufficialmente in campo letterario non esiste una specifica letteratura per ragazzi prima del XIX secolo, i contenuti delle letture che oggi compongono la struttura complessiva della materia hanno origini molto più antiche. Infatti se includiamo, come del resto avviene, la fiaba classica nel genere, e riflettiamo sulle antiche origini che la contrassegnano, queste stesse origini debbono essere rapportate anche alla letteratura per l’infanzia. Se invece limitiamo i contenuti alle produzioni che sono nate come letture dedicate specificamente all’infanzia, potremmo realmente fissarne la data di nascita nell’Ottocento. Ma la prima ipotesi, oltre a essere molto più affascinante, perché allarga l’orizzonte di studio e di ricerca di una materia che merita di essere approfondita non solo sotto il profilo letterario ma anche e soprattutto educativo, è anche più realistica in quanto lega le sue origini a contenuti mitologici e rituali che
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LA LETTERATURA PER L’INFANZIA
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hanno accompagnato l’«infanzia del mondo» e che, quindi, a maggior ragione possono rivolgersi oggi al «mondo dell’infanzia». Non bisogna però dimenticare che la produzione letteraria che oggi viene considerata adatta ai bambini e agli adolescenti, che deriva, appunto, prevalentemente dalla mitologia classica e dal racconto popolare, fu scritta e fu rivolta per secoli a un pubblico prevalentemente adulto. Autori come Perrault o i fratelli Grimm, che oggi sono considerati scrittori per l’infanzia, nel tempo in cui scrissero le loro opere non lo fecero con l’intenzione di rivolgerle a una specifica fascia d’età. La produzione dei Grimm, per esempio, fu il risultato di ricerche e studi condotti nel loro ambiente per ricomporre materiali tratti dalle tradizioni popolari. Il loro intento fu cioè quello di non far cadere nell’oblio la storia del loro popolo così come il popolo stesso amava tramandarla oralmente. Perrault e i fratelli Grimm, e come loro molti altri scrittori che li hanno preceduti o seguiti, non pensarono affatto di scrivere per l’infanzia, anche perché, come è stato già evidenziato, durante i secoli passati l’infanzia non era oggetto di particolari attenzioni. Oggi, che il rapporto adulto-bambino si è modificato, si guarda all’infanzia come a un’età che ha il diritto di essere vissuta con le sue caratteristiche, i suoi bisogni, i suoi desideri, che sono diversi da quelli dell’età adulta. Ma finché queste riflessioni non si sono concretizzate in studi e ricerche che hanno cominciato a esaminare tali bisogni e desideri, il bambino rimaneva una potenzialità dell’adulto e non c’era ragione di dedicargli, ad esempio, un particolare settore della letteratura. Quando Comenio, nel XVII secolo, scrisse che «non vi è via più efficace per correggere la corruzione umana che una retta educazione della gioventù»11 o che «si può insegnare più facilmente ai fanciulli che agli altri, perché non sono ancora corrotti dalle cattive abitudini»,12 compì un grande passo nella storia dell’educazione, poiché riconobbe il ruolo dell’infanzia, ma soprattutto perché le riconobbe il diritto di essere condotta «senza difficoltà, senza tedio, senza grida o bastonature, quasi per divertimento o per gioco verso gli alti gradi del sapere».13 Anche i libri 11 12 13
Comenio, Grande Didattica, a cura di Anna Biggio, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 23. Ivi , p. 25. Ivi , p. 37.
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scolastici dovevano quindi diventare, secondo Comenio, piacevoli mezzi di apprendimento utilizzando accanto alla parola l’immagine, poiché la sua maggiore rappresentatività del reale poteva semplificare la comprensione delle materie di studio. Comenio affrontò una tematica nuova per i suoi tempi e l’attenzione che rivolse alla struttura del libro di testo è ancora oggi motivo di riflessione; anzi, nella seconda metà del nostro secolo, si è riscoperta l’importanza dell’immagine a livelli che sono andati oltre i limiti del rapporto con l’infanzia. Al di fuori dei libri di testo non esisteva però ancora, ai tempi del Comenio, un interesse verso una letteratura rivolta specificamente all’infanzia. Il problema in realtà si pone concretamente per la prima volta solo sul finire della prima metà dell’Ottocento ma, in verità, in maniera non proprio consona ai bisogni del bambino, poiché ci si preoccupò piuttosto di avviare una nuova produzione che fosse a un tempo didascalica e piacevole alla lettura. Ciò che ne derivò fu un tentativo pedagogico mal riuscito che mise a disposizione dei fanciulli una letteratura moraleggiante e noiosa.
I.4 Ascoltare, guardare, leggere Il contenuto di quella che oggi viene considerata la produzione da raccogliere sotto il nome di letteratura per l’infanzia attinge, quindi, le sue origini al mondo dell’oralità primaria, quando l’uomo doveva fare affidamento sulla memorabilità per poter tramandare le sue conoscenze e la sua storia. Le ricostruzioni di questa memorabilità, che le prime culture scrittorie hanno cercato di trascrivere mantenendo intatti i valori e le credenze che le civiltà precedenti avevano trasmesso oralmente, si sono concretizzate in forme letterarie che le culture più vicine a noi hanno classificato come miti, riti, leggende, racconti popolari. È comunque da queste narrazioni, caratterizzate da un connubio quasi perfetto tra realtà e fantastico – dato che quello che per noi oggi è fantastico per quelle civiltà era il reale – che prende origine la produzione favolistica e fiabesca a cui successivamente hanno a loro volta attinto autori come Perrault, Andersen, i fratelli
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ASCOLTARE, GUARDARE, LEGGERE
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Grimm, che curarono delle raccolte originariamente considerate narrazioni popolari. Nati come letteratura popolare, i generi fiabesco e favolistico sono entrati a far parte a pieno titolo di una letteratura per l’infanzia che, nel XX secolo, ha cominciato a qualificarsi con caratteristiche molto diverse da quelle che ne avevano decretato la nascita. L’ottocentesco libro didascalico già sul finire del secolo comincia a spogliarsi dei suoi pedanteschi insegnamenti per far posto a opere come il Pinocchio di Collodi e il Cuore di De Amicis le quali, pur mantenendo intenti moraleggianti, offrono al giovane lettore anche piacevoli momenti di fantasia e di avventura. La letteratura per l’infanzia da questo momento trova finalmente una sua definizione: non solo si è spogliata dell’etichetta di sottoprodotto della letteratura ma ha acquistato caratteristiche ben definite che accolgono in un unico riconoscimento i valori letterario e pedagogico. Agli scopi didascalici che la fecero nascere si sono sostituiti i principi di una pedagogia più matura che si propone di offrire all’infanzia e all’adolescenza delle letture che possano stimolare positivamente i naturali processi di sviluppo. I limiti entro cui questa letteratura è rimasta confinata per più di un secolo hanno quindi cominciato a estendersi, occupandosi non più solo delle teorie pedagogiche e psicologiche che li avevano precedentemente regolati, ma guardando con sempre maggiore attenzione agli interessi dei giovani lettori. Un maggiore rispetto per l’infanzia ha favorito anche un orientamento più rispondente alle sue preferenze e questo ha permesso a scrittori e editori di scoprire un mondo nuovo, ricco di un’arte, fatta di parole e immagini, che parla lo stesso linguaggio dell’età verso cui è rivolta. L’editoria per ragazzi, in particolare, ha dedicato un’attenzione accuratissima al potere che l’immagine ha sulle fasce di età interessate alla sua produzione, riuscendo ad ampliare il settore verso due nuove direzioni: – quella del pubblico dei non lettori, comprendente le due fasce d’età da 0 a 3 e da 3 a 6 anni, al quale vengono offerti libri-gioco, le cui caratteristiche variano nei materiali, nella forma, nella struttura, ma sono comunque sempre illustratissimi e coloratissimi; – quella del testo non-testo, cioè produzioni editoriali con caratteristi-
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che che si discostano dal libro classico, come nel caso dell’ipertesto o di libri che possono essere fruiti contemporaneamente a DVD, CD-ROM, videocassette. Il potere dell’immagine, il linguaggio più antico del mondo, che permise anche agli uomini primitivi di comunicare tra loro e con i posteri, sta riacquistando i suoi diritti in una civiltà in cui l’iconografia, le tecnologie audiovisive e l’informatica hanno permesso di estendere l’informazione senza limiti di tempo e di spazio. Uno dei capitoli più interessanti della storia della letteratura per l’infanzia potrebbe essere dedicato proprio all’illustrazione, sia perché permette al bambino di avvicinarsi al libro ancora prima di saper leggere, sia perché rende il rapporto con la lettura più piacevole e distensivo. Il bambino si avvicina con grande spontaneità a tutto ciò che è molto illustrato e molto colorato, è attratto dal movimento delle linee disegnate che permettono un dialogo comunicativo più diretto e immediato rispetto a quello offerto dalle linee statiche della parola scritta. Questo rapporto tra il bambino e l’immagine spiega anche la preferenza di bambini e adolescenti per il fumetto, infatti la sua particolare struttura rende più dinamica anche la parola scritta, poiché si muove accanto all’immagine e con l’immagine rispettando il piacere della lettura. Sebbene oggi il fumetto occupi un posto di rilievo tra i diversi tipi di lettura a cui bambini e adulti possono rivolgersi, è comunque considerato una forma e un prodotto prevalentemente commerciale e solo marginalmente interessante sotto il profilo educativo. In realtà, dato che l’utenza infantile che lo fruisce è molto ampia, dovrebbe entrare a far parte a pieno titolo della letteratura rivolta/rivolgibile (anche) all’infanzia e all’adolescenza.
I.5 La fiaba, depositaria dell’oralità primaria Quando si cerca di risalire alle origini della fiaba si entra immancabilmente in un’area di ricerca antica e complessa. Settori di studio che hanno una loro consistenza solida e concreta diventano terreni di indagine a cui occorre necessariamente fare riferimento per trovare risposte
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LA FIABA, DEPOSITARIA DELL’ORALITÀ PRIMARIA
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documentabili sul passato di un genere che, in tempi moderni, è entrato a far parte della letteratura pedagogica. Mito, rito, folklore, tradizioni popolari, fabulae diventano altrettanti settori di ricerca nei quali si rende necessario immergersi per indagare tra i percorsi che la fiaba ha seguito per diventare quella che noi oggi conosciamo. Quale, quindi, il contesto di più immediato incontro con la fiaba? La storia o la tradizione? Ponendo la «storia» sul piano della ricostruzione documentata di eventi che hanno determinato mutamenti, sconvolgimenti, o comunque tappe ben definite nel cammino dell’uomo, e la «tradizione» sul piano delle modalità con cui l’uomo ha di volta in volta impostato la propria vita di relazione, si intuisce che nella stessa misura in cui le tradizioni influiscono nel determinarsi dei fatti storici, questi a loro volta possono incidere fortemente sul modificarsi delle tradizioni. Nonostante ciò i resoconti storici, o più semplicemente quella che noi comunemente chiamiamo «storia», assume un carattere documentario con caratteristiche oggettive, con lo scopo di escludere dalla descrizione degli avvenimenti ogni possibile intervento interpretativo, al fine di non alterare, inquinandola con opinioni, giudizi o pregiudizi, la realtà dei fatti. Il pathos che caratterizza l’essenza di una tradizione potrebbe quindi alterare l’oggettività storica se ne entrasse a far parte, arricchendola di tutte quelle presenze che fioriscono dalle usanze e conferiscono a un determinato aggregato sociale quelle specifiche tipologie che lo differenziano da tutti gli altri. Quelli che noi comunemente chiamiamo usi e costumi di un popolo rappresentano l’insieme di norme che tale popolo si è dato nel corso degli anni per individuare regole di convivenza comune finalizzate al rispetto del singolo e del gruppo. Il consolidarsi di tali regole dal piano sociale si allarga a quello culturale e educativo, fornendo un quadro generale di riferimento all’interno del quale ciascuna popolazione trova una sua collocazione di tradizione e di storia. In altre parole, la tradizione segna il passo dei tempi e rende tangibili gli effetti che i mutamenti sociali producono sui comportamenti e più in generale sui costumi dei popoli. E sebbene lo studio delle tradizioni non coincida totalmente con lo studio degli avvenimenti storici, siamo comunque di fronte a due facce della stessa medaglia.
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La fiaba, nel collocarsi all’interno di questo cammino della storia con la sua duplice componente fantastica e reale, offre una rielaborazione di quelle tradizioni che l’uomo ha mantenuto più saldamente e più a lungo, poiché legate alle leggi naturali della sopravvivenza e della conservazione, alla vita di aggregazione, alla ricerca di un elemento forte a cui fare riferimento (capogruppo), alla necessità di «deificare» gli elementi misteriosi (eroi, dèi, pratiche religiose ecc.). Ci si potrebbe chiedere quale necessità abbia ormai l’uomo moderno, tanto più ricco per scienza e tecnologia, di ricorrere all’elemento fantastico con cui la fiaba ripropone le primordiali tappe della civiltà. La risposta è contemporaneamente dentro e fuori di noi. Dentro di noi perché, come direbbe Bettelheim, Certe fiabe e storie popolari si evolsero dai miti; altre s’incorporarono in essi. Entrambe le forme racchiusero l’esperienza globale di una società, perché gli uomini vollero ricordare la saggezza degli antichi a proprio beneficio e trasmetterla alle future generazioni. Queste storie offrono profonde intuizioni che hanno sostenuto l’umanità attraverso le lunghe vicissitudini della sua esistenza: un retaggio che non è rivelato in nessun’altra forma in un modo così semplice e diretto, o così accessibile ai bambini.14
Ma anche fuori di noi, poiché nella nostra vita di relazione siamo comunque dominati dal sentimento oltre che dalla ragione, e viviamo il nostro rapporto con l’esterno attraversando continuamente uno specchio simile a quello di Alice15 che ci trasporta dalla realtà alla fantasia e da questa a quella. Nell’uomo, e ancor di più nel bambino, permane ancora oggi molto forte il bisogno di trovare risposte al mistero della propria esistenza e all’incapacità di controllare alcune profonde angosce interiori dominate 14 Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (ed. or. The Uses of Enchantement. The Meaning and Importance of Fairy Tales, New York, Alfred A. Knopf, 1976), Milano, Feltrinelli, 1977, p. 30. 15 Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio di Lewis Carroll sono due racconti che colgono a piene mani nel mondo del fantastico, permettendo di uscire dai confini della realtà pur mantenendo viva la consapevolezza di potervi rientrare in qualsiasi momento.
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LA FIABA, DEPOSITARIA DELL’ORALITÀ PRIMARIA
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da sentimenti di paura (della morte, del buio, dell’abbandono, della solitudine ecc.). Queste risposte raramente sono presenti sul piano della realtà e non sempre è possibile razionalizzarne le forme e i contenuti. Ma queste angosce sono primordiali, hanno accompagnato l’uomo fin dalle origini della sua esistenza, e anche se l’uomo oggi si sforza di dominarle e capirle, è difficile sradicarne le radici profonde che allignano nel subconscio e sfuggono troppo spesso al controllo umano. La migliore difesa che l’uomo ha saputo frapporre fra sé stesso e la maestosità del mistero delle sue origini e della sua fine, è stata la creazione dei miti e dei rituali, nei quali si celavano «non giustificati» i grandi dogmi della «non conoscenza», ma permettevano di costruire quei grandi ideali, o percorsi di vita, verso i quali l’uomo poteva indirizzarsi per riconoscersi e realizzarsi. Questa profonda forza vitale, che non possiamo fare a meno di riconoscere alla mitologia, è altrettanto intensa nella fiaba, poiché muovendosi in un’atmosfera fantastica e magica ripropone continuamente i più intensi problemi interiori con il preciso scopo di avviarli a soluzione. L’esistenza della fiaba, come ha sottolineato ripetutamente anche Bettelheim, può essere una risposta molto efficace a numerosi problemi dell’umanità, da risolversi durante l’infanzia, poiché quanto più una radice diventa forte e profonda, tanto più sarà difficile sradicarla. La citazione che segue è già abbastanza indicativa del pensiero e della posizione di questo autore, ma vuole anche rappresentare uno stimolo per il lettore ad avvicinarsi alla sua opera Il mondo incantato, che tanti insegnamenti può offrire sul tema «fiaba»: Attraverso i secoli (se non i millenni) durante i quali, con le successive rielaborazioni, diventarono sempre più raffinate, le fiabe finirono per trasmettere nello stesso tempo significati palesi e velati: finirono cioè per parlare simultaneamente a tutti i livelli della personalità umana, comunicando in modo tale da raggiungere la mente ineducata del bambino nonché quella del sofisticato adulto. Applicando il modello psicanalitico della personalità umana, le fiabe recano importanti messaggi alla mente conscia, preconscia e subconscia, a qualunque livello ciascuna di esse sia funzionante in quel dato momento. Queste storie si occupano di problemi umani universali, soprattutto di quelli che preoccupano
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LA COMUNICAZIONE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO la mente del bambino, e quindi parlano al suo Io in boccio e ne incoraggiano lo sviluppo, placando nel contempo pressioni preconsce e inconsce. Le storie, nel loro svolgimento, ammettono a livello conscio e manifestano le pressioni dell’Es, e indicano dei modi per soddisfare quelle che sono in accordo con le esigenze dell’Io e del Super-io.16
Le fiabe svolgono quindi un ruolo fondamentale non solo in un rapporto diretto con l’infanzia, ma anche con l’età adulta, almeno nella misura in cui quest’ultima sarebbe opportuno prendesse coscienza del loro valore e dell’utilità del loro uso. Ciascun elemento della fiaba assume significati precisi sia all’interno del racconto, sia ribaltato in un rapporto di risoluzione nel reale. In egual misura, ciascun elemento presenta riflessi delle tradizioni che sono alla base dell’origine della fiaba. Nel primo caso, per esempio, la costante della morte di uno o entrambi i genitori, gli ostacoli che il/la protagonista dovrà superare, gli aiuti che riceverà dall’esterno (elemento umano o magico), la vittoria finale (il bene che sconfigge il male), rappresentano di volta in volta problema da risolvere e insegnamento, consiglio, percorso da seguire per risolverlo. Nel secondo caso, nel parlare del riflesso delle tradizioni, si entra in un settore in cui l’evidenza dell’elemento è meno palese, ma altrettanto forte. Gli esempi a cui fare riferimento potrebbero essere numerosi (lupo, bambino-adulto, Principe azzurro, bosco, ecc.), ma per amore di chiarezza è opportuno concentrare l’attenzione su uno solo di essi, toccando solo marginalmente gli altri. Facendo cadere la scelta sul «bosco», ci si trova alle prese con un elemento che assume caratteristiche più forti in alcune fiabe rispetto ad altre. Nella fiaba di Pollicino ad esempio è un elemento dominante (i genitori che abbandonano il bambino e i suoi fratelli nel bosco per indigenza), quasi altrettanto lo è nella fiaba di Biancaneve (il cacciatore lascia la bambina nel bosco per allontanarla dalla matrigna crudele) o in quella della Bella addormentata (il bosco che circonda il castello diventa sempre più intricato e insuperabile), mentre è una presenza meno forte in Cenerentola o nella Bella e la Bestia, dove l’azione si svolge prevalentemente in ambienti interni (la casa, il focolare dome16
B. Bettelheim, op. cit., pp. 11-12.
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stico). Ma il significato recondito di questo elemento ha origini lontane e significative, vere e proprie origini tribali, risale infatti ad antiche usanze (ancora in uso in alcune tribù) che segnavano il passaggio dall’età infantile all’età adulta (bambino-adulto) con l’allontanamento del ragazzo dalla tribù per avviarlo a una totale autonomia e alla conquista di capacità di difesa e sopravvivenza. Se il ragazzo riusciva a tornare nella sua tribù aveva superato la prova e conquistato il diritto di «essere adulto» diventando anche maturo per il matrimonio (Principe azzurro). Anche nelle fiabe i personaggi che all’inizio della storia sono di solito bambini alla fine quasi sempre si sposano, ma non c’è crescita nel racconto. Cenerentola è una bambina che vive con la matrigna e le sorellastre, ma quando a mezzanotte fuggirà dal ballo sarà già matura per il matrimonio. Quando Pollicino viene abbandonato con i fratelli nel bosco è addirittura il più piccolo di loro, ma quando riuscirà a tornare a casa dopo tante peripezie, sarà lui a mantenere tutta la famiglia. La fine dell’infanzia, sia nei riti primitivi sia nelle tradizioni popolari più antiche, rappresentava un momento culminante della vita, o meglio l’inizio della vita, poiché ogni preparativo, ogni rituale, veniva affrontato in funzione del momento in cui si poteva finalmente entrare a far parte della vita sociale della tribù. Tutto il periodo precedente era una preparazione al momento dell’iniziazione. Il tipo di infanzia, così come noi la concepiamo oggi, spensierata e serena, era assolutamente inesistente nel passato. Il bambino e poi il ragazzo veniva semplicemente avviato e preparato per poter affrontare e superare la prova di iniziazione che gli avrebbe permesso di attraversare il confine che lo separava dal ruolo adulto. Questi aspetti sono rimasti a lungo consolidati nel corso delle variabili che hanno caratterizzato le componenti più solide delle nostre tradizioni popolari, e il loro riproporsi durante gli innumerevoli mutamenti che hanno segnato il cammino della civiltà ne hanno rafforzato la memoria storica e la sua trasmissione orale nel corso dei secoli, giungendo fino a noi sotto forma di narrazione mitologica o popolare, a seconda che si trattasse di argomenti sacri o profani. Questo lungo percorso, nell’attraversare secoli di storia, storia spesso non documentata e non documentabile, ha dovuto in molti casi accettare una ricostruzione in cui fantastico e reale, divino e umano coesistono in
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maniera inscindibile, costruendo la storia dell’uomo in una mescolanza di conoscenza e di mistero. Questo spiega il motivo per cui la maggior parte dei temi narrativi che ritroviamo nelle leggende e nelle fiabe hanno origini infinitamente lontane nel tempo, che possono essere collocate17 nei primordiali ricordi dell’umanità quando lo sforzo maggiore era la lotta per la sopravvivenza: i fenomeni e le grandi forze della natura, gli animali e le fiere vi hanno gran parte o ne sono addirittura i protagonisti. Sono i temi più elementari, i temi dell’uomo nudo, del nomade, del cacciatore e del pescatore, il quale nel raccontare l’impresa ingigantisce ai suoi stessi occhi e si batte contro belve enormi, contro orridi mostri, cattura prede incredibili. Il meraviglioso dà ingenuamente o abilmente coloritura a quei temi antichissimi dove esseri piccoli e naturalmente indifesi riescono ad avere la meglio contro avversari più forti ed il racconto di un avvenimento straordinario, passando di bocca in bocca, si modifica, si arricchisce, si trasforma già in leggenda. La funzione è evidente nella stessa contrapposizione.18
Una componente, quella dello «straordinario», del «mistero», che ha sempre accompagnato e sempre accompagnerà l’uomo, sul piano dell’inconoscibile e delle domande che non trovano risposta. Questo atteggiamento, questo bisogno di muoversi sul confine tra storia e tradizione, tra fantastico e reale, tra sogno e realtà, trova la sua risposta più moderna nella fiaba, che racchiude in sé tutte queste verità esteriori e interiori, consce e inconsce. Che pur nella sua semplicità di esposizione e di contenuti, accoglie tutti gli elementi del vivere umano: paure e ansie da superare, mostri da sconfiggere, mete da raggiungere. Attraverso la fiaba riscopriamo noi stessi, assorbiamo a livello inconscio i primordiali istinti di conservazione e di difesa, e acquisiamo i meccanismi interiori per superare le nostre angosce e le difficoltà esterne. 17
Sulle origini dei temi narrativi molto è stato scritto e costituisce tuttora un interessante argomento di ricerca. Si sarebbero potute introdurre citazioni interessanti, originali, innovative, ma la scelta è caduta su un brano di un saggio del Petrini per la straordinaria semplicità con cui questo studioso di letteratura giovanile è riuscito a infondere nell’elemento della memorabilità la trasposizione magica del reale che si trasforma in leggenda. 18 Enzo Petrini, «Dai temi narrativi alla letteratura giovanile», Letteratura giovanile. Schedario, n. 133, gennaio-febbraio 1975, pp. 1-2.
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Ed è soprattutto nell’infanzia che questi meccanismi scattano con maggiore naturalezza e semplicità, poiché è in questa età che i mostri interiori fanno più paura; ma se il bambino impara a conoscere quelli delle fiabe e a comprendere come sconfiggerli, avrà acquisito un mezzo di difesa molto forte per combattere conflitti interiori, emozioni e istinti primordiali (una delle eredità delle nostre origini che nemmeno la scienza è in grado di annientare). Il rapporto tra bambino e fiaba può offrire all’osservatore elementi di estremo interesse per comprendere che il bambino trova più risposte alle sue domande in un racconto di magia che in situazioni concrete che ancora non è in grado di capire, infatti le regole che l’adulto cerca di imporre all’infanzia molto spesso contrastano con la logica del bambino, che è portato ad agire in maniera più naturale e spontanea e quindi non riesce ad afferrare le complicate norme di comportamento sociale stabilite dagli adulti. Nelle fiabe, al contrario, ogni azione rappresenta una tappa per giungere alla meta finale. Anche J.R.R.Tolkien, nel ribadire l’importanza della fiaba, descrive quelli che ritiene fattori indispensabili in una buona fiaba con i termini «fantasia», «recupero», «fuga» e «consolazione»: recupero dalla profonda disperazione, fuga da qualche grave pericolo ma, soprattutto, consolazione. Parlando del lieto fine, Tolkien sottolinea che tutte le fiabe complete devono averlo. Esso costituisce «un’improvvisa e felice “svolta”»: Per quanto fantastica o terribile sia l’avventura, può far sì che a un bambino o a un uomo che l’ascolta, quando si determina la «svolta», manchi per un attimo il respiro, il cuore batta più in fretta e più forte, gli occhi s’inumidiscano.19
Anche il fumetto, in moltissimi casi, possiede questa caratteristica. I suoi personaggi, le sue storie, sono una rappresentazione della vita, dei problemi grandi e piccoli che ogni giorno ci investono, ci coinvol19 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli anelli. Trilogia, a cura di Quirino Principe, introduzione di Elemire Zolla, Milano, Rusconi, 1991. Dello stesso autore, si possono leggere Albero e foglia, Lo Hobbit, Il Silmarillion, Le avventure di Tom Bombadil, Le lettere di Babbo Natale, Racconti incompiuti di Númenor e della Terra-di-mezzo, Mr. Bliss, Racconti ritrovati, Racconti perduti, Immagini (nelle edizioni Rusconi).
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gono. Molti dei suoi personaggi seriali non invecchiano e non muoiono, ma la loro vita presenta le caratteristiche di riferimento di cui il bambino ha bisogno per riconoscere le debolezze, le aspirazioni, le difficoltà che dovrà affrontare crescendo. Il fumetto si presenta in questo contesto non solo come una forma di lettura ma anche come una forma di vita, ha un suo fondamentale ruolo psicologico che assume una configurazione educativa molto profonda nel momento in cui, catturando l’attenzione del bambino, lo coinvolge, lo aiuta a capire le sue emozioni e gli offre delle soluzioni. I percorsi di quei personaggi del fumetto da cui il bambino è maggiormente attratto sono gli stessi percorsi che affronta giornalmente o dovrà affrontare successivamente.
I.6 La letteratura a fumetti La letteratura fumettistica ha caratteristiche ben definite, sia nella struttura che nei contenuti. I protagonisti delle storie a fumetti occupano degli spazi racchiusi in vignette e queste, a loro volta, si compongono in una serie di strisce che, nella loro logica continuità, danno vita a una trama. Una struttura particolare e un modo per narrare una storia che si impongono al lettore in maniera diversa da quella di altre forme letterarie. Leggere un fumetto non è come leggere una fiaba o un racconto d’avventura poiché propone un tipo di lettura dell’immagine che si differenzia profondamente anche da quella dei libri illustrati. Nel fumetto, infatti, è presente una dinamicità iconica che lo rende diverso da qualsiasi altro tipo di immagine fissa (disegno, illustrazione, fotografia, pittura ecc.). Il movimento dei personaggi all’interno di una striscia è molto più simile a quello dei disegni animati poiché in entrambi i casi la struttura del disegno deve dare l’idea dello spostamento nello spazio, anche se, naturalmente, nel caso dell’animazione il movimento è di natura propriamente cinematografica mentre nel fumetto il passaggio spazio-temporale è suggerito da una vignetta all’altra. La letteratura fumettistica tra le sue numerose caratteristiche possiede anche quella di fornire al lettore una vasta varietà di generi, dal comico-
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satirico al poliziesco, dall’avventuroso al western, dal fantascientifico all’horror,20 e per soddisfare il desiderio di conoscenza degli appassionati comprende anche pubblicazioni a carattere saggistico. Il numero di testate oggi in commercio è tale che riesce difficile offrire una indicazione quantitativa precisa, soprattutto riguardo alle pubblicazioni rivolte all’infanzia e all’adolescenza che, oltre al fumetto vero e proprio, comprendono anche albi e giornalini. Si tratta cioè di letture che hanno successo tra il pubblico giovanile e come tali entrano a far parte della letteratura a cui questo pubblico si rivolge maggiormente. Nonostante ciò, quando si parla di letteratura per l’infanzia molto spesso il fumetto viene dimenticato, nella stessa misura in cui viene volutamente trascurato nel mondo della scuola. Eppure i ragazzi «leggono» i fumetti e non è vero, come viene affermato da chi non vuole riconoscerne la validità, che li «guardano» soltanto. E questa resistenza verso l’ingresso del fumetto nella letteratura per l’infanzia e nell’aula scolastica è provocata principalmente dalla inveterata abitudine degli insegnanti a usare esclusivamente i libri di testo o, tutt’al più, qualche volume di narrativa o di approfondimento degli argomenti previsti dai programmi scolastici, senza tenere conto che al di fuori della scuola i loro alunni scelgono altri generi di lettura più vicini ai loro interessi e finiscono con l’utilizzare i libri di testo quasi esclusivamente per svolgere i compiti. Ne consegue che, rifiutando o mantenendo volutamente al di fuori dell’ambiente scolastico alcune specifiche preferenze dell’alunno, quest’ultimo può perdere interesse per la lettura, arrivando a considerarla una dimensione astratta e un onere piuttosto che un piacere. La proposta di considerare il fumetto un tipo di lettura compreso nella letteratura per ragazzi e di introdurlo nella scuola a scopi didattici si pone come un invito a ricercare nuove modalità di stimolo all’apprendimento, individuando forti corrispondenze tra gli interessi di bambini e adolescenti e le materie di insegnamento, e come una guida di educazio20
Per un approfondimento sui generi del fumetto cfr. Franco Fossati, Cosa leggere sui fumetti. Bibliografia e fumettografia, Milano, Ed. Bibliografica, 1980; Alberto Pellegrino, Il mondo a strisce, Firenze, Bulgarini, 1973; Gianna Marrone, «Problematica pedagogica della catalogazione del fumetto nella biblioteca giovanile», in Per una pedagogia della biblioteca giovanile, a cura di Anna Maria Bernardinis, Padova, Imprimitur, 1995, pp. 129-80.
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ne alla lettura, per conoscere il mondo sconfinato del fumetto e imparare ad apprezzarne le qualità nascoste. Uno sguardo alla nostra infanzia, tra i personaggi del Corrierino e di Topolino, o alla nostra adolescenza, immersa nel mondo fantastico dei supereroi, ci dovrebbe far sorridere serenamente quando vediamo i nostri figli o alunni sprofondati nella lettura di un fumetto. Immagine, fantasia e fantastico sono i linguaggi dell’infanzia, linguaggi che l’adulto ha dimenticato o relegato in una memoria lontana, ma se prova a rispolverare i suoi ricordi può far fiorire un dialogo in cui anche il bambino può diventare protagonista. Il messaggio iconico che il fumetto invia ai suoi lettori ha, insieme a quello audiovisivo della televisione, un indice di gradimento molto alto. Raggiunge strati di popolazione di ogni classe sociale, nella lettura di alcune testate accomuna adulti e bambini (Topolino ne è l’esempio più classico) e ha stretti legami con altre forme, in particolare con i film d’animazione e d’avventura e con la narrativa. In questi ultimi decenni ha assunto un ruolo didattico che sollecita l’uso dell’immagine e del linguaggio dialogato della nuvoletta all’interno delle aree disciplinari e nella realizzazione di unità di intervento programmato sia curricolare che di recupero. La presenza del fumetto nei libri di testo per la scuola elementare e l’approfondimento dei nuovi codici linguistici fanno ben sperare anche in una legittima e più estesa entrata di queste pubblicazioni nell’aula e nella biblioteca scolastica e in una loro diffusione nelle biblioteche comunali con settori per ragazzi, al fine di poterle utilizzare direttamente sfruttando le numerose possibilità informative, linguistiche, iconiche e programmatiche che è in grado di offrire.
I.7 Albi, giornalini e fumetti Indipendentemente dai dettami letterari e pedagogici il fumetto rappresenta comunque una lettura a cui bambini e adolescenti si avvicinano volentieri e senza che debbano intervenire pressioni esterne. La sua produzione è molto ricca e suddivisa in generi che possono soddisfare i gusti e le richieste di diverse fasce di età. Dall’albo solo illustrato per i
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più piccoli, al giornalino ricco di rubriche per giocare oltre che per leggere, al fumetto vero e proprio (comico-satirico, western, poliziesco, fantascientifico, horror ecc.), fino alla produzione per soli adulti. Questa grande varietà di materiali è stata naturalmente oggetto di numerosi studi e, soprattutto negli ultimi trent’anni, la saggistica sull’argomento ha curato molti degli aspetti che interessano il fumetto: le origini e la storia, i generi, i personaggi, la struttura, il linguaggio, il disegno.21 Tutte tematiche fondamentali se si considera l’aspetto tecnico della realizzazione del fumetto, ma che evidenziano una carenza di studi rivolti a esaminare la possibilità di inserirlo in ambito scolastico, in particolare all’interno delle aree di educazione alla lettura e educazione all’immagine, per sfruttare in ambito didattico le numerose potenzialità che è in grado di offrire. Sebbene non particolarmente numerose, le ricerche22 che affrontano l’analisi di una rilevanza educativa del fumetto sono comunque valide e interessanti, poiché dimostrano che, nonostante la ritrosia degli ambienti scolastici, il problema è stato affrontato ed esaminato sotto diversi punti di vista ed è considerato tuttora aperto, soprattutto in relazione a un contesto educativo oggi particolarmente in tensione per l’atmosfera di riforme a cui è sottoposto e che coinvolge non più solo l’istituzione scolastica primaria e secondaria, ma molto più profondamente quella della formazione universitaria e professionale. Il fumetto si inserisce in questo percorso formativo con il duplice obiettivo di poter essere utilizzato in ambito scolastico come strumento didattico autonomo e di configurarsi come uno delle forme della letteratura per ragazzi. In relazione al primo obiettivo, è importante rilevare che, pur avendo fatto capolino sui libri di testo, affacciandosi di tanto in tanto in qualche 21
Cfr. la Nota precedente. Tra gli studi che analizzano il fumetto sotto un profilo pedagogico e didattico particolarmente significativi sono i testi di Antonio Faeti, La bicicletta di Dracula e I tesori e le isole (Firenze, La Nuova Italia, rispettivamente 1985 e 1986) e Dacci questo veleno! Fiabe, fumetti, feuilletons, bambine (Milano, Mondadori, 1998), in cui il fumetto entra a far parte di un contesto più ampio che lo vede in rapporto con altri media. Per un approfondimento del rapporto con la scuola cfr. Ermanno Detti, Il fumetto tra cultura e scuola, Firenze, La Nuova Italia, 1987, e del rapporto con la didattica cfr. Domenico Volpi, Didattica dei fumetti, Brescia, La Scuola, 1977. 22
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pagina con una vignetta o una striscia, ne rimane comunque al di fuori nel suo complesso. Leggere una storia su un fumetto oltre che un racconto su un libro rappresenta un binomio ancora non attuato, sebbene anche il fumetto sia ricco di storie interessanti e spesso anche ricche sotto il profilo culturale (si veda ad esempio la testata Martin Mystère, costruita su trame che si muovono tra storia, mitologia e fantastico). Il secondo obiettivo in fondo potrebbe considerarsi raggiunto, poiché bambini e adolescenti hanno già da tempo acquisito il fumetto tra la loro letteratura, considerandolo lettura piacevole ma comunque lettura. Lo dimostra il fatto che non disdegnano di leggere anche le numerose rubriche inserite tra le storie disegnate e che, da quando la nuova editoria per ragazzi ha arricchito i libri di illustrazioni, si avvicinano sempre di più anche a questi. L’immagine gioca un ruolo fondamentale nell’impatto che il ragazzo ha con la lettura, lasciandogli quindi una maggiore autonomia di scelta sia in famiglia sia a scuola e riconoscendo che anche il fumetto fa parte della letteratura prodotta per l’infanzia e l’adolescenza sicuramente si otterrebbe una crescita non solo di lettori ma anche di amanti della lettura.
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Stampato per conto di Tunué. Editori dell’immaginario presso Andersen, Frazione Piano Rosa – Boca (NO) nel mese di settembre 2009 Stampato in Italia – Printed in Italy