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Sergio Badino
Conversazione con Carlo Chendi Da Pepito alla Disney e oltre: cinquant’anni di fumetto vissuti da protagonista Prefazione di Luca Boschi Postfazione di Giancarlo Berardi
Lapilli. Segni 7
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I edizione: settembre 2006 Copyright © Tunué Srl
ISBN 88-89613-16-5 ISBN-13 EAN 978-88-89613-16-0
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.
Stampa e legatura: Tipografia Monti Srl Via Appia Km 56,149 04012 Cisterna di Latina (LT) Italy
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Progetto grafico: Daniele Inchingoli Grafica di copertina: Carlo Piscicelli Illustrazione di copertina: Silvia Ziche © Tunué/Silvia Ziche
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Indice
Prefazione di Luca Boschi Introduzione I.
Primi passi. Chi sono e come sono diventato fumettista Cinema e romanzi II. Anni Cinquanta. Come ho cominciato Un indispensabile tirocinio Esordio disneyano Nocciola, mon amour I colleghi Pepito: avventure editoriali di un pirata Debutto nella grande parodia: Il Dottor Paperus La «Dolce Vita» dei primi anni Cinquanta Un tentativo nel cinema, seguendo Walt III. Anni Sessanta. Cerco di farmi notare I complimenti della Disney americana Ancora Nocciola, e stavolta non è sola Un’altra parodia Due «Uomini dei Paperi» s’incontrano Lo Studio Bierreci Le Signore del Fumetto Italiano Paperino e Monicelli IV. Anni Settanta. Scrivere, che passione (e che fatica) Il mio amico Mort Walker Nuovi nomi nel Bierreci Appunti per un museo Nascita di una mostra
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Fotoromanzi, fumetto «verista», nuovi personaggi e collaboratori L’incontro con «l’Uomo dei Topi» Mario Gentilini: un «J. Jonah Jameson» alla redazione di Topolino Nuovi personaggi disneyani V. Anni Ottanta. L’apice disneyano e il periodo milanese Un maestro di Venezia per amico Massimo De Vita Agenzia Investigativa Sam Stab e Figlio Un altro, grande, amico veneziano G.B. Carpi e «Il Pizzicotto» Vive la France! Un ferrarese-rapallese a Milano VI. Anni Novanta. Torno in Liguria e continuo a darmi da fare Gossip! La Copertina d’Argento: «And the winner is…» Il Mito in carne e ossa Direttore editoriale Premi! VII. Sullo scrivere fumetti, oggi Il soggetto, questo sconosciuto La sceneggiatura: tecnica o arte? Creare un personaggio Mestiere sottovalutato? Consigli Tecnica e talento Nuove proposte Doti nascoste
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Postfazione di Giancarlo Berardi
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Prefazione
Meravigliosi fumetti comici di Luca Boschi*
Nella storia della cultura popolare italiana c’è un periodo rigogliosamente felice, nel quale anche il fumetto ha un suo posto importante. Sono gli anni pretelevisivi in cui la lettura costituisce una pratica quotidiana per diverse fasce generazionali, e benché non proprio tutti siano disposti a cibarsi di compendî di filosofia, in ogni casa c’è almeno una Divina Commedia acquistata in edicola a dispense, e non mancano le avventure illustrate di Buffalo Bill e di Petrosino. Le donne non disdegnano i paleofotoromanzi di Grand Hotel, illustrati a mezzatinta da ritrattisti dalla mano felice (le foto costano troppo e una categoria di attori specializzati non è ancora nata), mentre i giovanissimi si dilettano col sempiterno e istruttivo Corriere dei Piccoli. In questo scenario, nel secondo dopoguerra, l’imprevedibile successo commerciale del tascabile Topolino, debuttante nell’aprile 1949, suscita l’interesse di altri editori più o meno novizi. O di tipografi bramosi di pubblicare qualcosa in proprio, coalizzando una nutrita schiera di creativi italiani: scrittori, sceneggiatori, disegnatori e quelli che sarebbero stati definiti in seguito «autori completi». I desiderata dei nuovi imprenditori puntano soprattutto in direzione delle storie comiche: se Topolino ha messo radici così salde nell’immaginario italiano, forse anche altri personaggi simili, piccoli di corporatura, schietti, ingenuamente eroici, potranno ritagliarsi l’apprezzamento di nuove platee, disposte a sperimentare il gusto di storie nuove. La desinenza in «-ino» è quasi obbligata (Frugolino, Trottolino, Zeffirino, * Collaboratore di decine di riviste e pubblicazioni a fumetti dal 1979, Luca Boschi (Pistoia, 1956) è animatore, fumettista, sceneggiatore e saggista. Già direttore culturale di «Lucca Comics», dal 2001 svolge lo stesso incarico per il «Comicon», il Salone internazionale del fumetto e dell’animazione di Napoli. Attualmente collabora, tra l’altro, a Zio Paperone, I Maestri Disney, Classici Disney, Grandi Classici Disney, Simpsons Comics e I Classici di Repubblica oltre che per la Egmont e la Gemstone Publishing.
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Miciolino, Pollicino, Soldino…), ma anche qualche variazione sul tema ha credito. Significativo è l’esempio di Cucciolo, cagnolino nato come una sorta di clone di Mickey Mouse, e poi tramutato in essere umano di piccole dimensioni, quasi un «ometto-bambino». Va da sé che le nuove pubblicazioni made in Italy possono ospitare anche personaggi meno «inquadrati» del sorcio disneyano. Character magari strampalati e originali, proiettati in soggetti sfrenatamente fantasiosi e talvolta illogici, liberi dall’ansia del politically correct. Nelle loro storie, con disinvoltura, il surrealismo irrompe a sorpresa in una sequenza avventurosa, cambiando il registro della trama. Ma gli interpreti stessi, non di rado, si mostrano consapevoli di nascere da matite e inchiostri, di venire stampati su dei «giornalini», di essere confinati nei bordi di vignette troppo anguste; in casi estremi si rivolgono in modo diretto al lettore, oppure protestano con i loro autori, rei di cacciarli in situazioni spiacevoli. Questi comportamenti, proibitivi per le leggi non scritte disneyane, sono di casa nelle pubblicazioni delle Edizioni Alpe, di Renato Bianconi, di Gabriele Gioggi, di Angelo Fasani. Il loro humour costituisce una seria alternativa a quello che giunge dagli Stati Uniti. Incontra perfettamente il gusto dei lettori nostrani, che ne apprezzano soprattutto la comunicativa spontaneità, contrapponibile alla professionalità un po’ asettica di alcuni pur amati maestri americani. Nello stesso 1949, al mondadoriano Topolino la scena editoriale romana risponde partorendo, con un rush incredibile, testate come Lupettino e Bambola. A Milano, invece, i massimi risultati si sarebbero ottenuti poco dopo, col lancio dei tascabili Cucciolo (1952) e Tiramolla (1953), periodici di notevole impatto, capaci di insidiare a lungo il trono del Grande Topo e della sua banda. Ben presto, l’uomo al timone del Topolino dell’epoca, il pittore Mario Gentilini, si convince che per infoltire le uscite di un albo così redditizio come quello che sta dirigendo, gli servono molte pagine di fumetti in più rispetto a quanto gli giunge dagli Stati Uniti. La linea sarà quella di arruolare un buon numero di cartoonist italiani in modo da produrre storie nuove sistematicamente, se possibile in maggior sintonia con le aspettative dei lettori dello Stivale. Ecco quindi nascere trame più complesse e lunghe rispetto alla media americana; ecco la scelta di un taglio
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narrativo umoristico-avventuroso; ecco la focalizzazione su temi, eventi e ricorrenze tutto sommato estranei alla sensibiltà di oltreoceano. In tale frangente si verifica un fenomeno curioso. Gentilini non può fare a meno di attingere al pool di fumettisti comici che già sono in forza presso la concorrenza o che, anche in anni futuri, collaboreranno in contemporanea con i tascabili suscitati dal debutto di Topolino nel ’49. Quindi (indicati in ordine alfabetico), Sergio Asteriti, Luciano Bottaro, Onofrio Bramante, Luciano Capitanio, Giovan Battista Carpi, Carlo Chendi, Giulio Chierchini, Tiberio Colantuoni, Gino Esposito, Giancarlo Gatti, Luciano Gatto, Guido Martina, Attilio Mazzanti, Vezio Melegari, Ennio Missaglia, Giuseppe Perego, Giorgio Rebuffi, Roberto Renzi, Guido Scala e svariati altri realizzano sia storie per Disney sia altre con property diverse, magari sfruttando personaggi di loro creazione. L’esperienza accumulata presso altri editori meno rilevanti torna molto utile per chi inizia a lavorare con Topolino e Paperino, magari vivendo questa nuova attività disneyana come una promozione. Benché in modo più controllato che (per esempio) con Tiramolla, Oscar o Volpetto, una buona dose di surrealismo e aggressività la farà da padrone anche nel cosmo di Paperopoli e di Topolinia, grazie a questo afflusso di nuovi talenti fumettistici. Per la cronaca, condividono una sorte di «creatività ubiqua» anche altri cartoonist nostrani come Renato Ciancio, Walter Cremonini, Danilo Forina, Ivo Milazzo, Mario Sbattella o Giancarlo Tonna, ma per questi ultimi l’esperienza disneyana non è particolarmente significativa né in relazione alla sua durata né per i risultati ottenuti. Da parte degli altri, invece, il contributo al mondo del «mago Walt» è ampio, articolato, cruciale, con avventure tradotte in tutto il mondo e spesso pluriristampate. L’influenza di questi autori sull’umore di milioni di lettori, per giunta di generazioni diverse, è ed è stata mastodontica. Quando all’inizio degli anni Cinquanta questa scuola di autori intraprende fiduciosa la sua encomiabile carriera a base di vignette e balloons, la loro passione per la fantasia, per la grafica, per la voglia di raccontare, si sposa a una buona dose di intraprendenza, se non addirittura di incoscienza. Infatti, nonostante la loro entusiasmante forza creativa e gli apprezzamenti suscitati in milioni di lettori, dal punto di vista socia-
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le il fumettista non è una figura che raccoglie una rispettabile riconoscibilità. Al contrario, temendo una sorta di ostracismo, in qualche caso il fumettista dichiara addirittura di essere un pittore, un insegnante di disegno o un grafico, per evitare l’associazione con i «poco raccomandabili» giornalini. Visto da un osservatorio odierno sembra incredibile, ma almeno sino alle soglie degli anni Settanta, con poche saltuarie eccezioni, un coro di educatori, di insegnanti, di politici, di clericali, si esercita a puntare il dito contro quella paraletteratura per minus habens i cui protagonisti si esprimono con «frasette elementari racchiuse in ectoplasmi». I vituperati fumetti subiscono preferibilmente l’accusa di distogliere i giovanissimi dalla lettura dei romanzi o dei saggi, abituandoli con le immagini a una fruizione di storie troppo semplificata. Di conseguenza, l’adulto che compera una pubblicazione a fumetti è spinto a giustificarsi spiegando che «naturalmente» l’acquisto è destinato al figlio, o a un fantomatico nipotino. Quindi, nasconde l’albo fra le pagine del quotidiano di turno per non suscitare le imbarazzanti riflessioni di eventuali astanti, o lo occulta in tasca. E… a proposito, chissà che al boom dei tascabili a fumetti, in quel periodo oscurantista, non concorra anche l’asfissiante temperie di ostracismo sociale subito dal medium! In quegli anni pionieristici anche le redazioni sanno di improvvisazione, ricavate come sono, in più di un caso, nei locali domestici di chi si arrischia a varare la sua piccola casa editrice di fumetti. Ben lo testimonia, con ricchezza di pittoreschi dettagli, lo sceneggiatore Carlo Chendi, classe 1933, nativo di Ostellato (Ferrara), ma trasferitosi in Liguria nel ’47 per muovere i primi fumettistici passi in quella che la critica avrebbe definito la «Scuola di Rapallo». Sessioni di impaginazione nel salotto buono, archivi ricavati da armadi dismessi, correzioni di bozze sul tavolo da cucina non sono affatto infrequenti negli anni Cinquanta, e autori come Bottaro, Rebuffi e Chendi, anni prima di fondare lo Studio Bierreci (nome ricavato unendo le iniziali dei loro tre cognomi) operano come molti altri in queste ruspanti redazioni. Vi sostano per lunghi periodi, ospitati se possibile in una camera della casa; oppure (con toccata e fuga) vi portano le tavole di persona per ritirare cash il compenso, magari dopo aver affrontato un lungo viaggio in Lambretta.
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La storia del nostro fumetto popolare, e in particolare di quello comico, è interessante anche perché non la si conosce molto. Attende di venire narrata in modo sistematico, confrontando e integrando le testimonianze scritte o di prima mano; aspira a essere ponderata e valorizzata per quel che merita; chiede di far ricoprire alle sue punte di diamante delle postazioni obbligate nel pantheon fumettistico planetario. Ancora non è avvenuto: alcuni decenni di studi sul cartooning hanno partorito opere spesso pregevoli, e tuttavia pervicacemente ostinate nel focalizzarsi su un gruppo sparuto di acclarati maestri. Un intero mondo che ci riguarda e ci coinvolge è stato liquidato in fretta e furia, se addirittura non è stato trascurato del tutto. Su di esso, per fortuna, di recente si è aperto qualche spiraglio di luce. Il merito di aver svelato alcune misteriose alchimie editoriali, di aver precisato i protagonisti della scena, spiegato le difficoltà incontrate, tolto dalla polvere antichi progetti e gratificato oscuri comprimari, spetta quasi sempre agli autori che in prima persona hanno rilasciato delle interviste, raccontando le loro esperienze e sfoderando aneddoti degni talvolta di un copione neoralista. Nella lunga conversazione impostata dal giovane sceneggiatore Sergio Badino col suo mentore e ispiratore, modello e compagno di viaggio, Carlo Chendi, lo sceneggiatore di Pepito, Pon Pon e Whisky & Gogo, di Dusty e del gatto Silvestro, di OK Quack e di Umperio Bogarto, di Piper Maiopi e di Bozo il Clown ripercorre le principali tappe della sua carriera, fra Trottolino e Il Giornalino, tra Fixi und Foxi e il Corriere dei Piccoli. È un lungo memoriale in cui Chendi racconta, «senza complessi» (come si diceva a proposito delle interviste di Playboy), le esperienze sue e dei suoi amici, di colleghi famosissimi o ignoti, di suoi clienti e di committenti delle sue storie; la personalissima Chendi version su circa mezzo secolo di fumetto italiano. Anni in cui, nonostante l’inevitabile mutevolezza delle circostanze, per uno sceneggiatore comico come per un attore l’imperativo categorico doveva restare imperturbabilmente il medesimo, ovvero rispondere al meglio alla vorace richiesta del pubblico: «Facce rìde!!!». Parigi, agosto 2006
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CONVERSAZIONE CON CARLO CHENDI
A Silvia e ai miei genitori
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Introduzione
Conosco Carlo Chendi dal 2001: dopo aver consegnato le mie prime sceneggiature in Disney presi a frequentare il suo studio grazie ad amicizie comuni, facendo spola tra Genova, la mia città, e Rapallo, la sua, circa una volta la settimana. Carlo curava a Rapallo (e cura tuttora) la «Mostra Internazionale dei Cartoonists» – una delle più antiche manifestazioni fumettistiche in Italia insieme al «Salone Internazionale dell’Umorismo» di Bordighera e al «Salone Internazionale dei Comics» di Lucca – e io ne entrai a far parte praticamente subito, fino a divenire membro del comitato organizzatore: in quegli anni, assorbendo quanto più potevo l’esperienza di Carlo, iniziai a maturare l’idea di un libro-intervista, da allievo a maestro, alla maniera dei volumi Truffaut/Hitchcock e Bogdanovich/Welles che avevo letto nel frattempo. Senza pretendere di paragonarmi a un François Truffaut o a un Peter Bogdanovich, ma con la consapevolezza che l’uomo che mi accingevo a intervistare registratore alla mano, per il mondo dei fumetti aveva e ha un peso di difficile commensurabilità, in Italia e nel mondo. L’opera, però, doveva avere un approccio un po’ diverso rispetto a quello della classica intervista: ciò che m’interessava era, attraverso la carriera di Carlo, ripercorrere quella che di fatto è stata la storia del fumetto italiano, umoristico e non, dal secondo dopoguerra in avanti. Carlo Chendi ne è infatti testimone d’eccezione: è stato uno dei primi sceneggiatori professionisti di comics in Italia, ha contribuito in maniera significativa allo svezzamento del genere «fumetto umoristico» nel nostro paese, ha conosciuto e frequenta tuttora alcuni tra i padri di questo mass medium, italiani e internazionali. È una miniera vivente di esperienza e di professionalità: col tempo ho capito che, oltre che per iscritto, gli piace narrare anche a voce. A un affabulatore di questo calibro,
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INTRODUZIONE
quindi, ho pensato fosse meglio dare una traccia, un indirizzo, un sentiero lungo il quale muoversi – i già citati cinquant’anni di mestiere – e lasciare poi a lui stesso il piacere di inserire aneddoti e curiosità laddove lo ritenesse più opportuno, riservandomi il compito, con qualche domanda, di riportarlo sul seminato qualora se ne fosse allontanato troppo. Il risultato è un testo imprevedibile: una sorta di compendio storico inedito per qualunque appassionato e un’inesauribile sorgente di trucchi del mestiere e di competenza per ogni aspirante autore. S.B. Genova, luglio 2006
Ringraziamenti
Desidero ringraziare Giancarlo Berardi, Luca Boschi e Silvia Ziche, che con i loro interventi, la loro collaborazione e la loro sincera amicizia hanno impreziosito questo volume, e Fabio Gianello, essenziale tramite telematico di gran parte del materiale. Menzione a parte per le indispensabili fonti a cui ho attinto per la redazione delle note: il volume Dizionario illustrato dei fumetti (Novara, DeAgostini, 1992), e i siti internet «Fondazione Franco Fossati – Centro studi e documentazione internazionale sul fumetto, la comunicazione e l’immagine» (www.lfb.it/fff/index.htm), «Lambiek – The Comiclopedia» (www.lambiek.net) e «Papersera» (www.papersera.net). E, naturalmente, Carlo Chendi, amico e maestro: parafrasando Mort Walker, «un meraviglioso essere umano», verso cui il mio debito di gratitudine è in crescita costante.
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II. Anni cinquanta Come ho cominciato
L’autunno avanza, e le giornate si fanno fredde. Lo studio di Carlo – stracolmo di scaffali alti fino al soffitto, carichi di libri che gli invidio molto e che ogni volta mi perdo a osservare – non è riscaldato, eccezion fatta per una stufa a gas, che però Carlo non accende mai perché l’odore gli dà fastidio. Entrambi con indosso le giacche, quindi, ci sediamo di nuovo davanti al registratore.
SB: Com’è che, nel 1950, un ragazzo di 17 anni decide di diventare sceneggiatore di fumetti?
CC: Cominciai a fare questo lavoro… mah, non so perché! Le storie familiari sono sempre abbastanza complesse. Abitavo a Ferrara e mio padre aveva una piccola impresa edile che ci faceva vivere in maniera piccolo-borghese. C’era un certo benessere, ma nel dopoguerra perdemmo tutto e rimanemmo alla fame. Non eravamo gli unici! Dato che mio padre aveva quest’impresa, io avrei dovuto fare il geometra e occuparmi della ditta di famiglia: una volta sparita questa, quindi, io ero libero di fare qualsiasi cosa! Per ragioni di pura sopravvivenza dovetti dare una mano in casa e andare a lavorare per portare soldi, solo che i lavori che facevo non mi piacevano. Continuavo a leggere, a pensare a storie, e successe che, una volta trasferitomi a Rapallo con la famiglia, trovai un gruppetto di amici tutti appassionati più o meno delle stesse cose: Luciano Bottaro,1 Franco
1 Luciano Bottaro (1931). Nato a Rapallo, collabora giovanissimo al periodico Lo Scolaro, iniziando poi precocemente l’attività di disegnatore di fumetti. Dal 1951 disegna Pepito, uno dei fumetti comici italiani più diffusi nel mondo. Insieme a Carlo Chendi e a Giorgio Rebuffi fonda nel 1968 lo Studio Bierreci, per il quale disegna moltissimi personaggi, tra cui Whisky & Gogo, I Postorici, Redipicche, Pon Pon. Bottaro è anche uno dei più famosi e celebrati disegnatori italiani di storie Disney, ed è considerato uno dei maestri del settore, nel quale debutta nel 1952 con la storia Paperino e le onorificenze.
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ANNI CINQUANTA. COME HO COMINCIATO
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Aloisi2 e Guido Scala.3 Tutti avremmo voluto fare quello che faceva Walt Disney, allora il mito era lui, dal cinema al fumetto. Nessuno di noi pensava che fosse solo il produttore e che avesse un sacco di lavoratori dipendenti, credevamo che Disney fosse l’autore di tutto! Immaginavamo che si facesse sì aiutare nel cinema, ma i fumetti, che per noi erano la cosa più importante, li realizzasse da solo: d’altronde erano tutti firmati da lui! Cominciammo con il desiderio di fare qualcosa come il nostro mito, c’incoraggiavamo a vicenda e iniziammo a collaborare perché, non conoscendo nessuno, quelle poche cose si facevano tra di noi. Poi cominciammo ad andare a Milano alla ricerca di editori: pigliavamo i giornalini, leggevamo gli indirizzi e salivamo sul nostro bel treno da Rapallo. Si partiva alle quattro e mezza del mattino e si arrivava a Milano intorno alle nove! Il treno veniva da Roma, poi si cambiava a Genova, ma la linea aveva due tipi di corrente elettrica, quindi partivi da Genova con una locomotiva e a Voghera la si doveva cambiare. Era un viaggio avventuroso! E arrivavi a Milano che non conoscevi la città e facevi chilometri a piedi – non con i mezzi pubblici! – chiedendo informazioni per andare a cercare gli editori: poi ti presentavi, ti ricevevano, guardavano la tua roba, qualche volta t’incoraggiavano. All’inizio era indispensabile un certo tirocinio. Io cominciai a lavorare per le Edizioni Alpe scrivendo qualche storia di Cucciolo e Beppe:4 in 2 Franco Aloisi (1934). Comincia molto giovane come disegnatore, collaborando a riviste come Lo Scolaro, Calandrino e La Domenica del Corriere: i suoi fumetti vengono pubblicati su periodici europei e sudamericani. Crea diversi personaggi per la casa editrice L’Alpe, tra cui Pietro e Genio, le scimmiette Trik e Trak, il gorilla Napoleone, Re Pistacchio, Nicolino & Carmelino e L’Incredible Ernesto. Aloisi abbandona infine i fumetti per lavorare in ambito teatrale e televisivo. 3 Guido Scala (1936-2001). Nasce a Torino e si trasferisce in Liguria negli anni Cinquanta. Per qualche anno lavora in Australia (dove disegna l’albo Sergeant Bottleneck), tornando in Italia nel 1959. Realizza un’enorme quantità di storie, collaborando con diversi editori italiani ed esteri, prima di approdare in Mondadori per disegnare i personaggi Disney: sue sono le tavole/spot apparse su Topolino, con le parodie delle pubblicità televisive (realizzate negli anni Ottanta), riproposte poi sul volume Il Novecento visto da Topolino. 4 Cucciolo (Italia, 1940). Testata umoristico-avventurosa. Cucciolo e Beppe sono due cani antropomorfi, creati dall’editore Giuseppe Caregaro e dal disegnatore Rino Anzi. Nel dopoguerra, affidati a Giorgio Rebuffi, i personaggi si trasformano in due esseri umani. Col tempo contribuiscono altri autori, tra cui Umberto Manfrin, Tiberio Colantuoni, Alberico Motta, Franco Aloisi, e la serie si arricchisce via via di numerosi altri personaggi, come Tiramolla e il lupo Pugacioff. Alla scomparsa dell’editore Caregaro, la casa editrice continua ancora per qualche tempo sotto la direzione di Teresa Comelli (ex segretaria di redazione), ma il declino è progressivo, fino alla chiusura delle testate e alla scomparsa dei personaggi.
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quel periodo, come calligrafo5 della casa editrice, c’era Renato Bianconi. Lui conosceva un impiegato di banca che si chiamava Giovanni Duga, il quale era inserito in un giro di democristiani, preti e cose del genere, e aveva contatti con una tipografia della Brianza che avrebbe voluto stampare un giornalino. Duga aveva la possibilità di fare una pubblicazione, ma non conosceva nessuno, a parte Bianconi, che potesse procurargli materiale da stampare. Bianconi quindi chiese a tutti quelli che collaboravano all’Alpe – tra cui noi – di fargli delle storie. La sua pubblicazione si chiamava Trottolino, e aveva disegni di Rebuffi,6 Bottaro, e Nicolino Del Principe,7 un poliziotto che disegnava identikit! Trottolino era un mensile del formato di Topolino e di Cucciolo e Beppe. L’Alpe mi pagava – mi pare – ottocento lire a pagina di sceneggiatura, mentre Bianconi me ne dava circa seicento, perché era ancora un piccolo editore: però, mentre all’Alpe erano più severi, mi controllavano di più e scartavano anche più proposte, Bianconi, pagando poco, accettava un po’ di tutto. Quindi all’inizio lavorai più per Bianconi che per L’Alpe, ed è con Bianconi che imparai il mestiere facendo il tirocinio: era pagato poco, ma pur sempre pagato, e mi servì intanto per continuare la collaborazione con l’Alpe, ma soprattutto qualche anno dopo quando cominciai a lavorare per Topolino. Se non avessi scritto quelle centinaia di pagine e di storie per Bianconi, non avrei accumulato l’esperienza che mi fu indispen5 Termine con cui, in passato, era indicato chi, all’interno di una casa editrice, si occupava del lettering, ovvero della trascrizione a mano del testo, dalla sceneggiatura alla tavola originale a fumetti. 6 Giorgio Rebuffi (1928). Nasce a Milano e inizia a lavorare nel mondo dei fumetti nel 1949 creando lo Sceriffo Fox per le edizioni Alpe. Poco dopo gli viene affidata la realizzazione delle storie di Cucciolo e Beppe, che umanizza, differenziandoli non poco dalla versione antropomorfa iniziata nel 1940 da Giuseppe Caregaro e Rino Anzi, arricchendo la serie di numerosi personaggi, da Giona, menagramo divenuto proverbiale, al bieco Bombarda, tradizionale avversario dei due amici, a Pugacioff, lupo perennemente affamato. Autore assai prolifico, inizia nel 1952 Tiramolla su testi di Roberto Renzi, e disegna numerosi personaggi (da Grifagno Sparagno al Volpone Dulcamara, da Tore Scoccia, un simpatico commesso viaggiatore del futuro, alla serie Vita con il gatto), realizzando anche storie disneyane per Mondadori e collaborando con editori francesi e tedeschi. 7 Nicola Del Principe (1927-2002). Nasce a Pescasseroli e inizia disegnando vignette satiriche per un giornale della Democrazia Cristiana: introdotto al mondo dei fumetti da Enzo Chiomenti, si trasferisce a Milano, dove comincia disegnando per l’editrice Alpe la serie verista Il Dominatore del West, nel 1952, su testi di Cesare Sovini. Comincia poi una quarantennale collaborazione con l’editore Bianconi, per cui disegna Nonna Abelarda, Soldino, Trottolino, Papy, Birillo, Fiordipesco, Luponario, ma anche Tom & Jerry e Pinocchio. Negli anni Sessanta disegna fumetti erotici come Angelica e Il Camionista. Ha pubblicato inoltre in Francia e Germania, disegnando serie come Erik il Vichingo, Tico Tigre e Nicotina.
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ANNI CINQUANTA. COME HO COMINCIATO
Lettera a Chendi dalle Edizioni Alpe, 1961.
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sabile quando dovetti affrontare i personaggi Disney. Non sentivo tanto la necessità di diventare qualcuno o qualcosa, quanto di lavorare facendo ciò che mi piaceva. Noi amavamo queste cose e abbiamo scelto di farlo come lavoro, e alla base c’era proprio il desiderio di trasformare in mestiere, in rendita economica, quella che all’inizio era una semplice passione. Nessuno di noi pensava di diventare famoso, il nostro desiderio era fare storie e incassare assegni! Il primo che incassai era di sedicimila lire, guadagnate con qualcosa di impalpabile: scrivendo storie! Per tutto il resto della mia carriera poi non ho mai pensato ai lettori, ma nessuno di noi lo ha fatto, lo dice perfino Carl Barks: si produceva per noi stessi, facevamo le cose che ci piacevano. Al massimo immaginavamo che l’editore avrebbe trovato da ridire perché poteva esserci qualcosa che non gli sarebbe piaciuto, ma il giudizio del lettore non era una priorità. Quello che ci divertiva lo mettevamo su carta, e questo ci ha permesso di andare avanti con una certa libertà di espressione. I primi tempi in Mondadori erano parecchio selettivi, perché pagavano molto di più rispetto ai prezzi dell’epoca, ed è così anche adesso. Loro mi davano mille lire a pagina, molto più di Alpe e Bianconi, e con una storia al mese la mia rendita era uguale a quella di un normale impiegato. Con gli anni, mi sono accorto che le mie storie erano lette da qualcuno, ma quando le scrivevo non ci pensavo, anche perché non c’erano contatti con i lettori: se qualcuno avesse scritto al giornale, l’editore non te l’avrebbe detto! Era troppo preoccupato dal fatto che l’autore avrebbe potuto chiedergli un aumento, quindi se ci si metteva in testa di essere bravi, si pretendevano più soldi. Non dovevamo essere consapevoli di essere «autori con la A maiuscola» proprio per non dover reclamare niente con gli editori, cosa che infatti è avvenuta. Lo stesso Barks è divenuto consapevole di quello che era nel momento in cui è andato in pensione! Allora l’editore, che non aveva più bisogno di lui, ha tranquillamente diffuso il suo nome e lui ha iniziato a ricevere lettere di ammiratori. Nel nostro caso abbiamo iniziato ad accorgerci dei lettori dopo dieci o quindici anni di professione, quando, una volta cresciuti, capitava di incontrarli: ti dicevano di aver letto le tue storie e allora ci si accorgeva che ciò che si era scritto senza pensare a nessuno, aveva colpito qualcuno. La nostra professione è stata più amore verso il lavoro, che non desiderio di fama.
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SB: Oggi invece si ha l’impressione che nei fumetti accada il contrario.
CC: È questo il guaio. È cambiata anche la società: nell’epoca in cui ho iniziato io, era normale fare apprendistato. Chi aveva un ragazzo che doveva fare una certa professione, metti l’idraulico, cercava un idraulico e gli diceva «Ti mando mio figlio: dimmi quanto vuoi al mese per insegnargli il mestiere!» Quindi spesso le famiglie pagavano il professionista perché insegnasse il proprio lavoro ai giovani. SB: Ma nei fumetti, ancora adesso, o si fa così, oppure niente.
CC: Non solo nei fumetti, anche in altre discipline artistiche, o nel giornalismo. Se uno vuol fare il giornalista e non incomincia ad andare dai vari quotidiani locali a proporre dei pezzi e a ringraziare se glieli pubblicano gratis, non ne esce fuori! Io all’inizio ho fatto anche roba gratis, ma ero disposto a lavorare per qualsiasi prezzo: quasi tutti noi vecchi autori abbiamo cominciato così. Non è che i nuovi abbiano più pretese, ma è il tipo di società in cui viviamo. Il tirocinio è diventato duro da sopportare: chi vuole dedicarsi ai fumetti deve avere un grande spirito di sacrificio. Per citare un amico che adesso fa questo mestiere, Alberto Savini,8 lui, prima di diventare sceneggiatore, lavorava per una discoteca, faceva il «buttadentro», aveva una paga, e sono convinto che quando si è messo a fare fumetti guadagnava meno di ciò che prendeva facendo l’altro lavo8 Alberto Savini (1965). Vulcanico e prolifico sceneggiatore, nato a Milano, esordisce nel 1985 vincendo un concorso per il miglior racconto horror indetto da Creepy. Nel 1989 conosce Carlo Chendi e, abbandonato il fumetto erotico, comincia a collaborare a Tiramolla (Vallardi Editore) e a muovere i primi passi nell’universo Disney. Nel 1991, con i disegni di Lucio Filippucci, scrive due libri-game editi da Juvenilia (Elemond) che fruttano il premio Lunigiana per la letteratura infantile. Dal 1992 collabora con Topolino, il Corriere dei Piccoli (poi divenuto Corrierino), Topps Italia e Panini Modena, per cui progetta decine di album di figurine, Egmont Publishing, per cui scrive storie con i personaggi Warner Bros. Dal 1996 sceneggia per il mensile Prezzemolo (Gardaland); dal 1997 insegna sceneggiatura alla Scuola del Fumetto di Milano. Esperto di enigmistica, crea giochi per Bunny Quiz (Egmont Italia) e RomPK (Disney). Ancora per Disney, nel 2001 crea la fortunata serie Le storie della baia. Attualmente sceneggia quasi in esclusiva per Topolino, per il quale si è anche occupato del ritorno di Macchia Nera.
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ro. E i primi tempi anche lui ha fatto pratica con storie non pagate, proponendole in giro, finché oggi è arrivato a essere quotato molto bene! Però anche lui ha imparato il mestiere, ha fatto il suo tirocinio… Il nostro è un lavoro in cui l’apprendistato è indispensabile: d’altra parte, nel Rinascimento gli artisti andavano tutti a bottega! Giancarlo Berardi, un grande sceneggiatore che tutti conoscono, ogni volta che gli capita, quando ne parla o ne scrive, racconta del tirocinio che ha fatto presso lo Studio «Bierreci».9 Lui riconosce il valore di essere stato a bottega, dove è stato costretto a fare cose che al momento gli sembravano meno interessanti, ma che poi si sono rivelate indispensabili per fare questo mestiere. SB: Raccontami del tuo periodo alle Edizioni Alpe.
CC: Ero ragazzino, con oltretutto il problema di come vestirmi quando andavo a Milano, perché non è che all’epoca ci si potessero permettere chissà quali abiti. Come ho già detto, c’era un treno che, da Roma, arrivava a Torino: lo prendevo alle quattro e mezza di mattina. A Genova cambiavo, c’era il treno che andava verso Milano, che aveva ancora vecchie locomotive a corrente trifase: erano lentissime! Quindi si andava con questa locomotiva fino a Voghera, dove cambiavano e ne mettevano un’altra che funzionava con la corrente che c’è anche adesso, quella alternata. Si arrivava a Milano intorno alle nove. La città non la conoscevo, generalmente andavo, dalla stazione, a piedi dai vari editori: scarpinavo per tutta Milano! Le edizioni Alpe erano in via Carlo Poma, al numero 10, una zona non lontana dal tribunale, in uno stanzone al seminterrato con finestre alte che davano sul marciapiede. In questo stanzone c’erano quattro scrivanie unite l’una all’altra, che formavano un blocco unico al centro della stanza. C’era il padrone, Giuseppe Caregaro, che di fronte aveva la segretaria/amministratrice, Teresa Comelli. La scrivania attaccata alla sua era di Leonello Martini, che di fronte aveva una redattrice tuttofare, l’Arnalda Maffi.
9 Studio Bierreci (1968). Associazione fondata a Rapallo da tre amici professionisti: Luciano Bottaro, Giorgio Rebuffi e Carlo Chendi. Con il trascorrere degli anni, altre firme di prestigio si aggiungono: Maria Luisa Uggetti, Ivo Milazzo, Giancarlo Berardi, Antonio Canale, Egidio Gherlizza, Tiberio Colantuoni e Enzo Marciante.
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Praticamente l’Alpe era tutta lì! Uno s’immaginava una casa editrice con chissà quale sede! Ma era gente molto cordiale, che ti stava a sentire, ti forniva subito la possibilità di cominciare a lavorare, ti dava subito fiducia. E lì ho conosciuto Renato Bianconi, che faceva il calligrafo. Era piuttosto massiccio, alto circa un metro e novanta, una montagna, e lavorava dietro un tavolino che sarà stato trenta per trenta centimetri! Vedevi questo gigante che lavorava lì dietro, faceva quasi impressione! Bianconi possedeva una cosa che allora non era da tutti: una Vespa. Quindi, una volta conosciuto Bianconi, quando arrivavo a Milano gli telefonavo, e Renato veniva a prendermi alla stazione in Vespa e mi portava in giro dai vari editori! Quando ha cominciato a sua volta a fare l’editore – pubblicava Trottolino e io gli scrivevo molte storie, c’è stato un periodo in cui lavoravo parecchio per lui – ogni volta che andavo a Milano mi recavo a casa sua, perché la redazione l’aveva in casa, precisamente in sala, e tutto il materiale del giornale, tavole, carte, lo teneva nel buffet! Aveva uno zio ferroviere che faceva i turni di notte, per cui dormiva da loro, in sala: certe volte arrivavo un po’ troppo presto in «redazione», e con Renato, per andare in sala, dovevamo aspettare in corridoio che lo zio si alzasse! A volte, mentre eravamo lì che parlavamo, lo zio si alzava ancora in pigiama con la faccia piena di sonno, andava in bagno e noi ci spostavamo in «redazione», dove c’era la poltrona-letto ancora da rifare! Mi ricordo che, a quel punto, Renato tirava fuori dalla credenza tutto il materiale. Erano tempi così, dove gli editori lavoravano in questo modo: non c’era ancora il benessere che poi è venuto, era tutta gente che amava il proprio lavoro, credeva nel lavoro che faceva e vi dedicava tempo, era piena di fiducia e di speranza. Anche perché la guerra era finita da seisette anni, quindi c’erano ancora difficoltà nella distribuzione dei giornali, perché i trasporti non coprivano bene tutta l’Italia; c’erano anche problemi nel trovare la carta, perché le industrie cartiere magari erano state bombardate e non producevano abbastanza. Non parliamo di importare carta dall’estero, perché l’Italia non ne aveva la possibilità: c’erano barriere, dogane… era molto difficile. È stato veramente un periodo avventuroso, dove gli editori si buttavano in questo campo con ottimismo, ma anche con un po’ d’incoscienza!
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Pian piano però, man mano che miglioravano le cose, l’Alpe cambiò sede: facendo il Cucciolo a imitazione del Topolino, formato tascabile, cominciò a vendere in quel periodo come il Topolino! Topolino vendeva circa 90 mila copie, il Cucciolo 85 mila: erano molto vicini. L’editore, Caregaro, cominciò a guadagnare un po’ di soldi, e allora si trasferì in un appartamento in una via vicina: aveva preso un’abitazione al pianterreno e ora, finalmente, aveva più spazio per la sua casa editrice. In quest’appartamento – che non era poi così grande: c’erano tre-quattro stanze! – rimaneva una stanza vuota che l’editore aveva offerto a Giorgio Rebuffi nel caso avesse voluto trasferire il suo studio, cosa che Rebuffi fece, dato che anche lui lavorava in casa, in sala, e aveva poco spazio. Giorgio si trasferì quindi lì dentro, in una stanza dell’appartamento dove pagava l’affitto all’editore che, locando [affittando] quella stanza, ricavava ancora qualcosa! È andato avanti così per qualche anno e, tra l’altro, quando andai a militare a Milano nel 1955 (e per quasi tutti i due anni seguenti), Giorgio mi concedeva l’uso del suo studio per un po’ di tempo. La caserma non era distante, andavo a lavorare lì dall’editore che poi, quando si ingrandì un po’ ed ebbe di nuovo bisogno della stanza, chiese a Rebuffi di andare via. Giorgio se ne andò, io invece continuai ad andare lì: l’editore mi aveva dato una stanzetta dove andavo a scrivere le storie finché poi, per una questione di ore – l’editore apriva solo in orario di ufficio e io, col militare, non avevo sempre la libertà di lavorare in quegli orari: qualche volta lavoravo la sera dopo cena – presi in affitto una stanza in Piazza Argentina. Questa stanza aveva anche un letto, perché qualche volta mi fermavo a dormire. Erano tempi in cui i militari non avrebbero potuto girare in borghese, era proibito: io, però, nella mia stanza avevo abiti civili, quindi mi cambiavo di nascosto e andavo in giro per Milano in borghese. Una volta, vestito in borghese, incontro sul tram il maresciallo dal quale dipendevo! Eravamo a mezzo metro di distanza, mi ha guardato, non ha detto una parola, non mi ha neanche salutato e non mi ha detto niente nemmeno dopo, quando sono tornato in caserma: probabilmente capiva che certe cose andavano così!
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SB: In che anno cominciasti a frequentare la redazione di Topolino?
CC: Nel 1953. Mario Gentilini, il direttore, era molto cordiale, mi riceveva sempre, non mi fece mai fare anticamera, non mi fece mai dire che non c’era. Una cosa curiosa di quando lo conobbi è che lui teneva sempre la mano destra dietro la schiena, e quando entravo mi dava la sinistra. Non riuscivo mai a vedere la mano destra. Solo qualche anno dopo, quando tra noi iniziò a esserci familiarità, vidi che la mano destra era focomelica: quasi non aveva la mano, ecco perché all’inizio si vergognava. Dopo non ci fu più problema, anzi, c’era confidenza. Comunque i primi tempi mi riceveva, gli parlavo delle storie, gli portavo le trame, scrivevo sceneggiature che regolarmente mi bocciava: aveva ragione, perché era il periodo in cui dovevo fare il mio tirocinio, in cui dovevo imparare il mestiere. Tra le altre cose ho ancora una copia di una sceneggiatura che lui aveva iniziato a correggermi di suo pugno: arrivato a un certo punto, si è reso conto che era irrecuperabile e me l’ha restituita! Però ne ho una dozzina di pagine corrette con la sua calligrafia. Questi, quindi, gli editori con cui collaboravo all’inizio: Alpe, Bianconi e Mondadori. Più tardi andai anche al Corriere dei Piccoli, ma un po’ più avanti, all’inizio del 1961. Direttore del Corriere dei Piccoli era Guglielmo Zucconi, padre del Vittorio Zucconi giornalista di la Repubblica, che era stato anche autore di testi per riviste: era da poco diventato direttore del Corriere dei Piccoli, giornale che era appena stato trasferito dalla sede storica del Corriere della Sera, in Via Solferino, al nuovo stabilimento che i fratelli Crespi, proprietari, avevano preso in Via Scarsellini, ad Affori. Allora era una zona un po’ fuori Milano, in campagna: c’era uno stabilimento grosso dove stampavano i periodici e avevano messo la redazione e di fronte, attraverso strade non ancora asfaltate e piene di pozzanghere, c’era la fabbrica della Oerlikon, l’industria svizzera che fabbricava mitragliatrici e aghi per macchine da cucire. Dato che le collaudavano nei sotterranei, ogni tanto arrivava, attutito, il frastuono delle raffiche delle mitragliatrici provate nel sottosuolo! Mi ricordo che Zucconi, quando andai, mi ricevette immediatamente dicendo di essere
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molto impegnato: aveva cominciato una storia a puntate di cui aveva scritto le prime due – era una storia disegnata da Leone Cimpellin,10 Carletto Sprint – e non aveva tempo di andare avanti. Mi chiese se avessi voluto finirla io e, ovviamente, io risposi di sì! Non c’era una trama, avevo solo le prime due parti scritte da lui: mi disse di arrangiarmi. Andai a casa e mi misi a scrivere: gli inviai la puntata successiva. Mi rispose immediatamente con una lettera: allora si telefonava poco, perché telefonare era quasi più lungo che parlare attraverso la posta! Mi disse che la storia andava benissimo: dovevo andare avanti e finire tutto. Così iniziai a lavorare anche per il Corriere dei Piccoli. Tra l’altro loro, mentre Mondadori, Alpe e Bianconi pagavano alla consegna della sceneggiatura – subito o comunque dopo poco tempo – il Corriere dei Piccoli usava pagare a pubblicazione avvenuta, per cui tutte le settimane, ogni volta che usciva la parte scritta da me, mi arrivava l’assegno del Corriere. Mi pagavano una pagina alla volta a pubblicazione avvenuta! L’amministrazione guardava il giornale e, in base a quello che era stato pubblicato, effettuava i pagamenti per tutti quelli i cui lavori apparivano. Pagavano anche abbastanza bene, direi: insieme alla Mondadori, le loro retribuzioni erano le migliori.
SB: Parlami della prima storia disneyana che hai scritto per Mondadori. Se non sbaglio era Le miniere di re Paperone.
CC: Buttai giù un soggetto, era il 1953. In quel periodo Bottaro era a militare, e io frequentavo Guido Scala, che proprio allora cominciava a fare fumetti: ricordo che il primo a cui ho raccontato questa trama è stato lui. A lui piacque e io la mandai a Gentilini…
10 Leone «Leo» Cimpellin (1926). Nasce a Rovigo ed esordisce nel mondo dei fumetti a vent’anni come assistente di Lina Buffolente. Disegnatore molto versatile, si dedica in seguito a personaggi sia avventurosi sia umoristici, dando vita a Plutos su testi di Gianluigi Bonelli. All’inizio degli anni Cinquanta fa parte dello staff di Pecos Bill e di Oklahoma, serie western create da Guido Martina per gli Albi d’oro Mondadori. In seguito, al Corriere dei Piccoli, dà vita a personaggi come Carletto Sprint, Gelsomino, Tribunzio e Gigi Bizz. Per Mondadori disegna avventure di Superman per Nembo Kid e, per Astorina, Diabolik. All’inizio degli anni Settanta disegna, su testi di Romano Garofalo, una parodia di 007, Jonny Logan. In seguito collabora con Supergulp! e con Più, mentre continua a essere una firma del Corriere dei piccoli, disegnando anche numerosi episodi delle Tartarughe Ninja. L’abilità in tutte le forme della letteratura disegnata gli consente di passare da un genere all’altro, diventando un maestro per le nuove generazioni.
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SB: Scala lavorava già per Mondadori?
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CC: No. Nel periodo in cui Bottaro era a militare, Scala disegnò alcuni suoi personaggi – tipo Pepito, Maramao, Pik e Pok11 e altri che Bottaro realizzava per l’Alpe e per Bianconi – per tenerli vivi affinché fossero pubblicati anche durante l’assenza dell’autore, dato che allora il servizio militare durava 18 mesi. Scala disegnava Pik e Pok per il Trottolino, faceva Maramao per l’Alpe e illustrava alcune storie di Pepito e di Baldo,12 sempre per l’Alpe. Quindi, visto che allora eravamo tutti agli inizi, cercavamo di sentire i reciproci pareri sul nostro lavoro, di incoraggiarci tra di noi… e Scala m’incoraggiò! Alla fine portai questa trama a Gentilini, il quale mi disse che andava bene e di scriverne la sceneggiatura: la scrissi e gliela portai. In quei giorni Bottaro, a militare, aveva un periodo libero, una licenza, e dato che anche lui doveva continuare a lavorare per una questione di soldi, il direttore gli diede la mia storia da disegnare, anche perché eravamo concittadini e amici: Bottaro la disegnò mentre faceva il militare, forse qualche tavola la fece mentre era in licenza a Rapallo. In particolare ricordo la seconda storia che scrissi, che era con la strega Nocciola e s’intitolava Paperino e l’aspirapolvere fatato. Mi piaceva da matti il personaggio di Nocciola ed era il periodo in cui si vedevano i primi aspirapolvere: feci una storia in cui lei, pensando che la scopa fosse un oggetto ormai obsoleto, per volare, invece di quella, avrebbe usato un aspirapolvere magico! Con una serie di gag che adesso non ricordo nemmeno più, alla fine della storia, lei decideva di buttare l’aspirapolvere e di tornare alla sua vecchia scopa. È stata la prima
11 Pepito (1952) è il primo personaggio di successo di Bottaro. Tradotto in Francia, con le edizioni più curate, Argentina, Australia, Brasile, alcuni paesi di lingua araba, Grecia, Germania, Spagna, Portogallo, ex Iugoslavia, in Italia Pepito, simpatico pirata, compare prima sul mensile Cucciolo quindi nella collana Gaie Fantasie, entrambe edite da Giuseppe Caregaro, per poi avere una rivista tutta sua, che durerà solo 18 numeri. Il personaggio migra poi da rivista a rivista fino alle pagine de Il Giornalino, che gli dedica anche alcuni inserti speciali. Maramao (1952), pubblicato dalle edizioni Alpe, è un gatto in lotta con tre fratelli suoi nemici. Pik e Pok (1952), pubblicati dall’editore Bianconi, sono due topini di campagna emigrati in città. 12 Baldo (1952). Sergente del corpo delle Giubbe Rosse canadesi, è ideato dal cartoonist di Rapallo Luciano Bottaro per conto delle edizioni Alpe. Non molto conosciuto in Italia, ha invece una buona diffusione in terra francese, con molte storie realizzate appositamente per tale mercato da Carlo Chendi, Guido Scala, Giorgio Rebuffi.
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apparizione di Nocciola dopo la storia di Barks [Paperino e le forze occulte, pubblicata su Topolino n. 56 del 1952], ovvero il secondo utilizzo di Nocciola nei fumetti. NOCCIOLA, MON AMOUR
SB: Perché scegliesti proprio la strega Nocciola per la tua seconda storia Disney?
CC: Nocciola nasce come personaggio dei disegni animati, in un cortometraggio su Halloween [Trick or Treat, del 1952, diretto da Jack Hannah]. Lo storyboard13 di questo short cinematografico fu poi passato a Barks affinché ne ricavasse una versione a fumetti e lui, da quello, trasse una storia meravigliosa, decisamente migliore della trama del cartone animato: Nocciola mi piacque talmente che decisi di usarla anch’io. SB: Quindi Paperino e le forze occulte è stata forse la tua prima lettura di Barks, anche se non sapevi che l’autore di quella storia fosse lui.
CC: All’epoca nessuno sapeva chi fosse Barks! Comunque mi era piaciuta così tanto da farmi decidere di riprendere Nocciola, ed è stata la seconda storia a fumetti di Nocciola di tutti i tempi. Tra l’altro in America, dopo Barks, Nocciola non è stata usata quasi più e, se è stato fatto, è successo solo molti anni dopo la ripresa del personaggio in tutte le salse da parte di noi italiani. Con Gentilini si era stabilito che io passassi le mie storie a Bottaro: veniva comodo a tutti e due anche perché allora c’erano pochi sceneggiatori. C’era Guido Martina, c’ero io, c’era Alberto Testa, che scriveva canzoni e faceva qualche storia ogni tanto. Gentilini aveva un disperato bisogno di storie e appena qualcuno ne scriveva una pubblicabile, la dava subito da disegnare; Bottaro già allora era uno di quelli bravi, a cui
13 Sequenza di bozzetti, immagini e talora didascalie che riassumono la trama di un film, di uno spettacolo televisivo o di uno spot pubblicitario.
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veniva bene passare del lavoro, quindi anche Paperino e l’aspirapolvere fatato fu affidata a lui. Prima che la storia uscisse, mi arrivò la cartolina precetto e venni chiamato alle armi, nel 1955. All’inizio andai a fare il CAR a Brescia; poi fui trasferito a Milano. Non avevo raccomandazioni e casualmente riuscii a fare il CAR a Brescia, dove preparavano avieri per l’aeronautica da mandare in tutta Italia. In gran parte finivano a Otranto e per me non poteva esserci niente di peggio, perché mi avrebbe allontanato da quelli che erano i miei posti di lavoro. Il caporale istruttore che avevamo lì a Brescia, con cui poi diventammo amici, aveva una fidanzata e, dato che lui non era granché a scrivere lettere d’amore, mi chiese se potevo scrivergliele io! Poi lui, ovviamente, le ricopiava e le spediva. Per sdebitarsi, il caporale andò all’ufficio dove assegnavano le partenze: lui non è che avesse chissà quale autorità, ma chiese a un altro suo amico di pari livello di infilarmi in una lista di quelli diretti a Milano. Così tornai a Milano, provvisoriamente, a fare un corso da operatore radar della durata di tre mesi. Parallelamente tornai all’Alpe, a trovare Caregaro e a chiedergli un po’ di soldi perché ne avevo sempre bisogno: allora facevo qualche breve storiella, gliela portavo e me la facevo pagare. Un giorno incontrai una cara amica di Caregaro, che conoscevo già perché era spesso lì all’Alpe: mi disse che, se avessi avuto bisogno di qualcosa, lei mi avrebbe aiutato in quanto amica d’infanzia del generale che comandava dove io prestavo servizio! «Accidenti!», pensai. Chiesi di poter restare a Milano e lei evidentemente ne parlò al generale perché, da allora, rimasi lì e continuai a lavorare per l’Alpe, per Bianconi e anche per Gentilini. Dato che ero a Milano, andavo spesso a trovare Gentilini anche solo per chiacchierare: quando lui non aveva granché da fare, stavamo dei pomeriggi nel suo ufficio a parlare. C’era un certo feeling tra di noi, forse perché, a distanza di anni, eravamo nati entrambi negli stessi giorni di luglio: chiacchieravamo molto. Un giorno Gentilini mi mostrò una sceneggiatura che gli era appena arrivata, disegnata sotto forma di layout.14 Era perfetta! Era di un dise14 Bozzetto della copertina di un libro, della pagina di giornale, di un annuncio pubblicitario, in cui vengono posizionati in modo definitivo le illustrazioni e i testi, in modo da dare l’idea dell’immagine del pezzo una volta stampato.
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gnatore che aveva mandato quella storia in approvazione, storia che poi avrebbe illustrato lui stesso, ed era già disegnata a matita in maniera impeccabile. Questo nuovo autore si chiamava Romano Scarpa!15 Anni dopo gli dissi «Sai, io ho visto la tua prima sceneggiatura disegnata!». Scarpa i primi tempi, dato che le sceneggiature se le scriveva lui, invece che batterle a macchina o buttarle giù a mano, le disegnava a matita su carta da macchina da scrivere, ed erano perfette, sarebbe bastato solo inchiostrarle. I COLLEGHI
SB: Chi sono gli altri autori che hai conosciuto in quel periodo?
CC: Su in Mondadori ne incontravo moltissimi: G.B. Carpi16 lo conoscevo già da prima, essendo lui di Genova. Da Rapallo invece, oltre a me, venivano Bottaro, Scala e Aloisi, che non ha mai fatto Disney: era un disegnatore molto bravo, che poi… ne parleremo magari più avanti. A Genova c’erano Carpi, Giulio Chierchini17 e Ernesto Piccardo.18 Si
15 Romano Scarpa (1927-2005). Nato a Venezia, s’iscrive all’Accademia di belle arti, che abbandona per la passione per i disegni animati. Nel dopoguerra realizza ... E poi venne il diluvio, cortometraggio ambientato nella preistoria, e nel 1947 dà vita a un piccolo studio di animazione. Da sempre appassionato dei personaggi disneyani, esordisce nel 1953 su Topolino con Biancaneve e Verde Fiamma, su testi di Guido Martina, ma ben presto ottiene di scrivere le proprie storie. Ne ha realizzate centinaia, creando anche numerosi personaggi ripresi poi da altri autori: Atomino Bip-Bip, Trudy, Brigitta, Filo Sganga, Sgrizzo, Paperetta Yé-Yé e Codino cavallo marino. 16 Giovan Battista Carpi (1927-1999). Nasce a Genova e debutta nel mondo dei fumetti nel 1945 sul settimanale Faville. In seguito collabora con Lo Scolaro, La Gazzetta dei piccoli e altre riviste. Lavora come intercalatore nello studio di disegni animati dei fratelli Pagot e nel 1953 entra in Mondadori realizzando storie con i personaggi Disney. Disegna alcune famose parodie tra cui una riduzione de I miserabili di Victor Hugo, e illustra numerosi Manuali delle Giovani Marmotte; nel 1969 crea graficamente il personaggio di Paperinik. Per l’editore Bianconi crea Nonna Abelarda, realizza numerose storie di Fixi und Foxi per la Germania e dà vita a Gargantua per Smack e a Dodo per Airone Junior (dal 1989). Ha inoltre fondato e diretto l’Accademia Disney, la scuola di autori allestita in seno alla Disney Italia. 17 Giulio Chierchini (1928). Genovese, studia all’istituto d’arte Duccio di Buoninsegna di Siena e inizia la sua carriera come animatore nel 1946. Nel 1952 passa ai fumetti disegnando per le edizioni Alpe (Castorino, Tik Corvo, Dan Lepre) e Bianconi (Volpetto, Mao & Okey). Si unisce in seguito a G.B. Carpi (con cui aveva disegnato Nonna Abelarda), nel 1953, entrando in Mondadori e lavorando sulle storie Disney: dal 1964 si scrive anche le sceneggiature. Oltre al lavoro per la Disney, per cui illustra decine di storie, Chierchini disegna Geppo e Chico Cornacchia per Bianconi, e Rodicchio e Clodovea per Fasani. Tra il 1966 e il 1972 disegna diverse storie di Fixi und Foxi per la tedesca Kauka Verlag. 18 Ernesto Piccardo (1927). Nasce a Genova, dove frequenta l’Accademia Ligustica di Belle Arti. In
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Layout di una tavola Disney di Romano Scarpa, Seul 1988, Paperolimpiadi: «Al vecchio amico e compagno di lavoro Carlo». © Disney
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girava un po’ intorno agli unici due editori della città: Lo Scolaro era un giornalino che, nel formato e nel genere, ricordava il Corriere dei Piccoli, però nel periodo scolastico aveva molte rubriche didattiche e pagine a fumetti in rima, proprio come il Corriere dei Piccoli. L’interno quindi era molto didattico perché il suo principale ambito di diffusione erano appunto le scuole: non c’era, però, molta possibilità di collaborazione. C’era poi De Leo, un altro piccolo editore genovese che aveva pubblicato Cowboy, uno dei primi giornali del dopoguerra, e continuava a editare qualcosa. In Liguria, nei primi anni Cinquanta, ci si conosceva tutti: avevo incontrato anche Gallieno Ferri,19 pure lui lavorava per De Leo. Carpi, invece, cominciò a lavorare per la Disney dopo Bottaro. Allo Scolaro avevamo conosciuto Giulio Chierchini, che aveva fatto un cartone animato con Giorgio Scudellari.20 Il ricavato era andato più a Chierchini che a Scudellari e Giulio, con i soldi guadagnati, acquistò una Lambretta, che a quel tempo era come avere una BMW oggi! Lui andava a Milano in Lambretta da Genova, facendo quelle che oggi sono le strade statali o provinciali, perché l’autostrada ancora non c’era. Una seguito diviene designer per importanti case cinematografiche, cartellonista per gli Enti Fiera di Milano, Genova e Ventimiglia, fumettista di note case editrici, collaboratore di riviste italiane, tedesche e francesi. Come pittore figurativo ha al suo attivo più di 120 mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Con gli artisti trentini ha esposto alla mostra «Il fiore nella pittura e nella grafica», al Museo Diocesano di Trento nel 1968, quindi a Jesolo a «Paesaggisti Trentini» nel 1983, e a Comano, alla mostra collettiva del gruppo di artisti de «La Cerchia» nel 1987, solo per citarne qualcuna. Vive a Trento. 19 Gallieno Ferri (1929). Nasce a Genova e, nella seconda metà degli anni Quaranta, disegna per l’editore Giovanni De Leo Il fantasma verde e Piuma Rossa. Dal 1949, su testi dello stesso editore, disegna Maskar, che prende il posto di Fantax, bloccato dalla censura francese. Negli anni Cinquanta collabora con il giornale a fumetti cattolico Il Vittorioso, mentre disegna le avventure dell’indiano TomTom e della giubba rossa Thunder Jack. Nel 1961 dà vita, insieme a Guido Nolitta (Sergio Bonelli), all’avventuroso Zagor, al quale dedicherà in futuro la maggior parte del proprio tempo, anche se nel 1975 disegna la prima storia di Mister No, un altro popolare personaggio di Nolitta, realizzandone le prime centoquindici copertine. 20 Giorgio Scudellari (1908-1966). Nasce in Sud America, ma vive e lavora in Italia per quasi tutta la vita. Fa parte del primo nucleo della casa editrice Nerbini a Firenze; è poi presente, nel 1934, nella prima edizione de L’Avventuroso disegnando Dal deserto alla giungla. Nello stesso anno disegna materiale extra per la pubblicazione italiana, su Supplemento di Topolino, della prima striscia di Mickey Mouse di Walt Disney, Ub Iwerks e Win Smith. Collabora poi con altri editori come Mancuso (L’Eroico, 1945) e Bonelli (Il Giustiziere del West, 1948). Si concentra infine sull’animazione, lavorando al film di Anton Gino Domeneghini La Rosa di Bagdad nel 1949. Durante gli anni Cinquanta collabora alla rivista genovese Lo Scolaro e, per un breve periodo, lavora a cartoni animati pubblicitari con Giulio Chierchini. Muore in Brasile.
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volta Bottaro gli chiese un passaggio, quindi si accordarono: lui prese il treno fino a Genova dove poi si incontrò con Chierchini e insieme andarono su. A Milano Bottaro doveva andare, tra gli altri, anche da Mondadori a consegnare una storia: Chierchini era con lui e quindi, mentre si trovavano in redazione, Bottaro lo presentò al direttore, il quale alla fine gli chiese di fare alcune prove. Se le prove fossero andate bene, avrebbe passato del lavoro anche a lui. All’epoca, però, Chierchini non era ancora in grado di lavorare da solo e quindi, una volta tornato a Genova, si rivolse a Carpi e si fece fare le prove da lui. Carpi, che era già molto bravo, disegnò le matite e Chierchini le inchiostrò: poi portò tutto a Gentilini che, da allora, iniziò a passargli il lavoro. Chierchini non disse che si faceva aiutare, ma che era roba sua: Gentilini non sapeva che c’era la mano di Carpi! Insieme, Carpi e Chierchini, hanno lavorato abbastanza, e nel 1952’53 producevano parecchia roba: Carpi sempre alle matite, Chierchini alle chine. Era poi sempre lui a consegnare e a venire pagato: poi, naturalmente, dividevano. A un certo momento, però, a causa di un litigio fra i due Carpi andò a Milano da Gentilini e rivelò che a fare quelle tavole era lui, mostrando i disegni a matita. Gentilini allora lo invitò a continuare: così Carpi iniziò, finalmente a suo nome. Questo per dire come ci si frequentasse e si sapesse tutto gli uni degli altri. Ci si vedeva a Genova, a Milano, ci mettevamo d’accordo per prendere il treno insieme, a Milano andavamo a consegnare insieme i lavori e poi tutti in trattoria. C’era una certa frequentazione, ma era una frequentazione da colleghi, non da amici: fuori dal lavoro non ci vedevamo mai. A Milano poi ho conosciuto Rebuffi, che disegnava Cucciolo e Beppe per L’Alpe, e Trottolino e altri personaggi per Bianconi. Poi, essendo diventati un po’ più amici con Rebuffi, ogni volta che si andava a Milano, prima ancora di andare dall’editore, andavo a casa sua, che stava a duecento metri dalla stazione centrale, lo andavo a trovare e poi si andava dall’editore insieme. Cercavamo di mantenere i contatti, ed erano amichevoli, non di concorrenza: ciascuno curava il suo orto senza dar fastidio agli altri. Tra l’altro, in quel periodo, Rebuffi e Bianconi avevano iniziato a fare i
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menabò21 del Cucciolo: l’editore aveva affidato a loro due questo compito, e Bianconi e Rebuffi, con un criterio loro, decidevano quanto mettere di Cucciolo, quanto di altri personaggi… erano loro, insomma, a curare la testata per conto dell’editore. Bianconi era sempre il nostro «taxi» a Milano: ci veniva a prendere con la Vespa in stazione, e dovunque dovessimo andare, lui ci scarrozzava. Quante volte sono andato in Mondadori con Bianconi che mi aspettava lì sotto in Vespa, mentre io ero a parlare con Gentilini! È stato un bel periodo. Intanto gli editori crescevano: quando, per esempio, Bianconi poté permettersi un bell’ufficio fuori di casa, fece una vera redazione e acquistò un’auto, quindi non ci scarrozzava più! Dopo la Vespa passò a una «Topolino Giardinetta». A quel punto, pur avendo sempre la passione per fare i fumetti, materialmente Bianconi non curava più il lettering in prima persona: era direttore del giornale ed editore e, di conseguenza, non era più possibile telefonargli per farsi portare in giro! D’altronde, però, noi iniziavamo a conoscere meglio la città e a prendere i mezzi pubblici: tram, autobus… Pian piano il lavoro di collaborazione con Alpe e Bianconi si sviluppò. PEPITO: AVVENTURE EDITORIALI DI UN PIRATA
SB: Qual è stata la vicenda editoriale di Pepito?
CC: Bottaro disegnò una storia di Pepito, su testi di Roberto Renzi,22 e poi andò a militare. Prima che tornasse, nel frattempo, il personaggio
21 Modello per l’impaginazione di testo e illustrazioni, ottenuto incollando bozze di stampa su appositi fogli, nei quali è stato tracciato un riquadro, detto gabbia, secondo le misure della pagina che si vuole ottenere. 22 Roberto Renzi (1923). Nasce a Cadorago (Como). A diciannove anni, nel 1942, comincia a sceneggiare fumetti e, nel giro di pochi anni crea diversi personaggi, tra cui Akim, Giungla Bill, Zan della jungla, Coyote, Tiramolla. Di Akim, dopo avere creato il personaggio, scrive le avventure per oltre vent’anni, pubblicando con continuità soprattutto in Francia. Inventa Tiramolla per le edizioni Alpe nel 1952, illustrato inizialmente da Rebuffi e poi da Manfrin, e lo caratterizza scrivendone diverse avventure. Per Topolino scrive soltanto sette storie. La sua attività principale, dagli anni Cinquanta, è tuttavia quella giornalistica, al punto da essere per diverso tempo direttore del Circolo della Stampa di Milano. Nel 2000 riunisce alcuni autori e operatori del fumetto per una cena durante la quale si costituisce il primo nucleo dell’Accademia del fumetto.
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era stato venduto ai francesi, che ne avevano iniziato una produzione autonoma con storie scritte e disegnate da Carlo Cossio,23 il mitico disegnatore di Dick Fulmine: quando Bottaro finì il militare, l’editore francese aveva bisogno di storie, quindi io e Luciano ci buttammo a corpo morto nel produrre storie per questa nuova pubblicazione. Pepito, lo seppi dopo, vendeva uno sproposito di copie: c’erano occasioni in cui l’editore era stato costretto a ristampare un numero perché era andato esaurito immediatamente in edicola! Poi tutte le rese che l’editore aveva in Francia – le rese sono una cosa fisiologica, ci sono anche quando la pubblicazione va bene – venivano mandate in Algeria e quindi alla fine si vendeva tutto. La cosa andò talmente bene che poi, intorno a Pepito, nacquero altre pubblicazioni: speciali, trimestrali ecc. Quindi, oltre a lavorare per l’Alpe, per Bianconi, un po’ per il Corriere dei Piccoli, facevo parecchio anche per quest’editore francese, la Sagédition, e per il Pepito. La nostra tendenza di liberi professionisti era di continuare a lavorare sempre: poteva però capitare che un editore, per qualche ragione, per un certo periodo non avesse molto lavoro, magari perché aveva comprato altro materiale dall’estero che gli costava meno. A volte, quindi, il tale editore ti lasciava senza lavoro, e si aveva la necessità di trovarne altro e di collaborare con più case editrici, in maniera che se qualcuno te ne avesse passato meno, tu avresti potuto continuare a lavorare per altri e a ricavare di che vivere. La filosofia era quella di tenere i piedi in più scarpe, che è ancora la filosofia di oggi per chi non è dipendente ed è libero professionista. DEBUTTO NELLA GRANDE PARODIA: IL DOTTOR PAPERUS
SB: Per chiudere questa decade degli anni Cinquanta, c’è stata una
23 Carlo Cossio (1907-1964). Nasce a Udine ed esordisce nel 1928 nel cinema d’animazione, realizzando numerosi cortometraggi. Disegna alcuni fumetti sul Cartoccino dei piccoli ma diventa famoso nel 1938, quando incomincia a realizzare, sulle pagine dell’Audace e su testi del giornalista sportivo Vincenzo Baggioli, le avventure di Dick Fulmine, che continua sino al 1955, quando si ritira dopo aver disegnato anche numerosi altri personaggi, tra cui Furio Almirante, Tanks pugno d’acciaio, Kansas Kid e Bufalo Bill.
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tappa molto importante, ovvero la realizzazione della celebre storia disneyana Il Dottor Paperus.
CC: Con Bottaro si lavorava insieme da sempre e lui amava disegnare più le storie in costume che quelle, diciamo così, ambientate ai giorni nostri. Per questo motivo amava molto i pirati. Anche a me piacevano le storie in costume, tra cui il Faust di Albertarelli. Alla fine, parlando con Luciano, venne fuori di farne la parodia disneyana: io scrissi la trama, la portai a Gentilini che l’approvò, e poi feci una sceneggiatura di settanta tavole, in due puntate, che Bottaro disegnò. Tra l’altro quella storia, dato che lavoravamo insieme, fu una delle prime in cui applicammo il retino adesivo24 sulle pagine. Era un’idea che ci era venuta grazie a Umberto Manfrin,25 un collega che, prima di arrivare ai fumetti, era stato in pubblicità, dove questo metodo era parecchio usato: il retino veniva applicato alle tavole e dava tonalità di grigio ai disegni. Dato che allora Topolino aveva, alternate, due pagine a colori e due in bianco e nero, mettemmo il retino per dare risalto al disegno, nelle pagine che sapevamo sarebbero state pubblicate in bianco e nero. E quel retino lo applicavo io! All’interno dei compiti che ci eravamo divisi, io ho applicato il retino a tutto il Dottor Paperus: ho visto che gli originali li ha un collezionista, e sono ancora con il mio retino! Il retino si applicava, a pezzi grandi, sulla parte a cui si voleva dare il tono di grigio: poi, con una lametta, si tagliava intorno, togliendo tutto quello che non serviva. La porzione che copriva il disegno andava cancellata e, dato che comunque il retino era stampato su un adesivo trasparente, bisognava togliere la parte stampata e, per farlo, si adoperava un 24 Pellicola trasparente o puntinata, colorata o rigata, che, realizzando disegni, si usa per ottenere zone grige o colorate, di consistenza più o meno uniforme. 25 Umberto Manfrin (1927-2005). Nasce a Udine e, dal 1952, collabora con le edizioni Alpe per le testate Cucciolo e Tiramolla. Per venticinque anni disegna soprattutto Tiramolla e un personaggio tutto suo, Ullaò. Collabora inoltre con la tedesca Kauka Verlag e nel 1968 disegna Braccobaldo per Mondadori. Negli anni Settanta realizza diversi episodi con personaggi di Hanna & Barbera, pubblicati principalmente dal Corriere dei Piccoli, dove trova spazio anche il suo personaggio Tony Spazzola. Negli stessi anni, per l’editore Bianconi, disegna Gatto Felix. Dalla fine degli anni Settanta disegna per Smack, La Banda, Più, Lanciostory. Negli anni Novanta partecipa alla ripresa del personaggio Tiramolla; collabora a Topo Gigio e soprattutto riprende a collaborare con riviste di enigmistica. Si spegne a Milano.
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Disegno inedito di Luigi Maio, omaggio a Chendi e al suo Mefistofele.
liquido che mi facevo preparare in farmacia. Mi sembra fosse a base di benzolo e trielina: con un batuffolo di ovatta andavo a cancellare quello che non serviva.
SB: Nella storia compare di nuovo la strega Nocciola. Perché sceglieste proprio lei? Per via del tuo antico amore verso il personaggio?
CC: All’inizio non eravamo sicuri su quale strega usare, c’era il dubbio tra la strega di Biancaneve e i sette nani e Nocciola. Alla fine Bottaro scelse Nocciola anche per una questione pratica: gli riusciva più facile da disegnare. La strega di Biancaneve era piuttosto complicata anche perché è un personaggio, praticamente, di genere verista. Il Dottor Paperus venne così pubblicato e, all’epoca, noi che facevamo storie non sapevamo nulla del loro destino: le portavamo agli edito-
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ri i quali, a volte, facevano piccole rimostranze. Era tipico degli editori non lodare mai il lavoro degli autori, sempre per il timore che l’autore chiedesse prezzi maggiori: se anche fosse arrivata una lettera di complimenti di qualche lettore, non te l’avrebbero fatta vedere. Quindi noi non sapevamo come le nostre storie venissero accolte; noi si lavorava facendo le cose che ci piacevano, le portavamo all’editore che le pubblicava e si ricominciava. Ogni tanto c’era qualche lamentela dell’editore, ma erano sempre di carattere tecnico, mai sulla bontà delle storie: ho lettere di Gentilini, anche di quell’epoca, in cui mi diceva che la storia di turno andava bene. Non mi diceva mai che era bella, non mi faceva mai troppi complimenti, ma era la norma, e a noi stava bene: finché c’era da lavorare noi facevamo del nostro meglio. Anche Barks, ho scoperto dopo, si comportava più o meno così: non consegnavamo il lavoro finché noi non eravamo soddisfatti, non è che lavorassimo per l’editore o per il lettore – non sapevamo se ci apprezzassero o meno – lavoravamo per la paga. Complimenti non ne ho mai avuti, ma non solo io, credo nessun autore: probabilmente non si usavano! Dopo il «Paperus» ho scritto anche altre parodie. In quel tempo facevo sia storie Disney che di Pepito e altri personaggi, ma tutte quasi esclusivamente per i disegni di Bottaro. Ho scritto anche qualcosa per Rebuffi, qualche storia di Tiramolla26, qualcuna dello Sceriffo Fox,27 un vecchio personaggio che disegnava per l’Alpe. Poi c’è stato un periodo in cui il tipografo che stampava Cucciolo, di nome Angelo Fasani, specializzato in carte per istituti geografici, vedendo quante copie tirava il Cucciolo decise di mettersi a fare l’editore realizzando una pubblicazione che doveva chiamarsi Il Musichieretto, per26 Tiramolla (Italia, 1952). Personaggio creato da Roberto Renzi e disegnato da Giorgio Rebuffi, esordisce sul mensile Cucciolo edito da Giuseppe Caregaro per le Edizioni Alpe, a fianco di Cucciolo e Beppe. Il successo del personaggio porterà circa un anno dopo, nel luglio del 1953, alla nascita della testata Tiramolla. A Rebuffi subentra poi Umberto Manfrin (Manberto) che crea nuovi personaggi che si affiancano al protagonista, come il maggiordomo Saetta, il nipote Caucciù e altri ancora. Alla fine degli anni Ottanta Tiramolla scompare dalle edicole per ricomparire negli anni Novanta nell’edizione Vallardi, completamente rinnovato nell’aspetto e nel costume. 27 Lo Sceriffo Fox (Italia, 1949). Ideato da Giorgio Rebuffi, è protagonista di un simpatico western umoristico con animali antropomorfi. Fox è un corvo nero abilissimo con la pistola, coraggioso e onesto. Al suo fianco, come aiuto-sceriffo, c’è Conny, un coniglio fifone che lo intralcia quando bisogna contrastare i criminali, a incominciare dal perfido Baffos, un gatto astuto che organizza colpi sempre più complessi che si concludono inmancabilmente con la sua sconfitta e il suo arresto.
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ché in quel periodo era in voga in televisione il programma «Il Musichiere». Mi ricordo che quell’editore fece lavorare sia me che Carpi, Aloisi, Bottaro, Chierchini… Alla fine si era rivolto ai «genovesi». Nei primi numeri io scrissi qualche storia per G.B. Carpi, per un personaggio che si chiamava Amleto Cariolò, poi feci Nasolungo e Gambacorta per Bottaro. Quando finalmente la rivista fu in procinto di uscire, «Il Musichiere» era finito perché Mario Riva, il presentatore, ebbe un incidente, morì e senza di lui la trasmissione chiuse: il traino televisivo a quel punto non c’era più, e l’editore si trovò nella necessità di pubblicare una nuova testata. Scelse il nome Oscar, che era facile, abbastanza famoso per via dei premi cinematografici, solo che non aveva alcun aggancio con personaggi di testata e, per alcuni numeri, uscì il giornale Oscar che però, al suo interno, non aveva personaggi che portassero questo nome. Inizialmente, come ti ho detto, Fasani si rivolse solo a Carpi, che a quei tempi lavorava con Attilio Mazzanti, uno sceneggiatore genovese: Carpi, però, non avrebbe potuto fare tutto da solo, e chiamò così il concittadino Aloisi in aiuto. Visto che ancora non bastava, G.B. chiese il mio appoggio e quello di Bottaro: facemmo quindi una riunione a Genova con Fasani, Carpi, Mazzanti, Bottaro, il sottoscritto e, mi pare, anche Aloisi. A un certo momento, visto che le cose potevano sfuggirgli di mano, alla fine G.B. preferì tirarsene fuori: Fasani chiese allora a Bottaro e a me di ideare un personaggio chiamato Oscar. Noi avevamo Nasolungo e Gambacorta, che funzionavano bene: si trattava di un elefante (Nasolungo) che abitava in una riserva africana con un topo (Gambacorta) che, cacciando di frodo, rapiva gli animali per venderli ai circhi e agli zoo. Con Bottaro proponemmo a Fasani di trasformarli: scrissi una storia in cui l’elefante Nasolungo ha l’hobby della recitazione e partecipa ad alcune rappresentazioni in maniera così pessima da ricevere l’Oscar per la peggiore interpretazione dai suoi concittadini, che da quel momento lo soprannominano ironicamente Oscar. Da lì la serie prende il nome di Oscar, così come il personaggio: il nome Nasolungo pian piano sparì. Nel frattempo Carpi aveva parecchio lavoro per la Mondadori e smise di lavorare a Oscar, per cui aveva realizzato in precedenza quattro sto-
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rie su testi miei: la testata rimase praticamente nelle sole mani mie e di Bottaro. Guido Scala era tornato dal militare – poi parleremo meglio di lui – e quindi era libero, e poi ci fu Aloisi, che realizzò parecchie storie. Anche con Oscar andammo avanti per un po’ di anni: era l’ennesima pubblicazione fatta sulla scia di Topolino – stesso formato e stessa periodicità – e andò abbastanza bene finché, per ragioni indipendenti dalla nostra volontà, l’editore smise la pubblicazione e si trasferì in Inghilterra. Uno dei suoi figli lasciò la tipografia e comprò un ristorante, un altro andò avanti ancora per un po’: uscì anche una versione francese di Oscar, chiamata Bravo. Fasani, più tardi, si alleò con la casa editrice olandese Williams e pubblicarono in Italia il Mad, che aveva come direttore artistico Ferruccio Alessandri;28 ma questo è da leggere in un capitolo a parte della storia del fumetto! LA «DOLCE VITA» DEI PRIMI ANNI CINQUANTA
SB: Parliamo di Guido Scala e di Franco Aloisi, i due artisti con cui, insieme a Luciano Bottaro, hai cominciato la tua carriera.
CC: Guido Scala e io cominciammo a fare fumetti nel periodo in cui Bottaro andò a militare, intorno al 1952: quando Luciano partì per il servizio di leva, a Rapallo rimanemmo io e Guido, a portare avanti i personaggi che Bottaro realizzava per Bianconi – due topini chiamati Pik e Pok – e il lavoro per le edizioni Alpe, con personaggi come Pepito, Maramao e Baldo. Guido e io eravamo amici al di là del lavoro: passavamo le giornate
28 Ferruccio Alessandri (1935). Nasce a Ancona. Vive e lavora a Milano, prima come art director di un’agenzia di pubblicità, poi come direttore editoriale e art director di molte case editrici, redattore e grafico di una quantità di riviste (da Famiglia Cristiana alla fantascientifica Gamma) e direttore di altre. Scenografo, regista televisivo, è un creativo a 360°, ma si specializza nel fumetto. Lavora per Linus e per la Williams Inteuropa per le varie testate a fumetti (Superman, Batman ecc). A più riprese, con editori diversi, propone l’edizione italiana della rivista satirica statunitense Mad. Negli anni Ottanta firma soggetto e sceneggiatura di Rossi’s Story (disegni di Giorgio Cavazzano), fumetto di divulgazione dell’igiene orale, diffuso in tutto il mondo in milioni di copie. Negli anni Novanta apre uno studio di produzioni editoriali con la figlia Marzia.
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insieme al mare, e andavamo a fare il bagno in un posto che si chiamava «Il Pozzetto», dove Guido, che fisicamente era prestante pur non essendo altissimo, di solito «tarzaneggiava»! In fondo, però, era un timido. Trascorrevamo le domeniche in un bar di Portofino, che raggiungevamo a piedi da Rapallo: eravamo amici e clienti fissi del bar «Ginetta», frequentato da attori, tanto che la proprietaria aveva appeso alle pareti del locale le foto che testimoniavano il passaggio dei divi. In quel periodo vedevamo spesso da quelle parti Truman Capote, a Portofino con il suo psichiatra, che probabilmente era anche il suo «amico», data la risaputa omosessualità del grande scrittore: Capote alloggiava in un albergo proprio lì sulla piazzetta. Noi, nel frattempo, tentavamo di fare fumetti: con grande difficoltà io scrivevo le sceneggiature e Scala le disegnava. Certo, in termini di abilità, Guido non era Bottaro, e quindi gli editori erano pieni di consigli! Ma non solo verso di lui, anche nei miei confronti. Franco Aloisi, invece, si era trasferito con la famiglia a Genova e aveva iniziato a collaborare a Lo Scolaro: aveva un talento umoristico incredibile ed era andato sia da Bianconi sia all’Alpe per trovare lavoro. Ci vedevamo spesso e, insieme a Scala e a Bottaro, formavamo un quartetto che si era frequentato anche «pre-fumetti»: Aloisi contattò poi un settimanale chiamato Il Calandrino, per cui disegnava vignette, collaborava anche con La Domenica del Corriere…29 insomma, si dava molto da fare. Abitava a Genova e con lui non ci vedevamo così spesso come con Scala e Bottaro, ma in compenso Aloisi aveva una grande fortuna: attraverso amici che lavoravano in porto, riusciva a rimediare supplementi domenicali a fumetti di quotidiani americani! Vi erano pubblicate cose che noi, qui a Rapallo, sognavamo di vedere: si era ancora nel dopoguerra, e certi autori e determinati personaggi non giravano anco29 Settimanale fondato nel 1899 e chiuso nel 1989. Nato come inserto domenicale del Corriere della Sera, si avvale per le sue copertine di un giovane disegnatore, Achille Beltrame che, con la sua tavola, rappresenta in ogni numero il fatto più interessante della settimana. Nel corso degli anni Venti e Trenta diviene uno dei principali strumenti d’informazione della popolazione italiana alfabetizzata: sulle sue pagine scrivono anche Luigi Barzini e Indro Montanelli. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, l’avvento della televisione e di settimanali come L’Europeo, Panorama e L’Espresso porta a una graduale e inarrestabile crisi di copie: dopo vari tentativi di rilancio negli anni Settanta e Ottanta (uno dei quali affidato alla direzione di Maurizio Costanzo) la testata chiude definitivamente per decisione dell’editore RCS nel 1989, per trasformarsi in un nuovo settimanale di cronaca nera e rosa, Visto.
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ra. Era una vera fortuna, che accomunava Aloisi a Carpi: anche G.B. aveva conoscenti in porto, che gli fornivano pacchi di questi supplementi a colori. Si trattava di una cosa che aiutava parecchio a uscire dal «piccolo mondo italiano» dove abitavamo all’epoca! SB: Permetteva anche di visualizzare le potenzialità che il mestiere di cartoonist offriva.
CC: Esatto. L’Italia, fumettisticamente parlando, era ancora un paese autarchico! Nel frattempo, Caregaro, proprietario dell’Alpe, mise in valigia i personaggi che pubblicava in Italia e partì verso Francia e Germania per cercare editori a cui interessasse pubblicarli: a quei tempi non era facile spostarsi tra nazione e nazione, occorrevano visti e passaporti. In Francia trovò due editori che acquistarono i diritti dei personaggi: uno era la Lug di Lione, che prese la maggior parte della produzione di Tiramolla e di Cucciolo e Beppe, l’altro la citata Sagédition di Parigi. Il proprietario di quest’ultima editrice, Victor Broussard, vide, tra il materiale portato da Caregaro, l’unica storia di Pepito allora esistente: dato che era italiano di origine e serbava il ricordo delle storie piratesche di Salgari, il personaggio gli piacque immediatamente e ne acquistò i diritti. C’era, però, solo una storia, e Broussard ottenne da Caregaro la possibilità di produrre da solo le storie di Pepito in Francia: si rivolse perciò a Carlo Cossio. Il Pepito francese, quindicinale, uscì, ed ebbe immediatamente un successo enorme! La prima storia pubblicata fu perciò quella di Bottaro, le altre di Cossio. Tornando a noi, quindi, dato che il personaggio si stava sviluppando, Caregaro diede qualche storia di Pepito anche a Guido Scala. Bottaro, all’oscuro della vicenda francese, riprese a disegnarlo verso la fine del militare, quando ottenne una licenza di circa dieci giorni, durante la quale l’editore gli diede una sceneggiatura di Pepito scritta da Roberto Renzi: Luciano terminò poi il periodo di leva e tornò a occuparsi stabilmente di tutti i suoi personaggi. Intanto la famiglia di Scala decise di emigrare in Australia.
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SB: Per quale motivo?
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CC: I fratelli di Guido erano già emigrati alla fine degli anni Quaranta, perché là c’era più lavoro. Uno dei fratelli era orologiaio, l’altro fabbro: dall’Australia chiamarono il resto della famiglia, perché le possibilità di benessere laggiù erano sicure. Guido, ancora abbastanza giovane, una volta in Australia cercò lavoro come disegnatore e lo trovò immediatamente! Gli affidarono un comic book locale, ma il suo stile era ancora molto acerbo. Ci scrivevamo ogni tre-quattro giorni. SB: Com’era arrivato in Australia? In nave?
CC: Sì, ci volevano quasi due mesi! Si faceva scalo a Hong Kong, Singapore… era un viaggio lungo e avventuroso! Guido andò ad abitare a Sydney, ma in Australia non si trovava bene, perché era il periodo in cui gli italiani, laggiù, erano considerati più o meno come – purtroppo – adesso sono considerati qui da noi gli africani e gli albanesi: molto malvisti. Agli italiani erano affidati i lavori più umili, c’era un certo razzismo da parte degli anglosassoni nei nostri confronti: gli emigrati italiani erano emarginati. Ora, invece, passate due generazioni, occupano posizioni importanti nella società, ma allora dovevano svolgere, nella maggior parte dei casi, i mestieri peggiori: Guido, che veniva dal Nord Italia da una famiglia piccolo-borghese, trattato alla pari di decine di altri emigranti, magari analfabeti, che svolgevano le professioni più basse, si sentiva molto a disagio, e avrebbe voluto tornare in Italia. Qui, nel frattempo, Bottaro venne a sapere dell’esistenza del Pepito francese e stipulò un nuovo contratto con l’editore italiano: Caregaro decise quindi di pubblicare un giornale chiamato Pepito anche in Italia.
SB: Caregaro non disse a Bottaro che Pepito veniva pubblicato in Francia?
CC: Gliene parlò quando Luciano tornò dal militare. Caregaro fece un contratto con l’editore francese senza considerare nessuno, ma quando Bottaro, tornato a Rapallo, lo scoprì, si arrabbiò non poco.
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SB: Lo credo!
CC: Eh, sì! Victor Broussard, l’editore francese, si precipitò quindi a Rapallo per siglare un nuovo accordo con Luciano, se non altro per avere la garanzia di poter continuare a pubblicare il personaggio in Francia: Bottaro, per questo, si assicurò anche una certa somma. Più tardi sapemmo anche che Caregaro, cedendo Pepito, riceveva le royalty30 dall’editore francese sulla tiratura: noi, ovviamente, quelle royalty non le abbiamo mai viste! Anche dopo il contratto con Luciano, quei diritti continuarono ad andare all’Alpe. Il sistema editoriale dell’epoca funzionava così: tutti gli editori si comportavano in questo modo. Caregaro non ci trattava male, era un brav’uomo: poco dopo il mio inizio di collaborazione con l’Alpe, nel 1954, mi trovai in un particolare momento in cui avevo bisogno di soldi. Mi servivano circa 130 mila lire, che corrispondono più o meno a 6000 euro di adesso: andai da lui, glieli chiesi in prestito, e Caregaro me li diede. Io ero un ragazzino, e lui me li prestò sulla fiducia: si trattava di un prestito senza interessi, restituito a rate con trattenute sulle storie seguenti. Al di là del sistema, che era generalizzato per ogni editore – non pagare diritti e non restituire originali era all’ordine del giorno – Caregaro, tutto considerato, era una gran brava persona. Ci commissionò quindi, a Bottaro e a me, la pubblicazione Pepito per l’Italia, mensile, formato Topolino: dato che dovevamo farlo tutto noi e Luciano non avrebbe potuto disegnare tutto da solo, ci rivolgemmo a Franco Aloisi, chiedendogli di realizzare alcune storie di un personaggio chiamato Lampo, un giornalista occhialuto che lavorava per un quotidiano vivendo avventure comiche. Pepito andò avanti per circa un anno e mezzo, ma in Italia la pubblicazione non vendeva bene come in Francia. Successe anche che Bottaro, avendo moltissimi personaggi da portare avanti, non riusciva a disegnare le storie per il mensile: collaborava anche a Topolino e, dato che 30 Compenso versato a un inventore per la concessione del diritto di sfruttare commercialmente un’invenzione tutelata da brevetto, o a un autore per sfruttare un’opera di tipo creativo tutelata da diritti d’autore.
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Mondadori pagava di più essendo un grosso editore, Luciano naturalmente prediligeva questo tipo di lavoro e non voleva rinunciarvi. Parallelamente, nel 1955, a 22 anni, partii io per il militare, e Bottaro si ritrovò da solo, con il tempo ancora più risicato per dedicarsi a Pepito, a cui si aggiungeva il fatto che non c’era nessuno a scrivere i soggetti! Ho ancora le lettere di Luciano, che mi spediva mentre ero a militare, in cui mi chiedeva di scrivergli qualche storia perché non sapeva come andare avanti: in una di queste mi disse ironicamente «Ti ricordi di Pepito, quel personaggio di cui scrivevi le storie e io facevo i disegni?»! Dopo poco, quindi, la testata chiuse, ma in Francia, dato che andava a gonfie vele, seguitò a uscire: l’editore francese fece allora un contratto direttamente con Bottaro, che ne era l’autore – Caregaro aveva perso interesse per la pubblicazione e il personaggio – e, invece di pagargli royalty, si accordarono per prezzi superiori a pagina. La produzione francese richiedeva parecchio materiale, e l’editore si rivolse a disegnatori d’Oltralpe, ma in particolare ad autori italiani, tra cui Luciano Capitanio,31 un disegnatore di Venezia che faceva qualche storia anche per Topolino. Capitanio iniziò a illustrare storie di Pepito e, avendo bisogno di un inchiostratore per le sue tavole, si rivolse al cugino, che era un certo Giorgio Cavazzano!32 Fu così che Giorgio entrò nel mondo dei fumetti, ripassando le storie di Pepito disegnate da suo cugi31 Luciano Capitanio (1934-1969). Nasce a Venezia e, fin dai primi anni Cinquanta, disegna numerose storie con personaggi secondari per le case editrici Alpe e Bianconi. A metà del decennio diventa direttore della rivista Piccolo Missionario di Verona. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta disegna Sambito Paperito e Riki e Placido sul giornale Tarzanetto (edizioni Dardo), Dog e Trigino su Felix (edizioni Astro) e svariate storie umoristiche con animali antropomorfi per l’editore Bianconi. Illustra poi la striscia comica Joe Bretella per la quarta di copertina di Tex. Disegna inoltre diverse storie di Pepito per la Sagédition e, dal 1956 fino alla sua morte, lavora per Topolino illustrando storie Disney. 32 Giorgio Cavazzano (1947). Nasce a Venezia e inizia giovanissimo a lavorare nel mondo dei fumetti ripassando a china alcune storie disneyane del cugino Luciano Capitanio. Inchiostra poi tavole per Luciano Gatto e Romano Scarpa, ed esordisce come disegnatore disneyano nel 1967, diventando uno degli autori più personali e popolari. Crea graficamente diversi personaggi (Reginella, su testi di Rodolfo Cimino, OK Quack e Umperio Bogarto, su testi di Carlo Chendi). Ha al suo attivo anche un’abbondante produzione non disneyana: Oscar e Tango, Walkie & Talkie, Smalto e Johnny e Capitan Rogers su testi di Giorgio Pezzin; Altai & Jonson, scritti da Sclavi; Peter O’Pencil e Timothée Titan sceneggiati da Corteggiani. Per Sergio Bonelli Editore realizza diverse illustrazioni per Ken Parker Magazine, oltre a due storie scritte da Bonvi: La Città e Maledetta Galassia. Per Macchia Nera disegna, su sceneggiatura di Francesco Artibani e Tito Faraci, un’avventura di Lupo Alberto. Su testi di Tito Faraci pubblica nel 2003 Il segreto del vetro, avventura dell’Uomo Ragno per la Panini, e nel 2006 l’albo Jungle Town per Buena Vista Lab.
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no Capitanio. Il sogno di Giorgio era però di arrivare a Topolino, e in particolare a Scarpa, il suo autore preferito: il guaio era che non lo conosceva e, nonostante Romano abitasse a Venezia e Cavazzano a Mestre, quest’ultimo non riusciva a trovare l’indirizzo del già mitico maestro. Una volta Giorgio era su un vaporetto, a Venezia, seduto accanto a una bella ragazza: in mano teneva una cartella con tutti i suoi disegni. A un tratto, a causa di un brusco movimento della barca, la cartella gli cadde e tutti i disegni si sparpagliarono in giro: la ragazza li vide, si complimentò con Cavazzano, e gli disse che anche il suo fidanzato disegnava fumetti. Giorgio le chiese chi fosse quest’autore, e la risposta fu «Romano Scarpa»! In seguito Cavazzano andò da Scarpa e iniziò a ripassare le sue storie per Topolino: era destino che lavorassero insieme! Scarpa fu di grande aiuto a Giorgio: era uno che cercava di dare una mano ai propri collaboratori. Un giorno gli disse di provare a disegnare storie da solo, matite comprese: lo incoraggiò a essere indipendente e lo spinse a diventare il maestro che tutti conoscono. Anche se inchiostrava le storie di Pepito, io non sapevo ancora chi fosse Giorgio: lo conobbi tempo dopo, poi ti dirò come. Facendo un passo indietro, quando Pepito chiuse, noi smettemmo di passare lavoro a Aloisi, ma lui, che si dava molto da fare, disegnava già per l’Alpe e per Bianconi: era andato per la sua strada. Noi, però, avevamo bisogno di qualcuno che ci desse una mano a realizzare gli altri personaggi, come Baldo e il Pepito francese: qualche storia di quest’ultimo la disegnò Giulio Chierchini, mentre per Baldo avevamo trovato un genovese di nome Desogus, che però a un certo momento emigrò in Venezuela facendo perdere le tracce. Scala continuava a dire che sarebbe tornato volentieri in Italia e allora, dato che l’editore francese voleva fare una pubblicazione dedicata a Baldo, un quindicinale molto economico tipo Pepito, sempre formato Topolino, scrivemmo a Guido dicendogli che, se fosse tornato, avrebbe trovato lavoro. Guido mollò tutto, prese il bastimento e tornò in Italia nel 1959: subito gli vennero affidate le storie del Baldo francese, ma il suo stile non era ancora del tutto maturo. Quando Broussard vide le tavole di Scala, ci rimase un po’ male: noi gli avevamo detto che sarebbe arrivato questo disegnatore dall’Australia, e lui s’immaginava chissà
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quale fenomeno! Comunque, dato che ormai aveva programmato tutto, fece ugualmente la pubblicazione, ma anziché chiamarla Baldo la chiamò Monty, dandole il nome di un personaggio di genere verista, una giubba rossa a cavallo. Il periodo al lavoro su Baldo, in ogni caso, servì a Guido per affinare la sua mano. In seguito Scala passò a occuparsi di alcune storie di Oscar, pubblicazione a cui, come ti dicevo prima, lavoravamo per l’editore Fasani, e di un personaggio scritto da me, Piper Maiopi,33 uno sceriffo miope che lavorava con un vicesceriffo sordo. Demmo questo nome al personaggio proprio a causa di Guido che, appena tornato dall’Australia, aveva acquisito un certo accento inglese pronunciando la parola «miope» in modo anglofono, «maiopi» per l’appunto. Scala si occupò anche di Lola e Otello,34 due personaggi di Bottaro, ma quando Oscar chiuse, rimase praticamente senza lavoro: non amava in modo particolare i personaggi Disney, ma dovette tentare ugualmente. Lo portai io da Gentilini, il direttore, il quale abitualmente, prima di accettare nuovi autori, faceva far loro delle prove. Proposi a Gentilini che avrei scritto io una storia per Guido, e il direttore accettò: se i disegni di Scala fossero andati bene, avrebbe comprato tavole e sceneggiatura, ma se non gli fossero piaciuti, anche il mio testo sarebbe stato cestinato. Mi misi quindi al lavoro su un soggetto con Pippo come protagonista, perché era il personaggio che riusciva meglio a Guido: mi pare s’intitolasse Topolino e l’eremita [uscita nel 1969 su Topolino n. 705], di quattordici o quindici tavole. Quando i disegni furono terminati, tornammo da Gentilini, che si accorse che Scala aveva ancora dei limiti come disegnatore, ma lo prese lo stesso e iniziò a passargli lavoro: da quel momento Guido iniziò a collaborare con Mondadori in maniera autonoma, realizzando prevalentemente storie di Topolino e Pippo perché, inizialmente, erano i due personaggi che gli riuscivano meglio. Scala si trasferì poi a Chiavari, dove si sposò, e a Rapallo, a portare avanti tutto il resto rimanemmo io e Bottaro: ogni tanto, da queste parti,
33 Lo Sceriffo Piper Maiopi (1959). Pubblicato dall’editore Fasani, è un miope tutore della legge in un West strampalato. 34 Lola e Otello (1959). Pubblicati da Fasani, sono una bambina e un gatto che vivono fantastiche avventure oniriche.
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veniva in villeggiatura, da Milano dove abitava, Giorgio Rebuffi. Stava qui circa venti giorni in una pensione: eravamo già amici e andavamo a fare il bagno insieme, mentre Luciano, già fidanzato, si occupava di altre cose! Giorgio veniva da Milano in Lambretta, veicolo che sfruttavamo anche qui andando a zonzo ovunque. Anche Bottaro e Rebuffi erano amici: se Giorgio doveva finire qualche storia di Cucciolo e Beppe, essendo qui in vacanza, è capitato a volte che andasse a lavorare nello studio di Luciano la sera. Per varie ragioni, poi, la famiglia di Rebuffi dovette lasciare Milano: il padre andò in pensione e scelse di trasferirsi a Lavagna, dove comprò un appartamento. Da quel momento Giorgio diventò uno dei nostri, iniziando a collaborare ai personaggi di Bottaro, perché il lavoro era tanto: fu quello il germe dello studio Bierreci! UN TENTATIVO NEL CINEMA, SEGUENDO WALT
SB: Hai detto che il vostro mito comune era Walt Disney. Pensaste mai di darvi al cinema come lui?
CC: Ma certo! Ai tempi della rivista Oscar, Bottaro aveva realizzato un personaggio chiamato Lola, una bambina che, come spalla, aveva un micio di nome Otello: siamo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Luciano voleva farne dei cartoni animati e, dato che Chierchini in passato aveva realizzato un cortometraggio insieme a Giorgio Scudellari e un pochino s’intendeva di queste cose, alla fine decidemmo di associarci: Bottaro, Scala, Chierchini e io. Affittammo un appartamento e comprammo una cinepresa Paillard da sedici millimetri, con scatto singolo e carica manuale: Chierchini progettò un trabiccolo per fare le riprese, una cosa incredibile! I fari li feci costruire io da un fabbro, usando delle lampadine: ogni volta che li accendevamo si moriva di caldo! In quell’appartamento, d’estate, non si poteva stare. Iniziammo a produrre: Scala, Bottaro e Chierchini facevano le animazioni a matita e poi le ricalcavano su rodovetro. Io, insieme a loro, colo-
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ravo e, in più, ero operatore alla macchina: facevo le riprese! Fu una grande avventura: riuscimmo a realizzare circa un minuto o due di disegni animati, poi Chierchini si sfilò perché il costo dell’operazione ricadeva completamente su di noi, dall’affitto dell’appartamento, al costo della luce e dei materiali. E il tempo: andavamo a lavorarci di sera, dopo cena, dato che di giorno ci dedicavamo ai fumetti. Restammo in tre: io feci le riprese dell’animazione a matita, la prova generale per vedere se la cosa funzionava, adoperando una otto millimetri. Poi cominciammo a filmare i rodovetri con gli sfondi, tutto in maniera artigianale, con i paesaggi che scorrevano su guide di legno! Bottaro poi fece alcune animazioni con dei ritagli, animando figure geometriche, fantastiche: alla fine il nostro disegno animato durava circa sette minuti, a colori e in sedici millimetri. Lo mostrammo a destra e a manca, ma non riuscimmo a farne nulla: da tutta l’operazione non ricavammo niente e ci era costata parecchio! Avevamo tenuto l’appartamento per quasi due anni pagando l’affitto, più tutte le attrezzature che avevamo adoperato: lasciammo perdere. SB: Il cortometraggio si è salvato?
CC: Credo lo abbia Bottaro. Alla fine non lo sonorizzammo nemmeno: per il sonoro avremmo dovuto spendere altri soldi, quindi lo lasciammo muto! Fu un’esperienza interessante: considerando che era la prima volta che facevamo una cosa del genere e gli scarsi mezzi a nostra disposizione – a parte la cinepresa, di marca ma non concepita per l’animazione – il risultato non fu poi così malvagio. Bruno Bozzetto, invece, che era figlio di un industriale, quando si laureò chiese al padre, come regalo, un’attrezzatura professionale di ripresa per animazioni: aveva un bancone per fare i cartoni animati che forse possedeva solo Walt Disney! Il suo fu decisamente un modo diverso di cominciare. Il nostro, in ogni caso, fu un tentativo, e finì come tale: anche se le cose poi non funzionano, penso sia sempre meglio provare.
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Il mondo color seppia descritto da Carlo mi affascina. Ogni volta, mentre lui racconta e il registratore macina, mi trovo a immaginare luoghi, persone e cose, facendo finta di sapere come fosse l’Italia del dopoguerra, usando come metro di paragone qualche vecchio film. A riportarmi alla realtà ci pensa il freddo: è ora di tornare a casa, e mi sa che la prossima volta dovrò portare i guanti.
Disegno di Bruno Bozzetto: «A Carlo con tanti tanti auguri». © Bozzetto
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