«Il tema apparentemente così specifico della lotta nei fumetti d’avventura ne nasconde un altro, che è quello – davvero generale – della spettacolarità e dei suoi modi di manifestarsi. E alla luce della maniera in cui viene raccontata la lotta, e del peso narrativo che gli episodi di lotta hanno nell’economia delle storie, è possibile ricavare uno spaccato dell’evoluzione del fumetto americano e del suo modo di rapportarsi al proprio pubblico che sarebbe difficile ottenere altrimenti». Dalla Prefazione di Daniele Barbieri
Valentina Semprini (Roma 1971) si è laureata in Filosofia all’università di Bologna nel 1997. Fa parte dello staff della manifestazione riminese «Cartoon Club» e scrive sulla rivista Fumo di China. Ha curato diversi cataloghi per mostre di fumetti, tra cui Nathan Never: eroe del futuro (con Paolo Guiducci), Batman: la leggenda (con Egisto Quinti Seriacopi) e Diabolik. Sulle tracce della pantera. Collabora con la società AD LIBITUM per adattamenti e sottotitolazioni di serie animate.
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Valentina Semprini
Bam! Sock! Lo scontro a fumetti Dramma e spettacolo del conflitto nei comics d’avventura Prefazione di Daniele Barbieri
Lapilli. Segni 9
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I edizione: novembre 2006 Copyright © Tunué Srl Via degli Ernici 30 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.
ISBN 88-89613-18-1 ISBN-13 EAN 978-88-89613-18-4
Progetto grafico: Daniele Inchingoli Grafica di copertina: Carlo Piscicelli © Tunué Stampa e legatura: Tipografia Monti Srl Via Appia Km 56,149 04012 Cisterna di Latina (LT) Italy
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Indice
Prefazione di Daniele Barbieri
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Introduzione Una classificazione cronologica Ringraziamenti
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Teorie del testo e fumetti I.1 Narratologia e Lettori Modello, profondità e superficie I.2 I cardini del fumetto americano d’avventura: come analizzarli? I.2.1 I personaggi I.2.2 La serialità I.3 La lotta: fase di passaggio o racconto? I.4 Categorie operative I.4.1 Le cinque W I.4.2 Due macro-categorie (e una micro-categoria importante) I.4.3 In dettaglio
Narratività del personaggio a fumetti II.1 Cenni di semiotica del personaggio II.1.1 Personaggio e azione II.1.2 Personaggio e coerenza II.1.3 Personaggio e identità II.2 Attanti e prospettive II.2.1 Prospettive monodirezionali II.2.2 Prospettive multidirezionali II.3 Una sottoclasse importante: l’eroe
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II.4 II.5
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Paratesto e personaggi nel fumetto Il riconoscimento II.5.1 Il nome proprio II.5.2 Fisiognomica II.5.3 L’abbigliamento II.5.4 Lo stato civile II.5.5 Le competenze II.5.6 Alcuni dettagli
III La lotta e la sua narrazione III.1 Un’ultima premessa teorica III.2 Prospettive monodirezionali: criminali e invasori alieni III.3 Codici e serialità III.3.1 Garantire una corretta fruizione del testo seriale III.3.2 Buck Rogers (1929) III.3.3 Tarzan (1929) III.3.4 Dick Tracy (1931) III.3.5 Flash Gordon e Secret Agent X-9 (1934) III.3.6 Terry and the Pirates (1934) III.3.7 Mandrake the Magician (1936) III.3.8 The Phantom (1936) III.3.9 Prince Valiant (1937) III.4 Tempo rappresentato e tempo raccontato nelle lotte IV La «Golden Age». Uomini e superuomini IV.1 Eroi superumani IV.1.1 Una nuova mitologia IV.1.2 Lotte e iteratività IV.1.3 Supereroi e Oggetti di Valore IV.1.4 Nuove esigenze figurative IV.2 Eroi umani IV.2.1 The Spirit (1940) IV.2.2 Rip Kirby (1946) e Steve Canyon (1947)
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IV.3 La leggenda vivente La «Silver Age». Mutazioni nel tempo di lettura V.1 La nascita della Marvel V.2 L’istituzione di competenze: lotte da capire V.3 Alcune considerazioni sulla verosimiglianza V.3.1 Personaggi e combattimenti V.3.2 Realismo grafico e narrativo V.4 Battersi in centro e nell’ora di punta V.4.1 New York, New York V.4.2 Proporzioni tra episodi e scene di lotta V.5 Lotte e Oggetti di Valore V.5.1 Il fattore pubblico V.5.2 Il fattore privato V.5.3 Tutto deve cambiare, affinché tutto resti uguale: la riconquista V.6 Costruzione delle tavole e tempi di lettura V.6.1 Le tavole di Jack Kirby & soci V.6.2 Enfasi e retorica V.7 Anni di crisi e rinascite V.7.1 La crisi dei supereroi V.7.2 Segni di ripresa
VI Gli anni Ottanta. Romanzi a fumetti VI.1 Nuove strategie narrative, nuovi Lettori Modello VI.1.1 Uomini, bestie ed eroi: una morale problematica VI.1.2 Il paradosso della casualità VI.1.3 Il conflitto di sfondo VI.1.4 She-Hulk e Animal Man: combattere per un Autore Modello VI.2 Una nuova etica della lotta: intersezioni di prospettive VI.2.1 Gli X-Men e il conflitto interiore: la lotta come metafora dell’anima VI.2.2 Oggetti di valore epocali e personaggi da ridefinire: la «crisi sui mondi infiniti»
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VI.3 VI.4
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VI.2.3 Brevi considerazioni grafiche Frank Miller: il cinema a fumetti VI.3.1 Ninja assassine e samurai senza padrone VI.3.2 Batman: The Dark Knight Returns VI.3.3 Da Elektra: Assassin a Hard Boiled Alan Moore: lotte psicologiche e battaglie perse in partenza VI.4.1 V for Vendetta VI.4.2 Batman: The Killing Joke VI.4.3 Watchmen
VII Oltre il limite VII.1 Supergruppi e superartisti VII.1.1 La nuova generazione VII.1.2 La trama al servizio della lotta: il conflitto onnipresente VII.2 Serialità d’autore VII.2.1 Dinamismo e pose minacciose VII.2.2 Effetti speciali VII.2.3 Imitatori e oppositori VII.2.4 La città del peccato VII.3 Sacro e profano VII.3.1 Mistiche vertigini VII.3.2 L’ultima frontiera VII.3.3 Binari paralleli Conclusioni Riferimenti bibliografici
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Prefazione
di Daniele Barbieri
Una caratteristica di molte idee brillanti è quella di apparire, dopo che hanno avuto successo, del tutto ovvie. Che cosa c’è di più ovvio e semplice di una ruota, per esempio? Eppure, ci sono volute decine di migliaia di anni per arrivare a questa idea ovvia e semplice, e vi sono civiltà evolute e raffinate che ne hanno persino fatto a meno. È il principio dell’uovo di Colombo, l’idea a cui nessuno pensa prima, e che solo dopo essere stata espressa viene trovata evidente da tutti. Scrivere la storia del fumetto statunitense a partire da un punto di vista particolare, quello della lotta, potrà forse sembrare un’idea sufficientemente ovvia dopo essere stata esposta, ma anche a questa non aveva mai pensato nessuno, prima d’ora. E questo libro mostra brillantemente come invece la lotta sia un tema cruciale nel fumetto d’oltreoceano. Ricordo bene un commento spontaneo di Umberto Eco alla prima versione di questo scritto, prodotta come tesi di laurea in Semiotica, che ebbi la fortuna di seguire insieme a lui. Un giorno mi disse improvvisamente, senza che fosse nel discorso, qualcosa come: «Ehi, hai visto questa Semprini quante idee interessanti è riuscita a tirar fuori da un tema che sembrerebbe così ultraspecifico! Da non crederci…» Il fatto è che questo tema apparentemente così specifico ne nasconde un altro, che è quello – davvero generale – della spettacolarità e dei suoi modi di manifestarsi. E alla luce della maniera in cui viene raccontata la lotta, e del peso narrativo che gli episodi di lotta hanno nell’economia delle storie, è possibile ricavare uno spaccato dell’evoluzione del fumetto americano e del suo modo di rapportarsi al proprio pubblico che sarebbe difficile ottenere altrimenti. Insomma: questo libro non contiene una ricerca specialistica su un tema specialistico che chissà perché dovrebbe interessare qualche lettore non accademico. Al contrario, in queste pagine viene raccontata una
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PREFAZIONE
raffinata storia del fumetto americano e del suo modo di costruire il proprio spettacolo. Da Buck Rogers a Sin City e oltre, la rappresentazione del conflitto ha avuto ruoli, modalità e pesi diversi nell’indurre l’attenzione del lettore. Questo libro possiede però, a mio parere, anche un secondo e non minore pregio. È nato, dunque, almeno nella sua prima versione, come tesi di laurea in Semiotica; e contiene perciò, evidentemente, un saggio di impostazione semiotica. Nonostante questo, esso non richiede ai suoi lettori di conoscere i principi di una teoria non sempre semplicissima, e anzi talvolta persino un poco astrusa. Al contrario, questo libro è leggibile da parte di chiunque, con in più il vantaggio che numerosi concetti semiotici che qui vengono utilizzati con intelligenza e senso critico sono anche spiegati bene, e resi accessibili con facilità. È dunque con una certa invidia per un’idea brillante che non ho avuto io, sviluppata poi in maniera ugualmente brillante e rigorosa, che ho scritto queste quattro righe di presentazione, nella speranza che il lettore voglia addentrarsi in questo libro, per scoprirvi quello che vi ho scoperto anch’io. D.B. Bologna, settembre 2006
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BAM! SOCK! LO SCONTRO A FUMETTI
A Sandra, l’orizzonte che non mi ha mai abbandonata
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Introduzione
Osservando gli abituali oggetti d’attenzione degli studi e della critica sul fumetto ci si rende subito conto di un particolare fenomeno, e cioè che analizzare e studiare un Corto Maltese di Hugo Pratt, o un Cerebus di Dave Sim, o ancora la Mafalda di Quino, appare nell’opinione comune più nobile di quanto non lo sia uno studio dello Zagor di Guido Nolitta e Gallieno Ferri o dei Wetworks di Whilce Portacio. È cioè ancora in voga un certo habitus mentale per cui vi sono oggetti di studio più meritevoli di altri. È comprensibile che l’analisi di un fumetto qualitativamente elevato sia fonte di piacere per lo studioso, che in questo modo non deve passare il suo tempo su opere noiose o scontate. In questo senso, si può capire che, in effetti, sia più stimolante studiare Cerebus piuttosto che i Wetworks. Questo, però, riguarda il divertimento e la passione del ricercatore, e non la nobiltà o ignobiltà dell’oggetto di studio. Talvolta il senso comune deve ancora fare un salto di qualità che gli permetta di andare oltre l’apparente banalità di determinati fenomeni, per scoprirne i meccanismi e il funzionamento. Questo è ben noto alla semiotica; non altrettanto alla critica sulla narrativa disegnata. Infatti, stabilito che i fumetti sono oggetti degni di nota e di studio, al pari della letteratura o dell’arte tradizionale, ecco subentrare un nuovo tipo di scetticismo, tendente a dividere il materiale a disposizione in «fumetto popolare» e «fumetto d’autore».1 Ed ecco quindi scorrere fiumi d’inchiostro sul 1 Va peraltro segnalata l’ambiguità di questi due termini, ormai entrati nel linguaggio corrente. Etimologicamente, per «fumetto d’autore» dovrebbe semplicemente intendersi l’opera a fumetti scritta e disegnata da una sola persona (o da una coppia particolarmente affiatata sceneggiatore-disegnatore), laddove invece il «fumetto popolare», essendo nella stragrande maggioranza dei casi seriale e quindi prodotto in grande quantità e per lunghi periodi di tempo, presuppone molte persone al lavoro su di esso, che ne pregiudicano quindi l’uniformità e la caratura artistica e stilistica. A fronte di un discorso «produttivo», emerge quindi un discorso qualitativo: sempliciotto il fumetto popolare, colto e istruito quello d’autore. Una distinzione a volte valida, a volte no, certamente ormai d’uso comune.
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montaggio cinematografico in Valentina di Guido Crepax o sullo stile di Mœbius, mentre aspetti più quotidiani di fumetti cosiddetti popolari vengono trascurati, poiché ritenuti banali. Il fumetto d’avventura statunitense e in particolare il tema della lotta al suo interno, argomento di questo libro, non ha bisogno di essere nobilitato: è già un oggetto di studio interessante e stimolante, se non altro perché è una delle caratteristiche più evidenti del fumetto d’avventura stesso. Che cosa fanno Tarzan, Flash Gordon, The Phantom (l’Uomo Mascherato), Batman, gli Avengers (i Vendicatori)? Indagano, parlano, si innamorano, a volte filosofeggiano, ma prima o poi, per questo o quel motivo, combattono. Perché combattono? come lo fanno? contro chi? dove? quando? grazie a quali strumenti espressivi il fumetto ce li mostra mentre lottano? tramite quali tecniche figurative? Le risposte a queste domande sono più interessanti di quanto sembri. Esse emergeranno da un corpus costituito dai principali fumetti avventurosi usciti negli Stati Uniti d’America a partire dal 1929, anno in cui il fumetto d’avventura fa per la prima volta la sua comparsa sui quotidiani statunitensi, prima con Buck Rogers, poi con Tarzan. Sarà peraltro abbastanza evidente una certa preferenza (in parte dovuta al gusto personale, ma anche alla loro effettiva importanza, sempre cresciuta nei decenni) per quelli supereroici. Per quanto riguarda invece la letteratura critica, costituita naturalmente sia da testi di semiotica che di critica e/o studio sul fumetto, in questa sede vanno almeno menzionati i due principali autori che hanno analizzato il fumetto da un punto di vista semiotico, fornendo così diversi spunti di riflessione. Si tratta di Pierre Fresnault-Deruelle e Daniele Barbieri, i quali tuttavia affrontano l’argomento con metodi diversi. Il lavoro di Fresnault-Deruelle mostra infatti un’impronta strutturalista, mentre Barbieri lavora con una prospettiva più vasta, che lascia ampio spazio anche a un approccio di tipo interpretativo.2 Si pone dunque qui, 2 Si vedano in particolare i seguenti testi: Pierre Fresnault-Deruelle, Il linguaggio dei fumetti (ed. or. La bande dessinée, Paris, Hachette, 1972), Palermo, Sellerio, 1977 e I fumetti: libri a strisce (ed. or. Récits et discours par la bande, Paris, Hachette, 1977), Palermo, Sellerio, 1990; Daniele Barbieri, I linguaggi del fumetto, Milano, Bompiani, 1991. Fresnault-Deruelle tende ad analizzare le strutture più profonde della narrazione a fumetti, gli «scheletri» che stanno alla base di ogni storia; Barbieri mutua
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come si era posto per loro, il problema di una scelta metodologica; essa, inoltre, è tanto più difficile quanto più si nota che entrambi i tipi di analisi dimostrano la loro validità a seconda degli oggetti di studio a cui vengono applicati. E, dal momento che il problema è vasto e la questione importante, a questo argomento e ad altre premesse di metodo sono dedicati i primi due Capitoli di questo libro. Nel primo si affrontano in generale le questioni teoriche derivanti dall’applicazione dell’uno o dell’altro metodo alla narrativa disegnata e si individuano alcune categorie operative, delle quali servirsi per l’analisi dei singoli testi; nel secondo viene sviscerato un particolare aspetto del problema, ovvero lo statuto semiotico che nei fumetti è riservato ai personaggi. Una delle convinzioni su cui infatti si basa questa analisi è che il fumetto mainstream crei sì delle storie, ma soprattutto dei personaggi. Esso, infatti, come ogni forma di narrativa popolare, si basa su fenomeni di iterazione e soddisfazione delle aspettative di un pubblico desideroso di vedere confermate le sue abitudini di fruitore del medium. Per ragioni di comodità (ma non solo), il corpus dei fumetti analizzati è suddiviso in cinque sezioni, ciascuna corrispondente a un certo arco di tempo nella storia del comic americano d’avventura. I motivi e i vantaggi di questa soluzione sono illustrati qui di seguito. Una classificazione cronologica
Maneggiare quasi ottant’anni di storia del fumetto avventuroso prodotto negli USA non è semplice: una suddivisione si rendeva necessaria. Essendo questo uno studio di impronta semiotica, si sarebbero potuti prendere in considerazione alcuni aspetti semioticamente interessanti della narrativa disegnata e osservarne il funzionamento in alcuni casi rilevanti. Per esempio si sarebbe potuto studiare il montaggio delle vignette in Tarzan, Flash Gordon, Spider-Man e Sin City, oppure analizzare l’uso della fisiognomica in Dick Tracy, Fantastic Four e Ghost invece alcune nozioni dalla semiotica interpretativa di Umberto Eco e le elabora nell’ambito dell’analisi del fumetto. Dei diversi approcci ci si servirà anche in questo libro, a seconda dell’utilità che assumeranno caso per caso.
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Rider. Gli argomenti sarebbero stati interessanti, ma lo studio avrebbe assunto la veste di una raccolta di tante piccole monografie. Si è allora pensato di procedere in ordine cronologico, partendo dai primissimi fumetti d’avventura per arrivare alle ultime testate uscite negli USA e suddividendo la storia del fumetto d’avventura in cinque periodi. La suddivisione è emersa praticamente da sé e le tappe sono state pressoché obbligate, ma in esse vi sono ottimi argomenti di analisi semiotica. Per esempio gli anni Ottanta, caratterizzati dalla rinascita del fumetto supereroico dopo un periodo di crisi,3 hanno visto in diversi autori un radicale rinnovamento sia delle strutture narrative sia dei mezzi espressivi adottati per mettere in evidenza tali strutture. In ultima analisi è quasi ovvio assumere che, se la storia del fumetto è stata scandita da certi autori e certi titoli, è perché essi presentavano qualcosa di nuovo: quindi nuove storie da narrare, nuovi strumenti espressivi, e in definitiva nuovi legittimi oggetti di studio da un punto di vista squisitamente semiotico. Giustificata quindi la scelta di una scansione cronologica, e chiarito che questa non è, se non in misura marginale, una «storia del fumetto americano d’avventura dalle origini a oggi», sarà bene spiegare finalmente quali sono questi periodi e cosa li ha resi fondamentali. 1929: LE ORIGINI. Con Buck Rogers e Tarzan nasce il fumetto d’avventura e la rappresentazione della lotta si fa più realistica, meno stilizzata, più precisa che nel precedente fumetto umoristico o satirico. Gli autori studiano le anatomie, i muscoli, le espressioni facciali, ma in alcuni casi c’è ancora un ampio margine di interferenza tra fumetto e illustrazione, sicché anche scene che dovrebbero essere molto dinami3 Gli anni Settanta vengono percepiti come confusi e inquietanti dalla sensibilità comune, perché caratterizzati da tensioni sociali e critica ideologica. Non vi sono più l’ottimismo e il desiderio di progresso che avevano permeato i due decenni precedenti, non c’è ancora la sterzata politica internazionale che avrebbe modificato la compagine politica del pianeta nel decennio successivo (in modo non certo radicale, ma se non altro chiaro e netto). Il senso di instabilità e circospezione, la paura dell’olocausto nucleare, la guerra in Vietnam e il ritorno dei reduci, la presenza insomma di problemi mai apparsi così complicati, rendono obsoleti e ingenui i fumetti di supereroi, ancora aggrappati a un’identità avventurosa dotata di valori troppo categorici e troppo poco ricercati. Crisi di vendite e crisi creativa al tempo stesso, insomma, tanto che perfino le storie di un personaggio importante come l’Uomo Ragno passano, verso la metà del decennio, dalle canoniche 22 pagine a sole 17. Della crisi dei supereroi parlano Sergio Brancato in Fumetti. Guida ai comics nel sistema dei media, Roma, Datanews, 1994 e Daniele Brolli e altri saggisti come lo stesso Brancato e Daniele Barbieri in Daniele Brolli (a cura di), Il crepuscolo degli eroi, Bologna, Telemaco, 1992.
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che appaiono in realtà abbastanza statiche: le didascalie sono fondamentali per riempire gli spazi bianchi (in senso sia grafico che semiotico) lasciati dalle vignette. Tra i fumetti di questo periodo ricordiamo Buck Rogers, Tarzan, Flash Gordon, Brick Bradford, Ace Drummond, Secret Agent X-9, The Phantom, Terry and the Pirates, Mandrake, Dick Tracy, Prince Valiant. Certo non erano affatto spariti i fumetti umoristici o le soap-opera di carta: restavano sulla cresta dell’onda anche titoli come Popeye, Joe Palooka, Little Orphan Annie, Gasoline Alley, Felix The Cat.4 Generi di fumetto molto diversi che avevano però un importante elemento in comune, la sede di pubblicazione. Tanto i viaggi interplanetari di Flash Gordon quanto le lacrimevoli traversie dell’orfanella Annie venivano pubblicati non su supporti editoriali autonomi ma sulle pagine dei quotidiani, che si contendevano gli autori migliori a suon di contratti, in particolare per quei personaggi che, oltre alla tradizionale striscia giornaliera, riuscivano a guadagnarsi anche l’onore di un’intera tavola settimanale a colori. 1938: LA «GOLDEN AGE».5 Viene pubblicato Superman, seguito l’anno dopo da Batman, e con essi si impone non solo il fumetto supereroico, ma anche la nuova modalità di pubblicazione sui comic book, che avrà le sue conseguenze anche sull’impianto semiotico di strutturazione della narratività. Mentre Batman, essendo sostanzialmente umano, è ancora legato ai suoi predecessori del fumetto avventuroso anche sotto il punto di vista della rappresentazione della lotta (ma aggiungendovi un importante elemento acrobatico), per Superman emergono alcune nuove esigenze allo scopo di narrare i combattimenti: bisogna cioè rap-
4 Veloci riferimenti cronologici dei titoli citati. Buck Rogers, 1929, Philip Francis Nowlan e Richard W. Calkins; Tarzan, 1929, Harold Foster; Flash Gordon, 1934, Alex Raymond; Brick Bradford, 1933, William Ritt e Clarence Gray; Ace Drummond (in Italia Fulmine Rosso), 1934, Eddie Rickenbacker e Clayron Knight; Secret Agent X-9 (Agente Segreto X-9), 1934, Dashiell Hammett e Alex Raymond: The Phantom (L’Uomo Mascherato), 1936, Lee Falk e Ray Moore; Terry and the Pirates (Terry e i Pirati), 1934, Milton Caniff; Mandrake, 1934, Lee Falk e Phil Davis; Dick Tracy, 1931, Chester Gould; Prince Valiant, 1937, Harold Foster; Popeye (Braccio di Ferro),1929, Elzie Crisler Segar; Joe Palooka, 1927, Ham Fisher; Little Orphan Annie, 1924, Harold Gray; Gasoline Alley 1918, Frank O. King; Felix The Cat (Mio Mao), 1923, Otto Messmer. 5 Le nozioni di «Golden Age» e «Silver Age» emergono e si sviluppano non in seno a una critica fumettistica di impianto rigorosamente accademico bensì all’interno del fandom americano; tuttavia, si è scelto di farne uso perché esse individuano comunque due periodi ben distinti della storia dei comics, che ben si adattano alla scansione cronologica su cui viene condotta l’analisi in questa sede.
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presentare personaggi che volano, velocità elevatissime, superpoteri che colpiscono gli avversari, muri che vanno in frantumi per un pugno. Tali esigenze risultano sempre più evidenti a mano a mano che vengono creati gli altri eroi storici della DC Comics: Flash, Captain Marvel, Aquaman, Green Lantern (Lanterna Verde), Hawkman, Wonder Woman, Black Canary e diversi altri. La dimensione naturale del supereroe è la lotta, che diventa un momento centrale delle storie; le viene dedicato sempre maggiore spazio, i margini bianchi fra una vignetta e l’altra costituiscono elisioni di archi temporali sempre più brevi: la lotta è quasi narrata «in tempo reale». Accanto al fumetto supereroico, comunque, continua a vivere quello tradizionale, che sulle pagine dei quotidiani presenta nuovi personaggi di successo (Steve Canyon, Rip Kirby, The Spirit).6 1961: LA «SILVER AGE». Stan Lee e Jack Kirby creano i Fantastic Four (Fantastici Quattro) e, in seguito, altri cosiddetti «supereroi con superproblemi»: nelle lotte ci sono tempi più lunghi per dare spazio ai dialoghi e ai pensieri, sicché il tempo di lettura muta radicalmente. La verosimiglianza (termine che nel caso dei supereroi va di per sé inteso in senso lato) è un obiettivo costante, ma spesso perde terreno a favore della spettacolarità, che Kirby ricerca e offre con inquadrature dal taglio inusuale e prospettive azzardate. Sempre Jack Kirby offre per la prima volta scene di lotta realistiche dal punto di vista dei corpi dei personaggi, disegnando sangue che cola dal naso e volti tumefatti. La fortuna dei nuovi supereroi7 subisce un inarrestabile calo negli anni Settanta, che vedono una crisi generale del fumetto supereroico, illuminato saltuariamente da eccezioni come il Batman di Neal Adams. 1981: LA RINASCITA. Il fumetto supereroico risorge e raggiunge nuove vette di qualità grazie a tre autori in particolare: Chris Claremont, Frank Miller e Alan Moore. Le trame si fanno complesse e ricercate, sicché le lotte, funzionali a queste storie più «adulte» che in passato, assumono Steve Canyon, 1947, Milton Caniff; Rip Kirby, 1946, Alex Raymond; The Spirit, 1940, Will Eisner. Per esempio: Hulk, di Stan Lee e Jack Kirby su The Incredibile Hulk n. 1, maggio 1962; SpiderMan (in Italia l’Uomo Ragno), di Stan Lee e Steve Ditko, su The Amazing Spider-Man n. 1, agosto 1962; Iron Man, di Stan Lee, Don Heck e Jack Kirby, su Tales to Astonish n. 39, marzo 1963; gli XMen, di Stan Lee e Jack Kirby, su The X-Men n. 1, settembre 1963; Daredevil (in Italia solo Devil), di Stan Lee e Bill Everett, su Daredevil n. 1, aprile 1964; e numerosissimi altri. 6 7
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una funzione narrativa caratterizzata da motivazioni plausibili e vengono descritte con dovizia di particolari. Miller in particolare, appassionato di arti marziali, fumetto giapponese e cinema, realizza scene di lotta descritte in ogni dettaglio, dal punto di vista sia della verosimiglianza che del disegno, giocando a piacere con il tempo di lettura. 1991: OLTRE IL LIMITE. Dopo i primi tre numeri della collana X-Men, Chris Claremont abbandona la Marvel e lascia la sua testata (insieme alle altre a essa collegate) in mano a disegnatori come Jim Lee, Whilce Portacio e Rob Liefeld, che si improvvisano scrittori. La qualità globale dei soggetti affonda, ma le scene di lotta, estremamente gratificanti da disegnare, si fanno più frequenti e dettagliate. La stessa tendenza è visibile negli albi della Image, nuova casa editrice creata dai suddetti disegnatori, ove l’azione è al primo posto. Si vuole dare maggiore dinamismo, una velocità di lettura molto elevata, che coincida con una rapida visione della lotta: aumenta l’uso delle linee cinetiche e delle espressioni deformate, mentre ambienti e sfondi vengono trascurati. Nelle testate di altre case editrici l’inizio degli anni Novanta ha visto o prendere piede questa tendenza, oppure adottare consapevolmente uno stile a esso opposto, a opera di autori meno mainstream e più innovativi come, nuovamente, Frank Miller. Più di recente, la tendenza alla spettacolarità è andata moderandosi: a un modo nuovamente più sobrio di rappresentare l’azione si è inoltre affiancata una nuova attenzione a storie e personaggi, caratterizzata da una prosa secca e asciutta, da protagonisti molto spesso decisi e sicuri di sé, da trame audaci e talvolta ciniche, alla ricerca di un continuo superamento di quelli che, tempo prima, erano considerati limiti quasi invalicabili. Si tratta di periodi che coprono archi di tempo molto vasti, ragion per cui una selezione nell’analisi del materiale si è resa necessaria. Fra tutti i fumetti prodotti negli Stati Uniti d’America dal 1929 a oggi, verranno qui trattati quelli più rilevanti dal punto di vista della rappresentazione della lotta, mettendone in luce somiglianze e differenze, cercando di porre in evidenza gli strumenti espressivi più usati e più efficaci e individuando percorsi, narrativi e grafici, che da un insieme di premesse all’inizio del XX secolo hanno condotto a significative conseguenze al sorgere del XXI.
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Ringraziamenti
Dalla nascita di questo libro in forma embrionale alla sua stesura definitiva, molte persone mi hanno dato una mano nelle maniere e nelle misure pi첫 disparate. Per primo il professor Daniele Barbieri, insostituibile critico e consigliere, e ora anche prefatore. A seguire, in ordine alfabetico, Andrea Antonazzo, Giancarlo Berardi, il professor Umberto Eco, Gianfranco Goria, Paolo Guiducci, Jim Lee, Paolo Livorati, Vittorio Pavesio, Marco Pellitteri, Luca Scatasta, Antonio Serra. Non meno importanti sono state le persone che hanno contribuito a questo lavoro da un punto di vista strettamente personale: i miei genitori, mia sorella Federica, mio marito Gianluca, e poi Monica, Anna Maria, Sabrina e tutti gli altri amici che mi hanno appoggiata. A tutti, il mio grazie pi첫 sentito.
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III. La lotta e la sua narrazione
III.1 Un’ultima premessa teorica
Si potrebbe introdurre l’argomento di questo Paragrafo partendo da una citazione di Scott McCloud, il quale, in uno dei suoi due interessanti libri, si chiede: «È possibile rendere visibili le emozioni?».1 Può una linea spezzata e tremolante esprimere l’ansia? Può una tonalità di azzurro significare il freddo? McCloud si pone insomma l’eterno problema del rapporto tra espressione e contenuto di un testo, di un’opera, di un segno. Inoltre, si chiede se essi siano separabili o se possano esistere soltanto insieme, in un’unità inscindibile. Credo che la risposta sia abbastanza semplice: no, non possono essere materialmente scissi, ma sì, possono essere almeno presi in considerazione separatamente l’uno dall’altro, allo scopo di analizzarli ciascuno nelle sue caratteristiche fondamentali. Una posizione scontata, forse, ma che ha il pregio di garantire un adeguato rigore metodologico e una certa comodità quando arriverà il momento di analizzare i singoli testi. Seymour Chatman e Claude Bremond affermavano (cfr. infra, Paragrafo I.1) l’indipendenza tra storia e discorso, tra ciò che si racconta e come lo si racconta. Ma, se è vero che una stessa trama può servire da soggetto per un romanzo come per un film, è anche vero che i risultati finali dei connubi storia-prosa e storia-cinema sono piuttosto diversi, e non solo dal punto di vista del valore estetico, ma da quello, ben più umile, della storia stessa. In altri termini, esiste un costante influsso reci1 Scott McCloud, Capire il fumetto. L’arte invisibile (ed. or. Understanding Comics. The Invisible Art, Kitchen Sink Press, 1993), Torino, Vittorio Pavesio Productions, 1996, p. 126. Dello stesso autore: Reinventare il fumetto (ed. or. Reinventing Comics, Paradox Press, 2000), Torino, Vittorio Pavesio Productions, 2001. Sulla «visibilità delle emozioni», cfr. anche Daniele Barbieri, «Linee inquiete. L’emozione e l’ironia nel segno grafico», in Daniele Barbieri (a cura di), La linea inquieta. Emozioni e ironia nel fumetto, Roma, Meltemi, 2005, pp. 193-213, e Sergio Algozzino, Tutt’a un tratto. Una storia della linea nel fumetto, Latina, Tunué, 2005.
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proco tra l’espressione e il contenuto, tale da impedire che raccontare una storia in un romanzo sia la stessa cosa che raccontarla in un film. Ogni medium ha caratteristiche proprie che permettono di comunicare determinati contenuti e non altri, o determinati contenuti meglio di altri, quindi conferendo ai testi sfumature diverse che, nate per via di esigenze formali, influenzano anche il livello del contenuto.2 Qui mi preme soprattutto indicare le conseguenze dell’inscindibilità di espressione e contenuto nel fumetto, tramite un paio di esempi. La linea piatta è in generale molto più immobile di quella modulata, mentre quest’ultima è molto più dinamica dell’altra. Non che con la linea piatta io non possa esprimere il movimento, ma farò molta più fatica a renderlo che con la modulazione […]. Calvin e Hobbes di Watterson è un fumetto di grande effetto dinamico, e il suo umorismo è in buona parte basato sulla resa delle imprese di un bambino scatenato. Questo naturalmente non è abbastanza per dire che Watterson non avrebbe mai potuto usare la linea piatta per disegnare le sue strisce, ma è comunque una ragione sufficiente per capire perché non l’ha fatto. Se il suo fumetto ha avuto successo, è certamente anche perché il segno con cui è disegnato è adatto a quello che viene raccontato.3
Seguendo l’esempio citato, si osservi la Figura III.1, che mette a confronto una striscia di Calvin and Hobbes con una dei Peanuts di Schulz. Questi ultimi sono famosi più per i loro dialoghi cerebrali che per attività particolarmente dinamiche (fanno eccezione pochi casi, come le partite di baseball tra i bambini oppure le corse di Snoopy per addentare la coperta di Linus); al contrario, Calvin è un bambino pestifero, spesso ripreso nell’atto di andare sullo slittino o di azzuffarsi con Hobbes, il suo tigrotto (in carne e pelo per Calvin, di pezza per il resto del mondo). Si torni ora a McCloud e si veda la Figura III.2, tratta da Capire il fumetto. Ogni linea, tratto o stile esprime al meglio certi contenuti piut2 Per chi volesse addentrarsi nei meandri teorici di tale questione, cfr. U. Eco, Apocalittici e integrati, cit.; Id., Le forme del contenuto, Milano, Bompiani, 1971; Id., Trattato di semiotica generale, cit.; Id., Lector in fabula, cit. 3 D. Barbieri, I linguaggi del fumetto, cit., p. 27.
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A sinistra, in alto: Figura III.1a Bill Watterson, Dieci anni di Calvin & Hobbes (ed. or. The Calvin and Hobbes Tenth Anniversary Book, Kansas City, Andrews McMeel Publishing, 1995), Modena, Comix, 1997, p. 161. A sinistra, sopra: Figura III.1b Charles M. Schulz, Peanuts (vignetta tratta dalla striscia del 29 dicembre 1964), in L’Enciclopedia Delle Strisce n. 8: Scuola, Modena, Panini, 2006, p. 121.
A destra: Figura III.2 Scott McCloud, Capire il fumetto. L’arte invisibile (ed. or. Understanding Comics: The Invisible Art, Kitchen Sink Press, 1993), Torino, Vittorio Pavesio Productions, 1996, p. 134.
tosto che certi altri, e la mole di esempi presentata dall’autore rende le sue argomentazioni convincenti. La cosa ha le sue conseguenze anche per ciò che riguarda le scene di lotta. Se ogni genere narrativo (poliziesco, fantascientifico, supereroico) prevede strutturalmente determinati tipi di scontri e combattimenti piuttosto che altri, caratterizzati da tipologie standard di nemici, luoghi, Oggetti di Valore, ecco che ognuno di questi fattori dovrà essere espresso al meglio dal segno che il disegnatore adotterà. Si potrà verificare, caso per caso, come si manifesterà il nesso tra espressione e contenuto.
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III.2 Prospettive monodirezionali: criminali e invasori alieni
Contro chi combattono gli eroi? Il nemico tipico, l’antagonista malvagio, l’Anti-soggetto per eccellenza, nel gergo della narrativa avventurosa (a fumetti e non) viene detto villain, che in inglese significa ‘malvagio’ (in francese vilain, anch’esso a volte usato).4 Ciò significa che, con regolarità e come anticipato nel Capitolo II, il protagonista della testata è buono e il suo rivale è cattivo. Non c’è nulla di strano in tutto questo; ci si potrebbe tuttavia chiedere il motivo di una tale regolarità nelle avventure a fumetti, la cui struttura è in effetti abbastanza monotipica anche e soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra eroe e villain. I romanzi d’avventura del XIX secolo avevano già creato una vasta gamma di personaggi, senza necessariamente ricondursi al luogo comune dell’assolutamente buono contro l’assolutamente cattivo: si pensi per esempio a Long John Silver,5 perfido pirata ma anche uomo affascinante (non fisicamente, s’intende) e provocatorio. I fumetti, che proprio dai romanzi avventurosi prendono spunto, avrebbero direttamente potuto fare propria questa lezione. A determinare l’uso di una certa struttura fissa nelle avventure degli eroi a fumetti è la serialità, della quale si parlerà più diffusamente nel prossimo Paragrafo. Per ora ci si limiterà a notare che, al fine di rendere più agevole la lettura di puntata in puntata, gli autori si servono di codici semplici e riconoscibili, senza ricercare una raffinatezza e una complicazione della quale non tutti i lettori potrebbero agevolmente fruire (esistono infatti numerosi lettori occasionali o disattenti, oppure attenti ma non forniti – magari per carenze culturali – degli strumenti necessari alla corretta interpretazione di un testo basato su dinamiche narrative complesse). Lo stesso principio va tenuto presente nella creazione dei personaggi: anche quelli apparentemente ambigui come Aura (la figlia dell’imperatore Ming in Flash Gordon) si basano in realtà su modelli pree4 Entrambi i termini derivano dal latino villanus, ovvero villico, contadino, e per estensione ignorante, vile, zotico. Quindi, da un punto di vista etimologico, lo status sociale, economico e culturale di una certa tipologia di persone ha determinato un’accezione negativa in senso morale. 5 Personaggio da Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro (ed. or. The Treasure Island, 1883).
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sistenti, tipici del romanzo d’appendice, che è pieno di donne belle e dannate, misteriosi eroi mascherati, malvagi redenti e così via. Volendo abbozzare una descrizione del villain, si potrebbe dire che la sua malvagità interiore si ripercuote spesso anche sull’aspetto fisico. I nemici di Buck Rogers sono mongoli o extraterrestri; Ming, eterno nemico di Flash Gordon, è un orientale con gli occhi piccoli e furbi, il naso adunco e un perfido ghigno disegnato sul volto; i guerrieri barbari contro cui spesso combatte Valiant sono massicci e rozzi, ben lontani cioè dalla prestanza e dall’eleganza del principe; Tarzan si batte contro belve selvagge, oppure contro bracconieri dai volti rudi e barbuti (si noti che Tarzan, pur vivendo nella giungla in uno stato di assoluta e selvaggia libertà e, di conseguenza, inciviltà, non ha mai un filo di barba); e si pensi infine alle sgradevoli fattezze dei nemici di Dick Tracy. In altri termini, l’unione di espressione e contenuto nell’inscindibilità del segno permette di veicolare, tramite modelli grafici tutto sommato molto semplici, diversi tipi di valori che la sensibilità del lettore accoglie e condivide, se orientati verso il bene, o condanna, se orientati verso il male, grazie a una sua preliminare conoscenza di una elementare fisiognomica intuitiva.6 Va da sé che tale conoscenza è situata in una cultura di riferimento specifica tale che, per esempio, i nemici degli eroi degli anni Trenta (Buck Rogers, Flash Gordon) hanno fattezze orientali in quanto creati nel contesto di un paese nel quale era radicato il timore per il cosiddetto «pericolo giallo», mentre i delinquenti comuni sgominati dai supereroi che sorvegliano le metropoli appartengono non di rado a ceppi etnici non integrati nella società WASP statunitense (messicani, portoricani, afroamericani).7 Bene e male diventano a loro volta concetti semplici e monodimensionali, aproblematici. Eroi e criminali perseguono Oggetti di Valore di segno opposto l’uno all’altro, che assumono l’aspetto di un sistema a coppie: libertà-conquista, vita-morte, verità-falsità, interesse pubblico-interesse personale, altruismo-egoismo ecc. Con binomi di questo genere, al 6 Sull’esistenza di una fisiognomica intuitiva o naturale nell’enciclopedia sociale, cfr. Umberto Eco, «Il linguaggio del volto», in Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, 1985, pp. 45-54. 7 WASP: White, Anglo-Saxon, Protestant: ‘bianchi, anglosassoni, protestanti’.
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lettore non è permesso di ingannarsi o problematizzare; gli è invece imposto di delineare un mondo fittizio privo di equivoci, assolutamente semplice e, volendo, banale, ma adatto alle esigenze di un prodotto seriale. La lotta mette platealmente in scena queste dicotomie, giacché, anche se l’eroe non sempre si batte con il villain in persona, tuttavia quest’ultimo è il remoto responsabile di ogni scontro in cui l’eroe debba impegnarsi (per esempio quando Flash Gordon, nella prima delle sue avventure, deve battersi in un’arena con quattro uomini-scimmia allo scopo di divertire Ming). Il combattimento diventa così una conferma della struttura attanziale prevista dal testo, struttura che il lettore ha già individuato ma è contento di sentire approvare nuovamente; se è vero infatti che questi fumetti sono macchine che producono ridondanze ed effetti di «già visto», è anche vero che tali effetti sono graditi dal lettore, appunto perché gli fanno provare il piacere della ripetizione. III.3 Codici e serialità
III.3.1 Garantire una corretta fruizione del testo seriale
Il 7 gennaio 1929 debuttavano sulle pagine dei giornali sia Tarzan che Buck Rogers, il che rappresenta per l’oggetto di questo libro un ottimo inizio. Si trattava delle prime strisce dichiaratamente avventurose e in stile drammatico-realistico, dato che fino a quel momento il fumetto era stato utilizzato per narrare storie anche di trama possibilmente avventurosa, ma principalmente dal registro comico-umoristico e satirico (da cui l’uso della parola comics per indicare i fumetti stessi).8 Il racconto d’avventura, naturalmente, esisteva già da millenni e si era sviluppato per tramite di numerosi media: tradizione orale, prosa, poesia epica e cavalleresca, teatro, cinema… si trattava cioè, per il fumetto, di agire come un «parassita» in un mondo narrativo già esistente, e che 8 Tra le strisce di questo genere, Phil Hardy e Bobby Tatcher di George Storm (1925-1927); Tim Tyler’s Luck (in Italia Cino e Franco) di Lyman Young (1928), sul quale ci si soffermerà più avanti; Wash Tubbs e Captain Easy di Roy Crane (1924).
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aveva già formato, in numerosi modi, diversi contenuti. A questi stessi contenuti e generi si rifacevano gli autori dei primi fumetti d’avventura. Riandando ai più caratteristici eroi del fumetto tra le due guerre, ci accorgiamo che in essi il luogo comune romanzesco si semplifica all’estremo: l’Uomo Mascherato, ovvero l’Avventuriero Errante e Misterioso; Mandrake, ovvero la Magia; Gordon, ovvero lo Spazio; X9, ovvero l’Investigatore; Jim della Giungla, ovvero il Cacciatore; Cino e Franco, ovvero i Ragazzi a Cui è Stata Concessa l’Avventura, e così via. E in misura subordinata, ciascuno di costoro rappresenta volta a volta l’Ascesi, l’Ironia, la Bellezza, l’Acume, eccetera.9
Si trattava cioè di assimilare, nelle loro linee generali, dei contenuti vecchi e di adattarli a un metodo espressivo nuovo, in modo però da farne emergere un connubio funzionale, che non desse l’impressione di raccontare qualcosa di già visto (cosa che accade quando il connubio, appunto, non è funzionale e ben amalgamato). Una riflessione sui contenuti, provvisoriamente separati dalla forma espressiva destinati ad assumere, si rende però necessaria; più in generale, nel corso di questo testo ci si soffermerà prima sui «chi», i «dove», i «quando», i «perché», in altre parole sul livello narrativo, che verrà percorso dalla profondità alla superficie e viceversa; e successivamente sui «come», sulle scelte grafiche, sul livello discorsivo. Qualora si assuma che un determinato prodotto narrativo appartenga a un dato genere, in esso si ritroveranno cliché e luoghi tipici e caratteristici di quel genere. Ammettere una tipicità narrativa significa ammettere una struttura profonda, in cui ogni elemento narrativo occupa una gamma di posizioni limitate nell’ambito della struttura generale. Per esempio in un fumetto poliziesco come Dick Tracy difficilmente si collocherà una lotta nell’ambito di una sfida o di un torneo, bensì si selezioneranno altri frame,10 come il detective che impedisce al criminale di fuggire, oppure sventa un attentato fermando il cecchino all’ultimo U. Eco, Apocalittici e integrati, cit., p. 150. «Un frame è una struttura di dati che serve a rappresentare una situazione stereotipa, come essere in un certo tipo di soggiorno o andare a una festa di compleanno per bambini. Ogni frame compor9
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momento. Al contrario, sceneggiature di questo tipo saranno assenti in una saga heroic fantasy come quella di Prince Valiant, dove invece saranno previsti duelli, tornei e battaglie campali. Il genere narrativo influisce insomma su parecchi degli elementi che sono stati individuati e ordinati nelle tabelle al termine del Capitolo I, anche se, naturalmente, eccezioni e casi particolari sono previsti. Questa regola è inoltre valida più nel fumetto che in altri casi, per via di quella caratteristica che, sin dal Capitolo I, si è detto essere propria di gran parte di questo medium, e cioè la serialità. Il fatto che i fumetti procedano per puntate, distanti l’una dall’altra nel tempo, impone tutta una serie di accorgimenti finalizzati a consentire una rapida e facile sintesi mnemonica da parte del lettore: a questo è dovuto l’uso di segni appartenenti a codici noti e inequivocabili, dal punto di vista sia grafico che testuale. L’uso di tali codici deve inoltre garantire, oltre alla sintesi memoriale, la possibilità di sostituirla – qualora essa venga a mancare – con una semplice inferenza. Supponiamo che un lettore di Prince Valiant non possa leggere le avventure del suo eroe per tre domeniche di seguito; può darsi che, quando riprenda in mano la tavola domenicale di una certa settimana, trovi Valiant non più dove lo aveva lasciato, supponiamo in una sala del castello di Artù mentre gioca con i suoi bambini, bensì in tutt’altra situazione, per esempio mentre dall’alto delle mura colpisce degli uomini che si stanno arrampicando sulle mura dall’esterno; il lettore riconoscerà allora con una certa facilità il frame «assedio», con tutto ciò che esso comporta (frecce vaganti, calderoni di olio bollente gettati sugli assedianti, arieti che tentano di sfondare le porte). Nella maggior parte di questi fumetti, dunque, le attività dei personaggi e le situazioni narrative sono sufficientemente tipiche da consentire un’immediata comprensione anche da parte del lettore più distratto, il quale, se non bastassero i semplici codici utilizzati, viene spesso aiutato anche da numerose didascalie. Per esempio, una didascalia all’inizio
ta un certo numero di informazioni. Alcune concernono ciò che qualcuno può aspettarsi che accada di conseguenza. Altre riguardano quello che si deve fare se queste aspettative non sono confermate» (Marvin M. Minsky, «A Framework for Representing Knowledge», AI Memo 306, MIT Artificial Intelligence Laboratory, 1974, in Patrick H. Winston [ed.], The Psychology of Computer Vision, New York, McGraw-Hill, 1975; tradotto e citato in U. Eco, Lector in fabula, cit., p. 80).
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Figura III.3 Lyman Young, La grande avventura di Cino e Franco, n. 17 (ed. or. Tim Tyler’s Luck, strisce del 1938), Firenze, Nerbini, 1974.
di una striscia o di una tavola serve a fare il riassunto di quanto è accaduto nella puntata precedente, o del punto al quale si era arrivati, o di qualche dettaglio importante che il lettore deve conoscere. Si veda la Figura III.3 e si tenga presente che, in origine, le tre strisce di cui si compone la tavola erano state pubblicate separatamente. Un lettore che abbia letto la prima striscia non ha difficoltà a capire come mai, nella prima vignetta della seconda striscia, la scimmia possa saltare tranquillamente addosso a Franco, che pure è armato, senza che egli le spari. Un lettore nuovo, invece, ha bisogno della didascalia che gli spieghi: «la pistola di Franco non spara».11 Tornando al problema dei codici inequivocabili da utilizzare per garantire una corretta fruizione del testo, ci si dovrà anche soffermare
11 Si noti che la presenza di tutti questi richiami mnemonici perde valore, e anzi diventa abbastanza ridicola quando, come nel caso della nostra figura, le strisce vengono raccolte in tavole e in volumi. Quelli che prima erano stratagemmi necessari per una buona comprensione del testo diventano in questo modo messaggi ridondanti.
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sul tratto usato dai disegnatori, che è a sua volta uno di questi codici, come già detto parlando di Calvin and Hobbes. Si procederà quindi a verificare quale rapporto sussista fra stile e contenuto di alcuni tra i più importanti fumetti avventurosi del periodo preso in esame, cercando di scoprire se questo rapporto abbia qualcosa da dire sulla rappresentazione delle scene di lotta. III.3.2 Buck Rogers (1929)
L’avventura fantascientifica è il genere narrativo scelto da Dick Calkins per la sua striscia quotidiana, che narra le avventure di Buck Rogers. Buck è un terrestre del XX secolo, rimasto accidentalmente in animazione sospesa per circa cinquecento anni, che al suo risveglio trova l’America soggiogata dagli invasori cinesi. Egli si mette allora in contatto con l’esercito americano che lotta per la libertà e contribuisce attivamente prima a liberare la sua patria, e in seguito a difendere la Terra da minacce extraterrestri. La dicotomia buono-cattivo che sta alla base di Buck Rogers è quindi fondata sul modello americano-straniero, laddove con quest’ultimo aggettivo si possono indicare tanto gli esponenti del cosiddetto «pericolo giallo», quanto coloro che provengono dallo spazio profondo, misterioso e inesplorato. In altri termini, l’ideologia spicciola su cui si fonda Buck Rogers è quella, banale forse ma sempre valida per ricamarvi sopra storie d’avventura, che il diverso si presume sia pericoloso. Dal punto di vista della struttura attanziale e degli Oggetti di Valore che l’eroe persegue opponendosi ai suoi nemici, questo fumetto assume quindi una fisionomia semplice e schematica, adatta a un prodotto seriale, che non necessita di ulteriori commenti. Il fumetto d’avventura era appena agli inizi, sicché, da un punto di vista narrativo, bisognerà attendere almeno qualche anno per poter vedere altre serie che, pur basandosi a livello profondo sulle stesse strutture, riescano a lavorare con più fantasia e meno ingenuità sul livello di superficie. Per quanto riguarda la parte grafica, lo stile di Calkins, soprattutto nelle piccole vignette delle strisce quotidiane, mostra il suo debito nei confronti dei fumetti a esso precedenti, quindi ai fumetti umoristici. Si
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Figura III.4 Phil Nowlan – Dick Calkins, «Sunken City of Atlantis», The Collected Works of Buck Rogers in the 25th Century, New York, Chelsea House, 1969, p. 201 (strisce nn. 707-708 del 1931).
veda per esempio la Figura III.4, in cui l’effetto del colpo di Wilma sul suo avversario è indicato con le tipiche stelline intorno alla testa. Esse fanno parte di un’iconografia tipica del linguaggio dei fumetti comici, come le goccioline di sudore che esprimono la tensione. D’altra parte, anche a livello narrativo Buck Rogers prevede brevi intermezzi ironici, gag e situazioni umoristiche. Le lotte corpo a corpo sono piuttosto rare e ancor più lo diventano a mano a mano che la guerra contro gli invasori orientali lascia il posto alle avventure spaziali. In questo ambito si combatte più che altro pilotando astronavi o altri mezzi, sicché Calkins (e i colleghi che a lui si affiancano, come Rick Yager) optano per inquadrature dalla prospettiva più raffinata che in precedenza e per campi lunghi, panoramiche, ampie visioni dall’alto. È questo un genere di scontro in cui i disegnatori hanno modo di sbizzarrirsi con effetti grafici tipicamente utilizzati per illustrare l’uso delle armi da fuoco: gli sbuffi luminosi che mostrano la bocca del fucile mentre fa fuoco, le linee che indicano le traiettorie dei proiettili, gli scoppi colorati quando il proiettile raggiunge un bersaglio. Decisamente meno efficaci sono le soluzioni
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grafiche adottate per le lotte vere e proprie, dove ogni colpo sembra lento e graficamente privo di grande efficacia, a volte contraddicendo la narrazione, la quale può attribuire buoni risultati a pugni o calci ben poco violenti a vedersi, o viceversa. I risultati nella rappresentazione della lotta, dunque, sono altalenanti. Si torni per esempio alla Figura III.4: nella prima striscia, Wilma sembra colpire duramente al volto Killer Kane: il suo braccio è teso, le linee cinetiche che ne illustrano il movimento mostrano che il pugno ha percorso una discreta traiettoria e ha avuto il tempo di acquistare velocità; il volto di Killer Kane è rivolto verso l’alto, a quanto pare perché il pugno lo ha colpito sotto il mento; non mancano neppure stelline e pianetini intorno al viso di Killer Kane, e inoltre il suo balloon ha i contorni tremolanti, cosa che sembra voler significare un’alterazione nella sua voce, dovuta al colpo. Si direbbe in sostanza che Wilma abbia piazzato davvero un bel pugno, eppure Killer Kane, nella vignetta successiva, non dà segni di particolare dolore. Quando, nella striscia successiva, è lui a colpire Wilma, il suo braccio è piegato ad angolo retto, posizione alquanto scomoda per assestare un buon colpo; inoltre la traiettoria del braccio stesso, indicata dalle linee cinetiche, mostra uno strano giro intorno alla testa, come se Killer Kane avesse ruotato l’intero suo corpo al fine di far acquistare velocità al colpo, ma la posizione del suo corpo e l’assenza di altri simboli grafici non confermano questa supposizione. Infine, l’effetto del pugno su Wilma non sembra troppo grave: la sua testa rimane ferma in una posizione del tutto naturale, e inoltre a indicare l’impatto sono presenti solo alcune linee disposte a raggiera intorno al viso della donna. Ciò nonostante, la didascalia afferma: «Wilma cercò di combattere, ma la brutalità di Killer Kane era incredibile!», in palese contraddizione con quanto comunica il disegno. Tanto che, nella vignetta successiva, Wilma è stesa a terra, priva di sensi. Può darsi che questa scarsa efficacia rappresentativa sia dovuta al fatto che, come già detto, Buck Rogers era uno dei primissimi fumetti d’avventura; i fumetti precedenti, essendo umoristici o satirici, non necessitavano di una grafica particolarmente realistica per rendere situazioni violente, che dovevano risolversi nel segno del ridicolo. Dick Calkins, adottando le soluzioni grafiche dei cartoonist che lo avevano preceduto, sembra pur-
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troppo adagiarvisi, senza ricercare nuovi metodi espressivi, più efficaci ai fini di ciò che andava raccontando. In questo caso, il rapporto tra livello discorsivo e contenuto non ha raggiunto buoni risultati. III.3.3 Tarzan (1929)
Parlare dello stile di Tarzan (in scene di lotta e non) significa, in due parole, parlare di Burne Hogarth. A dire il vero, il primo disegnatore di questo fumetto fu Harold Foster, noto per la sua linea morbida, modulata, sinuosa. Foster non manca né di senso della prospettiva, né della capacità di dare effetti di dinamismo alle vignette; tuttavia c’è un motivo se Harold Foster è famoso non per Tarzan, ma per Prince Valiant, ed è (cosa fin troppo ovvia per chi abbia seguito le tesi fin qui proposte) il rapporto espressione/contenuto. Di converso, esso è anche il motivo per cui invece, a diventare famoso per Tarzan, fu un disegnatore dallo stile assolutamente diverso da quello di Foster, ovvero Burne Hogarth.12 Si può partire con una considerazione abbastanza semplice: indipendentemente dalla versione che di Tarzan ha dato nei suoi romanzi il suo creatore Edgar Rice Burroughs (il quale ne dipingeva un ritratto elegante, raffinato, composto), un uomo che sin da bambino sopravvive nella giungla armato solo delle sue mani o, al limite, di un coltello, deve essere una specie di forza della natura, un uomo straordinario, quasi un semidio. Le sue eccezionali caratteristiche devono inoltre riguardare tanto il suo fisico quanto la sua mente, in modo da ottenere uno straordinario concentrato di astuzia e forza al tempo stesso. Le attività tipiche di Tarzan devono essere: correre, nuotare, cacciare, battersi con animali feroci. Tarzan non è un uomo che, nel suo tempo libero, si dedica ad attività sportive e non è neppure un uomo che investiga
12 Questo accostamento tra Foster e Hogarth permette di tornare su un punto importante, che nel Paragrafo III.1 era stato solo accennato: la qualità grafica non è l’unico criterio con cui si possa valutare il risultato estetico di un’opera. Anch’esso dipende dal connubio tra espressione e contenuto. Lo stile di Foster, preso a sé, non è in alcun modo inespressivo o piatto rispetto a quello di Hogarth, tanto è vero che nessun critico assennato tenterebbe neppure di rispondere a una domanda come: «È meglio riuscito il Prince Valiant di Foster o il Tarzan di Hogarth?». Lo stesso Tarzan di Foster è indubbiamente valido e bello a vedersi; tuttavia il suo stile pare veicolare contenuti che sembrano più pertinenti nel contesto di Prince Valiant, laddove invece il tratto di Hogarth è in grado di esprimere significati assolutamente adatti a un personaggio come Tarzan.
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con calma su casi polizieschi (come Dick Tracy) o ha poteri magici (come Mandrake), e che quindi conosce il pericolo ma almeno non ha il problema di procurarsi il cibo ogni giorno, perché vive in una società civilizzata. Egli non può passare un solo giorno in pieno relax: la giungla e i suoi abitanti non perdonano. Bisogna cacciare per nutrirsi, bisogna battere in velocità l’antilope e in forza il leone, per non essere a propria volta una preda. Di conseguenza, Tarzan ha un fisico e una muscolatura di cui gli altri eroi dei fumetti non devono neppure lontanamente essere dotati. Fatte le dovute eccezioni, Tarzan non combatte quasi mai per sfida, per divertimento, perché partecipa a un torneo: lotta per la sua sopravvivenza, come se vivesse una guerra continua, fatta di innumerevoli battaglie la cui posta in gioco è la vita. Come tutte le bestie, alle quali egli, pur essendo uomo, deve assomigliare perché è cresciuto tra loro, Tarzan rispetta la legge del più forte e si aggrappa alla vita con ogni mezzo: non può conoscere l’orgoglio dell’uomo civilizzato davanti alla morte, può conoscere solo l’ostinata determinazione di un animale. Il disegno di Burne Hogarth riesce a esprimere tutto questo. Il suo realistico e verosimile assunto è che Tarzan sia tanto uomo quanto bestia, e che questi suoi due lati emergano a seconda delle situazioni in cui egli viene a trovarsi. Sarà uomo, e quindi converserà con gli uomini delle tribù africane, siederà in mezzo a loro e mangerà carne cotta; ma poi sarà anche bestia, sicché lotterà con le altre bestie in modo selvaggio e irruento. Nella tavola riportata in Figura III.5, anche la didascalia finale insiste su questa dicotomia. La linea di Hogarth è dinamica, corposa, proprio per mostrare la selvaggia vitalità di Tarzan, la cui muscolatura è disegnata sin nei minimi dettagli grazie a uno studio approfondito dell’anatomia umana. I muscoli di Tarzan sono gonfi e formosi non perché lui sia una specie di culturista, ma perché sono sempre in tensione, sempre all’opera. Nelle inquadrature più ravvicinate, perfino le venature della mano emergono. I combattimenti fra Tarzan e i suoi nemici (uomini o animali che siano) sono all’insegna, si diceva, della legge del più forte. Essendo questa una legge che non prevede eccezioni né compromessi, ogni lotta è disperata e selvaggia, cosa che Hogarth mostra utilizzando diversi strumenti grafici: dalle linee cinetiche, ai virtuosismi fisiognomici, alle pose contorte e
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A sinistra: Figura III.5 Edgar Rice Burroughs – Burne Hogarth, Tarzan: il re della giungla (ed. or. Tarzan, tavola del 1949), Milano, Mondadori, 1971, p. 110. A destra: Figura III.6 Edgar Rice Burroughs – Burne Hogarth, Tarzan: il re della giungla (ed. or. Tarzan, tavola del 1948), Milano, Mondadori, 1971, p. 169.
inverosimili. Hogarth predilige le inquadrature a figura intera, i panorami, i campi lunghi che gli permettono una visione ampia di quanto accade, per esempio mostrando interamente i corpi di Tarzan e del leone nella Figura III.5. Infrequenti sono i primi piani, eppure la loro presenza risulta comunque funzionale a esprimere quel misto di umanità e bestialità che in un combattimento emerge più che in altri momenti (Figura III.6). Ogni singola vignetta, dunque, veicola significati direttamente connessi all’essenza stessa del personaggio Tarzan e ciò, nelle frequenti scene di lotta, assume un’importanza ancora maggiore. Per quanto concerne però gli accostamenti tra le vignette, quindi il montaggio e, in sostanza, l’effetto narrativo,
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il testo scritto narrativo (non vi sono dialoghi) ha un’importanza determinante, di cui le immagini rappresentano palesemente solo un commento, per quanto importante. Lo prova il fatto che se leggessimo il testo senza vedere le immagini capiremmo lo stesso quello che sta succedendo, mentre avremmo molte difficoltà a capirlo a partire dalle immagini senza il testo […]. L’ideale di Hogarth è classico, monumentale, non può ridursi alla episodicità e alla rapidità di lettura grafica dei fumetti. E così crea questo strano ibrido, un po’ fumetto, un po’ storia illustrata.13
A proposito delle contaminazioni tra fumetto e illustrazione, sarà interessante confrontare Tarzan con altri due fumetti in cui questa ibridazione è molto evidente: Flash Gordon e Prince Valiant. Questi ultimi due hanno in comune la caratteristica di essere ambientati in mondi favolistici, lontani nel tempo o nello spazio, ove si compiono gesta eroiche che i disegnatori si incaricano di immortalare: sicché anche in questi casi, ogni vignetta sembra fare quadro a sé e sacrificare, in nome della propria epicità, il rapporto con le precedenti e le successive. Anche dell’uomo della giungla, d’altra parte, si può dire che compia imprese epiche. Tarzan si batte abbastanza frequentemente contro grossi e pericolosi animali, il che può ricordare Ercole e il leone Nemeo. Ogni battaglia di Tarzan è un inno alla sua forza che, secondo la legge da tutti rispettata, continua a vincere. Non per nulla, al termine di ogni scontro, l’uomo-animale innalza il suo grido di guerra. Hogarth ha quindi il diritto di optare per una via di mezzo tra fumetto e illustrazione, oltre che per via del suo ideale pittorico, anche in nome dell’eccezionalità di cui Tarzan è portatore, e che lo rende un legittimo soggetto per veri e propri quadri, oltre che per le vignette di un fumetto. III.3.4 Dick Tracy (1931)
Anche in questo caso, è opportuno cominciare con una considerazione molto semplice: Dick Tracy è un poliziotto, dunque deve sembrare 13
D. Barbieri, I linguaggi del fumetto, cit., p. 63.
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un poliziotto: acuto, onesto, sicuro. Essendo lui un poliziotto, i suoi nemici saranno automaticamente dei criminali, i quali a loro volta dovranno sembrare dei criminali. Fin qui, non c’è nulla di particolarmente diverso da quello che l’eterno problema del binomio espressione-contenuto avrebbe fatto supporre per ogni testo narrativo che narrasse le imprese di un poliziotto. In Dick Tracy, però, si va oltre: il disegnatore Chester Gould porta tale premessa a conseguenze estreme, optando per un segno diretto, sintetico e inequivocabile, e dando vita a una serie di personaggi che si inseriscono a perfezione e senza equivoci nella struttura attanziale nascosta sotto le storie del detective. Dick Tracy […] non fa concessioni all’umorismo. È un poliziesco d’azione, serrato, senza pause narrative, affascinante e coinvolgente proprio per questa monoliticità […]. La mascella quadrata del protagonista, così innaturale, rappresenta il vero prototipo del mento volitivo da uomo d’azione americano, così come le fattezze in un modo o nell’altro grottesche dei cattivi rappresentano l’abiezione e la crudeltà.14
Tutto lo stile di Gould, comunque, insiste su una netta contrapposizione tra mondo dei buoni e mondo dei cattivi, impegnati in un violento scontro l’uno contro l’altro, ben oltre le caratterizzazioni fisiognomiche. Basate esclusivamente sulla contrapposizione di masse nere e bianche, le vignette di Dick Tracy rappresentano in modo simbolico proprio lo scontro tra Bene e Male. Chester Gould eleva fin dagli inizi la violenza a tema ossessivo delle sue storie, con un compiacimento insistito per certe rappresentazioni – diremo oggi – decisamente splatter. Ma non si tratta solo di scene truculente […]. È anche una violenza simbolica, una particolare carica d’ansia presente in ogni vignetta, che tende irresistibilmente alla inevitabile scena sanguinosa (o comunque macabra) inserita nel plot a intervalli regolari.15
Ivi, pp. 82-83. Leonardo Gori, «Prefazione» a Chester Gould, Dick Tracy. Le storie originali di Chester Gould, Roma, Comic Art, 1994, p. 1. 14 15
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Figura III.7 Chester Gould, «Dick Tracy: Pinkie l’accoltellatore» (ed. or. «Dick Tracy: Pinkie the Stabberer», striscia del 27 novembre 1931), in Dick Tracy, n. 1, Roma, Comic Art, 1994, p. 100.
Paradossalmente, ciò non riguarda in senso stretto le scene di lotta, che sembrerebbero le più indicate per lasciarsi andare all’illustrazione di atti violenti. In realtà le storie di Dick Tracy prevedono sì sequenze ricche di tensione e crudeltà, ma anche in circostanze estranee agli scontri corpo a corpo. Per esempio, nella storia intitolata «Selbert» (1941), prima la signora Depool, una malvagia vecchietta, spara al complice Selbert, del quale Gould mette in evidenza la sofferenza e il tremore a essa dovuto, unitamente all’atteggiamento spietato e sicuro della signora Depool; ma poi Selbert, per vendicarsi, dopo averla avvelenata lascia l’anziana signora a morire in una casa che sta andando a fuoco. Se simili scene confermano l’intenzione di Gould di rappresentare il mondo malvagio e spietato dei criminali, altre invece devono mostrare la rivincita del bene sul male; ed è in queste circostanze che il detective Tracy si batte o scambia colpi di pistola con gangster e furfanti. Se Dick Tracy «è un duro», quando indaga e quando picchia i criminali deve comportarsi da duro. Ecco allora che tanto le sparatorie quanto le lotte sono brevi e concise: si vedano le Figure III.7 e III.8. Nella prima, a Gould sono sufficienti due vignette per mettere Tracy nelle condizioni di uccidere due gangster a colpi di pistola; nella seconda, un paio di calci
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Figura III.8 Chester Gould, «Dick Tracy: gli inganni di Duke e l’avidità di Talpa» (ed. or. «Dick Tracy: Duke’s Deceptions and Mole’s Greed», strisce nn. 69-70 del 1941), in Franco Fossati – Sergio Giuffrida – Sergio Pomati, La grande avventura dei fumetti: gli eroi, la storia, i segreti, Novara, De Agostini, 1990, allegato al fascicolo n. 47, p. 19.
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ben assestati gli bastano a mettere al tappeto l’avversario, per giunta in condizioni proibitive come un tunnel allagato che sta franando. Gould usa contemporaneamente strumenti grafici umoristici e drammatici; per esempio, nella seconda striscia della Figura III.8, quando Dick colpisce Mole con un calcio, sopra la testa dell’avversario appaiono le stelline già viste anche in Buck Rogers; l’espressione di Mole, però, non assomiglia a quella tutto sommato buffa di Killer Kane colpito da Wilma (Figura III.4), anzi è realisticamente dolorante. Anche quando combatte, quindi quando sta svolgendo un’attività impegnativa che può dare origine a momenti di decisione come ad altri di momentaneo spaesamento, Dick Tracy non perde mai la sua espressione facciale dura e determinata, che varia ben poco (per esempio, la bocca aperta invece che chiusa). Questo toglie forse realismo alle scene violente, perché è oggettivamente pensabile che un uomo impegnato a difendere la propria vita possa provare tensione se non paura, ma conferma il
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temperamento granitico del detective. Le espressioni di Mole, invece, variano dalla rabbia al dolore; il male ha un carattere più debole e fragile, che le situazioni di tensione come la lotta mettono in evidenza. Come anticipato parlando in generale di scontri e strutture attanziali, i combattimenti sono programmi narrativi d’uso che sanzionano definitivamente i ruoli standardizzati rivestiti dai vari personaggi. Mole, per esempio, è il criminale malvagio e codardo, il villain per eccellenza, che al momento di confrontarsi direttamente con Dick mostra tutta la sua mediocrità. III.3.5 Flash Gordon (1934) e Secret Agent X-9 (1934)
È d’obbligo segnalare, per tutti i fumetti in generale ma per Flash Gordon in particolare, che un prodotto diluito nel tempo mostra, a mano a mano, un’evoluzione più o meno lenta nello stile (narrativo e grafico) in cui è realizzato. Il tratto, le prospettive, il montaggio delle vignette nelle oltre cinquecento tavole di Flash Gordon realizzate da Alex Raymond muta molto rapidamente.16 Se quindi vi sono elementi stilistici costanti nell’opera raymondiana, bisogna però fare i conti anche con altre caratteristiche, mutevoli nel tempo. Dopo un esordio narrativo caratterizzato dal susseguirsi incessante e vorticoso di avvenimenti, tali che in ogni tavola accade una quantità di eventi, Flash Gordon, grazie ai testi di Don Moore, si trasforma da fumetto di fantascienza in una vera e propria epopea a metà tra la fantascienza vera e propria e lo heroic fantasy. Luoghi narrativi tipici di Flash Gordon diventano la prigionia, la fuga, i tornei, le sfide, le guerre tra popoli conquistatori e popoli ribelli. Una sorta di nuova epica, che Raymond traduce sulla carta inventando armi e abiti fantasiosi, e dando una precisa fisionomia a tutti gli abitanti di Mongo, il pianeta dove si svolge l’azione: gli uomini falco, gli uomini leone, gli uomini lucertola ecc. Un clima narrativo di questo genere non lascia spazio ad azioni scattanti o a scaramucce di scarsa entità, ma piuttosto a grandi battaglie, a imprese eroiche, a eventi memorabili. Infatti le avventure di Flash pren16 Cfr. a questo proposito Daniele Barbieri, «Linea e mito di Flash Gordon», Linea Grafica, n. 5, Milano, Azzurra Editore, 1988, pp. 10-19.
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Figura III.9 Don Moore – Alex Raymond, «Flash Gordon: Il torneo di Mongo» (ed. or. «Flash Gordon: Tournaments of Mongo», tavola del 23 dicembre 1934), Flash Gordon, n. 2, Roma, Comic Art, 1991, p. 25.
dono rapidamente questa piega, e il tratto di Raymond passa da uno stile tipicamente fumettistico, fatto cioè di tante piccole vignette strettamente connesse tra loro, a uno stile vicino all’illustrazione più che al fumetto, dedicandosi a vignette più grandi, ognuna delle quali può essere considerata un piccolo quadro (sempre però garantendo la consequenzialità logica e temporale che permette di seguire l’azione). Secondo Daniele Barbieri, l’episodio «Re Gordon contro Ming» è esemplare da questo punto di vista: È con questo episodio che la figura umana comincia ad assumere quell’aspetto monumentale che conserverà per tutta la produzione successiva. La luce, in queste immagini, è sempre violenta e radente, e gli sfondi sono scuri di ombreggiature emotive. La gestualità è quella del grande melodramma, di Delacroix e Gericault: i personaggi sono vestiti come nei corpi d’armata più mitici dell’Ottocento, i Lanceri del Bengala, gli Ulani, i Turchi in Crimea… È nel corso di questo episodio, che l’esigenza di spettacolarità porta Raymond a passare dallo schema a 9 vignette a
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Figura III.10 Don Moore – Alex Raymond, «Flash Gordon: Re Gordon contro Ming» (ed. or. «Flash Gordon: At War With Ming», tavola del 29 dicembre 1935), Flash Gordon, n. 4, Roma, Comic Art, 1991, p. 13.
quello a 6 vignette per tavola, con un montaggio della tavola estremamente libero, con abbondanza di vignette verticali o molto grandi.17
Come già detto, lo stile di Raymond è soggetto a numerosi mutamenti; tuttavia, almeno finché Flash agirà su Mongo, la sua figura, le sue espressioni saranno sempre quelle di una sorta di semidio, caratterizzato da una profonda immutabilità. È per questo che anche le scene in cui sarebbero necessari maggiore dinamismo e senso del movimento, come appunto i duelli o le battaglie, appaiono invece statiche. Raymond non fa uso di alcuno degli strumenti grafici più adatti a esprimere il moto, come le linee cinetiche o i cosiddetti lampi di luce: si limita a illustrare un evento, come se fosse un pittore. Si può dunque dire, per semplificare, che se inizialmente lo scopo principale di Raymond era quello di raccontare, in seguito egli persegue piuttosto la finalità di illustrare. La differenza tra questi due obiettivi si nota anche nelle scene in cui Flash combatte. Nel primo caso, Raymond racconta con un considerevole numero di dettagli e di passaggi (ovvero di vignette) lo svolgimento dei combattimenti: si veda per esempio la Figura III.9, tratta dall’episodio «Il torneo di Mongo»: tutti i momenti fondamentali delle lotte sono presentati. In 17
Ivi, p. 14.
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Figura III.11 Don Moore – Alex Raymond, «Flash Gordon: Re Gordon contro Ming» (ed. or. «Flash Gordon: At War With Ming», tavola del 10 novembre 1935), Flash Gordon, n. 4, Roma, Comic Art, 1991, p. 6.
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seguito, date le nuove esigenze narrative, la soluzione adottata da Raymond è quella di operare una rigorosa selezione sulle azioni da mostrare, e in particolare di insistere sull’esordio e la conclusione della lotta, sorvolando su tutte le possibili fasi intermedie, che pure potrebbero essere degne di interesse. Nella Figura III.10, tratta dall’episodio «Re Gordon contro Ming», si vede una vignetta in cui, in una cella delle prigioni di Ming ove è tenuto Flash, un grosso serpente gli si avvicina; poi c’è uno stacco, dovuto alla presenza di altre vignette che seguono una vicenda parallela, e, quando si torna alla scena nelle prigioni, Flash ha già sconfitto il suo avversario. Passando dagli scontri corpo a corpo alle vere e proprie battaglie, questo sistema dà frutti decisamente migliori. Si veda per esempio la tavola nella Figura III.11: Flash e Dale, impegnati in battaglia nell’episodio «Re Gordon contro Ming», sembrano due paladini, decisi a non retrocedere e a non lasciare la loro postazione, mentre sullo sfondo una massa di fuoco e fiamme lascia intuire al lettore l’entità della guerra che si sta
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combattendo. Le due figure sono immobili, statuarie, irremovibili: in altri termini, si tratta di eroi nel senso più antico ed epico del termine, quello che rimandava a un’ascendenza divina. La linea di Raymond è statica, come a voler congelare nel tempo i mitici eventi che sta raccontando; tutt’altro aspetto assumerà invece negli episodi in cui Flash tornerà sulla Terra e qui vivrà alcune avventure, prive però del tono epico che caratterizzava le precedenti. La Terra non è un mondo fantastico come Mongo e non ha più il sapore della landa immaginaria, del luogo incantato in cui tutto è possibile; di conseguenza il disegno deve farsi più realistico. La linea subisce un nuovo cambiamento. Da lunga, sottile e sinuosa qual era, diviene breve e nervosa, molto più disposta a ispessirsi anche in maniera angolosa e improvvisa: insomma, diviene dinamica. Flash Gordon si ricicla in un fumetto di azione, anzi, in un fumetto di guerra. È probabilmente l’incursione in questo nuovo genere che ha indotto Raymond al cambiamento, un cambiamento di cui si intravvedono i prodromi anche nelle ultime tavole di Mongo, ma che esplode davvero da una tavola all’altra con l’inizio del nuovo episodio.18
Flash viene dunque trasportato, dai duelli e dai tornei di Mongo, in una guerra terrestre. Le battaglie della grande guerra su Mongo tra Flash e Ming, ricche di macchinari fantascientifici, uomini alati che calano in picchiata sui nemici, battaglie con fucili laser misti a duelli all’arma bianca, eserciti di cavalieri e lancieri schierati a battaglia, permettevano quel tono epico che i soggetti di Don Moore richiedevano e che i disegni di Alex Raymond conferivano alle storie. Una guerra sulla Terra, invece, è fatta di uniformi militari color bruno oliva, pistole e fucili, non ha nulla di grande né maestoso: dunque il cambiamento di stile è giustificato (si è tornati al problema del rapporto fra espressione e contenuto) e le battaglie terrestri sono alquanto realistiche, perdendo la maestà e l’epicità di quelle su Mongo. Non per nulla Raymond adotta tutto un altro stile, tratteggiato e «sporco», non più lineare e sinuoso come quello che ho definito epico, per 18
Ivi, p. 18.
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Figura III.12 (in alto) e Figura III.13 (sopra) Alex Raymond, «Agente segreto X-9» (ed. or. Secret Agent X-9, striscia del 1935), in Mandrake, n. 14, Roma, Comic Art, 1992.
realizzare un altro suo fumetto, che nasce quasi contemporaneamente a Flash Gordon. Si tratta di Secret Agent X-9, il cui titolo dice già molto. X-9 è, come si presenta egli stesso nel suo primo episodio, «più o meno» un poliziotto, raffinato e deciso, che lotta contro il crimine soprattutto grazie alla sua intelligenza e alla sua furbizia. L’ambientazione realistica di questa serie permette ad Alex Raymond (che disegna su testi del grande romanziere noir Dashiell Hammett) di concentrarsi non più sui grandi spazi e sulle pose epiche, ma sugli interni, sui primi piani, sui dialoghi, molto più di quanto non facesse con Flash Gordon. X-9 lotta molto raramente; preferisce sparare. Le sparatorie sono abbastanza frequenti e molto vivaci, tant’è vero che Raymond non si limita a fare uso delle linee cinetiche per indicare i proiettili che volano, ma spesso dinamizza la scena tramite dettagli come le pieghe dei vestiti mossi, le posizioni dei corpi agitati, oggetti che cadono e rotolano. Si vedano per esempio le Figure III.12 e III.13; nel primo caso, persino le ombreggiature sul
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pavimento contribuiscono a vivacizzare la vignetta, in quanto disegnate con due differenti tecniche: matita in primo piano, retino sullo sfondo. Si notino inoltre i due banditi, sulla destra, immersi in una nuvola di polvere e in pieno movimento. Nella seconda striscia compare sempre una sparatoria, disegnata però secondo schemi grafici del tutto opposti: X-9 è quasi immobile, e può permetterselo perché ha preso in mano la situazione; la sua silhouette che si staglia contro la finestra grazie a un sapiente uso degli effetti di chiaroscuro, mentre qualcuno urla davanti a lui, è da sola tutto ciò che serve a dinamizzare la scena. Passando dalle sparatorie alle lotte vere e proprie, esse sono piuttosto brevi; o X-9 riesce rapidamente ad avere ragione degli avversari, oppure la sua sconfitta avviene quasi subito. La tendenza di X-9 a evitare lo scontro fisico garantisce una certa varietà di situazioni, al di fuori dello scambio di colpi di pistola; e nel caso di veri confronti corpo a corpo, Raymond si serve comunque dei piccoli stratagemmi di cui si è già detto: vestiti piegati, capelli in disordine, scie di fumo dalle canne delle pistole, ringhiere spezzate, oggetti che cadono. Flash Gordon, anche nei momenti di maggiore tensione e impegno atletico, non ha mai i capelli spettinati. III.3.6 Terry and the Pirates (1934)
Oriente, esotismo, popoli sconosciuti, pirati d’alti tempi: quando Milton Caniff iniziò a disegnare la sua striscia Terry and the Pirates, l’impostazione narrativa si reggeva su questi pochi ma coinvolgenti fattori fondamentali. Per quanto poi concerne i personaggi principali, essi sono il ragazzino Terry e il suo amico Pat, un uomo sulla trentina, aitante e di bell’aspetto. Se Terry mostra la faccia dell’avventura più spensierata e stupita, Pat è quello che si occupa di risolvere le situazioni più pericolose, dove servono l’esperienza e la forza fisica di un uomo. Non manca la spalla comica, nella persona del cinese George Webster Confucius, detto Connie. Dal punto di vista delle strutture attanziali e degli Oggetti di Valore, nella loro prima avventura Terry e Pat costituiscono un Soggetto a due teste (e non un Soggetto più un Aiutante) che contende uno stesso Oggetto di Valore all’Anti-soggetto: un tesoro. Se però Terry ne è il
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Figura III.14 Milton Caniff, Terry e i pirati (ed. or. Terry and the Pirates, striscia del 1934), in Maurice Horn (a cura di), The Golden Age, n. 4, New York, Nostalgia Press, 1965.
legittimo proprietario, i pirati che danno volto all’Antagonista sono ladri e assassini disposti a tutto, sicché l’opposizione tra buoni e cattivi, sintetica ed efficace, è chiara. Il tratto di Milton Caniff è molto pulito e gradevole, ma soprattutto sintetico: pochi tratti bastano a far trovare al lettore, nei visi di Terry e Pat la sicurezza e la fiducia, in quello di Connie l’umorismo, e in quelli dei nemici (massicci, con la barba di tre giorni, o con lineamenti da orientali malvagi in stile Ming) il pericolo. La rappresentazione delle lotte varia con una certa precisione in funzione di chi sta lottando. Rispetto ai protagonisti degli altri fumetti di cui si è parlato, l’unico ad assomigliare loro è Pat, che riassume in sé le caratteristiche dell’occidentale pragmatico e di buon senso. D’altra parte Pat si ritrova dotato anche di un fisico atletico, del quale si serve in maniera efficace al momento di battersi. Un elemento grafico che permette di attribuire ai colpi di Pat una notevole efficacia e di distinguere le sue lotte da quelle di Terry e Connie, è il modo in cui Caniff fa uso delle linee cinetiche, disegnandole ben diversamente nell’uno o nell’altro caso. Per i due amici di Pat, più che di lotte si può parlare di zuffe: Terry è ancora un ragazzino, sicché
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Figura III.15 Milton Caniff, Terry e i pirati (ed. or. Terry and the Pirates, striscia del 1934), in Maurice Horn (a cura di), The Golden Age, n. 4, New York, Nostalgia Press, 1965.
nel suo caso veri e propri pugni o calci sarebbero poco credibili; ma la cosa vale anche per Connie, in quanto spalla umoristica che non deve combattere in modo serio. Per esempio, nella Figura III.14, Terry e Connie collaborano per atterrare un pirata, ma non gli fanno veramente male. Il salto di Connie è esagerato e buffo, e la sua traiettoria è indicata da linee cinetiche rade e sottili, che danno una sensazione di leggerezza e agilità. Nella Figura III.15, Terry lotta da solo contro un pirata, cercando di sbilanciare l’avversario o di sgusciare via, mai di colpirlo direttamente. Anche in questo caso, quindi, Caniff si serve di linee cinetiche sottili ed evanescenti. Le traiettorie di colpi veramente violenti, invece, sono indicate con linee cinetiche decise e corpose, tanto che gli spazi bianchi tra l’una e l’altra coprono parzialmente il disegno sottostante (Figura III.16). Sembra cioè che queste linee accumulino in sé peso e potenza pronti a essere scaricati sul bersaglio, e che diventino vere e proprie componenti dell’immagine, invece che elementi aggiunti per ottenere effetti di movimento. Qui, dunque, va a situarsi la differenza fondamentale fra il tratto di Caniff e quello di tanti altri disegnatori: proprio nell’uso più robusto e
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Figura III.16 Milton Caniff, Terry e i pirati (ed. or. Terry and the Pirates, striscia del 1934), in Maurice Horn (a cura di), The Golden Age, n. 4, New York, Nostalgia Press, 1965.
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deciso delle linee di movimento, che diventano parte integrante della composizione visiva, e dotate di una propria plasticità; il che serve a diversificare i tipi di moto e, conseguentemente, di lotta. III.3.7 Mandrake the Magician (1934)
Se c’è un fumetto d’avventura in cui di lotta si può parlare ben poco, questo è Mandrake the Magician di Lee Falk e Phil Davis. Il protagonista, un distinto signore con baffetti, cilindro e bastone da passeggio, che di professione fa il mago e l’illusionista, è di per sé un personaggio inadatto a scene violente. Infatti Mandrake è un tipo flemmatico e raffinato. Anche quando si trova in situazioni dai risvolti drammatici, i suoi commenti sono sempre sereni e pacati ed esprimono più sconcerto che paura, rabbia o tensione. Un personaggio di questo tipo tende a fare uso dei suoi poteri magici e non è fatto per impegnarsi nello scontro fisico, incombenza che spesso e volentieri cade sulle spalle del suo servitore e amico Lothar. Come il carattere e l’aspetto fisico di Mandrake anticipano già la sua avversione per il corpo a corpo, così per Lothar accade l’inverso. Egli è una specie di colosso, alto e muscoloso, dotato di un carattere rude e sbrigativo; usare i suoi muscoli è il sistema più rapido e comodo, a suo
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Figura III.17 Lee Falk – Phil Davis, Mandrake, n. 8 (ed. or. Mandrake, strisce del 1937), Roma, Comic Art, 1992.
avviso, per sbrigare diverse questioni. Come in tanti altri casi, le lotte vengono cominciate e concluse nel giro di poche vignette, ma stavolta la cosa non dipende solo dalle scarse dimensioni della sede editoriale in cui il fumetto viene pubblicato. Si tratta più che altro di un discorso di buon senso: se Lothar si batte contro un avversario qualsiasi, deve impiegare pochi istanti a concludere la lotta, altrimenti la sua caratterizzazione (basata sullo stereotipo del gigante forzuto) ne verrebbe compromessa. A maggior ragione i combattimenti appaiono statici e quasi immobili, come quello nella seconda striscia della figura Figura III.17, perché Lothar non ha certo l’aspetto di un personaggio agile e scattante. Davis si limita a illustrare le azioni dei personaggi e le loro conseguenze tramite le posizioni dei corpi e le indicazioni in didascalia; fa invece un uso scarso e rozzo di linee cinetiche (si veda come sono mal disegnate e mal dirette nella seconda vignetta della Figura III.17). Le sequenze di lotta più efficaci sono quelle in cui Lothar affronta avversari del suo calibro, per esempio il leone della Figura III.18. Anche in questo caso il disegnatore opta per uno scontro fatto di muscoli tesi e di prove di forza, ma non di colpi veloci. La lotta assume quindi la fisionomia di un confronto tra forze della natura, come quelli che caratterizzavano Tarzan.
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Figura III.18 Lee Falk – Phil Davis, Mandrake, n. 10 (ed. or. Mandrake, strisce del 20-21-22 dicembre 1937), Roma, Comic Art, 1992.
Nei rari casi in cui a combattere è Mandrake, lo stile del disegno illustra le sue azioni nella maniera più sintetica possibile, come è ben visibile nella sesta vignetta della Figura III.19. A Mandrake non si addicono strumenti grafici di forte impatto: sono sufficienti le posizioni dei corpi dei duellanti e un piccolo scoppiettio di luce che indica l’impatto del pugno di Mandrake sul mento di Blozz. L’atmosfera di tranquillità e pacatezza che avvolge il protagonista si irradia all’intera narrazione, perfino nelle sequenze di violenza, rendendo l’evasione del lettore più rilassante che mai. III.3.8 The Phantom (1936)
Come in Tarzan era stato possibile osservare una straordinaria compenetrazione tra il piano del contenuto e quello della forma, così accade
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Figura III.19 Lee Falk – Phil Davis, Mandrake, n. 12 (ed. or. Mandrake, strisce dell’8 e 9 settembre 1938), Roma, Comic Art, 1992.
(anche se in misura minore) per The Phantom (in Italia, l’Uomo Mascherato). Quest’ultimo è un uomo misterioso che vive in Africa, amato e adorato dagli indigeni che lo considerano una specie di semidio immortale, venuto tra loro per amministrare la giustizia. Phantom, «l’ombra che cammina», è l’ultimo di un’intera stirpe di uomini che, da quattrocento anni a questa parte, ha dedicato la propria vita a difendere la giustizia. Il mito dell’immortalità di Phantom dipende dal fatto che diverse persone si sono succedute per recitare il suo ruolo, nascondendo la propria identità sotto una maschera e un costume. La peculiarità di Phantom è di essere mascherato, quindi di rappresentare il Mistero, l’Avventura senza volto. Come poi avverrà per alcuni dei futuri supereroi (per esempio Batman), l’Uomo Mascherato basa gran parte della sua attività sul proprio mito e sulla paura che incute negli avversari apparendo di notte, oppure lasciando tracce della propria silenziosa presenza a un passo da loro, che hanno quindi la sensazione di essere stati visitati da un fantasma. Date queste premesse narrative, Ray Moore e i disegnatori che col tempo lo sostituirono optarono per una definizione grafica del loro personaggio scarna e simbolica. Il volto di Phantom è talmente stilizzato, e forse caratterizzato solo dal naso leggermente aquilino, che può essere tutti e nessuno, quindi non può essere identificato con nessun uomo in
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Figura III.20 Lee Falk – Ray Moore, Phantom, n. 1 (ed. or. The Phantom, striscia del 1936), Roma, Comic Art, 1991.
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particolare e rimane il simbolo dell’Uomo in generale, anzi dell’uomo superiore agli altri. Nascosto dietro al proprio anonimato, l’Uomo Mascherato può permettersi di fare qualsiasi cosa (incluso baciare una donna appena conosciuta) e si comporta, fra gli altri uomini, come se fosse diverso, superiore a loro. I confronti fisici tra Phantom e i suoi avversari sono quindi di due tipi: quelli in cui egli riesce a sfruttare le proprie caratteristiche fondamentali (l’alone di mistero e la furtività) e quelli in cui, invece, è necessario un esplicito e dinamico impegno fisico. Per quanto riguarda quest’ultimo caso (di cui è riportato un esempio nella Figura III.20), non si rilevano sostanziali differenze espressive con i fumetti già presi in considerazione: al solito, troviamo uno scarso uso di tecniche grafiche atte a esprimere il movimento, che quindi viene mostrato sostanzialmente grazie alle posizioni dei corpi impegnati negli scontri. Le Figure III.21a e III.21b, invece, presentano esempi di quelle che si potrebbero chiamare «lotte istantanee». Phantom emerge dall’ombra come uno spirito e conduce il gioco a suo piacimento, impedendo agli avversari di reagire. Si può parlare di lotta vera e propria? Forse non nel primo caso, in cui sembra che Phantom e Diana siano usciti dalla stanza ben prima del colpo di pistola esploso da Fats; ma senz’altro nel secondo, in cui l’eroe riesce a bloccare istantaneamente l’uomo che si sta minacciosamente avvicinando a Diana. Tipico metodo per rappresentare questo tipo di lotta è la messa in scena non del suo svolgimento, ma direttamente delle sue conseguenze. Non si vede cioè l’uomo cadere ai piedi di Phantom, ma appare subito quest’ul-
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Figura III.21a (in alto) e Figura III.21b (sopra) Lee Falk – Ray Moore, Phantom, n. 1 (ed. or. The Phantom, strisce del 1936), Roma, Comic Art, 1991.
timo che bacia Diana. In altri termini, Phantom compare e, un istante dopo, ha già compiuto ciò per cui è venuto. Se quindi la rappresentazione grafica della lotta in quanto tale non è particolarmente efficace, o comunque non presenta sostanziali differenze con altri fumetti dello stesso periodo, tuttavia questo metodo di procedere per elisioni, lasciando al lettore il compito di cooperare attivamente al riempimento delle lacune volutamente lasciate dal testo, è probabilmente la caratteristica fondamentale della rappresentazione della lotta in Phantom.
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III.3.9 Prince Valiant (1937)
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Parlando di Tarzan si era detto che il connubio fra espressione e contenuto ottenuto dallo stile di Burne Hogarth era più adatto rispetto a quello di Harold Foster. Con Prince Valiant, Foster scrive e disegna un fumetto dalle caratteristiche narrative tali per cui il suo tratto pulito, raffinato, delicato ed elegante trova la sede ideale. Valiant è un giovane principe che vive nel medioevo arturiano, anzi proprio alla corte di Re Artù in persona. Intorno a lui si muovono quindi personaggi già noti all’immaginario popolare come Lancillotto, Ginevra, Merlino. Foster si trova così a rappresentare un mondo antico, una specie di età dell’oro non esente da guerre e pericoli, dove tuttavia anche questi ultimi sono come avvolti da una luce dorata. Tre sono le sedi narrative ideali per introdurre sequenze violente: duelli, tornei, battaglie campali. Nel primo caso, Foster sceglie di volta in volta se descrivere la lotta secondo precisi nessi di causa ed effetto, oppure riassumendola tutta in un’unica vignetta. Si osservi, come esempio della prima possibilità, la Figura III.22: la posizione del braccio di Valiant nella terza vignetta è una diretta conseguenza della posizione che aveva assunto nella seconda, come pure la stessa consequenzialità è evidente dalla terza alla quarta e dalla quarta alla quinta vignetta. Al contrario, nella Figura III.23, le immagini che ritraggono Valiant e Cidwic sono semplici istantanee di una lotta che si presume essere di una certa durata. Il compito di raccontare è più a carico delle didascalie che delle vignette, come accadeva nel Tarzan di Hogarth. Questa tecnica è decisamente la più utilizzata nel caso di conflitti diversi dallo scontro individuale. Le scene corali (assedii, assalti all’arma bianca, battaglie campali, schiere di cavalieri in corsa durante i tornei) non possono evidentemente essere seguite con precisione matematica, altrimenti si dovrebbe frazionare la scena in tante micro-sequenze, ciascuna rappresentante un cavallo, un cavaliere o un fante. È quindi pienamente giustificato l’uso, da parte di Foster, di ampie vignette con inquadrature a campo lungo, in cui inserire numerosi personaggi e oggetti fra i quali, eventualmente, sceglierne poi uno su cui concentrarsi (Figura III.24). Va da sé che, se nelle sequenze costituite da più vignette il racconto
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In alto, a sinistra: Figura III.22 Hal Foster, «L’Irlanda e i suoi pericoli» (ed. or. Prince Valiant, tavola del 31 marzo 1963), Prince Valiant, n. 62, Firenze, Nerbini, p. 8. In alto, a destra: Figura III.23 Hal Foster, «Il rapimento di Arn» (ed. or. Prince Valiant, tavola del 31 marzo 1963), Prince Valiant, n. 97, Firenze, Nerbini, p. 15.
Di lato: Figura III.24 Hal Foster, Prince Valiant (ed. or. Prince Valiant, tavola del 23 ottobre 1938), in Franco Fossati – Sergio Giuffrida – Sergio Pomati, La grande avventura dei fumetti: gli eroi, la storia, i segreti, Novara, De Agostini, 1990, allegato al fascicolo n. 5, p. 5.
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nasce appunto dalla fruizione consequenziale delle immagini, al contrario nel caso in cui una sola vignetta deve raccontare diverse cose, ecco rendersi necessario l’impiego di tecniche grafiche adatte a esprimere la velocità dei colpi, la loro potenza, i loro effetti. Foster opta allora per la soluzione già vista in Secret Agent X-9 di Alex Raymond e utilizza tanti minuti stratagemmi che, presi nella loro globalità, siano in grado di veicolare i significati necessari. Si osservi per esempio la seconda vignetta della Figura III.24; la sensazione generale di velocità e violenza è data da numerosi fattori concomitanti, come alcune linee cinetiche, le posizioni dei corpi di cavalli e cavalieri, la lancia spezzata e le sue schegge, le nuvole di polvere sotto gli zoccoli, le pieghe dei mantelli e delle gualdrappe, le criniere dei cavalli. Un dettaglio narrativo non trascurabile, nelle avventure di Prince Valiant, è la prudenza con cui Foster gestisce le azioni dei personaggi. La Figura III.24 mostrava uno scontro fra Valiant e Tristano. Ora, essendo Valiant il protagonista del fumetto, lo scontro avrebbe potuto terminare anche a suo favore; ma Tristano è uno dei leggendari Cavalieri della Tavola Rotonda, e non può perdere contro un giovane principe appena giunto a corte (pur ammettendo, più tardi, di aver faticato per batterlo). Secondo lo stesso principio, quando Artù guiderà il suo esercito in battaglia, di Valiant verranno certamente messe in rilievo le qualità e i buoni risultati; tuttavia, il guerriero più forte e più valoroso sarà il re stesso. In questo modo Valiant, pur restando il protagonista della serie di Foster, ricopre un ruolo e una posizione, fra tutti i personaggi della saga, equilibrata e verosimile, giacché Foster si è servito di un background già esistente e soggetto a precise leggi anche nella gerarchia dei personaggi. III.4 Tempo rappresentato e tempo raccontato nelle lotte
Alcuni autori si pongono il problema se non sia noioso per il lettore insistere troppo a lungo su uno stesso evento, anche se esso fosse per sua natura dotato di una lunga durata. Certo non tutti. Lyman Young, per esempio, non si pone questo problema in Figura III.3: infatti, ha impiegato ben quattro strisce (una delle quali si trova nella pagina successiva
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a quella qui riprodotta) per mostrare la lotta di Franco con la scimmia. Ciò significa che, agli occhi del lettore, per quattro giorni non è stato possibile leggere altro che la scena di Franco e della scimmia. Senza dubbio Young ha dato la precedenza non al piacere della lettura, ma alla rappresentazione completa di quanto voleva narrare. Alex Raymond e Burne Hogarth, al contrario, optano spesso per la soluzione opposta pur avendo a disposizione, per i loro eroi, non solo una striscia alla volta, ma mezza pagina di giornale o addirittura una intera. Essi scelgono di raccontare un dato evento servendosi di poche vignette (una o due), e di completare tramite le didascalie quanto non è visibile tramite l’immagine. Si veda per esempio la Figura III.25: Alex Raymond non mostra la mazza di Flash Gordon mentre si spezza, ma preferisce illustrare la reazione di Dale Arden e spiegare tramite la didascalia quanto è successo; similmente, la terza e la quarta vignetta mostrano solo una parte di quanto la didascalia racconta. Nella terza vignetta, Flash si getta con tutto il peso del suo corpo su Una-Zanna, ma il lettore non lo vede affatto (come invece sostiene la didascalia) colpirlo con un destro; nella quarta, assiste al gancio sinistro di Flash, ma non al destro alla mascella, né alla caduta a terra di Una-Zanna, evento che la didascalia provvede a narrare. Burne Hogarth a volte è ancora più drastico e utilizza una sola vignetta per narrare una lotta costituita da più fasi: si veda la Figura III.26 e si confronti ciò che la vignetta rappresenta con ciò che la didascalia racconta. Il problema che questi esempi pongono è quello del tempo, o meglio del numero di azioni che accadono per unità di tempo e, fra di esse, di quali mostrare con il disegno. Se una persona sta dormendo, in un tempo di cinque minuti compirà una sola azione prolungata: appunto, dormire. Se invece sta lottando contro qualcuno, in cinque minuti può accadere di tutto, e nel momento in cui questa situazione va rappresentata, ci si deve porre il problema di come istituire il rapporto tra le azioni da raccontare, la loro durata e lo spazio che si ha a disposizione a questo scopo. È dunque il momento di introdurre due nozioni che più di una volta risulteranno utili: tempo rappresentato e tempo raccontato da un’immagine. Il tempo rappresentato, per esempio, da un’istantanea fotografica è sempre un istante, ma quell’istante può raccontare qualcosa di molto più
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Sopra: Figura III.25 Don Moore – Alex Raymond, «Flash Gordon: Verso l’ignoto» (ed. or. «Flash Gordon: Forest Kingdom of Mongo», tavola del 28 marzo 1937), Flash Gordon, n. 6, Roma, Comic Art, 1991, p. 26.
A destra: Figura III.26 Edgar Rice Burroughs – Burne Hogarth, «Esilio», (ed. or. «Exile», tavola del 1937), Tarzan: il re della giungla, Milano, Mondadori, 1971, p. 36.
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lungo. L’istantanea che coglie l’attimo in cui il pallone entra in rete, mentre il portiere è invano a mezz’aria e il cannoniere ha ancora la gamba tesa nel movimento appena compiuto, rappresenta solo ed esclusivamente quell’istante di tempo, quell’istante fermato dal click del fotografo; ma quella stessa immagine mi racconta come è avvenuto il goal: mi dice dove si trovava un attimo prima il portiere e dove finirà un attimo dopo, dove si trovava la palla e dove sta andando a finire […]. Insomma, un solo istante rappresentato racconta una certa durata.19
Sicché, una vignetta rappresenta un certo istante ma racconta qualcosa in più su cosa è accaduto prima e cosa è accaduto dopo quell’istante. Tornando alla Figura III.26, è abbastanza intuitivo supporre che Tarzan stia ripetutamente colpendo il leone con il suo coltello, giacché si trova in una posizione favorevole a questo scopo: di conseguenza, è possibile intuire anche che, di lì a poco, il leone cadrà. L’inferenza che il lettore produce a partire dalla sola immagine è in sostanziale accordo con quanto afferma la didascalia. Meno semplice (anzi impossibile) è compiere un’inferenza, affine a quanto le didascalie sostengono, nel caso di Flash Gordon e della tavola nella Figura III.25. Che Flash stia lottando con Una-Zanna è evidente, come pure è evidente che le vignette selezionino alcuni istanti di questa lotta: ma le didascalie parlano di «destro terrificante», «gancio sinistro», «destro alla mascella», cioè di una serie di movimenti ben più precisi e diversificati tra di loro di quanto non lo sia una successione di coltellate pressoché tutte uguali. A parte le didascalie, esistono comunque altri metodi per dilatare in qualche modo il tempo rappresentato dall’immagine e farlo diventare un tempo raccontato più ampio. Se ne sono già visti parecchi al momento di osservare i diversi stili con cui i vari disegnatori rappresentano i loro eroi nell’atto di lottare. Sarà il caso di riassumerli brevemente, perché essi resteranno i sistemi di rappresentazione del tempo più utilizzati anche nei fumetti dei decenni successivi. Il metodo più diffuso è quello della linea cinetica, cioè di quella linea 19
D. Barbieri, I linguaggi del fumetto, cit., p. 229.
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dritta e sottile che sta a indicare il movimento compiuto da un oggetto. Questa tecnica ricalca un po’ l’effetto cinetico tipico delle fotografie che ritraggono oggetti in movimento; se l’oggetto si muove troppo in fretta rispetto al tempo di esposizione della pellicola, su quest’ultima resterà impressa una specie di scia, che racconta a tutti gli effetti il moto. È stato possibile valutare il movimento compiuto da Wilma per colpire Killer Kane (Figura III.4) osservando le linee che Dick Calkins aveva inserito sotto il braccio della protagonista; come pure si è detto che i pugni di Pat sembrano solidi e massicci non solo per le loro conseguenze, ma anche perché le linee cinetiche che li guidano sembrano assumere un tale spessore, una tale plasticità, che gli stessi colpi sembrano come caricati di un peso, il quale va a scaricarsi tutto sui malcapitati avversari (Figura III.16). In ogni caso, descrivere il movimento di un braccio che va a colpire significa racchiudere in quella vignetta tutto il tempo che è servito al braccio per coprire quella traiettoria. Esiste inoltre (eredità del precedente fumetto comico) tutta una serie di piccoli simboli che indicano il dolore e lo stordimento di chi è stato colpito, sicché la vignetta acquista durata perché si presume che la sensazione di malessere non passi in un istante. Ecco allora apparire, sulle teste dei malcapitati, stelline, pianetini, uccellini e via dicendo. Lo stesso scopo è raggiunto anche da effetti meno vistosamente comici, ma di alto valore iconico, come piccoli cerchi o bollicine, simili a quei brevi lampi di luce fioca che a volte vedono le persone quando provano qualche malessere o stanno per svenire. Sempre il lampo di luce, stavolta disegnato tramite linee disposte a raggiera, la cui invisibile origine è situata nel punto dove è avvenuta la collisione tra ciò che picchia e ciò che è stato picchiato, rappresenta appunto l’impatto. Se l’origine delle linee si trova esattamente sull’oggetto colpito, la vignetta seleziona un lasso di tempo molto breve; se invece origine delle linee e oggetto colpito sono appena un po’ distanti, vuol dire che il tempo raccontato è più ampio, perché l’oggetto ha fatto in tempo a spostarsi dopo e a causa dell’impatto stesso. Le posizioni dei corpi sono tra gli indici più variabili per quanto concerne il tempo raccontato da ogni singola vignetta; in linea di massima, se un corpo umano è in posizione di equilibrio, si può supporre che il tempo rap-
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presentato sia abbastanza breve (a meno che altri segnali, per esempio dei lunghi dialoghi, non lascino presumere il contrario); se invece viene raffigurato nell’atto di cadere, o di correre, o comunque in una posizione di equilibrio molto precario, è possibile azzardare diverse ipotesi sul tempo che è stato necessario a passare da uno stato di equilibrio allo stato attuale, e ancora su quello che servirà da questo a un altro stato di equilibrio. Un altro indicatore del tempo raccontato in ogni vignetta potrebbe essere costituito dagli effetti sonori, dalle onomatopee che sostituiscono i rumori dovuti a spari, percosse, cadute. In questi primi fumetti d’avventura l’uso di tali onomatopee è abbastanza ridotto, tanto che a volte sembra di vedere un film muto; in ogni caso, quando esse sono presenti, spesso esprimono un suono di breve durata: uno sparo, un tonfo. Diverso è il discorso per i dialoghi, che impongono una durata precisa. Tuttavia, la loro rilevanza varia a seconda dei casi: se esistono fumetti in cui persino le scene di lotta più frenetiche vengono scandite da dialoghi verbosi, altri al contrario riducono gli scambi di battute al minimo indispensabile, proprio per non rallentare il dinamismo della scena. Tuttavia, l’elemento che più di ogni altro permette di valutare il tempo raccontato da ogni vignetta è il rapporto con le altre vignette che seguono e precedono l’azione rappresentata; di conseguenza, le tecniche di montaggio e le didascalie di raccordo sono più incisive, al riguardo, di quanto non lo siano le tecniche grafiche all’interno delle singole vignette. Al Lettore Modello spetta l’onere, ma anche il piacere, di riempire gli spazi lasciati in bianco dal testo. Se infatti qualunque testo è «intessuto di spazi bianchi, di interstizi da riempire»20 grazie alla cooperazione del lettore, nel caso del fumetto gli spazi bianchi non sono metaforici: sono del tutto reali, sono cioè quelle sottili fasce vuote che separano le vignette le une dalle altre all’interno della tavola o della striscia. Secondo McCloud la peculiarità del fumetto sta tutta in questo particolare tipo di cooperazione interpretativa: Vedete quello spazio tra le vignette? È quello che nei fumetti si chiama «margine». E, nonostante la semplicità del termine, il margine ospita
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U. Eco, Lector in fabula, cit., p. 52.
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Figura III.27 Scott McCloud, Capire il fumetto. L’arte invisibile (ed. or. Understanding Comics: The Invisible Art, Kitchen Sink Press, 1993), Torino, Vittorio Pavesio Productions, 1996, p. 74.
molta della magia e del mistero che sono nel cuore stesso dei fumetti! Qui, nel limbo del margine, l’immaginazione umana prende due immagini separate e le trasforma in un’unica idea. Tra le due vignette non vediamo nulla, ma l’esperienza ci dice che deve esserci qualcosa!21
È curioso che McCloud prenda come esempio da mostrare al suo lettore proprio una scena violenta, rappresentata con due sole vignette (Figura III.27). McCloud prosegue: Ogni atto che il disegnatore affida alla carta è aiutato e istigato da un complice muto. Un socio paritario nel delitto noto come lettore. In quest’esempio posso aver disegnato un’ascia che viene sollevata, ma
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S. McCloud, Capire il fumetto, cit., pp. 74-75.
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non sono quello che l’ha lasciata cadere o che ha deciso con quanta forza colpire, o chi ha gridato, o perché. Quello, caro lettore, è stato il tuo crimine personale.22
Ci sono due osservazioni da fare. Anzitutto, i fumetti di cui ci si è occupati in questo Capitolo non si servono di margini così equivoci: la cooperazione richiesta al lettore è molto più limitata e più semplice, adatta a chi ogni giorno deve leggere la striscia (o ogni settimana deve leggere la tavola) compiendo continui richiami mnemonici, il che è la sua forma di cooperazione più importante. In secondo luogo, quanto afferma McCloud utilizzando un esempio con la scena di un omicidio, vale per qualsiasi tipo di sequenza a fumetti e non solo per quelle violente. Tuttavia, la caratteristica delineata nelle scene di lotta dei fumetti che abbiamo visto è proprio la forte selezione che l’autore deve operare riguardo a quanto può mostrare. Le sequenze che rappresentano situazioni più calme e dialogiche, forse proprio per il fatto che i dialoghi devono essere chiari e dettagliati, hanno bisogno di un certo quantitativo di vignette per essere raccontate adeguatamente: il lettore deve riempire ben pochi spazi bianchi, perché le indagini dei detective o i dialoghi amorosi devono essere seguiti senza possibilità di errore. Di un combattimento, invece, a rigore ci si potrebbe limitare a riprodurre l’esordio (affinché sia chiaro che c’è stato un combattimento) e la conclusione (affinché si possa sapere come è andato a finire); lo svolgimento del combattimento stesso viene rappresentato, nella maggior parte dei casi, in una o due vignette anche se in effetti dura idealmente molto di più di quanto non serva al lettore per scorrere quelle due vignette con lo sguardo.23 Se dunque la lotta, considerata al livello delle strutture narrative, è un programma narrativo d’uso che, insieme ad altri (indagini, perquisizioni, interrogatori, chiacchiere…), contribuisce alla risoluzione del programma narrativo più ampio che la contiene, tuttavia, rispetto agli altri programmi narrativi d’uso, ha la peculiarità di affidare al lettore una discreta mole di
Ivi, p. 76. Sugli elementi che concorrono alla definizione del tempo raccontato, in base a elementi testuali quali impaginazione e montaggio delle tavole, cfr. anche Marco Pellitteri, Sense of Comics. La grafica dei cinque sensi nel fumetto, Roma, Castelvecchi, 1998. 22 23
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lavoro. Questa caratteristica è in buona parte dovuta, come osservato, al tipo di serialità di cui si servono questi fumetti: strisce quotidiane e tavole settimanali. Le cose cambieranno quando, alla fine degli anni Trenta, i fumetti verranno pubblicati prevalentemente sui comic book, cioè su fascicoletti di venti, trenta, quaranta pagine alla volta.
Bam! Sock! Lo scontro a fumetti
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Dramma e spettacolo del conflitto nei comics d’avventura Prefazione di Daniele Barbieri
Cosa fanno Flash Gordon, Superman, Dick Tracy, l’Uomo Ragno? Indagano, parlano, si innamorano, a volte filosofeggiano, ma prima o poi combattono. Perché e come lo fanno? Grazie a quali strumenti espressivi il fumetto ce li mostra mentre lottano? In questo libro l’autrice, applicando l’analisi semiotica e narrativa alla rappresentazione della lotta, porta alla luce gli strumenti espressivi più usati e più efficaci nel narrare i conflitti – fisici e verbali – nei principali comics avventurosi usciti negli USA a partire dal 1929, anno in cui il fumetto d’azione fa la sua comparsa sui quotidiani con Buck Rogers e con Tarzan. Comprendendo le ragioni emotive, teatrali, «filosofiche» di questi perenni scontri fra i personaggi dei fumetti, è possibile capire più in profondità i meccanismi di base delle narrative popolari e i motivi per cui essa ci affascina. Bam! Sock! Lo scontro a fumetti – già alla sua prima stesura lodato da Umberto Eco come uno dei più interessanti studi sui comics degli ultimi anni – si offre a tutti i tipi di lettore grazie all’armonia tra il rigore dei contenuti, la piacevolezza stilistica e l’indubitabile fascino dell’argomento.
Copyright © Tunué info@tunue.com www.tunue.com In copertina: Illustrazione di Carlo Piscicelli Copyright © Tunué
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PROGETTO GRAFICO: DANIELE INCHINGOLI
Valentina Semprini