Mangascienza

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Lapilli Collana diretta da Marco Pellitteri

«Lapilli» è una collana di volumi che si propone di percorrere i settori del fumetto e della grafica, del cinema di animazione e delle arti audiovisive, dell’immaginario popolare e dei mass media, attraverso le tre sezioni Segni, Visioni e Culture.


Lapilli Segni • Visioni • Culture Ultimi volumi pubblicati: Silvia Leonzi Lo spettacolo dell’immaginario Storie, corpi, luoghi Marco Arnaudo Il fumetto supereroico Mito, etica e strategie narrative Le donne del cinema d’animazione A cura di Matilde Tortora Marco Accordi Rickards – Paola Frignani Le professioni del videogioco Una guida all’inserimento nel settore videoludico Culture del Giappone contemporaneo Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura A cura di Matteo Casari Andrea Tosti Topolino e il fumetto Disney italiano Storia, fasti, declino e nuove prospettive Valentino Cecchetti Generi della letteratura popolare Feuilleton, fascicoli e fotoromanzi in Italia dal 1870 ad oggi Giuseppe Bellina – Mario Bellina Flash Revolution Il software e le nuove estetiche che cambiano l’animazione Il catalogo completo è disponibile on line su www.tunue.com


Fabio Bartoli

Mangascienza Messaggi filosofici ed ecologici nell’animazione fantascientifica giapponese per ragazzi

Prefazione di Giulio Giorello

Lapilli. Culture 27


I edizione: settembre 2011 Copyright © Tunué Srl Via dei Volsci 139 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi.

ISBN-13 GS1 978-88-97165-18-7 Progetto grafico: Daniele Inchingoli Illustrazione di copertina: Mandarinoadv.com Grafica di copertina: Tunué © Tunué Stampa e legatura: Stampa Sud S.p.A. Via P. Borsellino 7 74017 Mottola (TA) – Italy


Indice

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Prefazione di Giulio Giorello Introduzione I.

Iperestensione culturale Itinerario storico, filosofico, antropologico I.1 Prologo: Epimeteo, Prometeo e la doppia paternità dell’uomo I.2 Il cosmo greco e l’equilibrio tra il principio libertà e il principio necessità I.3 Primo intermezzo: la marcia di Alessandro, le strade di Roma e le vie del Signore I.4 L’ordine cosmico medievale e la prevalenza del principio necessità I.5 Secondo intermezzo: le navi di Colombo, la Bibbia di Gutenberg, le quarantadue mosse del principe Maurizio e il cannocchiale di Galileo I.6 Rivoluzioni e astrazioni: la definitiva affermazione del principio libertà I.7 Terzo intermezzo: dal Dottor Frankenstein a Los Alamos, Prometeo si sostituisce a Epimeteo e Zeus I.8 Atena in bilico tra asservimento e redenzione I.9 Epilogo: Deucalione, Pirra e il recupero della nostra maternità


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II. Effetti dell’iperestensione culturale Il Giappone quale osservatorio privilegiato II.1 Dalle navi di Colombo a quelle di Perry: Prometeo bussa alla porta dello shôgun II.2 Wakon yôsai: il tramonto del Sol Levante II.3 L’imperatore apre la porta a Prometeo III. Immaginario dell’iperestensione culturale La fantascienza nell’animazione giapponese III.1 Sulle tracce di Prometeo: il paradigma indiziario III.2 Giappone postbellico e industria culturale III.2.1 Deserto di significati, ricostruzione di valori III.2.2 Dalla nottola di Minerva al cigno di Prometeo III.2.3 Gli alieni messaggeri del destino

III.3 Spie del conflitto III.3.1 Prometeo VS Gea III.3.1.1 III.3.1.2 III.3.1.3 III.3.1.4

La Terra: un pianeta da difendere, una casa da amare I figli di Yukawa Le figure femminili simbolo di Gea I bambini tra rinnovamento e salvaguardia

III.3.2 Prometeo VS Mnemosine III.3.2.1 III.3.2.2

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III.3.2.3

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III.3.2.4

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III.3.2.6 III.3.2.7

Una nazione orfana nella vita e nello spirito Il valore del sacrificio: dall’imposizione di sé al dono universale La ridefinizione di un’identità meticcia dal riformatorio all’altare Gô Nagai, tra inferi e cielo la nuova storia del Giappone Leiji Matsumoto: da Doppler a Kirita, la nuova alleanza tra Atena ed Efesto Nippon Sunrise, la nuova alba del Giappone Neon Genesis Evangelion: moratorium ningen, shinjinrui, otaku e hikikomori


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III.3.3 Prometeo VS Epimeteo III.3.3.1 I nuovi Frankenstein da Astroboy a Project ARMS III.3.3.2 I supereroi della Tatsunoko: dal tuffo di Zoltar al volo di Polymar III.3.3.3 Meganoidi, Zentradi e uomini meccanici: l’estrema fase dell’evoluzione volontaria III.3.3.4 Ciò che resta della natura umana

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IV. I segnavia di Prometeo IV.1 Il robot/tecnica e il pilota/Giappone IV.2 Addio, tetsu; benvenuto, kawaii IV.3 Il presente, il futuro e il ritorno IV.4 I semi degli anime e il futuro di Gea

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APPENDICE NATURA, CULTURA, TECNOLOGIA, ECOLOGIA IN CINQUANTA SERIE ANIMATE GIAPPONESI DI FANTASCIENZA

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Astroboy Super Robot 28 Kimba, il leone bianco Fantaman Superauto Mach 5 Go Go Go Cyborg, i nove supermagnifici Astroganga Gatchaman / La battaglia dei pianeti Mazinga Z Il Grande Mazinga Babil Junior Doraemon Kyashan, il ragazzo androide Hurricane Polymar Star Blazers Tekkaman Atlas UFO Robot Jeeg Robot Uomo d’Acciaio


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La Macchina del Tempo Yattaman I Predatori del Tempo UFO Diapolon Ken Falco, il Super Bolide Grand Prix e il Campionissimo Astrorobot Contatto Y Zambot 3 Danguard Supercar Gattiger Conan, il ragazzo del futuro Capitan Futuro Capitan Harlock Galaxy Express 999 Starzinger Daitarn 3 Gundam Daltanious Baldios Trider G7 Il Dottor Slump e Arale Macross NanĂ Supergirl Ken il guerriero Juny Peperina inventatutto Patlabor Neon Genesis Evangelion I Cieli di Escaflowne Cowboy Bebop Project ARMS Full Metal Panic! Last Exile

Riferimenti bibliografici


Prefazione di Giulio Giorello1

Ricordate Genesi 1,26? «Poi Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”». Comunque si attenui nelle nuove versioni della Bibbia quell’allusione al dominio della creatura umana sulla natura, resta che quel mandato divino (basato sulla «immagine e somiglianza» con il Signore) separa Homo sapiens da ogni altro organismo vivente. E se gli odierni teologi tendono a interpretare quel dominio come un’assunzione di responsabilità piuttosto che un potere assoluto, ben strana appare quella divina provvidenza che ha affidato il nostro Globo alle mani dei discendenti di Eva e di Adamo, i quali si sono rivelati capaci nel corso della storia di tante e tali violenze sull’ambiente: è un po’ come voler affidare alla responsabilità del (Real) Collegio delle Fanciulle a… Jack lo Squartatore. Le narrazioni della Bibbia sono miti, anch’essi pieni di fascino e di mistero non meno che i loro corrispondenti nella cultura greca e latina. In questo libro, Fabio Bartoli valorizza soprattutto la vicenda di Prometeo, il dio spodestato e condannato per aver troppo amato le creature umane, donando loro non solo il fuoco (cioè tecnica ed energia) ma anche l’arte dei numeri (ossia matematica e scienza) e «cieche aspettative» (ovvero l’ignoranza del giorno della propria morte). E chi sono i 1 Giulio Giorello (Milano 1945), filosofo, matematico ed epistemologo, formatosi sotto la guida di Ludovico Geymonat, è attualmente professore ordinario di Filosofia della scienza presso l’Università Statale di Milano. È autore di numerose e importanti opere di storia della matematica e della scienza, di epistemologia e di filosofia della scienza, in ambito sia strettamente accademico sia divulgativo. È anche un competente lettore di fumetti, tema sul quale è da anni attivo con diversi saggi e riflessioni.


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moderni Prometeo? Nella immaginosa rappresentazione di William Blake, quel ruolo è affidato a Isaac Newton, vero e proprio titano della scienza che quasi confonde le sue membra con le rocce di un’ardua montagna, mentre è intento a mettere su carta calcoli e schemi delle orbite dei pianeti; per Immanuel Kant toccava all’americano Benjamin Franklin il compito di controllare i fuochi venuti dal cielo (cioè i fulmini), non più saette di Zeus ma fisiche manifestazioni dell’elettricità; per Percy Bysshe Shelley le catene di Prometeo venivano spezzate ogni volta che tecnologia e scienza erano messe al servizio della libertà e dell’uguaglianza, mentre la sua consorte Mary già disegnava nel Frankenstein il ritratto di un creatore terrificato a tal punto dalla propria «creazione» da dimenticare qualsiasi responsabilità nei suoi confronti. Basterebbero questi brevi accenni alle trasformazioni di Prometeo nella nostra cultura a indicare come il mito non si riduca a un residuo di epoche non ancora rischiarate dalla luce del progresso, bensì costituisca ancor oggi una potente leva non solo di emozione ma di comprensione, soprattutto là ove Prometeo «scatenato» appare come un benefattore davvero bizzarro (il primo santo laico del calendario, come amava dire Karl Marx), giacché i suoi doni appaiono gravidi di minaccia. «Vivono nel terrore gli scienziati / e la mente europea s’arresta», leggiamo nel frammento dal CXV dei Cantos di Ezra Pound: il poeta vergò queste parole in quello stesso 1952 cui risalgono i primi test sulla bomba all’idrogeno, ovvero la «superbomba» la cui potenza distruttiva doveva – stando ai suoi stessi progettatori – far impallidire quella degli ordigni atomici scagliati dall’aviazione militare statunitense sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Si tende troppo spesso a dimenticare che la Seconda guerra mondiale è stata pure la prima guerra atomica della storia. In uno dei più intelligenti film di Orson Welles, la trasposizione cinematografica del Processo di Kafka, alla grottesca uccisione del protagonista un fungo atomico si leva all’orizzonte. Peraltro, quella colonna mortifera compare in modo ricorrente alla dipartita di questo o quel personaggio dei cicli di fumetti (manga) e serie o film d’animazione (anime) citati in questo libro. Spesso suggella la fine di un «cattivo» quasi in senso etimologico: qualcuno che si è lasciato far prigioniero di una scienza o di una tecnologia impiegate in modo perverso. Altrove – è il


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caso, per esempio, della serie di Ken il guerriero (Hokuto no Ken in giapponese, alla lettera ‘Il colpo dell’Orsa Maggiore’) o dello scanzonato Conan, il ragazzo del futuro del grande Hayao Miyazaki – uno scenario post-disastro fa da sfondo allo svolgersi della trama, e la catastrofe bellica ne è la premessa, che talvolta, quasi fosse stata «rimossa», viene soltanto accennata, riaffiorando nel corso di ossessivi flashback. Metafore di un’apocalisse prossima ventura o di una genesi maligna, quelle narrazioni prendono atto del fallimento dei figli di Adamo o dei protetti di Prometeo. Bartoli ci propone nel libro una continuazione del viaggio «verso il Cipango», inaugurato da Cristoforo Colombo, la cui rotta verso Ovest era stato interrotta… dal continente americano! Facendo proprio lo spirito della frontiera e spingendosi sempre più a Occidente, i coloni degli USA sarebbero poi giunti al vero Giappone, come mostra il successo della spedizione (1853) del commodoro Matthew Calbraith Perry. Doveva così cominciare «il tramonto del Sol Levante». Non è solo un paradosso linguistico (e non dimentichiamo che i due ideogrammi che formano il nome Nihon, Giappone, significano appunto ‘la radice o l’origine del Sole’), ma la constatazione del dramma di una civiltà. Bartoli cita Mishima: «Essi contavano sull’ausilio divino, mentre il loro scopo era quello di sfidare con la semplice sciabola le armi occidentali aborrite dagli dèi». D’altra parte, basterebbe ricordare che Perry convinse i rappresentanti dello Shôgun a gettare le premesse per un’intesa commerciale alla guida di convincenti cannoniere! Non è ovviamente il caso di ripercorrere qui la complessa vicenda della modernizzazione forzata del Giappone, inclusi l’esito – a un tempo tragico e demitizzante per la figura dell’Imperatore, (ex) discendente della dea del sole Amaterasu – dell’intervento nipponico a fianco della Germania di Hitler e dell’Italia di Mussolini e la conseguente occupazione americana. Nel corso del Novecento, il Sol Levante non si è limitato a portare all’estremo l’apertura all’Occidente (secondo meccanismi che sono stati ampiamente indagati dalla sociologia), ma ha pure incorporato i miti occidentali, dandone, con grande successo di pubblico, un’originale versione nei manga e negli anime. Ha spaziato dalla Divina Commedia riletta da Gô Nagai alle citazioni dal Paradiso perduto di Milton (come nel capolavoro di Yukinobu Hoshino 2001 Nights o nel


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popolarissimo Angel Sanctuary di Kaori Yuki), fino alla recente rilettura di episodi del Nuovo Testamento nel Gesù di Yoshikazu Yasuhiko. Resta ovviamente aperta la questione sollevata da Bartoli in tutto il suo libro: se manga e anime del nuovo Giappone possano dare indicazioni efficaci nella ricerca di «antidoti» alla componente distruttiva del prometeismo dell’Occidente. Forse non c’è più mandato divino ad assoggettare la Terra, e la fantascienza giapponese può costituire un interessante repertorio di esempi in cui, per dirla ancora con Pound (Canto CXIV), «la verità sta nella tenerezza», ovvero – fuor di metafora – l’approccio alle conquiste dell’impresa tecnico-scientifica non prescinde più dall’abbinamento virtuoso di ricerca e solidarietà. Anche tenendo conto di quella che potremmo definire l’altra faccia dell’ecologia: quella di un ambiente da cui dobbiamo proteggerci prima ancora di pensare di doverlo proteggere noi. Pensiamo al Dialogo della natura e di un islandese di Giacomo Leopardi. Dice l’islandese: «Io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese». Imperturbabile, la natura ribatte: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?». L’ambiente non si cura della felicità degli esseri umani. Opportunamente Bartoli conclude con una battuta del biologo evoluzionista Stephen Jay Gould: viviamo «in un universo che è indifferente alla nostra sofferenza», ma che proprio per questo «ci offre la massima libertà di avere successo o di fallire nella via che abbiamo scelto».


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Introduzione

Il mito greco, la scienza moderna e il prodotto culturale nipponico sono i nuclei tematici intorno ai quali si sviluppa questo libro, che si propone di portare alla luce le analogie presenti nei tre diversi ambiti riguardo la concezione dell’essere umano e il suo posto nel mondo. Già nel mito antico di Epimeteo e Prometeo, qui usato come chiave di lettura primaria, è espressa la tesi generale di questa trattazione: non solo per quanto riguarda la parte – presumibilmente condivisibile all’unanimità – che vuole l’Homo sapiens determinato da natura e cultura, ma anche relativamente a quella che vede la seconda peculiarità all’origine della sua condotta inevitabilmente perturbatrice, rendendolo il solo essere vivente in grado di alterare l’equilibrio del pianeta proprio perché dotato della possibilità di trasformarlo. Il vanto maggiore della nostra specie, essere appunto l’unica eminentemente culturale, è quindi anche la radice di quelli che attualmente sono i nostri maggiori problemi, fonte della nostra possibile rovina: in ciò è costituita tutta la radicale e tragica ambivalenza dell’essere umano. Se per gran parte della nostra storia evolutiva la nostra sopravvivenza è stata – come per tutti gli altri esseri viventi – legata alle sfide posteci dall’ambiente naturale, oggi che esso ci appare integralmente sotto il nostro dominio grazie al progresso tecnologico è dagli sviluppi di quest’ultimo che dobbiamo guardarci affinché la nostra apparente vittoria non si tramuti in una effettiva e irrimediabile sconfitta. La nostra capacità di essere parte della natura ma di renderci altro da essa risulta a tutti gli effetti un’arma a doppio taglio, dal momento che la moderna biologia, inaugurata dalla teoria dell’evoluzione di Darwin e Wallace, dimostra la necessaria interdipendenza tra tutte le forme viventi e l’inscindibilità del legame che le unisce all’ambiente naturale. Proprio da un biologo, o meglio un sociobiologo, è stato allora preso in prestito il


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concetto intorno a cui ruota questo libro: quello di «iperestensione culturale». Partendo dalla cognizione secondo la quale l’uomo è natura e cultura, David P. Barash se ne serve per sottolineare come il rapporto sia oggi totalmente sbilanciato a favore della seconda, all’inizio sviluppatasi conformemente alla capacità di disporne insita nel nostro retaggio biologico per poi decollare sempre più fino a sfuggire (forse) definitivamente al nostro controllo. È necessario operare una distinzione importante: in questo caso è da intendersi come cultura non la nostra capacità di dare un significato al mondo e di organizzare di conseguenza la nostra vita, ma quella di produrre le nostre estensioni corporee e sensoriali. Il centro nevralgico della questione è, quindi, la tecnologia nel senso contemporaneo del termine, diventata con l’avvento della modernità il fulcro del pensiero e dell’azione del genere umano, che si è votato al suo potenziamento sviluppandola così tanto da mettere in pericolo la propria esistenza biologica e culturale: non più al centro del proprio universo simbolico in un mondo che, perennemente in trasformazione, perde ogni sua coordinata, l’uomo rischia per giunta di estinguersi per motivi determinati direttamente o indirettamente dal proprio operato. Al fine di giungere a una consapevolezza capace di tenere il passo del prodigio tecnologico e di orientarne responsabilmente gli esiti è indispensabile creare quelli che Telmo Pievani, filosofo della scienza e studioso di Darwin, definisce «antidoti culturali», per mezzo dei quali dobbiamo fornirci dei possibili appigli per non perdere l’equilibrio sul fragile ponte di liane spalancato sull’abisso della nostra onnipotenza faustiana. Esercitare il controllo della clava è facile, dal momento che il suo utilizzo dipende dalla mano dell’individuo che l’afferra; ma come regolarsi di fronte alla bomba atomica, capace di apportare distruzioni immani premendo un solo pulsante distante dal luogo dell’impatto? Una comunità composta da pochi individui cacciatori-raccoglitori percepisce in maniera automatica il senso del proprio destino comune e può facilmente discutere ed eventualmente trovare una strategia atta a risolvere il problema incombente; ma come può organizzarsi in maniera altrettanto diretta ed efficace una società formata da miliardi di esseri umani ed estesa in tutto il pianeta, composta da individui che sugli aspetti primari della propria esistenza non hanno alcuna voce in capitolo? La moderna rivoluzione scientifica, il


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modo di produzione industriale e il suo impiego orientato in senso capitalista hanno definitivamente portato a compimento l’opera di Prometeo, rendendo un incendio divampante la fiamma rubata dal titano agli dèi. Il suo ridimensionamento dipende esclusivamente dalla nostra volontà e dalle responsabilità che sapremo prenderci nell’affrontare un futuro difficile che il nostro sconsiderato agire rende sempre più prossimo. L’«antidoto» qui preso in esame quale oggetto di studio è il prodotto culturale nipponico e specificatamente il manga. Occorre però subito fare una distinzione: in realtà l’analisi verte non sui fumetti giapponesi ma sugli anime, i disegni animati a essi legati a doppio filo; si è però scelto di inserire nel titolo il nome della prima forma espressiva perché la produzione fantastica dell’Arcipelago è per lo più generalmente associata a questo termine, ormai entrato a pieno titolo nell’immaginario culturale mondiale. Fra tutte le nazioni dotate di un’industria culturale, a essere qui oggetto d’analisi è quella giapponese per motivi che subito possono essere compresi: il paese del Sol Levante è stato l’unico a provare sulla sua carne viva l’effetto apocalittico della più deleteria iperestensione prodotta dall’uomo, la bomba atomica. Con essa è giunta in un certo senso alla fine l’infanzia della nostra specie, svegliatasi la mattina del 6 agosto 1945 con la consapevolezza di poter porre autonomamente fine alla propria storia. Andato all’inferno e tornato, il Giappone ha prodotto un elevatissimo numero di anticorpi per difendersi dal «germe» dell’iperestensione culturale al fine di sanare le profonde ferite della propria memoria e scongiurare la possibilità del ripetersi di un evento simile, che coinvolgerebbe l’intera umanità in maniera probabilmente irreparabile. Non solo nella bomba atomica però sono da rintracciare le ragioni di questa specificità dell’industria culturale nipponica: come si vedrà nei Capitoli II e III, le tesi portanti di questo elaborato trovano asilo nei prodotti per ragazzi giapponesi proprio in virtù di una precisa congiuntura storica. L’incontro/scontro tra la tradizione culturale della terra dei samurai e l’alterità occidentale, alla base del drastico processo di modernizzazione del paese condotto attraverso l’assimilazione della tecnologia recata dagli «invasori», è infatti alla base del processo catartico di rielaborazione del trauma dovuto a uno sviluppo vertiginoso successivo a due secoli di isolamento politico, culturale ed economico.


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Nell’ambito dei manga e degli anime, il genere che naturalmente ha dato un apporto maggiore a questo processo è quello fantascientifico, che proprio per questo è il protagonista assoluto di questo volume; il tema della science fiction è infatti lo sviluppo della tecnologia, i cui possibili esiti, trasfigurati in una dimensione fantastica, vengono analizzati fino alle estreme conseguenze nel tentativo di porre le basi per una ideale riconciliazione tra natura e cultura. In questa sede sono prese in esame cinquanta serie animate, comprese nell’arco di tempo che va dal 1963, data che segna la nascita degli anime per la televisione, al 2003. Un periodo scelto anche per le sue profonde implicazioni simboliche: se è inevitabile partire dall’anno di realizzazione di una delle primissime serie animate giapponesi (la seconda), Astroboy di Osamu Tezuka, si è scelto di circoscrivere l’excursus al 2003 sempre in omaggio al famoso personaggio creato dal «dio dei manga»,1 dal momento che questa data vi è legata sia nella realtà sia nella finzione: il 2003 infatti è non solo l’anno di produzione del secondo rifacimento di Astroboy dopo quello del 1980, ma è anche quello in cui, nella finzione tezukiana, si «sveglia» il robottino nato dalle spoglie mortali del piccolo Tobio. Si è così delineato un percorso lungo quarant’anni che si propone di analizzare lo sviluppo del Giappone dal dopoguerra fin quasi ai giorni nostri, cercando di dedurre gli effetti della tecnologia sul tessuto sociale e culturale del paese per trarne spunti di riflessioni generali utili agli abitanti di ogni parte del globo. Il metro di paragone adottato è il mito europeo, scelta che viene giustificata sia come atto di onestà da parte di chi ritiene l’occhio gettato su un’altra cultura sempre e comunque condizionato dal retaggio della propria sia come espressione della convinzione di 1 Questo è l’appellativo conferitogli in patria. Sull’opera di Tezuka e lo sviluppo del manga nel dopoguerra cfr. Natsu Onoda Power, God of Comics: Osamu Tezuka and the Creation of Post-World War II Manga, Jackson, Mississippi University Press, 2009; Philip Brophy (a cura di), Tezuka: The Marvel of Manga, Melbourne, National Gallery of Victoria, 2006; Jaqueline Berndt, Phänomen Manga. Comic-Kultur in Japan, Berlin, ed. q, 1995, pp. 45-73. Per familiarizzare con la vita e l’opera del maestro attraverso il medium a lui più congeniale cfr. Tezuka Productions, Tezuka Osamu Monogatari, Tokyo, Asahi, Shinbunsha, 1992, 4 voll. (ed. it. a cura di Igort e I. Pizzuto, Una biografia Manga. Il sogno di creare fumetti e cartoni animati, Bologna, Coconino Press. 2001). Cfr. anche l’autobiografia: Osamu Tezuka, Boku wa manga-ka: Tezuka Osamu jiden, Tokyo, Yamato Shobo, 1979. Per quanto riguarda la saggistica italiana cfr. Monica Piovan, Osamu Tezuka. L’arte del fumetto giapponese, Mestre (VE), Musa Edizioni, 1996.


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un’unitaria concezione dell’essenza dell’essere umano espressa nelle latitudini e longitudini più disparate. Proprio in virtù di questa scelta il libro non va subito dritto al cuore della questione manga e anime ma introduce la loro analisi partendo dal mito utilizzato per interpretare lo sviluppo della storia prima europea e poi mondiale (Capitolo I), fino ad arrivare a quella giapponese (Capitolo II); si chiede per questo un po’ di pazienza ai lettori, con la promessa di un’attesa funzionale a un’adeguata contestualizzazione delle tematiche trattate. Oltre a questa scelta di carattere generale ve ne sono altre che riguardano più strettamente il modo di procedere: tra esse, va segnalata la decisione di analizzare sempre la prima serie dedicata a un personaggio e mai il seguito conformemente all’idea, che viene espressa al Capitolo III, secondo la quale un anime – al pari di ogni prodotto culturale – nasce per intercettare bisogni psicologici diffusi tra la maggioranza dei suoi possibili fruitori; l’analisi di una prima serie porta quindi alla luce lo spirito del tempo in cui è stata realizzata in maniera più consona e veritiera dei suoi eventuali seguiti, creati di solito per sfruttare il successo del capostipite allontanandosi però spesso dai presupposti che gli diedero vita. Sono state inoltre prese in considerazione, esclusa qualche piccola – e giustificata – eccezione, solo serie giunte e teletrasmesse in Italia: oltre a esigenze legate alla soddisfazione di una buona parte del pubblico a cui il presente libro è rivolto, ciò è dettato dal presupposto secondo il quale l’utenza italiana e quella giapponese, essendo figlie di due nazioni arrivate tardi all’appuntamento con una modernità peraltro indotta dall’esterno, abbiano maturato dei bisogni simili, che hanno decretando in entrambi paesi il successo di un certo tipo di anime significativamente legati alla questione dell’iperestensione culturale. Oggetto della trattazione sono soltanto prodotti trasmessi e fruiti attraverso il circuito televisivo «classico»; si è quindi deciso di escludere i film realizzati per il grande schermo e i cosiddetti OAV (original anime video) concepiti per l’home-video. Per ragioni espresse sempre nel Capitolo III in questa sede interessano infatti prodotti culturali i cui significati raggiungano il maggior numero possibile di utenti e il cui impatto sul tessuto socioculturale di riferimento sia effettivamente tangibile. Se questo può valere per il Giappone, indiscutibile è la sua pertinenza in riferimento al conte-


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sto italiano, in cui le opere di finzione per ragazzi giunte dal paese del Sol Levante devono la loro fama soprattutto al mezzo televisivo. Si consideri che in Italia il consumo dei manga è un fenomeno nato successivamente alla consolidata fruizione di anime, che ha preparato il terreno alla ricezione degli stilemi grafici e narrativi nipponici educando la sensibilità dei futuri lettori – un percorso inverso rispetto a quello sviluppatosi nella patria originaria. L’invasione dei disegni animati nipponici nel nostro paese ha infatti preso simbolicamente avvio il 4 aprile 1978, con la trasmissione sull’allora Secondo Programma (oggi RAI Due) di Atlas UFO Robot, evento divenuto autentico mito fondante di una generazione di telespettatori, definita non a caso «Goldrake-generation».2 Dopo i primi passaggi sulla televisione di stato, gli anime hanno infatti trovato un prolifico circuito di diffusione nelle numerose emittenti locali sorte in seguito alla riforma del sistema radiotelevisivo del 1975-’76, garantendo un elevato numero di prodotti a basso costo con cui riempire i neonati palinsesti.3 A questa fase, protrattasi per la quasi totalità degli anni Ottanta, segnata appunto da una massiccia quanto non pianificata ondata di disegni animati giapponesi che hanno trovato asilo sulle reti locali e sui canali dell’allora giovane Fininvest – oggi Mediaset – è seguita una fase di stallo (durante la quale è iniziata però la circolazione dei manga) interrotta sul finire degli anni Novanta grazie a un particolare evento televisivo a cadenza periodica, l’Anime Night di MTV. Questa programmazione, avviata nel 1999, si è costituita per una pianificazione più mirata, l’attenzione rivolta a un pubblico ben definito (composto da adolescenti e giovani adulti) e la collocazione nella fascia serale del palinsesto – esattamente come in Giappone, dove l’animazione non è diretta solo a un pubblico infantile4 e proprio per 2 Cfr. Marco Pellitteri, Mazinga Nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation, Roma, Castelvecchi, 1999 (ed. riveduta e ampliata Roma, King|Saggi, 2002; III ed. Roma, Coniglio, 2008). 3 Questo periodo, conosciuto anche col nome di anime boom (1978-’83), rientra in quella che sempre da Pellitteri è stata definita fase del Drago (1975-’95), in cui l’immissione dei prodotti giapponesi nel circuito europeo è stata di tipo pull, ossia determinata dalla richiesta conseguente al loro basso costo. Cfr. Marco Pellitteri, Il Drago e la Saetta. Modelli, strategie e identità dell’immaginario giapponese, Latina, Tunué, 2008. 4 Questa errata concezione del medium dell’animazione fu alla base di numerose polemiche nel nostro paese, dove le serie giapponesi furono additate come vettore di educazione alla violenza del pubblico più giovane. Atlas UFO Robot fu addirittura oggetto di un’interpellanza parlamentare per volontà dell’allora


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questo la sua trasmissione è collocata in diverse fasce orarie rivolte a specifici segmenti di pubblico suddivisi per età.5 Ciò è dovuto a un preciso ricambio generazionale, che ha portato i membri della «Goldrake-generation» dall’altra parte della barricata, dove è stato possibile spendere le competenze accumulate al fine di garantire al pubblico la visione di opere fondamentali quali Neon Genesis Evangelion e Cowboy Bebop.6 Di sicuro qualcuno dei lettori che si accostano a questo libro in qualità di appassionati di animazione storcerà il naso vedendo esclusa la sua serie robotico-fantascientifica preferita, ma si giudichi il tutto con la consapevolezza secondo cui la scelta è sempre un’ecatombe di possibilità. Dal canto di chi scrive, queste sono le serie più idonee a illustrare al lettore come l’industria culturale e la società giapponese tout court abbiano affrontato la più grande sfida del nostro tempo, paragonabile a quella che all’alba della storia ci vide lottare per sopravvivere in un mondo ostile. Se ci si sente orfani della menzione dell’anime più caro si declini la privazione in senso positivo, ricordando ancora una volta l’immensa vastità del pantheon degli eroi nipponici, numerosi e forieri di ispirazioni, sentendosi fortunati per aver avuto il privilegio di fruire, durante l’infanzia e l’adolescenza, di una gamma di storie non circoscrivibili nello spazio di un piccolo libro. deputato Silverio Corvisieri. Per quanto riguarda le sorti dell’opera di Gô Nagai in Italia cfr. Alessandro Montosi, Ufo Robot Goldrake. Storia di un eroe nell’Italia degli anni Ottanta, Roma, Coniglio, 2007. Relativamente all’anime boom e alle paure suscitate dall’invasione degli anime giapponesi l’attore e regista teatrale Daniele Timpano ha dedicato nel 2007 l’acuto e divertente spettacolo teatrale Ecce Robot! Storia di un’invasione. Nessuno naturalmente allora si prese la premura di comprendere cosa ne pensassero realmente i più piccoli, che hanno avuto modo di esprimere la propria opinione una volta divenuti adulti in Francesco Filippi – Maria Grazia Di Tullio, Vite Animate. I manga e gli anime come esperienza di vita, Roma, King|Saggi, 2002, pp. 64-71. 5 Per quanto riguarda una classificazione dei consumatori di manga cfr. Sharon Kinsella, Adult Manga. Culture & Power in Contemporary Japanese Society, Richmond, Surrey, Curzon Press, 2000, pp. 44-9. 6 Questo periodo, a cui viene anche dato il nome di second impact (termine mutuato dalla catastrofe da cui prende il via proprio Neon Genesis Evangelion, una serie importante per gli anni Novanta e per il ricambio estetico degli anime in tutto il mondo, di cui si parlerà in seguito), rientra invece nella fase resa da Pellitteri attraverso la metafora della Saetta (1995-oggi), il cui simbolo è il cosmo Pokémon, improntata a una strategia di tipo push da parte dell’industria culturale nipponica, maturata in seguito alla consapevolezza del fascino esercitato all’estero dai propri prodotti. Cfr. M. Pellitteri, Il Drago e la Saetta, cit. Per quanto riguarda il second impact cfr. Eleonora Benecchi, Anime. Cartoni con l’anima, Bologna, Hybris, 2005, pp. 57-99. Questa fase è caratterizzata anche dalla ristrutturazione dell’offerta di Italia Uno, rete del gruppo Mediaset rivolta a un pubblico di giovani e giovanissimi.


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Occorre un’altra precisazione per guidare meglio il lettore nella sua fruizione: le schede dedicate ai singoli anime possono essere consultate anche come piccole trattazioni autonome, ma è doveroso sottolineare che le serie più rappresentative vengono via via sviscerate nel corso dell’intero elaborato: opere come Kyashan il ragazzo androide, Conan il ragazzo del futuro e Galaxy Express 999 sono troppo dense di significati per essere racchiuse in una semplice scheda, considerazione che comunque non vuole sminuire l’importanza dei prodotti che hanno una cornice più definita. Proprio per questo le cinquanta schede sono state raccolte in un’Appendice finale che permettesse di analizzarne i contenuti e i messaggi veicolati sia sulla scia delle argomentazioni esposte nei Capitoli del libro sia nelle loro irriducibile unicità. Nel frattempo, alcuni degli anime qui analizzati hanno trovato spazio in volumi generali e addirittura monografici; la peculiarità di questo elaborato consiste nell’affrontare in un volume anche serie finora non incluse in prodotti editoriali, oltre a focalizzarsi per la prima volta su aspetti specifici inerenti tutti i cinquanta anime catalogati nell’ultima parte del libro. Si tenga presente che i nomi e i dialoghi riportati (anche nei Capitoli precedenti) fanno sempre riferimento alla prima edizione italiana della serie in questione. Come molti lettori avranno già intuito, questa è una scelta mutuata da un precedente, il citato Mazinga Nostalgia di Marco Pellitteri; se questo volume può permettersi di contestualizzare l’animazione giapponese all’interno di una tematica ben precisa è perché prima altri autori nel dibattito italiano (e internazionale) hanno dedicato a questo argomento delle trattazioni generali conferendogli una dignità in campo accademico e divulgativo riuscendo a scardinare i paletti eretti dai pregiudizi legati a una vetusta, e ormai impresentabile, distinzione tra cultura «alta» e «bassa».7 7 Proprio per questo motivo lo stesso Pellitteri ha definito Mazinga Nostalgia un libro «militante». Cfr. Marco Pellitteri, «Premessa», in Il Drago e la Saetta, cit., p. XXV. Per quanto riguarda i saggi divulgativi sull’animazione in generale, fondamentale è citare anche Le anime disegnate di Luca Raffaelli, testo in cui la trattazione dei disegni animati americani (soprattutto quelli prodotti dalla Disney e dalla Warner Bros & Co.) e giapponesi si unisce a interessanti considerazioni pedagogiche sulla loro fruizione da parte di più piccoli. Cfr. Luca Raffaelli, Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoons da Disney ai giapponesi, Roma, Castelvecchi, 1994 (ed. riveduta e ampliata Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoons da Disney ai giapponesi e oltre, Roma, Minimum Fax, 2005). Per quanto riguarda una panoramica sul cinema d’animazione in generale cfr. Giannalberto Bendazzi, Cartoons. Il cinema d’animazione 1888-1988, Venezia, Marsilio, 1988; Marco Pellitteri, Conoscere l’animazione. Forme,


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Ringraziamenti È sempre difficile fare una lista più o meno lunga di nomi, quindi mi limiterò all’essenziale. Innanzitutto ringrazio Marco Pellitteri, a cui devo molto di più del semplice processo di revisione editoriale: chiacchierate amichevoli, consigli sinceri e la rassicurante consapevolezza della presenza di un punto di riferimento costante in questo settore di studi. Grazie soprattutto per questo, Marco, oltre che per un’e-mail giunta dal Giappone tanto inaspettata quanto gradita senza la quale i miei studi non avrebbero ripreso nuova linfa. Ringrazio il professor Giulio Giorello per aver accettato di scrivere la prefazione di questo libro, un ringraziamento esteso anche al dottor Luca Guzzardi. La mia riconoscenza va anche a Veronica Menelao, con la quale ho da sempre potuto mantenere un rapporto scevro da ogni formalità che ha molto facilitato la nascita di questo progetto. La vocazione multidisciplinare di questo libro necessitava e necessita tuttora di sostenitori curiosi, dall’intelletto vivace e aperto a ogni possibile sollecitazione: tali si sono rivelati – ma questo non lo scopro certo io – il professor Telmo Pievani, Paolo Coccia e tutta la redazione di Pikaia. Il portale dell’evoluzione, che hanno dato a questo elaborato il primo importante riconoscimento; per questo motivo il mio grazie va anche a loro. Dal momento che si parla di scienza, non posso esimermi dal menzionare gli Stelvi, ai quali debbo l’amore per questo campo del sapere, precedentemente detestato a causa dell’aridità con cui lo si insegna a scuola. linguaggi e pedagogie del cinema animato per ragazzi, Roma, Valore Scuola, 2004. Relativamente alla saggistica accademica in Italia sul manga cfr. Maria Teresa Orsi, Storia del fumetto giapponese vol. 1. L’evoluzione dall’era Meiji agli anni Settanta, Mestre (VE), Musa Edizioni, 1998; Gianluca Di Fratta, Il fumetto in Giappone. Dagli anni Settanta al 2000, Caserta, L’Aperìa, 2005. In riferimento alla saggistica divulgativa, sempre nel nostro paese, cfr. Cristian Posocco, MangArt. Forme estetiche e linguaggio del fumetto giapponese, Genova, costa & nolan, 2005; Francesco Prandoni, Anime al cinema. Storia del cinema d’animazione giapponese 1917-1995, Milano, Yamato Video, 1999; Saburo Murakami, Anime in TV. Storia dei cartoni animati giapponesi prodotti per la televisione, Milano, Yamato Video, 1998; Alessandro Gomarasca (a cura di), La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Torino, Einaudi, 2001; Roberta Ponticiello – Susanna Scrivo (a cura di), Con gli occhi a mandorla. Sguardi sul Giappone dei cartoon e dei fumetti, Latina, Tunué, 2005 (II ed. 2007). Riguardo la saggistica internazionale, per quel che concerne l’Europa cfr. Jaqueline Berndt – Steffi Richter (a cura di), Reading Manga from Multiple Perspectives, Leipzig, Universitätverlag Leipzig, 2006. Per ciò che concerne gli Stati Uniti, si faccia riferimento all’opera di John A. Lent: John A. Lent (a cura di), Themes and Issues in Asian Cartooning: Cute, Cheap, Mad and Sexy, Bowling Green (OH), Bowling Green State University Popular Press, 1999; Id., Animation in Asia and the Pacific, Bloomington, Indiana University Press, 2001; Id. (a cura di), Illustrating Asia: Comics, Humour Magazines, and Picture Books, Richmond, Surrey, Curzon Press, 2001. Fondamentale anche il contributo di Frederik L. Schodt: Frederik L. Schodt, Manga! Manga! The world of Japanese Comics, Kôdansha International, Tokyo, through Harper & Row, New York, 1986; Id., Dreamland Japan. Writings on Modern Manga, Berkeley (CA), Stone Bridge Press, 1996. Un punto di riferimento importante è certamente costituito dalla rivista annuale Mechademia, edita dalla University Press of Minnesota. Riguardo invece alla riflessione su manga e anime nel paese d’origine cfr. almeno Tomohiko Murakami – Osamu Takeuchi (a cura di), Manga hihyô taikei, 4 voll., Tokyo, Heibonsha, 1989.


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Per il reperimento del materiale, invece, costruisco un monumento ai forum Animedb e Downloadzoneforum, soprattutto allo spirito di condivisione dei loro utenti. Restando in tema, un posto speciale va riservato agli amici del KBL Forum di Sigletv.net: con molti di loro non condivido solo una passione ma anche un modo di essere, romantico e scanzonato nello stesso tempo, fondato sulla convinzione che il modo migliore per essere adulto sia quello di tenere vivo/a il/la bambino/a che un tempo, tra una fetta di pane e Nutella e un sorso di latte e Nesquik, sognava di salire su un robot per difendere la Terra oppure di renderla migliore con un colpo di bacchetta magica; al di là degli stimoli continui, del supporto morale e dell’aiuto concreto, il mio pensiero è rivolto a loro soprattutto per questo motivo. Continuando a parlare di sigle TV, una nota di merito piena di affetto e simpatia non può che andare ai «megafriends» Raggi Fotonici, grazie ai quali il mondo dell’animazione prende costantemente vita nella mia esistenza quotidiana non restando semplicemente confinato nel seppur già appagante spazio della fantasia. Un grazie anche ad Andrea Maffi, a cui va il grande merito di rendermi costantemente up do date nonostante la componente «girellara» del mio animo, guidandomi alla scoperta delle opere più recenti. Grazie Andrea per le imbeccate, le chiacchierate a voce e in chat e per il prestito di materiali, oltre che per essere stato il vertice del quadrilatero formato anche da Enrico, Irene e Luisa sull’asse Roma-Bergamo-Berlino, che tanto ha giovato alla stesura finale del libro. Questo, a imperitura gloria dell’Open House. La mia gratitudine va anche a Giulia, per la parte di vita condivisa, gli incoraggiamenti e gli spunti di riflessione che hanno portato alla scelta del titolo, oltre che per la curiosità profana e sincera con cui segue i miei studi. Giungo ora al ringraziamento più doveroso, quello ai miei genitori, un gesto la cui ritualità vuole comunque tenersi ben lontana dall’ovvio e rimanere contestualizzata alla presente opera. Questo libro non sarebbe mai venuto alla luce se quella irradiata dal Sol Levante che tanti anni fa penetrò dalla mia finestra fosse stata oscurata con la pretesa di filtrare ciò che è moralmente lecito secondo la pretesa di tanti sedicenti paladini dell’infanzia. Per la fiducia concessa all’immaginazione del bambino che sono stato; per averla lasciata libera di esprimersi sciolta dai vincoli di morali adulte castranti e tendenziose; per l’umiltà dimostrata nel saper condividere la mia educazione con un ospite straniero che molti si rifiutavano di accogliere; per tutto questo, grazie. Infine, un pensiero a coloro che non hanno collaborato più o meno fattivamente alla stesura di questo libro ma sono comunque presenti tra le sue righe, tutti i fiori di sakura che abbelliscono il ramo della mia vita e senza i quali non sarei diventato quello che sono adesso riversandone qui una buona parte: per la forma che contribuite a dare al mio essere e per la parte del vostro di cui mi fate dono, grazie.


II. Effetti dell’iperestensione culturale Il Giappone quale osservatorio privilegiato Perché non volevo vedere le tue unghie crudeli strappare i suoi poveri occhi di vecchio, né la tua feroce sorella conficcare i suoi bestiali artigli in quella carne veneranda. WILLIAM SHAKESPEARE, RE LEAR

II.1 Dalle navi di Colombo a quelle di Perry: Prometeo bussa alla porta dello shôgun Scrive Marco Polo nel Milione: Zipagu èe una isola in levante, ch’è nell’alto mare mille cinquecento miglia. L’isola è molto grande, le genti sono bianche, di bella maniera e belle; e la gente è idola, e non ricevono signoria da neuno, se no’ da loro medesimi. Qui si trova l’oro, però n’hanno assai; niuno uomo non vi va, e niuno mercante non leva di questo oro; perciò n’hanno egliono cotanto. E il palagio del signore dell’isola èe molto grande, ed è coperto d’oro, come si cuoprono di qua le chiese di piombo. E tutto lo spazzo delle camere è coperto d’oro, ed èvvi alto bene due dita; e tutte le finestre e mura e ogni cosa e anche le sale sono coperte d’oro; e non si potrebbe dire la sua valuta. Egli hanno perle assai, e sono rosse e tonde e grosse, e sono più care che le bianche; ancora v’ha molte pietre preziose, e non si potrebbe contare la ricchezza di quest’isola.1

Lo Zipagu di cui parla il veneziano è naturalmente il Giappone, annoverato tra le «maravigliose cose d’India»,2 verso cui originariamente sarebbe in seguito salpato Colombo, attratto da promesse d’oro poi man1 2

Marco Polo, Il Milione (1298 ca.), Milano, Lucchi, 1960, pp. 187-8. Ivi, p. 186.


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tenute dal piombo dei conquistadores. Navi e armi da fuoco, protagonisti della storia occidentale protomoderna, fecero la propria comparsa anche sulle coste giapponesi. Visitatori alquanto insoliti, dal momento che il paese del Sol Levante, eccezion fatta per gli abituali contatti coi fratelli cinesi e coreani, si era tenuto ai margini degli accadimenti che mutavano le altre parti del globo. Nemmeno le navi dell’esercito di Kublai Khan riuscirono a invaderne il suolo, respinte da un vento poi acclamato come divino, letteralmente kami kaze. Dove non giunsero i mongoli conquistatori di terre arrivarono però i missionari cercatori di anime, approdati nel XVI secolo nell’Arcipelago insieme ai commercianti portoghesi. Per apprendere la tecnologia delle armi leggere da fuoco introdotte da questi ultimi i giapponesi si convertirono al cattolicesimo, prima di proscriverlo una volta raggiunto lo scopo e rispedire a casa preti e mercanti. La vicenda aiuta a comprendere il carattere profondo del popolo nipponico, neppure minimamente scalfito dall’idea di una verità unica da custodire e propagare. Ciò vale per la sfera religiosa e anche per quella etica, descritta da Ruth Benedict come «una carta geografica suddivisa in varie provincie», in quanto i giapponesi «non fanno riferimento a un imperativo categorico o a una “regola aurea”, cosicché un comportamento viene approvato sempre relativamente a uno specifico ambito».3 Questo permise ai pragmatici isolani di mutuare quanto serviva dagli occidentali e respingere quello che non si accordava con il loro tornaconto. Ma i rari contatti esterni erano sul punto di cessare del tutto. La dinastia Tokugawa, al potere dal 1603 al 1867, mirava alla conservazione del tradizionale assetto sociale, minacciato dall’ascesa della classe mercantile4 favorita dallo sviluppo dei commerci marittimi. Così fu av3 Ruth Benedict, The Chrysantheum and the Sword, Boston, Houghton Mifflin Company, 1946 (trad. it. Marina Lavaggi – Ferdinando Mazzone, Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, Bari, Dedalo, 1969, p. 215). 4 Al vertice dell’ordinamento si trovava la famiglia imperiale, seguita dai nobili di corte, dai guerrieri (samurai), dai contadini, dagli artigiani, dai mercanti e dagli esclusi. È facile allora comprendere come l’ascesa della classe che occupava il penultimo gradino della scala sociale turbasse i detentori del potere costituito. Riguardo il periodo Tokugawa cfr. Marius B. Jansen, The Making of Modern Japan, Cambridge, Massachusetts, London, England, The Belknap Press of Harvard University Press, 2000, pp. 33-332.


DALLE NAVI DI COLOMBO A QUELLE DI PERRY: PROMETEO BUSSA...

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viata una politica d’isolamento protrattasi per più di duecento anni, che immobilizzò il Giappone mentre una parte del mondo esterno cambiava con rapidità impressionante. Laddove la dinamicità diventò il marchio di fabbrica dell’Occidente, i Tokugawa mantennero in una dimensione feudale il paese, il cui modus vivendi era – seppur con le dovute differenze – sostanzialmente analogo a quello dell’Europa medievale. 5 A collegarlo con l’esterno era la sola Nagasaki, sede della colonia olandese sull’isolotto di Deshima, a suo modo centro di cultura «alessandrina» della nazione dove i rangakusha (‘studenti olandesi’) avevano accesso ai testi occidentali. Si torni ora a quel 1492 in cui le navi di Colombo approdarono in America. Il nuovo mondo nei secoli successivi prese dalle mani del vecchio il testimone della staffetta della modernità, nei termini così espressi da Hegel: «L’America è […] il paese dell’avvenire, quello a cui, in tempi futuri, […] si rivolgerà l’interesse della storia universale. Essa è un paese di nostalgia per tutti coloro che sono stufi dell’armamentario storico della vecchia Europa».6 Fase decisiva del processo fu la fondazione degli Stati Uniti d’America, paese privo di «pastoie»7 e dotato di spazi sconfinati, terreno fertile per l’ulteriore sviluppo della nostra cultura. Invocato non da Abramo, Isacco e dai patriarchi che appesantiscono le pagine bibliche, il Dio americano è quello «che progetta la frontiera e costruisce la ferrovia» del Bufalo Bill di Francesco De Gregori. Proprio quello di «frontiera», «spazio che occorre attraversare trasformandolo mentre lo si attraversa», è il concetto chiave per comprendere l’agire prometeico degli Stati Uniti. «Libertà e frontiera sono tra loro legate da una relazione di implicazione reciproca: qualsiasi difficoltà e qualsiasi limite della libertà è un ostacolo da superare, un limite da oltrepassare. Dall’Atlantico al Pacifico si stende una terra ricca e libera, sempre aperta a nuove linee di fuga».8 5 Si noti a tal proposito come Akira Kurosawa abbia ricalcato il proprio film sulla fine del Giappone feudale, Ran (160’, Giappone 1985), sul modello del Re Lear. 6 George W.F. Hegel, «Lezioni sulla filosofia della storia», cit. in Michael Hardt – Antonio Negri, Empire, Boston, Harvard University Press, 2000 (trad. it Alessandro Pandolfi, Impero, Milano, RCS Libri, 2001, p. 348). 7 Naturalmente eccezion fatta per quella, brutalmente rimossa, costituita dai nativi americani. 8 M. Hardt – A. Negri, op. cit., p. 162.


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Quando la terra fino al Pacifico fu interamente soggiogata, le mire si volsero a quella che si estendeva al di là di esso. Ecco allora che nel 1853 il commodoro Matthew Perry giunse in Giappone con la propria flotta e una lettera che chiedeva l’apertura dei porti a favore delle navi americane: Prometeo bussò alla porta del paese per conto della borghesia (vittoriosa nella rivoluzione del 1776 all’origine della Costituzione statunitense), la quale «si crea un mondo a propria immagine e somiglianza», a cui l’«epimeteico» Giappone fu «invitato» a omologarsi. Nel 1854 stipulò quindi dei trattati, integrati da quelli commerciali quattro anni più tardi, talmente favorevoli agli Stati Uniti da essere definiti «ineguali». Ciò sconvolse i nipponici, avvezzi sì al concetto di ineguaglianza dovuto alla loro visione del mondo rigidamente gerarchica, ma non certo a costituire il polo inferiore del rapporto di disparità. Essi potevano infatti permettersi di non concepire assoluti concernenti le varie sfere del pensiero e dell’azione per il semplice fatto che ne contemplavano uno solo: il Giappone, l’unico paese divino, dal momento che «una legittimità metafisica appartiene solo all’essere giapponese, dal sasso all’uomo, dall’astro al pomo. L’entità straniera – essere umano o cosa – non si sa bene come sia comparsa, e resta sempre (almeno in modo vago) spuria».9 Si immagini dunque cosa successe quando l’entità straniera, per spuria che fosse, comparsa in un modo o nell’altro, poté permettersi di dettare le regole all’unico paese custode di un rapporto diretto con la divinità. Si poneva in maniera quanto meno allarmante il Che fare? La popolazione un tempo «idola» si ritrovò a fare improvvisamente i conti con tutta la propria storia a causa di un diktat esterno.

9 Fosco Maraini, «Introduzione. Cronache di un Giappone anno zero», in Enrica Collotti Pischel (a cura di), L’ascesa del Giappone, Milano, Franco Angeli, 1994, p. 36. Lo stesso Maraini riporta il passo iniziale del libro di Kikabatake Chikafusa (1293-1354), Cronache della discendenza diretta dei divini sovrani: «Il Giappone è un paese divino. Esso venne fondato dal Celeste Progenitore, e la Dea Solare lo destinò ai propri discendenti, ché lo governassero in eterno. Tutto questo è vero solo per la nostra patria, non esistono simili esempi in altre parti del mondo». Ivi, p. 37. I due libri mitologici della tradizione giapponese, il Kojiki e il Nihonji, raccontano la creazione del mondo attraverso il mito di Izanagi e Izanami riferendosi solo all’Arcipelago, ribadendo l’esclusività del legame tra cielo e terra nipponica.


WAKON YÔSAI: IL TRAMONTO DEL SOL LEVANTE

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II.2 Wakon yôsai: il tramonto del Sol Levante Essi contavano sull’ausilio divino, mentre il loro scopo era quello di sfidare con la semplice sciabola le armi occidentali aborrite dagli dei. YUKIO MISHIMA, CAVALLI IN FUGA

«Una gerarchia tribale e feudale di tipo tradizionale», scrive McLuhan, «si sfalda rapidamente al contatto con qualunque medium caldo di tipo meccanico, uniforme e ripetitivo».10 Ne seppe qualcosa il regime Tokugawa, tramontato solo quattordici anni dopo l’arrivo delle navi di Perry. Sotto la spinta di slogan quali «Restauriamo l’imperatore» ed «Espellere i barbari»,11 tale fase si concluse con la restaurazione del potere imperiale, atto d’inizio del periodo Meiji (1868-1911).12 In principio il Giappone sembrò scegliere la via di un ulteriore isolamento. Invece furono proprio le forze della reazione a dare avvio allo sviluppo del paese, trasformato in cinque anni in un moderno stato-nazione. Per operare un tale stravolgimento l’imperatore dovette disporre di un potere non soggetto ad alcuna limitazione, conferitogli dall’apparato di governo nato dall’unificazione burocratica, amministrativa e militare del Giappone.13 La centralizzazione del potere fu possibile snellendo la «carta geografica» dell’etica nipponica, facendo confluire le sue tante «province» nella «capitale» del chu, l’obbligo verso la persona dell’imperatore. Il mantello dell’etica velava quindi la struttura del potere costituente. «Ma il destino», come si vedrà, «fece del mantello una gabbia d’acciaio».14 M. McLuhan, op. cit., p. 33. Questi erano gli slogan del movimento Sonnô jôi, che ha trovato una sua singolare riproposizione nell’anime Gintama (2006). 12 Riguardo il periodo Meiji cfr. William G. Beasley, The Meiji Restoration, Stanford (CA), Stanford University Press, 1972 e M.B. Jansen, op. cit., pp. 333-494. 13 Il potere nell’età Tokugawa era decisamente più decentrato. Le tante province del Giappone erano soggette all’autorità di un daimyô, a sua volta signore degli shôgun ai quali i samurai garantivano la propria fedeltà. 14 M. Weber, op. cit., p. 305. 10 11


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Il nuovo orizzonte politico diede una possibilità ai rangakusha, i quali proponevano di affrontare la sfida delle navi americane con lo stratagemma rivelatosi vincente contro quelle portoghesi, ossia assorbire il buono della cultura allogena (uno dei punti del programma Meiji era «la ricerca di quanto poteva esserci di buono e utile nella cultura degli stranieri») rimanendo impermeabili al resto. Queste istanze riprendevano quelle espresse dalla dottrina di Sakuma Shôzan (1811-1864), wakon yôsai, letteralmente ‘anima giapponese, tecnica occidentale’, che esortava ad adottare la seconda conservando gelosamente la prima. La teoria fu messa in pratica dal processo di «nipponizzazione», destinato – seppur all’inizio non fu possibile comprenderlo – a trascinarsi dietro tutta la millenaria storia della nazione. A un unico e immutabile assoluto (il Giappone) si affiancava quello che lo avrebbe scalzato, la tecnica, descritta da Umberto Galimberti appunto come «un assoluto che si presenta come un universo di mezzi, il quale, siccome non ha in vista dei fini, ma solo degli effetti, traduce i presunti fini in ulteriori mezzi per l’incremento infinito della sua efficienza».15 Si integri tale definizione con l’analisi di Severino: La funzione originale della tecnica è di essere uno strumento di eccezionale efficacia per promuovere un certo ordinamento economico-sociale. […] Ma, rapidamente, l’efficacia e l’importanza di questo mezzo spingono le ideologie a organizzare la società in modo che lo sviluppo della tecnica sia ostacolato il meno possibile e il più possibile agevolata la sua applicazione alla risoluzione dei problemi economico-sociali. […] La tecnica diviene così lo scopo dell’ideologia. E poiché essa rimane anche il mezzo più potente, il destino delle ideologie è di dissolversi non solo come scopi, ma anche come mezzi.16

Per entrambi i filosofi la tecnica tende a invertire il rapporto tra mezzo e fine. Avendo essa «come scopo l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, e subordinare al proprio ogni altro scopo»,17 non è U. Galimberti, op. cit., p. 681. Si noti che il libro è dedicato a Severino. E. Severino, Téchne, cit., p. 260. Emanuele Severino, «Globalizzazione e tradizione», MicroMega, «Filosofia e (critica della) globalizzazione», n. 5, 2001, p. 110. 15 16 17


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possibile servirsene in maniera neutra senza subire contraccolpi. Quanto accadde con le navi portoghesi non poté ripetersi con quelle di Perry, dal momento che la tecnica assorbita da commercianti e missionari non aveva certo la potenza d’urto di quella impiegata per rendere il paese una nazione moderna: «Infatti se nel mondo pre-tecnologico la tecnica era impiegata come strumento per la soddisfazione dei bisogni umani, nel mondo tecnologico è la tecnica a impiegare l’uomo per le sue esigenze di funzionalità».18 E dire che i riformatori dell’era Meiji volevano disporne per conservare intatta la propria anima… In un mondo sempre più prometeico il Giappone non poteva più continuare a essere una monade isolata, poiché «la tendenza all’espansione planetaria appartiene […] all’essenza della tecnica».19 Esigenza, questa, connaturata anche alla borghesia e al suo modo di produzione, quello capitalista. Una volta che esso fu adottato dal paese dei samurai, l’aggressiva politica di espansione che ne conseguì fu inevitabile per un paese peraltro ricco di bellezze naturali ma assai povero di materie prime. Si consideri l’effetto dell’incontro tra il Giappone e l’Occidente alla luce di quanto scrive sempre McLuhan: «Quando due società esistono l’una accanto all’altra, la sfida psichica della più complessa determina in quella più semplice un esplosivo scarico di energie».20 Finché restarono trincerati dietro le barriere innalzate dai Tokugawa i giapponesi non vennero a contatto con entità esterne, ma, una volta spinti dal «fascino del mondo dal quale si volevano mutuare soluzioni e la deliberata volontà di cancellare l’umiliazione imposta da esso»,21 attaccarono Taiwan nel 1873, imposero l’apertura a due porti coreani tra il 1875 e il 1876 arrivando nel 1894 a vincere addirittura la guerra contro il vecchio fratello maggiore cinese, ormai non più riconosciuto come tale in seguito alla subalternità nei confronti delle nazioni occidentali sancita dal trattato di Nanchino (1842). Nel 1905 il Giappone incrociò il proprio destino con un’altra nazione in fase di cambiamento, la «grande e cara U. Galimberti, op. cit., p. 398. Proprio ciò che in questa sede è definito iperesetensione culturale. Ivi, p. 345. M. McLuhan, op. cit., p. 80. Cfr. il cortometraggio di Pier Paolo Pasolini Le mura di Sana (1970). 21 Enrica Collotti Pischel, «Considerazioni sull’ascesa del Giappone nel gioco delle grandi potenze», in Id. (a c. di), op. cit., p. 221. 18 19 20


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malata»22 Russia, sconfiggendola soprattutto grazie alla superiorità della propria flotta nell’importantissima battaglia di Tsushima. Dall’umiliazione imposta dalle navi al trionfo guadagnato con le navi, il cerchio poteva così dirsi chiuso. La tecnica occidentale era stata appresa senza alcun dubbio; ma cosa restava dell’anima giapponese? Soggiornando in Giappone tra la fine degli anni Trenta e il 1941, Karl Löwith ebbe modo di porsi la stessa domanda, arrivando a queste conclusioni: Ciò che il Giappone ha preso da noi è stato, come nel caso della ricezione della cultura cinese, non il fondamento religioso, morale o dottrinario, bensì, in primo luogo, la nostra civiltà materiale: l’industria e la tecnica moderna, il capitalismo, il diritto borghese, l’organizzazione dell’esercito e i metodi del lavoro scientifico, che rendono possibile tutto questo […]. La vita autentica degli uomini, il loro modo di sentire e pensare, costumi e valori hanno continuato a sussistere accanto a tutto questo relativamente immutati. Lo «spirito» europeo con la sua «storia» senza la quale esso non sarebbe quel che è diventato, non è stato recepito perché ciò può solo avvenire attraverso una appropriazione che lo trasformi alla radice. Malgrado il carattere esteriore di questa occidentalizzazione, che non può non colpire ogni europeo, non si deve però disconoscere la sua pervasività. La civiltà europea non è un abito di cui ci si può all’occorrenza vestire e poi di nuovo, spogliare, ma ha l’inquietante potere di conferire la propria forma al corpo e all’anima che di essa si riveste. Certo, l’assunzione delle istituzioni occidentali è estrinseca (perciò apparentemente innocua), se si paragona la civiltà occidentale in Giappone con quella autoctona d’Europa, infatti è solo in Europa che la civiltà tecnica ha una base storica e spirituale sulla quale essa poté formarsi all’interno; l’Oriente, invece, si impadronì del prodotto, e di esso soltanto, come di un risultato bell’e pronto. Al tempo stesso, però, questa esteriorità è più intima di quel che appare, visto che le conquiste moderne della civiltà occidentale non costituiscono un mero mezzo per un fine qualsiasi, ma condizionano la vita e la convivenza degli

22 Fëdor M. Dostoevskij, Besy, 1872 (trad. it. Francesca Gori, I Demoni, Milano, Garzanti, 1990, p. 699).


WAKON YÔSAI: IL TRAMONTO DEL SOL LEVANTE

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uomini e dei popoli. Nessuno può sottrarsi alle intime conseguenze della trasformazione della vita perpetrate dall’industria e dalla tecnica – entrambe in caso d’emergenza servono alla guerra. La distruzione dei fondamenti religiosi, morali, sociali e antichi, è una conseguenza inevitabile che nessun processo di civilizzazione può ignorare. Un «Giappone moderno» è (per gli Europei) una contraddizione in termini, visto che la modernità occidentale non è giapponese e il Giappone autentico è antichissimo. La vera civiltà che sopravvive in Giappone, fatta di nobile semplicità, buone maniere e bellezza, non è di oggi, ma un lascito del passato. Il fatto che, in singoli casi, la contrapposizione tra vecchio e nuovo abbia raggiunto, talora, una situazione di compromesso esteticamente e moralmente accettabile, non fa che confermare questa regola.23

L’esito dell’applicazione dei principi del wakon yôsai conferma dunque la bontà dell’analisi di Galimberti e Severino. Non poteva quindi che verificarsi un disallineamento tra la scintilla di Atena e quella di Efesto. Negli stessi anni di Löwith visse nel paese anche Fosco Maraini, che poté osservare gli ulteriori sviluppi del binomio «anima giapponese, tecnica occidentale», accorgendosi di come una mentalità gerarchica e «tribale» come quella nipponica non poteva più trovare asilo in un mondo in cui le nazioni non condividevano soltanto il destino politico ma anche la forza d’urto. La mancata adozione del punto di vista dell’«umanità» fu una delle cause della Seconda guerra mondiale. alla quale, facendo sempre riferimento all’esperienza di Maraini, il Giappone si approssimava in questo modo: avevo cominciato a comprendere l’inevitabilità dello scontro; bastava studiare un poco nell’intimo la storia del pensiero giapponese per vedere montare nei secoli il dramma. Procedendo verso la metà del secolo ventesimo, sembrava essersi prodotta una mirabile «maturità dei tempi». Non erano in atto tanto fattori economici, vicende politiche, fattori sociali qual-

23 Karl Löwith, Santliche Schriften 2. Weltergeschichte und Heilsgescheen. Zur Kritik der Geschichtsphilosophie, Stuttgart, J. B. Metzlerche Verlagsbuchhandlung, 1983 (trad. it. Monica Ferrando, Scritti sul Giappone, Messina, Rubbettino, 1995, pp. 102-3).


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Il disallineamento tra la scintilla di Efesto e quella di Atena è una delle cause principali degli orrori perpetrati durante la Seconda guerra mondiale, inclusi quelli giapponesi. L’eco dei campi di concentramento e degli stermini di massa si propaga nitidissimo nella serie Zambot 3: nell’immagine a sinistra vi è la rappresentazione di un lager dove sono imprigionati gli uomini-bomba (a destra), armi di distruzione consistenti in esseri umani al cui interno è impiantato appunto un ordigno, insieme al quale sono condannati a esplodere seminando morte e distruzione tra i propri simili. © Sunrise, Sotsu Agency e Nagoya TV.

siasi, era bensì venuto il momento quando un certo credo doveva porsi alla prova. Il Giappone era o non era terra divina? Ospitava o non ospitava un popolo eletto, guidato da un Tennô disceso dagli dei? La «pienezza dei tempi» reclamava la prova: anche se folle, anche se assurda. Partecipavo allo smisurato dramma con piena comprensione, ma scorgendone fin dall’inizio la sicura tragica fine.24

Non c’è da stupirsi allora se Ruth Benedict sottolinei come per i giapponesi il conflitto bellico consistesse in uno scontro tra la loro fiducia nel proprio spirito, immortale e quindi invincibile, e quella statunitense nella materia transeunte.25 Gli asiatici confidavano sostanzialmente ancora in Zeus, battuto però da Prometeo, che conferì al nemico l’arma con cui ottenne la vittoria definitiva: la bomba atomica.26 Essa, spazzanF. Maraini, op. cit., p. 51. Cfr. R. Benedict, op. cit., pp. 29-32. 26 Nel suo Diario di Hiroshima, Michihiko Hachiya riporta già il 9 settembre 1945 un articolo contenente questa osservazione: «È impossibile non restare stupiti dalla potenza di una bomba, che è stata in grado di devastare una città come Hiroshima, causando cinquecentomila tra morti e feriti. La nostra sconfitta è dovuta a una superiorità di ordine scientifico, qualitativo più che quantitativo. È pertanto consigliabile un’attenta considerazione degli avvenimenti passati e un’indagine sui futuri sviluppi della tecnica». Cit. in Michihiko Hachiya, Hiroshima Diary: The Journal of a Japanese Physician, August 6—September 30, 1945, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1955 (trad. it. Francesco Saba Sardi, Diario di Hiroshima, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 170). 24 25


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do via la distinzione fra «tribù» e «umanità», recise pure il legame divino che garantiva al Giappone la sua esclusività celeste. Una mitica storia millenaria era giunta al termine. Era cominciata con le navi americane, finì con la bomba americana. Nel mezzo, appunto, il Sol Levante.

II.3 L’imperatore apre la porta a Prometeo Col tempo, non c’è dubbio che la civiltà dell’occidente avrebbe inventato strumenti di morte ancora più micidiali, e che li avrebbe usati per combattere il Giappone. YUKIO MISHIMA, CAVALLI IN FUGA

Mentre i sudditi del Tennô (‘Sovrano celeste’) invocavano lo spirito dei samurai, gli americani riponevano le loro aspettative di vittoria nella scienza organizzata, capace di ottenere «l’imbrigliatura del potere fondamentale dell’universo»,27 introducendo «un’era nuova nella comprensione umana delle forze della natura».28 L’orgoglio palesato dal presidente Truman il giorno dell’impiego della bomba «Little Boy» è ben diverso dallo sgomento espresso dallo scrittore Tamiki Hara, che la potenza dell’ordigno la sperimentò sulla propria pelle: Uno spazio vuoto e grigio si estendeva sotto un cielo di piombo. […] Nell’acqua galleggiavano cadaveri dilaniati, gonfiati. Era l’inferno divenuto realtà. Tutto ciò che era umano, era stato cancellato. […] Si sarebbe creduto il paesaggio di un sogno. Il cielo sopra di me era di un silenzio assoluto. Ebbi l’impressione di non essere venuto sulla terra che dopo l’esplosione della bomba atomica.29 27 Harry S. Truman, «Abbiamo vinto la battaglia dei laboratori», in Antonio Desideri, Storia e storiografia. Dalla prima guerra mondiale alle soglie del Duemila, con la collaborazione di Mario Themelly, Firenze, D’Anna, 1997, p. 809. 28 Ivi, p. 810. 29 Tamiki Hara, «La bomba atomica su Hiroshima. La testimonianza di uno scampato», in ivi, pp. 805-6. Corsivi miei. Hara, scampato alla bomba e poi suicidatosi nel 1951 durante la Guerra di Corea, è stato inoltre l’autore del primo romanzo scritto dopo l’esplosione atomica, Natsu no hana (‘Fiore di un’estate’), dedicato alla moglie morta comunque prima del bombardamento. Relativamente agli ef-


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Vero: un nuovo mondo è anche quello venuto alla luce il 6 agosto 1945. Giungendo all’appuntamento col conflitto mondiale proponendosi fini diversi, i belligeranti si rivelarono in conclusione tanti mezzi impiegati dalla tecnica per accrescere la propria potenza e sancire la sua totale affermazione. Ancor più di quella sui campi di battaglia, la guerra dei laboratori combattuta per la vittoria delle «tribù» portò alla sconfitta dell’«umanità». Per Galimberti l’esperimento nazista costituisce l’«atto di nascita dell’età della tecnica»30 in virtù della pianificazione razionale dei suoi fini del tutto irrazionali (non a caso Anders definisce l’olocausto «sterminio istituzionale ed industriale di persone, […] di milioni di persone»).31 Al di là di un giudizio sulle diverse ideologie che si contrapposero, non può dirsi altrettanto del Manhattan Project? Si torni ora al Giappone, che il 15 agosto annunciò la definitiva resa: La data del 15 agosto 1945 si presentava come assolutamente unica negli annali nipponici. Nessun altro paese al mondo poteva infatti vantare un’autentica storia di invincibilità protrattasi per 15-16 secoli sicuri, e forse più se ci lasciamo tentare dalla protostoria. […] I giapponesi avevano dunque raggiunto una data che imponeva loro un salto cieco di qualità su tutta la linea della propria esistenza civile, religiosa, culturale, amministrativa, economica. La prova suprema – il Giappone contro il Mondo – era fallita. Una visione della propria identità, un endocosmo, un cosmo interiore, erano improvvisamente crollati, si erano disfatti in cenere: occorreva ripartire da zero, ridisegnare il proprio ritratto e reinventare il proprio destino.32 fetti della bomba cfr. The Committee for the Compilation of Materials on Damage caused by the Atomic Bombs in Hiroshima and Nagasaki, Hiroshima and Nagasaki. The Physical, Medical and Social Effects of the Atomic Bombings, Tokyo, Iwanami Shoten Publishers, 1979 (trad. ing. Eisei Ishikawa e David L. Silvian, Hiroshima City and Nagasaki City, 1981). Per quanto riguarda l’animazione, una testimonianza cruda e toccante dell’esplosione dell’atomica e delle sue conseguenze è il film Gen di Hiroshima (Hadashi no Gen, di Masaki Mori, 85’, Giappone 1983), tratto dal manga parzialmente autobiografico di Keiji Nakazawa. 30 U. Galimberti, op. cit., p. 47. 31 Günther Anders, Wir Eichmannsöhne, München, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, 1964 (trad. it. Antonio G. Saluzzi, Noi figli di Eichmann, Firenze, La Giuntina, 1995, p. 24). 32 F. Maraini, op. cit., p. 54.


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In una sequenza del film Il Sole di Aleksandr Sokurov (Solntse, 115’, Estonia 2005) dopo un colloquio con il generale MacArthur l’imperatore Hirohito apre da solo la porta che deve attraversare. Una scena dedicata a un gesto all’apparenza semplice, che però racchiude un significato estremamente importante. In esso è racchiusa la perdita dell’aura divina da parte della massima autorità nipponica, che compiendo un atto da semplice essere umano riporta l’orizzonte della nazione in una cornice del tutto terrestre. D’altronde, il nuovo padrone del mondo era ormai Prometeo e non più Zeus, il cui rappresentante dagli occhi a mandorla non poteva che farsi da parte.33 La porta dischiusa dall’imperatore è il varco lasciato definitivamente aperto al paladino dell’evoluzione tecnologica. Ma il crollo lascia dietro di sé un vuoto difficilmente colmabile. Per comprenderlo ci si serva ancora di una pellicola, stavolta autoctona: I figli del generale MacArthur (Setouchi Shônen Yakyû-dan, di Masahiro Shinoda, 125’, Giappone 1984).34 Esso si apre con una scena in cui gli alunni di una scuola cancellano a colpi di pennello tutti i riferimenti al recente militarismo contenuti nei loro libri, fin quando i piccoli protagonisti Ryûta e Saburo non s’imprimono grossi segni neri anche sulla faccia. Il loro volto è lo specchio dell’identità giapponese, cancellata e negata in seguito alla sconfitta subita. La conseguente anomia non può che avere delle ricadute pesanti sulle menti dei figli del periodo postbellico, tanto che Saburo annuncia che farà il gangster, non potendo più fare l’ammiraglio. Anche Ryûta è costretto a dare un colpo di spugna al suo immaginario, bruciando tutti i suoi disegni aventi come oggetto aerei e navi da guerra. Ma uno dei momenti più drammatici dell’intera vicenda si consuma quando la giovane maestra 33 La dinastia imperiale occupa ancora il suo trono, sì, ma i suoi rappresentanti non sono più considerati delle divinità. 34 Il titolo si riferisce al periodo immediatamente successivo al conflitto mondiale, durante il quale il Giappone fu occupato dall’esercito americano (1945-’52). Al generale MacArthur furono concessi pieni poteri per gestire la difficile fase del paese e traghettarlo verso un nuovo ordinamento politico ed economico. Nonostante l’imperatore fu lasciato al suo posto, la cultura tradizionale nipponica fu messa al bando in quanto ritenuta colpevole dell’aggressiva politica militarista condotta nel Pacifico. Cfr. Toshio Nishi, Unconditional Democracy. Education and Politics in Occupied Japan 1945-1952, Stanford (CA), Stanford University Press, 1982.


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Il Giappone del dopoguerra è presentato da Gô Nagai in Jeeg Robot Uomo d’Acciaio in bilico tra i rigurgiti nazionalisti del passato (i nemici Haniwa, a sinistra nella prima immagine) e una decadente modernità rappresentata dal protagonista Hiroshi, vestito all’americana col tipico look alla Elvis Presley. Un’immagine simile è presente in Zambot 3, in cui la rockstar (ritratta nel quadro dell’immagine a destra) è mentore dello spietato e grottesco Killer the Butcher. © Kôdansha Limited e Tôei Animation; Sunrise, Sotsu Agency e Nagoya TV.

Komako annuncia in lacrime ai suoi alunni l’ormai avvenuta occupazione del paese, invitandoli però a non demordere: «Il nostro spirito non sarà mai occupato». Ma il Giappone era ormai diventato una frontiera da trasformare ulteriormente. Dopo le navi e le bombe, arrivò anche il modello economico americano, portatore di una crescita vertiginosa e di una ventata di euforia che coinvolge non poco il fratello di Saburo, il quale si lancia nel mondo dell’imprenditoria volta alla «ricostruzione» di un paese distrutto, sulle cui macerie si posero le basi per un decollo vertiginoso: Per la prima volta i giapponesi sperimentavano un clima nel quale l’arricchirsi, l’aver successo nel mondo del denaro, la ricerca del benessere e del profitto furono considerate virtù. Macchine fotografiche, radio a transistor, automobili non furono più riservate soltanto ai ricchi ma si diffusero a tutti i livelli della popolazione che cominciava a sperimentare un benessere mai visto.35

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Piero Corradini, Il Giappone e la sua storia, Roma, Bulzoni, 1999, p. 405.


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Il giovane narikin36 però è destinato a essere travolto dalla prima ondata di benessere: si toglie infatti la vita impiccandosi. Quando il suo fratello minore si trova al cospetto della salma, sfila le sue scarpe lucide – bene di consumo – e le porta via con sé; ma non per impossessarsene come in principio potrebbe sembrare, bensì per gettarle in mare insieme a tutto ciò che esse rappresentano. Un «figlio di McArthur» può ritenersi a pieno titolo Toyoharu Yoshida, alias Ippei Kuri, nato nel 1939 e fondatore nel 1962 con i fratelli Tatsuo e Kenji della celebre Tatsunoko Production, una delle storiche case giapponesi di produzione di disegni animati. Ecco come il suo immaginario infantile elaborò il contatto con la nuova civiltà: «Con la resa del 1945 avevo visto crollare tutti i miei valori di bambino di sei anni. E poi c’erano questi soldati americani: giganteschi, con un sacco di roba da mangiare, il chewing-gum… E noi dall’altra parte, scheletriti dalla fame. Come potevamo credere di vincere contro gente simile? […] ci sentivamo vuoti, nel fisico per la fame, e nello spirito per la sconfitta dei nostri valori. Gli americani sembravano invece avere tutto. Mach Go Go Go […] riflette questa aspirazione verso quella che ci sembrava una società incredibilmente prospera: frigoriferi pieni di roba da mangiare, enormi automobili, un mondo che stava al di là dell’oceano e che noi potevamo vedere attraverso i loro programmi televisivi. Per noi disegnare quelle cose era un modo per farle nostre. Per quanto riguarda lo stile del disegno, fu decisivo l’incontro con i fumetti americani di Superman che giravano nei mercati subito dopo la guerra: nella mia ingenuità di bambino ero convinto che tutti gli americani fossero fatti così! I muscoli di Tekkaman, comunque, vengono da lì».37

Ecco invece quello che, cinquantatre anni dopo, egli poté considerare quando il processo di ibridazione tra il suo Giappone e gli Stati Uniti d’America era ormai concluso: 36 Termine, questo, nato nel periodo della prima industrializzazione del Giappone, quando i nuovi valori consumistici non erano ancora assurti al rango di norme guida della società. Il narikin è sostanzialmente l’ultimo arrivato, il nostro parvenu. Cfr. R. Benedict, op. cit., pp. 107-8. 37 Intervista su Man-ga!, n. 5, marzo 1998.


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«L’immagine che ho dell’America non è molto cambiata. Ma c’è qualcosa che mi sfugge in quello che sono diventati i giapponesi. Noi disegnavamo i nostri sogni, mentre con Evangelion mi sembra piuttosto che si entri in un incubo. Se è vero che chi ha visto la serie ha simpatizzato con i problemi che vi sono raccontati, mi chiedo a cosa ci ha portato questo eccesso di ricchezza, e se tale possiamo chiamarla».38

La dialettica tra sogni e incubo e la sua rappresentazione nella fantascienza nipponica sarà l’oggetto dei prossimi Capitoli.

38

Ivi.


IV. I segnavia di Prometeo

Prendendo in prestito un termine da Martin Heidegger, si vogliono infine offrire al lettore dei Wegmarken, dei ‘segnavia’,1 che possano suggerire il cammino da seguire lungo un sentiero di cui ancora non si può scorgere la fine. Si è quindi scelto di isolare dei singoli percorsi che attraversano il corpus degli anime trattati nell’Appendice, attraverso i quali ricostruire il mutamento della società giapponese determinato dall’impatto dell’iperestensione culturale sull’Arcipelago.

IV.1 Il robot/tecnica e il pilota/Giappone La metafora più doverosa è quella della rappresentazione del robot e del vincolo che lo lega al proprio pilota come specchio del rapporto tra il Giappone e la tecnica. Gli anime robotici2 infatti presentano diverse modalità di connotazione del gigante meccanico e della sua compatibilità con l’essere umano, rappresentazioni grafiche che nel corso dei decenni testimoniano lo sviluppo della società giapponese determinato dall’impatto con l’invasore. I primi due anime di genere nel senso ormai classico del termine, Super Robot 28 e Astroganga, raccontano di una tecnica percepita come estranea e dotata di un alone magico, a testimonianza di un paese non ancora consapevole del proprio destino e, seppur in grado di avvertire il 1 Cfr. Martin Heidegger, Wegmarken, Frankfurt am Main, Klostermann, 1976 (trad. it. Franco Volpi, Segnavia, Milano, Adelphi, 1987). 2 Per ciò che concerne il genere cfr. Arianna Mognato, Super Robot Anime. Eroi e robot da Mazinga Z a Evangelion, Milano, Yamato Video, 1999; M. Pellitteri, Il Drago e la Saetta, cit., pp. 151-89. Cfr. anche la Enciclo*Robo*Pedia al sito Encirobot.com.


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pericolo incombente, ancora soggiogato dal miracolo tecnologico. Shôtarô pilota sì il Super Robot 28 ma da lontano, con un radiocomando che ne direziona i movimenti, mentre Charlie è addirittura assorbito da Astroganga che è il vero protagonista dello scontro; non è un caso allora se i piloti di questi due robot siano molto giovani, come lo è la storia del dopoguerra del Giappone, ancora «stordito» dal proprio radicale rinnovamento. Le cose cambiano a partire da Mazinga Z, realizzato nello stesso anno di Astroganga ma decisamente più avanzato rispetto alla tematizzazione del rapporto tra l’uomo e la macchina. L’opera di Nagai inaugura lo stilema del vincolo simbiotico tra il pilota e il suo robot, con il primo che arriva addirittura a soffrire per le ferite inferte al secondo, segno di una percezione più chiara del conflitto in atto. Scrive Di Fratta: Nel corso degli anni Settanta, il Giappone è nel pieno processo di trasformazione da società industriale a società post-industriale. Valori e schemi di vita cambiano radicalmente, gli ideali e le speranze del dopoguerra stanno lentamente declinando per lasciare il posto a una società fondata sui consumi ma che conserva anche abitudini, costumi e visioni del mondo tradizionale. I robot anime della prima generazione si pongono proprio in questa prospettiva, come rappresentazione del dualismo nipponico di quegli anni, piuttosto che come espressione di un disagio che, forse senza consapevolezza, mirano a nascondere. Probabilmente, i robot sono l’aspetto che più incarna le contraddizioni di questo Giappone. La loro natura tecnologica richiama l’aspirazione nipponica di creare il «regno dei robot» e una relativa proiezione verso il futuro ma, al contempo, essi conservano il loro aspetto tradizionale, i loro atteggiamenti samuraici. I due opposti convergono e i robot giganti si rivelano, alla fine, come il simbolo di un’era di transizione: da una parte uno stretto ancorarsi alla storia idealizzandola e dall’altra la rappresentazione di una società che segue il suo corso.3

3 Gianluca Di Fratta, «Robot anime. Robofilia e tecnocentrismo nel cinema di animazione giapponese», in Id. (a cura di), Robot. Fenomenologia dei giganti di ferro giapponesi, Caserta, L’Aperìa, 2007, pp. 54-5.


IL ROBOT/TECNICA E IL PILOTA/GIAPPONE

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La fusione del corpo di Takeshi in Ufo Diapolon è la metafora perfetta di un Giappone costretto a svilupparsi per aderire al letto di Procuste confezionatogli dall’esterno. © Eiken.

I piloti nagaiani sono infatti adolescenti: il Giappone postbellico cresce di pari passo ai suoi eroi animati. Kôji, Tetsuya e Actarus sono strettamente legati al proprio mezzo, ma va sottolineato che è in Jeeg Robot Uomo d’acciaio e Gakeen, il robot magnetico (Magne-Robo Ga-kin, 1976) che l’invasività della tecnica e il suo conseguente ridimensionamento trovano una rappresentazione più adeguata: da una parte c’è Hiroshi che diventa la testa del suo Jeeg mentre dall’altra Takeru e Mai si fondono insieme a Gakeen, trasformazione dotata anche di allusioni sessuali che testimoniano una progressiva perdita d’«innocenza». Interessante nell’ottica di questo discorso è anche una serie non di Nagai, UFO Diapolon, in cui il pilota si fonde col suo robot aumentando le dimensioni del proprio organismo per renderle pari a quelle di un gigante dalla foggia americana. Il corpo del Giappone, quindi, si sviluppa per aderire al vestito confezionato dallo straniero. Solo in pochissimi anni si assiste a una decisiva inversione di tendenza, il passaggio di consegne tra quelle che Alessandro Gomarasca e Di Fratta, sulla scorta del dibattito giapponese in tema, hanno definito scuola ortodossa e scuola realista. Quest’ultima fa capo a Yoshiyuki Tomino, il quale con Zambot 3 inizia la «desacralizzazione» del robot samuraico (Kappei vi entra dai piedi) proseguita dal Daitarn 3 e le sue espressioni facciali, che riportano sulla Terra un automa precedentemente dall’aspetto invulnerabile e idealizzato. Ma è soprattutto con la più volte citata Gundam che si assiste a un avvicendamento decisivo, quello che porta dal robot al mecha, non più estensione tecnologica del pilota e dello spirito da samurai da esso incarnato ma semplice arma ri-


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producibile in serie e priva di ogni attribuzione valoriale.4 La tecnica qui è parte integrante e ordinaria delle vicende raccontate, segno di una progressiva acquisizione dell’elemento esogeno da parte del Giappone. Essa però è causa di sempre maggiori distruzioni ed è privata della componente salvifica che l’aveva contraddistinta fin dal primo Astroboy. Il «germe» appare quindi propagarsi sempre più e l’«antidoto» perdere la sua capacità curativa. Termina la dialettica tra passato e presente di stampo nagaiano e si cercano soluzioni in un futuro ignoto e privato del rassicurante riferimento alla cultura tradizionale. Il fatto poi che il mecha, a differenza del robot, non sia una diretta estensione del proprio pilota la dice lunga sulla difficoltà dell’essere umano di controllare una cultura tecnologica che si accresce esponenzialmente. Non è allora un caso se l’anno successivo vengano alla luce i due robot che lavorano diversamente ai fianchi il mito dei giganti meccanici decretandone il knock-out: la serie più allegra, Trider G7, e quella più drammatica, Baldios, presentano un robot privato di ogni connotato di assolutezza, che nel primo caso viene usato come banale mezzo di trasporto (a volte per dei giocattoli, per giunta) e nel secondo non basta a salvare l’irresponsabile umanità. Dopo Gundam, nella cornice della scuola realista va collocata Macross (altra serie che dell’assimilazione dell’elemento straniero fa uno dei suoi cardini), in cui gli aerei-robot Valkyrie sono strumenti di guerra prodotti in serie e intercambiabili, tendenza che si fa ancora più radicale con Patlabor (Kidô Keisatsu Patoreiba, 1988).5 I Labor sono robot di dimensioni ridotte rispetto alle immense montagne di acciaio precedenti, così come lo sono anche i Gaimelef dei Cieli di Escaflowne e gli Arm Slave di Full Metal Panic!. Queste estensioni dell’essere umano, però, anziché essere foriere di quel rasserenamento che si potrebbe auspicare, lasciano traspirare un’inquietudine: un robot a misura d’uomo, 4 Cfr. ivi, pp. 55-6. In realtà il termine mecha compare in diversi anime antecedenti: si pensi, solo per fare alcuni esempi, ai mechasatan di Danguard o ai mecha burst/mecherbusuto di Zambot 3. Resta il fatto che in ogni caso è con Gundam, serie spartiacque da più punti di vista, che tale concetto prende compiutamente forma discostandosi dai canoni precedenti. 5 Non a caso altra serie della Sunrise, la casa di produzione più rappresentativa della scuola realistica come la Tôei lo è di quella ortodossa.


IL ROBOT/TECNICA E IL PILOTA/GIAPPONE

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totalmente integrato nella vita quotidiana, non perde forse la capacità di frapporsi fra l’umanità e il pericolo che la minaccia?6 Ciò non potrebbe invece – si potrebbe obiettare – testimoniare l’estinzione di quest’ultima, in seguito a uno sviluppo finalmente sereno e armonioso? In questa sede non si può far altro che imputare questo fenomeno alla piena propagazione del «germe» del progresso nel tessuto epiteliale nipponico, ormai invaso dalla «malattia» e perciò impossibilitato a proporne la cura: Come nella storia della modernizzazione del Giappone, anche nelle saghe robotiche la «pressione aliena» determina il cambiamento. Il mutamento concerne tecnologia e corporeità, implicando un processo di identificazione con l’aggressore […] Per far fronte alla minaccia esterna, la società umana deve incorporare gli strumenti tecnologici del nemico (come abbiamo osservato, molte saghe robotiche ritraggono un processo di transfer tecnologico fra alieni e terrestri che potrebbe essere letto come una metafora della trasformazione tecnologica del Giappone moderno); contemporaneamente, il corpo dell’eroe deve trasformarsi così da assumere le stesse dimensioni e gli stessi poteri delle forze straordinarie che minacciano la società. […] Il meka[mecha]-corpo costituisce l’immagine ultima di una lunga storia di costruzione politica del corpo (individuale e nazionale) cominciata più di un secolo fa con l’apertura del paese e caratterizzata da una specifica ossessione per la crescita […] in una tensione competitiva con il modello occidentale. Nel corso della modernizzazione giapponese questo modello è divenuto l’Altro interiorizzato e ha generato una serie di tensioni dinamiche come quella fra tecnologia e cultura, modernità e tradizione, carne ed anima.7

6 Proiettandoci oltre il lasso di tempo oggetto d’analisi, si pensi che nella scanzonata serie della Gainax Sfondamento dei cieli – Gurren Lagann (Tengen toppa Guren Ragan, 2007) sono presenti popolazioni che vivono nel sottosuolo e altre che occupano la superficie. Il protagonista Simon, giovane scavatore che opera per ampliare il suo villaggio ancora più in profondità, rinviene il mecha Lagann grazie a una chiave luminescente a forma di trivella. Il mecha è giunto dalla superficie al sottosuolo e da lì viene usato per fuoriuscire. Non dalla terra verso il cielo, quindi, ma dal sottosuolo verso la terra. 7 Alessandro Gomarasca, «Robottoni, esoscheletri, armature potenziate: le metafore del “meka”corpo nell’animazione giapponese», in Id. (a c. di), op. cit., pp. 254-5.


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Più che un simbolo reale di cambiamento e ibridazione [...] la robotizzazione giapponese può essere interpretata come il risultato di un adattamento epidermico del corpo giapponese alla pressione straniera. In definitiva, il robot è semplicemente una corazza difensiva, una parete esterna che serve a preservare l’integrità dell’ego nipponico e proiettarlo verso il futuro.8

Ecco dunque che gli anime robotici si rivelano essere uno specchio dello sviluppo del Giappone. Da un primo stordimento si passa alla consapevolezza per la propria dolorosa situazione, per poi alla fine realizzare di avere completamente assorbito l’elemento perturbatore. Quando allora compare un robot dotato di dimensioni ortodosse e peculiarità realistiche (si pensi al lungo processo che il pilota deve compiere per farlo semplicemente deambulare), l’«unità Eva» di Neon Genesis Evangelion, ecco che esso non deve più difendere Tokyo e la natura che la circonda; tutto è stato spazzato via dal catastrofico evento Second Impact e rimpiazzato da Neo-Tokyo 3, fortezza costruita per difendere quello che resta di un’umanità che si percepisce come già condannata. Si tenga inoltre presente che in questa serie la corazza del robot non difende il pilota ma contiene l’espansione della sua massa, dal momento che gli Eva sono esseri organici che si servono di chi li manovra per far emergere la propria natura. La tecnica anziché proteggere l’essere umano lo inghiotte al suo interno; i fattori del processo si sono alla fine invertiti. Non si può però evitare di sottolineare anche gli aspetti positivi di questo processo: nel passaggio da società industriale a postindustriale v’è anche, assumendo un altro punto di vista, una riduzione dell’impatto della tecnologia dovuto alla sua miniaturizzazione e alla sua assimilazione in dinamiche quotidiane concernenti la sfera affettivo-relazionale. L’umanità non è ancora in grado di riprendere in mano le redini dell’evoluzione culturale tout court, che anzi galoppa con passo sempre più spedito; ciò non toglie che alcuni congegni possano essere integrati in maniera indolore nell’alveo delle singole esistenze. Non più legata alle grandi questioni etiche ma ai vissuti individuali, la tecnica si rivela un’alleata fedele dell’essere umano apportando benefici alla sua psiche. 8

G. Di Fratta, Robot anime, cit., p. 68.


ADDIO, TETSU; BENVENUTO, KAWAII

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IV.2 Addio, tetsu; benvenuto, kawaii In principio nell’animazione giapponese la tecnologia è collocata in una dimensione prettamente etica, all’origine quindi di un’inevitabile adozione di responsabilità. Già dal primo Astroboy ciò si avverte in maniera piuttosto chiara, in occasione del passaggio del meteorite contro cui si scaglia Astro, appuntamento epocale al quale l’uomo deve essere presente per scongiurare la propria estinzione. Questo è il Leitmotiv del primo ventennio della fantascienza animata nipponica, l’epoca delle serie Tôei che ospitano i grandi robot di Nagai e i viaggi interstellari di Matsumoto, in cui l’agire degli eroi è sempre iscritto in un orizzonte di senso preciso e legato a domande relative al futuro che ci attende. È anche l’epoca in cui la tecnologia viene rappresentata attraverso stilemi grafici giganteschi, spia della percezione del poderoso impatto di Prometeo sul mondo in cui viviamo e sulle nostre stesse vite; non a caso uno dei termini più ricorrenti del periodo è tetsu, ‘ferro’, che si riscontra nei nomi dei robot (Tetsujin 28-Gô e Kôtetsu Jeegu) e degli eroi come Tetsuya Azuma (Kyashan, il ragazzo androide) e Tetsuya Tsurugi (Il Grande Mazinga). Il tetsu è simbolo della modernità e della società industriale, della «modernità solida» messa da Bauman in contrapposizione a quella «liquida».9 Tale differenza è resa anche dal passaggio dal moderno al postmoderno, finora non tematizzato perché giudicato ininfluente nell’ottica della storia riletta alla luce del concetto di iperestensione culturale, ma che presenta delle distinzioni da prendere in considerazione contestualmente a questo segnavia. Fondamentali, in proposito, sono il passaggio dalla centralità della produzione a quella dei consumi (almeno per le nazioni più sviluppate), e la fine delle grandi narrazioni, di cui si era appunto alimentata la modernità (cfr. la scheda sulla serie Cowboy Bebop).10 Scrive Pellitteri:

Cfr. Z. Bauman, op. cit. E, naturalmente, cfr. Jean-François Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Paris, Les Éditions de Minuit, 1979 (trad. it. Carlo Formenti, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981). Cfr. inoltre il Paragrafo II.2 in relazione all’analisi di Severino e Galimberti sul rapporto tra lo sviluppo della tecnica e il dissolvimento delle ideologie. 9

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in Giappone la familiarità con l’automazione, con le macchine e con i robot non si declina solo nella dimensione industriale. Oltre alla componente materialista, massiva, relativa alla produzione, è forte nel Sol Levante un orientamento postmaterialista alla Icona primigenia della cultura kawaii e parto dell’animismo robotica e agli oggetti tecnologico dei giapponesi, Doraemon è stato insignito del titolo di ambasciatore del paese di cui è a tutti gli effetti un meccanici, elettronici, che degnissimo rappresentante. pur nel loro essere sintetici sostituiscono relazioni affettive. Questa tendenza alimenta dal secondo dopoguerra una poderosa industria del voluttuario, che nei decenni ha trovato sbocchi commerciali ed estetici in culture giovanili come il kawaii con i suoi fancy goods […].11

Quella del cosiddetto kawaii, legata ai fenomeni accennati al Paragrafo III.3.2.7, è una cultura giovanile nata tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Questo termine può essere reso attraverso l’inglese cute o l’italiano ‘carino’.12 Come si può quindi facilmente evincere, essa predilige tutto quanto vi è di infantile e tenero e ciò si traduce, nell’ottica della centralità del consumo, nel possesso di innumerevoli beni di consumo che hanno proprio tali fattezze. Un’icona di tale cultura è il gatto robot dalle tenere sembianze tondeggianti Doraemon, protagonista della serie omonima (1973), da cui ha origine il filone della tecnica kawaii inscritto nel solco di quello tetsu, affiancato negli anni 11 Marco Pellitteri, «Promemoria per un discorso sul robot e sull’uomo artificiale», in G. Di Fratta (a c. di), Robot, cit., p. 163. 12 «Esplosioni di rosa. Caramelle e bolle di sapone. Scarpe di vernice o sandali di gomma coloratissimi. Mollette per capelli di plastica rubate alle confezioni delle Barbie. E vestiti da bambini. Il tutto schizofrenicamente accoppiato a ombretti verdi color verde elettrico […] Il kawaii è uno stile, un’estetica, una moda giovanile. E insieme un modo di pensare, di essere, di parlare, di scrivere, di atteggiarsi. […] Kawaii è tutto ciò che finisce in “ino”, che è infantile, asessuato, dolce, indifeso, che è oggetto di coccole». Alessandro Gomarasca, «Sotto il segno del kawaii», in Id. (a c. di), op. cit., pp. 57-61.


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Settanta e soppiantato nel decennio seguente. Già i ciusky del gatto robot sono emblemi di una tecnologia «tascabile» e legata non alle sorti dell’umanità ma a piccole storie di vita quotidiana, non certo apportatrice di danni incalcolabili malgrado l’uso operatone dal maldestro Guglia. Si capisce facilmente che questa serie, dalla vocazione piuttosto pedagogica, è rivolta a un pubblico infantile e preadolescente e il suo protagonista zooide è amato da chi adotta un’estetica legata a tale stadio dello sviluppo. Anche le Time Bokan series, in particolare Yattaman, strizzano l’occhio allo stesso pubblico, dando asilo a un’analoga concezione della tecnica, circoscrivibile al motto «piccolo è bello». Ma è con gli anni Ottanta che il kawaii prende a dominare la scena, soprattutto a partire da Il Dottor Slump e Arale. La cornice che delimita le vicende è totalmente cambiata rispetto a quella del primo Astroboy, di cui la versione del 1980 termina non a caso con l’innamoramento del protagonista anziché con la sua eroica morte. Quando nasce Arale si chiede dove siano le armi con le quali deve salvare il mondo, di cui naturalmente è sprovvista poiché non v’è alcuna minaccia da scongiurare. Tutto è inscritto all’interno di dinamiche non etiche ma affettive, a partire dall’intenzione del Dottor Slump di creare la simpatica protagonista per un qual certo senso paterno, espresso in modo buffo. Anche Nanà Supergirl è lo specchio di questo mutamento; da notare che nel corso della serie la ragazza venuta dallo spazio si accompagna a due piccoli pets robotici di nome Seven e Eleven, tipici esempi di estetica kawaii. Si passi poi a Juny peperina inventatutto, in cui la piccola inventrice porta con sé sì una scatola di comandi come Shôtarô (Super Robot 28) dotata però della forma di un cuore, foggia che vale più di mille parole. Esempi di tecnologia kawaii sono anche i robottini Floppy e Flappy, le cui piccole dimensioni sono inversamente proporzionali alla tenerezza che sanno ispirare. Di questi ultimi si era già scritto in III.3.3.1, collocandoli sullo stesso piano di IQ 9 (Star Blazers) e altri piccoli automi. Il discorso intrapreso in questo Paragrafo si lega quindi a quello relativo al mito di Frankenstein, poiché entrambi traggono origine dall’atavico sogno dell’essere umano di infondere la vita, che secondo il credo animista è ospitata in ogni ente, anche inorganico. Se essa viene infusa a estensioni da noi controllabili non solo in virtù della loro ridotta dimen-


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sione ma anche del patto emotivo che sappiamo stringere con esse, si estingue il rischio di poter diventare, nel bene e/o nel male, demoni o dèi come Rio/Kôji Kabuto in Mazinga Z. L’essere umano può così instaurare un rapporto equilibrato con quanto lo circonda. Ma non è tutto oro quel che luccica: ci sono infatti anche altri fattori da considerare.

IV.3 Il presente, il futuro e il ritorno Una fondamentale peculiarità della fantascienza è la proiezione dei problemi attuali in una dimensione futura nella quale essi possano trovare una immediata soluzione simbolica presentata come cura per i mali presenti. Le ambientazioni sono quindi, molto spesso, necessariamente futuriste. Nel caso della fantascienza animata giapponese, fulcro di questo discorso, si pensi alle serie di Matsumoto, che trovano collocazione in un remoto domani in cui i viaggi interstellari la fanno da padrone, oppure a quelle che prendono il via da un dopoguerra, come Conan, il ragazzo del futuro e Ken il guerriero; ci sono poi gli anime che spingono alle estreme conseguenze le possibilità dell’ingegneria genetica e quelli che fanno altrettanto con i rischi dell’inquinamento; infine quelli che, tra passato e futuro, tramite il topos narrativo dell’invasione aliena portano alla materializzazione di tutte le inquietudini della società. Tutti gli assunti finora espressi sono pienamente rispettati fino alla fine degli anni Settanta, epoca il cui epilogo è decretato dalla farsa (Trider G7) e dalla tragedia (Baldios), che in modi opposti ma complementari decretano l’allentamento della forte tensione etica del decennio in questione. Dagli anni Ottanta lo scenario subisce una mutazione, a cui concorrono anche i fattori analizzati nel Paragrafo precedente, i quali, nonostante le ricadute positive, concorrono alla fine delle grandi narrazioni moderne; la conseguente centralità del quotidiano porta a un sostanziale abbassamento della guardia, determinato anche dall’avanzata del «germe» a discapito della capacità curativa dell’«antidoto». Le serie degli anni Ottanta non presentano più scenari futuribili: persino gli anime che hanno per tema scontri tra civiltà che abitano mondi diversi, co-


IL PRESENTE, IL FUTURO E IL RITORNO

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me Macross, vengono situati in un futuro piuttosto prossimo (inizio anni Duemila), per non parlare di Patlabor, che si svolge nel 1998, solo dieci anni dopo la sua effettiva realizzazione. Va sottolineato che anche una serie come Daltanious ha un’ambientazione piuttosto ravvicinata (1995), al pari di Ken il guerriero (fine anni Novanta) e Conan, il ragazzo del futuro (2008), le quali però prendono il via da una guerra totale, potendo così affrontare subito il nucleo centrale della questione. Certo, per quanto riguarda questa tematica va sottolineato che essa era comunque destinata a perdere la sua importanza conseguentemente al trascorrere del tempo che ha portato alla ribalta una generazione edotta sull’ecatombe di Hiroshima e Nagasaki solo attraverso immagini e racconti lontani dalla reale percezione dell’accaduto; il fatto però che la minaccia non sia più avvertita in tutta la sua effettiva entità chiaramente non cancella la sua permanenza. A livello mondiale la distensione tra USA e URSS nella seconda metà degli anni Ottanta ha reso la bomba atomica un’ossessione meno presente nella mente degli esseri umani, ma questo non ha certo scongiurato la sua esistenza e ancor di meno ha potuto farlo l’affievolirsi del suo impatto nella memoria collettiva giapponese. E anche se così fosse, di sicuro non sarebbe scomparso l’altro pericolo che grava sulla testa del genere umano, la possibile catastrofe ambientale, il cui impedimento solo a parole trova posto nelle priorità della politica mondiale. Queste osservazioni tendono a sottolineare il fatto che gli anime prodotti in questo decennio sono sì spie di una relativa pacificazione del Giappone con sé stesso e con il resto del mondo, ma anche di un ottimismo – seppur corroborante – ingiustificato, sogno fugace bruscamente interrotto dall’«incubo» narrato in Neon Genesis Evangelion (ambientato nel 2015). Le ambientazioni futuriste cominciano quindi a mischiarsi con quelle retrò in Cowboy Bebop, vera summa del postmoderno, anime la cui raffinatezza è direttamente proporzionale all’amara disillusione che si percepisce nel finale e durante l’intera visione della serie. In Full Metal Panic! si arriva addirittura al paradosso di riesumare la passata Guerra fredda pur di creare un contesto conflittuale la cui pedagogica risoluzione solo in parte riabilita la sterilità dei contenuti (la presenza della bomba atomica appare un mero espediente narrativo, fine a sé stesso).


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Il ribaltamento del topos narrativo presente nella serie dello studio Gonzo viene estremizzato da un’altra opera della stessa casa di produzione, Last Exile: non è certo l’anime in sé a sancire questo passaggio, ma il genere in cui si inscrive, lo steampunk. Sua tipica collocazione temporale è l’età paleoindustriale, epoca in cui il mito della macchina era agli albori e quindi nel pieno della sua esaltazione riverberantesi nelle vanship, vere coprotagoniste dell’anime. L’ambientazione delle vicende in un tempo storico in cui il conflitto tra Epimeteo e Prometeo inizia a inasprirsi potrebbe apparentemente suggerire una sua improponibile risoluzione, che invece avviene nel modo più «classico», con il ritorno alla natura. L’Exile infatti è ciò che «guida il bambino smarrito alla mano della madre» fino a «il luogo in cui tutto ha origine, il luogo in cui tutto ritorna». Il riferimento al passato si radicalizza allora come «ritorno» e non come mero rifugio di un’immaginazione che non tiene più il passo della realtà. Il tempo ripiega su sé stesso e riscopre la propria circolarità, arrivando alle stesse conclusioni delle serie che ne implementavano la concezione lineare. Giungono così degli spunti di riflessione che lasciano ben sperare per il futuro.

IV.4 I semi degli anime e il futuro di Gea La riproposizione dell’invito a un ritorno alla natura è uno dei meriti di Last Exile. Ai Paragrafi III.3.1 e III.3.1.1 si è analizzata la costante presenza del monito al ripristino di un sereno rapporto con Gea nell’animazione nipponica. È bene sottolineare che nel rimarcare questo concetto non si perde la cognizione della realtà e si è ben lontani dal ritenere che attualmente sia possibile il ristabilimento di una convivenza armoniosa con l’ambiente circostante. Ciò è dovuto anche alla consapevolezza dell’essenza già di per sé perturbatrice dell’impatto umano sull’ecosistema, che la modernità, seppur a ritmi vertiginosi, ha soltanto accelerato. Il conflitto tra evoluzione biologica e evoluzione culturale è stato scelto in questa sede quale cifra riassuntiva della costituzione ontologica dell’Homo sapiens anche in considerazione delle teorie «negantropiche», secondo cui la nostra specie è sostanzialmente incompa-


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tibile con il resto della biosfera.13 Nonostante questo è però necessario tentare di ristabilire una relazione più sana con l’ambiente che ci accoglie e verso il quale continuiamo ad adottare un atteggiamento di totale – e irrazionale – antagonismo. Essendo il paese che nel corso dell’era moderna ha subìto il processo di industrializzazione più drastico, il Giappone ha avvertito più di ogni altro le implicazioni di questa tendenza. Ha così prodotto una vastissima gamma di «anticorpi» in pieno accordo con lo spirito della fantascienza, i cui esemplari sfociano (quasi) sempre in una soluzione positiva, ossia il totale risanamento della frattura. Basti pensare che il primo anime televisivo a colori, Kimba, il leone bianco, verte proprio sul rapporto tra l’essere umano e le altre specie, cercando di guidarci sulla via del rispetto reciproco. Anche le avventure dei supereroi della Tatsunoko ci mettono costantemente in guardia sui pericoli del deterioramento ambientale, conformemente allo Zeitgeist degli anni Settanta, decennio simbolo della produzione animata inerente la problematizzazione dell’iperestensione culturale. Pure tutta l’opera di Nagai e Matsumoto del periodo è un costante monito a non sovvertire eccessivamente i delicati equilibri naturali, per non parlare – tra gli altri – di Conan, il ragazzo del futuro, serie in cui sono già presenti tutte le tematiche che Hayao Miyazaki svilupperà nei suoi successivi lungometraggi. Ma al di là delle opere che vedono la partecipazione di questi artisti e/o si ispirano direttamente ai loro manga, è l’intero corpus dei prodotti culturali giapponesi a presentare sempre soluzioni che, in pieno accordo con la sensibilità nipponica, suggeriscono il ristabilimento del contatto con la «madre». Eppure, anche in questo caso negli anni Ottanta v’è un forte calo dell’attenzione riguardo questa istanza, che permane per lungo tempo. Ciò potrebbe essere dovuto semplicemente alla crisi del genere dopo la sua precedente inflazione, ma è presumibile che fattori quali il ricambio generazionale e il progressivo e inesorabile sviluppo del paese abbiano avuto il loro peso nel processo. Parlando di generazioni, però, si deve 13 Cfr. T. Pievani, op. cit. A riguardo, risulta emblematica la storia della Foresta Rossa, pineta situata nei pressi di Černobyl’: così chiamata per il colore assunto a causa dell’enorme dose di radiazioni subita in seguito al disastro nucleare, sembrò condannata a essere un luogo di morte. Lentamente, invece, grazie all’assenza dell’essere umano, ha ripreso vita e oggi è un’oasi di biodiversità.


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tener presente la loro successione, che mantiene viva la speranza nella fioritura di una nuova consapevolezza; se quella del dopo-bomba è stata educata dalla storia recente, non è certo una farneticazione augurarsi che la sua produzione culturale abbia influenzato chi ne ha fruito a suo tempo e magari oggi si trova dall’altra parte della barricata, dove tornare a produrre gli «anticorpi» necessari, che a loro volta «preserveranno» anche l’impegno delle generazioni a venire. Di certo queste dovranno confrontarsi con gli eventi successivi al terremoto sottomarino dell’11 marzo 2011, che inevitabilmente segneranno la coscienza collettiva giapponese. In ogni caso ora è troppo presto per poter presumere in che modo e in che misura ciò avverrà. Continuando ad adottare il paradigma indiziario per far emergere significati da opere già edite, diventa facile rinvenire la paura per le catastrofi naturali nei prodotti partoriti da un paese situato in una delle zone più sismiche del pianeta. La loro esortazione a prepararsi materialmente e psicologicamente ad affrontare tali situazioni cede il passo di fronte all’imprevedibile forza d’urto della natura, che in alcuni casi supera ogni genuina capacità di previsione. Il senso di smarrimento coglie così l’essere umano, il quale vede spazzate via le barricate erette dal suo pensiero e dalla sua azione per difendersi da una Gea che, pur sempre madre anche se a volte «matrigna», non si cura delle ricadute che lo sviluppo della propria morfologia possa avere sui suoi figli. Nel 2009 lo studio Bones ha infatti prodotto un anime di Natsuko Takahashi basato sui possibili esiti di un terremoto a Tokyo, traducendo in forma audiovisiva attendibili studi scientifici e le previsioni basate su di essi: il suo nome è Tokyo Magnitude 8.0, grado inferiore a quello da cui è scaturito il maremoto che ha travolto la prefettura di Miyagi, di magnitudine 9.0. Una breve serie realistica e toccante,14 che sviluppa presupposti molto simili a quelli da cui si dipana il manga del 2006 di Usumaru Furuya 51 modi per salvarla (Kanojo wo Mamoru 51 no Houhou), edito in Italia nel 2010: il sisma qui è di grado sostanzialmente analogo e la trama si svi14 Qui, tra l’altro, i robot sono rappresentati come amici dell’uomo, dal momento che vengono impiegati su larga scala nelle operazioni di soccorso. Inoltre i giovanissimi protagonisti Mirai e Yûki si trovano sull’isola di Odaiba al momento della violenta scossa perché spintisi fin lì per visitare una mostra di robot, di cui il piccolo Yûki è grande appassionato.


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luppa a partire dallo stesso luogo, l’isola artificiale di Odaiba, situata nella baia della capitale. Altra opera del filone catastrofista prodotta in questi ultimi anni è l’OAV in due parti della Madhouse Taiyô no Mokushiroku (tit. internaz. A Spirit of the Sun, 2007), tratto dal manga eponimo di Kaiji Kawaguchi, dove una scossa tellurica spacca letteralmente in due l’Arcipelago. Va inoltre menzionato il manga di Gô Nagai Violence Jack, in cui si registra nel Kantô, regione di Tokyo, il finzionale terremoto di grado 9.0 che distrugge la città: sembra che la vocazione apocalittica del mangaka di Washima, nelle cui opere la coltre della civiltà è spesso annientata dall’eruzione di forze oscure, sia stata in grado di anticipare la realtà in misura più prossima delle proiezioni di scienziati e tecnici. Ma in questo studio più del terremoto, sul quale l’uomo non ha alcun potere se non quello di proteggersi al meglio delle sue possibilità (in questo caso il progetto di dominio tecnologico della natura si rivela un castello di carte), interessa la questione del conseguente incidente alla centrale nucleare di Fukushima:15 anche in questo caso la cultura è sfuggita al controllo dell’essere umano. Occupato e smilitarizzato, il Giappone fu privato della possibilità di esercitare un peso sullo scacchiere politico e militare, lanciandosi dunque in uno sviluppo industriale e tecnologico senza precedenti a fondamento anche della qualità delle sue avanzate infrastrutture, in grado di evitare alla propria popolazione guai peggiori in occasione dei frequenti cataclismi. La politica dell’energia nucleare fu implementata pure per questa ragione, per trainare la locomotiva di un paese privo delle risorse sufficienti per perseguire tale fine (si consideri inoltre il forte impatto che su di esso ebbe la crisi petrolifera del 1973). In diversi anime qui analizzati, come mostrato in Appendice e come in parte anticipato al Paragrafo III.3.1.2, si pone l’attenzione sull’uso che l’essere umano può fare di grandi fonti di energia, anche quella nucleare: 15 Considerando quanto argomentato finora, appare quasi «naturale» il fatto che in Giappone sia stato spiegato ai più piccoli quanto stesse succedendo tramite un cortometraggio a disegni animati realizzato da Kazuhiko Hachiya, dal titolo Nuclear Boy. Qui il reattore nucleare prende le fattezze di un bambino alle prese con un mal di pancia causa di flatulenze indesiderate, metafora delle perdite di agenti radioattivi. Il cortometraggio ha il merito di essere nel contempo comprensibile e rassicurante: Nuclear Boy non avrà la diarrea come Černobyl’ Boy, sia perché il suo mal di pancia è meno grave sia perché gli adulti si stanno impegnando a contenerne le perdite.


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non si dimentichi che, nella versione originale, il protagonista di Astroboy si chiama Atom. Sperimentati i tragici effetti del nucleare a uso militare, il Giappone ha pur lungo tempo coltivato la speranza che il suo uso civile fosse portatore solo di vantaggi: oltre all’anime di Tezuka, suggestioni a riguardo giungono da serie quali Astroganga, Mazinga Z, UFO Diapolon, Starzinger, Supercar Gattiger… Di fronte al propagarsi di radiazioni nocive per la salute, a prescindere dalla portata del loro impatto, la linea di demarcazione che separa i due volti di Prometeo tende però a farsi più labile, ad annacquarsi. Presumibilmente i prodotti culturali di là da venire rifletteranno le inquietudini che ne conseguono. Il premier nipponico Naoto Kan ha affermato che nel marzo 2011 il paese è stato chiamato ad affrontare la crisi più grave dal 1945. Il Giappone si prepara, durante la stesura finale di questo libro, a una nuova ricostruzione su un nuovo deserto, su nuove macerie, seppur di causa e natura diverse rispetto a quelle scaturite dal pikadon. Forse gli anime fruiti nel corso degli anni aiuteranno psicologicamente i figli di Amaterasu nell’adempiere tale compito, magari anche influenzando e ispirando il concepimento di opere in grado di riportarci a porre domande riguardo il nostro posto nel mondo, a riconsiderare il nostro rapporto con la natura mediato dalla tecnica. Se l’analogia fra fiaba e prodotto culturale è pertinente per quanto riguarda il rapporto fra produzione e consumo, perché non potrebbe dirsi altrettanto per quanto riguarda la loro funzione all’interno della società? Riguardo le fiabe, scrive così ancora Bettelheim: Ascoltare una fiaba e recepire le immagini che essa presenta può essere paragonato a uno spargimento di semi, che solo in parte germogliano nella mente del bambino. Alcuni di essi hanno immediatamente effetto nella sua mente; altri stimolano processi nel suo inconscio. Altri ancora hanno bisogno di riposare a lungo fino a che la mente del bambino abbia raggiunto uno stato idoneo alla loro germinazione, e molti non metteranno mai radici. Ma quei semi che sono caduti sul terreno adatto produrranno fiori meravigliosi e alberi gagliardi – cioè daranno validità a importanti sentimenti, incoraggeranno intuizioni, ridurranno ansie – e così facendo arricchiranno la vita del bambino nel presente e per il resto della sua vita.16 16

B. Bettelheim, op. cit., p. 151.


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Ancora una volta il Giappone si configura come microcosmo del mondo intero. La sequenza finale dell’appena citato Tokyo Magnitude 8.0 reca suggestioni simili a quelle appena riportate: l’adolescente Mirai, ‘futuro’, annaffia l’ippocastano piantato dal fratello Yûki, morto nel sisma che ha ricompattato la famiglia Onozawa, riavvicinatasi per affrontare la tragedia. Dalle difficoltà del presente possono dunque ancora una volta giungere, nella riproposizione della dialettica tra «germe» e «antidoto», le risposte per affrontare il futuro. Si prepara un nuovo raccolto? È presto per dirlo. Di certo la salvezza non ci giungerà dal cielo. Non sarà l’evoluzione biologica a ricondurci al grembo materno; è alla cultura, la stessa forza che da esso ci ha allontanati, che dobbiamo affidarci per vincere queste sfida. Dipende tutto da noi. Soltanto da noi. Noi siamo figli della storia, e dobbiamo seguire il nostro cammino in questo, che è il più diverso e interessante degli universi concepibili: un universo che è indifferente alla nostra sofferenza, e che ci offre quindi la massima libertà di avere successo, o di fallire, nella via che abbiamo scelto.17

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S.J. Gould, op. cit., p. 334.





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