Pomezia 1943

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L L’’O OT TT TO OS SE ET TT TE EM MB BR RE E 119 94 43 3 L'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno 1940, prima rallentò e poi interruppe bruscamente l'inizio del timido sviluppo al quale si avviava il nuovo Comune. OTTO SETTEMBRE 1943 ( prefazione da Exodus di Leo Evangelista) "Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate angloamericane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza." Queste parole, pronunciate dal maresciallo Badoglio alla radio quasi due ore dopo che l'armistizio tra l'Italia e gli alleati era stato reso noto dal generale Eisenhower, mettevano il suggello ad un capolavoro di imperizia politica e di imprevidenza militare, che finì per provocare proprio quelle ulteriori e più gravi sciagure che a parole si volevano evitare. . La popolazione reagì all'annuncio dell'armistizio dapprima con sporadiche manifestazioni di giubilo, credendo per un attimo alla fine della guerra, che, dopo le privazioni, le angosce e lo stillicidio di notizie luttuose da terre lontane, si era presentata con il suo volto mostruoso sullo stesso territorio nazionale: la Sicilia e l'Italia meridionale erano state invase, le città della restante parte della penisola


venivano sottoposte a sanguinosi e devastanti bombardamenti aerei, Roma stessa era stata piĂš volte colpita. La stessa mattina dell' 8 settembre erano state bombardate Velletri e Frascati, con migliaia di morti. . L'armistizio significava la fine di tutto questo? Molti erano dubbiosi e preoccupati per la presenza sul suolo nazionale enti forze tedesche, calate in Italia all'indomani del 25 luglio: come avrebbero reagito? Le illusioni di chi prevedeva un loro spontaneo ritiro dovevano subito cadere: due ore dopo l'annuncio di Eisenhower, un quarto d'ora dopo quello di Badoglio, ufficiali tedeschi si presentavano ai reparti italiani, in Italia e nei territori occupati, per chiedere la continuazione della collaborazione bellica o la consegna delle armi. Venivano intanto occupati nodi stradali e ferroviari, centrali telegrafiche e telefoniche, depositi di carburante. Apparve subito chiaro che il paese e l'esercito venivano lasciati in balia dei tedeschi e lo sbandamento fu generale. Nel nostro territorio si combattĂŠ, la mattina del 9 settembre, ad Albano, a Cecchina, ad Ariccia, a Genzano: brevi sanguinosi combattimenti. Ad Anzio e Nettuno, il giorno seguente, furono invece i civili ad insorgere contro la tracotanza tedesca, trovando l'appoggio di alcuni militari dei reparti lĂ dislocati, che erano stati disarmati quasi senza colpo ferire e che avevano ritrovato coraggio e speranza davanti all'iniziativa di cittadini inermi.......... Pomezia, giĂ presidiata dai tedeschi, non fu teatro di particolari fatti di sangue, anzi il rapporto con i militari tedeschi in alcuni casi era divenuto quasi famigliare, considerando inoltre che la maggior parte degli uomini erano al fronte o combattenti in Africa per cui la popolazione era


prevalentemente composta da donne, vecchi e bambini, persone che non potevano prendere iniziative bellicose ma prevalentemente dedite alla coltivazione dei loro poderi, per salvare il salvabile. Ma per conoscere meglio la situazione in cui si trovavano gli abitanti pometini, ecco le testimonianze di alcuni di loro raccolte nel volume "EXODUS" di Leo Evangelista edito dalla Diocesi di Albano nel luglio 1999 SILVIO BELLO (arrivato a Pratica nel 1919) Subito dopo l' 8 settembre a Pratica di Mare si insediarono i tedeschi. Il comando aveva occupato il palazzo della principessa Borghese ( che era la prima donna di corte della regina), dove fino al 25 luglio era stata la milizia e dalla cui torre altissima si domina tutta la costa e una gran parte del territorio circostante; la truppa, invece, si era messa dovunque c'era posto nel paese, case, magazzini, perfino nelle stalle, dato che gran parte delle bestie, per sicurezza, le avevamo portate fuori, nei canaloni in campagna. La convivenza era abbastanza tranquilla, ma non mancavano motivi di preoccupazione. Un giorno arriva in paese un militare con un camion e lo lascia davanti alla casa di Gasperino Lordi, lĂ dove si trovava un gelso. Due minuti dopo la macchina va a fuoco. Immediatamente i tedeschi misero due sentinelle alla porta di Pratica e altre due alla porta dei porcili, in modo da impedire a


chiunque di uscire dal paese, che per il resto è circondato da mura. Tutto il paese con i secchi a prendere l'acqua per spegnere l'incendio, però loro avevano già bloccato le porte, con lo scopo, evidentemente, di compiere una rappresaglia sulla popolazione. Fortunatamente il conducente, un bravo giovane austriaco, disse: "Il danno è successo a me, perché, avendo avvertito lungo la strada che la macchina non andava bene, appena arrivato sono andato sotto per vedere. Avevo la sigaretta accesa e la macchina è andata a fuoco." E allora levarono subito le sentinelle e tutto finì lì. Che ne so quello che poteva succedere se questo ragazzo non avesse fatto quella rivelazione, forse solo per salvare la situazione?

MARIO GENTILE ( con il padre sorvegliante del Consorzio di Bonifica partecipò alla costruzione di Pomezia) Per quanto riguarda la mia famiglia, le disgrazie ebbero inizio proprio l'8 settembre. Euforia la sera perché c'era stato l'armistizio e si sperava che la guerra fosse finita. Viceversa il 9 settembre si presentarono da noi, che abitavamo nella casa cantoniera che si trova all'incrocio tra la Pontina e la strada per Albano, le SS con i mitra e pretendevano che noi gli dessimo i nostri polli; mio padre si rifiutò assolutamente di darglieli, ma loro se li presero da soli e li ammazzarono


tagliandogli la testa su un pezzo di legno. Poi pretendevano che mia madre glieli cucinasse, ma anche per questo mio padre si rifiutò. E allora glieli cucinò un altro cantoniere che era là vicino. . Dopo questo fatto, mia sorella, che aveva allora una ventina d'anni, prese a dire: "Papà, non dormiamo qui questa notte, andiamo via, andiamo via ...." Allora ci si conosceva tutti qua e specialmente mio padre, con il suo lavoro, aveva la possibilità di essere in contatto con tutti. E così siamo andati a dormire in casa di Busti, un contadino nostro conoscente che stava a circa quattro chilometri da noi. Per fortuna, perché quando la mattina successiva io e mio padre siamo tornati a casa, abbiamo trovato che quello che non avevano portato via, l'avevano distrutto: tutto, tutto, avevano spaccato e calpestato assolutamente tutto. E certamente se noi fossimo stati lì, ora non sarei qui a raccontare la cosa. . Rimanemmo di conseguenza a dormire ancora fuori per qualche giorno e tornammo a casa, dopo averla sistemata alla meglio, solo quando le cose sembrarono essersi calmate.


LO SFOLLAMENTO Anche nella zona di Pomezia ci fu un esodo generale: chi verso i Castelli Romani, chi si rifugiò dentro Roma, dove vennero ospitati al centro raccolta profughi nell'istituto San Michele, sul Lungotevere; nella speranza che la presenza del Papa e lo status di ”città aperta” avesse tenuto lontano i bombardamenti americani; molti romagnoli e altri del Nord ritornarono velocemente verso le regioni d’origine, inconsapevoli di andare incontro, in un futuro prossimo, ad altri fronti di guerra. Il 28 gennaio 1944 il Comune venne trasferito a Roma, in Via Cesare Battisti,6, di fronte a Piazza Venezia, dove attualmente risiede un presidio dei Carabinieri. Venne nominato un nuovo Commissario Prefettizio, il farmacista Giuseppe Natale in sostituzione di Aurelio Leone. Il primo atto del neo Commissario fu con delibera n° 1 del 15 febbraio 1944, pubblicata il 20 febbrai o 1944 il trasferimento provvisorio dell'Amministrazione Comunale .



Maria Versari L'ordine di sfollamento fu improvviso e colse tutti di sorpresa. I tedeschi avevano subito ordinato lo sgombero del centro e la gente si era sistemata alla meglio presso parenti e conoscenti nei poderi; poi, ai primi di febbraio, venne ordinato lo sfollamento immediato di tutto il territorio e ognuno dovette arrangiarsi come poteva. Noi così andammo alla ventura verso Roma avendo caricate poche cose su un carro tirato da due buoi e portandoci dietro alcune vacche, che, nel timore che potessero venirci requisite dai tedeschi, vendemmo a certa gente di Roma, non so se macellai o grossisti, che aspettavano lungo la strada gli sfollati in modo da approfittare della situazione e pagare le bestie poco. Poi ci fermammo prima in un casale, poi in una località chiamata Acqua Acetosa, dalle parti della Cecchignola, dove c'erano delle case vuote nelle quali ci sistemammo alla meglio. Vicino a noi c'era una ragazza di Aprilia, con una bambina, che veramente era fuggita dal suo paese soltanto con quello che aveva addosso. La notte la bambina piangeva ininterrottamente e mia madre, che aveva capito che aveva fame, si alzò e andò a portarle qualcosa da mangiare. Poi ce ne andammo all'EUR, presso una famiglia, che ci mise a disposizione una specie di androne, chiuso da tre lati e aperto dal quarto. Ora, con lo sfollamento, perdevamo di nuovo tutto. Era la seconda volta che perdevamo la casa in cinque anni. La prima volta era stato nell'aprile del 1939, quando, a seguito della frana provocata da un'alluvione, dovemmo lasciare la nostra casa di Predappio. Ma non fu questa la tragedia più grande... Dopo circa un mese dallo sfollamento di Pomezia, un gruppo di romagnoli, cinque sei famiglie, che eravamo rimasti uniti, decidemmo di rientrare nella


regione di origine con un camion. Lungo la strada venimmo anche bombardati e dovemmo abbandonare il camion e scappare in un bosco; ma poi finalmente arrivammo a Predappio. Qui fummo prima ospitati da alcuni parenti, poi prendemmo in affitto una casa nella frazione di Santa Marina e ce ne andammo ad abitare per conto nostro. Ma proprio quando credevamo di esserci sistemati per il meglio, mio fratello venne ucciso. Mia madre aveva scelto di tornare in Romagna più per questo figlio che per altro, perché lui era un militare sbandato e aveva paura che potessero prenderlo. E invece in Romagna fu la rovina, perché lì c'erano fascisti e partigiani che si combattevano e mio fratello venne preso e ucciso dai fascisti. Lui non era con i partigiani, era a casa, anche se, qualora avesse dovuto scegliere, probabilmente sarebbe andato con i partigiani. Egli, però, andava a lavorare in una casa, che si trovava ai margini del bosco e che la notte costituiva un punto di riferimento per i partigiani che nel bosco si nascondevano. Quella mattina era andato a falciare il fieno. Alcuni fascisti presero lui e un altro e li fucilarono subito. L'altro ragazzo si chiamava Gíovanni Camporesi ed aveva un fratello disperso in Russia. Questi fascisti, come poi ci hanno raccontato gli altri operai che erano con lui a falciare il fieno, gli chiesero: "Documenti!" Lui rispose: "Non ce li ho, ce li ho a casa." E allora mandano una ragazza a casa a farsi dare questi documenti dalla mamma. La ragazza si avviò, ma loro gli dissero: "Fai tre passi avanti, vai a cercare i tuoi compagni." E l' hanno fucilato alle spalle. Si chiamava Sergio e aveva ventitré anni. E poi minacciarono: "Guai chi lo tocca!" E dalla mattina, soltanto la sera, quando sono andati via, mia mamma é potuta andare a prendere questo figlio morto. Era il 10 giugno del 1944. Venne sepolto nel cimitero di Predappio, ma trascorso il periodo necessario per


poterlo esumare, ne portammo la salma qui nel cimitero di Pomezia. Il giorno prima, era la festa del Corpus Domini, gli era arrivato un invito a presentarsi, per prestare il servizio militare, entro quindici giorni. Dunque il motivo di quell'eccidio non poteva essere la renitenza alla leva, perché lui era ancora nei termini per presentarsi. Non lo so perché l' hanno ucciso così. E dire che la mattina, mentre mio fratello stava lavandosi ad un rubinetto posto fuori della casa dei padroni, era passata un'altra squadra di fascisti, i quali l'avevano anche salutato e poi si erano diretti da qualche parte. Fatti così ne accaddero molti in Romagna e gesti criminali ne vennero compiuti sia dai fascisti che dai partigiani. Qualche tempo dopo la morte di mio fratello, toccò anche ad un tedesco, un tipo un po' strano che girovagava da qualche giorno per il paese senza una ragione apparente. I partigiani lo uccisero e gli presero la divisa e poi lo lasciarono proprio nella località dove noi abitavamo. Per paura della rappresaglia, perché i tedeschi uccidevano dieci civili per ognuno dei loro, il contadino arò un campo intero e seppellì il cadavere là in mezzo e poi ci seminò il grano turco. E ricordo che quando il grano turco crebbe, si conosceva questo pezzo più nero, più lussureggiante. Dopo la guerra, noi eravamo già tornati a Pomezia, abbiamo saputo che avevano preso quello che li aveva fatti ammazzare, che era un fascistone di Predappio, lo avevano portato sul luogo dell'uccisione e gli avevano dato un sacco di botte. Ma poi il padre dell'altro ragazzo, che era presente, aveva detto: "Anche se lo uccido, mio figlio non ritorna più." E così, dopo averlo picchiato, lo hanno lasciato andare.


Per questo figlio ucciso in questa maniera i miei genitori non hanno mai avuto la pensione. Ogni tanto veniva qualcuno che si impegnava ad interessarsene, prendeva farina, uova eccetera, ma poi nessuno faceva niente. MARIO GENTILE Una notte dei primi di febbraio, diversamente da quanto eravamo soliti fare, non ricordo per quale motivo, rimanemmo a dormire, nella casa cantoniera con numerose altre famiglie e c'era gente ammucchiata da tutte le parti; e la mattina presto si spalanca la porta e si staglia contro luce la figura di questo ufficiale tedesco, la ricordo bene con quei pantaloni tipici che portavano loro e gli stivali, che ci intima: "Raus! Raus! Fift minuten. Raus!" Insomma ci hanno cacciato fuori di casa e ci hanno ordina lasciare il paese senza indugio. Ora qualcuno aveva un mezzo di trasporto come un retto o qualcosa di simile; noi, a casa nostra, invece, non av mo assolutamente niente, se non la bicicletta di mio padre cordo allora che ci siamo messi ciascuno un paio di vestiti dosso e i cappotti e papà mise sulla canna della bicicletta sorella, che aveva tre anni, e sul portapacchi una sacchetti farina di una cinquantina di chili e ci siamo avviati a piedi v Roma. Era mattina quando prendemmo la via Ardeatina e fa( già notte quando ci fermammo poco prima delle Fosse Ardea dove adesso è una clinica, Santa Lucia mi pare si chiami; mio padre chiese ospitalità presso una piccola casa cantoni dove rimanemmo a dormire. La mattina seguente notammo che là nei pressi c'ej delle baracche destinate non so a che cosa e ci accarnpamm insieme alla famiglia Busti, che ci aveva così spesso ospita là rimanemmo per tre quattro mesi, mentre mio fratello, che tornato a casa da militare dopo lo sbandamento dell'


8 settem se ne stava nascosto nelle catacombe di San Callisto. Siccome bisognava pure mangiare, io andavo a lavorare negli orti della zona per dieci ore al giorno per una paga che adesso non saprei precisare, ma che era sicuramente modestissima. Oltre la paga, comunque, c'era la possibilità di rimediare di nascosto ora una carota ora una patata. Quel sacchetto di farina famoso mamma cercava di farlo durare il più a lungo possibile e per questo comprò anche della crusca che mescolava con la farina per fare il pane; ma se ne metteva troppa, finiva che l'impasto non si teneva; la farina da sola, invece, la utilizzava più che altro per farci la pasta, naturalmente senza uova, solo con l'acqua. lo, che avevo quattordici anni, avevo sempre fame e quando ricevevo il mio piatto di minestra andavo al rubinetto e lo riempivo d'acqua fino all'orlo, per ingannare lo stomaco, ma tutto era inutile. Ma certamente non ero il solo a soffrirla, perché mio padre era ridotto come quei prigionieri che vennero trovati a Mauthausen. E allora, io e il vecchio Busti, che aveva oltre settanta anni, decidemmo di venire a Pomezia in bicicletta per prendere del grano che avevamo sepolto dentro certi fusti metallici sotto il portico del suo casale. Però quando, dopo aver fatto tutta quella strada, giungemmo sul posto, avemmo l'amara sorpresa di trovare che proprio sotto il portico erano parcheggiati dei carri armati tedeschi. Certamente non potevamo dire ai tedeschi di togliere i carri armati, perché dovevamo prendere il grano. Allora ci dovemmo rassegnare a rimediare nei campi quello che trovavamo, patate, alcune pannocchie di granturco che c'erano già, e con quella poca roba rifare la strada da Pomezia a Roma.


Poi, a seguito di un altro viaggio che facemmo con Busti per tentare di nuovo di recuperare il grano sepolto, andai addirittura a finire in galera. Le cose andarono così. Nella buca a lato del fosso, dove prima dello sfollamento andavamo a dormire per ripararci dalle granate, tre sorelle, tutte e tre signorine, che insegnavano a Pomezia, Diana, Dora e Vera si chiamavano, al momento di abbandonare la zona avevano nascosto tutta la loro dote. Naturalmente io non ero al corrente della cosa. Quel giorno, mentre con Busti facevamo un giro per evitare i soldati, dentro questo buco, manomesso, trovammo due signori che si erano uniti a noi da Roma per rimediare anche loro qualcosa da mangiare. lo vidi che là dentro c'erano stoffe, materassi ed altra roba e Busti chiese: "Ma voi che fate qua?" "Mah, risposero quelli, ci trovavamo di passaggio e abbiamo visto questa roba..." Era presente dentro il ricovero anche quel famoso cantoniere che aveva cucinato le galline per i tedeschi. Dopo che fummo tornati a Roma con il sacchettino della roba rimediata, questo signore disse alle tre ragazze: "Guardate che la vostra roba lì è stata rubata e portata via." E le ragazze gli dissero: "Ma a te chi te l' ha detto che noi avevamo nascosto là quella roba? Chi te le ha dette queste cose?" Dopo di che andarono dai carabinieri e denunciarono il fatto. Venimmo chiamati io, Busti e quei due signori che si erano uniti a noi in quel viaggio e che, tra l'altro, noi avevamo accettato perché erano abruzzesi come noi, dai carabinieri della stazione che stava presso la tomba di Cecilia Metella. II primo di essi fece una sceneggiata, dicendo che lui era fascista e avrebbe denunciato tutti e anche il secondo si comportò alla stessa maniera. Il contadino raccontò invece, per filo e per segno quello che era successo, poi per ultimo chiamarono a me.


Io riferii le cose come le sto raccontando adesso una prima volta, poi una seconda e infine quelli, nell'intento di mettermi paura, mi dissero: "Bene, visto che sei grande e grosso, noi ti mandiamo a lavorare in Germania." E mi diedero anche due ceffoni, uno di qua e uno di là. Poi ci fecero pure dormire dentro, sul tavolaccio, pieno di puzza ed io che ero uscito dal collegio dei preti sei mesi prima, ritrovandomi a dormire in galera, passai tutta la nottata a piangere. E fortuna che mi avevano messo insieme al vecchio Busti. Poi la mattina venne mio padre, che mi portò un pezzo di polenta; ed infine i carabinieri, sentito che la mia versione dei fatti era sempre la stessa e convintisi che dicevo la verità, finalmente mi rimandarono a casa. La cosa poi ebbe un seguito, perché i carabinieri fecero le loro indagini e trovarono dei residui di vestiti bruciati in casa di quei signori, che infine vennero condannati a quattro anni. Dopo la liberazione di Roma scapparono, mali ripresero e li misero di nuovo dentro. Tornammo ancora, io e il vecchio Busti, a Pomezia, senza poter mai prendere il grano, perché il carro armato era sempre posteggiato sulla fossa dove stava sepolto, ma rimediando sempre qualcosa da mangiare. Poi un giorno stavo davanti al casale a riparare la gomma della bicicletta, quando ci fu un mitragliamento ed io devo la vita ad un soldato tedesco, che mi prese dietro per la collottola e mi sbatté sotto il portico al riparo dei proiettili che fioccavano tutto intorno. Lo spavento fu grande e decidemmo di rientrare subito a Roma. Ma lungo la strada c'erano stati altri mitragliamenti e poco prima del Divino Amore, all'altezza del ponte della ferrovia


che attraversa l'Ardeatina, trovammo un carro carico di fieno, del quale avevano ammazzato sia gli animali che lo trainavano che i due occupanti, un contadino ed un ragazzetto giovanissimo, che era rimasto appoggiato alla spalliera del carro con gli occhi aperti. Più avanti ancora trovammo un camion pure mitragliato e i due occupanti, anche loro civili, entrambi morti. E quella volta dissi a mia madre: "Magari moriamo di fame, ma io non ci vado più." E fu infatti quello l'ultimo viaggio che feci a Pomezia. Il giorno dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, dal movimento della gente nella zona, si intuì che stava succedendo qualche cosa di terribile. Noi eravamo ad un chilometro sì e no da luogo dell'eccidio e ricordo che mia madre era molto preoccupata perché papà era andato a Roma e tardava a tornare e si temeva che potesse essere incappato in qualche rastrellamento. Il giorno della liberazione di Roma, il 4 giugno, festa della Santissima Trinità, i tedeschi, prima di fuggire, fecero saltare il forte dell'Annunziatella. Dopo che erano andati via, varie persone andarono a vedere se avevano lasciato qualche cosa da mangiare; andammo anche io e mia sorella e trovammo qualche pagnotta di pane, quel pane nero che mangiavano loro, ed una damigianina d'olio. Tornando, però, dovevamo attraversare la via Laurentina, sulla quale transitava una colonna di truppe americane, tra cui si trovavano molti negri e mia sorella, spaventata, non voleva passare. Infine gli americani capirono il problema e ci fecero attraversare loro.


LLOO SSBBAARRCCOO AADD AANNZZIIOO EE N NEETTTTUUNNOO (22 gennaio 1944) Testimonianze pubblicate sul volume "EXODUS" di Leo Evangelista Il 21 gennaio 1944 Radio Londra trasmise un messaggio in codice "La zia è malata e sta per morire". Il giorno dopo gli alleati sbarcarono ad Anzio; sembrava che tutto dovesse finire in fretta, ma fu solo l’inizio del calvario. I bombardamenti alleati iniziarono subito; il più colpito fu il vicino aeroporto di Pratica di Mare, ma non furono certo risparmiati i centri abitati, le campagne e le strade. Gli abitanti di Pratica ricordano ancora quell’alba, quando dal castello, al largo di Anzio, si vedeva una quantità non definibile di sagome di navi e il cielo era coperto da fortezze volanti. MARIO GENTILE Il giorno dello sbarco, noi ragazzi ci divertivamo a salire sulla torre per vedere tutte quelle navi che gremivano il mare. Tedeschi non ce n'erano all'inizio o ce n'erano pochissimi, ma non tardarono ad arrivare. Poi, però, i tedeschi incominciarono a sparare dai Castelli verso il mare e la marina alleata a sua volta sparava verso i colli, ma varie bombe caddero anche a Pomezia e intorno alla cantoniera, per cui di nuovo lasciammo la nostra casa e andammo ad abitare presso questo contadino, Busti, il cui casale era più isolato e quindi sembrava più sicuro. Mala notte dormivamo in una specie di tana ricavata sulla sponda di un fosso che scorreva là vicino. Eravamo una ventina di


persone e là dentro ci sentivamo più tranquilli, perché l'ingresso della grotta guardava verso nord, mentre le granate provenivano da sud. Quando per qualche motivo ci recavamo presso la casa cantoniera, la notte andavamo invece a dormire sotto un ponte della via Latina, l'attuale Pontina, dove erano stati messi dei pali e delle tavole attraverso il fosso sottostante, ricavandone una specie di giaciglio, sul quale la notte si ammassava la gente. MARIA VERSARI Quando, verso la fine di luglio 1943, venne bombardato l'aeroporto di Pratica di Mare, io ero a casa con i nonni, mentre i miei erano alla trebbiatura presso un podere vicino. Avevamo ancora negli occhi e nelle orecchie la visione e il rumore degli aerei che il 19 luglio avevano bombardato Roma; così, come sentimmo gli aerei che si avvicinavano, i miei nonni mi dissero: "Vai tu sotto il ponte." Loro, invece, non si erano mai mossi di casa e così fecero anche quella volta. Con il rumore della trebbia, gli altri non sentirono gli aerei avvicinarsi e così quando caddero le prime bombe io mi trovai assolutamente sola in quel ricovero improvvisato e, spaventata dal fragore degli scoppi, mi rannicchiai in un cantuccio con gli occhi chiusi e le mani sulle orecchie. Poi arrivarono anche gli altri. Il 22 gennaio 1944 ci fu il funerale di mio nonno, morto due giorni prima e, dopo il rito religioso, ci dirigemmo a piedi verso Pratica di Mare, per portarlo al cimitero, che a Pomezia non c'era ancora. Ad un certo punto, però, il corteo funebre dovette fermarsi, perché arrivarono dalla parte del mare delle cannonate. Proceduto poi di fretta alla tumulazione della salma, tornammo a casa e qui mio fratello salì sul tetto della casa e di lì vide il mare dalla parte


di Anzio pieno di navi. . Incominciammo così ad andare a dormire la notte, con molta altra gente di Pomezia, nelle grotte che ci sono in località Monte d'Oro, mentre il giorno stavamo nelle case e la vita si svolgeva quasi normalmente. Questo probabilmente perché era stata notata una maggiore attività bellica e quindi un maggiore pericolo durante la notte. Tuttavia, per ogni evenienza, era stata ricavata una specie di nicchia, di tana sotto un pagliaio, dove andavamo a metterci quando c'era pericolo. A che cosa potesse veramente servire poi non lo so. In precedenza, avevamo usato come rifugio un ponte sotto la via Latina, come si chiamava allora la Pontina, che si trovava proprio vicino al terreno nostro. I nostri genitori avevano aperto delle buche sui lati del ponte, poi ci avevano messo delle tavole e della paglia e la notte andavamo a dormire lì. E devo dire che per noi bambini era un divertimento ritrovarsi la sera sotto il ponte. Nei giorni che seguirono lo sbarco, assistemmo ad un intenso passaggio di carri armati e di camion tedeschi diretti verso Anzio, mentre numerosi soldati si sistemarono nelle abitazioni di Pomezia, da cui avevano fatto sfollare gli abitanti. Alcuni si stabilirono anche a casa nostra. Tra loro c'era un maresciallo che forse avrà avuto dei bambini anche lui, ma mi voleva un bene... Quando, qualche giorno più tardi, la mia famiglia partì a seguito dell'ordine di sfollamento, lui ci raggiunse per la strada per portarmi una borsa nella quale avevo raccolto un pò dei miei giocattoli e che poi avevo dimenticato sul tavolo di casa. La prima volta era stato nell'aprile del 1939, quando, a seguito della frana provocata da un'alluvione, dovemmo lasciare la nostra casa di Predappio.


IILL RRIITTO ORRN NO O AA PPO OM MEEZZIIAA MARIA VERSARI Quando tornammo a Pomezia, era ormai l'aprile del 1945, trovammo che la nostra casa era stata riparata alla meglio dai danni provocati dalle granate ed era occupata dal fattore dell'Opera Nazionale Combattenti e da altre due famiglie, che vi rimasero fino a quando vennero riparate le loro abitazioni. Anche noi ci sistemammo alla meglio in una stanza. Per fortuna ritrovammo del grano ed altre cose che avevamo sotterrato prima di sfollare; non ritrovammo, però, i mobili e tutte le altre cose che erano rimaste in vista. Poi ricominciammo la nostra vita di lavoro; ricevemmo in seguito, in due o tre volte, un po' dì danni dì guerra e così potemmo riacquistare qualche capo di bestiame. Un aiuto importante ci venne dalle signorine dell'UNRRA, le quali ci portavano carne in scatola, margarina, latte in polvere e tante altre cose che noi non conoscevamo. Il latte non mi piaceva, perché io ero abituata al latte delle nostre mucche, ma il resto ...E quelle signorine ci facevano anche cantare, recitare... Ma decisiva fu soprattutto la forza d'animo dei nostri genitori, capaci ancora una volta di ricominciare daccapo e di ricostruire, con fatica e sacrificio, quello che avevano perduto. Il primo Natale dopo la guerra, imitando quello che avevo visto fare l'anno prima in Romagna dai soldati polacchi, preparai forse il primo albero di Natale della nostra zona:


presi così un ramo di una pianta e lo ornai attaccandoci delle caramelle.

MARIO GENTILE Il giorno dopo il passaggio degli americani, io presi la bicicletta e me ne venni a casa, incrociando lungo la strada numerose colonne alleate. A casa trovai due soldati inglesi con una stazione radio. Io incominciai ad aiutarli e loro mi davano da mangiare e, purtroppo, mi insegnarono anche a fumare. Avevo un pane duro che aveva fatto mia madre e stavo quasi per buttarlo, visto che mi sembrava di avere trovato là la provvidenza, quando i due inglesi se ne andarono. Rimasi solo nella casa cantoniera, piena di paglia e di pulci e di erbacce, ma per fortuna con quel pane, che era tornato di nuovo necessario. Qualche giorno dopo, però, venne un altro soldato, di origine napoletana, che faceva il cuciniere e che mi propose di andargli a lavare le marmitte, promettendomi in cambio da mangiare. Le cucine erano in un'altra casa poco distante e quando era ora andavo lì a lavare le marmitte e lui in cambio mi dava quel pane bianchissimo con una fettona di margarina dentro, che in poco tempo mi fecero riprendere i colori. In più mi regalava qualche scatola di fagioli o di carne, che io mettevo da parte, in attesa che tornassero i miei. Ma un giorno si presentò una jeep con dei militari che portavano un berretto rosso, i quali ispezionarono breve-


mente la cantoniera e, trovate le scatolette, che intanto erano diventate un bel mucchietto, mi chiesero dove le avessi prese. Io, che non sapevo distinguere tra americani, inglesi eccetera, risposi che me le avevano date gli americani. Quelli, però, mi dissero che non poteva essere, trattandosi di prodotti inglesi; poi si presero tutte le scatolette e se le portarono via. E quello avvenne sicuramente a seguito della spiata di una certa persona. . Poi ricordo che andai a recuperare un sacco di grano tra le macerie della torre di Pomezia, che era stata fatta saltare dai tedeschi con le mine; non ricordo come venni a sapere della presenza di questo sacco di grano tra quelle macerie, se me l'aveva detto qualcuno o l'avevo visto o addirittura se nella torre l'avevamo messo noi prima di andare via. Ricordo però che dovetti faticare non poco per caricarlo su una carriola e portarlo, sotto gli occhi divertiti di parecchi soldati inglesi, che in quel periodo affollavano Pomezia, fina alla casa cantoniera. In seguito pulii tutta casa e bruciai le erbacce intorno, facendo molta attenzione perché era tutto pieno di proiettili. Avevo anche trovato un fucile tedesco e me ne ero appropriato e sparavo come un matto, perché le munizioni non mancavano. Ma un giorno che stavo davanti casa a sparare in aria, mi sentii arrivare un tremendo calcio nel sedere e nello stesso tempo uno schiaffone sul collo: era il brigadiere dei carabinieri, per fortuna amico di mio padre, che si limitò a togliermi l'arma senza altre conseguenze. Un altro giuoco che facevo con altri ragazzi, che intanto erano tornati, era quello di svuotare le cariche delle granate, di cui ce n'erano cataste enormi, battendole pericolosamente una contro l'altra per estrarre il proiettile dal bossolo. Facevamo poi dei mucchi di polvere da sparo e gli davamo fuoco.


Poi tornarono i miei e pian piano la vita riprese. Mio padre, che era sorvegliante del Consorzio di Bonifica, di lavoro ne aveva molto, perchĂŠ i fossi erano tutti ostruiti. Andai anch'io a lavorare con mio padre e ricordo che i fossi erano pieni di bombe, munizioni di ogni genere e rottami di macchina, carri armati. Questi venivano ricercati da gente che veniva da Roma in cerca di rottami di ferro da rivendere. Ma erano tanti anche i pericoli e furono tanti i morti e gli invalidi provocati da scoppi di mine o di proiettili.


II DDAANNNNII DDEELLLLAA G GUUEERRRRAA I collegamenti erano pressochĂŠ inesistenti, i raccolti distrutti, le poche bestie razziate; mentre molte case coloniche erano danneggiate.

Mappa con l’indicazione delle case distrutte, danneggiate e le zone minate

Pomezia era il centro di raccolta dei feriti delle truppe tedesche provenienti dal fronte di Anzio e Cassino, sulla torre spiccava una "Croce Rossa" posta in un cerchio bianco ad indicare che il luogo era praticamente un ospedale. Con l'avanzare delle truppe alleate, i tedeschi, in ritirata, distrussero la "Torre del Vajanico ", la torre serbatoio di


Pomezia, la torre di Pratica, disseminando di mine tutta la fascia costiera e le strade di transito.

Le macerie della torre serbatoio di Pomezia (Foto Armando Menegazzi)


Distruzione di una parte del castello e della torre a Pratica di Mare


Il bellissimo viale alberato che fiancheggiava la strada che portava a Pratica era stato distrutto dai tedeschi. Le piante erano di traverso sulla strada, per ostacolare il transito agli alleati. L’entrata del borgo era ostruita dalle macerie della torre; la chiesa e le case erano danneggiate, ovunque c’erano mine e bombe di aerei o di mortai inesplose. I primi rientri a Pomezia avvennero il 5 giugno 1944, il giorno dopo che gli alleati entrarono in Roma. In poco tempo il piccolo centro appena nato si riempì di sfollati che si sistemarono in tutti gli edifici pubblici: casa comunale, ex casa del fascio, ufficio postale, scuola. Tanta rovina portò a una immediata ricomparsa della malaria, che venne comunque debellata poco dopo con il ripristino delle opere di incanalamento delle acque e con l’uso del D.D.T. portato dagli americani


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