Sintesi di Copolimeri

Page 1

UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI FIRENZE Scuola di Dottorato in Scienze CORSO di DOTTORATO di RICERCA in SCIENZA PER LA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI XXII CICLO SSD CHIM 04

SINTESI DI COPOLIMERI PER LA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI

Dottorando: Alessandro Comucci

Tutor:

Coordinatore del Dottorato di Ricerca:

Prof. Piero Frediani

Prof.ssa Antonella Salvini


Dedico questa tesi alla mia famiglia per il suo sostegno e ai miei amici per le tante splendide serate passate insieme‌‌


INDICE 1 – INTRODUZIONE................................................................................................................. 1 1.1 – MATERIALI LAPIDEI .......................................................................................................... 3 1.1.1 – Composizione chimica e degrado dei materiali lapidei ........................................... 3 1.1.2 – Trattamenti conservativi dei materiali lapidei – consolidanti e protettivi ............. 13 1.2 – MATERIALI PITTORICI ..................................................................................................... 19 1.2.1 – Tecniche pittoriche................................................................................................. 19 1.2.2 – Le vernici finali per le pitture ad olio .................................................................... 22 1.2.3 – Effetto ottico delle vernici ...................................................................................... 24 1.2.4 – Il degrado delle resine naturali.............................................................................. 27 1.2.5 – Effetto degli stabilizzanti ........................................................................................ 33 1.2.6 – Polimeri sintetici a basso peso molecolare ............................................................ 36 1.3 – USO DI POLIMERI NELLA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI..................................... 38 1.3.1 – Principali prodotti per la conservazione dei materiali lapidei .............................. 40 1.3.2 – Principali polimeri usati come vernici ................................................................... 49 1.4 – SCOPO DELLA TESI .......................................................................................................... 57 2 – SINTESI, CARATTERIZZAZIONE E FUNZIONALIZZAZIONE DEL COPOLIMERO ETILENE/DIENE ........................................................................................ 61 2.1 – SINTESI POLIMERI ........................................................................................................... 61 2.1.1 – SISTEMA CATALITICO CP2ZRCL2/MAO ....................................................................... 61 2.1.2 – SISTEMA CATALITICO CAT2/MAO ............................................................................. 70 2.2 – FUNZIONALIZZAZIONE POLIMERI .................................................................................... 79 3 – SINTESI E CARATTERIZZAZIONE DI COPOLIMERI POLIACIDOLATTICO/PERFLUOROPOLIETERE.......................................................... 89 3.1 – SINTESI DEL COPOLIMERO PLA/FLK............................................................................... 91 4 – VALUTAZIONE DELLA STABILITÁ UV, DELL’IDROREPELLENZA E DEGLI EFFETTI CROMATICI DEI POLIMERI SINTETIZZATI PER LA LORO APPLICAZIONE NEL CAMPO DEI BENI CULTURALI ............................................... 109 4.1 – EFFETTI CROMATICI ...................................................................................................... 110 4.2 – VALUTAZIONE DELL’EFFICACIA PROTETTIVA E% ........................................................ 113 4.3 – STABILITÀ ALL’IRRAGGIAMENTO UV ........................................................................... 116 4.3.1 – Variazioni cromatiche dopo l’irraggiamento artificiale ...................................... 117


INDICE 4.3.2 – variazione dello spettro FT-IR dopo l’invecchiamento per irraggiamento artificiale .......................................................................................................................... 123 4.3.3 – Analisi del peso molecolare e della solubilità dopo invecchiamento dei polimeri per foto-ossidazione ......................................................................................................... 130 4.3.4 – Efficacia protettiva E% dopo irraggiamento artificiale ...................................... 132 4.3.5 – Indice di rifrazione ............................................................................................... 133 4.4 – CONCLUSIONI ............................................................................................................... 136 5 – PARTE SPERIMENTALE .............................................................................................. 141 5.1 – STRUMENTAZIONE E METODI ANALITICI UTILIZZATI ..................................................... 141 5.2 – SOLVENTI E REAGENTI UTILIZZATI................................................................................ 148 5.2.1 – Solventi................................................................................................................. 148 5.2.2. – Reagenti e gas ..................................................................................................... 149 5.3 – POLIMERIZZAZIONE OLEFINE ........................................................................................ 151 5.4 – POLIMERIZZAZIONE LATTIDE ........................................................................................ 153 5.5 – REAZIONI DI IDROFORMILAZIONE, IDROESTERIFICAZIONE E IDROGENAZIONE .............. 153 5.6 – TRATTAMENTO CAMPIONI DI MARMO CON I POLIMERI ANALIZZATI .............................. 155 5.7 – VALUTAZIONE TRATTAMENTI....................................................................................... 156


1 - INTRODUZIONE Tutti i materiali, a causa dell’influenza dell’ambiente a cui sono esposti, subiscono un processo di degrado1,2, che dipende da numerosi fattori legati sia all’ambiente circostante che alle proprietà intrinseche dei materiali: pietra, legno, carta, tessuti, etc. Il deterioramento delle rocce, del legno e delle tele, che costituiscono i principali materiali di moltissimi monumenti, edifici, reperti antichi e quadri, è un problema antico a cui l’uomo ha cercato e cerca di porvi rimedio. In una panoramica storico-artistica, si può osservare come già nella Grecia classica si effettuassero operazioni di restauro; lo scopo era però differente da quello attuale infatti tendeva ad emulare la perfezione della Natura. Al tempo dei Romani le opere di restauro si basavano sulla studio delle migliori creazioni del passato, apportando rinnovamenti e rifacimenti, per ottenere opere tali da esaltare la potenza dell’Impero. Nel Medioevo il restauro era finalizzato alla glorificazione della religione cristiana, ricercata spesso tramite la distruzione o la trasformazione delle opere delle precedenti civiltà pagane3. Fu solo nel rinascimento che si attribuì un valore storico al passato anche se non si faceva alcuna differenza tra un’opera del passato ed una moderna restaurata seguendo le metodologie e i parametri antichi4. Per arrivare a considerare il restauro come valorizzazione dell’opera d’arte essenzialmente per il suo contenuto storico/artistico, si dovrà aspettare l’avvento del Neoclassicismo. Fu proprio in questo periodo storico che iniziò a caratterizzarsi la figura del restauratore, specializzata nella riparazione di manufatti lapidei, tramite riproduzione delle parti mancanti o assemblaggio dei frammenti, e di manufatti pittorici (affreschi) tramite consolidamento5.

1


Da allora sono state proposte le più disparate teorie per definire il modo corretto in cui si dovrebbero realizzare le delicate operazioni di restauro. John Ruskin (1819 – 1900) suggerì il non intervento, se il restauro avesse implicato l’alterazione dell’aspetto dell’opera; Eugène Viollet-Le-Duc (1814 – 1879) introdusse il concetto di restauro stilistico, basato su un accurato studio scientifico, storico e formale dell’opera e sulla possibilità di trasformazioni in linea con lo stile del momento; Camillo Boito (1836 – 1914) e Gustavo Giovannoni (1873 – 1947) consigliarono di rendere riconoscibili le zone restaurate tramite l’uso di materiali diversi dagli originari e di forme semplificate. Solo in seguito furono redatte Carte e Convenzioni per delineare i criteri di intervento da seguire a livello nazionale o internazionale. La prima Carta del Restauro, stilata nel 1931, è stata redatta ad Atene: essa evidenzia la necessità di una cooperazione tra gli Stati per favorire la conservazione dei monumenti dell’arte e della storia. Inoltre in essa si antepone una buona manutenzione ad improvvisate operazioni di restauro, al fine di raggiungere migliore salvaguardia e conservazione, rispettando l’opera storica e artistica3. La più recente Carta della Conservazione e del Restauro degli oggetti d’arte e di cultura (1987), ampliamento della Carta Italiana del 1972, definisce il restauro come l’intervento che, nel rispetto dei principi della conservazione e sulla base di indagini conoscitive di ogni tipo, è rivolto a restituire all’oggetto, nei limiti del possibile, la relativa leggibilità e, ove possibile, l’uso3. La possibilità di disporre di conoscenze scientifiche avanzate è fondamentale nell’attività di restauro e conservazione dei beni culturali, e studi approfonditi sui materiali che li compongono e sulle loro caratteristiche devono sempre precedere qualsiasi tipo di intervento. La chimica ha avuto e continua ad avere un ruolo dominante in questo settore fornendo, tra l’altro, materiali innovativi e sempre più adeguati. 2


La salvaguardia delle opere e del contesto ambientale in cui sono inserite è la base su cui poggia il futuro del nostro passato6.

1.1

– MATERIALI LAPIDEI

1.1.1 – Composizione chimica e degrado dei materiali lapidei I fenomeni di degrado di una pietra sono dovuti ad un insieme di fattori interni, che sono strettamente legati alla struttura ed alla composizione della pietra stessa, ed esterni, dovuti all’ambiente in cui si trova. Questi fattori vanno ad aggiungersi agli effetti dovuti alle varie fasi di lavorazione che la pietra ha subito dalla sua estrazione fino al momento della messa in opera. Un primo deterioramento si può verificare già nell’estrazione dalla cava, come conseguenza degli sforzi meccanici esercitati per il distacco dei blocchi. La lavorazione successiva comporta una modifica degli strati superficiali del materiale, inducendo la formazione di micro-fessure, che possono favorire ulteriori alterazioni7. Durante la messa in opera del manufatto lapideo si dovrebbe tenere in considerazione la tessitura della pietra che lo compone: ad esempio, per rocce sedimentarie, le forze di compressione dovrebbero risultare perpendicolari ai piani di sedimentazione. Dal momento in cui l’opera viene posta nella sua collocazione definitiva, hanno inizio i processi fisici, chimici e biologici che conducono, talvolta combinandosi tra loro, ad un’alterazione sempre più estesa. Degradazione di tipo fisico: Le degradazioni della pietra di tipo fisico sono essenzialmente legate ad una azione meccanica che porta alla de-coesione del materiale. Questo degrado può avvenire a causa di vari processi. Uno di questi è sicuramente la dilatazione termica che determina fenomeni di espansione/contrazione del materiale che 3


dopo anni può portare alla formazione di parti decoese all’interno del materiale lapideo. Un altro fenomeno che può provocare il deterioramento della pietra è il processo di gelo/disgelo. L’acqua assorbita nelle porosità della pietra, passando dallo stato liquido a quello solido, subisce una notevole variazione volumetrica (circa 10%). La forte pressione che il ghiaccio esercita sulle pareti dei capillari della pietra causa l’insorgere di profonde fratture, desquamazione e sfaldamento della superficie2,7. Tali danni risultano influenzati da una serie di fattori quali il tipo di pietra, le sue proprietà mineralogiche, la porosità e la locazione. E’ infatti noto che variazioni di temperatura intorno al punto di congelamento sono assai più pericolose di un congelamento protratto nel tempo2. Incrementi di pressione all’interno dei pori della pietra sono provocati anche dalla cristallizzazione dei sali solubili8. Questi ultimi possono essere presenti nella roccia prima della sua messa in opera, derivare dalla decomposizione del materiale stesso o provenire da fonti esterne, come i materiali di giuntura o di sostegno, il suolo e l’atmosfera o ancora derivare da metodi errati di pulitura e conservazione2. Se nel materiale lapideo è presente una soluzione salina, in seguito all’evaporazione dell’acqua, si possono verificare condizioni di saturazione o sovrasaturazione, che portano alla formazione di cristalli di sale dentro i pori. Tali cristalli si accrescono alimentandosi con la soluzione presente nella rete capillare, esercitando così una pressione sulle pareti dei pori stessi. Il sale inoltre può precipitare sulla superficie esterna della pietra7: se la velocità di evaporazione dell’acqua è bassa, come nel caso di scarsa ventilazione, i cristalli si formano principalmente all’esterno dei pori (efflorescenza) e l’effetto distruttivo è minimo. Se invece l’evaporazione avviene rapidamente, e la velocità con cui la soluzione si muove verso l’esterno non raggiunge quella del vapor d’acqua che si allontana dalla superficie, la cristallizzazione avviene all’interno dei pori provocando 4


alternativamente la decoesione dello strato superficiale della pietra, la formazione di cavità immediatamente sotto tale strato o l’insorgere di fenomeni di esfoliazione. I processi di alterazione dovuti alla presenza di sali solubili sono amplificati nel caso ci sia la possibilità di formazione di sali idrati che contengono un numero variabile di molecole di acqua nel reticolo cristallino. In tal caso infatti anche i processi di idratazione/disidratazione sono accompagnati da variazioni di volume e quindi di pressione interna. Degradazione di tipo biologico: La pietra può essere degradata anche dalla crescita, al suo interno o sulla sua superficie, di organismi viventi ed anche in questo caso l’acqua ha un ruolo fondamentale, essendo indispensabile al loro sviluppo. Alghe microscopiche e licheni sono i biodeteriogeni più diffusi; spesso si instaurano sulla superficie di materiali molto porosi o penetrano dentro le microfratture, talvolta con effetti corrosivi, soprattutto per i materiali calcarei, a causa dell’acidità contenuta nei loro metaboliti. Tra gli organismi macroscopici, le piante infestanti rappresentano un ostacolo alla conservazione di strutture lapidee, in quanto, a causa dell’azione di cuneo esercitata dalle radici penetrate tra le pietre e nelle fratture delle stesse, possono provocare gravi sollecitazioni meccaniche. Prendendo in esame gli organismi appartenenti al mondo animale, gli uccelli rappresentano la specie più nociva: il guano deposto da grandi colonie di volatili, insediate sui monumenti cittadini, può provocare, oltre a un danno estetico, il degrado chimico delle rocce calcaree, nonché funzionare da terreno di coltura per diversi tipi di microorganismi.

5


Degradazione di tipo chimico: Prima di descrivere i processi chimici che intervengono durante il degrado della pietra, è importante osservare che il degrado della pietra è influenzato molto anche dalla sua composizione. Esistono infatti svariati tipi di pietra che presentano una composizione chimica e/o una granulometria/porosità del minerale che li compone notevolmente diversa e quindi degradano in maniera differente (Tabella 1). Le rocce sono aggregati di minerali, frequentemente costituite da un minerale dominante e solo piccole percentuali di altri. Esse vengono classificate in base all’origine dei minerali di cui sono costituite e si distinguono in primarie (rocce ignee) e secondarie (rocce sedimentarie e metamorfiche). Le rocce ignee derivano dal raffreddamento del magma nella litosfera (rocce intrusive) o in superficie (rocce estrusive). Le rocce ignee sono composte prevalentemente da silicati e vengono classificate proprio in base alla percentuale di silicio: •

Graniti: contenuto di silicati pari al 60-75% (sono chiamate rocce acide)

Andesiti: contenuto di silicati pari al 40-60% (sono chiamate rocce intermedie)

Basalti: sono privi di quarzo e tutta la silice presente è sottoforma di feldspati o in altri silicati (sono chiamate rocce basiche)

Ultrabasiche: a basso contenuto di silicio

6


Tabella 1 – Percentuale di acqua in litotipi con caratteristiche chimiche e fisiche differenti5 Litotipo P H2O Composizione della pietra %*

%**

Arenaria

6

0,7-0,8

Silicatica

Marmo dolomitico

4

0,01-0,03

Calcarea dolomitica

Pietra di Lecce

45

0,6-0,8

Calcarea

Pietra di Venezia

28

0,13-0,15

Calcarea

Marmo calcitico

3

0,01-0,02

Calcarea

Peperino

19

4

Silicatica

Tufo

47

5-7

Silicatica

Serpentinite

4

0,2-0,3

Silicatica

Alberese

5

0,1-0,2

Calcarea

Rosso ammonitico

3-4

0,3-0,4

Calcarea

* P = porosità % determinata mediante picnometro ad elio ** quantità di acqua assorbita, a 20 °C e 80 % di umidità relativa, dalla pietra precedentemente essicata a 110 °C.

Le rocce sedimentarie sono costituite da materiali (detti sedimenti) provenienti dalla disgregazione di rocce preesistenti. Esse vengono classificate in base a come si sono formate (Figura 1). Le rocce detritiche o clastiche si distinguono poi in quattro sottogruppi: •

Conglomerati (ghiaie): possono essere costituiti sia da silicati che da calciti

Arenarie (sabbie): possono essere costituite sia da silicati che da calciti

Argille: sono costituite prevalentemente da silicati

Tufi: hanno origine vulcanica ma vengono comunque classificati nelle rocce sedimentarie per la loro successiva litificazione Le rocce di sedimentazione chimica o biochimica si suddividono in tre

gruppi principali: 7


Calcari: sono costituiti da calcite (CaCO3)

Dolomie: sono costituite da dolomite (carbonato di calcio e di magnesio)

Evaporiti: contengono solfato di calcio, cloruro di sodio e altri minerali Figura 1 – Schema di classificazione genetica delle rocce sedimentarie

Le rocce metamorfiche si sono formate per modificazioni della composizione mineralogica o della struttura e della tessitura in seguito a mutamenti di temperatura e pressione. Esse si sono formate sempre nella profondità della crosta terrestre e sono venute in superficie in seguito a fenomeni orogenetici o geomorfologici. La classificazione di queste rocce è basata sulla natura stessa della roccia originaria (Figura 2). Il degrado di tipo chimico della pietra è essenzialmente causato da un’azione diretta o indiretta dell’acqua nei confronti della pietra; molti tipi di degrado sono di origine naturale, ma l’effetto delle attività antropiche sta 8


assumendo un rilievo sempre più ampio. Infatti lo sviluppo su scala mondiale delle attività industriali e l’aumento della popolazione hanno provocato l’immissione massiccia nell’atmosfera di sostanze altrimenti presenti in concentrazione molto inferiore o addirittura assenti. Gli inquinanti che maggiormente interessano il deterioramento dei materiali lapidei sono l’anidride solforosa, gli ossidi di azoto, il biossido di carbonio e il materiale particellato. In seguito a reazioni di ossidazione e/o idrolisi, possono trasformarsi in acidi aggressivi in particolare nei confronti di pietre carbonatiche e di alcuni minerali silicatici. Figura 2 – Classificazione rocce metamorfiche

La CO2 presente nell’aria, specialmente nelle zone particolarmente inquinate, può solubilizzarsi nell’acqua meteorica originando una soluzione 9


debolmente acida; gli NOx (essenzialmente NO2 e NO) presenti nelle zone affette da inquinamento fotochimico possono generare gli acidi nitrico e nitroso (Schema 1). Schema 1 – Reazioni di formazione dell’acido nitrico e nitroso nell’atmosfera

2NO2 NO

HNO3 + HNO2

+ H2O O3

NO2

O2

O3, NO2

N2O5

H2O

2HNO3

O2

L’SO2 introdotta nell’atmosfera dalla combustione di combustibili contenenti sostanze solforate può, in presenza di umidità e di altri inquinanti solidi (metalli e loro composti, particelle carboniose), gassosi (ozono e ossidi di azoto) o di radiazioni solari (raggi UV), subire un’ossidazione catalitica e portare alla formazione di acido solforico (Schema 2). Schema 2 – Reazioni di formazione dell’acido solforico H2O O2

SO2 SO2

H2SO3

O2

SO3

H2SO4

H2O

H2SO4

Come si è già detto, le pietre carbonatiche sono molto sensibili all’attacco degli acidi, i quali ne trasformano i costituenti attraverso alcune reazioni chimiche (Schema 3).

10


Schema 3 – Reazioni chimiche che possono trasformare le rocce di tipo calcareo

CaCO3 + CO2 + H2O CaCO3 + 2 HNO3

Ca(HCO3)2 Ca(NO3)2 + H2O + CO2

CaCO3 + H2SO4 + H2O

CaSO4 2 H2O + CO2

Nella prima reazione riportata nello Schema 3, si osserva come la presenza di anidride carbonica e acqua possano portare alla formazione di bicarbonato di calcio da carbonato di calcio, questo processo può danneggiare la pietra perché il bicarbonato di calcio è più solubile del carbonato di calcio che presenta un Kps pari a 4.96 · 10-9. Si può avere pertanto una maggiore solubilizzazione della pietra ed una possibile riprecipitazione in zone diverse della superficie o della struttura interna del materiale calcareo con una conseguente alterazione, sia estetica che chimico-fisica, del manufatto. Da queste osservazioni si può evincere come la porosità del materiale lapideo influisca notevolmente sul processo di degrado: maggiore è la porosità e più rapido sarà il processo di degrado in quanto acqua e inquinanti gassosi penetreranno più facilmente. Nel caso delle rocce silicee il degrado dovuto da un attacco acido è più lento, ma comunque questi materiali possono subire un degrado anche se diverso dal precedente. Esse possono subire la sostituzione degli ioni Na+ o K+ con ioni H+, ciò può provocare la rottura del reticolo cristallino portando ad una diminuzione della resistenza meccanica del materiale. Questi processi chimici portano ad un indebolimento strutturale di notevole entità proprio a causa dell’effetto combinato di acqua, inquinanti e variazioni di temperatura. Infatti, in particolari condizioni di temperatura e umidità, sulla superficie della pietra può formarsi un sottile strato di condensa e si può avere 11


sia la solubilizzazione di gas acidi sia la deposizione di sporco in forma di aerosol e particelle carboniose. La soluzione che deriva dalla solubilizzazione di gas acidi può essere altamente concentrata e quindi molto aggressiva. Su edifici costruiti con materiali carbonatici le piogge, acidificate da CO2, SO2 e NOx lisciviano la pietra con la quale entrano in contatto, portando via lo sporco depositato e producendo l’assottigliamento del materiale. In zone protette dalla pioggia, lo sporco può invece accumularsi. Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle facciate degli edifici in cui sono presenti elementi architettonici come cornicioni, colonne e davanzali; questi hanno alcune parti esposte alla pioggia (che mantengono il colore originario della pietra) ed altre protette (che assumono una colorazione che va dal grigio al nero). Le aree nere sono costituite da croste fortemente legate alla superficie lapidea e composte da cristalli di gesso (CaSO4 • 2H2O) miscelati con particelle carboniose e polveri. In una fase successiva le parti più sporgenti si staccano e cadono, esponendo la superficie sottostante a un nuovo processo di deterioramento2. Zone che presentano fratture o crepe sono soggette ad un maggior assorbimento di acqua e, rimanendo più a lungo bagnate, sono maggiormente esposte a queste trasformazioni. Le zone di edifici non bagnate dalla pioggia sono spesso in ombra e quindi, avendo una temperatura più bassa, sono soggette alla condensazione del vapor d’acqua sulla loro superficie dando luogo agli stessi processi di deterioramento sopra esposti. Aggressioni combinate di questo tipo possono portare all’alterazione di manufatti nel corso del tempo. Data la molteplicità delle cause dell’alterazione dei manufatti lapidei e vista l’esigenza di eseguire restauri conservativi, è evidente la necessità di effettuare trattamenti consolidanti e protettivi sugli edifici e altri manufatti, per ristabilire il più possibile le caratteristiche originarie di tali materiali, soprattutto dal punto di vista della coesione e della resistenza meccanica. A tale scopo sono stati usati e si usano tuttora, prodotti polimerici sintetici i quali, avendo 12


proprietà idrorepellenti, possono avere un ruolo chiave sia come consolidanti che come protettivi.

1.1.2 - Trattamenti conservativi dei materiali lapidei – Consolidanti e protettivi Consolidanti: Il consolidamento è un’operazione largamente usata nei trattamenti conservativi per impartire resistenza strutturale a manufatti deteriorati che rischiano la distruzione9. Nei materiali che richiedono il consolidamento, gran parte dei leganti che tenevano insieme i granuli dei minerali sono andati perduti, al punto che la struttura non è più capace di sostenere il proprio peso e mantenere la propria forma. Per effettuare una valutazione dei vari consolidanti dobbiamo prendere in esame molti parametri, come evidenziato al Colloquio Internazionale ICCROM “Methods of evaluating products for the conservation of porous building materials in monuments”10. Fissando l’attenzione sui più importanti dobbiamo ricordare la profondità di penetrazione (s), la permeabilità al vapor d’acqua (µ), l’aspetto finale, il modulo di elasticità, i coefficienti di dilatazione idrica e termica (aHy e aTH), l’incremento di resistenza meccanica impartito al manufatto a seguito del trattamento. Affrontando per prima la questione sulla profondità di penetrazione, è necessario ricordare che un problema nell’applicazione di tutti i prodotti consolidanti è quello della loro viscosità. Un trattamento consolidante dovrebbe penetrare attraverso lo strato esterno e arrivare al nucleo sano del materiale, 13


senza creare zone di discontinuità. Il valore minimo di penetrazione dipenderà dalle caratteristiche della pietra e dal degrado raggiunto10. Un buon consolidante deve inoltre mantenere una permeabilità al vapor acqueo analoga a quella della pietra originale in modo da permettere il passaggio delle molecole d’acqua dall’interno della pietra all’esterno. Per misurare la permeabilità al vapor acqueo si fa uso di particolari flussimetri5. Per mantenere una buona permeabilità al vapor acqueo è necessario non ridurre drasticamente la porosità della pietra con l’aggiunta del consolidante: un consolidante che riempia completamente i pori, non permette l’evaporazione dell’acqua presente nel materiale. Se il consolidante si concentra in superficie questa, a causa della ridotta permeabilità e dell’accumulo di acqua negli strati interni, può distaccarsi dallo strato sottostante7. Per misurare la porosità della pietra si fa uso di apposite strumentazioni quali il porosimetro a mercurio (fornisce sia la porosità effettiva che la distribuzione della dimensione dei pori) o il picnometro ad elio (fornisce una valutazione del volume effettivo dei pori del campione intesa come porosità totale). L’aspetto finale di un’opera trattata con un consolidante può variare se il consolidante opera a livello superficiale ma per questo rimandiamo alla descrizione sui protettivi. La resistenza meccanica di una pietra porosa è legata a tre tipi di coesione: •

Ponti minerali (ne è un esempio la calcite che tiene insieme granuli di quarzo nelle arenarie)

Forze di adesione tra le superfici dei minerali (forze elettrostatiche e ponti a idrogeno dovuti all’acqua interstiziale)

Blocchi meccanici (sterici e di ingombro) Una pietra decoesa ha perduto parte di queste forze e le finalità

dell’applicazione di un consolidante è quella di ripristinarle in parte, 14


aumentando la resistenza meccanica dell’oggetto in modo da prolungarne la fruibilità. Esistono diverse tecniche di valutazione della resistenza meccanica a seconda del tipo di resistenza meccanica che si vuole determinare: forza di flessione biassiale, abrasione Taber, compressione, resistenza alla perforazione, velocità ultrasoniche. I trattamenti consolidanti possono essere condotti sia con prodotti inorganici che organici. Per i primi, la procedura utilizzata consiste nell’indurre la precipitazione, all’interno dei pori, di un composto scarsamente solubile, derivante dalla reazione dell’agente consolidante con i componenti del materiale lapideo, con la CO2 dell’aria o con l’acqua. Consolidanti inorganici per rocce di tipo calcareo possono essere l’idrossido di bario o di calcio che danno luogo alla formazione dei rispettivi carbonati per reazione con l’anidride carbonica presente nell’atmosfera. Nel caso di rocce silicatiche è possibile utilizzare consolidanti come il silicato di etile che, a seguito della reazione di idrolisi, con l’acqua presente come umidità nella pietra, e successiva condensazione, forma la silice amorfa capace di ristabilire la coesione all’interno della roccia silicatica. Per i consolidanti organici il meccanismo di consolidamento consiste nella creazione di una rete di polimero che avvolge i granuli decoesi, cementandoli. Benché i consolidanti inorganici siano strutturalmente più affini ai materiali lapidei rispetto a quelli organici, essi non riescono a saldare fratture superiori a 50-100 µm. Qualora il prodotto impiegato come consolidante abbia, in funzione della sua composizione chimica, caratteristiche di idrorepellenza, il trattamento avrà anche un effetto protettivo, riducendo la penetrazione dell’acqua all’interno del manufatto. I prodotti organici, in genere polimerici, vengono applicati in soluzione e penetrano nelle cavità porose del substrato. Evaporato il solvente, uno strato 15


di prodotto ricopre i granuli dei minerali esplicando l’azione consolidante. La scelta del solvente è determinante per il successo del trattamento: un’evaporazione troppo veloce non permette al consolidante di penetrare in profondità nella pietra, una troppo lenta non permette un completo allontanamento del solvente usato5. Un certo controllo sulla capacità di penetrazione del consolidante può essere ottenuto aumentando o diminuendo il peso molecolare del prodotto polimerico. Una grave limitazione nell’uso dei consolidanti organici consiste nel loro invecchiamento, causato da ossidazione (ossigeno, ozono), idrolisi (acqua) o rottura omolitica di legami (radiazioni UV e IR) che possono inoltre innescare processi

di

decomposizione

a

catena.

Le

conseguenze

includono

l’ingiallimento, la diminuzione del potere adesivo e coesivo, il progressivo aumento della fragilità del polimero, etc. La differenza sia chimica che strutturale dei consolidanti organici rispetto ai materiali lapidei, si riflette inoltre nel diverso comportamento in seguito a variazioni termiche, che può condurre a tensioni interne. Per evitare tali tensioni è importante che i polimeri applicati abbiano una temperatura di transizione vetrosa (Tg) intorno alla temperatura ambiente. In questo modo, durante le dilatazioni della pietra, possono deformarsi facilmente senza creare tensioni per poi tornare alla loro forma originale quando la temperatura diminuisce nuovamente. E’ stato introdotto il concetto di Tg ma è necessario un breve cenno a cosa si intende per Tg, ovvero temperatura di transizione vetrosa. Essa è la temperatura a cui avviene una transizione di fase del secondo ordine del polimero al di sotto della quale il polimero stesso si presenta duro e fragile. Al di sopra della Tg il polimero ha proprietà viscoso/elastiche simili alla gomma. In pratica, quando un polimero assorbe calore e la temperatura aumenta, alcune parti delle sue catene iniziano a muoversi le une rispetto alle altre e, dalla Tg in 16


poi, le interazioni secondarie si indeboliscono sempre di più, creando un comportamento sempre più fluido. Un consolidante ideale deve inoltre avere un’influenza minima sulle proprietà ottiche del materiale trattato, resistere agli agenti chimici e alle radiazioni UV e non deve reagire con il substrato né dare luogo alla formazione di sottoprodotti dannosi per il materiale lapideo stesso. La reversibilità non ha in questo caso grande importanza. Infatti è impossibile rimuovere un prodotto, penetrato all’interno di una struttura porosa con lo scopo di ristabilire la coesione tra parti distaccate, senza al tempo stesso provocare la perdita delle parti decoese7. Protettivi: La funzione primaria di un protettivo è quella di impedire l’ingresso nel materiale lapideo dell’acqua sia questa piovana o di condensazione, e quindi di costituire una barriera contro la penetrazione nella pietra degli inquinanti atmosferici disciolti nell’acqua. Come per i consolidanti rimandiamo agli atti del Colloquio Internazionale ICCROM di Roma per l’estesa trattazione sui parametri da considerare nella valutazione di un protettivo11. Secondo la raccomandazione Normal 20/85 i requisiti essenziali di un protettivo sono: •

Inerzia chimica nei riguardi del materiale lapideo

Assenza di sottoprodotti dannosi anche a distanza di tempo dall’applicazione

Stabilità chimica, in particolare rispetto agli inquinanti ed all’ossigeno

Stabilità alle radiazioni UV

Idrorepellenza

Permeabilità al vapor acqueo

Proprietà ottico-cromatiche idonee alla superficie da trattare 17


Solubilità in specifici solventi organici (possibilmente atossici) anche dopo invecchiamento per consentirne la rimozione nel corso di successivi interventi di manutenzione (reversibilità) L’idrorepellenza di un trattamento può essere valutata mediante tre

diverse tecniche: determinazione del coefficiente di assorbimento d’acqua per capillarità (UNI 10859), per immersione totale (Raccomandazione Normal 7/81) o l’assorbimento d’acqua a bassa pressione (Raccomandazione Normal 44/93). La valutazione della permeabilità al vapor acqueo avviene generalmente con il metodo detto “del bicchierino” (norma UNI 10921)12. Un buon protettivo deve avere buone caratteristiche di reversibilità cioè la possibilità di rimuovere il protettivo applicato in un momento successivo. Affinché un protettivo sia reversibile è necessario che nel tempo non degradi diventando insolubile. Nel caso di polimeri sintetici utilizzati come protettivi una delle cause di degrado è la formazione di reticolazioni tra le catene polimeriche che provocano la perdita di solubilità. Questo processo può essere innescato da reazioni foto-ossidative e pertanto è spesso necessario aggiungere degli stabilizzanti che evitino reazioni di questo genere. Nel caso di protettivi per opere pittoriche (ad esempio affreschi), una condizione indispensabile per l’utilizzo di un protettivo è la sua trasparenza che si rispecchia in un valore ottimale dell’indice di rifrazione del protettivo stesso.

18


1.2 - Materiali pittorici 1.2.1 - Tecniche pittoriche Esistono diverse tecniche pittoriche, che si differenziano per i materiali e gli strumenti usati e per le superfici sulle quali l’opera è stata eseguita. Le prime superfici sulle quali l’uomo ha realizzato primitive forme d’arte pittorica, geometrica e figurativa, sono state le pareti delle caverne. La tecnica dell’affresco, praticata già nell’antichità, ha subito mutazioni nel corso dei secoli e ha raggiunto il culmine del suo sviluppo nel tardo Medioevo e nel Rinascimento. Nell’esecuzione di questa tecnica si applica uno strato di arriccio (calce spenta, sabbia e acqua) sul muro destinato all’opera. Quando questo strato è asciutto, se ne stende uno di intonaco (sabbia fine, polvere di marmo, calce e acqua) sul quale, ancora umido, si dipinge l’opera con colori di origine minerale. La calce spenta Ca(OH)2, asciugandosi lentamente, reagisce con l’anidride carbonica dall’aria trasformandosi in CaCO3 che fissa definitivamente sia la sabbia che il colore di cui l’intonaco è impregnato. Insieme all’affresco, la pittura a tempera è considerata una delle tecniche più antiche. Conosciuta già dai Greci, dai Romani (pitture parietali pompeiane) e dagli Etruschi (decorazioni tombali), in Europa la tecnica della tempera soppiantò l’uso di tecniche più antiche nel X secolo. Essa veniva utilizzata sia per l’esecuzione di dipinti su pannello che per l’illustrazione di manoscritti (miniature), spesso realizzati su un fondo d’oro. La tempera è un impasto cromatico che veniva preparato unendo il pigmento (terre naturali e pietre colorate) con sostanze collanti quali la colla di pesce, il tuorlo d’uovo, la gomma arabica, il latte di fico o altre sostanze solubili in acqua utilizzate per far aderire il colore al supporto, che poteva 19


essere carta, tela, pietra o legno. La pittura su quest’ultimo substrato, detta su tavola, fu caratteristica dell’Arte Bizantina e fu utilizzata in Europa nel periodo compreso tra il XII e il XV secolo. La realizzazione di questo tipo di dipinti era piuttosto laboriosa: il pannello in genere di pioppo, salice o tiglio stagionato veniva preparato con una mistura di colla animale e resina e ricoperto con il lino. Quando questo strato era asciutto, su di esso venivano stesi numerosi strati di gesso e colla l’uno sull’altro fino a ottenere una superficie liscia e dura, simile all’avorio. Si eseguiva poi il disegno con un carboncino e infine, utilizzando colori a tempera, il dipinto veniva ultimato a piccoli tocchi. Le superfici a tempera, morbide e delicate, non si scuriscono con il passare del tempo. La tempera ebbe il suo periodo di massimo splendore nel Rinascimento, anche se, dalla metà del Quattrocento, la tecnica iniziò ad accogliere componenti oleosi, avvicinandosi sempre più alla tecnica della pittura ad olio. Quest’ultima fu indubbiamente diffusa in Italia dallo studio sistematico e dall’opera dei due fratelli fiamminghi Hubert e Jan Van Eyck. E’ infatti nel XVI secolo che si ebbe un rapido sviluppo di questa tecnica, che per più di quattrocento anni divenne la più utilizzata. L’impasto usato era formato da pigmenti e olio di lino, di noce o di papavero, talvolta con l’aggiunta di resine. I colori a olio asciugavano con l’esposizione all’aria, per reazione tra il legante e l’ossigeno. L’olio di lino, data la sua sensibilità all’ossigeno e il suo alto contenuto di acido linolenico, ingiallisce nel tempo, e quindi il suo utilizzo era sconsigliato per alcuni pigmenti come il bianco e il blu, per i quali si utilizzava l’olio di papavero, meno siccativo. Come diluenti venivano invece utilizzati oli essenziali di origine vegetale (essenza di trementina o di lavanda). I supporti utilizzati erano il legno, la tela di lino, cotone o canapa tesa su un telaio mobile o incollata su tavola. Sul supporto veniva stesa a più riprese l’imprimitura, una mistura di colla e gesso, che rendeva il substrato meno assorbente e garantiva la 20


presa e la stabilità dei colori. L’esecuzione dell’opera avveniva, normalmente, con la preparazione di un fondo monocromatico per sovrapposizione di strati successivi, ogni volta che il precedente risultava asciutto. Si realizzava successivamente l’opera desiderata e sul dipinto finito e perfettamente asciutto si stendevano delle vernici allo scopo di proteggere ed esaltare i colori. Queste, essendo la parte più esterna e vulnerabile di un dipinto, andavano e vanno incontro a processi di invecchiamento provocando un’alterazione cromatica. Come viene spiegato più in dettaglio nel paragrafo successivo, nel corso dei secoli sono state utilizzate vernici diverse, e tuttora si ricercano, tra le resine naturali e sintetiche, quelle che abbiano le caratteristiche migliori. La tecnica del pastello conobbe il suo periodo di maggiore fioritura nella Francia del ‘700, per declinare alla fine del secolo. Questa tecnica, utilizzata soprattutto nella produzione dei ritratti, si serviva di bastoncini di pastello, ottenuti da un impasto di pigmenti puri in polvere, acqua ed un agglutinante. Il supporto utilizzato era generalmente carta sufficientemente ruvida da inglobare le particelle di pastello, saldamente trattenute al termine dell’opera dall’eventuale aggiunta di un fissativo incolore. L’acquarello è stata invece una tecnica di origini antiche (Egitto, II sec. a.C.; Estremo Oriente, III sec. d.C.) usata in Europa soltanto a partire dal Medioevo per le miniature dei manoscritti. Nel XV secolo si faceva uso di disegni acquerellati per preparare i bozzetti di pitture più impegnative e soltanto nel XVIII secolo acquistò una forma artistica autonoma. La tecnica pittorica usava polvere colorata finemente macinata, solubilizzata o stemperata in acqua che unita a gomma arabica, zucchero, miele o glicerina, dava vita a colori trasparenti, applicati generalmente su carta. Esistono

innumerevoli

altre

tecniche

pittoriche,

antiche

e

contemporanee, tra le quali si possono citare l’encausto, in cui si usavano colori dispersi nella cera fusa; il guazzo, in cui i colori coprenti erano ottenuti da una 21


sospensione di pigmenti, acqua e biacca, il mosaico, in cui il disegno si otteneva dall’accostamento di cubetti o frammenti colorati di pietra o vetro, e infine le più recenti pittura murale, eseguita con leganti sintetici (ad esempio alcune resine siliconiche) e pittura digitale, realizzata tramite un computer e un software grafico e successivamente stampata.

1.2.2 - Le vernici finali per le pitture ad olio Le vernici sono raggruppate in due principali tipologie che differiscono per la formulazione, ma che in ogni caso richiedono l’impiego di un materiale liquido stendibile e capace di trasformarsi in un film, attraverso un processo chimico o fisico13. Storicamente, le vernici sono derivate dagli stessi materiali usati per legare i pigmenti. Le prime vernici, già utilizzate nel XI secolo, furono le vernici a olio o vernici grasse, preparate bollendo resine naturali, quali la sandracca, la resina mastice e la colofonia, in oli siccativi come l’olio di lino o di noce. Essiccanti come piombo bianco o litargirio erano spesso aggiunti per accelerare il processo di essiccamento14, che consisteva nell’ossidazione e nella polimerizzazione dell’olio e portava alla sua trasformazione in un film permanente e scarsamente solubile. Il secondo tipo di vernici, che sostituirono gradualmente le vernici a olio, furono le vernici a solvente, costituite da una soluzione colloidale di resine naturali o sintetiche in opportuni solventi organici volatili. Dall’evaporazione del solvente aveva origine un film sottile ed elastico, facilmente rimuovibile con lo stesso solvente o con solventi simili. E’ stato spesso usata l’espressione vernice a spirito per riferirsi a questa classe di prodotti, in quanto proprio l’alcol etilico, insieme all’essenza di trementina13 è stato uno dei solventi originariamente più utilizzati (soprattutto per la gommalacca). Queste nuove 22


vernici, usate per la prima volta nel XVI secolo in Italia, si diffusero in tutta l’Europa nel XVII secolo. Le resine più comunemente usate per le vernici a spirito erano la resina mastice, la sandracca e la colofonia, ma anche la trementina di Venezia è stata altrettanto impiegata. La resina dammar fu introdotta nel XIX secolo ed è generalmente considerata più stabile delle altre resine naturali14. Con le evoluzioni dei materiali e delle tecniche artistiche avvenute nella seconda metà del XIX secolo, in gran parte conseguenti all’avvento dell’Impressionismo, la vernice finale ha subito un declino, ma ancora oggi molti artisti ne fanno uso15. Attualmente la scelta delle vernici si orienta verso quelle a solvente poiché sono reversibili. La reversibilità è infatti indispensabile in questo campo in quanto le vernici, sia naturali che sintetiche, hanno una durata limitata nel tempo sia a causa della loro instabilità che della deposizione di ‘polvere’ sulla loro superficie, che impone periodiche sostituzioni13. I film delle vernici devono possedere un insieme di caratteristiche connesse alle funzioni, protettive ed estetiche, che devono svolgere. Per quanto riguarda il primo obiettivo, una vernice ideale deve essere capace di offrire una resistenza all’abrasione e alle polveri abrasive, che potrebbero provocare danni durante le spolverature. A questo scopo il film deve presentare una sufficiente durezza, necessaria inoltre per rallentare il fissaggio della polvere. Per evitare l’insorgere di crettature o distacchi del film pittorico, conseguenti a eventuali movimenti indotti dal supporto, il film deve essere adeguatamente elastico. Per esplicare l’azione protettiva la vernice deve funzionare da schermo verso le radiazioni elettromagnetiche, soprattutto quelle ultraviolette, che possono innescare fenomeni di alterazione sia a carico dei pigmenti che soprattutto dei leganti. Resine naturali come la dammar o la mastice risultano più efficienti di quelle sintetiche a questo scopo. Il film deve infine proteggere i 23


pigmenti dalla penetrazione dell’acqua nello stato di vapore e dei gas dannosi come gli ossidi di zolfo e di azoto, l’ozono e l’ossigeno. La funzione estetica della vernice è di estrema importanza e dipende, come vedremo più avanti, dalle caratteristiche chimico/fisiche dei prodotti utilizzati. 1.2.3 - Effetto ottico delle vernici Quando si osserva un dipinto, l’immagine che vediamo deriva da un insieme di fenomeni fisici dovuti dall’interazione della luce con il film pittorico e, più precisamente, con i suoi costituenti. Gli strati pittorici sono generalmente composti da un impasto di materiali colorati in forma di polvere fine (pigmenti) dispersi in un legante trasparente omogeneo (medium). Il colore viene applicato in stesure sottili (decine di µm) sopra un fondo (preparazione) bianco o anch’esso colorato. Lo strato pittorico può infine essere coperto da un film protettivo, costituito da una delle vernici di cui si è parlato nel precedente paragrafo. Quando un fascio di luce bianca investe una superficie, una parte della radiazione viene assorbita nel materiale e una parte viene respinta. Se la superficie possiede irregolarità che sono di dimensioni minori della lunghezza d’onda della luce incidente, la radiazione viene riflessa in un’unica direzione con un angolo uguale a quello di incidenza (riflessione speculare); se la superficie presenta asperità di dimensioni dello stesso ordine di grandezza della lunghezza d’onda del raggio incidente, questo viene respinto in numerose direzioni dello spazio (riflessione diffusa o scattering). Se il corpo irraggiato è trasparente, la frazione di raggio che penetra all’interno del corpo subisce una deviazione dalla direzione di incidenza. La relazione tra l’angolo formato tra la direzione della radiazione incidente e la normale al piano (Figura 3 - angolo di 24


incidenza, i) e l’angolo formato dalla direzione della radiazione rifratta e la normale al piano (angolo di rifrazione, θ) è dato dalla espressione (nr = sen i / sen θ) dove nr è l’indice di rifrazione del secondo mezzo rispetto al primo. Tale valore varia con la lunghezza d’onda della radiazione e con le caratteristiche dei mezzi attraversati. Durante l’irraggiamento di un corpo, una parte della radiazione può venire assorbita mentre una parte viene riflessa; ogni sostanza, in relazione alla propria costituzione chimica, può assorbire selettivamente le radiazioni di alcune lunghezze d’onda, riflettendo le altre e determinando la propria colorazione. Figura 3 – Angolo di incidenza i e angolo di rifrazione θ.

Ciò che determina la colorazione del film pittorico è principalmente il pigmento, in quanto vernice e medium sono trasparenti e generalmente incolori. Tuttavia il colore è prodotto sia dall’assorbimento selettivo di alcune lunghezze d’onda della radiazione incidente, sia da fenomeni di scattering e di rifrazione originati dalla granulometria del pigmento. Più il pigmento è finemente macinato, maggiore è la diffusione della luce; questa è però influenzata anche dal rapporto tra l’indice di rifrazione del pigmento e quello del medium: maggiore è questo rapporto, più opaco e quindi più coprente risulta il film. Se il film pittorico non è totalmente coprente, una frazione del raggio di luce, 25


superato lo strato di pittura, può raggiungere il sottofondo preparatorio, e originare fenomeni di scattering o di assorbimento aggiuntivi. Nel passato gli artisti hanno steso fondi di colori particolari (verde sotto il rosa della carne nella pittura medievale, rosso sotto l’oro) che, per contrasto, davano risalto al film pittorico oppure producevano particolari effetti cromatici13. Come già detto, lo strato di vernice finale agisce otticamente sullo strato pittorico. Nel caso di una superficie pittorica liscia, la parte di luce riflessa è minore di quella che penetra nel dipinto e la riflessione è soprattutto speculare. Irregolarità microscopiche su una superficie pittorica hanno l’effetto di incrementarne l’area con conseguente maggior diffusione della radiazione. Una causa di ruvidità negli strati pittorici è la sporgenza delle particelle di pigmento dalla superficie del dipinto e questo effetto può essere aggravato in quei dipinti soggetti a una pulizia frequente, per effetto della lisciviazione del mezzo legante14. La luce diffusa da una superficie ‘ruvida’ è bianca, diversamente da quella che raggiunge e penetra lo strato pittorico che viene riflessa come luce colorata. La miscelazione della luce bianca di scattering con quella colorata causa una desaturazione del colore. Dipinti con superfici lisce avranno quindi, non solo una maggiore lucentezza, ma anche colori più saturi rispetto ai dipinti con superfici rugose. L’applicazione di una vernice su un dipinto rugoso ha l’effetto di livellare la sua superficie. Oltre alle conseguenze appena esposte, la verniciatura provoca uno scurimento dei colori dovuto al fatto che le particelle di pigmento sono immerse in un mezzo con indice di rifrazione maggiore dell’aria (Tabella 2). Una buona vernice rende visibili anche le sottili differenze di colore, soprattutto nei paesaggi scuri, eliminando la luce bianca dovuta a scattering14. Le proprietà ottiche finali delle vernici dipendono da un complesso di fattori che includono le proprietà fisiche della resina e della sua soluzione di 26


applicazione (viscosità, velocità di evaporazione del solvente, indice di rifrazione), il medium pittorico (rugosità, porosità, indice di rifrazione) e il metodo di applicazione (pennello o spray)16. Tabella 2 – Indici di rifrazione di resine usate come vernici in pittura14

Vernice

Indice di rifrazione

mastice

1.536

dammar

1.539

sandracca

1.545

colofonia

1.525

ambra

1.546

Laropal K80

1.529

Paraloid B72

1.487

Polivinilacetato

1.467

Poli-n-butilmetacrilato

1.483

Poli-i-butilmetacrilato

1.477

Regalrez 1094

1.519

1.2.4 - Il degrado delle resine naturali Le vernici sono la parte più vulnerabile di un dipinto in quanto essendo l’ultimo strato, sono direttamente esposte agli effetti deterioranti provocati dall’ambiente che le circonda. Queste esplicano una protezione nei confronti degli strati pittorici, funzionando da ‘filtro’ per le radiazioni UV e proprio per questo sono più soggette al loro effetto distruttivo15. Le resine, in particolare quelle naturali, 27


sono pertanto chimicamente e fisicamente instabili, si deteriorano a causa di processi di foto-ossidazione o di altre reazioni, tendendo a ingiallire, opacizzare e fratturarsi. Le vernici degradate tendono a modificare la luminosità e il colore originale dell’immagine sottostante e spesso devono essere rimosse e sostituite con vernici nuove. La rimozione è effettuata con solventi organici o con mezzi meccanici e può costituire un rischio per la superficie dipinta. Lo strato pittorico non è generalmente solubile nei comuni solventi in quanto i leganti usati, solitamente oli siccativi, vanno incontro con il passare degli anni a un processo di polimerizzazione e crosslinking che li rende solidi e insolubili. Talvolta però l’azione ripetuta del solvente può causare fenomeni di rigonfiamento o di lisciviazione del legante dello strato pittorico durante il processo di rimozione delle vernici. A titolo di esempio si riportano le reazioni di degradazione alle quali va incontro la resina dammar che, nonostante sia particolarmente apprezzata per le sue qualità ottiche, è soggetta a un precoce invecchiamento che conduce alla rottura, annebbiamento, perdita di lucentezza e ingiallimento del film di vernice. Tali alterazioni sono originate da un processo di degradazione fotoossidativa, comune a molte altre resine (Schema 4). Il meccanismo che spiega il processo di foto-ossidazione è di tipo radicalico e ha inizio con la rottura omolitica di un legame. I gruppi carbonilici vanno incontro a questo tipo di reazione se sottoposti a radiazioni ultraviolette (reazione Norrish I) e possono quindi costituire una fonte di radicali nelle molecole in cui sono presenti. I radicali si possono formare anche per altre vie (soprattutto dalla decomposizione degli idroperossidi) e funzionare da iniziatori (I) delle ossidazioni radicaliche, estraendo un idrogeno dalle molecole organiche (RH) con cui entrano in contatto e producendo un radicale alchilico (R•), che è estremamente reattivo. Quest’ultimo infatti reagisce immediatamente 28


con l’ossigeno, trasformandosi nel radicale perossidico (ROO•), che conduce, anche se con una velocità inferiore, all’idroperossido (ROOH), tramite estrazione di un ulteriore atomo di idrogeno da un’altra molecola organica. L’idroperossido è anch’esso una specie instabile e si può decomporre anche a bassa temperatura e in assenza di luce generando un radicale perossidico (ROO•) oppure un radicale alcossilico (RO•) ed uno idrossilico (•OH). La reazione di ossidazione può terminare per reazione tra due radicali perossidici, con formazione di un perossido organico (ROOR) ed ossigeno. Il perossido stesso, seppure più lentamente, può decomporsi fornendo due radicali alcossilici. Il processo quindi è autoalimentato in quanto da un piccolo numero di radicali iniziali si possono avere profonde alterazioni della struttura molecolare in vaste zone del materiale. Schema 4 – Meccanismo di foto-ossidazione radicalica rottura omolitica del legame O

RI

R

O

UV

O

Norrish tipo I

+ R

RI

RI

RI +

R + CO

R

iniziazione R

+

H

R + I

I

H

I = iniziatore radicalico derivato dalla rottura omolitica del legame per foto-ossidazione

propagazione R + O2 R H + ROO

ROO ROOH + R

terminazione ROO

+ ROO

ROOR + O2

29


Tra i gruppi funzionali sensibili alle radiazioni ultraviolette, che portano all’ossidazione dei materiali organici ci sono, oltre ai gruppi carbonilici sopra riportati anche gli atomi di idrogeno in posizione ι ai doppi legami C = C o legati ad atomi di carbonio terziari17. I radicali alcossilici, derivanti dalle reazioni viste in precedenza (Schema 4), possono trasformarsi in chetoni o in aldeidi che a loro volta possono essere rapidamente ossidate ad acidi (Schema 5). Schema 5 – Meccanismo di formazione di gruppi chetonici, aldeidici e carbossilici

La formazione di composti colorati è attribuita alla formazione di prodotti attraverso la sequenza di reazioni riportata nello Schema 6.

30


Schema 6 – Meccanismo di formazione di composti colorati a - Norrish tipo II

RI

RI

RII

II

H

R

RI

OH

OH

O

RII

R

hν R

R

OH

RI

+ R

RII

b - disproporzionamento tra radicali alchilici R

+

H2C

C H2

R

+

H

H2C

c - formazione di carbonili α,β - insaturi

C H

C H

O2

C H2

C H

OH C H

H C

C H

C H

H C

C H

OOH

O H

C H

C H

C O

d - isomerizzazione di doppi legami isolati in sistemi coniugati C H

C H

H2 C

C H

C H ROO

C H

C H

C H

C H

C H

C H

C H

C H

H C

C H

C H

C H

C H

ROOH

C H

C H

In genere la colorazione gialla e la fluorescenza visibile nelle resine invecchiate è attribuita alla presenza di gruppi carbonilici coniugati a insaturazioni, derivanti ad esempio dall’azione combinata di reazioni di condensazione aldolica con reazioni di disidratazione (Schema 7) successive alla formazione di gruppi carbonilici durante il processo di foto-ossidazione.

31


I prodotti aldolici sono infine soggetti a disidratazione. Se il materiale su cui avvengono queste reazioni è un prodotto della degradazione foto-ossidativa, probabilmente esso contiene già alcune insaturazioni. Schema 7 – Meccanismo di formazione di sistemi α,β-insaturi

Grazie al contributo delle reazioni di isomerizzazione riportate nello Schema 6d si possono quindi formare prodotti con estesi sistemi di doppi legami coniugati, che sono cromofori e assorbono nell’UV e nel visibile. I sistemi carbonilici e carbossilici partecipano alla coniugazione riducendo il numero di doppi legami coniugati necessari affinché il sistema formato assorba la luce. Proprio perché i prodotti di degradazione possono assorbire la luce, la quantità di radiazioni elettromagnetiche che raggiungono la zona sotto la superficie della vernice diminuisce a causa dell’invecchiamento della vernice stessa, esplicando così un’azione protettiva per gli strati più profondi. Tuttavia la vernice coloratasi durante l’invecchiamento riduce la visibilità e la luminosità dell’opera sottostante. Nelle operazioni di restauro, per garantire una migliore conservazione del dipinto, è possibile rimuovere soltanto la parte più esterna e danneggiata di una vernice, esponendo così lo strato pittorico a minori sollecitazioni. L’invecchiamento favorisce anche reazioni di crosslinking che possono portare alla formazione di frazioni insolubili. La ricerca scientifica si sta muovendo in due diverse direzioni per diminuire gli interventi di rimozione delle vernici che rappresentano sempre un potenziale pericolo per la salvaguardia dell’opera: da un lato si sta orientando 32


verso la stabilizzazione delle resine, principalmente quelle sintetiche, tramite l’aggiunta di appropriati antiossidanti, dall’altro sta sviluppando la sintesi di nuovi prodotti polimerici che presentino migliori prestazioni come vernici. 1.2.5 - Effetto degli stabilizzanti Sono noti molti tipi di stabilizzanti in grado di limitare e prevenire il degrado dei polimeri dovuto ai processi foto-ossidativi tramite reazione con i radicali liberi che si formano (radical scavenger), con gli idroperossidi o assorbendo le radiazioni UV (assorbitori UV). Tra tutti i prodotti disponibili, solo due tipi sono adatti ad essere utilizzati nel campo della conservazione18. Il primo (assorbitori UV) include molecole che assorbono le radiazioni ultraviolette e, grazie a reazioni tautomeriche, tornano allo stato fondamentale emettendo energia termica. In genere sono dei derivati dell’o-idrossibenzofenone o del 2-(2-idrossifenil)benzotriazolo19 (Schema 8). I derivati del benzotriazolo danno reazioni di degradazione in presenza di gruppi carbonilici e quindi non possono essere introdotti in quei materiali che li contengono, come la resina dammar e le resine chetoniche. Questa limitazione è stata aggirata usando una vernice formata da due film sovrapposti: quello inferiore costituito dalla resina chetonica e quello superiore, di protezione, di vernice acrilica in cui è presente lo stabilizzante UV20.

33


Schema 8 – Meccanismo di trasformazione della radiazione elettromagnetica in energia termica o-idrossibenzofenone H O

O

en

hν

er

gi at er

H O

O

energia termica

m ic a

H O

O

Al secondo tipo di stabilizzanti UV (light stabilizer) appartengono quei composti costituiti da ammine impedite (HALS). In genere sono ammine secondarie o terziarie derivate dalla 2,2,6,6-tetrametilpiperidina (Figura 4). Figura 4 – 2,2,6,6-tetrametilpiperidina

H N

Questi stabilizzanti sono capaci di fornire una protezione dai processi degradativi termici e fotochimici, bloccando la propagazione dei radicali che si formano. 34


Nel caso di prodotti da impiegare come vernici sui dipinti, il modo migliore per ottenere una buona stabilità è quello di combinare un HALS con un assorbitore UV o alternativamente, schermare la radiazione UV sfruttando, in ambienti chiusi, il potere filtrante del vetro delle finestre17. Film di resina dammar contenenti il 2% di Tinuvin 292 (HALS) e il 3% di Tinuvin 328 (assorbitore UV) (Figura 5) resistono a un protratto invecchiamento accelerato, se dalla luce vengono escluse le radiazioni a lunghezza d’onda inferiore ai 400 nm21. Figura 5 – Strutture chimiche del Tinuvin 292 e del Tinuvin 328

O O

N O

80%

O

N

O O

O

N

O Tinuvin 292

OH N N N Tinuvin 328

35

20%


1.2.6 - Polimeri sintetici a basso peso molecolare

La sintesi di polimeri da usare come vernici è proiettata verso prodotti a basso peso molecolare solubili in solventi idrocarburici o a basso contenuto di idrocarburi aromatici, nei quali i leganti dei pigmenti non sono solubili15. Il peso molecolare è importante per l’effetto ottico che assume il dipinto dopo la verniciatura. Molti artisti e restauratori continuano infatti ad usare vernici ricavate dalle resine naturali, in quanto i prodotti di sintesi, sebbene in alcuni casi abbiano dimostrato una stabilità superiore, presentano pesi molecolari elevati e quindi un effetto ottico peggiore. Le resine naturali si diversificano infatti da quelle sintetiche principalmente per il peso molecolare. Le prime sono costituite da molecole a basso peso molecolare, come i triterpenoidi, mentre i polimeri sintetici sono generalmente caratterizzati da un alto peso molecolare. La grande differenza dei pesi molecolari si riflette sulla viscosità delle soluzioni (Tabella 3): i polimeri sintetici danno soluzioni più viscose delle resine naturali (a parità di concentrazione e temperatura) e possono essere solubilizzati soltanto a concentrazioni inferiori (Figura 6)15. Durante l’evaporazione del solvente, il film che si forma raggiunge un punto in cui l’eventuale solvente residuo rimane comunque inglobato nel film stesso (no-flow point). Prima di questo punto la superficie del film è piatta sia usando una soluzione di resina che di polimero: all’allontanarsi delle molecole di solvente, la soluzione diminuisce di spessore e si riorganizza mantenendo liscia la superficie. Questa riorganizzazione spaziale delle macromolecole è possibile finché non è raggiunto il no-flow point. Nel caso di soluzioni di resine naturali (basso peso molecolare), il solvente residuo al no-flow point è di piccola entità e, evaporando, forma un film che varia di poco la sua uniformità rispetto a quello formatosi prima del 36


no-flow point: ciò si traduce in una minore rugosità della superficie mostrando

solo una debole impronta della forma delle irregolarità sottostanti. Nel caso di soluzioni di polimeri, a causa della loro maggiore viscosità e minor solubilità, il no-flow point è raggiunto quando buona parte del solvente è ancora presente:

questo favorisce la formazione di un’impronta molto simile allo strato sottostante. L’impronta è causata dalla maggior diminuzione dello spessore della soluzione in una “valle” (maggior volume di solvente evaporato) rispetto a quella presente in un “picco” di una superficie pittorica rugosa15. Figura 6 – Confronto dei film formati usando resine a basso peso molecolare e polimeri

37


Tabella 3 - Pesi molecolari medi di resine usate come vernici in pittura14 Resina

Mna

Mwa

Mw/Mna

Colofoniab

313

534

1.71

_

Trementina di

334

508

1.47

_

Mastice

460

1929

4.20

1.8

Dammar

488

1361

2.79

1.3

Laropal K80c

442

680

1.54

1.2

Acryloid B67c

10960

44764

4.08

18.0

c

11397

65128

5.72

29.0

PVAc AYACd

5848

15185

2.60

_

PVAc AYAAd

31691

88567

2.80

40.0

d

51370

117697

2.29

80.0

Grado di viscosità

Veneziab

Acryloid B72

PVAc AYAF a

Mn = peso molecolare medio numerico Mw = peso molecolare medio ponderale Mw/Mn = polidispersione

b

Campioni di White, R.; National Gallery, Londra.

c

Laropal K80 (resina chetonica) di Ludwigshafen, W.; BASF, Germania. Acryloid B67 (poliisobutilmetacrilato) e l’Acryloid B72 (copolimero a base di etilmetacrilato) di Rohm e Haas Co.; Philadelphia, Stati Uniti.

d

Polivinilacetato della Union Carbide Corp., Danbury, Stati Uniti.

1.3 - Uso di polimeri nella conservazione di beni culturali I termini ‘polimero’ e ‘resina’ sono indiscriminatamente e talvolta inadeguatamente usati per indicare quell’insieme di prodotti filmogeni, oleosi e leganti utilizzati sia nel passato che nel presente per la protezione e la conservazione dei manufatti artistici. Con il contributo fornito dall’architettura, dall’ingegneria, dalla biologia, dalla scienza dei materiali e dalle scienze umane, le tecniche di restauro e conservazione si sono evolute negli ultimi 38


decenni3 proponendo sempre più frequentemente l’uso di prodotti di sintesi, sia nell’ambito dei materiali lapidei, come protettivi e consolidanti, sia in quello dei materiali pittorici come vernici. Inizialmente, lo scopo della chimica dei polimeri sintetici era quello di replicare artificialmente i polimeri naturali più importanti. Esempi classici sono quello del nylon e della gomma sintetica, come sostituti della seta e della gomma naturale, rispettivamente. Molti materiali hanno completamente rimpiazzato sostanze con proprietà analoghe, ma di origine naturale: il prodotto sintetico, di composizione e caratteristiche praticamente costanti, può infatti essere progettato in modo da rispondere a specifiche esigenze, così le sue proprietà applicative sono spesso migliori rispetto a quelle di un prodotto di origine naturale, la cui struttura può essere limitatamente modificata. La produzione su larga scala di materiali sintetici, inoltre, può comportare un costo sensibilmente minore rispetto all’estrazione di materiali dalle loro fonti naturali e alla successiva purificazione. Dal punto di vista della durata, sono cadute un po’ di illusioni che avevano accompagnato la nascita delle materie plastiche: non esistono materiali inalterabili e, anche le materie plastiche, possono essere soggette a degradazione22. I prodotti sintetici, anche nel settore del restauro, hanno una posizione di rilievo che costituisce un incentivo in più per comprenderne la struttura e le proprietà e per valutare se siano migliori, rispetto a quelli tradizionali di origine naturale, a preservare o ripristinare le caratteristiche del manufatto artistico con la minor interferenza possibile. La scienza dei polimeri ha offerto le conoscenze per preziosi miglioramenti nei trattamenti delle superfici e nei materiali usati.

39


1.3.1 - Principali prodotti per la protezione dei materiali lapidei Resine acriliche:

Sono delle macromolecole che si sintetizzano per polimerizzazione di esteri acrilici (generalmente più flessibili) e metacrilici (generalmente più rigidi) (Figura 7), ottenuti rispettivamente dalla esterificazione degli acidi acrilici o metacrilici con alcol opportuni. Figura 7 – Unità strutturali di a) polialchil acrilato e b) polialchil metacrilato.

O

OR

a

O

OR

b

Gli esteri che hanno una rilevanza nell’ambito della conservazione, sono in genere ottenuti per condensazione con alcool aventi non più di quattro atomi di carbonio. Alcune proprietà dei polimeri che ne derivano sono fortemente influenzate dall’alcool utilizzato. In genere, aumentando il numero di atomi di carbonio dell’alcool, si ottengono prodotti aventi una maggiore solubilità in solventi idrocarburici alifatici ed una Tg più bassa. Nel caso dei polialchilacrilati, ad esempio, il polimetilacrilato (PMA) e il polietilacrilato (PEA) tendono a essere vetrosi e fragili, mentre i butil-derivati sono più plastici e flessibili22 (Tabella 4).

40


I polimeri acrilici sono dotati di buone caratteristiche: trasparenza, resistenza ad agenti atmosferici, limitata ossidazione a temperature non troppo alte2 che li rendono adatti ad essere utilizzati nel restauro. Tabella 4 – Proprietà meccaniche e Tg per diversi omopolimeri acrilati e metacrilati23 Tipo di polimero

Sigle

Resistenza a trazione

Allungamento a rottura

Tg

%

(°C)

2

(Kg/mm ) Metil metacrilato

MMA

7

4

105

Etil metacrilato

EMA

3.5

7

65

Isobutil

iBMA

2.4

2

53

nBMA

1

200

20

Metil acrilato

MA

0.7

750

10

Etil acrilato

EA

0.2

1800

-24

n-butil acrilato

nBA

0.02

2000

-54

metacrilato n-butil metacrilato

Purtroppo non possiedono una grande resistenza alle radiazioni UV: film polimerici applicati sulla pietra e invecchiati mediante irraggiamento UV si degradano fino alla perdita delle loro caratteristiche (depolimerizzazione); i più sensibili si sono dimostrati i prodotti con la funzione esterea più ingombrante24. Confrontando i metacrilati con gli acrilati si nota una maggior stabilità da parte dei primi, attribuita alla diversa struttura dei prodotti. Il metile in α al gruppo estereo è infatti ritenuto responsabile della maggiore stabilità del prodotto sia perché sostituisce un idrogeno in posizione allilica, sia per la

41


funzione di ingombro sterico che limita l’attacco da parte di molecole ossidanti come l’ossigeno22. La sintesi di copolimeri porta in genere a prodotti con caratteristiche fisiche intermedie rispetto agli omopolimeri corrispondenti. Un esempio è il Paraloid B-72, un copolimero a base di etil metacrilato e metil acrilato, molto impiegato nel settore della conservazione dei beni culturali. Grazie alle sue ottime caratteristiche (trasparenza, buona reversibilità, buona resistenza meccanica e durezza) è largamente usato come consolidante e protettivo anche se, in tempi relativamente brevi, ha mostrato perdita di idrorepellenza, ritenzione del particellato atmosferico e una riduzione della solubilità nei comuni solventi. Resine siliconiche:

I prodotti raggruppati sotto questo nome sono caratterizzati da una catena polimerica principale in cui si alternano atomi di ossigeno e silicio, ed a questi ultimi sono legati gruppi organici di vario tipo5 ed è per questo che sono chiamati anche silossani. Il tipo di gruppo organico R legato al silicio influenza fortemente le proprietà e le prestazioni dei silossani. Nel caso di R = CH3, i gruppi metilici sono piccoli e non impediscono la libera rotazione attorno ai legami Si-O e ciò si traduce in una maggiore flessibilità delle catene polimeriche. Nella Figura 8 sono riportati alcuni esempi di resine siliconiche che si differenziano per la struttura della catena. Gli atomi di ossigeno presenti nelle catene aderiscono al supporto tramite legami a idrogeno e inducono i gruppi alchilici a proiettarsi verso l’esterno conferendo idrorepellenza al materiale trattato. Questi prodotti hanno buona stabilità termica, agli ossidanti e all’irraggiamento UV grazie alla alta energia del legame Si-O (108 kcal/mol). 42


La loro Tg può essere molto bassa (ben inferiore a 0°C) soprattutto per quei prodotti che vengono utilizzati come protettivi (polisilossani a catena lineare o poco ramificata). Figura 8 – categorie di resine siliconiche

polialchilsilossani

C O

polialchilsilanoli

C O

polialcossisilossani C O

R

R

Si

Si

R

O

R

OH

OH

Si

Si

R

O

R

OR

OR

Si

Si

OR

O

OR

C = catena polimerica R = alchile C O

C O

C O

Come appena detto la stabilità termica è buona e nel caso delle gomme siliconiche non si osserva degradazione nell’intervallo di temperatura –60 ÷ +250°C. Le resine siliconiche possono essere sintetizzate per condensazione dei silanoli ottenuti mediante catalisi acida o basica dei monomeri alcossisilanici (si ottengono prodotti lineari o debolmente ramificati nella catalisi acida mentre nella catalisi basica si ottengono polimeri altamente ramificati (vedi Schema 9).

43


Mentre i polialchilsilossani teoricamente mantengono inalterata la loro solubilità, i monomeri alcossisilanici e gli oligomeri analoghi si trasformano nel tempo in prodotti insolubili. Schema 9 – Condensazione di monomeri alcossisilanici catalizzata da acidi o basi25 OR

RO

H+ OR

Si

Si

RO

RO

OR

RO

δ+ HO H

+

OR + H2O H

OR

δ+ OR H

Si

RO

- ROH2+

HO

Si

OR OR OR

OR

H2O

H+

(HO)3-Si-O-Si-(OH)3

HO

-H2O

Si

OH OH

+ HO

Si

OH OH OH

OH

La successiva protonazione può avvenire sul monomero o sul dimero ma avverrà selettivamente sul monomero in quanto risulta più basico, questo spiega il motivo per cui si ottengono strutture maggiormente lineari con questo tipo di catalisi

- OHHO RO

OR Si

RO

OR

OH-

RO

OR Si

RO

OH + OH-

RO - H2O

+

OR Si

RO

-

O

OH Si

HO

OH RO

OR Si

RO

HO O

Si

OH

HO

Il successivo attacco nucleofilo può avvenire sul monomero o sul dimero ma avverrà selettivamente sul dimero o comunque sulla specie maggiormente condensata in quanto risulta più acida, questo spiega il motivo per cui si ottengono strutture maggiormente ramificate con questo tipo di catalisi

Resine epossidiche:

Le resine epossidiche sono polimeri lineari a basso peso molecolare che possono trasformarsi, per addizione di particolari reattivi chiamati indurenti, in materiali termoindurenti tridimensionali. Gli indurenti sono capaci di trasformare il prodotto di partenza, liquido o solido, in un prodotto solido infusibile e insolubile. Gli oligomeri sono caratterizzati da una struttura lineare che termina con un anello epossidico. Le resine più utilizzate sono quelle 44


ottenute per condensazione dell’epicloridina e del bisfenolo A, dette anche resine DGEBA (diglicidiletere di bisfenolo A)5,26 (Schema 10). Schema 10 – Reazione per la produzione di DGEBA Cl + n HO

n+1

OH

O

-(n+1) HCl

OH O

O

O

O

n-1

O

O

Gli agenti indurenti utilizzati sono basi o acidi di Lewis che in genere entrano a far parte del prodotto finale. Generalmente la scelta degli agenti di reticolazione ricade su poliammine alifatiche o aromatiche. Inizialmente si ha l’apertura dell’anello epossidico e la reazione con l’ammina primaria (Schema 11). Schema 11 – Stadio iniziale della reazione dell’anello epossidico con l’indurente OH

OH O

(R)n

HN

O H N H

1

1

R

NH

(R)n

NH

1

R

NH

H

R N H

L’ammina che si genera può ulteriormente reagire portando a prodotti reticolati (Figura 9).

45


Figura 9 – Prodotti reticolati ottenuti dall’ammina primaria

OH

OH 1

HN R N

N

(R)

R

NH

n

OH

HO (R)

(R)

n

n

OH

HO (R)

1

HN R N

N

n

OH

1

R

NH

OH

Le ammine terziarie possono indurre ulteriori reazioni di reticolazione tramite un processo di polimerizzazione anionica (Schema 12). Schema 12 – Meccanismo di polimerizzazione anionica delle ammine terziarie

O O RN O + 3

O NR3

O NR3

Le resine epossidiche vantano anche la capacità di aderire a gran parte dei materiali, indurire a temperatura ambiente, resistere all’acqua5, ma il loro utilizzo è limitato sia dal processo di ingiallimento al quale va incontro la resina stessa o gli indurenti durante l’invecchiamento in seguito a fenomeni di degradazione termica o fotochimica27, 28, sia dalla veloce formazione di prodotti macromolecolari insolubili con conseguente scarsa capacità di penetrazione e di

46


reversibilità. Il loro utilizzo è quindi attualmente limitato all’edilizia civile per il consolidamento strutturale per iniezione e come adesivi. Cere microcristalline:

Con il termine cere si intende definire quelle sostanze che hanno la proprietà di presentarsi come solidi a temperatura ambiente, a volte molli e in genere con punti di fusione non molto elevati29. Con un lieve riscaldamento tendono a divenire plastici, per poi tornare solidi con l’abbassamento della temperatura. Alcuni esempi di cere sono riportati in Tabella 5. Tabella 5 – Esempi di cere Categoria chimica

Nome

Formula bruta

Esteri

Palmitato di miricile

CH3-(CH2)14-COO-(CH2)29-(CH3)

Alcoli a catena lunga

Alcool laurilico

CH3-(CH2)11-OH

Acidi

Acido cerotico

CH3-(CH2)24-COOH

Idrocarburi

Cera

CH3-(CH2)xx-CH3

microcristallina Esteri/acidi grassi

Cera d’api

Complessa

Esteri di acidi grassi superiori

Lanolina

Complessa

Esteri/alcoli grassi

Carnauba

Complessa

Le cere possono essere di origine sintetica (es: cere microcristalline) o naturale, nell’ultimo caso possono essere sia animali (es: cera d’api o

lanolina), che vegetali (es: carnauba) o minerali (es: cera paraffinica). Chimicamente le cere possono contenere esteri di alcoli a catena lunga con acidi grassi, gli stessi alcoli ed acidi grassi non esterificati o idrocarburi. Le lunghe catene alifatiche sono responsabili dell’idrofobicità che le cere possiedono.

47


Le cere microcristalline possono avere una composizione relativamente costante e possono essere selezionate con intervalli di fusione ristretti. Alcune delle cere microcristalline più note sono la Cosmolloid 80, che ha un intervallo di fusione di 80-85 °C, e la Reswax WH che è una miscela di cere microcristalline e cera polietilenica con punto di fusione 103-105 °C. Polistirene:

Il polistirene è ottenuto per polimerizzazione radicalica dello stirene ed è caratterizzato da catene lineari alle quali sono legati anelli benzenici. E’ un materiale rigido, incolore e trasparente, la cui limitazione all’applicazione nell’ambito del restauro è attribuita all’ingiallimento al quale è soggetto con il passare del tempo. Tale cambiamento di colore deriva dalla fotoossidazione che conduce alla formazione di catene con doppi legami coniugati26. E’ stato anche ipotizzato che l’ingiallimento sia legato alla piccola quantità di monomero non reagito trattenuta dal polimero30. Il polistirene è impermeabile all’acqua liquida ma non totalmente a quella in fase di vapore31. Sono

noti

pochi

casi

di

applicazione

del

polistirene

quale

consolidante/protettivo di manufatti storico/artistici: un esempio è quello in cui è stato utilizzato come consolidante nel restauro di una statua di pietra gravemente danneggiata per bloccare il processo di sgretolamento al quale era soggetta. Dopo aver ricongiunto con barre di ferro i pezzi più grandi che si erano staccati, la statua è stata immersa in un bagno di polistirene che è penetrato di 2-3 mm all’interno della pietra, proteggendo la massa interiore e impedendo l’ulteriore deterioramento della statua32.

48


1.3.2 - Principali polimeri usati come vernici Resine di origine naturale:

Le resine naturali sono sostanze polimeriche prodotte in forma di secrezioni da alcuni tipi di piante (in particolare conifere o piante tropicali) che essudano quando la corteccia viene incisa13. Tali resine appartengono alla classe dei terpeni, che costituiscono una delle classi di sostanze più comuni nel regno vegetale e che si trovano ad esempio nei balsami e nelle essenze. Sono accomunate dalla struttura ottenuta dalla stessa unità di base, l’isoprene. La classificazione dei terpeni dipende dal numero di molecole di isoprene presenti nella struttura: -

monoterpeni: costituti da due unità isopreniche (essenza di trementina,

olio di lavanda, olio di rosa…) -

sesquiterpeni: costituiti da tre unità isopreniche (essenza di trementina,

vetiver, citronella, gommalacca…) -

diterpeni: costitiuiti da quattro unità isopreniche (colofonia, sandracca,

copale…) -

triterpeni: costituiti da sei unità isopreniche (mastice, dammar…)

-

gomma: costituita da n unità isopreniche.

I mono- e i sesquiterpeni sono liquidi mentre i prodotti a peso molecolare più alto si presentano come solidi33. Le strutture sono basate sullo scheletro del terpene, combinato in una larga varietà di modi (Figura 10).

49


Figura 10 – Strutture chimiche dei terpeni costituenti le resine naturali: a) 2-pinene: monoterpene che costituisce la gran parte dell’olio di trementina; b) acido abietinico: diterpenoide della colofonia; c) dammarendiolo: triterpenoide della resina dammar; d) acido oleanonico: triterpenoide della resina mastice. OH

COOH HO COOH

a b

O

c d

Nel corso dei secoli molte sono state le resine usate come vernici, ma quelle impiegate più frequentemente sono34: -

copale: resina estremamente dura, con un elevato punto di fusione

(180°C) ed insolubile in molti oli e solventi. Può essere parzialmente solubilizzata in oli tramite prolungato riscaldamento ad una temperatura superiore ai 200°C13, ma è soggetta a ingiallimento. La rimozione dai dipinti è difficoltosa a causa della scarsa solubilità e della buona adesione al supporto13, 34. -

mastice: la sua temperatura di fusione è 76°C ed è totalmente solubile in

solventi moderatamente polari e aromatici26, 33. Se usata come vernice, il film che si ottiene è trasparente, giallo chiaro, elastico e brillante. Tuttavia la resina tende a scurire (ingiallire) col tempo, a diventare fragile e quindi a fratturarsi13 a causa della fotossidazione, reazione che la trasforma in un composto con un maggior numero di gruppi polari26. E’ soggetta al fenomeno del ‘bloom’, cioè a opacizzarsi in presenza di umidità. -

sandracca: la sua temperatura di fusione è 135°C ed è solubile soltanto

in solventi polari e in essenza di trementina dopo fusione. Il film che 50


forma è duro, fragile e tende a ossidarsi scurendo13, 34. Veniva in genere usata con l’aggiunta di una sostanza plastica, come l’olio di ricino o di lino34, 33 o come additivo alle vernici per regolare la durezza del film13. -

gommalacca: la sua temperatura di fusione è 70°C ed è solubile in

alcool. Prima di essere utilizzata è sottoposta a vari processi di purificazione

per eliminare le sostanze cerose e colorate, che

conducono ad un prodotto avente una leggera colorazione rossastra, adatto ad essere impiegato sul legno. E’ più brillante delle altre vernici, ma è sensibile all’umidità e tende a scurire e a diventare irreversibile nel tempo13. -

dammar: la sua temperatura di fusione è 100°C ed è solubile in solventi

aromatici, polari e nella trementina. I film che si ottengono sono poco resistenti e tendono a ingiallire col passare del tempo26,

33

.

L’ingiallimento è dovuto a reazioni di termossidazione, reazioni che non sembrano incrementare la polarità della resina. Se esposta ai raggi UV è soggetta a reazioni di foto-ossidazione che invece ne aumenta la polarità e per la sua rimozione è necessario l’impiego di solventi più polari26. Non è molto sensibile all’umidità e infatti non ha una spiccata predisposizione al ‘bloom’13. La resina ha eccellenti proprietà adesive, anche se è leggermente appiccicosa, e presenta ottime proprietà ottiche33. Resine sintetiche:

Esiste una grande varietà di prodotti di sintesi che possono essere utilizzati nel restauro di manufatti pittorici. Il loro impiego tuttavia è relativamente recente in quanto sono stati applicati alle opere d’arte soltanto a partire dalla seconda metà del ‘900; pertanto un confronto delle loro prestazioni nel tempo rispetto alle resine naturali risulta difficile a causa del loro breve 51


invecchiamento naturale. Un confronto sulla stabilità all’irraggiamento, in particolare a quello artificiale, è stato in taluni casi studiato e in genere le resine sintetiche hanno stabilità maggiori di quelle naturali. Inizialmente, e in parte tuttora, i prodotti usati per il restauro dei beni culturali sono stati polimeri disponibili sul mercato, e quindi progettati per scopi completamente diversi. Le loro prestazioni non sono in genere soddisfacenti, tanto che attualmente la ricerca si sta indirizzandosi verso la sintesi di nuovi materiali, specifici per la conservazione ed il restauro di superfici dipinte. Polivinilacetato (PVAc):

Le prime prove di applicazione di polimeri sintetici come vernici iniziarono quando questi prodotti apparvero sul mercato (intorno agli anni ’30), ma quando furono usati sui dipinti degli antichi Maestri fu subito rilevata una notevole differenza tra questi e le vernici tradizionali. Già negli anni ’30 si fece menzione del fatto che i colori apparivano più chiari e meno lucenti sotto una vernice di PVAc rispetto a quelli prodotti da una resina naturale14. Un altro difetto delle vernici di PVAc deriva dalla bassa Tg (32°C), che permette al film di vernice di inglobare facilmente polvere e sporco sulla sua superficie. Resine acriliche:

Come si è già visto nel paragrafo 1.3.1 queste resine sono polimeri di esteri acrilici o metacrilici. Esse sono state sintetizzate e commercializzate nei decenni successivi al 1930. I prodotti più usati sono il Paraloid® B-7214 (copolimero metil acrilato : etil metacrilato 30:70), il Paraloid® B-67 (poli-ibutil metacrilato)22 e l’Elvacite® 2044 (poli-n-butil metacrilato)14. Soprattutto quest’ultimo è stato utilizzato come base per vernici, ma la sua Tg troppo bassa (15°C) porta, analogamente al PVAc, all’inglobamento della polvere nel film. 52


Alcuni di questi prodotti hanno mostrato una diminuzione di solubilità nel tempo derivante da fenomeni di cross-linking, mettendo a rischio la possibilità di una loro futura rimozione. Questi acrilati, inoltre, hanno un indice di rifrazione più basso delle resine naturali tradizionali (il Paraloid B-72, ad esempio ha un indice di rifrazione di 1.49, mentre la resina dammar di 1.54): ciò influisce negativamente sull’effetto ottico della superficie dipinta. Per ovviare a tale inconveniente si è cercato di ottenere resine con indici di rifrazione più elevati da prodotti a basso indice di rifrazione, come gli acrilati. E’ stato individuato che la presenza di nuclei aromatici aumenta l’indice di rifrazione e quindi si è cercato, tramite la sintesi di copolimeri in cui siano presenti nuclei aromatici, di sintetizzare prodotti che presentino ottime proprietà ottiche. Il risultato più promettente è stato ottenuto con il copolimero fenil acrilato-metil metacrilato 30:7020. Resine chetoniche:

Si ottengono per policondensazione del cicloesanone e di suoi derivati metil-sostituiti. I prodotti, noti fin dagli anni ’20 del XX secolo, possono essere considerati degli oligomeri, in quanto i pesi molecolari variano tra 400 e 900 uma, mentre l’unità monomerica pesa circa 100 uma. La composizione di queste resine non è ancora ben definita anche se sono state descritte delle ipotetiche strutture (Figura 11)22. Alcune delle resine più utilizzate sono MS214 (copolimero cicloesanonemetilcicloesanoni)22, ketone resin N14,

22

(omopolimero del cicloesanone),

Laropal K8014, 35 (di più recente introduzione, si ottiene per condensazione di cicloesanone e formaldeide). Le resine chetoniche hanno generalmente delle buone proprietà ottiche grazie al loro alto indice di rifrazione e al loro basso peso molecolare e anche se 53


hanno una minore stabilità tendono ad ingiallire meno delle altre resine quando si degradano14, 35. Figura 11 – Esempio di resina chetonica O

CH2OH HO

O

OH

O

O O

HO

Resine idrocarburiche insature:

Sono resine ottenute per oligomerizzazione di idrocarburi insaturi, come la frazione C10 del petrolio(diciclopentadiene e altri idrocarburi ciclici) o dell’αmetilstirene e dei suoi isomeri (Figura 12). Figura 12 – Strutture di a) α-metilstirene e b) diciclopentadiene

H H

a

b

54


Prove di stabilità all’invecchiamento fotochimico accelerato su una di queste resine, Arkon M 90, ha dimostrato però l’estrema instabilità del prodotto36. Resine alifatiche idrogenate:

Le resine idrocarburiche contengono insaturazioni residue che possono venire rimosse tramite idrogenazione. Le più importanti resine appartenenti a questo gruppo sono la Regalrez 1094 (prodotto dell’idrogenazione di oligomeri ottenuti da vinil-toluene e α-metilstirene) e la Arkon P 90, tra le quali la prima è la più stabile15: prove di invecchiamento accelerato su film stabilizzati con Tinuvin 292 hanno dato risultati di stabilità decisamente migliori rispetto a Arkon P 90. Tutte queste resine sono solubili in solventi idrocarburici alifatici e aromatici, mentre sono insolubili in acetone e alcool a basso peso molecolare15, 36

. La struttura del Regalrez 1094 è riportata in Figura 13. Figura 13 – Struttura del Regalrez 1094

Resine urea – aldeidi (o aldeidiche):

Sono prodotte per condensazione di urea e aldeidi con basso peso molecolare. La loro composizione è complessa e perlopiù ancora sconosciuta, probabilmente caratterizzata da ammidi cicliche (lattami). I composti 55


attualmente più utilizzati vengono ottenuti a partire da urea, formaldeide e isobutirraldeide, secondo la reazione riportata nello Schema 13, in cui la struttura finale è ipotetica22. Tra le resine aldeidiche commerciali, quelle denominate Laropal A 81 e Laropal A 101 sono state sperimentate quali leganti per pigmenti. Entrambe hanno dato ottimi risultati di stabilità, soprattutto quando uno stabilizzante HALS (Tinuvin 292) è incorporato: esse mostrano infatti un netto incremento della stabilità fotochimica rispetto a quelle prive di stabilizzante. Tramite spettroscopia infrarossa è stato visto che, in seguito all’invecchiamento accelerato, le resine non stabilizzate mostrano una moderata ossidazione, mentre quelle stabilizzate sono soggette ad un’ossidazione molto ridotta. Il processo di ossidazione aumenta la polarità dei prodotti, a causa della formazione di specie contenenti gruppi funzionali idrossilici, chetonici e carbossilici37. Queste resine sono solubili in solventi idrocarburici contenenti medio/basse quantità di aromatici, in acetone e negli alcol15, 36. Anche in seguito a invecchiamento fotochimico la quantità di aromatici necessaria alla loro solubilizzazione non raggiunge il 20%37. Schema 13 – Sintesi della resina urea-aldeidica O O

NH2 O

+ 4 CH2O +

urea

+

O

O N

- 3 H2O

NH2

formaldeide

H

O

N OH

HO

isobutirraldeide -

CH3O

O

O

O

O

O N O RO

O

N

N

N O

RO

OR

56

OR


1.4 - Scopo della tesi La nostra ricerca si è suddivisa su due strade sostanzialmente diverse ma con lo stesso obiettivo: la sintesi di nuovi polimeri sintetici che possano essere usati come protettivi o vernici nel campo dei beni culturali. Nella prima linea di ricerca si è studiata la sintesi di un nuovo copolimero etilene/diene che contenga alcune funzionalità olefiniche nella ramificazione laterale della catena principale. L’utilizzo di dieni ingombrati permette sia di abbassare il peso molecolare del polimero finale in quanto facilita il β-H shift con terminazione di catena, che di aumentare il potere adesivo del polimero e il suo carattere amorfo e soprattutto introduce delle insaturazioni sulla catena laterale che possono essere funzionalizzate successivamente alla sintesi del polimero producendo così nuovi polimeri del tutto diversi per proprietà chimiche, fisiche e meccaniche. Dei prodotti ottenuti verrà verificata la stabilità all’irraggiamento UV e la loro idrorepellenza. Non sono previsti test per un’eventuale applicazione come consolidanti in quanto il polimero dovrebbe avere una Tg bassa che quindi potrebbe provocare tensioni meccaniche durante le variazioni termiche. Una volta effettuati i test sul copolimero prodotto si intende anche mettere a punto alcune post-funzionalizzazioni del doppio legame presente sulla catena laterale e testare le loro caratteristiche per un’applicazione nel campo dei Beni Culturali. Nella seconda linea di ricerca si è messa a punto la sintesi di un copolimero poliacidolattico/perfluoropolietere. Il motivo di tale scelta risiede in un già riconosciuto valore dei perfluoropolieteri come protettivi5 e nel fatto che essi hanno come loro problematiche la scarsa solubilità e il basso peso molecolare. Questi due difetti hanno provocato un loro parziale abbandono come protettivi. In considerazione dei buoni risultati già ottenuti nella sintesi del copolimero PLA (poliacidolattico)/Fluorolink (perfluoropolietere)38 è stato 57


deciso di studiare a fondo questa copolimerizzazione e di verificare l’applicabilità di questi prodotti nel campo dei beni culturali.

1

Pellizer, R.; Sabatini, G. The Conservation of Stone-I in Proc. of the International Symposium, Bologna, 1975.

2

Amoroso, G. G.; Fassina, V. Stone Decay and Conservation, Elsevier Ed., 1983.

3

Grifo, D. Il restauro come metodologia di intervento operativo nella storia e nell’evoluzione culturale, in Amoroso, G. G., Materiali e tecniche nel restauro, Flaccovio Ed., 1996.

4

Amoroso, G. G. Trattato di scienze della conservazione dei monumenti, Allinea Ed., 2002.

5

Amoroso, G. G.; Camaiti, M. Scienza dei materiali e restauro, Allinea Ed., 1997.

6

De Marco, A. L’edilizia industriale e storica: significati e proposte ai fini della conservazione, in La scienza, le istituzioni, gli operatori alla soglia degli anni ’90, Bressanone, 1988.

7

Lazzarini, L.; Tabasso, M. L. Il restauro della pietra, CEDAM ed., 1986.

8

Amoroso, G. G. Effetti distruttivi dell’acqua sui materiali da costruzione in Materiali e tecniche nel restauro, Flaccovio Ed., 1996.

9

Newey, C.; Boff, R.; Daniels, V.; Pascoe, M.; Tennant, N. Science for conservators 3: adhesives and coatings in The conservation Unit of the Museum & Galleries Commision, Londra, 1987.

10

Sasse, R. H.; Snethlage, R. Evaluation of stone consolidation treatments in Methods of evaluating products for the conservation of porous building materials in monuments, Colloquio Internazionale ICCROM, Roma, 1995.

11

Delgado, R. J.; Charola, A. E. General report on water repellents in Methods of evaluating products for the conservation of porous building materials in monuments, Colloquio Internazionale ICCROM, Roma, 1995.

12

Guidetti, V.; Mecchi, A. M.; Pasetti, A.; Peruzzi, R. Protettivi per materiali lapidei nel settore del restauro, Arkos 1 Ed., 2001.

13

Matteini, M.; Moles, A. La chimica nel restauro – I Materiali nell’arte pittorica, Nardini Ed., 1989.

14

De la Rie, E. R. Studies in conservation, 1987, 32, 1. 58


15

De la Rie, E. R. Why use a synthetic picture varnish? in Art et Chimie, les polymers: actes du congrès, CNRS ed., 2003.

16

Berns, R. S., de la Rie, E. R. Studies in conservation, 2003, 48, 73.

17

De la Rie, E. R.Studies in conservation, 1988, 33, 9.

18

De la Rie, E. R. Research on picture varnishes: status of the project at the Metropolitan Museum of Art in ICOM Commette for Conservation 8th Triennal Meeting, Sydney, 1987.

19

AIM, Fondamenti di Scienze dei Polimeri, Pacini Ed. 1998, 877.

20

De Witte, E.; Goessens-Landrie, M.; Goethals, E. J.; Van Lerberghe, K.; Van Spriegel, C. Synthesis of an acrylic varnish with high refractive index in ICOM committee for Conservation 6th Triennal Meeting, 1981.

21

De la Rie, E. R.; Mc Glichey, C. Studies in conservation, 1989, 34, 137.

22

Borgioli, L.; Cremonesi, P. Le resine sintetiche usate nel trattamento di opere policrome, Il Prato Ed., 2005.

23

Borgioli, L. Polimeri di sintesi per la conservazione della pietra, Il Prato Ed., 2002.

24

Melo, M. J.; Bracci, S.; Camaiti, M.; Chiantore, O.; Piacenti, F. Polymer degradation and stability, 1999, 66, 23.

25

Wheeler, G. Alkoxysilanes and the Consolidation of Stone, Getty Publications, 2005, 21.

26

Horie, C. V. Materials for conservation: organic consolidants, adesive and coatings, Butterworths Ed., 1987.

27

Down, J. L. Studies in conservation, 1984, 29, 63.

28

Down, J. L. Studies in conservation, 1986, 31, 159.

29

Matteini, M.; Moles, A. La chimica nel restauro, Nardini Ed., 1989.

30

Matheson, L. A.; Boyer, R. F. Industrial and Engineering Chemistry, 1952, 44, 867.

31

Stout, G. L.; Cross, H. F. Technical studies in the field of the fine Arts, 1937, 5, 241.

32

Halmagyi, E. Bull. Mus. Nat. Hongrois des Beaux Arts, 1958, 12, 40.

33

Masschelein-Kleiner, L. Ancient binding media, varnishes and adesive, ICCROM, 1995.

34

Piva, G. L’arte del restauro: il restauro dei dipinti nel sistema antico e moderno, Ulrico Hoepli Ed., 1988. 59


35

Mc Glinchey, C. W. The industrial use and development of low molecular weight resins: an examination of new products of interest to the conservation field in ICOM Committee for Conservation, Dresden, 1990.

36

De la Rie, E. R.; Mc Glinchey, C. W. New synthetic resins for picture varnishes in Cleaning, retouching and coatings, Mills & Smith Ed., 1990.

37

De la Rie, E. R.; Lomax, S. Q.; Palmer, M.; Maines, C. A. An investigation of the photochemical stability of films of the urea-aldheyde resins Laropal速 A 81 and Laropal速 A 101 in ICOM Committee for Conservation, 2002.

38

Frediani, M.; Rosi, L.; Camaiti, M.; Berti, D.; Frediani, P.; Baglioni, P.; Mariotti, A.; Comucci, A.; Vannucci, C.; Malesci, I. Macromolecular Chemistry and Physics, inviato.

60


2 – Sintesi, caratterizzazione e funzionalizzazione del copolimero etilene/diene 2.1 – Sintesi polimeri 2.1.1 – Sistema catalitico Cp2ZrCl2/MAO

L’attività di ricerca in questo settore ha riguardato lo studio di nuovi polimeri per l’applicazione nella protezione dei beni culturali come potenziali protettivi per materiali lapidei e/o pittorici. In particolare l’interesse è stato focalizzato sulla sintesi di copolimeri etilene/diene aventi delle insaturazioni sulle ramificazioni laterali allo scopo di una possibile funzionalizzazione successiva. In studi precedenti è riportata la copolimerizzazione di etilene con esadiene e ottadiene1 nei quali è stata evidenziata la formazione di catene cicliche derivanti dalla reazione del diene nel corso del processo di polimerizzazione2 (Schema 1). Schema 1 - Possibile meccanismo di ciclizzazione durante l’inserzione di ottadiene (OD) nella catena polimerica in crescita

P

P

P

P

Zr+ Cp

Cp

Cp

+

+

Zr+

Zr

Zr Cp

Cp

61

Cp

Cp

Cp


La formazione di cicli lungo la catena principale rende il prodotto finale lavorabile con maggiori difficoltà e meno adatto ad un impiego come potenziale protettivo in quanto il polimero ha una solubilità ridotta. Per questo motivo è stato deciso di copolimerizzare l’etilene con un diene in cui una delle due funzioni alcheniliche fosse stericamente ingombrata, in modo da impedire la ciclizzazione nel corso della polimerizzazione. L’olefina scelta è stata il 7-metil-1,6-ottadiene (MOD) (Figura 1) che ha un gruppo isopropilidenico terminale idoneo ad impedirne la ciclizzazione. Figura 1 – 7-metil-1,6-ottadiene (MOD)

Inizialmente è stato impiegato il sistema catalitico Cp2ZrCl2/MAO già utilizzato da altri autori3. E’ stato effettuato uno studio sistematico della variazione di inserzione del comonomero al variare dei parametri di reazione quali temperatura di reazione e rapporto monomero/comonomero. Il meccanismo di polimerizzazione comunemente accettato per questi sistemi catalitici è quello proposto da Cossee (inserzione diretta)4 e viene riportato nello Schema 2. I risultati ottenuti e le condizioni di reazione delle prove catalitiche sono riportate in Tabella 1. I polimeri ottenuti sono stati caratterizzati mediante analisi DSC (viene riportata solo la Tm, ovvero la temperatura di fusione del polimero, in quanto non è stato possibile rilevare la Tg) e GPC (determinando il Mw e la dispersione dei pesi molecolari Mw/Mn). 62


L’incorporazione di comonomero nella struttura principale del polimero è stata valutata mediante analisi NMR e DSC. Mediante analisi NMR è stato possibile attribuire i segnali relativi ai gruppi del branching laterale. Integrando tali segnali e facendo il rapporto tra questi ultimi e quelli dei CH2 della catena principale è possibile calcolare la percentuale di branching nel polimero. Schema 2 - Copolimerizzazione etilene/MOD effettuata con il sistema Cp2ZrCl2/MAO R Zr

Cl

MAO

Zr

CH3

Cl

R = H,

Zr

CH3

R

Zr R R n

Zr R

n

R

terminazione di catena m

63

n R


Tabella 1- Condizioni di reazione e caratterizzazione dei copolimeri ottenuti con il sistema Cp2ZrCl2/MAO Reazione

T

Petilene

[etilene]

Tm

Inserz. MOD

(°C)

(bar)

M

(°C)

% (mol/mol)

107

60

0,60

0,05

98

7

24934

3,62

31180

119

90

3,15

0,2

111

3

11899

3,22

11795

121

60

2,50

0,2

113

4

21265

3,18

13655

122

60

1,25

0,1

110

5

17391

2,41

18340

162

30

1,70

0,2

105

6

40772

1,87

6870

166

75

2,85

0,2

110

3

13515

2,47

11200

167

45

2,10

0,2

107

5

23579

1,77

8400

171

60

4,90

0,4

113

3

24766

3,05

8785

Mw (GPC)

Mw/Mn

Produttività [Kgpol/(molcat · h · [Et])]

-5

t = 20 min, [MAO] = 0,17 M, [MOD] = 0,48 M, [Cp2ZrCl2] = 7,5 · 10 M, Al/Metallo = 2300.

64


La percentuale di inserzione è stata determinata mediante normalmente la tecnica

13

13

C-NMR;

C-NMR non permette un’analisi di tipo quantitativo

ma paragonando atomi di carbonio con lo stesso numero di atomi di idrogeno (CH2 con CH2, etc.) è possibile determinare la quantità di comonomero inserita nella catena di polietilene con una buona approssimazione. La percentuale di inserzione di MOD nel campione di polietilene è stata calcolata con la seguente formula:

(CH2)etilene = CH2princ + 1/2α + β + γ

dove il (CH2)etilene rappresenta l’integrale

dei segnali degli atomi di carbonio derivanti dall’inserzione dell’etilene, mentre il CH2princ, il γ, il β e metà valore dell’α sono gli integrali dei segnali distinti e riconoscibili nello spettro

13

C-NMR, attribuiti agli atomi di carbonio

dell’etilene inserito nella catena polimerica (Figura 2). Gli atomi di carbonio presenti in una molecola di etilene sono 2 quindi il valore dell’integrale dei (CH2)etilene deve essere diviso per due: (CH2)etilene / 2 = contributo dell’etilene. La percentuale di MOD inserita nel copolimero è stata quindi calcolata mediante la seguente formula: % MOD = 100 · {Integrale del segnale del carbonio in posizione 3 / [½ (CH2)etilene]} In Figura 2 è riportato come esempio lo spettro

13

C-NMR del prodotto

ottenuto nella reazione 121 (sistema Cp2ZrCl2/MAO); utilizzando la formula sopra riportata si è calcolato che la percentuale di MOD inserita è il 4% in moli.

65


Figura 2- Spettro 13C-NMR (400 MHz, T=125°C) del copolimero etilene/MOD ottenuto nella reazione 121 disciolto in 1,2,4-triclorobenzene/1,1,2,2-tetracloroetano-d2.

L’analisi DSC dei campioni riportati in Tabella 1 mostra un notevole accordo con i valori di inserzione del comonomero, infatti è risaputo che aumentando la percentuale di branching laterale in una poliolefina se ne abbassa la Tm. Nel Grafico 1 è riportato l’andamento delle Tm al variare della temperatura di reazione. Come è possibile osservare dal grafico, la temperatura di fusione del copolimero aumenta con la temperatura di reazione fino a 60 °C, dove si registra un massimo di Tm. Inoltre a temperature di reazione superiori, la Tm del polimero diminuisce anche se è più alta dei polimeri ottenuti a 30 e 45 °C; questo suggerisce che aumentando la temperatura di reazione diminuisce la percentuale di inserzione di comonomero all’interno del polimero. Da ciò si deduce che il MOD ha una capacità di inserzione che varia con la temperatura di reazione in modo diverso rispetto all’etilene, ovvero con una stessa composizione molare etilene/MOD in soluzione, il MOD inserisce meglio a basse temperature. 66


Sono inoltre stati fatti studi sulla inserzione del MOD al variare del rapporto molare tra i monomeri. Nel Grafico 2 è possibile osservare un aumento della Tm del polimero all’aumentare del rapporto molare etilene/MOD fino ad una Tm di 113 °C per un rapporto tra i monomeri di 0.4; per valori più elevati di etilene il valore sembra rimanere costante. Grafico 1 – Variazione della Tm in funzione della temperatura di reazione

67


Grafico 2 – Variazione della Tm in funzione del rapporto tra i monomeri

Nel Grafico 3, 4 e 5 è stata riportata, rispettivamente, la variazione dell’attività in funzione della temperatura di reazione, della concentrazione di etilene, nonché la variazione del peso molecolare Mw in funzione della temperatura. E’ possibile osservare (Grafico 3) un aumento di attività del catalizzatore in funzione della temperatura fino a 60 °C, ciò è dovuto sia alla maggiore energia presente che favorisce l’inserzione dei monomeri, sia alla buona stabilità del Cp2ZrCl2 a temperature di reazione fino a 60 °C per il quale si registra la massima attività. A temperature di reazione maggiori si osserva invece una diminuzione dell’attività. Aumentando la pressione di etilene (Grafico 4) si ha un aumento pressoché lineare dell’attività. Assumendo che la pressione di etilene sia direttamente proporzionale alla sua concentrazione in soluzione e che l’attività del catalizzatore sia direttamente proporzionale alla velocità della reazione è possibile ipotizzare una cinetica del primo ordine ovvero regolata 68


dall’equazione V = K · [etilene] in quanto si ha una retta il cui coefficiente angolare è uguale a K. Grafico 3 – Variazione dell’attività [Kgpol/(molcat · h)] in funzione della temperatura di reazione

Grafico 4 – Variazione dell’attività [Kgpol/(molcat · h)] in funzione della pressione di etilene.

Si osserva infine un andamento decrescente del peso molecolare Mw all’aumentare della temperatura di reazione (Grafico 5). Questa dipendenza è 69


attribuibile ad una maggiore velocità delle reazioni di terminazione rispetto a quelle di propagazione con l’aumentare della temperatura. Grafico 5 – Variazione del peso molecolare Mw in funzione della temperatura di reazione

2.1.2 – Sistema catalitico CAT2/MAO

Vista la limitata capacità di inserzione del MOD da parte del sistema catalitico Cp2ZrCl2/MAO, è stato deciso di testare un sistema catalitico differente avente una maggiore capacità di inserzione del comonomero e cioè il sistema CAT2/MAO (Figura 3). E’ riportato in letteratura5 che questo sistema catalitico ha una maggiore capacità di inserzione di olefine terminali più ingombrate nella copolimerizzazione con l’etilene. L’etilene ed il MOD sono stati copolimerizzati in varie condizioni di reazione (Tabella 2) ed è stata analizzata l’influenza della temperatura, del rapporto tra i monomeri e del tempo di reazione. In particolare è stata valutata la loro influenza sulla percentuale di inserzione del MOD nella catena polimerica e sul peso molecolare MW. 70


I prodotti sono stati caratterizzati mediante analisi NMR, GPC, DSC, FTIR e viscosimetriche (Tabella 3).

Figura 3 – Catalizzatore CAT2

Ti

Si N

Cl Cl

Me2Si[(Me4Cp)(terBuN)]TiCl2 Il nuovo sistema catalitico produce un’inserzione maggiore (Tabella 3) e anche dall’analisi 1H-NMR è possibile riconoscere un numero sufficiente di segnali relativi all’inserzione del comonomero per poter calcolare la percentuale di inserzione. Lo spettro 1H-NMR (Figura 4) del copolimero indica la formazione di ramificazioni contenenti il gruppo terminale il RCH=CMe2 (dimetilvinile), in quanto nello spettro è presente un segnale con un chemical shift dell’idrogeno olefinico a 5.1 ppm. Il contenuto di MOD (Tabella 3) nel copolimero è stato calcolato comparando il segnale dell’idrogeno olefinico a 5.1 ppm con il segnale dei CH2 della catena principale a 1.2 ppm.

71


Tabella 2 – Condizioni di reazione per la copolimerizzazione dell’etilene/7-metil-1,6ottadiene con il sistema catalitico Me2Si[(Me4Cp)(terBuN)]TiCl2/MAOa t [etilene] [MOD] % MOD Produttività Reazione Treazione

a

°C

min

M

M

(mol/mol)

Kgpol/(molTi · h · [et])

226

60

20

0.2

0

0

11675

196

30

20

0.2

0.48

70

5400

198

60

20

0.2

0.48

70

16600

200

90

20

0.2

0.48

70

16480

216

30

20

0.2

0.24

54

9680

217

60

20

0.2

0.24

54

9920

218

90

20

0.2

0.24

54

13120

221

60

20

0.4

0.24

37

5757

222

60

20

0.2

0.24

54

10180

223

60

20

0.1

0.24

71

13820

231

60

20

0.05

0.24

83

24240

227

60

10

0.2

0.24

54

9655

228

60

5

0.2

0.24

54

7435

Toluene = 42 mL; [Ti] = 75 µM, [Al]/[Ti] = 2300. 72


Tabella 3 – Caratterizzazione dei polimeri riportati in Tabella 2 Reazione

Tm

Tg

Mw

°C

°C

g/mol

226

134.82

-

185359

2.64

321

0

196

-

-63.48

126907

2.02

104

40

198

-

-62.90

90529

2.20

73

39

200

-

-63.98

50720

2.60

57

36

216

-

-61.12

106354

1.98

110

26

217

-

-60.62

95467

2.02

103

21

218

-

-60.82

53625

2.88

58

17

221

-

-63.42

147692

2.86

146

15

222

-

-62.70

99937

1.84

106

26

223

-

-64.50

75706

1.98

58

37

231

-

-60.97

42996

2.19

31

57

227

-

-64.09

78652

3.02

105

34

228

-

-64.42

68355

3.87

101

39

Tm = temperatura di fusione Tg = temperature di transizione vetrosa Mw = peso molecolare Mw/Mn = dispersione dei pesi molecolari νintr. = viscosità intrinseca

73

Mw/Mn

νintr

Inserz. MOD % (mol/mol)


I segnali degli idrogeni in posizione α, br, 1 e 2 (Figura 4) sono coperti dal segnale della catena principale. Questi idrogeni appartengono alle molecole di MOD eccetto che per l’idrogeno in α il cui contributo è solo per metà dovuto alle molecole di MOD. Il contributo di questi idrogeni deve essere sottratto dal segnale della catena principale ad 1.2 ppm, solo così il valore dell’integrale potrà essere utilizzato nella determinazione della percentuale di inserzione. La presenza di un solo segnale olefinico a 5.1 ppm indica un solo tipo di inserzione possibile, la 1,2-addizione sul doppio legame terminale, la quale porta ad avere ramificazioni 5-metilpent-4-eniliche nel polimero. La percentuale in moli di comonomero all’interno della catena polimerica è stata calcolata tenendo conto di quanto sopra esposto. L’integrale del CH olefinico è stato impostato al valore 1 in modo da poter sottrarre dall’integrale del Hprinc il contributo (pari a 7 idrogeni) degli idrogeni dei gruppi CH2 in posizione 2, 1, uno dei due in α e del CH in posizione br. L’intensità del segnale classificato in Figura 4 come Hprinc è pertanto dovuta a: Hprinc = Hetilene + 2 + 1 + br + ½α dove Hetilene rappresenta il contributo degli idrogeni derivanti dall’inserzione dell’etilene. I segnali distinguibili nello spettro 1H-NMR sono quelli relativi ai segnali degli idrogeni in posizione *, 3 e olefinici; per sottrazione del contributo degli idrogeni inglobati nell’integrale del picco Hprinc e facenti parte del MOD e cioè gli idrogeni in posizione 2, 1, br e ½α (solo due idrogeni dei quattro in α sono dovuti al contributo del MOD, vedi Figura 3) si ottiene la seguente relazione: ∫ Hetilene = (∫ Hprinc) – 7(integrale dei 7 idrogeni dovuti al MOD inserito) Il valore della somma degli integrali dei segnali degli idrogeni in posizione 2, 1, br e ½α (7 idrogeni) è stato impostato uguale a 7 perché 74


l’integrale dell’unico idrogeno olefinico è stato precedentemente settato uguale ad 1. Una volta calcolato l’integrale degli idrogeni relativi all’inserimento dell’etilene è stato possibile determinare la percentuale di inserzione comparando il contributo dell’etilene con quello del MOD. Figura 4 - Spettro 1H-NMR (400 MHz, T=100 °C) del copolimero etilene/MOD ottenuto nella reazione 217 disciolto in benzene-d6.

Utilizzando questo metodo si è calcolato che la percentuale molare di MOD all’interno del copolimero prodotto nella reazione 217 (Figura 4) è del 21 %. Lo spettro FT-IR (Figura 5) conferma l’ipotesi di un’addizione 1,2 del MOD nella catena polimerica in quanto mostra un solo segnale a 833 cm-1 attribuito al bending out of plane del gruppo (CH3)2C=CH- in accordo con precedenti studi6 di Dolatkhani et al. effettuati su dieni simili.

75


Figura 5 – Spettro FT-IR del polimero ottenuto nella reazione 216

Influenza della temperatura di polimerizzazione La temperatura di polimerizzazione ha un’influenza sulla percentuale di inserzione del MOD nella catena polimerica. Quando la temperatura di reazione viene incrementata, mantenendo costanti gli altri parametri di reazione, la quantità di MOD inserita diminuisce. Ciò dimostra, come nel caso del sistema catalitico Cp2ZrCl2/MAO, che la reattività del MOD nella polimerizzazione è più alta a basse temperature come riportato anche da Radhakrishnan et al. 7 nel caso di copolimeri etilene/2,5-norbornadiene. La temperatura di reazione non influisce invece la produttività infatti anche a 90 °C il sistema catalitico risulta molto attivo. Ciò non è strano in quanto questo sistema catalitico possiede una buona stabilità all’aumento della temperatura come riportato in letteratura8. Un’influenza della temperatura di reazione è stata invece riscontrata sui pesi molecolari dei prodotti ottenuti (Tabella 3); l’Mw decresce quando viene incrementata la temperatura di reazione in accordo con la convinzione 76


generalmente accettata che l’incremento della temperatura favorisca le reazioni di terminazione di catena rispetto a quelle di inserzione.

Influenza del rapporto tra i monomeri Quando il rapporto MOD/etilene fu incrementato, l’effetto più evidente fu l’aumento del contenuto di MOD all’interno dl copolimero (Tabella 3). Il contenuto di MOD varia da un minimo del 15% (reazione 221) ad un massimo del 57% (mol/mol) (reazione 231) solo intervenendo su questo parametro. L’ottima capacità di inserzione riscontrata, a differenza del sistema catalitico Cp2ZrCl2/MAO, permette di ottenere copolimeri con caratteristiche molto diverse solo intervenendo sul rapporto molare tra etilene e comonomero. Lo studio dell’influenza del rapporto tra i monomeri sul peso molecolare fu analizzato portando alla conclusione che il peso molecolare decresce all’aumento della frazione molare di MOD nell’alimentazione (Figura 6). A conferma di questa osservazione, il peso molecolare dell’omopolimero dell’etilene sintetizzato nelle stesse condizioni del copolimero risulta nettamente più alto (reazione 226 vs reazione 222, Tabella 3). Il decremento del peso molecolare può essere dovuto principalmente a due fattori: alla più lenta cinetica di inserzione del comonomero che rende più competitiva la reazione di terminazione di catena mediante β-H eliminazione o ad un aumento di probabilità di trasferimento di catena al monomero dovuto proprio alla presenza del MOD9. La relazione tra i meccanismi di trasferimento e le condizioni di polimerizzazione sono già state osservate in precedenti studi10 su sistemi catalitici simili a quello utilizzato.

77


Figura 6 – Variazione del peso molecolare in funzione del rapporto tra i monomeri

Influenza del tempo di reazione La conversione del MOD fu alta già dopo 20 minuti di reazione, intorno al 90-100 % a seconda delle condizioni di reazione. Visto l’alta conversione furono effettuati test con tempi di reazione ridotti per diminuire la conversione ed osservare le variazioni ottenute sul prodotto. Le reazioni 222, 227, e 228 (Tabella 3) sono state effettuate nelle stesse condizioni di reazione ma variando il tempo di polimerizzazione. Il contenuto di MOD fu molto differente: si passa da un 18 % in 20 minuti ad un 34% in 10 ed un 39% in 5 minuti. Questa osservazione indica che inizialmente l’inserzione di MOD segue una cinetica paragonabile a quella dell’etilene con tendenza alla formazione di un copolimero alternato. Quando il MOD viene consumato dalla reazione e si abbassa così la sua concentrazione in soluzione, l’inserzione dell’etilene diventa predominante.

78


Il consumo di etilene durante la reazione è stato monitorato mediante un flussimetro interfacciato con un PC. Il grafico riportato in Figura 7 mostra il trend nel consumo dell’etilene. Figura 7 – Consumo di etilene durante la copolimerizzazione MOD/etilene.

Le reazioni effettuate variando il rapporto molare tra i comonomeri (Figura 7) mostrano un tempo di induzione differente. Incrementando la concentrazione di etilene nel reattore il tempo necessario ad osservare un consumo di etilene decresce confermando che la competizione tra i monomeri nella fase di inserzione è influenzata dal rapporto tra i monomeri.

2.2 – Funzionalizzazione polimeri I polimeri ottenuti sono stati post-funzionalizzati sfruttando la presenza del doppio legame presente nelle ramificazioni laterali allo scopo di modificare le loro caratteristiche di adesione, stabilità e solubilità. In particolare sono state effettuate delle reazioni di idroformilazione o idroesterificazione. La prima è stata effettuata utilizzando il catalizzatore di 79


Wilkinson [Rh(PPh3)3Cl] o il [Co2(CO)8] ed entrambe hanno dato buon esito (Tabella 4) anche se l’aldeide formatasi si ossida parzialmente ad acido carbossilico durante il work-up della reazione a causa della sua elevata reattività. Tabella 4 – Condizioni di reazione per l’idroformilazione dei copolimeri etilene/MOD Catalizzatore

Polimeri

Catalizzatore

Toluene

P(CO)

P(H2)

T

t

Formula bruta

g (reazione n°)

(mmol)

(mL)

(bar)

(bar)

(°C)

(h)

[Co2(CO)8]

0,2 (216)

0,02

4,0

75

75

120

24

[Rh(PPh3)3Cl]

0,133 (118)

0,002

5,5

25

25

90

24

Come è possibile osservare dal confronto degli spettri riportati in Figura 8 e Figura 9, la reazione ha avuto un’elevata conversione (il segnale olefinico è quasi sparito) anche se non è stato possibile determinare l’esatto valore della conversione a causa dell’ossidazione dell’aldeide al corrispondente acido che ha reso il polimero insolubile nei comuni solventi ed ha quindi impedito di effettuare l’analisi 1H-NMR in soluzione. Il polimero ottenuto dopo la reazione di idroformilazione non è tuttavia idoneo per un utilizzo come protettivo dei beni culturali in quanto l’aldeide risulta troppo reattiva e si ossida facilmente ad acido carbossilico; questo porta ad un abbassamento di solubilità, ad effetti antiestetici ed a una possibile degradazione del substrato a causa dell’acidità di questi gruppi. E’ stato quindi deciso di funzionalizzare il doppio legame con gruppi che abbiano una maggiore stabilità. Come noto in letteratura11, è possibile funzionalizzare doppi legami presenti su una poliolefina come il 1,2polibutadiene mediante una reazione di idroesterificazione. 80


Figura 8 - Spettro FT-IR del copolimero ottenuto nella reazione 216 88,0 85 80

1731,46

75 70 1672,22

65

1222,37

Str C=C (isomero trans)

60

1261,53

2727,13

55

981,81

wag =CH2

1309,09

50

1104,89

45 %T

721,67

rock -CH2

40

830,76

35 30 25 20 1373,42

15

wag -CH3

10 5

Str -CH

Str -CH

2918,30

2854,23

wag -CH2 1451,74

-0,6 4000,0

3600

3200

2800

2400

2000

1800

1600

1400

1200

1000

800

600

400,0

cm-1

Figura 9 - Spettro FT-IR del copolimero 216 dopo la reazione di idroformilazione 87,3 80 75

833,56

70

665,73

889,51

65

967,83 1032,16

60

2711,48

3428,57

55

1244,75

Str O-H

721,67

rock CH2

1118,88

1295,10

50

1166,43

45 %T

40 35 1376,22 1365,03

30

wag CH3

25 20 1725,87

15

str C=O aldeidico

Str C-H

10

1460,13

2851,54

1709,09

wag CH2

Str C=O carbossilico (COOH)

5

2918,76

0,1 4000,0

3600

3200

2800

2400

2000

1800

1600

1400

1200

1000

800

600

400,0

cm-1

Con l’introduzione di gruppi esterei sulle catene laterali si dovrebbe aumentare la solubilità del polimero nei comuni solventi e si dovrebbe quindi ottenere una migliore reversibilità del polimero, nonché una maggiore adesione a substrati polari grazie ai gruppi esterei. 81


La reazione di idroesterificazione è stata effettuata utilizzando come catalizzatore il Pd(OAc)2/dppb [1,4-Bis(difenilfosfino)butano] in presenza di CO e di alcool metilico anidro (Tabella 5). Il polimero è stato caratterizzato mediante spettroscopia FT-IR (Figura 1

10) e H-NMR (Figura 11). Figura 10 - Spettro FT-IR del prodotto della reazione 216 dopo idroesterificazione 95,0 1286,71

90 80

662,93 881,11 967,83

70

833,56

1009,79 1085,31

718,88

rock CH2

60 1362,23

wag CH3 50

1158,04

Str C-O 1460,13 1434,96

40

wag CH2

%T

1250,34

1191,60

Str C-O

30 20 10

1739,86 2851,54

Str C=O

Str C-H

0 2924,36

Str C-H

-10 -20,0 4000,0

3600

3200

2800

2400

2000

1800

1600 cm-1

1400

1200

1000

800

600

400,0

Dall’analisi 1H-NMR è possibile osservare che la conversione dei doppi legami olefinici non è totale e che i doppi legami residui isomerizzano. Questo è riscontrabile dallo shift del segnale olefinico del polimero di partenza (Figura 4) in due segnali olefinici del prodotto parzialmente idroesterificato (Figura 11).

82


Tabella 5 – Condizioni di reazione per l’idroesterificazione dei copolimeri etilene/MODa Polimero

Doppi legami

Pd(OAc)2

Dppb

Toluene

MeOH

T

t

Conversione

reaz. N° (mg)

(mmol)

(mmol)

(mmol)

(mL)

(mL)

(°C)

(h)

(%)

Pd(OAc)2/dppb

Reaz. 216 (1200)

5,64

0,282

0,564

80

4,6

100

120

61

Pd(OAc)2/dppb

Reaz. 200 (500)

2.94

0,147

0,294

60

3.57

100

72

40

Pd(OAc)2/dppb

Reaz. 200 (500)

2.94

0,147

0,294

60

3.57

125

72

52

Pd(OAc)2/dppb

Reaz. 200 (500)

2.94

0,147

0,294

60

3.57

150

72

30

Pd(OAc)2/dppb

Reaz. 200 (500)

2.94

0,147

0,294

60

3.57

175

72

9

Catalizzatore

a

PCO: 50 bar

83


In considerazione del fatto che la reazione di idroesterificazione non ha portato ad una conversione totale (Tabella 5), è stato deciso di mettere a punto una reazione di idrogenazione allo scopo di eliminare i doppi legami residui che potrebbero dare problemi di facile degradazione per foto-ossidazione. Figura 11 - Spettro 1H-NMR (400 MHz, T=25 °C) del copolimero CAT 216 dopo idroesterificazione e dissolto in CDCl3.

6.23

36.01

2.93

2.0

1.35

3.23

3.0

0.87

0.95

4.0

0.26

3.00

0.70

0.61

5.0

1.0

ppm (f1)

Come riportato in studi precedenti12, il catalizzatore di Wilkinson riesce ad idrogenare anche olefine ingombrate come quelle trisostituite o tetrasostituite, anche se con una cinetica di due ordini di grandezza più lenta. E’ stata quindi provata una reazione di idrogenazione con il catalizzatore di Wilkinson sul copolimero etilene/MOD ottenuto nella reazione 217 ma non si è riscontrata una idrogenazione apprezzabile del substrato, in quanto dall’analisi 1

H-NMR del prodotto dopo la reazione di idrogenazione non si è osservato un

abbassamento della percentuale di doppi legami. E’ stato quindi deciso di 84


testare un secondo catalizzatore idoneo ad idrogenare anche substrati più ingombrati: il trirutenio dodecacarbonile [Ru3(CO)12]. La reazione è stata effettuata sul prodotto della reazione 218 ed i risultati sono riportati in Tabella 6. La stessa reazione è stata effettuata sul copolimero parzialmente idroesterificato per convertire i doppi legami residui in legami semplici ma non si è osservata idrogenazione e dall’analisi NMR del prodotto non si osservano differenze sostanziali dal polimero di partenza. Una possibile spiegazione è ricercabile nella reazione di isomerizzazione del doppio legame che avviene durante la reazione di idroesterificazione e che probabilmente sposta il doppio legame del polimero in posizioni più difficilmente raggiungibili dal catalizzatore per dare luogo alla reazione di idrogenazione. La stabilità dei polimeri sintetizzati e la loro efficacia protettiva sono riportate nel capitolo 4.

85


Tabella 6 – Reazione di idrogenazione del copolimero etilene/MOD ottenuto nella reazione CAT218 Catalizzatore

Ru3(CO)12

CAT 218

Doppi legami

Catalizzatore

Toluene

P(H2)

T

t

Conversione

(g)

(mmol)

(mg)

(mL)

(bar)

(°C)

(h)

(%)

0.650

2.52

32

80

100

150

48

93

86


1a

Resconi, L.; Coates, G. W.; Mogstad, A.; Waymouth, R. M. J Macromol Sci Chem 1991, 28, 1225. b Naga, N.; Shiono, T.; Ikeda, T. Macromol Chem Phys 1999, 200, 1466.

2

Cavallo, L.;Guerra, G.; Corradini, P.; Resconi, L.; Waymouth, R. M. Macromolecules, 1993, 26, 260.

3

Kokko, E.; Pietikäinen, P.; Koivunen, J.; Seppälä, J. V. J. Polym. Sci. Part A: Polym. Chem., 2001, 39, 3805.

4a b

Cossee, P. J. Catal., 1964, 3, 80. Cossee, P. J. Catal., 1964, 3, 99.

5

Johnson, L. K.; Killian, C. M.; Arthur, S. D.; Feldaman, J.; McCord, E. F.; McLain, S. J.; Kreutzer, K. A.; Bennett, A. M. A.; Coughlin, E. B.; Ittel, S. D.; Parthasarathy, A.; Tempel, D. J.; Brookhart, M. S. WO 23010, 1996.

6

Dolatkhani, D.; Cramail, H.; Deffieux, A. Macromol. Chem. Phys. 1995, 196, 3091.

7

Radhakrishnan, K.; Sivaram, S. Macromol. Chem. Phys. 1999, 200, 858.

8

Stevens, J. C.; Timmers, F. J.; Wilson, D. R.; Schmidt, G. F.; Nickias, P. N.; Rosen, R. K.; Knight, G. W., Lai, S. Dow Chemical Company, invs.: EP-416-815-A2 (1991)

9

Lehmus, P.; Härkki, O.; Leino, R.; Luttikhedde, H. J. G.; Näsman, J. H.; Seppälä, J. V. Macromol. Chem. Phys. 1997, 199, 1965.

10

Kokko, E.; Malmberg, A.; Lehmus, P.; Löfgren, B.; Seppälä, J. V. J. Polym. Sci. Part A: Polym. Chem. 2000, 38, 376.

11

Ajjou, A. N.; Alper, H. Macromolecules, 1996, 29, 1784.

12

Nelson, D. J.; Li, R.; Brammer, C. J. Org. Chem., 2005, 70, 761.

87


3

Sintesi

e

caratterizzazione

di

copolimeri

poliacidolattico/perfluoropolietere I perfluoropolieteri sono una categoria di polimeri ampiamente conosciuta fin dagli anni ‘70. Grazie alla loro struttura, costituita da una catena alifatica fluorurata, essi si presentano generalmente come oli altamente viscosi con una alta inerzia chimica dovuta alla elevata energia del legame C-F (116 Kcal/mol), una bassa tensione superficiale, un basso coefficiente di attrito, una elevata stabilità sia termica che all’irraggiamento (hν). Queste peculiarità rendono questi polimeri idonei per la loro applicazione come protettivi, in particolare per superfici porose come quelle dei materiali lapidei1,2. Una delle principali limitazioni per la loro applicabilità nel campo dei Beni Culturali è rappresentata dalla loro scarsa solubilità (sono solubili solo nei clorofluorocarburi, (CFC)). Inoltre, a causa della loro inerzia chimica, apolarità e dei loro bassi pesi molecolari, i perfluoropolieteri non sono in grado di ancorarsi alla superficie del materiale lapideo e tendono a migrare internamente alla pietra causando una perdita di efficacia protettiva nel tempo. La possibilità di modificare le proprietà dei perfluoropolimeri è stata ampiamente studiata2,3. Alcuni esempi possono essere ritrovati in poliuretani o polimeri acrilici innestati con perfluoropolieteri1,4. Tra tutti i metodi di modificazione dei polimeri, la possibilità di sintetizzare copolimeri con una ben definita microstruttura è di primaria importanza per il controllo del prodotto finale4,5. Infatti, sebbene il blending dei polimeri sia considerato un buon metodo per modificare le proprietà dei polimeri, la sua principale limitazione è rappresentata dalla necessità di avere polimeri miscibili tra loro. Per esempio, i polimeri fluorurati, a causa delle loro caratteristiche, sono usualmente 89


immiscibili con polimeri non fluorurati e tendono, se mescolati, a separarsi in due fasi aderendo poco al supporto. In questa ottica, la sintesi di copolimeri con i perfluoropolieteri dovrebbe incrementare la solubilità e la miscibilità di questi ultimi e limitare quindi i fenomeni di segregazione in più fasi3. Tra tutti i perfluoropolieteri di interesse commerciale, il Fluorolink D10H (Flk) è un oligomero caratterizzato dalla presenza di due funzionalità idrossiliche terminali. Per questa ragione, esso può essere impiegato per la ringopening polymerization (ROP) di esteri ciclici (i.e. il lattide) per ottenere la sintesi di copolimeri a blocchi6 (Figura 1). Figura 1 – Copolimero a blocchi di tipo A-B-A costituito da Fluorolink D-10H (Flk) e PLA.

L’uso del polilattide (PLA) è di particolare interesse perché è uno dei pochi polimeri dove la struttura stereochimica può essere facilmente modificata dalla scelta di un’appropriata miscela di isomeri LL, DD o LD come monomeri o dalla scelta del sistema catalitico7. In questo modo, è possibile ottenere materiali sia cristallini che amorfi7. Il monomero di partenza per la sintesi del PLA è l’acido lattico, esso viene ottenuto principalmente dalla fermentazione dell’amido di mais o di altri tipi di zucchero8 ad opera dei LAB (Lactic Acid Bacteria), che forniscono esclusivamente l’enantiomero L-acido lattico. Questa sintesi, basata sullo sfruttamento di risorse annualmente rinnovabili, copre il 90% della produzione totale. Anche l’enantiomero D-acido lattico può essere prodotto per fermentazione, utilizzando specifici Lattobacilli9. 90


In passato i perfluoropolieteri come il Fomblin sono stati largamente usati come protettivi per opere lapidee; a titolo di esempio riportiamo l’utilizzo di quest’ultimo per trattare Palazzo Pitti a Firenze negli anni ‘7010. Come abbiamo già detto, i perfluoropolieteri presentano due problematiche nella loro applicazione: la prima è la loro esclusiva solubilità nei clorofluorocarburi (CFC), ormai vietati per i loro effetto dannoso sull’ozono; la seconda è il loro basso peso molecolare (sono infatti degli oligomeri) che tende a farli penetrare eccessivamente nel substrato su cui vengono applicati e che provoca quindi un abbassamento dell’efficacia protettiva nel tempo.

3.1 – Sintesi del copolimero PLA/Flk Nel nostro lavoro di tesi è stata utilizzata la copolimerizzazione del lattide (L o L,D) con il Fluorlink D-10H (Figura 1)11. Il prodotto della reazione risulta maggiormente solubile nei comuni solventi grazie alla presenza dei frammenti di PLA alle estremità del copolimero; in più il peso molecolare del Fluorolink (circa 1400 uma) aumenta notevolmente grazie all’inserimento di questi frammenti impedendo così al perfluoropolietere di penetrare nel substrato lapideo e di perdere efficacia protettiva nel tempo. Inoltre, la presenza dei frammenti esterei di PLA nel copolimero creerà interazioni deboli con il substrato lapideo riducendo la migrazione del copolimero dalla superficie all’interno del materiale lapideo. Il monomero di partenza per la sintesi del PLA è stato il lattide, ovvero il dimero ciclico dell’acido lattico (3,6-dimetil-1,4-diossan-2,5-dione). Esso esiste in 3 diversi isomeri: LL-lattide, DD-lattide e il meso-lattide (Figura 2).

91


Figura 2 – Isomeri del lattide O H CH3 O H H O H3C H3C

CH3

CH3

H

H O

O H3C

O

O H

O

LL - Lattide Tf 97°C

O

O

O

O

meso - Lattide Tf 52°C

DD - Lattide Tf 97°C

La polimerizzazione è una poliaddizione con apertura dell’anello ciclico e formazione di un poliestere come riportato nello Schema 1 e descritto in precedenti studi concernenti la sintesi di PLA alcol-assistita12. Diverse reazioni di copolimerizzazione sono state effettuate variando le condizioni di reazione o il rapporto tra i monomeri per trovare le migliori condizioni di polimerizzazione e di purificazione11. Le condizioni di reazione e la caratterizzazione dei prodotti sono riportati in Tabella 1.

92


Schema 1 – Meccanismo di polimerizzazione mediante coordinazione/inserzione del lattide con il Fluorolink usando lo stagno 2-etilesanoato come catalizzatore. - OctCO2+ Flk-OH + Sn(Oct)2

O O

O

O

O

O

O O

Flk-OH = Fluorolink Sn(Oct)2 = stagno 2etilesanoato

+ O

Flk

O

O

HO

O +

Sn O

O

Oct

FlkO

O

O

H

Sn Oct

O propagazione di catena

O O H

O Sn

O

O + Flk

O

HO O

Oct

questo è potenzialmente un nuovo alcol per la fase di OFlk propagazione di catena

terminazione di catena

O O

O

OH O

O + OH FlkO OSnOct

O Sn FlkO

O OH

O +

Sn O

lattide Oct

FlkO

O

O OH +

93

+ O

Oct

O

FlkO

O

O O

Sn Oct

O

O O


Tabella 1 – Condizioni di reazione e caratterizzazione polimeri sintetizzati* Nome prodotto

Monomero

Fluorolink

Conversione

% (mol/mol)

%

Mw

Mw/Mn

Tg

Tm

(°C)

(°C)

PLLAF001

LL-lattide

2.5

91

12000

1.97

41

162

PLLAF010

LL-lattide

5

89

9000

2.08

39

158

PLLAF003

LL-lattide

10

86

2000

3.87

37

140

PLDAF011

LD-lattide

5

90

7000

2.41

24

-

PLLA013

LL-lattide

0

92

53000

1.12

60

172

PLDA014

LD-lattide

0

90

83000

1.42

56

-

*Cat.: Sn(Oct)2 (0.5% mol/mol), Treazione: 130°C, treazione: 180 minuti

94


I prodotti di reazione sono stati caratterizzati mediante: •

Gel Permeation Cromatography (GPC) per determinarne il peso

molecolare Mw e la dispersione dei pesi molecolari Mw/Mn. •

Differential Scanning Calorimetry (DSC) per determinarne la Tg

e la Tm. Nel caso dei polimeri sintetizzati con L,D-lattide non è presente il picco relativo alla Tm e ciò e dovuto al carattere maggiormente amorfo del prodotto. •

Nuclear Magnetic Resonance (NMR) per determinare la

conversione finale di lattide e dimostrare la reale formazione del copolimero tra il PLA ed il Fluorolink. Come è possibile osservare dal Grafico 1, l’uso del Fluorolink come comonomero abbassa notevolmente il peso molecolare del prodotto in quanto con l’aggiunta di quest’ultimo si ottiene una nuova specie catalitica formata dall’unione dello Stagno 2-etilesanoato con il Fluorolink stesso (come mostrato nello Schema 1). Ogni molecola di Fluorolink agisce quindi da macroiniziatore di catena per il PLA e aumentando il rapporto Fluorolink/lattide diminuisce la lunghezza delle catene12. L’analisi della polidispersità (Mw/Mn) mostra come sia nel caso dei copolimeri che negli omopolimeri il valore di quest’ultima sia basso confermando che il PLLA e il Fluorolink sono legati mediante legami covalenti (Tabella 1). Il valore della polidispersione cresce comunque all’aumentare della percentuale di Flk utilizzato nella reazione. Le analisi GPC mostrano anche come l’incremento del contenuto in Fluorolink del copolimero porti alla comparsa di un picco negativo (nel detector ad indice di rifrazione) sempre più intenso all’aumentare del contenuto di Flk. L’inversione di segnale nell’analisi GPC è dovuta alla differenza dell’indice di rifrazione tra il solvente e il macromero fluorurato. 95


Grafico 1 – Variazione del peso molecolare del copolimero al variare della percentuale di Flk nella reazione

In Figura 3 è riportato il cromatogramma del copolimero PLLAF001. La formazione del copolimero a blocchi è evidenziata dalla sovrapposizione del picco negativo con il positivo dove la curva positiva e quella negativa corrispondono rispettivamente alle frazioni di PLLA e di Flk nel copolimero. Effettuando un’analisi analoga per il solo Flk (Figura 4) si osserva la presenza di un picco negativo appena prima del picco del solvente ad indicare il suo basso peso molecolare (circa 1400 uma), tale informazione permette di avvalorare ulteriormente l’ipotesi che il picco negativo adiacente al picco positivo sia imputabile al Fluorolink legato al PLA nel copolimero altrimenti si osserverebbe un picco negativo molto più vicino al picco del solvente.

96


Figura 3 - Curva GPC del copolimero PLDAF011 (Mw = 12000 g/mol; Polidispersità = 1.97)

Figura 4 - Curva GPC del Fluorolink libero

Sempre dalla Tabella 1 si osserva che anche la temperatura di fusione (Tm), il peso molecolare e la temperatura di transizione vetrosa (Tg) si abbassano notevolmente con l’aggiunta di Fluorolink. La diminuzione della Tm e della Tg può essere attribuito sia al peso molecolare più basso che agli effetti 97


del

Fluorolink

inserito

nelle

catene

polimeriche.

La

presenza

del

perfluoropolietere crea delle interruzioni nelle zone di maggiore cristallinità del PLA influenzando così le variazioni di volume e di entalpia associate con la transizione vetrosa stessa13. La conversione di lattide è stata determinata mediante un’analisi 1HNMR sul grezzo di reazione, facendo il rapporto tra l’integrale del quartetto a 5.2 ppm relativo al polimero formatosi e la somma di quest’ultimo integrale con l’integrale del quartetto a 5.0 ppm relativo al lattide residuo: Conversione (%) = 100 · [∫ quartetto polimero/(∫ quartetto polimero + ∫ quartetto lattide residuo)] L’effettivo inserimento delle catene di PLA sui gruppi idrossilici terminali del Fluorolink è stato verificato mediante spettroscopia 1H-NMR ed è stato poi confermato dalla variazione dei valori di Tg e di Tm. Il Fluorolink presenta due gruppi CH2 legati agli OH terminali. Tali gruppi sono visibili all’1H-NMR sottoforma di uno pseudo-tripletto ed hanno un chimical shift di 3.9 ppm (Figura 5). Quando si forma il copolimero PLA/Fluorolink, l’intorno chimico di questi CH2 varia in quanto essi non sono più legati ad un gruppo alcolico bensì ad un gruppo estereo. Il loro chemical shift varia da 3.9 ppm a 4.6 ppm come mostrato in Figura 6. Il segnale a 5.2 ppm è attribuito al quartetto del -CH(CH3)- della catena polimerica, il segnale 4.6 ppm è, come già detto, lo pseudo-tripletto attribuito ai CH2 del Fluorolink legati al frammento di PLA, il quartetto a 4.4 ppm è relativo al CH legato all’OH terminale del frammento di PLA legato al Fluorolink 98


mentre il doppietto a 1.6 ppm è dovuto al segnale dei -CH(CH3)- della catena di PLA che accoppiano con il CH con una J pari a 7 Hz. Figura 5 – 1H-NMR del Fluorolink in CDCl3/algofrene

99


Figura 6 – 1H-NMR del copolimero PLAF010

Non è più presente il segnale a 3.9 ppm attribuibile al Fluorolink libero, questa osservazione, unita al decremento riscontrato nella Tm e nella Tg, porta ad affermare che il Fluorolink si lega con le catene di PLA formando un copolimero di tipo ABA dove B è il frammento di Fluorolink ed A è il frammento di PLA (Schema 2). Lo spettro

19

F-NMR del copolimero PLAF010 (Figura 8) conferma la

presenza del frammento fluorurato nel copolimero come è evidenziabile dal confronto con l’analogo spettro del Fluorolink libero (Figura 7). Come è possibile osservare, i segnali del fluoro hanno chemical shifts simili fatta eccezione per i segnali a -81.37 e a -83.43 ppm nel Fluorolink libero che si spostano nel caso del Fluorolink legato al PLA a -77.56 e -79.68 ppm. 100


Schema 2 – Copolimero PLA/Fluorolink di tipo ABA

Lactide O

Fluorolink ( Flk ) F2 C

O HO

C F2

C F2

F2 C

F2 C

O

OH

O

+

O O

m

n

O

Sn(Oct)2 O HO

F2 C

O O

y

C F2

C F2

F2 C O

F2 C

O

O

n

OH

m

x O

Questi due segnali sono attribuiti ai due –CF2- legati al -CH2OH nel caso del Fluorolink libero e al -CH2OC(O)- nel caso del PLA/Fluorolink. Lo spostamento di questi segnali è attribuito alla variazione nell’intorno chimico di questi gruppi come evidenziato in studi simili da Haynes et al.13; questa osservazione fornisce una ulteriore prova che il Fluorolink è legato alle catene di PLA formando un copolimero.

101


Figura 7 – Spettro 19F-NMR del Fluorolink in CDCl3/algofrene

Figura 8 – Spettro 19F-NMR del copolimero PLLAF010 in CDCl3

102


Gli spettri FT-IR del Fluorolink, dell’omopolimero di PLA e del copolimero di PLA/Fluorolink evidenziano le differenze di assorbimento tra i tre prodotti. Le analisi FTIR (Figura 9) evidenziano: l’assenza della banda di assorbimento stretching dell’OH intorno ai 3400-3200 cm-1 nell’omopolimero di PLLA e nel copolimero PLLA-Flk (Figura 9 a e b) rispettivamente. Tale banda è invece presente nel Fluorolink libero (Figura 9 c). La presenza del picco a 2960 cm-1 e relativo allo stretching dei C-H alifatici. Il picco a 1760 cm1

è attribuito allo stretching del C=O carbossilico di esteri, tale segnale è

presente sia nello spettro dell’omopolimero di PLLA che nello spettro del copolimero di PLLA/Flk (Figura 9 a e b) ma non è ovviamente presente nel Fluorolink libero. In più, le bande a 1190, 1130 e 1090 cm-1 risultano più intense nello spettro del copolimero che in quello dell’omopolimero ad indicare che la copolimerizzazione sia avvenuta con successo in quanto anche lo spettro di differenza tra il copolimero PLLA/Flk e l’omopolimero di PLLA (Figura 9 d) mostra come sottraendo lo spettro dell’omopolimero PLLA dal copolimero di PLLA-Flk risulti uno spettro differenza molto simile al Fluorolink libero escluso che per il segnale dell’OH che è ovviamente assente nel copolimero. Sono state effettuate alcune prove di solubilità sui prodotti ottenuti per verificare se l’inserimento dei frammenti di PLA sul Fluorolink abbiano effettivamente aumentato la sua solubilità in solventi di uso comune nel campo applicativo dei beni culturali.

103


Figura 9 - Spettri FT-IR del: PLLA (a), copolimero PLLA-Flk 10% in peso (b), FLK puro (c), e della differenza tra lo spettro del PLLA e del PLLA-Flk 10 % in peso (d).

I risultati sono riportati in Tabella 2 e mostrano come la solubilità dei copolimeri PLA/Fluorolink sia effettivamente idonea ad una loro applicazione nel campo dei beni culturali. Questi solventi sono considerati poco tossici ed i risultati mostrano anche come la solubilità del perfluoropolietere sia effettivamente migliorata con l’aggiunta dei frammenti terminali di PLA considerando che il Fluorolink risulta insolubile in tutti i solventi esclusi quelli fluorurati. Le prove di solubilità sono state effettuate su 500 mg di prodotto aggiungendo piccole aliquote di solvente fino a completa solubilizzazione del polimero. La percentuale riportata è in peso (w/w) ed indica la percentuale massima (in peso) di polimero solubile in uno specifico solvente a temperatura ambiente. 104


Tabella 2 – Solubilità dei prodotti ottenuti Solventi

PLLAF010

PLDAF011

PLLA013

% (w/w)

% (w/w)

% (w/w)

Acetone

16

20

6

Tetraidrofurano

15

18

11

Etilacetato

13

15

9

In considerazione dei risultati ottenuti è stato deciso di testare i due polimeri PLLAF010 e PLDAF011 come protettivi per opere lapidee. La scelta è stata dovuta ad un lavoro di tesi avvenuto in parallelo al nostro in cui sono stati testati questi polimeri come protettivi per materiali edili e sono risultati migliori quelli con una percentuale di Flk pari al 5% (mol/mol)11.

1a

Frediani, P.; Manganelli Del Fa, C.; Matteoli, U.; Tiano, P. Studies in Conservation, 1982, 27, 31.

b

Piacenti, F.; Pasetti, A.; Matteoli, U.; Strepparola, E. EP 0192493, 1986;

c

Piacenti, F.; Camaiti, M. J. Fluorine Chem., 1994, 68, 227.

d

Ciardelli, F.; Aglietto, M.; Montagnini di Mirabello, L.; Passaglia, E.; Giancristoforo, S.; Castelvetro, V.; Ruggeri, G. Progress in Organic Coatings, 1997, 32, 43.

2a

Frediani, P.; Camaiti, M.; Sacchi, B.; Toti, A. Proceedings of the Int. Conference on “High Performance and Speciality Elastomers 2005”, Ginevra (Svizzera) 20-21 Aprile, 2005.

b

Camaiti, M.; Ferroni, M. Frediani, P.; Bracci, S.; Piacenti, F. 1° Congresso Nazionale – La Scienza dell’Arte, Bressanone 26 Febbraio-1 Marzo 2001, 245.

c

Casazza, E.; Russo, S.; Camaiti, M. Chim. Ind. (Milano), 2002, 84, 53. 105


d

Alessandrini, G.; Aglietto, M.; Castelvetro, V.; Ciardelli, F.; Peruzzi, R.; Toniolo, L. J. Appl. Pol. Sci,. 2000, 76, 962.

3a

Lee, W. K.; Losito, I.; Gardella Jr., J. A.; Hicks Jr., W. L. Macromolecules, 2001, 34, 3000.

b

Chen, J.-X.; Gardella Jr., J. A. Macromolecules, 1998, 31, 9328.

4

Amoroso, G. G.; Camaiti, M. Scienza dei Materiali e restauro; Alinea Ed., Firenze, 1997.

5a

Rodríguez-Hernández, J., Chécot, F., Gnanou, Y., Lecommandoux, S. Prog. Polym. Sci., 2005, 30, 691.

b

Lodge, T.P. Macromol. Chem. Phys., 2003, 204, 265.

c

Riess G., Prog. Polym. Sci., 2003, 28, 1107.

6a

Haynes, D.; Naskar, A. K.; Singh, A.; Yang, C.-C.; Burg, K. J.; Drews, M.; Harrison, G.; Smith, Jr., D. W. Macromolecules, 2007, 40, 9354.

b

Bongiovanni, R.; Malucelli, G.; Messori, M.; Pilati, F.; Priola, A.; Tonelli, C.; Toselli, M. J. Pol. Sci.: Part A: Pol. Chem., 2005, 43, 3588.

c

Shi, Z.; Holdcroft, S. Macromolecules 2004, 37, 2084.

d

Sanguineti, A.; Guarda, P. A.; Tonelli, C.; Gavezotti, P.; Strepparola, E. J. Fluorine Chem., 1999, 95, 51.

e

Marchionni, G.; Ajroldi, G. Polymer, 1995, 36, 3697.

7a

Stevens, E. S. Green Plastics: An Introduction to the New Science of Biodegradable Plastics, Princeton University Press, Princeton N. J., 2002.

b

Ljungberg, N.; Wesslen, B. Biomacromol., 2005, 6, 1789.

c

Drumright, R. E.; Gruber, P. R.; Henton, D. E. Adv. Mater., 2000, 12, 1841.

d

Garlotta, D. J. Polym. Environ., 2001, 9, 63.

8

Auras, R.; Harte, B.; Selke, S. Macromol. Biosci., 2004, 4, 835.

9

Kaplan, D. L.; Hartmann, M. H. “High Molecular Weight Polylactic Acid Polymers”, in Biopolymers from Renewable Resources, Springer Ed. Berlino 1998, 367. 106


10

Amoroso, G.; Camaiti, M. Scienza dei materiali e restauro, 1997, pag. 186, 193.

11

Salvestrini, N. Tesi di Laurea – “Polimeri da Fonti Naturali per la Protezione e Conservazione di Materiali Lapidei”, 2008.

12

Hartmann, M. H. High molecular weight polylactic acid polymers in Biopolymers from renewable resources, Kaplan, D. L. Ed. 1998, 389.

13

Haynes, D.; Naskar, A. K.; Singh, A.; Yang, C-C.; Burg, K. J.; Drews, M.; Harrison, G.; Smith, D. W. Macromolecules, 2007, 40, 9354.

107


4 - Valutazione della stabilità UV, dell’idrorepellenza e degli effetti cromatici dei polimeri sintetizzati per la loro applicazione nel campo dei beni culturali Per i test di valutazione sono stati utilizzati dei campioni di marmo dolomitico (provini, parallelepipedi di dimensioni 5x5x2 cm3). Una soluzione a titolo noto del prodotto è stata depositata sulla superficie del campione di marmo mediante sgocciolamento. Il solvente è stato fatto evaporare fino a peso costante del provino e la quantità di polimero depositata è stata verificata mediante la variazione di peso tra prima e dopo il trattamento. La quantità di polimero depositata è di circa 15 mg per campione con un errore massimo pari a ± 3 mg. L’aliquota di polimero depositata è stata minima per evidenziare le differenze di efficacia protettiva tra i vari campioni di polimero testati. L’efficacia protettiva contro l’assorbimento di acqua è stata valutata effettuando misurazioni di assorbimento capillare su vari campioni di marmo di cava utilizzando tre provini per ogni campione di polimero in modo da avere un valore medio della efficacia protettiva e minimizzare l’errore applicativo. Per ogni polimero da testare sono stati scelti tre campioni di marmo aventi un assorbimento di acqua prima del trattamento analogo. Le misure di assorbimento capillare sono state ripetute tre volte su ogni provino in modo da poter effettuare una media aritmetica della quantità di acqua assorbita in ogni ciclo. I test di valutazione dell’efficacia protettiva delle poliolefine sintetizzate sono stati effettuati in parallelo anche per il Regalrez-1094. Quest’ultimo è un copolimero ottenuto dalla copolimerizzazione del vinil-toluene con l’αmetilstirene e successivamente idrogenato. Esso è in genere utilizzato come 109


vernice grazie alle sue ottime caratteristiche ottiche dopo l’applicazione. E’ stato scelto questo polimero commerciale come prodotto di confronto perché chimicamente simile al copolimero etilene/diene. Anch’esso è infatti una poliolefina ed essendo usato come vernice nei beni culturali deve comunque possedere caratteristiche di idrorepellenza e stabilità all’irraggiamento UV. Per ogni categoria di prodotti sintetizzati è stato scelto un provino di marmo trattato con il polimero (quello con il miglior valore di efficacia protettiva) per valutare la stabilità all’irraggiamento UV, le variazioni colorimetriche del campione di marmo trattato dopo l’invecchiamento per irraggiamento artificiale e la loro idrorepellenza una volta applicati ad un materiale lapideo. La valutazione dei copolimeri PLA/Flk è stata effettuata con misure analoghe a quelle dei copolimeri sopra riportati per evidenziare le differenze tra le due classi di prodotti. Ai test di valutazione dei copolimeri PLA/Flk sono state affiancati, in parallelo, analoghi test per gli omopolimeri di PLA sintetizzati nelle stesse condizioni di reazione dei copolimeri.

4.1 – Effetti cromatici Poiché, come in precedenza ribadito, l’applicazione di un protettivo o vernice, non deve alterare la naturale cromìa dell’opera, non solo nell’immediato ma anche nel tempo, prima e dopo il trattamento sono state effettuate sul materiale lapideo delle misure di colore. Tali misure sono state eseguite mediante un colorimetro a riflessione in grado di convertire in un codice numerico i colori compresi nel campo della percezione umana. Il sistema utilizzato è un sistema cartesiano CIE-L*a*b* (Commision Internationale d’Eclairage), cioè un solido del colore (Figura 1) in cui ogni punto è 110


univocamente definito da una terna di coordinate spaziali che corrisponde ad un colore nello spettro visibile1. La grandezza L* esprime la luminosità ed ha valori compresi tra 0 (nero) e 100 (bianco); a* e b* rappresentano rispettivamente i due assi della tinta e della saturazione ed hanno valori compresi tra -60 (verde per a* e blu per b*) e +60 (rosso per a* e giallo per b*). Sui campioni, prima e dopo il trattamento, sono stati misurati e confrontati i valori del vettore totale del colore E*, il cui modulo è calcolato mediante la formula E* = (L*2 + a*2 + b*2)½. Figura 1 – Solido del colore definito dalle tre coordinate cartesiane L*, a* e b*.

Le variazioni cromatiche totali (∆E*) registrate sui campioni, causate dall’applicazione dei polimeri organici utilizzati come “protettivi”, sono

111


riportate in Tabella 1. Tali variazioni sono risultate trascurabili (Grafico 1) in quanto variazioni di colore con ∆E < 3 non sono percettibili ad occhio nudo. Tabella 1a – Variazione di colore dei campioni di marmo dopo l’applicazione Polimero applicato ∆L* ∆a* ∆b* ∆E*

a

200

-0,30

-0,10

0,52

0,61

200 HE

0,32

-0,06

0,49

0,59

PLLAF010

-2,23

-0,11

0,26

2,25

PLLA013

-1,31

-0,09

0,11

1,32

PLDAF011

-2,06

-0,07

0,26

2,08

PLDA014

-0,84

-0,18

0,44

0,97

Regalrez 1094

-2,61

0,01

0,81

2,73

∆L*, ∆a*, ∆b* e ∆E* sono stati calcolati sottraendo al

valore del campione trattato quello del campione non trattato. Grafico 1 – Variazione cromatica totale ∆E* dei provini dopo l’applicazione del trattamento

112


Il parametro che ha avuto maggiore influenza su ∆E* è stato il ∆L*, ad esclusione dei polimeri 200 e 200HE in cui il parametro ∆b* ha avuto un valore paragonabile al ∆L*. Ciò indica che le variazioni cromatiche sono dovute in genere ad un abbassamento della luminosità, ossia ad uno scurimento (effetto “bagnato”), piuttosto che a variazioni del croma, ovvero dei parametri a* e b*. Grafico 2 - Variazione cromatica di L* (luminosità), a* (tinta) e b* (saturazione) dei provini dopo l’applicazione del trattamento.

4.2 – Valutazione dell’efficacia protettiva E% L’idrorepellenza è una delle caratteristiche principali che un protettivo od una vernice devono conferire al materiale lapideo. Essa può essere valutata tramite misure di assorbimento di acqua, a tempi brevi ed a tempi lunghi. Può anche essere determinata mediante assorbimento di acqua a basse pressioni (metodo della pipetta) o per mezzo della misura dell’angolo di contatto. Il metodo utilizzato è stato quello 113


dell’assorbimento capillare di acqua a tempi brevi2. Il campione è stato appoggiato con la faccia trattata a contatto con carta da filtro satura di acqua, quindi pesato dopo un tempo determinato (previa eliminazione dell’eccesso di acqua con un panno inumidito). Per ogni provino sono poi state effettuate tre misure di assorbimento capillare procedendo alla completa anidrificazione del provino

(mediante

essiccatore con CaCl2) tra una misura e l’altra. L’effettiva anidrificazione del campione è stata sempre verificata dalla comparazione dei pesi secchi dei campioni. Per differenza di peso fra il campione prima e dopo l’assorbimento di acqua è stata determinata la quantità di acqua assorbita. Dal confronto tra la massa di acqua assorbita da un campione prima e dopo il trattamento, si è risaliti alla Efficacia protettiva (E%) del trattamento stesso: E% = 100 · [(A0 – A1)/A0] dove: A0 = massa (g) di acqua assorbita prima del trattamento A1 = massa (g) di acqua assorbita dopo il trattamento L’efficacia protettiva percentuale media E% è stata calcolata dalla media dell’efficacia protettiva percentuale ottenuta per i tre provini trattati con il medesimo polimero: E% = (E%1 + E%2 + E%3)/3 Ovviamente, un valore maggiore di E% indica una protezione migliore della pietra nei confronti dell’assorbimento di acqua.

114


L’efficacia protettiva è risultata soddisfacente per tutti i prodotti studiati anche in considerazione della ridotta quantità di polimero applicata su ogni provino di marmo (15mg per campione) (Tabella 2 e Grafico 3). Tabella 2 – Efficacia protettiva percentuale dei prodotti testati Polimero Applicato

Efficacia protettiva percentuale (E%)

200

82

200HE

96

PLLAF010

97

PLLA013

88

PLDAF011

84

PLDA014

84

REGALREZ-1094

74

I risultati migliori sono stati osservati per il copolimero etilene/MOD idroesterificato (200 HE) e per il copolimero PLLA/Flk (PLLAF010) come mostrato nel Grafico 3.

115


Grafico 3 – Efficacia protettiva dei polimeri testati dopo l’applicazione sui provini

4.3 – Stabilità all’irraggiamento UV I polimeri organici, come molte altre molecole, possono dissipare mediante

una

reazione

chimica

l’energia

accumulata

a

seguito

dell’assorbimento di una radiazione luminosa di una certa frequenza. Poiché l’energia associata ai fotoni nel campo UV (dai 200 ai 400 nm, corrispondenti a 140-175 Kcal) è sufficiente a provocare la scissione di legami chimici quali CH (99 Kcal/mol), C-C (82 Kcal/mol) o N-O (40 Kcal/mol), si può avere, nei polimeri utilizzati in trattamenti conservativi, la rottura omolitica di legami con conseguente depolimerizzazione o crosslinking e quindi variazione del peso molecolare, della solubilità e delle altre caratteristiche del polimero3. Per verificare la stabilità di un prodotto all’irraggiamento, esso può essere sottoposto ad irraggiamento utilizzando sorgenti artificiali che emettono radiazioni in un intervallo di lunghezza d’onda, come la lampada allo Xenon (λ > 280/400 nm) o quella a Mercurio ad alta pressione (λ > 220 nm). 116


Poiché le radiazioni generate da una lampada allo Xenon sono abbastanza simili a quelle solari, essa viene frequentemente utilizzata per testare la stabilità dei prodotti utilizzati nel campo della conservazione dei beni culturali simulando l’esposizione alla luce del sole. Per eliminare le lunghezze d’onda non presenti nella radiazione solare, la radiazione della lampada è stata opportunamente filtrata. I prodotti esposti a vari tempi di irraggiamento possono così venire analizzati, per valutare la stabilità chimica, mediante spettrometria FT-IR o mediante GPC (variazione del peso molecolare). I polimeri sono stati sottoposti ad irraggiamento dopo averli depositati su supporti inerti quali vetro o lamine di KBr, e su materiale lapideo. In quest’ultimo caso sono state valutate le variazioni di idrorepellenza o colore del provino trattato dopo che è stato invecchiato mediante irraggiamento artificiale. Ciascun prodotto è stato invecchiato mediante 4 cicli di irraggiamento artificiale di 250 ore in un solar-box dotato di lampada allo Xenon e termostatato alla temperatura di 40 °C. Ogni prodotto è stato applicato su un provino di marmo, su una lamina di KBr e su 4 vetrini da microscopio. Sul provino di marmo sono stati depositati 15 mg di prodotto, sulla lamina di KBr circa 3 mg e sui vetrini 40 mg. 4.3.1 – Variazioni cromatiche dopo l’irraggiamento artificiale Le

variazioni

cromatiche

provocate

dall’invecchiamento

per

l’irraggiamento artificiale sono state monitorate ad intervalli di tempo prestabiliti. Come si può osservare dal Grafico 4 la variazione cromatica maggiore tra le poliolefine si ha per il polimero 200 ma questo era prevedibile in quanto in tale prodotto sono presenti doppi legami sulle catene laterali che possono subire facilmente foto-ossidazione. 117


Nel caso del PLA (Grafico 5), la variazione maggiore dopo 1000 h di irraggiamento si ha nel caso del PLDA014 ma anche nel caso degli altri polimeri si hanno valori di ∆E* minori di 2.5. E’ comunque interessante osservare che le variazioni cromatiche non sono comunque percettibili ad occhio nudo neanche dopo 1000 h di irraggiamento sia nel caso delle poliolefine che nel caso del PLA. Grafico 4 – Variazione cromatica totale ∆E* delle poliolefine dopo invecchiamento per irraggiamento artificiale.

118


Grafico 5 - Variazione cromatica totale ∆E* del PLA dopo invecchiamento per irraggiamento artificiale.

Il fattore che influenza maggiormente la variazione cromatica totale ∆E* dopo l’invecchiamento dei polimeri per irraggiamento artificiale è nella maggior parte dei casi la luminosità L* come è osservabile paragonando i valori numerici nei Grafici 6-11. Ciò indica che l’effetto cromatico dell’irraggiamento artificiale si traduce in uno scurimento (effetto bagnato) del campione. Tra tutte le possibili variazioni dei parametri cromatici, questa è sicuramente quella che altera meno la naturale cromìa dell’opera in quanto la diminuzione di L* indica uno scurimento del campione ma, entro certi limiti, questo fenomeno può aumentare il contrasto esaltando i colori dell’opera stessa.

119


Grafico 6 - Variazione cromatica della luminosità ∆L* (calcolata come L*1- L*0, dove L*1, L*0 = luminosità dopo e prima dell’irraggiamento) dopo l’invecchiamento delle poliolefine per irraggiamento artificiale.

Grafico 7 - Variazione cromatica della luminosità ∆L* (calcolata come L*1- L*0, dove L*1, L*0 = luminosità dopo e prima dell’irraggiamento) dopo l’invecchiamento del PLA per irraggiamento artificiale.

120


Grafico 8 - Variazione cromatica della luminosità ∆a* (calcolata come a*1- a*0, dove a*1, a*0 = luminosità dopo e prima dell’irraggiamento) dopo l’invecchiamento delle poliolefine per irraggiamento artificiale.

Grafico 9 - Variazione cromatica della luminosità ∆a* (calcolata come a*1- a*0, dove a*1, a*0 = luminosità dopo e prima dell’irraggiamento) dopo l’invecchiamento del PLA per irraggiamento artificiale.

121


Grafico 10 - Variazione cromatica della saturazione ∆b* (calcolata come a*1- a*0, dove a*1, a*0 = saturazione dopo e prima dell’irraggiamento) dopo l’invecchiamento delle poliolefine per irraggiamento artificiale.

Grafico 11 - Variazione cromatica della saturazione ∆b* (calcolata come a*1- a*0, dove a*1, a*0 = saturazione dopo e prima dell’irraggiamento) dopo l’invecchiamento del PLA per irraggiamento artificiale.

122


4.3.2 – Variazioni dello spettro FT-IR dopo l’invecchiamento per irraggiamento artificiale I prodotti depositati sottoforma di film su vetrini e su lamine di KBr, sono stati sottoposti ad irraggiamento con lampada allo Xenon insieme ai provini di marmo trattati. Nel caso dell’irraggiamento sono state effettuate analisi tramite spettroscopia FT-IR direttamente sui film depositati sulle lamine, per valutare eventuali reazioni di foto-ossidazione. Le analisi sono state fatte dopo 16, 71, 155, 250, 500 e 1000 ore nel caso della prima serie di polimeri analizzati (poliolefine modificate ritenute meno stabili). Nel caso della seconda serie formata dagli omopolimeri e dai copolimeri di PLA (ritenuti più stabili), le analisi sono state effettuate dopo 250, 500, 1000 ore. I risultati della prima serie di polimeri (polimeri 200, 200HE e Regalrez1094) sono riportati nelle Figura 2, 3 e 4. I segnali principali che si osservano negli spettri FT-IR dei prodotti sono: Polimero 200 non degradato: 2918 cm-1, 2850 cm-1: C-H stretching, segnale netto di intensità elevata 1668 cm-1: C=C stretching, segnale netto di intensità debole 1462 cm-1: -CH2 bending asimmetrico, segnale netto di intensità media 1375 cm-1: -CH3 bending simmetrico, segnale netto di intensità media 831 cm-1: =CH out of plane, segnale netto di intensità debole Polimero 200 degradato per foto-irraggiamento: 3439 cm-1: -OH stretching, segnale slargato di intensità debole 2918 cm-1, 2850 cm-1: C-H stretching, segnale netto di intensità elevata 1714 cm-1: C=O stretching di acidi carbossilici, segnale netto di intensità elevata 123


1462 cm-1: -CH2 bending asimmetrico, segnale netto di intensità media 1375 cm-1: -CH3 bending simmetrico, segnale netto di intensità media 1174 cm-1: C-O stretching simmetrico, segnale slargato di intensità media Polimero 200HE non degradato: 2918 cm-1, 2850 cm-1: C-H stretching, segnale netto di intensità elevata 1740 cm-1: C=O stretching di esteri, segnale netto di intensità elevata 1459 cm-1, 1434 cm-1: CH2 bending asimmetrico, segnale netto di intensità media 1364 cm-1: -CH3 bending simmetrico, segnale netto di intensità media 1193 cm-1, 1159 cm-1: C-O stretching simmetrico, segnale slargato di intensità media 834 cm-1: =CH out of plane, segnale netto di intensità debole Polimero 200HE degradato per foto-irraggiamento: 3454 cm-1: -OH stretching, segnale slargato di intensità debole 2918 cm-1, 2850 cm-1: C-H stretching, segnale netto di intensità elevata 1740 cm-1: C=O stretching di esteri, segnale netto di intensità elevata 1712 cm-1: C=O stretching di acidi carbossilici, spalla affiancata al segnale del C=O estereo 1459 cm-1, 1434 cm-1: CH2 bending asimmetrico, segnale netto di intensità media 1364 cm-1: -CH3 bending simmetrico, segnale netto di intensità media 1193 cm-1, 1159 cm-1: C-O stretching simmetrico, segnale slargato di intensità media Regalrez-1094 non degradato: 2918 cm-1, 2850 cm-1: C-H stretching, segnale netto di intensità elevata 124


1445 cm-1: -CH2 bending asimmetrico, segnale netto di intensità media 1377 cm-1, 1360 cm-1: -CH3 bending simmetrico, segnale netto di intensità media Regalrez-1094 degradato per foto-irraggiamento: 3445 cm-1: -OH stretching, segnale slargato di intensità debole 2918 cm-1, 2850 cm-1: C-H stretching, segnale netto di intensità elevata 1715 cm-1: C=O stretching di acidi carbossilici, segnale netto di intensità elevata 1445 cm-1: -CH2 bending asimmetrico, segnale netto di intensità media 1377 cm-1, 1360 cm-1: -CH3 bending simmetrico, segnale netto di intensità media Dalle differenze tra gli spettri FT-IR dei prodotti non degradati con quelli degradati mediante foto-irraggiamento si può concludere che tutte le poliolefine, compreso il Regalrez-1094, si ossidano con la formazione di gruppi di acidi carbossilici lungo la catena, come osservabile dall’assorbimento a circa 1710 cm-1 e caratteristico del C=O. Questa affermazione è confermata dalla presenza del nuovo segnale intorno a 3450 cm-1 e relativo allo stretching dell’OH. In particolare, già dopo 71 ore di irraggiamento, si osservano fenomeni di ossidazione nel polimero 200, ciò è comprensibile vista la presenza di un elevato numero di doppi legami sulle ramificazioni laterali. Questo fenomeno si attenua nel prodotto idroesterificato 200HE dove i doppi legami residui sono intorno al 40 % di quelli presenti nel prodotto 200. Anche nel Regalrez-1094 si ha una parziale ossidazione dopo 155 h che poi cresce con l’aumentare del tempo di esposizione. Tale deterioramento del polimero può essere attribuito alla presenza di C-H terziari più facilmente ossidabili mediante fotoossidazione. Comunque anche se si osserva questo fenomeno di degrado foto125


ossidativo non si ha significativa variazione di colore come precedentemente riportato nel paragrafo 4.3.1. Figura 2 – Spettri FT-IR del polimero 200 dopo l’invecchiamento per irraggiamento artificiale di 1000 h. 0h

71h

155h

%T

250h

500h

1000h 4000.0

3600

3200

2800

2400

2000

1800

1600

1400

1200

1000

800

600

370.0

cm-1

Figura 3 – Spettri FT-IR del polimero 200HE dopo l’invecchiamento per irraggiamento artificiale di 1000 h. 0h

71h

155h %T

250h

500h

1000h

4249.0 4000

3000

2000

1500 cm-1

126

1000

500

369.0


Figura 4 – Spettri FT-IR del Regalrez-1094 dopo l’invecchiamento per irraggiamento artificiale di 1000 h. 0h

71h

155h

%T

250h

500h

1000h

4000.0

3600

3200

2800

2400

2000

1800 cm-1

1600

1400

1200

1000

800

600 500.0

Nel caso degli omopolimeri e dei copolimeri di PLA la stabilità risulta essere notevole, infatti non si osserva la presenza di prodotti degradati per fotoossidazione a causa dell’irraggiamento artificiale. A titolo di esempio sono riportati solo gli spettri del PLLAF010 e del PLDAF011 che mostrano l’assenza di variazioni nello spettro FT-IR dopo l’irraggiamento UV per 1000 ore.

127


Figura 5 - Spettri FT-IR del PLLAF010 dopo l’invecchiamento per irraggiamento artificiale di 1000 h. 0h

250h

%T

500h

1000h

4000.0 x1e4

3600

3200

2800

2400

2000

1800 cm-1

1600

1400

1200

1000

800

570.0

Figura 6 - Spettri FT-IR del PLDAF011 dopo l’invecchiamento per irraggiamento artificiale di 1000 h. 0h

250h

%T

500h

1000h

4000.0

3600

3200

2800

2400

2000

1800 cm-1

128

1600

1400

1200

1000

800

570.0


I segnali FT-IR caratteristici di questi polimeri sono: PLLAF010: 3519 cm-1: -OH stretching, segnale slargato di debole intensità 2992 cm-1, 2940 cm-1: C-H stretching, segnale netto di intensità media 1757 cm-1: C=O stretching di esteri, segnale netto di intensità elevata 1452 cm-1, 1434 cm-1: CH2 bending asimmetrico, segnale netto di intensità media 1383 cm-1: -CH3 bending simmetrico, segnale netto di intensità media 1183 cm-1, 1091 cm-1: C-O stretching simmetrico, segnale slargato a causa della presenza dello stretching C-F (l’assorbimento C-F è solitamente visibile come un segnale abbastanza intenso ma molto slargato e compreso tra 1400 e 1000 cm-1) PLDAF011: 3519 cm-1: -OH stretching, segnale slargato di intensità debole 2992 cm-1, 2940 cm-1: C-H stretching, segnale netto di intensità media 1755 cm-1: C=O stretching di esteri, segnale netto di intensità elevata 1452 cm-1: CH2 bending asimmetrico, segnale netto di intensità media 1380 cm-1: -CH3 bending simmetrico, segnale netto di intensità media 1188 cm-1, 1091 cm-1: C-O stretching simmetrico, segnale slargato a causa della presenza dello stretching C-F (l’assorbimento C-F è solitamente visibile come un segnale abbastanza intenso ma molto slargato e compreso tra 1400 e 1000 cm-1)

129


4.3.3 – Analisi del peso molecolare e della solubilità dopo invecchiamento dei polimeri per foto-ossidazione Come precedentemente accennato, un film dei polimeri analizzati (circa 40 mg) è stato applicato su alcuni vetrini che sono poi stati irraggiati insieme ai provini di marmo ed alla lamine di KBr su cui era stato depositato il polimero stesso. La variazione di peso di tali vetrini è spesso indice di un processo di degrado a causa della foto-ossidazione (il peso del campione aumenta) o di depolimerizzazione (il peso del campione diminuisce). Il polimero depositato sui vetrini è stato anche utilizzato per verificare la variazione di solubilità del polimero dopo irraggiamento e quindi la sua eventuale reversibilità. Gli omopolimeri di PLA (PLLA013 e PLDA014) ed i copolimeri PLA/Flk non hanno subito degrado foto-ossidativo come mostrato dagli spettri FT-IR effettuati dopo 250, 500 e 1000 ore di irraggiamento artificiale. A conferma di ciò non si sono verificate variazioni di peso del campione depositato sui vetrini quindi non si è avuto nessun tipo di reazione con agenti esterni quali ossigeno od acqua. Misure di solubilità dei polimeri sono state effettuate ogni 250 ore di irraggiamento ed il polimero risultava perfettamente solubile nello stesso solvente utilizzato per la deposizione (CHCl3). La soluzione formatasi è stata utilizzata per effettuare analisi GPC ed i pesi molecolari sono risultati uguali a quelli iniziali quindi si può affermare che non sia avvenuto nessun fenomeno di depolimerizzazione o crosslinking. Le analisi 1

H-NMR dei polimeri dopo 1000 ore di irraggiamento artificiale confermano

quest’ultima affermazione mostrando come gli spettri del polimero al tempo zero e dopo l’irraggiamento siano uguali. Al contrario, nel caso delle poliolefine, si è osservato un fenomeno di foto-ossidazione già dopo le prime ore (come mostrato dagli spettri FT-IR sopra riportati), ciò è attribuito alla presenza di doppi legami nel caso dei copolimeri 130


etilene/MOD. Analizzando la variazione percentuale della massa dei polimeri depositati sui vetrini (Tabella 3) dopo irraggiamento si osserva un aumento della massa attribuibile all’inglobamento nel polimero di ossigeno a causa di reazioni di foto-ossidazione. Tabella 3 – Variazione della massa di polimero dopo irraggiamento artificiale. Prodotto 71 h (%) 250 h (%) 500 h (%) 1000 h (%) 200

+ 3,2

+3,3

+3,5

+3,5

200HE

+1,2

+1,2

+1,4

+1,9

R-1094

0

0

+0,4

+1,2

La solubilità dei prodotti descritti è stata analizzata dopo aver subito l’irraggiamento artificiale per avere un’indicazione sulla loro reversibilità. I risultati riportati in Tabella 4 indicano che i polimeri di sintesi (200 e 200 HE), a causa dei fenomeni di foto-ossidazione e di crosslinking, non risultano più solubili già dopo 71 ore mentre la reversibilità del Regalrez-1094 è totale anche dopo 1000 ore di esposizione. E’ necessario tener presente che il peso molecolare iniziale del prodotto gioca un ruolo fondamentale nella solubilità perché se si hanno fenomeni di crosslinking tra differenti catene di polimero e già di partenza quest’ultimo ha un elevato peso molecolare si osserverà una perdita di solubilità più rapida nel tempo rispetto allo stesso fenomeno osservato su polimeri a più basso peso molecolare. Questa considerazione è da tener presente nel nostro caso in quanto il Regalrez-1094 ha un peso molecolare di circa 1000 uma mentre i polimeri 200 e 200HE hanno pesi molecolari di circa 50000 uma. L’alto peso molecolare dei polimeri sintetizzati è presumibilmente la causa della completa insolubilità dei polimeri già dopo solo 71 h di irraggiamento artificiale. 131


Tabella 4 – Solubilità del polimero dopo irraggiamento artificiale Prodotto 71 h 250 h 500 h 1000 h 200

0

0

0

0

200HE

0

0

0

0

R-1094

100

100

100

100

4.3.4 – Efficacia protettiva E% dopo irraggiamento artificiale Per verificare la diminuzione di efficacia protettiva dopo irraggiamento artificiale sono state effettuate delle misure di assorbimento capillare di acqua dopo che il provino trattato era stato esposto a tempi di irraggiamento prestabiliti (250, 500 e 1000 h). Il copolimero etilene/MOD (200) mostra un decremento notevole dell’efficacia protettiva già dopo 250 ore di irraggiamento artificiale, probabilmente a causa del degrado foto-ossidativo riscontrato dalle analisi FTIR. Dall’analisi FT-IR si osserva infatti la formazione di un picco a 1717 cm-1 attribuibile a gruppi COOH. La formazione di questi gruppi acidi sul polimero porta ad una minore idrorepellenza del polimero e questo si traduce in una diminuzione dell’efficacia protettiva. Lo stesso fenomeno si osserva per il polimero idroesterificato (200HE) anche se in minor misura. Ciò è attribuibile alla minor presenza di doppi legami sul polimero che, dopo la reazione di idroesterificazione, sono ridotti al 39%. Un comportamento analogo si osserva anche per il Regalrez-1094. In questo caso la diminuzione di efficacia protettiva, oltre che per il degrado fotoossidativo, può essere attribuibile anche ad una maggiore penetrazione del polimero all’interno della pietra. Nel caso di polimeri a basso peso molecolare (il Regalrez-1094 ha un peso molecolare di circa 1000 uma) si possono infatti 132


avere fenomeni di diminuzione di efficacia protettiva nel tempo dovuti proprio ad una eccessiva penetrazione. Nel caso degli omopolimeri e copolimeri di PLA si osserva una maggiore durata dell’efficacia protettiva nel tempo. Questo è attribuibile alla ottima stabilità di questi polimeri all’irraggiamento UV che permette di mantenere la loro efficacia protettiva nel tempo. In particolare è da sottolineare l’efficacia protettiva del PLLAF010 che, dopo 1000 ore di irraggiamento artificiale, ha ancora un valore pari a 85%. Grafico 12 – Variazione dell’efficacia protettiva durante l’esposizione all’irraggiamento artificiale.

4.3.5 – Indice di rifrazione L’effetto ottico prodotto dall’applicazione di una vernice su un dipinto è influenzato dal valore dell’indice di rifrazione di quest’ultima. Vernici con indice di rifrazione alti tendono a produrre una maggiore saturazione dei colori. Le vernici tradizionalmente utilizzate presentano indici di rifrazione elevati 133


(Capitolo 1 – Tabella 2), mentre i polimeri sintetici (polivinilacetato, poliacrilati) hanno in genere indici di rifrazione inferiori a 1,5. Gli indici di rifrazione dei polimeri sintetizzati sono stati misurati mediante l’ellissometria. La tecnica ellissometrica si basa sulla variazione dello stato di polarizzazione della luce riflessa da una superficie. In particolare se sulla superficie del campione in esame è presente un film sottile, allora l’intero sistema ottico costituito dal substrato e dal film influenza lo stato di polarizzazione della radiazione riflessa. Il termine ellissometria discende dal fatto che questa tecnica ricorre ad una radiazione polarizzata ellitticamente. Il principio fondamentale della tecnica ellissometrica consiste quindi nel misurare la variazione dello stato di polarizzazione della luce riflessa, in modo da ottenere informazioni sul campione. L’ellissometria è una tecnica ottica molto sensibile usata per determinare lo spessore, d, l’indice di rifrazione, n , ed il coefficiente di estinzione, k , di film sottili4. L’indice di rifrazione fornisce informazioni sulla velocità di propagazione della luce nel campione, mentre il coefficiente di estinzione è legato al coefficiente di assorbimento, α , della radiazione elettromagnetica da parte del film:

α = ( 4π k / λ ) Sia n sia k variano con la lunghezza d’onda, λ , della radiazione, ed insieme definiscono l’indice di rifrazione complesso, n% :

n% (λ ) = n(λ ) + i ⋅ k (λ ) , che serve a descrivere il comportamento del materiale nei confronti della radiazione incidente.

134


Il modo più semplice per perseguire questo obiettivo è quello che si basa sulla procedura nota come Nulling Ellipsometry. Lo schema di un Null Ellipsometer è riportato in Figura 7. Figura 7 - Set-up strumentale di un Null Ellipsometer.

I risultati dell’analisi ellissometrica per la determinazione dell’indice di rifrazione sono riportati in Tabella 5. Il polimero 200 ha l’indice di rifrazione più elevato tra i polimeri analizzati anche se inferiore a quello delle resine naturali. L’indice di rifrazione di un polimero varia in modo inversamente proporzionale al peso molecolare del polimero5 quindi abbassando ulteriormente il peso molecolare del polimero dovrebbe essere possibile aumentare ancora l’indice di rifrazione e aprire la strada per l’applicazione di questi prodotti come vernici (i pesi molecolari delle resine sintetiche convenzionali utilizzate come vernici hanno infatti pesi molecolari inferiori a 2000 uma).

135


Tabella 5 – Indici di rifrazione dei polimeri sintetizzati Polimero Indice di rifrazione PLLA013

1,39

PLLAF010

1,44

PLDAF011

1,38

PLDA014

1,44

200

1,50

200HE

non determinabile

4.4 – Conclusioni

In conclusione, sono stati sintetizzate e studiate due nuove classi di polimeri per la loro applicazione nel campo dei Beni Culturali. La prima classe è una poliolefina costituita dal copolimero etilene/MOD. Sono state effettuate numerose reazioni di sintesi variando sia il sistema catalitico che le condizioni di reazione per studiare a fondo la reattività dei monomeri. E’ stato scoperto che il rapporto tra la reattività del MOD e dell’etilene (RMOD/REt) aumenta effettuando le reazioni a bassa temperatura; che aumentando il rapporto molare MOD/etilene della reazione si ottengono prodotti a più basso peso molecolare e temperatura di fusione, con una percentuale di MOD all’interno del copolimero maggiore e con una carattere nettamente più amorfo a vantaggio della sua solubilità. I polimeri sintetizzati sono stati modificati mediante tre differenti reazioni: l’idroformilazione, l’idroesterificazione e l’idrogenazione. Le conversioni hanno raggiunto valori abbastanza alti ma mai del 100%. Nel caso dell’idrogenazione la conversione massima ottenuta è stata del 93% calcolata mediante analisi 1H-NMR. Nel caso dell’idroesterificazione, la conversione 136


massima ottenuta è stata del 61% mentre nel caso dell’idroformilazione non è stato possibile determinare l’esatta conversione perché il prodotto è risultato insolubile, è stato comunque osservato mediante FT-IR la scomparsa quasi totale del segnale relativo al doppio legame e la formazione di un intenso segnale relativo allo stretching del C=O aldeidico con un picco di minore intensità relativo allo stretching di un acido carbossilico. Del copolimero idroesterificato e del copolimero etilene/MOD sono state valutate la stabilità all’irraggiamento UV, l’efficacia protettiva contro gli assorbimenti capillari di acqua e la variazione di colore apportata ad un materiale lapideo una volta applicato su di esso. L’efficacia protettiva del copolimero sia prima che dopo l’idroesterificazione è risultata buona con valori superiori al 80%. Purtroppo la stabilità all’irraggiamento UV non è soddisfacente a causa della presenza del doppio legame residuo che tende a foto-ossidarsi dando luogo alla formazione di acidi carbossilici ed a fenomeni di crosslinking. La formazione di acidi carbossilici rende il prodotto insolubile e potenzialmente dannoso per il substrato. Le variazioni di colore sono invece state soddisfacenti anche dopo 1000 ore di irraggiamento artificiale e nonostante il degrado chimico osservato sul polimero, le variazioni cromatiche del campione hanno sempre avuto valori bassi non percettibili ad occhio nudo. La seconda classe di polimeri sintetizzata e studiata è stata quella dei copolimeri PLA/Fluorolink. Sono state effettuate numerose sintesi variando lo stereoisomero di lattide utilizzato come monomero o il rapporto molare Fluorolink/lattide. Utilizzando lo stereoisomero LL-lattide si ottengono prodotti cristallini mentre utilizzando una miscela racema di LL-lattide e DD-lattide si ottengono polimeri amorfi. L’aumento del rapporto molare Fluorolink/lattide nella reazione porta ad una diminuzione dei pesi molecolari in quanto il Fluorolink, grazie alle due funzionalità idrossiliche terminali, si comporta da macroiniziatore della catena di PLA; aumentando la percentuale di Flk si 137


ottiene un maggior numero di catene di polimero in crescita e quindi una diminuzione dei pesi molecolari medi. Tale comportamento è confermato dall’abbassamento della temperatura di fusione e di transizione vetrosa. L’inserzione del Fluorolink nelle catene di PLA è stata confermata dall’analisi 1

H-NMR e

19

F-NMR in cui sono visibili, rispettivamente, gli shift dei segnali

relativi ai CH2 e dei CF2 terminali delle catene di Flk. I prodotti delle reazioni con un rapporto Fluorolink/lattide del 5% (mol/mol) sono stati utilizzati per lo studio della loro stabilità all’irraggiamento UV, della loro efficacia protettiva contro gli assorbimenti capillari di acqua e della variazione di colore che apportano ad un materiale lapideo una volta applicati su di esso. I test di valutazione hanno dato ottimi risultati: i prodotti hanno mostrato valori elevati di efficacia protettiva sia prima che dopo l’irraggiamento UV, un’ottima resistenza all’irraggiamento artificiale in quanto il prodotto non subisce nessun tipo di modifica strutturale neanche dopo 1000 ore di irraggiamento. Quest’ultimo dato è stato verificato mediante analisi NMR, FTIR e GPC nonché la sua completa reversibilità anche dopo irraggiamento. Le variazioni di colore sono risultate minime infatti non si hanno variazioni percettibili ad occhio nudo neanche dopo 1000 ore di irraggiamento. Il prodotto che ha mostrato i migliori risultati è stato il copolimero PLLA/Flk in cui l’efficacia protettiva dopo 1000 ore di irraggiamento ha un valore di 85% con una perdita di solo tredici punti percentuale dopo l’irraggiamento. Il confronto tra i copolimeri di PLA/Flk e gli analoghi omopolimeri di PLA ha confermato l’ipotesi che l’aggiunta del Fluorolink aumenti l’idrorepellenza dei prodotti come mostrato dal confronto dei valori di efficacia protettiva. Da una recente analisi SEM6 (Scanning Electron Microscopy) è stato infatti osservato che la frazione di Fluorolink facente parte del copolimero tende a disporsi sulla 138


superficie esterna del materiale su cui è depositato, conferendo al polimero una maggiore stabilità e idrorepellenza. Come sviluppo successivo della prima linea di ricerca proponiamo di studiare nuovi sistemi catalitici capaci di dare conversioni del 100% nel caso dell’idroesterificazione e dell’idrogenazione e di mettere a punto dei sistemi catalitici per effettuare la copolimerizzazione dell’etilene direttamente con monomeri funzionalizzati. Nel caso della seconda linea di ricerca proponiamo di testare i prodotti ottenuti su altri litotipi in modo da verificare lo spettro di applicazione di tali prodotti, di prolungare il tempo di esposizione all’irraggiamento artificiale in modo da verificare se ci dovessero essere modificazioni strutturali o ulteriore perdita di efficacia protettiva nel tempo e di calcolare la permeabilità al vapor acqueo dei prodotti una volta applicati. Inoltre, vista la temperatura di transizione vetrosa dei prodotti (tra 20 e 40 °C) si pensa di mettere a punto lo studio di questi copolimeri anche come consolidanti. 1

Doc. NORMAL 43/93 Materiali lapidei. Misure colorimetriche di superfici opache, Ed. CNRICR Comas Grafica, Roma, 1994.

2

UNI 10859:2000 Beni culturali - Materiali lapidei naturali ed artificiali - Determinazione dell’assorbimento di acqua per capillarità. Milano: Ente Nazionale Italiano di Unificazione.

3

Melo, M.; Bracci, S.; Camaiti, M.; Chiantore, O.; Piacenti, F. Polymer Degradation and Stability, 1999, 66, 23.

4

Motschmann, H.; Teppner, R. Ellipsometry in Interface Science in Novel methods to Study Interfacial Layers, Ed. Miller, R. e Moebius, D. 2001, 1.

5

Berns, R. S.; de la Rie, E. R. Studies in Conservation, 2003, 48, 251.

6

Frediani, P.; Camaiti, M. Comunicazione privata. 139


5 - Parte sperimentale 5.1 - Strumentazione e metodi analitici utilizzati Spettri FT-IR Gli spettri FT-IR sono stati registrati con uno spettrofotometro FT-IR Perkin Elmer modello System 2000 collegato ad un PC e gestito tramite il software Spectrum One versione 3.02 (Figura 1). Figura 1 – Spettrofotometro FT-IR Perkin Elmer mod. System 2000

I polimeri (circa 3 mg) sono stati deposti in soluzione su lamina di KBr e il solvente è stato fatto evaporare. L’analisi FT-IR è poi stata fatta sul film formatosi ed il background è stato effettuato sull’aria.

141


Spettri 1H-NMR Gli spettri 1H-NMR sono stati registrati con uno spettrometro Varian Mercury Plus AS 400 (Figura 2a) operante alla frequenza di 399.916 MHz oppure mediante uno spettrofotometro Varian VXR 200 (Figura 2b) operante alla frequenza di 199.958 MHz. I campioni sono stati solubilizzati nel solvente deuterato appropriato utilizzando 50-100 mg di polimero. Tutti gli spettri sono riferiti al TMS utilizzando come riferimento il chemical shift degli idrogeni residui del solvente deuterato utilizzato1. Spettri 13C-NMR Gli spettri

13

C-NMR sono stati registrati con uno spettrometro Varian

Mercury Plus AS 400 (Figura 2a) operante alla frequenza di 100.588 MHz oppure mediante uno spettrofotometro Varian VXR 200 (Figura 2b) operante alla frequenza di 50.294 MHz. I campioni sono stati solubilizzati nel solvente deuterato appropriato utilizzando 50-100 mg di polimero. Tutti gli spettri sono riferiti al TMS utilizzando come riferimento il chemical shift degli atomi di carbonio del solvente deuterato utilizzato1. Gli spettri sono stati ottenuti disaccoppiati rispetto all’idrogeno. Spettri 19F-NMR Gli spettri

19

F-NMR sono stati registrati con uno spettrometro Varian

VXR 200 operante alla frequenza di 188.114 MHz. I campioni sono stati solubilizzati nel solvente deuterato utilizzando 50-100 mg di polimero ed i 142

Â


segnali sono riferiti al chemical shift degli atomi di fluoro dell’algofrene utilizzato come standard. Determinazione del peso molecolare Le misure dei pesi molecolari sono state effettuate con un sistema GPC munito di pompa Perkin Elmer, mod. Series 200 (Figura 3), iniettore Rheodyne 7010 con loop d’iniezione di 200 µL, detector ad indice di rifrazione Perkin Elmer mod. LC-30 e utilizzando 3 colonne collegate in serie di tipo PL Gel (lunghezza: 30 cm, dimensione delle particelle: 5 µm, Polymer Labs, GB). Figura 2 – Magneti degli spettrometri NMR Varian: a) 400 MHz; b) 200 MHz

I campioni sono stati solubilizzati in CHCl3 (da 6 a 12 mg in 2 mL di solvente), con una piccola aliquota di toluene (3% v/v) utilizzato come standard interno. La soluzione è stata fatta passare attraverso dei filtri di PTFE (dimensioni pori 0,45 µm) prima di essere iniettata. L’eluente utilizzato è stato 143


il cloroformio usando un flusso di eluizione di 1 mL/min. I pesi molecolari sono stati calcolati in base ad una curva di calibrazione effettuata utilizzando degli standard di PMMA (polimetilmetacrilato forniti dalla Polymer Labs, GB) con pesi molecolari variabili tra 1020 e 1577000. Figura 3 – GPC mod. Series 200.

Determinazione della viscosità intrinseca Le misure di viscosità sono state effettuate con un viscosimetro di Ubbelohde (Figura 4a) con capienza di 11 mL immerso in un termostato Visco28 Baths ME-18V Julabo riempito con olio di silicone e riscaldato alla temperatura di 135°C con un errore sulla temperatura del bagno di ± 0.01 °C (Figura 4b). Sono state utilizzate le costanti K e α dell’equazione di Mark-Houwink riportate nel Polymer Handbook2 e necessarie per il calcolo della viscosità intrinseca. La soluzione di polimero è stata preparata utilizzando 45 mg di prodotto disciolti in 50 mL di decaidronaftalene a 135°C. Tale soluzione è stata 144


poi prelevata (11mL) a caldo e versata nel viscosimetro. Il tempo necessario affinché la soluzione scenda per gravità attraverso i due indicatori di posizione lungo il tratto capillare del viscosimetro è stato misurato con un cronometro (errore strumentale pari a ± 0,001 sec); da tale tempo è stata ricavata la viscosità intrinseca. Figura 4 – a) Viscosimetro di Ubbelohde; b) Termostato Visco28 Baths ME-18V Julabo

Misure della temperatura di transizione vetrosa (Tg) e di fusione (Tm) mediante DSC Le misure sono state effettuate utilizzando un calorimetro a scansione differenziale Perkin Elmer, mod. Pyris 1 DSC (Figura 5), abbinato ad un 145


sistema criogenico Intracooler 2P e collegato ad un PC gestito dal software Pyris. Le misure sono state effettuate con una velocità di riscaldamento di 20°C/min. Figura 5 – Calorimetro a scansione differenziale Perkin Elmer mod. Pyris 1 DSC.

Ellissometria per la determinazione dell’indice di rifrazione Il laser utilizzato è un Nd–YAG laser con potenza pari a 50 mW e con una lunghezza d’onda di 532 nm, la potenza del laser è stata regolata al 2 % ed il gain del rivelatore al 20-40 %. La risoluzione delle immagini, acquisite tramite un obbiettivo 10x ed una camera CCD (Charge Coupled Device), è stata di 2 µm ed il campo della visuale era di 400 x 590 µm. Per la mappatura ellissometrica, l’angolo di incidenza, AOI, è stato variato fra 57° e 63°, ad intervalli regolari di 0.5°. Le coppie di dati sperimentali, ∆ - Ψ (AOI), sono state fittate attraverso un modello ottico. 146


L’indice di rifrazione è stato ricavato dal fitting delle curve ottenute mediante la mappatura ellisometrica ai diversi angoli di incidenza. Le lamine utilizzate per la deposizione del campione polimerico erano costituite da supporti in ossido di silicio 1cm x 1cm forniti dalla Fondazione Bruno Kessler di Trento (ex ITC-irst). La procedura prevede la deposizione di una soluzione a titolo noto (10 mg/mL) del prodotto sulla lamina e la successiva evaporazione del solvente fino alla completa formazione del film polimerico. Prove di invecchiamento UV Le prove di invecchiamento artificiale sono state effettuate per esposizione ad irraggiamento UV mediante un apparecchio CO.FO.MEGRA, mod. Solar Box 3000 (Figura 6), equipaggiato con una lampada allo Xenon (λ > 280 nm) con una potenza di 500 W/m2. La temperatura del corpo nero ha raggiunto al massimo il valore di 63 °C. La luce è stata filtrata in modo da eliminare le radiazioni con una λ < 280 nm. Figura 6 – SolarBox 3000 CO.FO.MEGRA

147


5.2 – Solventi e reagenti utilizzati 5.2.1 – Solventi •

L’esano (Aldrich, con una purezza del 95+%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

L’acetone (GPR Reactapur, con una purezza del 99,5%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

Il toluene (Riedel-de Haën, con una purezza del 99,7%) è stato purificato mantenendolo a riflusso per 4 ore su sodio metallico in atmosfera di azoto e distillandolo successivamente in una beuta contenente setacci molecolari (4Ǻ) precedentemente attivati e conservato in atmosfera di azoto.

L’acido cloridrico (Carlo Erba, in soluzione acquosa al 37%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

L’etanolo (Società Commerciale Fiorentina, con una purezza del 96%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

L’isopropanolo (Carlo Erba, con una purezza del 99,7%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

Il cloroformio (AnalaR Normapur, con una purezza del 99,2%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

Il cloroformio deuterato (Aldrich, con una purezza isotopica del 99,8%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

Il tetrafluoroetano-d4 (Aldrich, con una purezza isotopica del 99,5+%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni. 148


L’1,2,4-triclorobenzene (Aldrich, con una purezza del 99+%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

Il metanolo (Carlo Erba, con una purezza del 99,9%) è stato purificato mediante anidrificazione con il metodo di Lund e Bjerrum3. La procedura è consistita nell’aggiungere 50 mL di metanolo ad un pallone contenente 5g di magnesio anidro e 0,5g di iodio in atmosfera inerte di azoto; si è portato a riflusso la miscela fino a che tutto lo iodio non era più visibile e tutto il magnesio è stato convertito in metossido di magnesio. Si è aggiungto quindi 900 mL di metanolo assoluto e si è tenuto a riflusso la miscela per 30 minuti. Successivamente si è distillato il metanolo direttamente nella beuta di raccolta contenente setacci molecolari (4 Ǻ) precedentemente attivati e in atmosfera inerte di azoto.

5.2.2 – Reagenti e gas •

Il Cp2ZrCl2 (Aldrich) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni, conservandolo e prelevandolo in atmosfera di azoto (mediante l’utilizzo di una dry-box).

Il Me2Si(Me5Cp)(NtBu)TiCl2 (MCAT) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni, conservandolo e prelevandolo in atmosfera di azoto (mediante l’utilizzo di una dry-box).

Il Ru3(CO)12 (Acros, con una purezza del 99%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

Il Co2(CO)8 (II) è stato fornito dal Prof. Piero Frediani, Dipartimento di Chimica Organica, Sesto Fiorentino. Il catalizzatore è stato prelevato da 149


una fiala sigillata in atmosfera di CO ed è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni. •

Il MAO (Crompton) era una soluzione ≈ 2M in toluene impuro per una piccola percentuale di trimetilalluminio. Al fine di utilizzare una soluzione a titolo noto e priva di trimetilalluminio, il solvente e il trimetilalluminio sono stati distillati a pressione ridotta (0,03 bar). Il metilalluminossano residuo è stato conservato in atmosfera di azoto. Per le reazioni di polimerizzazione è stata preparata una soluzione di MAO in toluene anidro con una concentrazione pari a 100mg/mL.

Il 7-metil-1,6-ottadiene (Aldrich, con una purezza del 99,8%) è stato conservato su setacci molecolari (4 Ǻ) precedentemente attivati e in atmosfera inerte di azoto.

Il (CH3COO)2Pd (II) (Aldrich) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

L’acido p-toluensolfonico monoidrato (Aldrich, con una purezza del 98,5%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

L’1,4-bis-(difenilfosfin)butano (Aldrich, con una purezza del 98%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

Il (3S)-cis-3,6-dimetil-1,4-diossan-2,5-dione (Aldrich, con una purezza del 98%) è stato purificato mediante sublimazione a pressione ridotta (0,03 bar) a 130°C.

Il

3,6-dimetil-1,4-diossan-2,5-dione

(Aldrich)

è

stato

purificato

mediante sublimazione a pressione ridotta (0,03 bar) a 130°C. •

Il fluorolink D10/H è stato gentilmente donato dalla Solvay Solexis S.p.A. ed è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

150


Lo Sn(II) 2-etilesanoato (Sigma, con una purezza del 95%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

L’etilene (Airliquide, con una purezza del 99,95%) è stato purificato dalle tracce di acqua e ossigeno facendolo passare attraverso due colonne in serie contenenti rispettivamente setacci molecolari (4 Ǻ) e Cu2O precedentemente attivati.

L’argon (Siad, con una purezza del 99,9998%) è stato utilizzato senza ulteriori purificazioni.

5.3 – Polimerizzazione olefine Le reazioni di polimerizzazione sono state condotte utilizzando un’autoclave Brignole AU 0,15 Ex (Figura 7) seccata a 100 °C per 2 ore a pressione ridotta (0,03 Bar), dopodiché è stata riempita e spurgata per quattro volte con 8 bar di argon per eliminare completamente le tracce di aria rimaste. Le reazioni sono state condotte aggiungendo (in atmosfera di argon) mediante una siringa il toluene anidro, il comonomero, la soluzione di MAO. L’autoclave è stata quindi messa sotto agitazione meccanica e portata alla temperatura di reazione. La soluzione è stata poi saturata con etilene alla pressione desiderata. A saturazione completata (monitorata mediante l’ausilio di un flussimetro) la soluzione di catalizzatore è stata iniettata attraverso un setto a tenuta di gas utilizzando una siringa di tipo gas tight. Durante tutta la reazione, la pressione di etilene è stata mantenuta costante in modo da mantenere costante anche la sua concentrazione in soluzione. Una volta terminata la reazione si è degassato l’ambiente di reazione e si è introdotto 1 mL di etanolo al 96% e il reattore è stato raffreddato a 151


temperatura ambiente. Il contenuto dell’autoclave è stato raccolto in una beuta e sono stati aggiunti 150 mL di una soluzione acida (15 parti di acqua, 4 parti di etanolo, 2 parti di HCl al 37%). La soluzione è stata mantenuta sotto agitazione magnetica per tutta la notte. La fase organica della miscela di reazione è stata separata mediante imbuto separatore e trattata prima con una soluzione satura di NaHCO3 e poi due volte con acqua demineralizzata. Il polimero è stato separato dalla soluzione mediante precipitazione con l’aggiunta di acetone e il residuo separato per decantazione. Il polimero è stato quindi seccato per riscaldamento a pressione ridotta (0,2 bar) alla temperatura di 40°C per 2 ore.

Figura 7 – Autoclave Brignole AU 0.15 EX

152


5.4 – Polimerizzazione lattide Le polimerizzazioni del PLLA, del PLDA e dei corrispondenti copolimeri con il Fluorolink sono state effettuate mediante la tecnica ROP (Ring Opening Polymerization) utilizzando come catalizzatore lo Sn(II) 2etilesanoato. La procedura ha previsto la pesata del catalizzatore, del Fluorolink ( nel caso fosse presente) e del lattide (L,L o L,D) in un pallone da 50 mL dotato di rubinetto laterale. La reazione è stata effettuata a pressione ridotta (0,03 bar) e ad una temperatura di 130 °C per 3 ore. Il prodotto di reazione è stato raffreddato e sciolto in cloroformio. Una piccola aliquota di soluzione è stata prelevata per determinare la conversione mediante spettrometria 1H-NMR. Il polimero è stato fatto precipitare aggiungendo la minima quantità di n-esano. La sospensione formatasi è stata filtrata su imbuto Buchner (escluso il PLDA e il PLDA/Flk che si presentavano come solidi amorfi e appiccicosi, in questo caso la sospensione è stata fatta decantare ed la soluzione sopranatante è stata eliminata) ed il polimero è stato lavato con n-esano. Il prodotto della reazione è stato seccato riscaldandolo a pressione ridotta (0,2 bar) a 40 °C per due ore.

5.5 – Reazioni di idroformilazione, idroesterificazione e idrogenazione La reazione di idroformilazione dei doppi legami presenti nel copolimero etilene/MOD è stata realizzata utilizzando i catalizzatori [Rh(PPh3)3Cl] e [Co2(CO)8]. Le condizioni operative sono riportate nel capitolo 2. 153


Il polimero è stato inserito in un’autoclave Par (Figura 8), l’autoclave è stata sigillata ermeticamente e sono stati fatti tre cicli vuoto/azoto per eliminare l’atmosfera presente. L’autoclave è stata mantenuta a pressione ridotta. La soluzione del catalizzatore, in toluene anidro ed in atmosfera inerte di azoto, è stata preparata in una provetta dotata di rubinetto laterale. Tale soluzione è stata introdotta nell’autoclave per aspirazione e i gas di reazione sono stati introdotti nell’autoclave. La soluzione è stata riscaldata alla temperatura di reazione e mantenuta sotto agitazione meccanica. Al termine della reazione, l’autoclave è stata raffreddata a temperatura ambiente ed i gas sono stati evacuati. Il polimero è stato precipitato aggiungendo acetone e la soluzione sopranatante è stata eliminata per decantazione. La purificazione

è

stata

effettuata

per

solubilizzazione e riprecipitazione del polimero per due volte. Il polimero risultava bianco, privo della colorazione iniziale dovuta alla presenza del catalizzatore. La reazione di idroesterificazione dei doppi legami nel copolimero etilene/MOD è stata realizzata utilizzando il sistema catalitico [Pd(OAc)2]/dppb (palladio-acetato/[1,4-Bis(difenilfosfino)butano]) e le condizioni operative sono riportate nel capitolo 2. Le reazioni di idrogenazione sono state effettuate con il catalizzatore [Ru3(CO)12] e le condizioni operative sono riportate nel capitolo 2. Le procedure di reazione sono state identiche a quella utilizzata per la reazione di idroformilazione sopra descritta.

154


Figura 8 – Autoclave Par

5.6 – Trattamento campioni di marmo con i polimeri analizzati I prodotti sono stati applicati mediante deposizione, tramite pipetta pasteur, di una soluzione a titolo noto sui campioni di marmo dolomitico. Per la deposizione i provini sono stati sistemati in posizione orizzontale in modo da evitare l’addensamento della soluzione di polimero in una zona del provino piuttosto che in un’altra. La quantità di polimero applicata per ogni provino è stata di circa 15 mg con un errore di ± 3 mg. La determinazione della quantità di polimero applicata è stata fatta per differenza tra il peso del campione dopo e prima del trattamento. Ogni prodotto è stato applicato su tre provini. Un campione non trattato è stato utilizzato come riferimento. 155


5.7 – Valutazione dei trattamenti Misure colorimetriche Le misure delle variazioni di colore sono state effettuate mediante un colorimetro portatile a riflessione Minolta, mod. CR-200, in grado di convertire in un codice numerico i colori compresi nel campo della percezione umana4. Per ogni test colorimetrico sono state effettuate 9 misure di colore mediante il colorimetro a riflessione portatile (Figura 9), avendo cura di rilevare i dati sempre nel medesimo punto della superficie. I dati sperimentali L*, a* e b*, ottenuti dopo il trattamento o dopo l’irraggiamento artificiale, sono stati confrontati con quelli prima del trattamento o prima dell’irraggiamento ed espressi come ∆L*, ∆a*, ∆b* e ∆E*, dove il calcolo della differenza è stato espresso come ∆x* = x1 – x0, con x0 = misura effettuata prima del trattamento o dell’irraggiamento e x1 = misura effettuata dopo gli stessi.

156


Figura 9 – Colorimetro a riflessione Minolta

Idrorepellenza Sui 3 provini trattati con lo stesso prodotto più uno non trattato come riferimento, sono stati effettuati assorbimenti di acqua a tempi brevi5. Per le prove di idrorepellenza dei provini di marmo (non trattati, trattati e irraggiati), i campioni sono stati appoggiati con la faccia trattata direttamente a contatto con dei dischi di carta da filtro (saturati di acqua) per 60 minuti, all’interno di una scatola di plexiglass chiusa per mantenere l’atmosfera satura di vapore acqueo (Figura 10). Allo scadere del tempo prefissato, i provini sono stati tamponati mediante un panno di pelle umida per eliminare l’acqua in eccesso e subito pesati su una bilancia analitica. Per differenza di peso tra il campione secco e quello bagnato è stata determinata la quantità di acqua assorbita. Su ciascun provino sono stati effettuati tre assorbimenti capillari, essiccando dopo ogni 157


misura i campioni fino a peso secco costante in un essiccatore contenente CaCl2. Dal valore medio della quantità di acqua assorbita nelle tre prove effettuate su ciascuno dei tre provini, si sono ricavati i valori di Efficacia Protettiva (E%), come indicato nel capitolo 4. Figura 10 – Scatola di plexiglass con dischi di carta da filtro utilizzata per le misure di idrorepellenza.

Stabilità all’irraggiamento UV Per determinare la stabilità all’irraggiamento UV, oltre ai provini di marmo trattati sono stati preparati dei vetrini da microscopio (76 mm x 26 mm) 158


trattati con i medesimi prodotti. Per ciascuno dei prodotti analizzati sono stati preparati 5 vetrini. Su tali vetrini è stata deposta una soluzione a titolo noto del polimero in quantità tale da avere circa 40 mg di polimero su ciascun vetrino. Dopo la completa evaporazione del solvente, i vetrini sono stati inseriti assieme ai campioni di cava nel Solarbox ed esposti allo stesso irraggiamento. Ad intervalli regolari di tempo, è stato prelevato un vetrino per ogni prodotto analizzato ed è stata controllata la reversibilità del prodotto (intesa come solubilità nel solvente di applicazione del polimero) e nel caso di una solubilizzazione dello stesso è stato anche rideterminato il peso molecolare mediante analisi GPC per controllare se fossero avvenuti fenomeni di crosslinking o di depolimerizzazione. Insieme ai vetrini, è stata preparata una lamina di KBr trattata nella stessa maniera con una soluzione di 2-3 mg di polimero. Il solvente è stato fatto evaporare e le lamine sono state irraggiate contemporaneamente ai provini di marmo e ai vetrini. Ad intervalli regolari di tempo sono stati fatti dei check-up, mediante FT-IR, di tali film e verificata l’eventuale presenza di nuovi segnali visibili all’analisi IR e dovuti ad un eventuale degrado foto-ossidativo del prodotto. Gli spettri più indicativi sono riportati nel capitolo 4. 1

Gottlieb, H. E.; Kotlyar, V.; Nudelman, A. J. Org. Chem. 1997, 62, 7513.

2

Brandrup, J.; Immergut, E. H.; Grulke, E. A. Polymer Handbook, Wiley-Interscience Publication, Quarta Edizione, 1999.

3

Furniss, B. S.; Hannaford, A. J.; Rogers, V.; Smith, P. W. G.; Tatchell, A. R. Vogel’s – Textbook of Pratical Organic Chemistry (quarta edizione) 1978, 269.

4

Doc. NORMAL 43/93, Materiali Lapidei. Misure colorimetriche di superfici opache. Ed. CNR-ICR Comas Grafica, Roma, 1994. 159


5

UNI 10859:2000 Beni culturali - Materiali lapidei naturali ed artificiali - Determinazione dell’assorbimento di acqua per capillarità. Milano: Ente Nazionale Italiano di Unificazione.

160


Appendice I – Pubblicazioni e presentazioni a congressi

Pubblicazioni: 1.

Frediani, P.; Mariani, P.; Rosi, L.; Frediani, M.; Comucci, A. Journal of molecular Catalysis A: Chemical 2007, 271, 81.

2.

Frediani, M.; Sémeril, D.; Comucci, A.; Bettucci, L.; Frediani, P.; Rosi, L.; Matt, D.; Toupet, L.; Kaminsky, W. Macromolecular Chemistry and Physics 2007, 208, 938.

3.

Frediani, M.; Rosi, L.; Camaiti, M.; Berti, D.; Frediani, P.; Baglioni, P.; Mariotti, A.; Comucci, A.; Vannucci, C.; Malesci, I. Macromolecular Chemistry and Physics, inviato.

Presentazioni Orali: 1.

Comucci, A.; Frediani, M.; Sémeril, D.; Frediani, P.; Rosi, L.; Matt, D. “Synthesis of Ultra High Molecular Weight PolyEthylene (UHMWPE) by Titanium Calix[4]arene complexes Displaying High Thermal Stability”, IV PhD Day – CIRCC, Perugia, 24 Febbraio 2007.

2.

Frediani, P.; Camaiti, M.; Sacchi, B.; Comucci, A.; Salvestrini, L.; Rosi, L.; Frediani, M. “Protettivi Sintetici per la Protezione e Conservazione del Patrimonio Culturale”, Convegno Scientifico: Il Progetto di Restauro, Genova, 17-18 Luglio 2009.

3.

Frediani, P.; Camaiti, M.; Rosi, L.; Frediani, M.; Sacchi, B.; Comucci, A.; Salvestrini, N.; Mazzola, M. “Polimeri Sintetici per la Protezione e Conservazione

del

Patrimonio

Culturale”,

XXVIII

Congresso

Interregionale TUMA, Tirrenia (PI), 20-22 Settembre 2009. 4.

Frediani, P.; Camaiti, M.; Rosi, L.; Frediani, M.; Sacchi, B.; Comucci, A.; Salvestrini, N.; Malesci, I. “I Protettivi”, 1a Scuola Nazionale di


Chimica dell’Ambiente e dei Beni Culturali, Torino, 21-25 Settembre 2009. 5.

Frediani, P.; Camaiti, M.; Malesci, I.; Noemi, S.; Alessandro, C.; Rosi, L.; Frediani, M.; Mazzola, M. “Synthetic Polymers from Natural Sources for the Protection and Consolidation of Cultural Heritage”, 4° Congresso Internazionale “Science and Technology for the Safeguard of Cultural Heritage of the Mediterranean Basin”, Cairo (Egitto), 6-8 Dicembre 2009.

Presentazioni Poster: 1.

Comucci, A.; Frediani, M.; Frediani, P.; Rosi, L. “An Easy Way to Functionalized Polyolefins: Copolymerization of Ethylene and 7Methyl-1,6-Octadiene followed by Homogeneous Catalytic Reactions”, II Forum Nazionale per Giovani Ricercatori su Materiali Polimerici e Biomateriali, Genova, 4-5 Luglio 2008.

2.

Comucci, A.; Frediani, M.; Frediani, P.; Rosi, L. “Copolymerization of Ethylene

and

7-Methyl-1,6-Octadiene

Me2Si[(Me4Cp)(terBuN)]TiCl2/MAO

with

Catalytic

Cp2ZrCl2/MAO Systems:

or

Synthesis,

Characterization and Functionalization”, XVI International Symposium on Homogeneous Catalysis (ISHC), Firenze, 6-11 Luglio 2008.


Ringraziamenti Arrivato alla conclusione del mio percorso di crescita culturale come chimico, colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che lo hanno reso possibile. Ringrazio il Prof. Piero Frediani, il Dott. Luca Rosi e il Dott. Marco Frediani per i loro insegnamenti e i loro utili consigli. Un

ringraziamento

va

all’Istituto

per

la

Conservazione

e

la

Valorizzazione dei Beni Culturali (ICVBC) che mi ha ospitato durante il corso di molte analisi e test di valutazione. Un ringraziamento particolare va alla Dott.ssa Mara Camaiti, alla Dott.ssa Barbara Sacchi e alla Dott.ssa Irene Malesci per la loro disponibilità e cortesia. Un ringraziamento va sicuramente al Dott. Filippo Gambinossi per la gentilezza dimostrata e per gli utili consigli nel corso delle analisi ellissometriche. Un caldo abbraccio va a tutti coloro che ho conosciuto a Firenze e che si sono dimostrati ottimi amici nel corso di questi anni di studio: Gianluca T., Federico T., Sandro G., Andrea N., Monica, Mariangela, Marco S., Noemi, Paolo L., Isacco, Scilla, Giulia, Giacomino, Laura R., Alessandro T., Luca M., Alfredo, Anna B., Anna F., Federica M., Matteo, Niccolò, Simone, Filippo G., Buba, Giada, Mariagrazia, Katia, Lucia, Camilla. Un particolare ringraziamento va a Nicolò A. e a tutti i suoi coinquilini per avermi ospitato nel momento del bisogno. Un caldo abbraccio va anche a tutti i miei amici pievesi (e non), in particolare a Giaime, Silvia, Gianluca, Linda, Paola, Michelina, Laura e Stefano per aver condiviso con me dei momenti speciali della mia vita.


Un abbraccio va anche a Giorgio, Veronica e Marco alle mie colleghe dell’ “On The Road� Pub: Alessandra, Dumi, Nadia, Mirella, Elisa ed a tutto lo staff della cucina, Mariagrazia, Giulia, Leda, Cristian. Vorrei ringraziare con affetto Rita per essermi stata sempre vicino fino alla fine della nostra storia. Infine, ma non per ultimi, ringrazio la mia famiglia per il sostegno che mi hanno sempre dato e per aver sempre creduto in me.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.