Shiloh

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Paolo Spoladore

SHILOH



SOMMARIO

Shiloh

(track 4)

p. 31

Peace

(track 13)

p. 47

Chaire

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p. 63

Megalynei Magnificat

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p. 93

Benedetto

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p. 119

Immanuel

(track 12)

p. 145

Gloria Pace

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p. 167

Ora sciogli

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p. 177

Beati

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p. 193

Talitha qum

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p. 227

Avun

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p. 247

Kyrie eleison

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p. 285

Sempre

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p. 301

Veni

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p. 321



Quando è nata l’idea di questo progetto? L’opera Shiloh fa parte di un progetto più vasto di Usiogope, progetto ispirato dalle parole del Concilio Vaticano II, che nella Costituzione Dei Verbum dice espressamente: È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura. [...] Poiché, però, la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza a partire dai testi originali dei sacri libri (22). È la Parola il cuore di ogni conoscenza e illuminazione, la sorgente ineffabile e inestinguibile dell’annuncio e di ogni slancio di amore e condivisione nella carità. È la Parola di Dio che dal cielo scende fino al cuore dell’uomo nella rivelazione, ispira e guida le parole umane per far conoscere se stessa nell’evangelizzazione, ed è la Parola che dal cuore dell’uomo risale fino al cielo di Dio nel canto della preghiera, dopo aver portato il suo frutto nell’amore (Isaia 55,10-11). È la Parola che chiede di essere tradotta e annunciata nelle varie lingue dell’uomo per essere conosciuta e amata, ma è la Parola stessa che ha posto un vincolo, vincolo che non permetterà a nessuno mai in tutta la storia umana di superare quello che è il vertice delle traduzioni. La vetta suprema delle traduzioni si raggiunge solo quando la Parola viene tradotta non dalle parole ma dalla coerenza delle azioni e dalla gioia della vita nell’amore di Dio. Shiloh realizza l’idea di raccogliere insieme le preghiere più importanti presenti nel vangelo, di tradurle dai testi originali e musicarle per essere cantate. Il desiderio di offrire uno strumento utile, che favorisse un contatto più diretto e familiare con la Parola e le parole del vangelo, ha dato vita a questo progetto. Abbiamo voluto preparare con cura, con molta cura, questo strumento, come lo meritano le parole di vita che ne sono il cuore, e come lo merita la gente che potrà ascoltare, cantare e vivere quest’opera nel tempo.

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Per dare il meglio a questo progetto, che dà voce e canto a parole così vitali, belle e sante, ci siamo avvalsi dell’esperienza e del talento di esperti linguisti, esegeti, produttori, ricercatori, scienziati, letterati, musicisti, arrangiatori, orchestre, cori da diverse parti del mondo. Ovunque questo progetto ha trovato un’accoglienza inaspettata e straordinaria al di là della confessione religiosa o della linea di pensiero; tutti hanno lavorato per quest’opera con un entusiasmo e una passione veramente vibranti, a volte strepitosi.

Da dove il nome Shiloh?

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Nella bibbia sono centinaia e centinaia le profezie che, attraverso i nomi e i simboli più diversi, preannunciano il Messia e la sua venuta. Shiloh, il Pacificatore, il Re dal volto di pace a cui i popoli si inchineranno, è in assoluto il primo nome con cui viene annunciato Gesù, e lo troviamo in Genesi 49,10.

Come si è sviluppato il progetto? Il telaio del progetto si mostrava già all’inizio molto vasto e impegnativo, ma nessuno di noi poteva minimamente immaginare quanto lo sarebbe stato più avanti. Più il tempo passava, più erano richiesti impegno, studio, approfondimenti, viaggi, strumentazione, creatività, verifiche trasversali tra materie complesse e impreviste, e tutto questo apriva ancora altre prospettive e possibilità senza quasi poterne vedere la fine. Ci sono stati momenti di grande difficoltà, forte e densa tensione e fatica, ma tutto si scioglieva all’istante nell’ascolto dei brani, man mano che si costruiva la loro personalità, che cresceva e si definiva anche musicalmente. Masticare, mangiare, metabolizzare, meditare queste parole meravigliose per tanto tempo, giorno e notte, è stata un’esperienza che ha lasciato dentro una percezione pacificante come un abbraccio e precisa come un taglio: tutto appartiene allo Spirito Paraclito. Forse all’inizio ci sembrava in qualche modo di poter gestire e guidare la crescita del progetto, ma pian piano è stato chiarissimo e splendido sperimentare che era Shiloh a guidare e a far crescere noi.




BEATI Music by Paolo Spoladore

Beati i poveri in spirito perché loro è il regno dei cieli Beati quelli che ora piangono perché saranno consolati Beati quelli che sono miti erediteranno la terra Beati gli affamati e gli assetati di giustizia perché saranno saziati Beati voi beati voi rallegratevi ed esultate Beati i misericordiosi misericordia troveranno Beati i puri di cuore perché vedranno Dio


Beati i pacificatori saranno chiamati figli di Dio Beati i perseguitati a causa della giustizia perchÊ loro è il regno dei cieli Beati voi beati voi rallegratevi ed esultate Beati voi quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e diranno ogni male contro di voi per causa mia Beati voi beati voi rallegratevi ed esultate Beati voi beati voi rallegratevi ed esultate Tuvaykun Tuvaykun Tuvaykun Tuvaykun Tuvaykun Tuvaykun


Beati

Matteo 5,3-12

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Beati

Gesù è salito sul monte. Sul monte si siede. Sul monte si installa, sul monte si fonda, si distende, sul monte kathisontas, “essendosi seduto”. Più avanti, con lo stesso verbo, egli parlerà di se stesso come di colui che è invitato a sedere alla destra di Dio. Prima di pronunciare le Beatitudini il testo greco scrive: kai anoixas to stoma autou, “e aperta la sua bocca”, espressione importantissima che ha rimandi in tutta la bibbia. Precedentemente, in Matteo 4,4, Gesù aveva detto: Non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio, usando la stessa espressione. In Siracide 15,5 è scritto: Essa [la Sapienza] l’innalzerà sopra i suoi compagni e gli farà aprire la bocca in mezzo all’assemblea. Gesù è salito, Gesù si è seduto, Gesù apre la sua bocca in un makarioi, “beati”. Gesù ci fa conoscere il desiderio di Dio, il desiderio e il volere di Dio per tutti e per ciascuno dei suoi figli, cioè che tutti siano felici, beati, ricchi di ogni bene e in pace. Tutto il vangelo, il libro della gioia, è tessuto, intrecciato e illuminato da questo desiderio di Dio. Il vangelo è il libro della gioia, il libro per la gioia e quando nella nostra vita ci sono sofferenza e disagio, mancanza e disarmonia, dovremmo solamente e umilmente chiederci cosa potremmo cambiare dei nostri pensieri e delle nostre scelte in nome del vangelo. Il vangelo, come Gesù stesso dice, è il libro della gioia, la Parola di vita, ma per l’ignoranza


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e l’ottusità dell’inganno umano può diventare motivo di violenza e persecuzione. In nome del vangelo è stato ed è possibile perseguitare, contro il nome del vangelo è stato ed è possibile perseguitare. Il mattino del 19 settembre 2009 viene ucciso nella parrocchia di Santa Evelina, alla periferia di Mannaus, nel Nord Est del Brasile, il missionario della diocesi di Padova don Ruggero Ruvoletto. Quella stessa mattina dall’altra parte del mondo noi stavamo mixando questo brano, Beati, ed esattamente nella frase beati voi quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e diranno ogni male contro di voi per causa mia, ci siamo dovuti soffermare a lungo, con fatica, per un problema tecnico. Quando in serata finalmente stavamo ascoltando i cori finali, con tutta la potenza dell’aramaico tuvaykun, “beati voi”, è arrivata la notizia del martirio di don Ruggero. Le lacrime di gioia si sono unite a quelle del dolore, ma anche a quelle della fede. Dedichiamo con grande affetto e preghiera questo brano a don Ruggero e a tutti coloro che amano fino a dare la vita per i propri amici.

Beati


La fonte greca del testo

Matteo 5,3-12

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Beati

Maka¿rioi oi˚ ptwcoi« twˆ◊ pneu/mati, o¢ti aujtw◊n e˙stin hJ basilei÷a tw◊n oujranw◊n. maka¿rioi oi˚ penqouvnteß, o¢ti aujtoi« paraklhqh/sontai. maka¿rioi oi˚ praei√ß, o¢ti aujtoi« klhronomh/sousin th\n ghvn. maka¿rioi oi˚ peinw◊nteß kai« diyw◊nteß th\n dikaiosu/nhn, o¢ti aujtoi« cortasqh/sontai. maka¿rioi oi˚ e˙leh/moneß, o¢ti aujtoi« e˙lehqh/sontai. maka¿rioi oi˚ kaqaroi« thØv kardi÷aˆ, o¢ti aujtoi« to\n qeo\n o¡yontai. maka¿rioi oi˚ ei˙rhnopoioi÷, o¢ti aujtoi« ui˚oi« qeouv klhqh/sontai. maka¿rioi oi˚ dediwgme÷noi eºneken dikaiosu/nhß, o¢ti aujtw◊n e˙stin hJ basilei÷a tw◊n oujranw◊n. maka¿rioi÷ e˙ste o¢tan ojneidi÷swsin uJma◊ß kai« diw¿xwsin kai« ei¶pwsin pa◊n ponhro\n kaq∆ uJmw◊n [yeudo/menoi] eºneken e˙mouv. cai÷rete kai« aÓgallia◊sqe, o¢ti oJ misqo\ß uJmw◊n polu\ß e˙n toi√ß oujranoi√ß:


beati

maka¿rioi

makarioi

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Beati

Makarios è un termine che nasce nelle antiche letterature greche: la makaria era la felicità propria degli dei rappresentati al di sopra di ogni preoccupazione umana – lavoro, pene, fatiche, la morte stessa –, e solo in casi specialissimi di alcuni esseri umani. Gli uomini infatti quando descrivevano la loro felicità usavano un altro termine, olbia. Etimologicamente makarios deriva dalla radice mak – connessa con makros, “lungo”, e megas, “ampio” – e dal sostantivo charis, “favore, dono, cura amorevole”, a sua volta connesso alla base accadica magaru, “accordare favori”. Quindi makarioi significa “felici, fortunati, favoriti perché curati con le cure di Dio”. L’uomo biblico può essere beato/felice secondo un’unica modalità espressiva: l’ebraico ashre è il solo termine utilizzato e ricorre 45 volte nel Testo Masoretico, indicando sia lo stato interiore di chi vive nell’integrità, perché si fa guidare dai comandamenti di Dio, non li trasgredisce e con lui non si adira, sia lo stato di colui che cerca un rapporto intimo e amante con la Sapienza che è alla base di ogni giustizia divina rivelata nella Torah. Moltissime Beatitudini sono presenti nel libro dei Salmi, e quando esse non si riferiscono a una condizione, a una situazione contingente, ma a un augurio per una situazione futura hanno il valore di benedizione. Nel Salmo 128 è addirittura spiegata la differenza tra beatitudine e benedizione: la prima è una conseguenza della seconda. Nella Settanta la parola makarios compare 68 volte e indica felicità, beatitudine piena e insuperabile, indica uno stato di shalom, di integrità. Nel vangelo “beati” appare 50 volte, di cui 13 in Matteo, 15 in Luca, poche in Paolo, 7 nell’Apocalisse. L’etimologia di ashre – plurale costrutto di esher, “beatitudini”, cioè pienezza totale di benessere – è molto significativa in quanto indica “in movimento, in cammino, in avanti, muoversi, alzarsi” – radice ’shr, “camminare” –, per cui felicità/beatitudine/movimento si identificano e sostengono. In Giovanni 13,14-17 la beatitudine consiste nella lavanda dei piedi: Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, affinché


come io ho fatto a voi, anche voi facciate. Amen amen vi dico: non c’è servo più grande del suo padrone, né un inviato più grande di chi lo ha inviato. Se capite queste cose, siete beati se le fate. Peshitta: nwúHÁá\∫Wüƒ tuvayhun, beati essi.

i poveri

oi˚ ptwcoi«

hoi ptochoi

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Beati

Ptochos, “povero, mendicante, misero, infelice”, etimologicamente non ha un’accezione puramente economica ma deriva dai verbi ptessein, “colpire, abbattere”, anche “spaventare, farsi piccolo, rannicchiarsi”, e ptossein, “abbattersi”, correlati anche a ptoeo, “sconvolgo, scuoto, atterrisco”. Richiamano la base accadica batqu, “povero”, ricollegabile al verbo greco ptysso, “piego, ripiego”, dall’antica radice ptyx, “piega, strato, ripiegatura, insenatura”, da cui anche il significato “rannicchiato, ripiegato per lo spavento”. Ptochos appare nei vangeli 25 volte e indica persone che non possono da se stesse soddisfare i loro bisogni materiali e spirituali. Nel vangelo i ptochoi sono i miseri e i semplici, coloro a cui è predicata la buona novella, coloro che faticano e si piegano sotto un pesante fardello, in opposizione ai saggi e agli abili. Nell’Antico Testamento la ricchezza era considerata come segno di particolare benedizione divina e la povertà una maledizione, punizione per una cattiva condotta. Certo è che se all’inizio della vita del popolo di Israele, diciamo nel suo stadio nomade o seminomade, non c’era una grossa e netta differenza tra poveri e ricchi, con il progresso economico e con l’età dei re si crearono differenziazioni sociali grandissime, e i possidenti cominciarono a sottrarre ingiustamente al popolo anche la sua porzione di terra che era stata trasmessa da padre in figlio ed era dono di Dio nella terra di Canaan. L’ingiustizia dei ricchi è così sfacciata e costante che si trascina addosso il castigo di Dio e il vero popolo di Dio diventa proprio quella parte del popolo che sono i poveri tanto vessati e derubati. Il termine con cui questi ultimi vengono designati è ‘anawim, “oppressi, maltrattati, umili, poveri”, radice ‘nw, “essere piegato, premuto, curvo”. ‘anawim significava originariamente “gli infelici”, ma poi con i profeti e le grandi ingiustizie dei ceti sociali


ricchi è passato a indicare i poveri che dipendono completamente da Dio e cercano solo il suo aiuto, sono i rannicchiati in Dio, i poveri di Yahweh, che attraverso le proprie sofferenze si rimettono nelle mani di Yahweh: per questa loro presa di coscienza, la benedizione di Dio si spargeva su tutto Israele. Il povero è colui che non avanza pretese di autosufficienza, costui è già nel regno. Nel vangelo il povero è l’individuo tratto in miseria ingiustamente e la cui esistenza è nelle mani degli altri. Peshitta: Aê˜î;‰Íé¬ l-meskine, i meschini/i poveri.

in spirito

twˆ◊ pneu/mati

to pneumati

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Beati

Questa definizione, “poveri in spirito”, si ricollega alle formule dell’Antico Testamento. Cosa si intende con to pneumati? Il termine spirito richiama la forza vitale che sottende l’agire umano. Lo spirito-pneuma, il soffio, il respiro, il vento, è anche energia, forza di vita che ispira l’uomo. È l’impulso interiore dell’uomo. Il Signore non ha creato i poveri e se i poveri esistono è solo e unicamente per l’avarizia e la durezza del cuore dei ricchi. Qui non si tratta dei poveri economicamente poveri, c’è l’accezione di poveri nello spirito. I poveri nello spirito sono gli uomini e le donne che hanno fatto una scelta definitiva nel loro dialogo interiore o meglio in nome dello spirito stesso, dentro lo spirito, per lo spirito. La scelta è quella di non appartenere in alcun modo ai principi del mondo, né di servire alle loro armate, né di farsi difendere dai loro regni, né di sostenere le loro ingannevoli e sfrontate manifestazioni di gloria e opulenza. Peshitta: jwùR;∫ b-ruch, nello spirito/per mezzo dello spirito.

perché di essi o¢ti aujtw◊n

hoti auton In tutto il testo delle Beatitudini troviamo il pronome autos, “questi”, che indica “proprio loro e non altri; essi”. Autos dice: solo questi in


questa condizione sono gli eletti, coloro che hanno scelto di essere felici in questo modo. Peshitta: nwúHÒ¥î«d…d d-dhilhun, perché di essi.

è

e˙stin

estin Non è scritto “sarà”, ma è scritto “è”, cioè un passaggio immediato. L’uso del presente sottolinea che questa realtà è in venuta, in atto, non si tratta di un futuro prossimo a venire, è un adesso, un ora. La beatitudine del vangelo non è mai espressa come una speranza ma è certezza di promessa. È l’ora presente di Dio dove tutto si compie adesso, senza passato e senza futuro. La beatitudine evangelica non risiede nel futuro ma nelle azioni e nell’amore di adesso. Peshitta: yí™h hi, è.

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il regno dei cieli

hJ basilei÷a tw◊n oujranw◊n

he basileia ton ouranon Beati

L’espressione “regno dei cieli” è unica in Matteo, tutti gli altri evangelisti scrivono “regno di Dio”. Che differenza c’è? Prima di tutto è importante sottolineare che il termine “regno” – in greco basileia e in ebraico malkhut – indica i sudditi o il territorio su cui governa il sovrano, riferendosi non tanto all’estensione geografica quanto invece all’estensione politica e culturale del governo di quel determinato re. Regno dei cieli esprime non solo una dimensione spirituale ma la signoria di Dio, il suo modo di governare e di reggere in armonia tutte le cose. Dire regno di Dio o regno dei cieli era praticamente espressione sinonimica, entrambe esprimevano l’avvento del modo di governare di Dio, la realizzazione della buona novella con cui nel vangelo di Matteo esso si trova in stretta relazione. Molto spesso nell’Antico Testamento veniva usata la formula malkhut shamaim, “regno dei cieli”, per esprimere appunto “Dio è re”, “regno di Dio”. L’avvento del regno dei cieli è strettamente collegato anche al verbo metanoein,


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Beati

“cambiare mentalità, modo di pensare, convertire il modo di pensare”. In Matteo 4,17 si legge: Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: Cambiate mentalità, è giunto infatti il regno dei cieli. Dire regno dei cieli suppliva e sostituiva naturalmente regno di Dio, considerando anche la tendenza a non nominare il sacro Tetragramma, il nome di Dio. Infine nel tardo giudaismo spesso si sostituiva il termine Dio con quello di Cielo. Strettissimo è il rapporto tra regno di Dio e Gesù: infatti il regno si manifesta attraverso Gesù, Gesù incarnato è il regno incarnato e radicato sulla terra. He basileia ton ouranon, “il regno dei cieli”, è già presente ed è una dimensione dell’uomo, un modo di essere e di vivere ora e qui, in questo istante. Ogni qual volta la mente umana si stacca dal presente e scivola nel passato o si inerpica nel futuro è fuori dal regno di Dio. Il regno è già qui, è la realtà quando la si vive con amore e gratitudine. Il regno è vivo e presente, vive nello stesso istante e contemporaneamente ai regni e alle potenze umane di questo mondo e si muove e cammina, si manifesta e si realizza in modo del tutto inatteso dalle convinzioni e dalla convenzioni umane. Luca scrive in 17,21: Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: Eccolo là. Perché il regno di Dio è dentro di voi. Peshitta: AôÁáÂ√â…d aÖ»tWû;‰Òáµ malkutho dashmayyo, il regno dei cieli.

beati i piangenti

maka¿rioi oi˚ penqouvnteß

makarioi hoi penthountes Il verbo pentheo – che rende la radice ebraica ’bl, la quale nelle forme attive significa “essere triste” e nelle forme causative-riflessive “comportarsi da afflitto” con pianto e manifestazioni di lutto e lamentazioni – descrive il dolore nel suo rivelarsi; la radice richiama propriamente anche l’idea di bruciare. Infatti se il significato del verbo è “provare dolore, infelicità, pena”, etimologicamente esso si collega al concetto di “scottare, bruciare”, attraverso l’accadico pendu, pentu, “carbone ardente”, da cui deriva penthos, “dolore bruciante”. A esso si rifà anche il latino urere, “ardo, brucio”. Questo verbo è abbastanza raro e generalmente viene tradotto con “fare lutto”. È il verbo che indica una situazione di dolore morale di lutto, di sofferenza, di angoscia,


anche se in senso più allargato indica l’oppressione a causa di un dolore così forte che si è costretti a esprimerlo in urla e lamenti. Nel Nuovo Testamento si presenta in 10 ricorrenze e molte di queste relative alla morte, al significato cioè di essere in lutto che porta all’afflizione totale e all’impossibilità di non manifestarla. I piangenti non sono definiti beati perché sono oppressi, il vangelo non beatifica il pianto, non esalta la sofferenza. Il vangelo beatifica e annuncia gioia a tutti coloro che sentono nascere il pianto nel cuore e scendere lacrime dagli occhi per l’oppressione dell’ingiusta ricchezza, delle politiche prepotenti, della violenza subita a motivo della fede nel vangelo. Gesù afferma che ognuna di queste lacrime sarà tramutata in gioia e consolazione senza fine. Il tempo verbale usato è un participio che indica un’azione che avviene e continua ripetutamente, perché continua è l’oppressione, perché continua è l’opera di liberazione di Dio. Peshitta: AñÒÁí\∫A㬠nwúHÁá\∫Wüƒ tuvayhun lavile, beati essi piangenti.

perché essi saranno consolati

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o¢ti aujtoi« paraklhqh/sontai

hoti autoi paraklethesontai Beati

Gesù non parla di una afflizione qualsiasi o di una generica oppressione. Gesù cita espressamente il profeta Isaia al capitolo 61,3 che indica l’azione del Messia: Verrà il Messia, l’unto del Signore, per consolare gli afflitti di Sion. Ovviamente qui ci si svincola da ogni definizione e separazione nazionalistica, si tratta degli afflitti di ogni epoca e terra. Il verbo parakaleo, qui al futuro passivo, significa “chiamo, chiamo in aiuto, invito, esorto, incito, ammonisco; prego, chiedo”, ma anche “consolo, conforto, difendo”, da cui il sostantivo parakletos, “colui che incoraggia e conforta”, “chi consola e insieme difende”. L’uso del verbo parakaleo indica eliminare alla radice la causa della sofferenza. Parakaleo ha in sé una doppia anima significante, è consolare, nel senso di sradicare dal pericolo, e al tempo stesso è difendere dal pericolo, con l’accezione del tutto peculiare di una difesa esercitata anche nella prevenzione del pericolo stesso. Peshitta: núwAÁá;∫»Tê˙ nWû˙éh…d d-hennun nethbayy’un, che essi saranno/sono consolati.


beati i miti

maka¿rioi oi˚ praei√ß

makarioi hoi praeis

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Beati

Praeis è plurale di praus, stessa radice di prautes, tradotto a volte con “umiltà” a volte con “mitezza, bontà, pace”. La pautes descrive la persona che fa risplendere la pace del suo cuore. Praeis sono coloro che hanno un cuore pacifico, dice Gesù: Imparate da me che sono mite [praus] e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime (Matteo 11,29). Secondo le parole del salmo 37, che parla espressamente dell’uomo mite e seguendo passo passo tutto il vangelo e il comportamento di Gesù, possiamo raccogliere e descrivere con precisione che cos’è la mitezza, che cos’è la vera bontà, che cos’è l’amore, che cos’è realmente perdonare e vincere il male e la rabbia; che cos’è veramente seguire il libro della gioia e realizzare la felicità. La mitezza è non irritarsi per i malvagi, la mitezza è non invidiare chi opera l’imbroglio. Mitezza è avere una visione così larga da comprendere che il male non ha reale sussistenza e in fretta viene falciato via. Mitezza è confidare in Dio e compiere secondo le proprie forze il bene. Mitezza è nutrirsi di fede e di Parola di Dio finché si dimora sulla terra. Mitezza è gioire in Dio sempre e sempre ringraziare. Al mite Dio darà le richieste del suo cuore, realizzerà tutti i suoi desideri, e questo accade con perfezione ed efficacia assolute. Mitezza è affidare a Dio la propria via, confidare in lui perché lui agisce e fa. Mitezza è stare zitti, in silenzio, in meditazione davanti a Dio, mitezza è rimanere in attesa amante davanti a lui. Mitezza è non irritarsi mai con l’uomo che pratica inganni, e con coloro che fanno prosperare le loro vie, non competere mai con coloro che hanno successo e fama, e non rincorrere la vanità della gloria. Mitezza è trattenersi dall’ira. Mitezza è abbandonare, tralasciare, deporre, dimenticare, mollare, sganciare, trascurare, troncare la collera. Irritazione e competizione fanno sempre male, fanno sempre del male, ci fanno sempre male. Mitezza è sapere perfettamente e senza dubbi nella propria intelligenza che i malvagi vengono recisi e abbattuti, il loro posto sparisce in un istante, ma quanti hanno fede in Dio ereditano e possiedono realmente la terra. La mitezza è ricca delle energie della terra e gode di una pace dentro e fuori senza possibilità di essere misurata.


Il mite è chi non risponde al male con il male, il mite è chi non risponde con la propria volontà, non si sottomette agli uomini, ma si sottomette alla volontà di Dio, il mite è colui che davanti alle ingiustizie non risponde con la forza dell’ingiustizia e della rabbia ma con un’altra forza, la forza imbattibile del desiderio della pace. Il mite è colui che mantiene il grazie del cuore e della mente al di sopra e al di là di ogni possibile realtà. Il mite è colui che non molla mai di desiderare i desideri di Dio, desideri di pace e di accoglienza, anche quando tutto e tutti sembrano sprigionare conflitto e rancore. E a questo punto l’etimologia della parola è significativa: praus origina infatti dall’antica radice sanscrita pri, “amare”. Il significato originario è “amante, moglie, allietatrice/allietatore, amico”. È il mite nel senso di dolce, amorevole. L’accadico parru è “agnello”. Peshitta: Aê\‰Áî;‰á¬ nwúHÁá\∫Wüƒ tuvayhun l-makkikhe, beati essi gli umili/ gli abbassati.

perché essi erediteranno la terra

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o¢ti aujtoi« klhronomh/sousin th\n ghvn

hoti autoi kleronomesousin ten gen Beati

La terra era la promessa di Dio al suo popolo. Il verbo greco usato è kleronomeo, composto da kleros, “sorte, eredità” – kleros significa originariamente sorte e indica la scheggia di legno o di coccio che veniva usata nel tirare le sorti per indovinare il volere degli dei; poiché anche la terra e il suolo erano assegnati mediante sorteggio in una comunità agricola, kleros ha assunto pian piano i significati di parte, fondo, appezzamento di terreno e infine quello di parte e di eredità –, e nemo, “assegnare”, e indica prima l’atto di assegnare per sorte e poi la parte assegnata, l’eredità. Nella bibbia il termine Terra Promessa è sempre al singolare e traduce il rapporto tra Israele e la terra che Dio gli ha dato. Ma che rapporto c’è tra i miti e la terra? In Israele quando le tribù entrarono nella terra promessa, questa era stata suddivisa secondo le tribù, e ogni tribù l’aveva divisa secondo i clan famigliari e ogni clan secondo le famiglie. In pratica i più furbi e i prepotenti presero tutto e i meno capaci non ebbero niente. I miti sono i diseredati che hanno perso


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Beati

tutto a causa della prepotenza degli altri. In Levitico 25,23 è ribadito il concetto che la terra è di Dio e che nessuno se ne può impadronire a suo piacimento: Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini. La terra è quindi sinonimo di indipendenza, di possibilità di vivere, la terra è garanzia di autonomia, di risorse per se stessi, di libertà. Terra non è solo terra, ma è la terra intesa come territorio. Il territorio è l’insieme dei beni che la terra dona per la soddisfazione dei bisogni degli esseri viventi. Nel territorio c’è aria, acqua, cibo, posto per riposare, femmine e maschi per la riproduzione, c’è quanto serve per vivere in abbondanza e in armonia. Abitare e vivere il territorio dà all’uomo la sua condizione di onore e di dignità. Nel territorio e solo nel territorio l’uomo può sviluppare la sua reale autonomia e maturare nella propria capacità di interdipendenza. In senso più esistenziale e spirituale la terra è lo spazio, lo spazio dove l’esistenza può muoversi e vivere. Lo spazio della relazione con Dio, con se stessi, con gli altri, lo spazio dell’amore, del contatto, della condivisione, dell’intimità, dei rapporti, della fiducia. Quando Adamo disobbedisce, ascoltando la voce della sua donna invece che quella di Dio, è la terra a essere maledetta, non Adamo (Genesi 3,17), e Adamo perde il territorio dell’Eden. Quando in Genesi 4,10 la voce del sangue di Abele grida a Dio e grida dalla terra, Dio risponde a questo grido con la maledizione di Caino, e lo allontana dal suolo, dalla terra che ha bevuto il sangue del fratello. In modo ancora più collettivo ed esteso il Genesi 7,11 racconta ciò che è accaduto con il diluvio universale: per la loro disobbedienza moltitudini di uomini sono stati allontanati dalla terra che abitavano con la potenza dell’acqua. Anche nei giorni della costruzione della torre di Babele in Genesi 11,9 gli uomini, disobbedienti alla voce di Dio, confusi nella molteplicità delle loro lingue, vengono allontanati da quel territorio e da lì dispersi su tutta la terra. In tutti questi esempi di disobbedienza contro Dio la conseguenza per l’uomo non è la perdita della grazia divina, nemmeno dell’amore di Dio e della sua benevolenza, ma la perdita del terreno, della terra, del territorio, dello spazio. È lo spazio che rende possibile il movimento, il movimento rende possibile la vita. Chi non ascolta la voce di Dio e


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Beati

compie il male, fa l’esperienza della riduzione degli spazi e perciò del movimento stesso della vita. Perdere lo spazio, questa è la conseguenza del male, ma non fa parte di un ricatto capriccioso di Dio, quanto invece delle leggi dominanti che tutto governano e regolano in tutto ciò che è creato di visibile e di invisibile. Nella bibbia la terra non è intesa solo come luogo della soddisfazione armoniosa e pacifica dei propri bisogni, ma è intesa anche come lo spazio spirituale ed esistenziale dove l’uomo si può muovere in armonia con sé, con gli altri, con Dio. Quando per esempio si ama una persona, questa persona acquista dentro di noi molto spazio, e le è concesso molto spazio di movimento in termini di pensieri, libertà, emozioni, sentimenti. L’amore crea in se stessi spazi interiori vasti come l’universo rispetto alla persona amata, al tempo stesso l’amore dona alla persona amata spazio di movimento senza limiti e calcoli. L’amore apre gli spazi, gli spazi donano movimento, il movimento permette la vita. Quando si ha fiducia in una persona, quella persona ha molto spazio dentro di noi, le sue parole hanno spazio, le sue azioni, il suo star bene o non star bene ha grande spazio dentro di noi. È come se l’amore creasse un territorio così esteso dentro l’anima e nella psiche che la vita, i desideri, le prospettive possono essere coltivati senza fatica portando molto frutto, da qui la gioia, il senso di soddisfazione e di appagamento del cuore. Ma cosa succede se un sospetto viene seminato in questo territorio, e non ci sono abbastanza fede e mitezza per spegnerlo immediatamente? Cosa succede se per le vicende della vita una calunnia colpisce ciò che amiamo e non siamo abbastanza forti per continuare ad amare o a perdonare? Cosa succede in presenza di uno sgarbo, di una palese ingiustizia, di una ferita emotiva? Cosa succede in pratica quando si compie assenza di amore, che noi chiamiamo comunemente male, cosa succede? Succede che la calunnia toglie spazio a quella persona nel nostro cuore, le toglie possibilità, opzioni, carico emotivo. Succede che togliamo spazio alla fiducia che abbiamo in lei, il desiderio di bene e di bello con lei e per lei perde spazio improvvisamente dentro di noi e cambiano i piani emotivi, il sentire, il movimento stesso della vita con quella persona. Lo spazio vitale si riduce fino a morire. Questo processo accade


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Beati

perfettamente anche nei riguardi di se stessi e della propria persona. L’assenza di amore erode spazio al desiderio, la gelosia sottrae gli spazi all’intimità, l’invidia sottrae spazi alla creatività e al genio, il possesso deteriora gli spazi dell’autonomia, la competizione indebolisce gli spazi dell’interdipendenza, la rabbia uccide gli spazi alla conoscenza e all’intelligenza. Ogni forma di prepotenza, di forzatura e violenza toglie spazio a ogni libertà fisica e può danneggiare profondamente anche gli spazi psichici. Il male è male proprio perché toglie lo spazio a se stessi, agli altri, a Dio nella nostra vita. Ci sono i peccati di omissione, ma più pericolosi e sotterranei sono i peccati di oppressione dello spazio. Il vero egoismo non è fare quello che si vuole, ma è obbligare gli altri a fare quello che vogliamo noi. Togliere spazio e terra alla gente conduce alla fame e alla guerra. Togliere spazio all’amore e all’intimità degli amanti conduce alla tristezza e all’assenza di gioia. Togliere spazio ai figli è disturbare la loro intelligenza e cancellare la loro indole e originalità. Togliere spazio ai desideri del cuore e alla voce di Dio dentro di noi è il non spazio adatto a creare un’umanità di malandati manichini colpiti dalla sindrome inguaribile dell’imitazione. Togliere e ridurre lo spazio è il vero male, è il vero grande male possibile in questo mondo. Togliere spazio è togliere il movimento della vita, annulla la dignità stessa dell’uomo e la nobiltà in tutto il creato. Per renderci conto dell’indispensabilità e della divinità assolute dello spazio per l’uomo, come precisa volontà di Dio per il benessere della sua vita, basta sbirciare le stelle in una notte trasparente, alzarsi un po’ su di una vetta, allungare l’occhio verso lo spessore dell’universo, perdersi nelle misure di un atomo. Nei racconti delle primordiali disobbedienze bibliche ciò che viene a cambiare e a modificarsi nella vita dell’uomo è la terra, il territorio, lo spazio. Lo spazio in tutti i sensi permette il movimento, il movimento in tutti i sensi permette la vita di Dio. C’è un modo sottile, sommerso quanto evidente, con cui Satana sta conducendo l’umanità verso la necrosi e la pazzia. Satana ci sta tentando come non mai a ridurre e a ridurci lo spazio e gli spazi. Nessun uomo al mondo, nessuna intelligenza umana sa così perfettamente e razionalmente che, senza spazio e senza spazi nel cuore e nella terra, l’uomo passerà dall’irritazione al


fastidio, poi alla competizione e al possesso, subito dopo alla violenza e alla guerra, per terminare nell’inedia e nella pazzia. Per questo la rivelazione biblica incentra tutta la storia del popolo di Dio, del popolo d’Israele nella ricerca della terra, la Terra Promessa. La Terra Promessa è lo spazio, tutto lo spazio di Dio per la vita dell’uomo, tutto lo spazio del suo amore e della sua ricchezza senza fine. Il mite è allora colui che non toglie spazio con la violenza, con la condanna, con il giudizio, con la forza, con la legge. Il mite è l’amante. Se il mite è l’amante e la terra è tutto ciò che permette di vivere, beati gli amanti perché avranno la possibilità di vivere nello spazio infinito e ricchissimo di Dio. Peshitta: AôørA㬠nwÜ»trAî˙ nWû˙éh…d d-hennun nirthun lar‘o, che essi erediteranno/possiederanno la terra.

beati gli affamati e gli assetati

maka¿rioi oi˚ peinw◊nteß kai« diyw◊nteß

makarioi hoi peinontes kai dipsontes

Beati

Peinao e dipsao, “ho fame” e “ho sete”, sono due verbi che nelle scritture bibliche non vengono considerati solo rispetto ai bisogni fisiologici, ma anche a quelli spirituali. Peinao, verbo denominativo da peine, “fame”, origina da antica radice indoeuropea pen, da cui anche il latino penuria, “mancanza, bisogno”, paene, “quasi”, paenitet, “mi volgo a, mi pento”. Si ricollega anche all’accadico patnu, “cibo, mangiato”, infatti in origine peinein significava “mangiare con fame”, analogo campo semantico del vocabolo greco limos, “fame”, dall’accadico lemu, “prendere cibo”. Mentre limos indica carenza acuta di cibo in seguito a una carestia, peinao indica non solo l’essere affamato rispetto a un periodo di guerra o carestia, ma anche l’esaurimento, la spossatezza, lo stato permanente di fame e di bisogno perché privi di ogni riferimento interiore vitale: è quindi anche una fame spirituale, un fuoco che arde nell’anima. Affiancato a “fame” ecco anche il concetto di “sete”. Il verbo dipsao, “ho sete, sono assetato”, da cui dipsa, “sete”, deriva da antiche basi accadiche, depu, da’apu, con il significato di “cerco avidamente, ardo di sete”, cui si ricollega l’antica base semitica tsm, “aver sete”. È il desiderio di ristoro, si pensi alla richiesta di Gesù sulla croce. È anche

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l’aspirazione a un bene spirituale senza il quale non si può vivere. Il non aver sete a sua volta manifesta la pienezza e l’adempimento di ogni bene: la salvezza e la pienezza di ogni bene e felicità, in molti punti della bibbia, sono presentate come un mangiare e bere in abbondanti e ricchi banchetti nel regno di Dio. Peshitta: N¥éhxáw NÁî˜\∏â\˚…d NÁñÒ¥A㬠nwúHÁá\∫Wüƒ tuvayhun laylen d-khafnin watshen, beati essi coloro che sono affamati e assetati.

di giustizia

th\n dikaiosu/nhn

ten dikaiosynen

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Avere fame e sete è un’immagine che nella bibbia si trova ovunque, ma avere fame e sete di giustizia è una formulazione unica, è presente solo nelle Beatitudini. Cosa si intende per giustizia? “Giustizia”, dikaiosyne, non è un concetto astratto e generico, infatti l’articolo preposto “la” indica proprio quella particolare e unica giustizia che intende Gesù. Etimologicamente dikaiosyne deriva da dike, “diritto, giustizia”, che a sua volta ha generato l’aggettivo dikaios, “conforme alla legge, alla norma”. Dike, dikaios, da cui il verbo denominativo dikaioo, “rendo giusto, giustifico, riconosco come giusto, proclamo la giustizia”, si accostano a loro volta al verbo greco deiknymi – “mostro indico”, dall’accadico deku, “levare”, legato al mondo della gestualità – e a quello latino dico – con il valore originario di “alzare la mano per fare un segno”, da base accadica daku, “levare su”, che molto si avvicina al sumerico di-ku, “giudice” –, e riproducono antiche voci accadiche come dikugallu, “presidente della corte suprema”, dikuru, “verdetto”, e daku, “giustiziare”, denotando la giustizia, la rettitudine, l’equità, il conforme alla legge, il giusto, l’equo, il dovuto. La dikaiosyne è alla base della concezione di Dio nell’Antico Testamento, è l’espressione del suo manifestarsi, è l’attuazione gradita a Dio della sua volontà. Nel Nuovo Testamento è usata da san Paolo 57 volte, Marco non la usa affatto, Luca la usa una volta nel Benedetto, Giovanni 2 volte e Matteo 7 volte: per ben due volte questo termine compare nelle Beatitudini. In ebraico “giustizia” si dice tsedeq, che letteralmente significa “azione corretta in accordo con qualche forma di piano divino”. Giuseppe era un uomo


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tsadiq, “giusto”, un dikaios nel senso che aderiva alla Thorà. La giustizia diventa allora aderenza a qualcuno, a qualcosa. Quando Gesù si presenta a Giovanni Battista presso il Giordano, Matteo racconta che Giovanni non vuole battezzarlo, e dice: Sono io che devo venire da te; ma Gesù gli obietta: Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia (Matteo 3,15). Evidentemente il concetto di giustizia e di azione giusta è sempre legato all’appartenenza, all’aderenza, alla sequela di un principio, in questo caso adempiere a ogni giustizia si riferisce all’aderenza alla volontà e ai desideri del Padre. Potremmo dire in modo paradossale che anche il malvagio, se aderisce perfettamente a un principio senza mai distaccarsene, opera in modo giusto. È chiaro ed è evidente che questa è una forzatura, ma è per esprimere meglio il concetto. In questo senso perfino Gesù parla di una “giustizia” degli scribi e dei farisei e la mette in contrapposizione con la giustizia del regno di Dio. Essere giusti, compiere la giustizia significa aderire a un principio primo, a una volontà, a un desiderio. Significa perseguire una direzione, come seguendo una bussola, indipendentemente da tutto ciò che accade, senza mai scartare di lato o di passo. Così, nel discorso della montagna, Gesù adopera un’espressione molto forte, che è il cardine di tutto questo discorso, e dice: Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Matteo 5,20), e ancora: Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere da loro ammirati (Matteo 6,1). L’aderenza deve essere la radice di ogni azione, l’aderenza è comunque la radice di ogni azione. Non esiste un’azione che consapevolmente o meno non aderisca a qualcosa o a qualcuno dentro di noi o fuori di noi. Le azioni corrispondono perfettamente alle nostre aderenze interiori. Nel bene e nel male le nostre azioni manifestano le nostre aderenze spirituali, con chi siamo o desideriamo essere uno. In pratica la giustizia non è altro che l’aderire perfettamente a qualcosa, un po’ come quando, indossando un vestito, si esclama: È giusto per me! Nel senso che è perfettamente aderente alla nostra persona. Dunque nel mondo non ci sono la giustizia e l’ingiustizia, non ci sono i buoni e i cattivi. Da ogni parte della barricata è scontato ed evidente che tutti


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si sentono nel giusto e tutti combattono, lottano e uccidono in nome della giustizia. Ma è altrettanto evidente che questo modo di procedere non produce benessere e pace, non risolve i conflitti, non guarisce le ferite, non conduce alla pace e alla verità. È perfettamente inutile attraversare i secoli e la storia mettendoci gli uni contro gli altri in perenne conflitto nei tribunali e nei campi di battaglia. Non ci sono giustizia e ingiustizia, c’è solo il modo in cui ciascuno aderisce, come la neve ai fianchi di una montagna, a principi che vanno dall’abisso dell’egoismo ai vertici dell’amore. Per questo Gesù dice: Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose [ciò che serve alla vita dell’uomo] vi saranno messe davanti (Matteo 6,33). I peinontes e i dipsontes sono coloro che cercano l’aderenza alla voce e ai desideri di Dio, alla parola del vangelo. Sono coloro che anelano alla dikaiosyne, e la considerano un dono di Dio che lui concede a chi aspira di riceverlo e quindi diventa portatore di felicità. La giustizia, l’aderenza alla verità, alla voce di Dio, è la struttura stessa del regno di Dio e con il regno di Dio è sempre messa in stretta connessione. Peshitta: aÖ»tWû˙Aî\‰¬ l-khinutho, di giustizia.

Beati

perché essi saranno saziati

o¢ti aujtoi« cortasqh/sontai

hoti autoi chortasthesontai Il verbo chortazo, “sazio, sfamo” è al futuro passivo: “saranno saziati”. Il salmo 16,15 dice: Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza. Essere sazio significa essere completato. Il verbo greco chortazo è denominativo di chortos, che ha letteralmente il senso di “recinto, recinzione”, da cui poi il concetto di pascolo, spazio recintato, orto, foraggio, vegetazione, erba, fieno. Dalla stessa radice deriva anche chortasma, “cibo, nutrimento, viveri”. Cortazo indica il completo soddisfacimento del bisogno, è usato infatti nell’episodio dei cinque pani e due pesci resi molti per la fame di tutti: Tutti mangiarono e furono saziati (Matteo 14,20). Peshitta: nWûØ;ıÍê˙ nWû˙éh…d d-hennun nesb‘un, perché essi saranno sazi/ saziati.


beati i misericordiosi

maka¿rioi oi˚ e˙leh/moneß

makarioi hoi eleemones

perché essi troveranno misericordia

o¢ti aujtoi« e˙lehqh/sontai

hoti autoi eleethesontai Cosa vuol dire trovare, ricevere misericordia? Nel vangelo, in Matteo 18,33, nella parabola dei due debitori è scritto: Non dovevi tu misericordiare il tuo amico come io ho misericordiato te? Eleein, “misericordiare”, intraducibile in italiano se non attraverso una perifrasi, è sul piano dell’azione, dell’azione d’amore. È un prodigarsi amoroso per il bene degli altri che nell’istante in cui scaturisce dal cuore si realizza immediatamente con le mani, con i fatti. Il testo evangelico con questo verbo così carico e pregnante sembra quasi voler evitare il rischio enorme e così scontato di poter parlare e discutere di misericordia senza agirla con le mani. La misericordia detta, parlata,

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Chi sono gli eleemones? Nei vangeli questo vocabolo è presente solo qui. È un deverbativo da eleein, “avere misericordia”. Eleos indica un rapporto di reciprocità, avviene tra amici, parenti, alleati, tra chi insomma ha un patto di fedeltà. Non è un modo di sentire, ma è un comportamento, l’atteggiamento e le azioni che scaturiscono da questo tipo di rapporto. È la solidarietà a cui i contraenti un patto di fedeltà sono sottomessi che si manifesta in un mutuo soccorso concreto e materiale. Eleos entra in gioco nel soccorrere il bisognoso, quando per esempio il samaritano soccorre lo sventurato attaccato dai briganti, è la solidarietà verso il debole, l’oppresso che chiede aiuto dopo essersi affidato completamente. Nella cultura greca il sostantivo eleos significa sentimento che porta a commuoversi dinanzi alle sofferenze altrui, a parteciparvi. Infatti eleos, originariamente “desco, mensa”, deriva da leion, “coltello dell’aratro”, dal sanscrito lavas, “taglio, il tagliare”. Letteralmente è “ciò che taglia l’animo, ciò che lacera”, da cui “misericordia, pietà, compassione”. Peshitta: Aê˜óÂ∆àRÂ㬠nwúHÁá\∫Wüƒ tuvayhun lamrachmone, beati essi i misericordiosi.


discussa, che non diventa immediatamente azione del cuore e delle mani, è pura inutile vanagloria. La misericordia intenzionale che non si realizza immediatamente e senza discussioni, nel misericordiare dell’istante, è solo cibo per l’ego dell’uomo. Peshitta: AéÂ∆àr nwúwHê˙ nwúHÁãÒøâ…d da‘layhun nehwun rachme, perché sopra di essi sarà la misericordia.

beati i puri

maka¿rioi oi˚ kaqaroi«

makarioi hoi katharoi

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Beati

Katharos pur nella varietà delle etimologie presenta come significato fondamentale “puro, limpido”, cioè “senza mescolanza, senza macchia, mondo, guarito”. Si tratta di purezza come assenza di una contaminazione causata da contatti con elementi diversi da sé. Dall’accadico qataru, “casto”, e qadru, “santo”, con il senso di “degno degli dei o di essere offerto”; si può far risalire anche alla radice indoeuropea kas, con il significato di “puro, santo”. Il concetto di “purità” e “impurità” nella bibbia implica l’appartenenza a Dio: il puro è colui che appartiene alla sfera di Dio, che è secondo la sua voce e il suo desiderio. Quindi sono impure tutte le cose che sono fuori dalla sua realtà: la lebbra – la malattia non c’entra con Dio e non viene mai da Dio –, i demoni e i diavoli – sono chiamati spiriti impuri e immondi, in quanto in rotta e disaccordo con Dio –, i sepolcri e le tombe – perché legati alla morte che è fuori dalla realtà di Dio, Dio non ha creato la morte e non vuole la morte dei suoi figli mai. Peshitta: NÁê\˚«dâ…d NÁñÒ¥A㬠nwúHÁá\∫Wüƒ tuvayhun laylen dadhkhen, beatitudini loro di coloro che sono (stati) purificati.

in cuore

thØv kardi÷aˆ

te cardia Nel linguaggio biblico il cuore è sede dell’intelligenza, del pensiero, della volontà, traducibile spesso con “mente”. È la sede del logos, quello umano, del dia-logos interiore personale. È il cuore che pensa, è l’io


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personale, è il decisionale, dove continuamente l’uomo dialoga e decide: Perché pensate cose malvagie nei vostri cuori? (Matteo 9,4); Dal cuore vengono i propositi malvagi (Matteo 15,19). Nel cuore la persona vuole, desidera, crea le proprie aderenze, unità e disunioni. Imparate da me che sono mite e umile di cuore. In ebraico lev/levav è la forza vitale, la sede dei progetti, del discernimento. In 1Samuele al capitolo 16, versetto 7 è scritto: L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore. L’uomo dal cuore puro non è un uomo che non pecca ma un uomo che ha scelto nella sua volontà e nei suoi pensieri il bene, ha scelto di entrare in relazione con Dio. Per entrare alla presenza del Signore è necessario avere un cuore puro, cioè un cuore non attaccato a nessun idolo. È nel suo cuore, nella sua parte più intima che l’uomo sceglie e decide a chi aderire, con chi essere uno, chi amare, a chi obbedire, chi seguire. Il cuore puro è il cuore che non aderisce a nessuna forma di idolatria. Ma che cos’è l’idolatria? Come principio l’idolatria è un atteggiamento spirituale e psichico che considera reale ciò che non lo è, e irreale ciò che è reale davvero. Da qui il grande inganno e la confusione che portano l’uomo a vivere come reali e fondamentali delle realtà fasulle e inutili, e a trattare ciò che non esiste ed è finto con l’importanza, l’autorevolezza di ciò che è reale e vero. L’idolatria in senso stretto è l’inganno spirituale che considera e tratta come Dio ciò che Dio non è, e al tempo stesso considera e tratta il Dio vero come non lo fosse affatto. Il puro di cuore non percorre i processi ingannevoli dell’idolatria e per questo ha una elevatissima percezione di Dio quanto gli altri uomini non possono neppure immaginare, e può incontrarlo nel suo cuore e adorarlo senza nessuna mediazione di culto. L’uomo puro di cuore non è l’uomo religioso. La mente dell’uomo di religione crede e accetta la presenza di Dio, ma nei momenti di fatica e dolore è pronta immancabilmente a considerare Dio il responsabile dei propri mali. Il puro di cuore è l’uomo di fede, colui che crede in Dio e lo ama e da lui si sente così amato da non permettere alla sua mente, mai e in nessuna occasione, di pensare male di Dio. È colui che aderendo totalmente e intimamente con amore a Dio eleva talmente la sua intelligenza e la sua razionalità da impedire sempre e comunque al proprio pensiero


di ritenere Dio la causa di qualsiasi male e disarmonia che accade nel mondo. Il puro di cuore è colui che non ha mai sospetti su Dio, non solo per il fatto che non dubita mai della sua presenza ed esistenza, ma nel senso che non ha mai il dubbio o il sospetto di non essere nel pieno e totale favore di Dio. Peshitta: nwúH;ıñÒ;∫ b-lebbhun, nel loro cuore.

perché essi vedranno Dio

o¢ti aujtoi« to\n qeo\n o¡yontai

hoti autoi ton theon opsontai

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Beati

Nell’Antico Testamento è scritto che non si può vedere il volto di Dio; solo Gesù, annunciando una novità teologica senza precedenti, afferma che il volto di Dio si può vedere, anzi dice: Chi ha visto me, ha visto il Padre (Giovanni 14,9). Nella lingua greca c’è un verbo per indicare il semplice vedere – theoreo, “vedo, osservo, guardo, constato” – e un verbo per indicare il vedere percettivo, horao. Noi usiamo lo stesso verbo per i due termini. Quando diciamo. Ma non vedi che…, stiamo ad indicare: Ma non capisci? È scritto in Giovanni 16,16: Un poco e non mi vedete [theoreite] più, e ancora un poco e mi vedrete [opsesthe]. Il secondo vedere è lo stesso che incontriamo in questa beatitudine, ed è lo stesso verbo di Giovanni 11,40 in cui Gesù, prima di far risorgere Lazzaro, si rivolge a Marta e le dice: Non ti ho detto che se credi vedrai? Qui inteso come verbo della profonda percezione, della conoscenza e della fede che aprono alla visione interiore. Il verbo è horao, “percepisco, sento, intendo, mi rendo conto, faccio attenzione, considero, ricevo un’apparizione, vedo, ho una visione, constato, mi rendo conto che, sono presente, prendo parte”, fino al senso figurato di “riconoscere, riflettere”. Il sostantivo greco horama significa “vista, visione, apparizione”. I puri di cuore hanno questa visione, partecipano a una percezione superiore oltre la conoscenza comune. I puri di cuore potranno vedere Dio perché di Dio non hanno mai pensato male, mai si sono infastiditi per lui, ritenendolo causa di qualche male, e dunque da Dio mai si sono separati. Peshitta: aóHõ¬A㬠nwûZÔê˙ nWû˙éh…d d-hennun nechzun laloho, perché essi vedranno Dio.


beati i pacificatori

maka¿rioi oi˚ ei˙rhnopoioi÷

makarioi hoi eirenopoioi

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Beati

L’aggettivo, eirenopoios, “pacificatore, facitore di pace, costruttore di pace”, appare solo qui nel Nuovo Testamento. Esso è composto da eirene, “pace”, e poiein, “fare, produrre, causare, compiere, determinare, far nascere” e ancora “operare, praticare, rendere, celebrare, costituire”. L’accadico pachu ha il significato di “apprestare, finire, eseguire il lavoro”. Il verbo eirenopoieo e l’aggettivo eirenopoios sono rari nella letteratura greca e indicano la pacificazione politica ottenuta da un’autorità che ha pieno potere, come l’imperatore. Nella Settanta questo verbo appare con Dio come soggetto, è Dio il facitore della pace. Nella lingua ebraica il concetto di pace si esprime con shalom, da una radice che indica pienezza, compimento, completamento, raggiungimento della perfezione. Pace nell’accezione di intero, incolume, compiuto. Pace è pienezza di vita, abbondanza, piena realizzazione dei desideri, delle aspirazioni, delle potenze. Il profeta Michea aveva annunciato: Un capo che uscirà da Betlemme, piccola città, quando colei che deve partorire partorirà, e terminava dicendo ed egli sarà la pace (Michea 5,1-2). Bene e prosperità, benessere, quiete dell’anima, armonia sociale, abbondanza, compiutezza di tutto, sono parti interagenti dello shalom/eirene. Costruttore di pace, Pacificatore per eccellenza è Shiloh, il Signore Gesù, ma è anche colui che in nome del vangelo questo stato di benessere cerca di costruirlo e seminarlo tra gli uomini. Per il pacificatore, il discepolo di Gesù, la pace non è solo uno stato di essere, non solo uno stato dell’anima, ma è un’azione, un’azione aderente ai desideri di Dio. La pace si fa come il pane, si fa, si impasta con le mani, con gli atteggiamenti, con azioni di perdono e tolleranza senza calcolo. Il pacificatore in genere non parla, non spiega la pace, ma agisce la pace, compie azioni di pace. Il pacificatore, che ha la pace nella lingua e nelle intenzioni ma non nelle mani, non è un pacificatore e non concorre a costruire la felicità degli uomini. Verranno riconosciuti figli di Dio i costruttori di felicità e benessere. Peshitta: AóÂõÒ√ yâ…D\ıôج nwúHÁá\∫Wüƒ tuvayhun l-‘ovday shlomo, beatitudini loro dei facenti pace.


perché essi figli di Dio o¢ti aujtoi« ui˚oi« qeouv

hoti autoi hyioi theou

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Hyioi Theou riferita agli uomini in Matteo si legge solo qui e in 5,45: Ma io [Gesù] vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Essere figli di Dio implica avere una condotta simile al Padre, comportarsi come lui: questa è una categoria mentale basilare riguardo al rapporto padre-figlio nel mondo ebraico. E non è solo un concetto appartenente al mondo semitico, è una legge dominante: si aderisce e si diventa con il tempo simili a colui che si riconosce come padre e madre, come la propria sorgente generatrice. Essere figli di un padre significava fare le sue opere, aderire a lui. In Giovanni 8,39 si legge: Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo. Siracide 4,9-10 scrive che solo chi si comporta come Dio può essere considerato suo figlio: Strappa l’oppresso dal potere dell’oppressore, non esser pusillanime quando giudichi. Sii come un padre per gli orfani e come un marito per la loro madre e sarai come un figlio dell’Altissimo, ed egli ti amerà più di tua madre. Se i figli aderiscono al padre, è ovvio che i figli, che riconoscono nel padre terreno la loro sorgente, in un modo o nell’altro aderiranno a lui. Ma nella misura in cui i figli riconoscono il Padre del cielo come unico Padre, a lui aderiranno. Quando gli uomini, confondendosi, attribuiscono alla paternità e maternità terrene l’autorità, la forza, il peso, l’importanza che dovrebbero avere la paternità e maternità divina, questo è uno degli inganni più mortali della storia umana e la principale sorgente di incalcolabili danni e sofferenze. E l’inganno continua anche dall’altra parte, quando gli uomini attribuiscono alla paternità e maternità di Dio un peso irrisorio e superficiale come fossero realtà effimere e inesistenti. Se per esempio un figlio su questa terra attribuisce più peso e onore, stima e valore alle parole e ai desideri di suo padre terreno che alle parole e ai desideri di suo Padre del cielo, quel figlio non riuscirà a essere bello, originale, affascinante, libero e felice come potrebbe essere un figlio di Dio. Un figlio che aderisce al padre terreno, anche se non lo vuole e non lo sa, non avrà altra


opzione nella vita che diventare un’inutile, infelice, sgraziata e molesta fotocopia di qualcun altro. Questa è la forma di idolatria più comune ed estesa lungo tutta la storia umana. Peshitta: aóHõ¬aâ…d y™hWâ˜\∫â…d davnaw daloho, che figli essi di lui di Dio.

saranno chiamati klhqh/sontai

klethesontai

beati essi i perseguitati

maka¿rioi oi˚ dediwgme÷noi

makarioi hoi dediogmenoi Dediogmenos, dal verbo dioko, indica, secondo i vari usi che ne sono stati fatti, persecuzione religiosa, non tanto una persecuzione ufficiale, quanto opposizione e maltrattamento connessi con l’essere stati fedeli al vangelo. Il verbo dioko è al participio perfetto medio-passivo, il cui valore semantico esprime la compiutezza dell’azione nel passato e alcuni effetti di essa ancora vivi nel presente. Dall’antica radice indoeuropea di- col significato di “temo, corro via” – da cui dine, “vortice, gorgo”, a sua volta dal sanscrito diyati –, alla forma attiva significa “metto in movimento, caccio, scaccio via; inseguo,

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È un passivo che sottintende Dio come autore dell’azione: “Dio stesso li chiamerà suoi figli”. Il verbo “chiamare” nel vangelo ha due connotazioni. Se usato transitivamente ha il valore di invitare, in Matteo 4,21 si legge: Andando oltre di là, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedeo, loro padre, aggiustavano le loro reti; e li chiamò. Se usato intransitivamente ha il valore di nominare, riconoscere, conferire un nome, conferire un lavoro a qualcuno, annunciare l’essenza di una persona. Matteo 1,21 scrive: Essa partorirà un figlio e chiamerai il suo nome Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai loro peccati. In questa beatitudine il verbo “chiamare” riveste questa seconda accezione: i pacificatori sono chiamati figli di Dio e sono riconosciuti tali nella loro essenza. Peshitta: nwùRœ»Tê˙ nethqrun, saranno chiamati.


perseguito, corro dietro, mi attacco, perseguito in giudizio, accuso”, alla forma passiva, “sono scacciato, inseguito, perseguitato, accusato, cacciato innanzi”. Peshitta: W\πd«ê r»taêd… NÁñÒ¥A㬠nwúHÁá∫ \ Wüƒ tuvayhun laylen dethrdheph, beatitudini loro di coloro che sono (stati) perseguitati.

a causa della giustizia perché di essi è il regno dei cieli

eºneken dikaiosu/nhß o¢ti aujtw◊n e˙stin hJ basilei÷a tw◊n oujranw◊n

heneken dikaiosynes hoti auton estin he basileia ton ouranon

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Beati

Dikaiosyne con il significato di “fedeltà”. Infatti nel Nuovo Testamento il giusto è il giustificato, il condonato dai debiti. Colui che è aderente alla volontà, alla vita. Giustizia, traducibile qui con mitezza, misericordia, purezza, shalom, pace, cioè tutte le altre Beatitudini che sono state presentate al futuro. Seguendo le Beatitudini ci sarà beatitudine e felicità, straordinaria aderenza al modo di regnare di Dio ma anche persecuzione perché i desideri di Dio sono contro i desideri del mondo. A causa della giustizia significa dunque a causa dell’aderenza al vangelo, a causa dell’amore. Ed è proprio questa aderenza al vangelo che può causare persecuzione e sicuramente procura la proprietà dei tesori del regno dei cieli. Peshitta: AôÁáÂ√â…d aÖ»tWû;‰Òáµ yí™h nwúHÒ¥î«d…d aÖ»tWû˙Aî;˚ LüÏéµ mettul kinutho d-dhilhun hi malkutho dashmayyo, a causa della giustizia perché di essi è il regno dei cieli.

beati voi quando vi insulteranno

maka¿rioi÷ e˙ste o¢tan ojneidi÷swsin uJma◊ß

makarioi este hotan oneidisosin hymas Hotan introduce una preposizione temporale-condizionale e significa “quando, nel momento in cui, quando se”. Il verbo oneidizo, “insultare”, può denotare nelle sue conseguenze violenza fisica e anche la morte. Letteralmente: “infamo, diffamo, oltraggio, rimprovero”, da cui anche oneidos, “infamia, rimprovero”. In origine si trova l’accadico nadu, “deprimere, buttare via, accusare di delitto”. Peshitta: nWû‰ \ ¬ N¥îD… ÍáÔµâd… y»Tµ á a é nWû‰; Áá∫\ Wüƒ tuvaykun emmath damchasdyn lkhun, beati voi quando sono insultanti/insultano voi.


e vi perseguiteranno

kai« diw¿xwsin

kai dioxosin Il verbo dioko, “metto in movimento, caccio, spingo, scaccio via, inseguo, perseguito”, è il verbo della persecuzione, sia riferita verso Gesù, sia riferita verso gli uomini: è previsto che gli uomini, quando seguono Gesù, possano essere perseguitati nel suo nome. Il significato di questo verbo è un movimento di inseguimento per stare dietro a qualcuno o a qualche cosa. Etimologicamente ha il senso di “stare alle costole”, premuti, addossati, poi si è arricchito della sfumatura di rapina, di ostilità, dell’idea di inseguire per predare. Dioko è nella maggior parte dei casi, nei vangeli, inseguimento veloce e rapace al fine di catturare una persona o una cosa, è il correre dietro in modo assoluto e determinato per distruggere. Dioko indica il premere, il togliere spazio e vita, è un movimento diretto alla molestia a tutti i costi. Peshitta: nWû\‰¬ NÁî;π«dòrw w-rodhpin lkhun, e perseguitano voi.

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e diranno ogni male [falsamente] a causa di me

kai« ei¶pwsin pa◊n ponhro\n kaq∆ uJmw◊n [yeudo/menoi] eºneken e˙mouv

Eiposin, congiuntivo aoristo del verbo lego, “dico, ragiono, raccolgo”. Poneron, accusativo di poneros, “penoso, cattivo, sofferente, abbietto, malvagio”, da una radice che significa “soffrire, far fatica”, in quanto legata al mondo della lavorazione faticosa della terra con l’aratro. Il processo persecutorio prevede prima della persecuzione vera e propria la persecuzione in giudizio. Il male, per poter fare più liberamente del male sotto gli occhi dell’opinione pubblica di qualsiasi secolo, deve trasformare la vittima della persecuzione in un oggetto pericoloso, osceno, emarginato, cattivo, e può farlo solo con la falsità del giudizio. Solo dopo aver parlato male della sua vittima, il potere persecutorio può passare alla violenza. La falsità in giudizio riguardo alla vittima designata è necessaria al potere giudicante per poter spegnere nella mente e nella coscienza della gente ogni barlume di bellezza e di grazia del perseguitato, usando senza nessuna remora ogni falsità, calunnia, bassezza, perversione abbietta. Solo allora il potere può colpire

Beati

kai eiposin pan poneron kath’hymon [pseudomenoi] heneken emou


impunemente il perseguitato mantenendo una facciata di giustizia e di verità, e ucciderlo senza crearne pericolosamente un eroe. Peshitta: aÖt » WÃÒ© ;ö D«â ∫; y»TÒõ Ï ü µ é Aô◊Áí∫; AõÒµ é Lû˚; nWû‰; ÁãÒø N¥ìRµaów womrin ‘laykun kul mello bisho mettuloth b-dhaggolutho, e dicono su voi ogni parola cattiva a causa di me falsamente.

rallegratevi ed esultate

cai÷rete kai« aÓgallia◊sqe

chairete kai agalliasthe

222

Beati

Chairete e agalliasthe – nella forma imperativa che designa la necessità, quasi il dovere imprescindibile di vivere tali stati d’animo – esprimono due accezioni di gioia complementari. La radice di chairein è char, con valore appunto di “desiderare, amare, aver piacere”, vocabolo che nel Nuovo Testamento compare 75 volte. Agalliao/agallomai invece significa “sono pieno di gioia, sono felice, esulto, giubilo, mi rallegro”, ma anche “godo di, mi atteggio a sovrano, a principe”, etimologicamente formato dall’unione di agan, “molto”, con il verbo allestai, “saltare”. Questo verbo esprime una fierezza lieta, una gioia così piena e nobile che costringe la persona che la vive a saltare, per non esplodere dalla carica emozionale. Nel Nuovo Testamento è attestato 8 volte in forma medio-passiva e 2 in quella attiva. Straordinario immaginare, anche solo per un istante, come la parola di Gesù stia qui affermando che vivere le Beatitudini garantisce all’uomo una gioia tale, così piena e potente da costringere letteralmente a saltare di gioia per non esplodere per l’emozione. Il vangelo è il lieto annuncio, è il libro della gioia e, se non riesce a farci saltare di gioia nella vita, significa sicuramente che lo stiamo leggendo al rovescio. Se, persino nella fatica e nei giorni oscuri della persecuzione, Gesù prevede in modo imperativo per chi crede in lui gioia ed esultanza così piene e totali, di quale gioia dovrebbe essere piena la nostra vita, la vita che scende dalle mani di Dio fino alle nostre mani, in quest’istante presente? Per il vangelo, per Gesù essere nella gioia, essere felici, usando un’immagine forte, è un dovere, l’unico vero, reale dovere della vita. Peshitta: wzáwráw wâ«D∆ N¥ê…D¥óh hoyden chdhaw warwaz, allora gioite e rallegratevi.


che la ricompensa di voi grande nei cieli

o¢ti oJ misqo\ß uJmw◊n polu\ß e˙n toi√ß oujranoi√ß

hoti ho misthos hymon polys en tois ouranois

beati voi nWû;‰Áá\∫Wüƒ tuvaykun

La Peshitta traduce beati voi con tuvaykun. In aramaico il sostantivo tuvo’ vuol dire “bene, bontà, beatitudine”. Nella radice di tale sostantivo è presente tv, “molto, tanto, più, meglio”, alla base sia di espressioni avverbiali che di sostantivi. Quando il sostantivo tuvo, “beatitudine”, viene usato al plurale prende il significato di “beato”. In realtà è come se il testo aramaico dicesse, in quel “beati voi”, “beatitudini vostre”.

223

Beati

Misthos significa “compenso, salario, paga, premio”. Dall’accadico misitum, “il corrispondente, il corrispettivo, l’ammontare”. Mentre nell’antichità classica e nell’Antico Testamento questo vocabolo indica la ricompensa giusta ed equa per un lavoro o un’opera compiuti, è il prezzo cioè delle opere prodotte, è il risarcimento del proprio lavoro, nei vangeli esso si arricchisce di nuove valenze. La parola misthos si trova esclusivamente in bocca a Gesù, in particolar modo qui nelle Beatitudini. Il significato di base è sempre “ricompensa”, ma qui suggerisce una retribuzione non esattamente corrispettiva rispetto all’opera o azione compiuta. Richiama il Genesi 15,1, quando Dio dice ad Abramo: Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo, e la tua ricompensa sarà grandissima. In questo caso la ricompensa non denota l’idea di una giusta remunerazione, poiché quel “grandissima”, superlativo assoluto, dice che non ci può essere qualcosa di oltre e di maggiore. La remunerazione con Gesù acquista questa sfumatura di “dono” che supera le aspettative e soprattutto le bilance umane. In questo senso Matteo in 5,46 scrive: Perché, se amate coloro che vi amano, quale ricompensa [misthon] avete? La ricompensa-misthos evangelica è il favore di Dio, il suo regno, è partecipare della sua pienezza. Peshitta: AôÁáÂ◊á;∫ Yï\˝ß nWû\˚R\©aâ…d daghrkhun sghi bashmayy, che la ricompensa/salario vostra è grande/cresce/si moltiplica nei cieli.


Quindi l’uomo beato è l’uomo che possiede le beatitudini; non solo le vive, non solo le tiene come riferimento mentale, morale, spirituale, ma ci è caduto, si è tuffato dentro come in un oceano. I tuvaykun, i “possidenti ogni beatitudine”, non solo compiono le beatitudini ma vi sono immersi dentro. È l’immersione di cui parla Gesù nel Nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Noi lo chiamiamo battesimo.

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Beati


BEATI Matteo 5,3-12

Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli Beati quelli che ora piangono perché essi saranno consolati Beati quelli che sono miti essi erediteranno la terra Beati gli affamati e gli assetati di giustizia perché essi saranno saziati Beati i misericordiosi perché essi troveranno misericordia Beati i puri in cuore perché essi vedranno Dio Beati i pacificatori perché essi saranno chiamati figli di Dio Beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il regno dei cieli Beati voi quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e diranno ogni male contro di voi per causa mia rallegratevi ed esultate ché la vostra ricompensa è grande nei cieli



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