VERDE 23

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p. 2 Edit. p.3 TI ODIO POESIA #21: Il canto dell’odio (Lorenzo Stecchetti) p.4 Paint it Black (Alda Teodorani) p.6 Bambino (Gianluca Garrapa) p.8-9 Partenza triste/Bosco di fuoco (AKAb) p.10 Nagasaki (Daniele Sartini) p.12 SEMIAUTOMATICA #16 (Simone Lucciola) p.13 BLITZRECENZION #26: Qualcuno che conoscevo (S.H. Palmer) p.14 STORIE NERE #12: Marta (Luca Carelli) Se tu mi leggi, ora, e io sono morta, ricorda che io non volevo morire, ricorda che io avrei voluto essere immortale e non lasciare spoglie vicarie mortali sulla terra.

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VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it

In copertina: AKAb - Illustrazione per la gallery di Prison Pit di Johnny Ryan - http://ilpozzodisangue.tumblr.com/

AKA come l’acronimo dell’espressione Also Known As, usata per indicare gli pseudonimi di un autore. B come “la lettera (che) deriva dall’antichissimo alfabeto lineare in cui il suono [b] era rappresentato da una casa”. Già nel febbraio 2013 il fumettista, pittore e videoartista Gabriele Di Benedetto appariva indirettamente sulle nostre pagine. Era appena uscito Verde 9, il primo numero che decidevamo di fare illustrare a un artista unico. Allora sceglievamo Cristiano Baricelli e, per la copertina, il suo Omaggio a Motosega, storico personaggio ideato proprio da AKAb ai tempi di Shok Studio. Adesso facciamo sul serio proponendo una piccola selezione di quelli che sono alcuni dei nostri lavori preferiti dell’autore di ReVolver, Libro della Fine, Monarch e Mattatoio (per citarne solo alcuni). Un grande esperto di pseudonimi doveva essere senza dubbio Olindo Guerrini, also known as Lorenzo Stecchetti, Argia Sbolenfi, Marco Balossardi, Giovanni Dareni, Pulinera, Bepi, Mercutio, Odino Linguerri, Angelo Viviani (forse) e chissà quanti altri. Scapigliato democratico e oltranzista zoliano, fervente anticlericale e materialista convinto, Guerrini è autore di una produzione lirica sterminata dalla quale abbiamo estratto Il Canto dell’Odio. Un culto assoluto. Alda Teodorani ha scritto un nuovo inedito palpitante e nerissimo (con tanto di lista), Gianluca Garrapa e Daniele Sartini sono su Verde per la prima volta, Simone Lucciola ha ripensato alla sua infanzia da wrestler-addicted una settimana prima della morte di The Ultimate Warrior (e noi qualche domanda ce la facciamo), Luca Carelli ritorna a Marta Russo e S.H. Palmer rimette su Eliott Smith: anche il suo era uno pseudonimo, lo sapevate?


Lorenzo Stecchetti

Quando tu dormirai dimenticata sotto la terra grassa E la croce di Dio sarà piantata ritta sulla tua cassa

Non ti ricordi dei capelli biondi che ti coprian le spalle e degli occhi nerissimi, profondi, pieni di fiamme gialle?

Quando ti coleran marce le gote entro i denti malfermi E nelle occhiaie tue fetenti e vuote brulicheranno i vermi

E delle audacie del tuo busto e della opulenza dell’anca? Non ti ricordi più com’eri bella, provocatrice e bianca?

Per te quel sonno che per altri è pace sarà strazio novello E un rimorso verrà freddo, tenace, a morderti il cervello.

Ma non sei dunque tu che nudo il petto agli occhi altrui porgesti E, spumante Liscisca, entro al tuo letto passar la via facesti?

Un rimorso acutissimo ed atroce verrà nella tua fossa A dispetto di Dio, della sua croce, a rosicchiarti l’ossa.

Ma non sei tu che agli ebbri ed ai soldati spalancasti le braccia, Che discendesti a baci innominati e a me ridesti in faccia?

Io sarò quel rimorso. Io te cercando entro la notte cupa, La mia che fugge il dì, verrò latrando come latra una lupa;

Ed io t’amavo, ed io ti son caduto pregando innanzi e, vedi, quando tu mi guardavi, avrei voluto morir sotto a’ tuoi piedi.

Io con quest’ugne scaverò la terra per te fatta letame E il turpe legno schioderò che serra la tua carogna infame.

Perché negare - a me che pur t’ amavo uno sguardo gentile, quando per te mi sarei fatto schiavo, mi sarei fatto vile?

Oh, come nel tuo core ancor vermiglio sazierò l’odio antico, Oh, con che gioia affonderò l’artiglio nel tuo ventre impudico!

Perché m’hai detto no quando carponi misericordia chiesi, e sulla strada intanto i tuoi lenoni aspettavan gl’Inglesi?

Sul tuo putrido ventre accoccolato io poserò in eterno, Spettro della vendetta e del peccato, spavento dell’inferno:

Hai riso? Senti! Dal sepolcro cavo questa tua rea carogna, nuda la carne tua che tanto amavo l’inchiodo sulla gogna,

Ed all’orecchio tuo che fu sì bello sussurrerò implacato Detti che bruceranno il tuo cervello come un ferro infocato.

E son la gogna i versi ov’io ti danno al vituperio eterno, a pene che rimpianger ti faranno le pene dell’inferno.

Quando tu mi dirai: perché mi mordi e di velen m’imbevi? Io ti risponderò: non ti ricordi che bei capelli avevi?

Qui rimorir ti faccio, o maledetta, piano a colpi di spillo, e la vergogna tua, la mia vendetta tra gli occhi ti sigillo. VERDE

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TI ODIO POESIA

Il canto dell’odio


Paint it Black

Alda Teodorani

Credo che l’orrore si faccia strada dentro di noi come una piccola bestia nera; le dimensioni dei mostri interiori non contano, sono piuttosto le forme, o meglio ancora la repulsione che suscitano, le cose davvero importanti, quel che conta sul serio per operare un risveglio: apri gli occhi, e al contrario di quel che succede quando ti ridesti da un incubo, vedi il buio invece che la luce, sei accecato invece che illuminato, cadi in un abisso senza fondo invece che alzarti e camminare. L’orrore, il velo nero che ti avviluppa, è individuabile cronologicamente, o almeno è così per me: sono istanti, forme, visioni, che accompagnano per tutta la vita, ai quali è davvero inutile cercare di attribuire un significato nascosto, e quando AKAb - http://akab23.tumblr.com - http://mattatoio23.blogspot.it/

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credi di aver toccato il fondo, quando raggiungi quell’istante di raccapricciante, dolente perfezione, quando le parole prendono vita e con ali di pipistrello sbattono urlando dentro le pareti della tua mente e tu senti di aver versato tutto il sangue che potevi, è proprio allora che la realtà irrompe nella tua vita e la gente intorno a te – quella che più ti è vicina – inizia a morire. È come un passo indietro, ma tu avvolgiti stretto nel filo spinato dei ricordi. -

Una donna muore con la gola tagliata da un rasoio in un paese sulla riva di un lago;

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Un pesce gatto dentro un secchio di nichel: ti hanno detto di non togliere il coperchio ma tu non hai ascoltato

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Il vicino che uccide il maiale ogni anno; anno dopo anno ascolti le sue urla di agonia;

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Il Canto dell’odio;

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La messa di domenica mattina;

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I ragni – gli infiniti ragni – dei tuoi incubi, e Freud non c’entra, c’entra la poverta;

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Il feto abortito di un gatto tra l’erba di un giardino;

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Gott Mit Uns e gli impalamenti;

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Il cadavere di un topo preso in trappola nella cantina;

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Edgar Allan Poe VS Excalibur;

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Le sedute spiritiche nella camera mortuaria;

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Alien;

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Un’onda di sangue, la morte di creature innocenti;

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Carrie e tutto quel che venne dopo;

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Carl Orff;

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Nero italiano – Non hai capito

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Il gruppo 13;

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GiU, nel delirio e la fuga;

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Thomas Harris;

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Tarantino e i suoi cani da rapina;

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Il grimaldello neo-noir;

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E Roma piange;

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Non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te – fai agli altri quel che vorresti fosse fatto a te;

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Gli Organi

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Incubi dalla citta contaminata;

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Farsi (fare) male e i Sacramenti;

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E dopo, arriva il fabbro;

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Fluke, il topocane

La scrittura NON è la realtà VERDE

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Bambino Gianluca Garrapa Viene tutte le sere al ristorante del mio papà. Prende le falafel e un paio di birre. Mio padre lo sa che prende sempre birra. È una birra con la bottiglia verde. Dice sempre Ainechel. Quando arriva mio padre sa che prende un’ainechel. Poi si siede e beve. Porta sempre le cuffie attaccate al cellulare. E ogni tanto se le toglie per ascoltare la musica che mandiamo dal computer. Poi tira fuori un quadernetto e scrive. Chissà che scrive. La prima volta che è venuto io non lo conoscevo ancora. Mio padre lo conosce bene. Prima il locale stava in un’altra parte della città, adesso ci siamo trasferiti qui, vicino a casa e io scendo spesso. Mi piace stare con papà e mia sorella. A una certa ora papà dice di tornare a casa. Chissà che cosa pensa. Sta sempre da solo. Prima aveva i capelli lunghi. Adesso ce li ha rasati. Poi scrive. A papà sta molto simpatico e ogni volta che entra, dice subito: Ainechel. E lui ride e dice che vuole l’ainechel. Secondo me è sposato, ma la moglie non gli vuole bene, oppure ha dei figli che non gli vogliono bene. Forse è soltanto solo. E, infatti, mi guarda e mi sorride come se fosse il mio papà. Infatti ha gli occhi grandi e neri e, quando sorride, è proprio simpatico. Ha gli occhi neri come i VERDE

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miei, però lui è più bianco, io sono scuro, di carnagione dico. Aspetto che tornino, dalla finestra mi accorgo quando arrivano. Spengo il computer e m’infilo nel letto. Non vogliono che stia sveglio fino a tardi, per via della scuola, ovvio. Però non posso farne a meno. Non so perché, il signore dell’ainechel mi guarda in un modo che mi fa piacere. Ho paura di dirlo a papà, però provo un po’ di tenerezza per il


signore dell’ainechel. Quando mi guarda, di sfuggita, ha gli occhi dolci. Come se guardasse suo figlio. Forse ha un figlio ma vive lontano con la moglie e lui è qui che lavora e manda i soldi alla famiglia. Sono curioso di sapere che fa nella vita. Un giorno glielo voglio chiedere a papà. A cosa stai pensando? Papà, ma quello dell’ainechel è amico tuo? Quello dell’ainechel? Chi è quello dell’ainechel? Che viene sempre solo. E beve l’ainechel… Papà non mi risponde, non dà importanza alle mie domande e continua a parlare con la mamma su certe cose che devono pagare.

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Papà è sul divano. Riposa. Io mi avvicino e mi stringo a lui. Lo abbraccio e gli rifaccio la stessa domanda. Ha il viso sonnacchioso e gli occhi socchiusi di gattone. È grosso, papà, come un orsacchiotto tenero tenero. E lui mi chiede Perché t’interessa sapere di quello dell’ainechel? E io mi accorgo che sono diventato rosso. Di vergogna. E non so perché, è per via del fatto che papà mi ha guardato in modo severo. Però non era severo con me. In un attimo l’ho visto preoccupato. Infatti, ha cambiato espressione del volto e mi ha chiesto Ma… ti ha fatto qualcosa? Secondo me ha pensato che è un pedofilo. E io ho detto No, no. Che viene sempre da solo. Forse gli dispiace che non ha figli. E la moglie sta in casa, senza di lui. Per questo, ma non mi ha fatto niente. Sta sempre da solo, per questo. Così ho detto. Quello che beve l’ainechel oggi ha preso un quadernetto, ha stappato la birra, ha mangiato una falafel, poi si è messo a scrivere. Chissà cosa scrive. Io mi sono seduto al tavolo di fronte e ho iniziato a fissarlo di nascosto. Lui ha alzato lo sguardo e mi ha sorriso. Poi ho guardato papà e anche papà ha sorriso. Papà certe volte è tenero altre volte è burbero. La mamma e mia sorella non c’erano. Però c’era Karim, l’amico di papà che lo aiuta dietro al bancone. Karim è magro. Un po’ più alto di me. I capelli sempre rasati. Il mio papà è più grande di lui. Sono amici da

un sacco di tempo. Non c’era molta gente. Il signore dell’ainechel stava scrivendo. Poi ha finito la birra, sembrava felice. Ha chiesto un’altra birra. E papà gli ha chiesto Sei giornalista? E quello dell’ainechel ha detto No, scrivo storie, ma di lavoro faccio altro. Ci siamo! ho esultato dentro di me, ora scopriremo che lavoro fa, se ha figli. E allora guardo papà e lo incalzo, telepaticamente sprono a fargli altre domande. E papà gli porta la birra, poi si volta verso di me e mi fa l’occhiolino. E poi gli chiede se è sposato, se ha figli. E lui sorride e dice che non ha né moglie né figli.Allora per questo è sempre solo, adesso ho capito. E papà gli chiede che lavoro fa e il tipo dice che lavora con i bambini, teatro con i bambini. Allora è per questo che mi sta simpatico e non mi fa paura come quegli altri che vengono a bere e si ubriacano. Lui vuole bene ai bambini. E poi dice Magari avessi bambini, ho sei nipoti. Mi dispiace che sta solo. Vorrebbe avere una moglie e dei bambini. Poi ride. È troppo bravo. Alla fine papà gli ha chiesto di leggergli un po’ quello che scrive e lui ha letto questa cosa: Viene tutte le sere al ristorante del mio papà. Prende le falafel e un paio di birre. Mio padre lo sa che prende sempre birra. È una birra con la bottiglia verde. Dice sempre ainechel. Io sono rimasto di sasso, ma come diavolo può essere che scrive le stesse che ho pensato io? Papà ha riso e ha detto Bello! dopo me lo fai leggere quando lo finisci. Poi quello dell’ainechel mi ha guardato. Ha notato che avevo lo sguardo terrorizzato. Mi ha sorriso. E adesso io non sono più sicuro che mi sta simpatico. No, davvero, adesso quello dell’ainechel mi fa paura, non so perché.

Gianluca Garrapa è nato nel 1975, in provincia di Lecce, laureato in Lettere Moderne all’Università di Pisa, coconduce la trasmissione radiofonica RadioQuestaSera presso Punto Radio Cascina (Pisa); dipinge, scrive romanzi, racconti, poesie. È (stato) performer, comico e suonatore. Sarà counselor. VERDE

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AKAb - http://akab23.tumblr.com - http://mattatoio23.blogspot.it/ Partenza triste

AKA: acronimo dell’espressione inglese Also Known As usata per descrivere gli pseudonimi di un autore. B: La lettera deriva dall’antichissimo alfabeto lineare in cui il suono [b] era rappresentato da una casa. Collaborazioni: Nixon, Lamette, LaScimmia, Monipodio, Rolling Stone, The Artist, Puck, Mucchio, Il Manifesto, IlMale, Independent, Umore Maligno, Lobodilattice, Decomporre, Lolabrigida, Collettivomensa, Worm God, InPensiero, El Aleph, AntiTempo, Squame, Mr.Mango, Mamma, Illustrati, Bubka, e molte altre.


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Lungometraggi: Mattatoio - selezionato per la 60a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia; Il corpo di Cristo selezionato al Bellaria Film Festival; Vita e opere di un Santo - selezionato allo Stigma Film Festival di Palermo. Libri: ReVolver per Poseidon Press - Redux e PoP! per Grrrzetic; Le 5 Fasi per BD - Voci Dentro per Latitudine 42 - Come Un Piccolo Olocausto Un Uomo Mascherato e Monarch per Logos - Storia di una Madre e Human Kit per Alessandro Berardinelli Editore Premi: Leone di Narnia 2012 migliore graphic novel - Le 5 Fasi - Dummy; Attilio Micheluzzi 2013 migliore storia breve - Era de Maggio - AKAb


Nagasaki Daniele Sartini Aspettavamo che l’aereo arrivasse. Lo aspettavamo seduti sulla panchina, io e lei. Avevamo gli sguardi su punti diversi del cielo, come le nostre idee sul futuro. Io avevo paura e, forse, anche lei ne aveva un po’, ma non ci avrei giurato. Aspettavamo che l’aereo arrivasse e nessuno dei due parlava. Che cosa potevamo dirci? Niente. Non volevamo farci promesse che non avremmo potuto mantenere. Ho allungato una mano per cercare la sua e l’ho trovata esattamente dove immaginavo fosse: l’aveva abbandonata sulla coscia, di proposito, pensai, in attesa che qualcuno la adottasse. Permise che le mie dita intrecciassero le sue, e poi le chiuse in segno d’assenso o forse di tregua. Aspettavamo che l’aereo arrivasse perché così aveva detto il radiogiornale. La televisione, invece, non ne parlava, raccontava altro, provava a distrarre le persone. Avevamo parlato di fare un viaggio, di prendere il primo volo e andare a vedere quanto il VERDE

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mondo fosse diverso da quella fetta d’umanità che ci era stata assegnata alla nascita. Ricordo di averne discusso durante la cena della vigilia di Natale, io e lei, davanti a due calici di vino mentre lunghi silenzi ci schiacciavano le teste come se conoscessero il nostro destino. Nella vita avrei voluto navigare, volare o almeno avere il coraggio di assecondare


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le mie paure. Lei invece era più razionale, lo era sempre stata: per lei la Luna era un satellite, io credevo che fosse una specie di romanzo da sfogliare. Quante volte abbiamo discusso di tutto questo. Dopo l’ultimo brindisi ci eravamo baciati. Le sussurrai che avremmo preso un aereo. Avevo già i biglietti in tasca, quel Natale, ma non li ho mai tirati fuori. Non ho avuto il tempo di farlo. È comico verificare che riusciamo a quantificare il tempo solo quando ci viene a mancare, comico e drammatico. Così ho capito che il tempo è come una scarpa: ti sembra ancora nuova, e intanto sotto si consuma senza che tu te ne renda conto. Il ronzio dei motori iniziava a farsi sentire in lontananza, eppure era ancora presto. Sarà stata la nostra immaginazione ma sembrava molto più vicino di quanto non fosse. Lei appoggiò la testa sulla mia spalla, aveva gli occhi vuoti prima ancora che la polvere glieli sommergesse. Aspettavamo che l’aereo arrivasse seduti su una stupida panchina e non dentro un bunker. Ne avevamo discusso il giorno in cui qualcuno si era fatto avanti, non ricordo chi, offrendoci riparo in un posto sicuro. Fu una lunga discussione ma senza toni accesi. Lei disse di no, che non importava, che tanto la bomba ci avrebbe spazzato via lo stesso, avrebbe raso al suolo le case e polverizzato i nostri cuori. Mentre raccontava la sua verità, i miei occhi erano diventati lucidi nonostante gli sforzi: era come se fosse riuscita a mostrarmi ciò che sarebbe accaduto. La sua freddezza mi spaventava, era ancora più grigia del nostro futuro ma aveva ragione lei, su tutto, come sempre. Immaginai la bomba fremere dentro la pancia dell’aereo, pensavo a lei come a un bambino davanti a un pacco regalo: la stessa smania di strappare la carta, ma qui c’erano in ballo case, animali, persone. Tutto quel metallo mi dava i brividi e un senso di freddo mi sgualcì la pelle. Non era il freddo ciclico che rapisce la natura per poi rilasciarla; io sentivo il freddo muto della morte, quello che toglie il respiro e

lo chiude dentro centinaia, migliaia, milioni di bare di legno. Le nostre bare di legno. Alzai gli occhi verso il cielo, lei li abbassò verso terra. Sembra una supposta di metallo, che male può farci? pensai. Gli avevano dato anche un nome. Come si può dare un nome a una bomba? Carica, decolla, sorvola, sgancia e distruggi ma non dare un nome alla bomba perché altrimenti diventa qualcosa di troppo personale. Fat Man. L’avevano chiamata Fat Man, uomo grasso. Anche se di grasso non sarebbe rimasto nulla. Non era un mio problema ma quel nome faceva davvero schifo e lo gridai. La mia voce sparì dentro il rumore dell’aereo mentre le sue eliche tranciavano il nostro cielo. Il sibilo non fu fastidioso, però rimase in testa per molti secondi e lì lo conserverò per sempre. Non sentimmo alcun dolore, o forse sì, ma non volevo dargli questa soddisfazione. Aspettavamo che l’aereo arrivasse e arrivò. Ci siamo baciati un attimo prima che Nagasaki sparisse. Lei mi aveva chiesto di tenerci per mano, ne avevamo parlato, mi aveva quasi implorato, «non baciamoci, per carità», ma un secondo prima dell’impatto si rese conto che quello sarebbe stato l’unico modo per diventare immortali. Mi tirò a sé, e le mie labbra si stamparono sulle sue come i nostri profili sul muro dietro la panchina. Aspettavamo che l’aereo arrivasse e arrivò, puntuale. Daniele Sartini (Massa, 4/5/79) vive a Sarzana e lavora per una multinazionale farmaceutica. Ha pubblicato L’isola dei pellicani (Del Bucchia Editore, 2007); Sacrificio d’alfiere (Del Bucchia Editore, 2010) e Campobello (Del Bucchia Editore, 2013). Un suo racconto è presente nell’antologia Sappy (Edizioni La Gru). www.danielesartiniwriter.wordpress.com www.danielesartini.it

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BLITZRECENZION S. H. Palmer

BLITZRECENZION

Qualcuno che conoscevo

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«Com’è che diceva quel proverbio? Ah sì... diceva che l’unico che non sente la puzza del morto è chi ce l’ha in casa.» (shanduziopalmer.tumblr.com)

https://www.youtube.com/watch?v=ZIvBwGsxgBE Fotografa il codice QR con il tuo cellulare e guarda il video di youtube

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storie nere STORIE NERE Luca Carelli

Millenovecentoottantadue. Tre proiettili scamiciati esplosero da una P38 colorata i ventidue anni che fino ad allora avevo vissuto a Bologna, colpendo le ginocchia di un infame che presto o tardi avrebbe parlato. Il resto di uno prese male la mira, scansò le rotule e rovesciò la prospettiva in quel cranio inaddomesticato che pure non meritava di morire. Alle nostre spalle l’università registrò in un momento i motivi dei nostri movimenti: non era vero che tutto stava per finire perché nulla, fino ad allora, aveva mai avuto inizio. Lo avevamo appena capito, ma non era stata una scoperta. Se avessi creduto davvero a una fine diversa, se avessi cercato una nuova desinenza da piantare ai margini della mia esistenza, se non avessi confuso le revisioni della mia incertezza per una agnizione indiretta, avrei ricevuto lo stesso, da un ‘68 alla rovescia, un quarto di secolo di sicurezze da trascorrere in una tripla cella della Dozza? Me lo sono chiesto a lungo, ma è una domanda a cui non ho mai saputo rispondere. Quante volte avevo cercato di dare una forma ideale a quello spazio imprigionato che tentavo di rendere familiare? Almeno mille, e in un modo soltanto. La verità è che non avrei potuto fare nulla per evitarlo perché il caso aveva già deciso di ammantarmi.

le stesse aule e i lunghi corridoi che anni dopo Marta avrebbe percorso ogni mattina, fino al 9 maggio 1997. Diciannove anni prima una Renault 4 rossa veniva trasmessa al mondo in piombo grigio come lapide e sineddoche di un’epoca conclusa. Marta aveva 3 anni il giorno in cui gli artificieri intagliarono un’entrata a una storia senza uscita, e probabilmente restò a casa come in un giorno qualunque di festa. Chissà se quell’unico colpo che le incendiò la nuca investì anche il ricordo di quella mattina bianca e nera, così diversa dal solito. Chissà chi e quando decise di raccontarle quel che era successo e perché. Forse Marta imparò a leggere da sola le immagini estemporanee di quel funerale ossessivo: quante volte avrà costeggiato il Bottegone, quante volte avrà attraversato quella strada e letto quella targa? E quante volte si sarà domandata se c’è un momento preciso in cui si comincia a morire lentamente?

Marta

Dopo quella sera Roma mi nascose per quattro anni tra rovine di un tempo detournate e alberghi della mente in fiamme. Passavo le giornate in periferia, in studi medici abusivi o in saloni di barbieri politicizzati. Il sabato, in università, infestavo VERDE

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Marta camminava senza fretta nella città universitaria. Pensava a quello che Iolanda, alla sua sinistra, le stava dicendo, pensava a quella porta aperta che da lontano riusciva già a vedere, pensava alla macchina che le passò davanti costringendola a spostarsi. In un altro punto dell’universo, differente galassia, stesso spazio, da una finestra, una qualsiasi, una pistola sparì sparando un proiettile soltanto. Un colpo che ha steso Marta strappando una data alla memoria degli eventi, in una dimensione più profonda dove ciò che non ha avuto inizio non avrà mai una fine.


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Il 9 maggio 1997 Marta Russo viene raggiunta da un proiettile vagante all’interno della città universitaria della Sapienza di Roma. La ragazza, ventiduenne studentessa di Legge, muore dopo tre giorni di coma. Una contestata e contraddittoria indagine della polizia scientifica individuerà nella finestra dell’aula 6 dell’Istituto di Filosofia del diritto il punto di provenienza del colpo. I sospettati sono gli assistenti universitari Giovanni Scattone (che avrebbe sparato senza movente e davanti a testimoni), Salvatore Ferraro (nella cui borsa sarebbe stata nascosta la pistola mai ritrovata) e l’usciere Giovanni Liparota (che avrebbe assistito alla scena). I tre sono accusati dall’assistente Maria Chiara Lipari e da Gabriella Alletto, la cui testimonianza giunge dopo una lunga serie di ritrattazioni e un controverso interrogatorio video filmato in cui la teste giura ripetutamente sui suoi figli di non sapere nulla. Dopo un processo annullato, nel 2003 la Cassazione condanna Scattone

a cinque anni e quattro mesi per omicidio colposo e Ferraro a quattro anni e due mesi per favoreggiamento. Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito. È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. lucacarelli60@gmail.com Misteri d’Italia: Marta Russo Delitti: Marta Russo (stagione 5, puntata 6) Interrogatorio Gabriella Alletto


Se tu mi leggi, ora, e io sono morta, ricorda che io non volevo morire, ricorda che io avrei voluto essere immortale e non lasciare spoglie vicarie mortali sulla terra.


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