editoriale
Cominciamo dalla copertina, diversa da quelle a cui VERDE è abituata: il bel mostro lamettoso con tanto di coltelli è opera di Simone Lucciola, che ha disegnato appositamente per noi una sua personale interpretazione del mito del kraken, reso celebre, tra gli altri, dai versi di Alfred Tennyson (una delle fonti di ispirazione per il Cthulhu di H.P. Lovecraft). La nostra creatura, però, non ne può più di dormire minacciosa abissata nei fondali marini, e ha finalmente deciso di risvegliarsi, anche se, a quanto pare, la fine del mondo non è in agenda, almeno fino alle prossime elezioni o all’annuncio del nuovo film del nostro lettore Paolo Sorrentino. Il kraken è lì, fluttua nel grigio con eleganza, contornato dai nomi delle autrici e degli autori apparsi nel 2013 sulle nostre pagine. Sono cinquanta e sono proprio tutti, gli scrittori, i poeti, gli illustratori, i musicisti, gli artisti e l’ex-carcerato che hanno permesso a VERDE di non saltare mai una uscita, regalandoci contributi importanti, a volte sorprendenti, spesso emozionanti, in ogni caso validi e belli da leggere. Ripubblicarli tutti, in un unico pdf, sarebbe stato inutile e non avrebbe avuto senso (e sì che che siamo bravi ad autocelebrarci e a inondare Internet e i social network di roba nostra!): abbiamo deciso dunque di fare uscire un numero fuori serie con una selezione minima di racconti. Sono diciassette, un campione rappresentativo del nostro bel 2013 e, per esteso, della nostra linea editoriale. Un primo passo per capire che cos’è VERDE e quali animali strani contiene. Un modo per ringraziare chi ha scritto e scrive per noi, chi ci legge, chi ci sostiene.
VERDE
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PARTNERS IN CRIME
for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY
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VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it VERDE
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dove siamo
indiZI
p.2 Edit p.6 Baby thank you (Gianluca Liguori) p.10 La mia piccola Katie (‘A Gatta Morta) p.14 Sogni e bisogni (Alda Teodorani) p.20 L’ultimo viaggio (Bruno Ballardini) p.22 Welcome Home… Condominium (Luigi Bonaro) p.27 Il salone di Emma (Andrea Frau) p.30 L’amante del boia (Patrizia Pesaresi) p.32 Settantacinque percento (S.H. Palmer) p.36 Rachid (Valerio Evangelisti) p.40 La Colombo non perdona (Luca Piccolino) p.44 Un giorno dopo l’altro (Lorenzo Iervolino) p.46 Camilla (Luca Carelli) p.52 Baro Rom (Pier Paolo Di Mino) p.56 Le tarme erano negli intarsi (Pierluca D’Antuono) p.58 The Gift (Lou Reed) p.62 La mucca (Francesco Cortonesi) p.64 Novanta (Jesus Adentro)
Numero 8 gennaio 2013
Baby thank you Gianluca Liguori La giraffa creola mi tiene per la mano e mi conduce in un vicolo buio. Ci fermiamo davanti a una porticina, è nera; la giraffa prende il telefono. I’m here, dice, e dopo qualche secondo, clic, si apre la porta. Davanti a noi un atrio enorme. Ci sono delle scale e, poco sotto, un’altra porta. Entriamo ancora, poi attraversiamo un corridoio semibuio. Mi sorride e dice di non preoccuparmi. Comincio a preoccuparmi. Alla fine del corridoio siamo in un cortiletto. Da un balcone al primo piano un omaccione nero e ingioiellato come quelli che si vedono solo alla tivvù ci dà una voce e fa il gesto di salire. La giraffa mi prende per la mano e tira. Arrivati davanti alla porta c’è il tipo che ci aspetta. Si fa chiamare Flower, dubito sia il suo vero nome. La tipa chiede quanta erba voglio. Flower ne offre cinquanta sterline. Affare fatto. Mi passa una bustina. Tiro fuori il piccolo malloppo dalla camicia e pago. Lui sorride. La giraffa gli dice qualcosa nell’orecchio, lui va in un’altra stanza e torna con un mazzo di chiavi. Flower ci saluta sorridendo coi denti luccicanti. Una volta fuori, mi avvio verso la porta d’uscita, ma la giraffa dice di seguirla per le scale. Saliamo una rampa e ci troviamo in un altro cortiletto. Guardo su: il cielo è limpido, stranamente argenteo. La giraffa mi tira per la mano fino a una porta blu, infila la chiave nella toppa, poi VERDE
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dice: ready for paradise? Le sorrido e le tocco il culo. Le chiedo: drinks? Don’t worry, mi bacia sulla fronte. Entriamo, ancora scale, ho del tutto smarrito il senso dell’orientamento; infine ci troviamo in un grande salone, in fondo c’è una porta: entriamo in una camera da letto. Dice di spogliarmi e aspettare. Dopo qualche minuto torna con una bottiglia di Veuve Clicquot e due flute. Sono già nudo. La giraffa stappa la bottiglia e riempie il bicchiere. Brindiamo. Poi comincia a baciarmi sul collo, sui lobi, mi infila la lingua nell’orecchio; ho l’impressione che mi stia solleticando il cervello. Sono onde e brividi, il cazzo sta esplodendo. Lei si china e lo prende in bocca. È il suo lavoro. La sua lingua saetta sopra e sotto il glande. Chiudo gli occhi. Era questo il paradiso di cui parlava. Vengo. Lei mi sorride e dice qualcosa che non comprendo. Le sorrido anche io. Settecento sterline, mi dice mentre mi dà il resto. In quel momento mi ricordo dei soldi nelle mutande. Per fortuna ho ancora i calzini. Mi chiede dove ho preso tutto quel denaro. Le dico della vincita e della scommessa. Non ne avevo mai parlato a nessuno. È la prima volta che vado con una puttana. Se non fosse per le settecento sterline sembrerebbe un’amante rimorchiata in una notte fortunata. Ma a me dei soldi non frega niente, e poco manca che mi innamoro. Ada
non mi aveva mai fatto un pompino. Bea me li faceva, ma non era brava. Le chiedo se ha una cartina, e quando risponde di no mi accingo a preparare uno svuotino. La giraffa gioca intanto con una mano col mio pisello, con l’altra prende il flute e beve in un sorso lo champagne, poi riempie di nuovo il bicchiere. La giraffa è una pantera è una stella è un mondo ignoto è la bellezza è la grazia è. Le poggio lo spinello sulle labbra. È erba di prima qualità, ha un odore fortissimo. Mentre fumiamo beviamo ancora un flute a testa. Poi lei si alza e mi mette la fica in faccia. Lick, dice. Obbedisco. La giraffa ha la fica larghissima. Ha una clitoride enorme, è quasi quanto il mio mignolo, mi entra in bocca e mi sembra di fare un pompino a un cazzetto. Scendo attraverso le labbra e risalgo, mi aiuto con un dito, ma ho impressione di muoverlo nel vuoto. Infilo un secondo, un terzo dito, ma niente. Tiro fuori la mano e stringo il pugno, e l’infilo dentro. Gioco con la lingua sul cazzetto e faccio dentro-fuori col pugno, roteandolo di tanto in tanto. Mi sento estraneo da me stesso e dal momento, non so chi sono. Sono qui e potrei essere ovunque, in nessundove. Non ho mai visto una cosa così. La fica della giraffa è un mostro spaventoso, decido di affrontarla. Quando alzo la testa la giraffa ha in mano un preservativo, è arancione, fosforescente. Me lo mette. Noto il mio cazzo fosforescente brillare riflesso in uno specchio che non avevo notato prima. Vado per montarla ma lei si gira e si mette in ginocchio. Allunga le mani per aiutarmi e se lo infila.
Mi muovo, ma non sento niente, come non fossi dentro. Wait, le dico e mi distacco. Lei lo riprende in mano e mi aiuta, questa volta mi sa che le sono dentro. Le stringo i fianchi, chiudo gli occhi e colpisco in maniera più decisa. Vengo subito, e sento il cazzo liberato da una presa. Sospetto che me lo stringesse tra le dita, ma non oso dirlo.Temo di esser stato raggirato, ma ho timore di reclamare. Lei ha appena riempito di nuovo i due flute e sta sbriciolando dell’altra erba. La giraffa mi dice che sono strano, che devo stare attento ad andare in giro con tutti quei soldi. Poi facciamo ancora sesso, ma non ho voglia. Finito lo champagne, va a prendere un’altra bottiglia. Ne beviamo metà, fumando ancora un po’. La giraffa ha due occhi a spillo, rossissimi. Farfuglia cose e ride. Mi addormento così. Quando mi sveglio trovo un biglietto. Dice di uscire prima che sia buio. Poi più sotto, dentro un cuore disegnato male con inchiostro nero, una scritta: Thank you. Il racconto nasce come naturale prosecuzione dei racconti Baby Dolly, pubblicato nell’antologia di Zero91 “Biglietto, prego” e Baby don’t worry pubblicato su “TornoGiovedì” e continuerà da qualche altra parte. Gianluca Liguori, nato a Battipaglia nel 1982, fondatore di Scrittori precari e redattore di “Frigidaire” e “Il nuovo Male”. Ha fatto parte di TerraNullius, PrecarieMenti e Scrittori Sommersi. Ha esordito con il romanzo Dio è distratto (Npe 2007, Tespi 2008). VERDE
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Numero 9 febbraio 2013
Cristiano Baricelli http://www.cristianobaricelli.it/ - Omaggio a MOTOSEGA (personaggio inventato da Akab http://mattatoio23.blogspot.it )
La mia piccola Katie ‘A Gatta morta Dovreste vederla, la mia piccola Katie. Vi perdereste nei suoi grandi occhi scuri e vi ritrovereste innamorati di lei. Vorreste fosse vostra, solo vostra, se solo sentiste il suono della sua flebile voce. La trattereste anche voi come una regina. Pensate, da quando vive con me non deve neanche lavorare. Non potevo sopportare che la fatica del lavoro contaminasse la sua incantevole bellezza e ancora meno che un lurido manager senza scrupoli le facesse da padrone. O peggio: le mettesse gli occhi addosso. Però non volevo neanche che la scomparsa improvvisa del suo stipendio danneggiasse l'altissimo livello di vita a cui ci eravamo giustamente abituati. Ho iniziato a lavorare di più, ecco cosa ho fatto. Ore e ore di straordinari per la mia piccola Katie. Ma questo è niente. Non tralascio nessun particolare quando si tratta della sua felicità. Da quando le ho permesso di lasciare il lavoro, non solo deve dedicarsi solamente a cucinare e tenere casa pulita, ma non deve neanche farlo da sola. Quando Katie cucina, ho pensato, cucina per noi due, e anche quando pulisce lo fa per noi due. Per questo ho chiesto a Katie di cucinare e pulire solo in mia compagnia. Ovviamente questo vuol dire che Katie inizia a cucinare solo quando io ritorno a casa e che devo aspettare molto tempo prima di poter mangiare, ma il piacere che provo nel condividere con lei i suoi piccoli lavori vince qualsiasi attesa. Se non fosse la mia piccola Katie, ma la vostra piccola Katie, anche voi vorreste starle sempre vicino. Essere sempre pronti a proteggerla. E se state VERDE
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pensando che io sia troppo premuroso è solo perché non è la vostra piccola Katie e quindi non potete capire. Neanche la spesa deve fare, la mia piccola Katie. Anche a quella penso io. Il sabato pomeriggio. Compro i migliori prodotti esistenti sul mercato, che, come potete immaginare, coincidono spesso con quelli più costosi. Qualità commestibile, la chiamo io. Non sono mica come quegli uomini che costringono le loro donne ad acquistare prodotti di bassa qualità, in qualche discount di periferia. No, la mia piccola Katie ha tutto quello che le serve per preparare una cena prelibata con estrema facilità. Lo faccio anche per me, è vero, perché dopo una giornata di lavoro non c’è niente di peggio che mangiare male, ma lo faccio soprattutto per lei, perché le donne, lo sapete, ci restano male quando sbagliano qualcosa in cucina e io voglio evitare che la mia piccola Katie si trovi in una condizione così umiliante. Se devo essere sincero, è capitato che commettesse qualche errore. Una volta, per esempio, ha dimenticato di aggiungere il sale nell’acqua della pasta. Un’altra volta, invece, ha fatto bruciare le patate al forno. Ero molto stupito: avevo ridotto al minimo il margine di errore e Katie era riuscita comunque a sbagliare. Chiaramente in quelle occasioni non le ho mai nascosto il mio dispiacere: il nostro rapporto si basa sulla sincerità. Katie non è il suo vero nome. Katie si chiamava Veronica, ma ho sempre trovato che Veronica fosse un nome volgare. Katie invece è perfetto. Non potete immaginare quanto le si addica.
Dovreste vederla mentre si muove, la mia piccola Katie.Tutti i suoi movimenti sembrano avere unicamente lo scopo di servirmi. Di regalarmi felicità. Sa come farmi sentire un uomo, la mia piccola Katie. Non come molte donne che devono a tutti i costi gridare al mondo la loro emancipazione, cercando di emulare e dominare l'uomo, con il deprimente risultato che faticano il doppio di un uomo per ottenere la metà. Non sono forse ancora più schiave se costrette, tutti i giorni, a presentarsi in orario al lavoro e dimostrare di essere all'altezza del loro ruolo? Non è davvero libero, in fondo, solo chi non deve lavorare? Non è forse libera la mia piccola Katie? Che seni, la mia piccola Katie. Dovreste vederli come si muovono delicati e leggeri sotto la sua maglietta un po' lenta. E che pelle, la mia piccola Katie. Così bianca. Così nobile. Dovreste sfiorarla, quella pelle. Sentireste tutta la sua fragilità. La amereste, proprio come me, quella fragilità. Chiede la protezione di un uomo, quella fragilità. Non ci credereste mai, ma prima di me la mia piccola Katie era fidanzata con un uomo che la portava sempre alle feste e poi si metteva a parlare con chiunque, lasciando Katie sola, in mezzo a degli sconosciuti, in balia delle loro tattiche di conquista, dei loro sporchi sguardi da seduttori di seconda mano. L'uomo che doveva proteggerla permetteva che altri uomini parlassero con lei e mettessero in pratica le loro strategie studiate allo specchio per portarsela via. Non a caso è proprio in una di quelle feste che Katie ha incontrato me e io ho incontrato lei. Credo sia stato il giorno più bello della sua vita. Ma a forza di parlare non mi sono accorto che è ormai passata l'1.00.
Dovete sapere che ogni notte, all'1.00 in punto, porto la mia piccola Katie a fare una passeggiata al parco sotto casa. Perché così tardi?, vi starete chiedendo. Perché così tardi non c'è nessuno e io e la mia piccola Katie abbiamo tutto il parco per noi. Mi rendo conto che come rito di piacere possa apparire alquanto rigido. Potevamo accordarci, io e la mia piccola Katie, su un orario più approssimativo, intorno all'1.00, dieci minuti prima, venti minuti dopo. Sono convinto però che nella vita sia importante avere delle abitudini. So che molti preferiscono chiamarle “regole”. E le abitudini non sono, forse, delle regole mansuete? Inizialmente, lo ammetto, ero più elastico con l'orario. Ma mi è capitato più di una volta che, rivolgendomi a Katie per dirle di uscire, la scoprissi già addormentata. Per me, che considero questo momento il più bello della giornata e lo vivo a tutti gli effetti come un appuntamento romantico, fu un duro colpo. Da allora ho introdotto l'orario fisso: l'1.00 di notte. Il fatto che Katie non si sia più addormentata dovrebbe essere una dimostrazione più che sufficiente dell'efficacia del mio accorgimento. Infatti anche questa volta è sveglia, nonostante sia ormai l'1.15. Non preoccuparti, mia piccola Katie, non ti farò aspettare ancora. Vado ad aprire la gabbia. Prendo il guinzaglio e lo aggancio al suo collare. Andiamo, mia piccola Katie. Sono nata e cresciuta a Roma, ho 30 anni e sono sempre stata attratta dal legame che scorre tra mente e corpo. Ho scritto in passato alcuni racconti erotici firmati con diversi pseudonimi e da due anni faccio parte del gruppo Poeti der Trullo. Per vivere faccio la sarta, spesso lavori ordinari, ma a volte mi occupo di abiti d'epoca. La mia scrittura indaga sul discorso amoroso e sul terreno dell'erotismo, esplorando quei piaceri della carne che nascono sempre prima nella mente.
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Numero 10 marzo 2013
Sogni e bisogni (Maslow) Alda Teodorani Ero davanti alla mia scuola, un edificio grigio alto cinque piani, di cemento mai verniciato, grandi portoni neri e disperazione alle finestre di cosa fare una volta fuori da lì. Avevo fumato cannabis negli ultimi due anni di corso praticamente ogni giorno, prima di entrare, nascosto con Paola dietro un muretto, e ogni giorno eravamo arrivati in ritardo, eppure i miei voti erano sempre buoni, però, a pochi minuti dall’inizio di quello che doveva essere il mio esame di maturità, non riuscii a trovare la forza per spingere il battente del portone ed entrare. Me ne restai là fuori, seduto sul gradino della casa di fronte, osservando la caserma dei Vigili del fuoco alla mia sinistra, guardandoli muoversi nel cortile con le loro mimetiche verdi. Fino a quel momento avevo pensato di essere felice. Ora capivo che non ero mai stato davvero felice perché avevo sempre paura di perdere. Quella sera non tornai a casa e quando la fame si fece più acuta, verso mezzanotte, mi misi a frugare nei bidoni fuori dal supermercato per trovare qualcosa da mangiare, dividendo VERDE
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la mia cena frettolosa coi topi che abitavano in quella zona. Da quel momento la mia vita è cambiata radicalmente, immagino che i miei genitori mi abbiano cercato, ma non mi hanno mai trovato. Ho fatto in modo che non mi trovassero. Da quel momento le mie uniche preoccupazioni sono state bere, mangiare e dormire, trovare un posto sicuro per farlo, e trovarne uno un po’ appartato per pisciare e cagare. Ogni tanto, mi capitava di conoscere qualche persona nuova, ogni tanto facevo sesso, scopate frettolose e orgasmi poveri, quasi come mi mancasse un liquido dentro ad arricchirli. Non mi fregava un cazzo degli altri, se cercavano di portarmi via il mio pasto ringhiavo come un cane ma non mi sono mai fermato più di una notte in un posto. Poi, spinto dal freddo dell’inverno che avanzava, ho trovato rifugio alla casa cantoniera sulla vecchia statale che nessuno usava più. Da poco era stata costruita una nuova strada, voluta da un politico perché gli faceva comodo per tornare a casa più velocemente la sera. La statale era stata lasciata a se stessa: dalle vaste crepe nell’asfalto spuntavano le prime piante
pioniere, la pianura era deserta, il grano era stato appena seminato e la raccolta sarebbe avvenuta solo a tarda primavera. La casa si trovava in mezzo ai campi, era l’ambiente ideale per stare per conto mio senza essere disturbato. C’era anche un orto che, inspiegabilmente, pareva animato da vita propria e mi fruttava un po’ di cibo. Quando l’orto non bastava e avevo davvero molta fame facevo lunghe escursioni con la bicicletta, rubata al supermercato: rimediavo qualcosa da mangiare nelle case deserte. Era un pomeriggio nebbioso e cupo di dicembre quando arrivai alla casa rosa. Niente auto parcheggiate nel vasto cortile, nessuno. La stalla, come è successo in molte case di campagna quando le bestie da soma sono state sostituite dai motori, era stata trasformata in garage e il grande portone rosso era aperto. Sapevo per esperienza che là dentro avrei potuto trovare una porta che conducesse in cucina. Ero entrato, ed eccola lì la tipica porta di legno smaltato di bianco, la maniglia di acciaio inox: mi sentivo tranquillo, come fossi a casa mia, l’avevo aperta con noncuranza, ero entrato. Dentro la grande cucina piastrellata di bianco, accanto a un caminetto spento, c’era un vecchio che mi guardava con i suoi occhi acquosi, leggermente sporgenti.
Le palpebre inferiori staccate un poco dall’orbita lasciavano intravvedere un solco slabbrato e sanguinolento. Non gli avrei fatto niente se non avesse urlato. E invece lo aveva fatto. La sua voce era uscita a fatica, all’inizio, come il rombo appena avvertibile e lontano che precede il tuono. Poi s’era innalzata, blaterava qualcosa sulla sua casa, sulla mia presenza lì e continuava a urlare sempre più forte, insopportabile. Me ne sarei andato se non avessi avuto tanta fame. E invece avevo preso l’attizzatoio dal camino e l’avevo colpito in testa. Avevo continuato a lungo. Non so il momento esatto in cui è morto, non ne ho idea. Forse non stavo nemmeno guardando. Avevo frugato negli scaffali, trovando una gran quantità di cibo. In un cassetto c’erano anche dei soldi. Avevo trascinato via tutto dentro un sacco di juta trovato dentro il garage, arrancando sulla bicicletta. In seguito l’avevo fatto ancora e ancora. Ogni volta una specie di gioia selvaggia galoppava dentro di me, e una volta tornato alla mia casa in mezzo ai campi mi sentivo bene e al sicuro. Sicuro di avere sempre qualcosa da mangiare, sicuro di non essere mai trovato e punito per quel che avevo fatto. E avevo ragione: in mezzo a quel nulla, non c’era niente che potesse raggiungermi. Per la maggior parte del tempo dormivo, mangiavo, mi masturbavo. Ogni tanto andavo VERDE
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a procurarmi il cibo, a volte mi chiedevo se i giornali avevano parlato della gente trovata morta nelle fattorie, o di quella bambina tanto pallida che avevo violentato in un sottoscala. A volte mi stendevo sul letto guardando il soffitto, il pensiero oziava sul mio passato ma non mi veniva mai in mente un granché. Con il ritorno del tepore, il desiderio di stare in mezzo alla gente e di parlare con qualcuno s’era fatto sentire talmente forte che avevo raggiunto con la bicicletta il tracciato della ferrovia, poi m’ero avviato a piedi sulle rotaie. Avevo camminato fino al tramonto, mangiando ogni tanto un pezzo di pane e un po’ di formaggio. Ero arrivato in città il giorno dopo. Avevo cercato il municipio e la sede dei servizi sociali. Avevo chiesto assistenza e un lavoro, mi avevano accontentato. È stato cosi che sono diventato un bravo cittadino, quello che chiamano un uomo onesto. La vita alla casa colonica era ormai qualcosa di molto lontano, tanto lontano che non ci avevo più pensato. Ora tra i colleghi di lavoro, al call center dell’ufficio fiscale, avevo degli amici, che vedevo la sera del sabato per una bevuta o durante la settimana per giocare a calcetto. È questo che si fa quando si hanno degli amici. E poi una ragazza del reparto acquisizioni aveva iniziato a mettersi a sedere accanto a me al pub.Aveva gli occhi un po’ troppo vicini, i capelli di un biondo un VERDE
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po’ troppo scuro e il naso un po’ troppo grande. Ma per quello che avevo in mente di fare con lei andava benissimo. E così, un sabato sera dopo l’altro passato a casa sua, nel suo grande letto con le lenzuola bianche di sua nonna, è successo quel che non avrei mai né pensato né voluto. Perché l’amore è un bisogno, non lo sapete? Le chiesi di sposarmi. Adesso che ci penso, affacciato al settimo piano, è come se un grande verme dalle bocche a ventosa, di quelli che si vedevano nel laboratorio di scienze a scuola, fosse scivolato dentro di me in qualche modo che non capivo, e avesse deposto le sue uova nel mio intestino, come se i suoi figli avessero cominciato a circolare nel mio corpo, sotto la mia pelle. È come se improvvisamente tutto quello che ero fosse stato contaminato da qualcosa di altro, che prima non conoscevo. È un bene, è un male? Non lo so. Ho continuato a vivere la mia vita così, con le mie abitudini, un giorno dopo l’altro. Ogni tanto c’era qualcosa che si muoveva da qualche parte, tra lo stomaco e la gola, come un senso di ansia per qualcosa di brutto che sta per succedere. Mi sono messo a dipingere. Prima ho immaginato dei grandi alberi con le foglie pungenti e accartocciate, su un fondo dorato. Sono alberi che esistono solo nella mia mente, è questo il loro fascino. Ho dipinto donne con la pelle grigia su un fondo nero. Donne con il seno grande,
i capezzoli enormi, che però avevano il volto velato, erano senza braccia o senza gambe, oppure senza occhi. Come se mancasse sempre qualche pezzo, erano bambole rotte che non si potevano aggiustare. Ho venduto anche qualche quadro, ho esposto in una galleria e la sera del vernissage mi sono sentito al centro dell’attenzione. E poi un giorno mi sono svegliato con questa idea, che tutti i miei amici avevano dei bambini e io no. Perché io no? Cosa avevo di diverso dagli altri? Pensavo alle guanciotte paffute di un bel pupo tra le mie braccia. Pensavo che gli avrei insegnato a giocare a calcio, saremmo andati alle partite e sarei stato il suo migliore amico.E poi l’ho detto a mia moglie. Che dovevamo avere un bambino, o anche due o tre. E lei era felice. Quando lei è rimasta incinta abbiamo deciso di comprare una casa. Avevo sempre pensato che la felicità fosse un tetto, e io lo stavo raggiungendo. Stavo risolvendo tutta la mia vita. Ho trovato un attico al settimo piano con un grande terrazzo. La sera avremmo cenato là fuori con i nostri bambini, avremmo acceso le torce alla citronella, avremmo portato fuori la tv e avremmo guardato cartoni animati o programmi televisivi. Abbiamo stipulato un contratto, e il giorno che ci hanno dato le chiavi mia moglie doveva andare dal ginecologo. Ho mal di testa, le ho detto, vado a casa. Era vero, sono andato a
casa, la mia nuova casa. L’abbiamo comprata insieme ma io lo so che è più mia che sua, come il bambino che lei farà sarà più suo che mio. Sono uscito in terrazzo, avevo portato una bandiera dell’Italia e l’ho attaccata al punto più alto, vicino alla parabola della televisione satellitare, e poi mi sono affacciato dal mio settimo piano. Ho pensato a quello che ero e una sensazione di vuoto mi si è dilatata dentro alla testa, così forte che ho pensato potesse farla gonfiare e esplodere, con tutto il cervello che scoppiava di fuori come quando ti casca un cocomero. Mi sono sentito ancora in quel modo, come se qualcosa di estraneo e strisciante si fosse impossessato di me. Continuavo a stare affacciato al balcone, stringendo forte il ferro tondo del parapetto. Guardavo giù, le teste della gente che si muovevano, si fermavano, si incrociavano. E in un attimo mi sono accorto che non avevo mai realmente saputo di cosa avevo bisogno. Alda Teodorani, autrice di culto dell’horror noir italiano, ha pubblicato numerosi racconti e romanzi per diverse case editrici, e nel corso degli ultimi 20 anni ha firmato alcune delle più visionarie pagine della letteratura. Insegna scrittura creativa alla Scuola Internazionale di Comics di Roma. I suoi racconti hanno ispirato, tra gli altri, i film presenti nel DVD Appuntamenti Letali prodotto da Filmhorror.com. Il suo website è www.aldateodorani.it. VERDE
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Numero 11 aprile 2013
Nico Piancastelli - https://www.facebook.com/nicopiancastelli
L’ultimo viaggio Bruno Ballardini Ridley si adagiò stanca sulla piattaforma operativa di prua. Sebbene fosse quella la postazione di lavoro su cui trascorreva più ore al giorno, era anche il posto più comodo della nave dove spesso si fermava per recuperare. Ma la sua giornata non era ancora finita. Indossò il casco con il visore. Il velivolo senza equipaggio che doveva condurre sull’obiettivo sembrava lontano anni luce, eppure nel visore era come se l’avesse davanti a sé. Infilò le mani nei due joystick. Uno scatto metallico e i cinturini dei controller si chiusero automaticamente attorno ai polsi. I led si accesero a intermittenza per un rapido checkup. Tutto era in ordine. Digitò i comandi in uno stato di dormiveglia. Joystick sinistro: pulsante nero, dito medio, sblocco del sistema; pulsante giallo, dito indice due volte, annullamento della forza gravitazionale virtuale che all’interno della nave permetteva di simulare la gravità terrestre; pulsante rosso, premendo a lungo con il pollice, posizionamento dell’operatore a mezz’aria. Ridley scelse la posizione più comoda manovrando il joystick nelle quattro direzioni, fino a trovarsi a galleggiare morbidamente nel vuoto a pancia in sotto. Ripeteva automaticamente le stesse operazioni fatte migliaia di volte. Joystick destro: pulsante nero, dito medio, apertura dell’alloggiamento del minuscolo veicolo di servizio che doveva far levare in volo; pulsante bianco, dito indice, accensione del propulsore magnetico. Infine pulsante rosso. Lo scintillio dei led e un ronzio leggero in sala confermavano che l’apparecchio rispondeva docilmente ai comandi di Ridley e si stava staccando dal suo alloggiamento su una delle pareti della nave. “Maledetto il giorno in cui ho accettato questo lavoro” disse fra sé e sé. Ridley era l’unico pilota e unica responsabile di una nave-guida di nuova generazione completamente automatizzata. In genere, una nave-guida appartiene alla classe Asterion ed ha, al suo seguito, una flottiglia di navi robot capaci di atterrare da sole sui pianeti in cui si estrae il berillio riportando poi il carico alla nave principale. A sua volta, la nave-guida VERDE
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ha il compito di trasportare periodicamente il raccolto fino agli immensi cargo delle compagnie minerarie, navi di classe Pterion parcheggiate tutte al largo di Cygnus. La nave di Ridley però aveva dotazioni sperimentali per il lungo raggio che dovevano essere ancora testate e per questo occorreva un pilota esperto oltre che disponibile a un lavoro extra che non rientrava in nessuna job description della Compagnia. Ridley faceva tutto questo da sola. Erano ormai cinque anni che viveva così, completamente sola nello spazio, dopo il suo divorzio. Una storia come tante, iniziata inutilmente, finita inutilmente. Tanto inutilmente da farle venir voglia di andare il più lontano possibile per lasciarsi la vecchia vita alle spalle. Cinque lunghissimi anni. Ma aveva di che riempire tutto quel tempo: operazioni ordinarie per la ricerca dei minerali, scavo con le navi robot, trasporto alla nave madre, verifica della qualità del metallo, stoccaggio e smaltimento degli scarti. Un andirivieni senza sosta. “Sono poco più di un minatore” si ripeteva nei momenti di sconforto “ma almeno mi pagano più di quell’idiota di Jeff.” Jeff era stato il suo comandante in capo su Deneb e, incidentalmente, anche suo marito. Ora Ridley lavorava per una major dell’estrazione mineraria interstellare, dopo aver svenduto una brillante carriera al comando di flotte militari. Era soltanto una mercenaria di lusso al soldo dei “capitalisti dello spazio”, come venivano definiti. Ma poi chi se ne frega dei principi, ormai aveva dato un calcio ai suoi gradi. Un senso di ribellione alla divisa e a quanto le ricordava del passato portava Ridley a girare per la nave e a lavorare completamente nuda. L’atmosfera interna e il grado di umidità erano perfetti, la nave reagiva alle esigenze termiche del suo corpo come se fosse una sua estensione. Era veramente la “sua” nave. Ancora un anno di quella vita e sarebbe tornata imbottita di soldi, avrebbe comprato una piccola casa vicino al lago e l’avrebbe riempita di cani e di gatti. Nelle sue fantasie,
avrebbe aggiunto volentieri anche una scimmia di Deneb se quelle bestiacce non avessero il maledetto vizio di sgranocchiare le batterie biologiche dei computer. Mentre rimuginava quei pensieri, il piccolo velivolo dalla forma liscia e affusolata che Ridley stava azionando si era fermato in attesa di ricevere comandi. Sembrava un giocattolo ma era frutto della ricerca più avanzata: estremamente versatile e facile da manovrare, aveva un sistema di annullamento della forza gravitazionale che permetteva l’atterraggio in qualsiasi condizione. E si guidava con due dita. Ora stava scivolando lentamente in uno spazio buio e indefinito fra una parete della nave e la postazione di lavoro in cui si trovava Ridley. Improvvisamente una chiamata radio la distolse dalla guida. Il dispositivo rimase a galleggiare nel vuoto, immobile. E anche Ridley, da un’altra parte, galleggiava nuda. «Qui base a Ridley» chiese una voce femminile «Hai finito le operazioni di oggi?» «Non ancora, base.» «Quando pensi di chiudere?» «Devo farmi l’ultimo giro col velivolo sperimentale.» «Non l’hai già testato?» «Non completamente, base» “Non come vorrei.” «Ok, fammi sapere se funziona.» «Grazie cara, ti mando un report completo. Chiudo.» Ridley riprese i comandi. I propulsori tornarono a regime. A quella velocità di crociera il velivolo avrebbe raggiunto l’obiettivo in pochi attimi. Ma un’interferenza nel segnale in ricezione impedì un corretto funzionamento. La navicella cominciò a volare fuori asse. Ridley schiacciava nervosamente i tasti del joystick ma il velivolo non rispondeva. La sua posizione era pericolosamente obliqua rispetto alla rotta che avrebbe condotto sull’obiettivo tracciata nel visore. “Cazzo!” pensò “Devo riallinearlo subito altrimenti il viaggio andrà a vuoto.” Ci riuscì per un pelo. In quel momento comparve quella che doveva essere la destinazione finale. Ciò che i sensori del dispositivo percepivano e rimandavano al visore sotto forma di immagine era un enorme buco nero che si spalancava davanti ad esso. Il velivolo si fermò per trasmettere immagini più nitide. La voragine
si apriva e richiudeva ritmicamente come un fiore carnoso. Il dispositivo intanto sembrava riprendere a spostarsi in modo impercettibile o forse era il buco nero che lo stava attirando inesorabilmente. Poi all’improvviso si lanciò in avanti con perfetta sincronia durante una di quelle aperture. Ridley ebbe un moto di soddisfazione ma la delicata operazione non era ancora terminata. Stava sudando. Con il joystick sinistro azionò immediatamente il secondo stadio. Tre colpi sul pulsante giallo, poi pulsante rosso. La capsula si staccò dal retro e si infilò in una seconda piega dello spazio. Il buio venne illuminato ripetutamente da violenti lampi rossi. Poi, nel punto in cui era stato inghiottito il velivolo, sgorgò una cascata di fuoco. Lo spazio intero sembrava scosso da una vibrazione profonda. I lampi aumentarono, la vibrazione divenne un terremoto e la cascata di fuoco si trasformò nell’esplosione di una supernova. Quell’esperienza sconvolgente durò ancora per qualche minuto. Per Ridley sembrò un’eternità. Sentiva che stava per perdere i sensi. Riuscì a premere due volte il pulsante rosso del joystick di sinistra. I polsi si liberarono subito e le due parti della navicella riemersero dal buco nero e dalla piega nello spazio riunendosi automaticamente in un corpo unico che tornò a librare nel vuoto attendendo ulteriori comandi. Il vibratore telecomandato di ultima generazione planò infine nel suo alloggiamento e il portello si richiuse, mentre Ridley piombava di colpo sulla piattaforma operativa che si trovava un metro al di sotto di lei, accoccolandosi sulla sua superficie morbida dopo l’orgasmo. «Niente male questi gingilli» sussurrò prima di addormentarsi «davvero niente male.» Sognò la sua casa sul lago, i cani, i gatti, la scimmia di Deneb che, maledizione, sgranocchiava le batterie del suo computer, e un uomo che tornava a casa da lei dopo il suo ultimo viaggio.
Bruno Ballardini è nato a Venezia nel 1954. Dopo essere stato copywriter, docente universitario e saggista, è approdato alla fantascienza. Tra i suoi ultimi saggi, Gesù e i saldi di fine stagione (Piemme, 2011) e La morte della pubblicità (Lupetti, 2012).
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Welcome Home... Condominium Luigi Bonaro «…le loro vite erano entrate in una dimensione chiaramente più sinistra.» James Graham Ballard, Condominium
Lo so. Sono lì che mi spiano. Maledetti condomini. È tutta una congiura. Silenzio per favore! Potrebbero sentirvi. Ho distrutto il telefono.Aveva un codice a barre sul lato. Pensate che sia pazzo, non è vero? Non tutti sanno che Woodland e Silver, gli inventori del codice a barre, erano due ibridi umano-alieni. L’ho scoperto visionando accuratamente un episodio di X-Files. Non è un caso che, nel 1992,Woodland abbia ricevuto dal presidente George H. W. Bush la medaglia per la Tecnologia. Loro, gli alieni, utilizzano i codici per schedarci, controllarci, possedere le nostre coscienze. E gli abitanti del mio palazzo sono tutti posseduti. Prima fra tutti la signora Zawistowska, quella dannata vecchia. Proprio l’altro ieri l’ho spiata dalle persiane ed ecco ciò che ho visto. La vecchia polacca tornava dall’alimentari con in mano i sacchetti della spesa. Indovinate che cosa c’era a lato delle busta? Codici a barre. Dice che fa la badante, la maledetta. Lo so io che cosa fa! E gli altri? Vanno a trovarla, le affidano i bambini, capite? Non diventerò come loro. Mi sono barricato in casa. Maledetti alieni, pensate che provavano a chiamarmi sul telefonino. La settimana scorsa, il cellulare squillava emettendo uno strano suono. Ho svitato il coperchio posteriore e indovinate che cosa ho trovato all’interno? C’erano dei transistor piccolissimi, ciascuno con un barcode impresso al di sopra. VERDE
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Ho dovuto distruggerlo. La mia ex moglie dice che sono ossessionato. Secondo lei dovrei trovarmi una donna e cambiare vita. Insomma, smetterla con questa ossessione ridicola. Come dite? No. State tranquilli. È talmente ripugnante che anche gli extraterrestri avrebbero dei seri problemi a collocarla in un qualsiasi punto di un’astronave. Da quando ci sono gli alieni, la mia vita, qui nel palazzo, sta diventando insostenibile. Certo, ognuno ha il suo incubo personale, un’insofferenza che innervosisce e spesso porta al litigio. Sotto la facciata della tolleranza reciproca, sotto quell’apparenza pacifica, non di rado, si nascondono scontento e disagio. Le difficili relazioni condominiali portano spesso a un senso di frustrazione. Il più delle volte ci si adegua a malincuore a decisioni prese da altri, pensando di non avere spazio per esprimere i propri bisogni. In verità, per quanto sia datato, è il Codice Civile che stabilisce le regole di condominio. Ho chiesto una convocazione dell’assemblea perché ci hanno sostituito i contatori e al posto dei classici piombini ho trovato dei sigilli con dei codici a barre. Ebbene, i condomini mi hanno ignorato. Poco male, mi sono fatto giustizia da solo. Ma una delle cause di scontro condominiale, in genere più frequente, è il rumore, che può diventare molesto quando è ripetuto e costante. Ad esempio, il mio dirimpettaio, Isi
Badmotorfinger,ascolta quella chiassosa musica infernale a volume alto, oppure la signorina Maria Pompadoro che urla e fa rumore camminando con quegli zoccoli nelle ore più insolite. Certo, non mi lamenterei mai con quella poverina. Come? Non conoscete la signorina Pompadoro? È quella che vive nell’appartamento sopra il mio. La chiamano Dirty Mary. Insomma, di notte, sento sempre una voce metallica, lei che parla al citofono, il suo passo pesante, la porta d’ingresso che si apre e, quasi subito dopo, il cigolio delle molle della rete del letto. Poi, inizia il supplizio. Inizia a lamentarsi. I gemiti diventano sempre più intensi per fermarsi di colpo. Dopo un poco ricomincia, voce metallica, passo pesante e così via. Questo succede ogni notte. So cosa state pensando. È straziante. Sono Loro, gli alieni che la torturano. Fanno su di lei tutti quegli esperimenti. Pensate che l’altra volta l’ho incontrata sul pianerottolo e le ho chiesto il perché del rumore e me lo ha detto. Fidatevi, è l’unica persona onesta del palazzo. Mi ha riferito proprio queste testuali parole: «Mi dispiace ma loro mi fanno visita e io non riesco a resistergli». Capito? Quella povera ragazza rappresenta una testimonianza vivente di possessione aliena. E tutti gli altri condomini? Sanno e non parlano. Sono spietati, sentono le urla e alzano il volume della televisione. In definitiva, sono tutti d’accordo. Eh, ma le ho detto di resistere e di bruciare, come ho fatto io, tutti i codici a barre presenti in casa. Mi ha guardato interdetta. Povera Mary. Tutto ciò è pietoso. Scusate, non mi sono ancora presentato. Sono Robert Laing e nell’altro condominio facevo il medico. Adesso lavoro come assistente mortuario presso il cimitero del paese. Sono in aspettativa e vivo qui, confinato nel mio appartamento.
L’altro ieri mi è arrivata una notifica da parte del deposito giudiziario. Hanno rimosso il mio Lupetto dal piazzale perché dovevano dipingere delle strisce pedonali. Tutte stupidaggini. Sì, amici. Questo è ciò che Loro vogliono farvi credere. Ma prendete l’ascensore e andate sulle vostre terrazze. Conoscerete la verità. Quelle strisce sono enormi barcode che trasmettono codici in continuazione. Ieri mi è arrivata una raccomandata. L’alieno che me l’ha consegnata era travestito da postino. Aveva in mano una pistola laser ma gliel’ho distrutta. Continuava a dirmi che doveva sparare il codice della busta quando ho tirato fuori la mia Smith & Wesson e gliel’ho puntata in faccia: «Dammi lentamente quella pistola» gli ho detto. Non ha fiatato. Mi ha dato l’infernale marchingegno. Si è accorto che sapevo. Ho scaraventato quel maledetto spara codici per terra e ho fatto fuoco su di esso facendolo in mille pezzi. L’alieno è scappato. È un volgare complotto. Pensate che la raccomandata parlava di un’ingiunzione del tribunale per manomissione delle apparecchiature della società elettrica. Il mio appartamento è l’ultimo presidio contro gli alieni. Ora, Loro sono dietro la mia porta travestiti da carabinieri. Sto per aprire. Stringo forte la mia sputafuoco. Venderò cara la pelle. Classe ‘72, laurea in antropologia, autore di storie strampalate, dissonanze, frammenti, macchie d’inchiostro, porzioni di realtà. Redattore di “Knife” e “Nero Cafè” ha ricevuto una menzione come articolista italiano 2011. Vive a Est di Roma con la moglie e il suo piccolo Francesco. creeptale.blogspot.com
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Numero 12 maggio 2013
protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 12 anno II maggio 2013
Pierluca d’Antuon o
rani o d o e t a d l a s.h. palmer katia ceccarelli
jacopo marocco Simone lucciola Andrea frau
UN ANNO DI VERDE
Il salone di Emma Andrea Frau Se gli uomini restassero incinti, potresti avere un aborto anche dal barbiere. (Daniele Luttazzi)
Nei cadaveri per un po’ di tempo capelli e unghie continuano a crescere. Napolitano è l’ultima unghia marcescente del comunismo italiano. I partiti si ostinano; non vogliono che il vecchio Presidente lasci. Siamo all’accanimento terapeutico alla nordcoreana. Al Quirinale c’è una teca contenente l’unghia del Presidente che cresce alla stessa velocità dei movimenti delle nuvole. Solo che quell’unghia rimane un’unghia, non sembra nulla di diverso. Se abbassi lo sguardo non puoi fantasticare. Quel monolite putrescente è calato dall’alto e le scimmie-partito lo adorano come un feticcio salvifico. Emma Bonino è la nuova papessa della Repubblica. Ma nessuno lo sa. Al Quirinale riceve i capataz dei partiti ed estirpa le loro nuove emanazioni. Bersani è il primo. La sala della papessa è asettica, disinfettata. Bersani si accomoda. Emma gli insapona il viso, gli lega al collo l’articolo 7 della costituzione, tira fuori una falce e lo rade con grande cura. Berlusconi sbraita. «È il mio turno!» «Uno alla volta, per carità!» risponde la papessa canterina. Ora è il turno di Berlusconi. Per rilassarsi Emma gli infilza dei ferri da calza in faccia, tipo agopuntura di Hellraiser. Silvio ha con sé una troupe televisiva. Il suo staff infila dei collant negli obbiettivi delle macchine da presa. Con l’ausilio di un biscione gli vengono asportati dal sedere una serie
di minorenni, liste della spesa e Alfano. E svariati scheletri, tanto che il suo ano pare un ossario. A Vendola l’unica cosa che si può aspirare sono le mille parole. La pompa viene azionata e dalla bocca di Nichi grandinano parole tintinnanti. Sembra una slot machine in tilt. Il banco ha perso! Lì vicino, Grillo si fa bello con vecchie battaglie radicali. Si profuma con il finanziamento pubblico ai partiti, si deterge con balsami di trasparenza e lotta antipartitocratica. Emma gli fa la barba con calma. Ora tutti riconoscono il bluff sotto i suoi peli. La teca contenente l’unghia di Napolitano cade e si infrange in mille pezzi. Dei signori con dei camici bianchi mi entrano nella testa e mi estirpano il sogno di Emma Bonino Presidente della Repubblica con una gruccia arrugginita. La gruccia cade e gira su se stessa. Ed io non so se questa è la realtà o meno. Ho scritto per “l’Unità” e “ScaricaBile”. Ho tenuto rubriche su Scrittori Precari e su Loop. Ora collaboro con la rivista “Mamma!” Mi piace canticchiare La locomotiva quando sono brillo. Una volta ho schiaffeggiato Concita De Gregorio urlando: «Le parole sono importanti!» Penso che le persone cattive una volta morte si rincarnino in Fabio Fazio. A volte mi capita di accendere sigarette al contrario, anche se ho smesso di fumare. VERDE
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Numero 13 giugno 2013
Emera marautilio.wix.com/artemera www.artemera.com
L’amante del boia Patrizia Pesaresi Un tempo, quando gli dèi erano giovani e incorrotti, io camminavo. Al tramonto, per lo più, lungo la collina coperta d’erba che strapiombava sul mare e separava i due golfi creando un gomito. Il tempio sulla cima era dorico, di pietra rosa, dedicato alla dea delle felici navigazioni, Afrodite Euplea, che le sacerdotesse onoravano sorvegliando ogni notte il grande fuoco sacro, monito per i marinai della prossimità della costa e garante di sicuri approdi nel porto sottostante. Ero una di loro. Una notte, durante la veglia, Euplea – che era anche la dea dell’amore fecondo – condusse al mio cospetto Diomede. Diomede non era un marinaio, o un contadino, e neppure uno di quei commercianti siracusani che si diceva discendessero dai fondatori della Città. Evitato da tutti, e da tutti temuto, circondato come i suoi predecessori da leggende oscure e terribili, viveva in una casupola di pietra poco lontano dal tempio, e dal tempio dipendeva per il suo sostentamento. Diomede era il boia della Città. Ce ne erano stati altri due come lui, da quando servivo la dea, ma il primo era già decrepito quand’ero una novizia e se ne era andato in fretta, e l’altro era morto durante VERDE
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una pestilenza portata da Oriente proprio da un condannato a morte. Diomede era diverso. Era giovane, gentile, e mi raccontava storie avventurose con voce scura e precisa, alla luce del fuoco che sorvegliavo, notte dopo notte. Ci amammo una sola volta, al cospetto del mare, una notte senza luna di mezza estate. Il fuoco arse fino all’alba e quando lo spensi Diomede era già tornato nella sua casa di sassi e terra. Al tempo del solstizio d’inverno fu finalmente evidente alle mie compagne la natura della colpa che avevo commesso. Avrei potuto dichiarare d’essere stata visitata nottetempo da un dio travestito da viandante, ma non lo feci: Diomede non era più venuto a conversare con me, nelle notti di veglia, e la sua indifferenza mi aveva spezzato il cuore. Dopo la nascita del bambino, in primavera, fui messa a morte. Era una questione riservata, un misfatto che doveva restare segreto, perciò tutto si consumò in fretta, all’alba, dopo lo spengimento del fuoco sacro, nel cortile interno del tempio, e fu proprio Diomede ad officiare la mia esecuzione: dopo lo strangolamento, il mio corpo sarebbe stato smembrato, e i pezzi dispersi in mare. Le mie compagne assistettero
alla prima parte del rito, poi si ritirarono. Diomede chiuse il mio corpo in un sacco e lo trascinò verso la sua casa. Ero sicuramente morta, in quel momento, ma non ancora del tutto separata dal mio corpo quando Diomede, con un solo colpo d’ascia, tagliò via i miei piedi all’altezza delle caviglie. Poi lavò il mio corpo, fasciò con bende profumate i moncherini delle mie gambe e mi vegliò per tutto il giorno, mormorando preghiere incomprensibili in una lingua dimenticata. Al tramonto scese lungo la collina fino ad una caletta nascosta, caricò quello che era stato il mio corpo di donna sulla sua barca e remò a lungo, finché il fuoco sacro in cima alla collina fu solo il rosseggiare di una monetina di rame, reso sgranato dalla foschia notturna. Diomede mi calò in acqua, con delicatezza direi, salutando il mio veloce affondare con una specie di salmodia. Dicono che essere amati da chi è designato dagli dèi a dare la morte agli uomini renda immortali. So per certo che non è così: anch’io un giorno finirò, come tutto ciò che ha avuto un inizio sulla terra. Ma è il concetto di durata (o piuttosto quello di forma?) ad essere cambiato per me, dopo la notte di mezza estate in cui il boia della Città mi amò, e quell’alba gelida di primavera in cui Diomede, il mio primo ed unico amante, fu convocato per darmi la morte. Sono ancora qui. In una forma
diversa. A volte osservo dal pelo dell’acqua le grandi navi entrare sicure nel porto, sollevando onde tracotanti che schiaffeggiano la mia coda di pesce e sommergono le piccole spiagge di sassi alla base della collina. Il tempio non esiste più, sostituito da una cattedrale di pietra simile ad una conchiglia, in cui è venerata la Donna che protegge i pescatori dalle tempeste e con una storia che potrebbe essere stata la mia. A volte nuoto intorno, cercando la caletta dalla quale Diomede partì per liberare il mio corpo in mare, ma non ne esiste più traccia, divorata secolo dopo secolo dalle correnti di questo mare così basso e tanto pericoloso. A volte, quando la nebbia cala come un sipario di velluto grigio sulla linea della costa, mi trascino su uno scoglio e canto. Canto il tempo degli dèi giovani e incorrotti, quando camminavo lungo una collina coperta d’erba che strapiombava sul mare e separava i due golfi creando un gomito. Patrizia Pesaresi affianca alla sua professione di psicanalista l’attività di scrittrice. Vincitrice del Premio Gran Giallo al Mystfest di Cattolica con il racconto Uno per tutti, edito ne Il Giallo Mondadori n. 1919, ha pubblicato vari racconti per le case editrici Mondadori, Piemme, Sonzogno, Garzanti e altre e i romanzi Ancor non vi fu donna (Libreria dell’Orso, 2004) e Dopo la prima morte (Dario Flaccovio Editore, 2005), finalista del premio Scerbanenco nel 2005. Il suo racconto Il momento tra il cane e il lupo, apparso su Seven (Piemme, 2012), è scaricabile su Amazon. VERDE
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Settantacinquepercento S.H. Palmer Ogni cosa è fatta di pezzi. Parti connesse, incastrate o solo accostate tra loro. Percentuali di sé e del resto del mondo che si intersecano per creare qualcosa di unico (ma troppo spesso, anche solo banali copie). Una riflessione numerica, non da me, probabilmente. Flettersi e riflettere: la cura di ogni male a metà tra yoga e ripensamenti. Il settantacinque percento di tutto quello che abbiamo non ci appartiene sul serio. Chiedere il settantacinque percento a qualcuno significa privarlo del suo contatto con il mondo.
uno e due che insieme fanno tre. L’arcano maggiore numero tre è l’imperatrice. Gebo e Raido sono i simboli runici della maîtresse. L’azione immediata, la decisione il viaggio... con auspicio buono, per la padrona del suo destino.
Da neonati siamo fatti per il 75% di acqua, che si asciuga con il tempo crescendo in una terra – la mia – bruciata dal sole. Mongoloid she was a mongloid. Le percentuali mi sfiniscono, di domenica pomeriggio. I dati sono troppi, quante sono le guardie svizzere. Una volta uno stronzetto per fare colpo mi ha La considerazione – puramente detto «Lo sai che son 75 le guardie speculativa – mi porterebbe a svizzere», ma io non ci ho creduto chiedermi di più sul significato subito. Però ci ho pensato. del numero. Si dice in giro che settantacinque non porti così male. Non è più un ciclico ricominciare. Lo spirito è confuso e ha bisogno Si ricomincia sempre da un punto di analizzare tutto. Ogni pezzo, diverso. La fede e la noncuranza ogni frammento. Scomponendo il hanno fatto pace, sotto una numero, l’essenza della coscienza cascata di risate e di aria fresca. rivela la strada attraverso la porta 75% è quello che probabilmente che dal profondo del sé conduce spetta. Ciò che spetta di diritto a un bagaglio di occultismo e e che ci viene sottratto dalla interiorità, perdendo di vista il realtà quotidiana. Tutti vorremmo tutto, la foresta a beneficio di ogni essere belli, ricchi e intelligenti singolo albero. mentre quando si possiede una sola di queste qualità spesso Scompongo settantacinque in le altre due si tirano indietro, sette e cinque ottenendo due cavallerescamente. Senza contare rune. Sommo sette e cinque per lo stupro intellettuale, la schiavitù. ottenere dodici e infine ancora La kabbalah ci insegna a guardare VERDE
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oltre; una volta in tasca mi sono tenuta per mesi un taglierino. Aspettavo con ansia la situazione in cui il velo di Maya fosse stato così spesso da oscurarmi i sensi e la coscienza. Quando avvenne non ero pronta: mi sono lasciata trasportare dalle apparenze, sebbene sotto punti di vista e dentro canoni diversi. Dopo un paio d’anni però, frugandomi dentro con gli occhi semichiusi, ho ritrovato la forza di prendere la lama e tagliarmi in due.
forzo cinque mesi per condizione) ci si trova di fronte al sé biologicamente rigenerato. Ogni cellula ciclicamente è diversa. In quest’ottica il concetto di cambiamento assume altri toni, più astrattamente pratici. È quindi assolutamente nella norma che da bambina amassi qualcosa che ora odio: al di fuori dall’esperienza.
Volevo disegnarmi addosso tutto il mazzo di Thoth. A parte un paio di concetti però non ce l’ho fatta ancora. È l’archetipo che comanda il mondo, non ce la fanno a capirlo Sforzi e cambiamenti, decisioni e tutti. Guardare il fuoco, per quanto patteggiamenti. possa dividere le categorie razionali Il numero corrisponde anche e non, é inevitabile. Ovunque e con all’essenza. Di tre. chiunque. Una lista infinita di nulla e di sempre che attanagliano i nostri Tutti erano in lacrime e si battevano il sapori odori ed esistenze, al 75%. petto dal dolore, ma egli disse: «Non piangete! La ragazza non è morta, sta La percentuale perfetta per soltanto dormendo!» Queste parole ricredersi e cominciare di nuovo sollevarono amara derisione, perché a cercare tra i pezzi – i tasselli tutti sapevano che era morta. Allora mancanti al ricongiungimento con il Gesù la prese per la mano e le disse: sé primordiale. «Alzati ragazza!» In quel momento la vita tornò in lei, e subito ella si alzò. Nata a Brentwood il 3 febbraio «Datele qualcosa da mangiare!» 1971, S.H. Palmer è la più giovane (Luca 8, 51-55) e significativa esponente dei distruzionisti, oscura avanguardia romana di fine anni Ottanta, nata Non cadere più, come Dante in seno agli ambienti di estrema durante l’infinita passeggiata tra le destra della capitale, dove Palmer cantiche. E il fervore – della storia e si era trasferita nel 1985. Poetessa, dei frammenti – non può ferire, non narratrice, autrice di numerosi riesce a scalfire. testi teatrali e di romanzi dai temi controversi (su tutti Apocalyptical marshmellow crunchers) dopo aver a Ricordo qualcosa circa il fluire lungo lottato contro una insidiosa dell’essere e del tempo: non sei depressione post-disintossicazione, più la stessa. Non sei più uguale a muore a San Severo il 27 dicembre te stesso. Come Paganini, senza del 2004, a soli 33 anni. ripetersi mai. Ogni sette anni (e ci VERDE
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Numero 14 Luglio 2013
Francesco Aprile http://faprile.wordpress.com./
Rachid Valerio Evangelisti Io, Rachid, nato in Palestina e vissuto in Siria, giuro che mai e poi mai rinnegherò il santo nome di Allah. Sono venuto in Afghanistan come ero stato in Cecenia, per difendere l’Islam dai nuovi crociati che cercano di distruggerlo. Mi sono battuto con onore e mi sono arreso solo quando il nostro comandante mi ha detto di farlo. Gli americani potranno cercare di umiliarmi, ma io conserverò fino all’ultimo la mia dignità. È inutile che adesso, col sacchetto ridicolo che mi hanno messo in testa e con le strisce di plastica che mi feriscono i polsi, tentino di piegare la mia volontà. Un soldato di Allah non si lascia spaventare dal buio, né dall’obbligo di tenere corpo e testa piegati in avanti, né dalle percosse. Resisterò, perché così comanda il Misericordioso. Resisterò anche sull’aereo che mi sta per portare nella terra di Satana. Sono ormai due ore che siamo decollati. Fatico molto a respirare. Ma cosa conta la mia sofferenza? Brucia ancora nella mia mente il ricordo dei fratelli sepolti vivi, a… Laggiù, dietro il carcere. Quanti erano? Cento? Duecento? Alcuni imploravano pietà, ma la maggior parte di loro erano dignitosi. Molti perdevano sangue dalle ferite, e sapevano che comunque non sarebbero sopravvissuti a lungo. I vecchi sembravano rassegnati, però erano pochi. L’età dei più era all’incirca la mia: vent’anni. Gridavano ancora le loro maledizioni, mentre i camion coprivano con la sabbia la fossa in cui erano distesi. A tanti erano state serrate le labbra con un cerotto, ma non a tutti. Chi non poteva pregare o gridare lo faceva con gli occhi. Non credo che i soldati americani capissero parole o sguardi. Osservavano indifferenti, e lasciavano fare ai loro servi afgani. È in nome di quei martiri che io, Rachid, terrò duro. In fondo, la ridicola tuta arancione che mi VERDE
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hanno fatto indossare prima di salire in aereo mi torna comoda. Mi ripara dal freddo. Mi dispiace solo di non vedere i miei fratelli in Allah, a causa del cappuccio. Ce n’è uno che urla, forse per una ferita. Alcuni piangono, tuttavia sono pochi. Io li comprendo, è per via dell’età. Sono poco più che bambini. Stare curvi, stretti dalle cinghie e con le ginocchia che urtano la bocca, fa male. Ma cosa conta, dopo tutto quello che ha sopportato la nostra gente? Il mio fratellino è stato uno dei primi a essere uccisi durante l’Intifada, Aveva solo sette anni. Ecco, è a lui, a Mohammed, che dedico il mio sacrificio. A lui e ad Allah, che sia benedetto. Nessuno degli americani parla la nostra lingua. Imprecano nella loro, fatta di sillabe rabbiose. Intuisco che vogliono che stiamo zitti. Forse è per via della voce rauca di un adolescente. Dice che ha bisogno di orinare. Chissà se gli americani lo capiscono. Magari la scambiano per una minaccia. Mi sembra di udire il rumore di uno schiaffo. Il mio bisogno è opposto: vorrei bere. Da quante ore siamo in volo? Direi due o tre. Non ho idea di quanto disti la terra di Satana. Allah lo sa, ed è a Lui che mi affido. Ora tutti abbiamo bisogno di orinare. È passato tantissimo tempo, e il freddo è penetrato sotto la tuta. Le proteste si fanno corali, ma vengono soffocate dai colpi. Gli americani si stanno innervosendo, si direbbe. Io so che è inutile pregarli: non hanno cuore. In Afghanistan, per colpire noi, hanno fatto un’ecatombe. Inutile, non hanno coscenza. Io non li supplicherò mai, nemmeno per pisciare. Che Allah li maledica. Le contrazioni della vescica stanno diventando dolorose. A un tratto sento che l’orina mi cola tra le gambe. Stringo ancora di più le ginocchia, per non darlo a vedere. Ciò che non mi aspettavo era di cominciare a defecare. La diarrea mi cola da dietro e mi immerge nel bagnato. Ciò che accade a me forse sta succedendo a molti, perché il
fetore è orrendo. Mi vergogno tantissimo. Gli americani imprecano e picchiano. Anch’io ricevo un colpo dietro la nuca, violentissimo. Ma il dolore conta poco: è la vergogna che mi ferisce.
da fare. Sono visioni vacue, che si perdono nel nulla e non suscitano sentimenti. L’unica realtà che mi rimane è la nausea. Me la porto dietro nell’incoscienza in cui sto sprofondando.
Tutto mi aspettavo salvo l’improvvisa puntura sul braccio. Non ho dubbi, è una siringa. Ma cosa vogliono farmi? Tento di tenermi fermo, perché l’infermiere, se è un infermiere, fa tremare l’ago. Sento, in tanto freddo, il calore lieve di un rivolo di sangue che mi corre fino all’avambraccio, e poi si dirama tra le dita. Attorno, i più hanno smesso di urlare. Si odono invece colpi di tosse e conati di vomito. In mezzo ai piedi avverto lo scorrere di liquami, certo l’orina e le feci dei miei fratelli. Anche il mio sedile è tutto inzuppato. Iniziata la diarrea, non sono più riuscito a controllarla. Esce ogni tanto, a piccoli fiotti. Il dolore allo stomaco è così forte che non lo avverto nemmeno più. Un sibilo sottile riesce a sovrastare i rumori gorgoglianti che riempiono l’abitacolo. Sembra uno spray. D’improvviso capisco: ci stanno deodorando, oppure disinfettando.
Tante punture… credo. Non sono più lucido… Siamo arrivati, credo. Fa un caldo orribile. Mi tolgono il sacchetto di testa per mettermi degli occhiali dalle lenti nere. Per un attimo vedo i miei fratelli. Tutti nudi come me (non sapevo di essere nudo). Tutti coperti di vomito ed escrementi. Rannicchiati su se stessi come scimmie. Forse ci portano alla doccia… Prima che mi mettano gli occhiali, vedo un uomo che mi sembra enorme. Con una siringa in mano. Dopo… capisco… sempre meno.
La nausea è peggio della diarrea e del dolore; ormai persino della vergogna. Tento di trattenere i conati, ma poi il sacchetto che mi serra la testa mi si riempie di vomito. Adesso vorrei sollevarmi. Non ci riesco più. Non riesco a fare nulla, se non vomitare con la gola in fiamme. Ho una percezione molto indistinta di ciò che mi circonda. I suoni mi giungono attutiti. Anche gli odori, ma è che il vomito mi ha ricoperto il naso. Per fortuna mi scivola lentamente lungo il collo, e libera piano il sacchetto. Cerco di aggrapparmi alle immagini forti della mia vita, quelle che mi hanno dato la fede. Mio nonno che stenta a credere che gli israeliani abbiano potuto davvero sradicargli tutte le piante di ulivo. Mia madre che si dispera davanti alla nostra casa distrutta dai bulldozer, con me avvinghiato alle sue gonne. Il cadaverino di Mohammed portato a braccia dai vicini. Evoco anche immagini di vendetta: le due torri della ricchezza abbattute a New York, e gli americani che fanno esperienza di ciò che noi subiamo ogni giorno. Ma c’è poco
Sono in ginocchio, in un cortile rovente. Adesso io sono lucido. Stanno per farmi un’altra puntura. Eccomi sveglio, finalmente. Sto curvo in una gabbia. Di nuovo la diarrea. Le sbarre sono roventi, sotto il sole. Io… sono… Rachid, nato in Palestina. Io sono… da una settimana mi impediscono di … dormire… Rachid… Ho deciso di mozzarmi la lingua tra i denti e di soffocarmi da solo… Allah mi… Punture… Punture e diarrea. Nella gabbia. Rachid… dignità… Rchd… dgn.
Valerio Evangelisti è uno dei più noti scrittori italiani di fantascienza, fantasy e horror. È conosciuto soprattutto per il ciclo di romanzi dell’inquisitore Nicolas Eymerich e per la trilogia di Nostradamus. Biografia su Wikipedia. VERDE
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Numero 15 agosto 2013
La Colombo non perdona Luca Piccolino ROMA 1994 Pietralata. Due del mattino. Fari su una strada buia. Il Piastra non si preoccupava di andare piano. Non c’erano abitanti in quella viuzza, soltanto un paio di magazzini di materiali edili e uno sfasciacarrozze. Al contrario dei magazzini, però, lo sfasciacarrozze era aperto. Il Piastra rallentò, fermandosi innanzi a un cancello sovrastato dalla scritta verniciata a mano: Autodemolizioni Proietti. Diede due colpi brevissimi di clacson e dopo neanche trenta secondi il Sorca Mario era già ad aprirgli. Velocemente l’auto transitò nel piazzale per infilarsi in un garage costruito con bandoni di lamiera. Mario accostò il cancello e raggiunse il Piastra. «Dove l’hai fregata ‘sta merda?» «Perché merda? Guarda, non c’ha neanche trentamila chilometri. Ed è diesel!» «Per me potrebbe andare pure ad acqua, resta una merda di macchina coreana che non vale un cazzo.» «Oddio ce n’è sempre una però! Una volta è giapponese, un’altra è coreana, un’altra ancora c’ha un difetto di fabbrica...» «È colpa mia se c’hai un fiuto speciale per le macchine di merda?» «Va beh dai, basta. Quanto mi dai?» Il Sorca Mario girò un paio di volte intorno all’automobile, si espresse ancora una volta in toni critici verso la Corea, i coreani e le fiche strette delle coreane e tra una Madonna e l’altra disse: «Guarda, ti posso dare duecento... due e cinquanta, giusto perché sei te.» «Sono venuto dall’Eur! È nuova, sta macchina!» «Prendi le decentocinquanta. dammi retta. VERDE
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Se no va a finire che ti tocca riportarcela, all’Eur!» Il Piastra sentì la foga montargli dentro. Se l’era rischiata per arrivare fino a lì e alla fine dei giochi ci avrebbe guadagnato soltanto quello stronzo di Mario. Non gli andava giù: «Sai che c’è? Tieniti i tuoi soldi. Ciao.» E salì in macchina, di scatto. Mario, col sorriso sulle labbra, cercò di fargli cambiare idea: «Ma dove cazzo vai? Nessuno ti darebbe di più per questo catorcio lo vuoi capire o no?» «Non me ne frega niente. Non la voglio l’elemosina!» Il Sorca Mario replicò qualcosa ma la sua voce fu coperta dal motore che il Piastra aveva acceso. In retromarcia partì e lo lasciò lì come lo stronzo che era. Via Cristoforo Colombo. Direzione Eur. Il Piastra non aveva ben chiaro il motivo che lo stava spingendo a riportare indietro l’auto. L’aveva detto Mario, facendo una battuta e nel suo attacco d’ira si era mosso pensando in automatico. Tutta colpa del suo stupido cervello che, a fasi alterne, si spegneva nei minuti in cui la rabbia lo sovraccaricava. Avrebbe dovuto prendere i soldi. Non era giusto, erano troppo pochi ma sì, a quel punto tanto valeva prenderli. Comunque avrebbe potuto trattare, accordarsi in qualche modo, invece che cedere per l’ennesima volta a un’ira incontrollabile. Il fatto era che non lo faceva apposta. Glelo diceva sua nonna: «Sicciss! Tieni lu diavulu’n corp!» Era vero. Quel diavolo lo aveva sempre fatto diverso. E il diavolo, in un corpo vigoroso, adatto a scontri e battaglie, ci stava da Dio. Lo temevano tutti, al Piastra, e il potere
conferitogli dal fatto di essere un violento mezzo scemo lo sedusse, incatenandolo per sempre al suo destino e legandolo a filo triplo alla feccia che lo circondava. La Colombo era deserta. Guidava una macchina rubata e aveva lo stomaco pieno di Campari e Gin. Uno schifo di situazione. Pensò che era da una vita che rubava e non gli era mai successo di riportare indietro qualcosa. Nemmeno da bambino quando fregava penne, pennarelli e gomme da cancellare. Ne aveva fatti piangere sempre tanti, il Piastra, e se davvero quella era una serataccia non valeva la pena rovinarla ancora, mandando a puttane pure l’autostima. All’incrocio giusto tirò dritto. Verso il mare. Guidò per una quarantina di minuti a velocità sostenuta. Accendeva una sigaretta dietro l’altra, continuando a girare in maniera epilettica la manopola dello stereo. Arrivato a Ostia proseguì per il lungomare. Anche lì deserto. Incrociò un paio di superstiti e venne assalito dalla tentazione di prendersela con loro. Era uno di quei momenti. Quelli dove aveva voglia di spaccare tutto e sfogarsi. Non importava se era giusto o no. Importante era il dopo. Quella calma che sopraggiungeva. Quella lieve sensazione di acqua e sole tiepido in aprile. Verso l’Idroscalo, l’immensa distesa di stabilimenti cessò e oltre il finestrino il Piastra poté finalmente osservare il mare. Luci riflesse sulla superficie che man mano diventavano sempre meno. Il cemento e i marciapiedi lasciavano il posto a uno scenario più selvatico. L’auto rallentò nei pressi di uno spiazzo erboso e si infilò all’interno di un lungo prato acquitrinoso. Poi si fermò. Il Piastra cominciò a cercare sotto al sedile e dopo un bel po’ riuscì ad afferrare la bottiglia del gin. Scese. Si sedette sul cofano e iniziò a tracannare avidamente. Poi, mentre
continuava a bere, prese a girare intorno alla macchina. Il Sorca Mario non aveva torto. Era uno scassone. Nuovo o no, sarebbe rimasto uno scassone, ovunque e per chiunque. L’aveva rubata senza pensarci due volte. Soltanto perché sembrava in ottime condizioni. Non si era fermato a riflettere. Come al solito. Che senso c’era nel fare sempre le stesse cazzate, rendersi conto di averle fatte e infine continuare a farle? Che c’è di bello nella vita quando ti rendi conto che non c’è niente da fare e quelle cazzate fanno parte di te? Il Piastra non lo sapeva. Sapeva di aver vissuto e di aver preso la vita come gli era arrivata. Ci era nato così e quegli scatti da matto, quell’incapacità di ragionare mentre faceva le cose, lo avevano portato a essere quello che era. Un individuo pericoloso per qualcuno. Un bisonte degno di rispetto per altri. Al di là di quel che pensava la gente, il Piastra capiva perfettamente cos’era. Un uomo solo che nessuna donna avrebbe mai avvicinato gratis. Una persona senza amici, che non sapeva mai di chi fidarsi. Il Piastra non tirò giù l’ultimo sorso dalla bottiglia. Si tolse i calzini, li annodò insieme. Lì bagnò col gin rimasto. Aprì lo sportellino del serbatoio, svitò il tappo e pian piano infilò nel buco la lunga stringa di stoffa blu… Accese la miccia e si incamminò verso il mare, senza neanche godersi lo spettacolo.
Luca Piccolino vive e lavora a Roma come imbianchino e manutentore nella sua ditta personale. Nel 2002 fonda la rivista letteraria Rizoma. Nel 2007 ha pubblicato l’opera di poesia X Tre (Arduino Sacco Editore). Il libro è finalista al Premio Camaiore 2008 (Sezione Camaiore proposta). Dall’inverno 2008 fa parte del collettivo Scrittori Precari.
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Numero 16 settembre 2013
Toni Bruno - Miss Paventi http://tonibrunostory.blogspot.it/
Un giorno dopo l’altro Lorenzo Iervolino Un giorno dopo l’altro il tempo se ne va le strade sempre uguali, le stesse case. Un giorno dopo l’altro e tutto è come prima, un passo dopo l’altro, la stessa vita. (Luigi Tenco, 1966)
Quando è iniziato tutto ciò? Con le assemblee di fabbrica,con le manifestazioni, con la prima mediazione dei sindacati? O molto dopo, quando Giorgio ha rifiutato l’aiuto di suo fratello, poi i suoi soldi una volta che lo Stabilimento Antonini era ormai un blocco di lamiera graffiata dalla ruggine, la cassa integrazione terminata, la produzione neppure riuscita ad emigrare in Ucraina. O forse solo recentemente il peggio ha preso forma, con le telefonate a conoscenti, a conoscenti di conoscenti, le scatole dei vestiti invernali lasciate a casa di Donato, dalla radio le voci dei terremotati di Finale dell’Emilia, di Modena, immobilizzati in una tragedia distante duecentocinquanta chilometri, costretti dalla paura a dormire in macchina per notti intere. Proprio come loro. Lo sportello si apre e il rumore che Giorgio sente alla sua destra, oltre il sedile vuoto, è uno squarcio, una voragine, una sciabolata nell’aria sconquassata dalla pioggia, che solo adesso gli pare infrangersi con maggiore pesantezza sull’asfalto già caldo delle prime ore del mattino. Perché ci hai messo tanto? Cos’è successo?, vorrebbe chiedere ad Erika che entra in macchina e richiude piano lo sportello. Dietro di loro i bambini stanno ancora dormendo, sul sedile lungo, abbracciati ai cuscini come fossero immersi in una nuvola, o aggrappati ad uno zucchero filato gigante, Luca col pollice in bocca, Francesca che pare addirittura sorridere. Giorgio però non chiede nulla. Neanche Erika, per qualche istante, dice niente. Si asciuga le guance con le mani. VERDE
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Poi la fronte, la bocca. Ad ogni movimento di lei, Giorgio sente qualcosa gonfiarsi nel petto. Una bolla, pensa. Un pianeta. Un pianeta che toglie il respiro. Ho fatto il giro almeno venti volte, dice Erika inghiottendo aria e lasciando che i capelli le sgocciolino nuovamente sugli occhi, sul giacchetto aperto, sul sedile. Non c’è nessuno, aggiunge, entriamo adesso! Giorgio rimane in silenzio. Al di sopra di quelle parole appena ascoltate, vede occhi quasi materni, o caritatevoli, o addirittura falsi in quanto si sforzano (secondo lui) di non essere sfiniti, di non essere disperati. Oppure, a guardarli meglio, Giorgio ha la certezza (o il terrore?) che negli occhi di sua moglie non ci sia, neanche in questo momento, nessuna accusa nei suoi confronti. E se le avessi raccontato del fiume, si chiede, mi guarderebbe in modo diverso? Erika intanto sistema il cuscino sotto la testa di Luca, che per un attimo aveva perso la presa del suo mega zucchero filato. Poi si allunga con tutto il busto verso il sedile posteriore.Tra l’esplosione di oggetti dalla cappelliera mancante, afferra una borsa di tela vistosamente deformata. La adagia tra i suoi piedi e questa emette rumori di ferraglia. Prima di risedersi dà un bacio a Francesca che pare non aver smesso di sorridere nei suoi sogni. Poi, entrambi, per un attimo (o per molto di più?), si voltano ad ascoltare il respiro lento dei bambini. Al fiume si era fermato tornando dalla banca, una di quelle volte (quante, per l’esattezza?) in cui Girolami, il Direttore, si era negato. In cui un funzionario gli
aveva detto che l’Ufficiale giudiziario li aveva avvertiti, lui non poteva farci niente, e aveva ripetuto le parole cattivo pagatore come un mantra, aggiungendo che, ormai, con diciotto rate di mutuo non pagate la casa sarebbe andata all’asta, il tempo che gli rimaneva per starci dentro era un’incognita. Giorgio era salito sul muretto dell’argine. Aveva guardato giù, l’acqua docile d’inizio giugno; aveva pensato a Santirosi Giovanni, che proprio in quel punto (o forse in un altro punto) si era lasciato cadere, operaio carrellista che lui aveva incrociato solo qualche volta, e che se non fosse stato per l’articolo sul giornale non si sarebbe ricordato nemmeno il nome. Oppure era la volta in cui camminando vicino all’argine gli era tornato in mente il loro fiume, lontano da lì: l’acqua aveva sommerso la valle, allagato i campi, bloccato intere famiglie in casa, affogato di terra umida e paurosa la mattina del paese. Dopo ore incalcolabili Giorgio ed Erika si erano trovati soli, lui con gli stivali zuppi, la terra fino alle labbra, le mani immobili arrese alla fatica della pala, gli occhi rossi grattati dai granelli; lei con un impermeabile corto da uomo, datole da qualcuno chissà chi, le ginocchia nude, uno straccio sulla testa quasi completamente bagnato. La sensazione che il pericolo era lontano. Forse non così lontano, ma fermo e, per entrambi, che si conoscevano di nome e che per nome conoscevano tutti i componenti della famiglia dell’altro, quella sembrò – per motivi non solo legati alla stanchezza e all’affanno – una tregua. Si erano addormentati insieme, vicini, sfiniti, senza sapere se gli ultimi dispersi del paese erano stati ritrovati. E ora, dov’era finito quel giorno? Come poteva calcolare la distanza da quel momento? Giorgio dall’argine aveva pensato al salto, al vuoto, al suo cadavere gonfio e liscio che avrebbero ritrovato a valle forse due o tre mattine dopo. Ma non aveva avuto il coraggio di muoversi. Né in avanti, né indietro. Era rimasto lì a dondolarsi tra due paure diverse. Quanta stanchezza, allora, o disperazione, o rabbia, sarebbe stata
in grado di trattenere, e dissimulare, lo sguardo di sua moglie, se l’avesse saputo? In strada Erika tiene i bambini sotto le sue ali, che poi sono braccia, ma che funzionano come ali che proteggono dalla pioggia, dallo scorrere lento dei secondi e dei respiri che attraversano quelle stradine periferiche sotto la prima luce del mattino. Le loro otto scarpe calpestano la pioggia, senza far rumore. Giorgio imbocca l’ultimo vialetto, e per un attimo gli vengono in mente i piedi da morto di Santirosi Giovanni, grandi e scuri che si intravedono sotto il lenzuolo grigio nella foto sul giornale, il pianto di donna dalla radio durante i funerali dei diciannove operai rimasti schiacciati sotto i capannoni crollati durante il terremoto in Emilia. Diciannove di cui si conosceva la tragedia. Diciannove come lui e Santirosi Giovanni. Diciannove che sull’argine del fiume, Giorgio, non può negarsi di avere per un istante perfino invidiato. Erika gli indica una porta gialla, o forse marrone, ma diventata gialla nel disinteresse del tempo. Giorgio si guarda intorno. Dietro le altre porte del corridoio gli sembra di percepire degli sguardi. Porte che paiono bare allineate. Se avesse tempo di contarle forse si accorgerebbe che sono diciannove. Pure quelle. Infila il piede di porco tra i due bordi di legno ed inizia a tirare verso di sé, a tirare, tirare, con tutta la forza che ha in corpo, finché con uno schiocco che sembra uno sparo, o un crollo, o il rumore stesso dell’incredulità, la porta gialla, forse marrone, cede e si spalanca davanti a loro.
Lorenzo Iervolino è redattore di Terranullius, autore della trasmissione radiofonica La Staffetta - Storie ribelli e Cronache perdute e membro della Direzione Artistica di FLEP! Per i 40 anni di Vogliamo Tutto, di Nanni Balestrini, realizza un reading concerto che gira l’Italia. Lavora come ricercatore di Storia del territorio. VERDE
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Camilla Luca Carelli L’assassino non lascia mai il luogo del delitto se la città è la sua scena. Le vittime scompaiono sotto le strade, dentro campi abbandonati, in buche profonde e sanguinanti. Non verranno mai più ritrovate. Sono storie tutte uguali che cominciano sempre allo stesso modo: un uomo impugna un’arma e colpisce dove fa più male; se viene bene si pente e poi sparisce, sotto una pioggia fitta e oscura o nella cortina fumosa di un pomeriggio infernale. Se viene male l’arma uccide, il braccio si pente ma si fa scoprire in fretta per una collutazione non prevista o una sigaretta di troppo. Nel peggiore dei casi la storia viene molto male: l’arma colpisce e la mente è glaciale, non si pente né si fa braccare. È così che iniziano le serie, le eccezioni che eccitano i giornali perché sono rare e spettacolari. Ma cosa succede quando le serie non si possono contare o non è possibile montarle in sequenza perché la pellicola è bruciata o è stata tagliata male? Quando mi arrestarono ero sereno e solo un po’ seccato: sapevo che in carcere non mi sarebbe accaduto nulla, perché ormai era troppo tardi e a nessuno interessava più la nostra storia. «Non ti accorgi che non conti un cazzo», mi disse una volta un compagno romano, «perché se tu volessi parlare non avresti niente da dire». Avrei voluto veleggiare, come lui, lungo quella sottile linea tenebrosa di segreti rubati e ambiguità ostentate che non si dipanavano mai in un’unica direzione ma si riavvolgevano senza fine in un nastro elegante come seta e più spietato di un filo spinato. Eppure mi sfuggiva la contingenza, fermo com’ero nella contemplazione di un passato che non era più il mio. E il futuro non mi apparteneva, perché scorreva VERDE
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in una corrente diversa, quella che altri riuscirono a guadare in virtù di un vissuto che era ancora presente e grazie a un proscenio maieutico e indulgente da dove incassare tutto in cambio di niente. In cambio di una infiltrazione,un pentimento e una sequenza di testimonianze esplosive che avrebbero dovuto dare forma e ordine alla materia oscura e nera dello stragismo di destra. Il camerata Paolo Stroppiana – novello demiurgo neomussoliniano – prometteva di squarciare il velo di Maya per consentire al mondo in attesa di conoscere tutta la verità; ma l’ex tippino torinese andò a sbattere contro il simulacro di una bellezza inesistente e tormentata e prese male la mira, sfregiando il volto di Maya. Tanto rumore per nulla. Fu da un errore che prese inizio la stagione della lunga serie. La sera del 2 aprile 1996 la logopedista torinese Marina Di Modica è ospite a cena della dottoressa Bianca Tovo. Lì conosce Paolo Stroppiana e la sua compagna Beatrice Della Croce Di Dojola. L’uomo, impiegato alla Bolaffi, è un appassionato di filatelia, e durante la cena scopre che Marina conserva in casa vecchi francobolli emessi dal Regime negli anni Trenta. Interessato all’acquisto, le propone una valutazione gratuita: i due fissano un appuntamento di lì a qualche giorno. Tre settimane più tardi, il 26 aprile 1996, Marina prenota una visita ginecologica presso l’ospedale Sant’Anna di Rivoli, dove lavora la dottoressa Tovo. È un particolare tipo di esame glicemico che si effettua dal quarto mese di gravidanza in poi. Quasi dieci anni dopo, durante il processo di primo grado, la dottoressa che riceve la telefonata sostiene di aver creduto all’epoca che la chiamata non provenisse
dal centralino, ma da un numero interno dell’ospedale; la dottoressa inoltre rivela che, come contatto telefonico, Marina avrebbe lasciato il recapito di una casa disabitata di proprietà dei genitori, pur abitando da diversi anni da sola in un appartamento in affitto. Non c’è traccia nell’agenda di Marina di quell’appuntamento. I parenti e gli amici più stretti non erano a conoscenza di un’eventuale gravidanza della donna, che non si sottoporrà mai alla visita. Poco meno di un anno prima, il 30 agosto 1995, Letizia Teglia raggiunge in un autobus lo stesso ospedale. La donna, 24 anni, centralinista ipovedente del Tribunale minorile di Torino, capelli mossi e scuri, ha già abortito una volta e sospetta di essere nuovamente incinta. La visita ginecologica, fissata alle 15:30, termina verosimilmente attorno alle 18. Mezz’ora dopo la donna viene vista per l’ultima volta da un suo vicino di casa davanti alla fermata di un autobus in Corso Unione Sovietica, dall’altra parte della città. Come ha fatto Letizia ad arrivare fino a lì? Qualcuno l’ha accompagnata in macchina? Quasi dieci anni dopo la signora Teglia è nella stanza della figlia, che da allora è rimasta com’era. Ogni mattina passa la lucidatrice, rifà il letto, apre la finestra e spolvera la libreria. Poi apre l’armadio e accarezza i vestiti della figlia, che sanno di polvere e naftalina. La plastica protettiva crepita sotto il tocco pesante delle sue mani, un cappotto si sfila e finisce su una pila di maglioni piegati. Quella pila nasconde una scatola di scarpe piena di nastri incisi che erano sfuggiti alle precedenti perquisizioni della polizia. Sono le audiocassette che Letizia utilizzava per le sue lezioni di inglese, ma una ha una etichetta che attira l’attenzione della mamma: è indirizzata a Vittorio Emanuele Sia, l’ex-ragazzo della figlia. Due ore di registrazione in cui Letizia confesserebbe di essere stata violentata da due uomini, nella stessa stanza in cui la mamma si trova in quel momento. Il corpo di Letizia non è mai stato ritrovato. La mamma è convinta che sia stata rapita.
L’8 maggio 1996 Marina Di Modica esce di casa alle 17:30 con una scatola piena di vecchi francobolli e sparisce nel nulla. Uscita da lavoro alle 16:30, è stata dal parrucchiere, ha acquistato dei collant nuovi e forse un rossetto color pastello. La sua Y10 verrà ritrovata tre giorni dopo davanti all’ospedale Mauriziano, a pochi passi dal Sant’Anna. Dall’agenda della donna i familiari scoprono che la donna alle 18 doveva incontrare Paolo Stroppiana, il filatelico che avrebbe voluto acquistare i francobolli della donna. Ma Stroppiana nega: Marina ha disdetto all’ultimo momento l’appuntamento. Per cinque anni non verranno condotte indagini. È solo un’altra delle tante donne che spariscono ogni anno in città, pensa la polizia. Poi nel 2001 a un poliziotto o a un magistrato o a un giornalista televisivo torna in mente quell’appunto sull’agenda e pensa: ma chi cazzo è Paolo Stroppiana? Quel poliziotto o quel magistrato o quel giornalista televisivo scopre che: Stroppiana ha militato nel gruppo di Terza Posizione; è stato arrestato a 17 anni per aver sprangato un compagno;nel 1982,infiltrato dalla polizia nel gruppo dei Nar, contribuisce all’arresto di numerosi camerati; ha collaborato con la magistratura nei processi per la strage di Bologna, testimoniando contro Paolo Signorelli (ideatore), Licio Gelli (mandante) e la banda Fioravanti (esecutori). Nel 1985 è stato rilasciato. Il 2 luglio 1985 Edvige Porta è seduta nel suo ufficio. Sono le nove e trenta di sera quando la donna, 50 anni, capelli chiari, occhi scuri, single senza figli, telefona ai genitori per avvisare che farà molto tardi. Come sempre, risponde il padre, poi le chiede se ha cenato. No, dice Edvige, non ho ancora cenato. Chiedo a tua madre di prepararti qualcosa? domanda il padre. Sì papà, grazie, risponde lei, ma niente carne per favore. Niente carne, risponde il padre. Edvige è funzionario del servizio economato della USL 1/23 di Torino (da cui dipende l’ospedale Sant’Anna della dottoressa Bianca Tovo), lo stesso ufficio dove lavora Marina Di Modica. Lo stabile è deserto, il portiere VERDE
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stacca alle 20 ma l’ingresso resta accessibile per tutta la notte. La mattina dopo, alle sette, il signor Porta prepara il caffè alla figlia e le porta la colazione a letto, ma la stanza è vuota. Nello stesso momento, al secondo piano di Corso Vittorio Emanuele III, alcuni colleghi rinvengono Edvige legata a una sedia con del nastro adesivo nero, coperta di sangue e di lividi, la faccia un miscuglio di carne rossa e viola. Dalla cassaforte dell’ufficio mancano 50 milioni di lire. La donna è morta a causa delle percosse subite e per le coltellate – più di dieci – ricevute. Che cosa succede, si chiede 18 anni dopo un giornalista televisivo, quando in una città le donne svaniscono nel nulla e i loro corpi non vengono ritrovati? Cosa dovrebbe fare un giornalista come me in assenza di prove per collegare casi simili tra di loro? Indagare. Ed è quello che farò. Nel 2003 c’è un giornalista televisivo che segue da vicino le prime indagini su Paolo Stroppiana. Questa è merda inutile, pensa il giornalista, tutta merda vecchia e inutile. Il giornalista però si dice che è pur sempre un inizio e che c’è differenza tra una merda d’inizio e un inizio di merda. La prima cosa che scopre è che Marina Di Modica non è l’unica donna scomparsa ad aver conosciuto Stroppiana. Prima di lei c’è stata Camilla Bini, quattordici anni prima. È l’8 agosto 1989 ed è l’ultimo giorno di lavoro per Camilla Bini, 34 anni, padre italiano e madre somala. La donna, impiegata alla Bolaffi, sta per partire per la Puglia con un’amica. L’ultima persona ad averla vista è la sua vicina di casa, che attorno alle 18:30 la invita a bere una bibita nel suo appartamento. Parlano di mare, di spiagge, di lavoro, di relax e di gatti randagi, poi si augurano con affetto buone vacanze. Nei giorni precedenti Camilla è andata più volte in un’agenzia di viaggio del quartiere per organizzare la partenza. La donna dovrebbe rientrare dalle ferie il 28 agosto. Per venti giorni nessuno la cerca. Le indagini partono male e in ritardo VERDE
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e solo in seguito alla denuncia dei suoi datori di lavoro. Cosa è successo a Camilla? Nel suo appartamento tutto è apparentemente in ordine, non ci sono segni di collutazione e non manca nulla. Eppure gli agenti trovano il frigorifero pieno e, sul tavolo della cucina, due bicchieri e due tazzine di caffè, una delle quali macchiate di rossetto, del tipo che Camilla non usa. Perché Camilla avrebbe dovuto fare la spesa e riempire il frigorifero il giorno prima di partire? In quei giorni il giornalista televisivo viene a conoscenza di una serie di cose. Le più importanti sono: le impronte digitali sui bicchieri e sul tavolo non sono state rilevate; i vicini di casa di Camilla e i genitori della donna non sono mai stati ascoltati dagli inquirenti; nel 1998, è primavera, Giuliana Bini contatta il magistrato che indaga sulla scomparsa della sorella ma viene a sapere che nessun fascicolo sul caso è mai stato aperto; nell’agosto del 1989 una collega e amica di Camilla avrebbe ripetutamente cercato di contattare la donna e non riuscendovi avrebbe chiesto aiuto a Beatrice Della Croce di Dojola. A questo punto il giornalista televisivo deve fermarsi, tornare indietro e rileggere le ultime sei pagine di appunti fitti e disordinati che si affastellano nella sua Moleskine Nera. Ha perso il filo. Il 9 agosto 1989 Camilla Bini sarebbe dovuta partire in Puglia con Beatrice Della Croce di Dojola, impiegata della Bolaffi e fidanzata di Paolo Stroppiana. I tre colleghi si frequentano anche al di fuori delle ore di lavoro. In quei giorni d’agosto un’amica di Camilla cerca inutilmente di contattare la donna, ma poi si rivolge a Beatrice. Perché proprio a lei? si domanda il giornalista. Durante il processo di primo grado per l’omicidio Di Modica, indagando sulle abitudini sessuali di Paolo Stroppiana, si scopre che l’indagato ha avuto una relazione con Camilla Bini, sostituita anni dopo da Marina. Nell’ottobre del 1996 l’uomo, durante un’intervista televisiva, incalzato
dalle domande, giura di aver avuto con entrambe le donne esclusivamente rapporti di lavoro superficiali. Brutto bastardo, urla Giuliana Bini davanti alla tv, nel salotto dei suoi genitori. Eravate fidanzati, lo sai, sussurra grattandosi l’avambraccio sinistro, mentre una lacrima le riga lentamente il volto. Perché fare la spesa il giorno prima di partire? Perché riempire il frigorifero alla vigilia delle ferie? Perché due bicchieri d’acqua e due tazzine? Perché solo una delle due macchiata di rossetto? Perché un rossetto che Camilla non usava? Perché non raccogliere le impronte digitali sulle tazzine e sui bicchieri? Perché? Perché? Perché? Nel 1990, durante una pausa pranzo in ufficio, Beatrice Della Croce di Dojola è in compagnia di due colleghi. Il discorso cade su Camilla. È vero che dovevate partire insieme per la Puglia? domanda l’uomo giovane e in camicia bianca. Sì, è vero, risponde Beatrice. Tredici anni dopo il giornalista televisivo riesce a intervistare la coppia del momento, Paolo e Beatrice. I giornali e le tv parlano solo di loro, è un colpo sensazionale. Il giornalista ha appena appurato che l’amica di Camilla, nei giorni successivi alla scomparsa, aveva contattato Beatrice perché a conoscenza del viaggio in Puglia che le due donne avevano organizzato. È vero, Beatrice, che tu e Camilla dovevate partire insieme per la Puglia? domanda il giornalista. Non esiste, risponde lei, io odio la Puglia. E dove dovevate andare allora? domanda il giornalista. Da nessuna parte, risponde la donna. Puoi essere più precisa? Le ho semplicemente proposto di venirmi a trovare a Santa Margherita Ligure, dove ho casa, ma lei voleva andare in Puglia. È vero, domanda il giornalista, che Paolo e Camilla avevano una relazione? Nel modo più assoluto, risponde la donna. Nel modo più assoluto sì o no? Beatrice guarda dritto in camera e, come levitando, trattiene il respiro fino a un attimo prima di scoppiare e poi dichiara: il soprannome di Paolo è Cuore di Panna. Può bastare, no? Cos’è successo a Camilla? conclude serio il giornalista. È stata
vittima di una stagione infernale. Nell’estate del 1985 un gruppo di medici dell’ospedale Sant’Anna di Rivoli si aggrega a una spedizione scientifica dell’Università di Torino. Gli studiosi si trovano nel monastero di Bardan, nella regione del Kashmir, a 3600 metri di quota. Il 9 agosto, durante un’escursione, Fiorella Rolfo, 33 anni, medico fisiatra, si sente male e chiede all’amica e collega, dottoressa Bianca Tovo, di fermarsi, ma la donna prosegue con il gruppo e Fiorella resta sola, nei pressi di un fiume. Più tardi verranno ritrovati il suo zaino e gli effetti personali. La dottoressa Rolfo è svanita nel nulla. Al ritorno in Italia una troupe televisiva intervista Bianca Tovo. L’intervista avviene all’aeroporto di Milano Linate. I giornalisti, in sequenza, domandano alla dottoressa: perché Fiorella è stata lasciata sola; che tipo di problema fisico aveva accusato Fiorella; se è vero che Fiorella soffriva di una grave forma cronica di depressione; come si sono svolte le ricerche della donna; se pensa che è morta; perché ne è così convinta; come è morta allora; cos’ha da dire ai genitori che la stanno ascoltando. Il 14 aprile 2011 Paolo Stroppiana viene condannato in via definitiva a 14 anni di reclusione per l’omicidio preterintenzionale di Marina Di Modica. Il 22 aprile il caso di Camilla Bini, tutt’ora irrisolto, viene riaperto.
Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito. È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. lucacarelli60@gmail.com
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Numero 17 ottobre 2013
Marco Teodorani - www.pinterest.com/marcoteodorani
Baro Rom Pier Paolo Di Mino Non ci credi? Eppure è così. Guarda nel foro del tendone, proprio dove indica la bocca del cannone. Ci siamo nati in questo circo e chissà quante volte ci hai guardato. Ma ora guarda bene, con attenzione. Quella stella, quella lì in alto, piccola ma luminosa come il fondo di una birra illuminata sotto i fari del bancone di un bar notturno, quella stella è mio padre. So cosa si dice in giro, ma se vuoi sentire le cose come sono andate da uno che le sa, fidati. Dicono che mi ha abbandonato. Ma non può essere. Magari la storia l’ha messa in giro mia madre, «quel bastardo ci ha abbandonato» diceva spesso. Va bene, lo diceva spesso. Ma con le lacrime agli occhi. Da donna innamorata. Sai come sono le donne, e sai come era mio padre. Mio padre era bello. E forte. Forte con il petto largo e certe braccia che ti sollevava una mucca prendendola per i garresi. Lei lo amava. E pure lui amava lei. E amava me, che quando sono nato e mamma è rimasta chiusa a casa con i capelli raccolti in testa e il fazzoletto in testa, lui ha cucinato per me, e pare solo carne di cinghiale e salsicce ben pepate, e poi ha dato una grande festa, con il pane per gli altri bambini, ma anche con musica e tutto il resto, che ci erano venute non so quante famiglie e pure il tribunale dei vecchi, e giù a godere a peperoni, involtini e birra per tre giorni e tre notti. Mio padre bevve un barile di quella buona e suonò come VERDE
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suonava lui, e sai che era bravo, che quando pizzicava le corde si fermava il cielo ad ascoltarlo, e raccontò tutta la storia della sua vita fino agli antenati. Si levò il fiato dal petto per farmi la festa come si deve. Ci amava. Ma sai come andò? Scoppiò la guerra. Quella grande. Quella buoni contro cattivi, con tutti quei morti. E mio padre dovette andarci. Non è che poteva non andarci. Cioè, poteva pure non andarci, perché noi zingari del circo non ci abbiamo l’obbligo, ma lui ci andò. So cosa dicono, che aveva un conto in sospeso con un tizio e che era meglio per lui se spariva. Ma non è così. Io ero piccolo, ma a me lo disse il vero motivo, perché non era un padre di quelli che trattava i bambini da bambini. Mi disse: «sarei pure contrario, ma un uomo, se scoppia, alla guerra ci deve andare». Ci ho ripensato per tutta la vita a questa sua frase, e mi sono convinto che mio padre ha ragione. Era un tipo, ecco, che sapeva avere ragione. Per questo nella guerra se la cavò bene, e divenne un eroe. Era forte e ragionava bene, e, se vuoi ti faccio leggere la lettera di un generale, dove ci è scritto nero su bianco che mio padre era un eroe, che, in un non so quale deserto d’Africa, aveva vinto una battaglia decisiva entrando nel campo dei nemici. Avevano fatto finta di arrendersi, pare, e poi sul più bello li aveva uccisi tutti. Ti dico io: aveva fretta di tornare a casa da me, e si era inventato questo trucco. Se
tu l’avessi conosciuto, avresti detto: è un uomo pieno di trucchi. Infatti, proseguiva la lettera del generale, mio padre lo condannavano a morte per diserzione, perché aveva fretta, e tutto insieme aveva sconfitto i nemici, e se l’era data a gambe levate. Nella lettera del generale si sentiva un sorriso di ammirazione. Pieno di trucchi mio padre, perché è ovvio: voleva tornare a casa da me, e allora aveva disertato il suo esercito, aveva sconfitto quello avversario, era diventato insieme un eroe e un traditore, si era fatto tutto il deserto a piedi, e appena arrivato all’oceano ci si era buttato dentro. Sapeva nuotare meglio di un pesce. E si mise a nuotare. Qui dicono che sia stato mangiato da una balena, ma che alla fine la balena lo abbia sputato perché era un osso troppo duro da digerire. Altri dicono che sia stato catturato dai pirati, che lo volevano uccidere, ma lui come ultimo desiderio gli chiese di raccontare la sua storia, e tutti i pirati a ridere e piangere, e, insomma, alla fine lo fecero il loro capo, e come capo dei pirati girò per tre anni mietendo paura e dolore. Io credo più a quest’ultima storia, e nelle isole del sud ancora oggi raccontano di un marinaio forte, bello, astuto, stanco di guerra che una volta ha ucciso un gigante facendo felice tutti gli abitanti dell’isola. Il marinaio era uno che voleva tornare a casa, cioè da me: era mio padre. Dicono che il gigante fosse figlio di un dio, o qualcosa del genere, che prese in odio il marinaio e gli diede tanti guai per non farlo tornare a casa. Dirai, superstizioni di isolani. Ma sta di fatto che mio padre cominciò a perdersi per mare. Quanti porti, e isole deserte, e terre di morti
ha visto mio padre! Ma anche quante donne ha amato, e in quante lo hanno ricambiato, bello e forte come era. Per questo mia madre, capisci, parla di lui con dispetto. Ma lui voleva tornare, e infatti è tornato. Qui al campo nostro. E io me lo ricordo. Lì per lì non lo riconobbi, ma lui mi chiamò: «Sei Zorro, ragazzo? Sai chi sono io?». E gli dissi di sì, gli dissi che sapevo chi era perché la mamma me lo aveva detto. «Bene», mi rispose lui, e io gli dissi: «Sei tornato, allora?». Ma lui mi rispose e mi disse una cosa che io ci ho ripensato per tutta la vita a questa sua frase, e mi sono convinto che mio padre ha ragione. Mi disse: «Siamo zingari. E si torna solo per ripartire». E io ci rimasi male, lì per lì, lo ammetto. E alzai le spalle, triste, ma lui mi diede uno schiaffo, ma leggero, sul viso e mi disse: «Sono tornato per te, andiamo dentro il tendone. Ti devo insegnare una cosa. Un grande uomo», così disse, ma dicendolo alla zingara, Baro Rom, «deve saper volare». E si mise nel cannone e diede fuoco alla miccia. Dicono che l’ha ucciso come un cane uno a cui aveva fatto chissà che, ma io l’ho visto volare quella notte. Si mise nel cannone e via, per insegnarmi come si fa. Insomma, come un grande uomo. Io quella notte l’ho visto diventare una stella. E ora che sono grande, farò lo stesso. Guarda. Pier Paolo Di Mino ha ideato la rivista “R!” e le raccolte Visiorama e Il Re operaio. Ha scritto con M. Di Mino il film Fine Pena Mai, il romanzo Fiume di tenebra, Il libretto rosso di Garibaldi e quello di Pertini. Con TerraNullius organizza il Flep! Da solista ha creato 113 religioni, scritto il racconto in versi Storia aurea.
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Numero 18 novembre 2013
Le tarme erano negli intarsi Pierluca D’Antuono Candy divideva l’appartamento con Drella, un cane oscuro e lento che aveva investito all’alba di una domenica di ottobre alle porte della stazione. Gli mancavano due denti, aveva la coda spezzata, e dal muso sputava ciocche di pelo nero bruciato dal freddo. A volte la sua presenza inutile e spettrale lasciava indifferente Candy, altre volte lo deprimeva, ma il più delle volte lo faceva impazzire. Di notte, ad esempio, quando si trascinava da una parte all’altra dell’appartamento, raschiando le mattonelle e disseminando il pavimento di scaglie di unghie gialle o grigie. Candy allora domandava: «Perché fai così?». Oppure: «Stai bene qui con me?» Altre volte provava con: «Aspetta che ti accada qualcosa prima o poi», ma sapeva che il solo modo per non sentirlo era di accarezzare l’armadietto dei medicinali in bagno, l’unica porta sempre aperta che lo conduceva in un angolo perfetto di silenzio dove c’era spazio solo per lui. Quando era lì poteva passarsi un dito sulle gengive, sorridere a occhi chiusi, o indossare la sua corona personale di santità: i suoni rimbalzavano su quella cortina, pompando etere attorno alla sua aureola. Col tempo, però, Candy aveva scoperto che, a volte, dopo che è successo di tutto può ancora succedere ogni cosa. Non è una regola, né un contrasto, ma è un tipo di lezione difficile da riconoscere nel cuore della notte, mimetizzata tra i mille solchi dei pulviscoli gelatinosi che danzano nell’ombra. Quando accadde fu improvviso, non ponderato ed esplose in tutto l’appartamento, scuotendolo come una grande decisione (o una definizione saggia): un urlo disperato dipinse di orribile i muri della sua storia. A quel punto Candy avrebbe potuto alzarsi e piangere per lo spavento, o alzarsi solo per guardare, ma non poteva più restare lì, accartocciato VERDE
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sul tappetino della doccia, le gambe indolenzite, una mano stretta tra le cosce, l’altra a mollo nella polla del cesso. Accese la luce e si guardò attorno: le pareti erano ancora verdi, il materasso era sempre lì, al centro della stanza, e i vestiti erano sulla sedia, davanti alla finestra. Era tutto come prima e non mancava nulla. Respirava con la bocca quando appoggiò mani e orecchio alla porta, ma al di là del legno non c’era nessuno: le tarme erano negli intarsi. “Forse era un sogno”, pensò mentre si rivestiva. «O sei stato tu?», domandò a Drella, e sotto il suo sguardo spento scivolò via alla finestra. Erano le due di notte. Nella sua testa l’eco dell’urlo non era ancora morta, ma nessun dottore si sarebbe opposto alla decisione di staccare la spina. Pensò che non si sarebbe mai più addormentato. Tanto valeva uscire. Le foglie si arrampicavano come pennellate storte sui cassonetti bruciati, i sacchetti in fiamme si scioglievano nell’aria e i rifiuti si rovesciavano sui topi neri che dormivano nelle cabine telefoniche. I bambini sporchi dormivano sereni e i piccoli animali si rincorrevano sui bordi, attorno a una gatta cieca che rotolava come un’intuizione sui blocchi di porfido accatastati all’angolo della strada, davanti alla macelleria abbandonata. La gatta aveva una bocca piccola e gassosa, che sembrava sciogliersi nello stesso vento che apriva piccole vertigini sul suo pelo bianco. Drella la puntò con il muso e Candy ebbe la sensazione che la gatta bisbigliasse, ma da lì poteva sentire solo le unghie del cane che picchiettavano sull’asfalto messaggi cifrati alle ceneri del tempo. A un passo dalla coda bianca, erano così vicini da poterla toccare, accadde di nuovo e l’urlo si schiantò più potente di prima, come un tuono che si ripeteva in un bordone di
nubi nere schierate nella loro testa. Candy perse l’equilibrio e per un po’ non sentì più nulla, ma quando riaprì gli occhi l’urlo riprese fiato, illuminando ogni cosa. Drella era sparito nei lampi. Candy chiamò con forza il suo nome, ma l’urlo gli ricacciò in gola ogni parola. Provò a rialzarsi per cercarlo, non poteva essere lontano, ma non appena fu in piedi s’accorse che l’urlo si stava trasformando e adesso era una risata. Poteva vederla, distorta da un suono finto e metallico, attorno alle sue gambe e nel cielo incendiare le stelle che pulsavano come erezioni rosa, lungo una scia che presto o tardi lo avrebbe condotto al di là dell’incrocio, dall’altra parte della città. Che fine avevano fatto tutti quanti? Dov’erano le scimmie che ogni notte fuggivano dalle gabbie? Dov’era finito il mio coraggio? E dove s’era cacciato Drella? A quell’ora, si disse, qualcuno gli avrà già spezzato tutte le ossa, e io non potrò fare nulla per impedirlo. Camminando sul bordo della strada, Candy andò a sbattere contro il grattacielo più alto della città, di fronte all’ospedale, e guardò in su, più che poteva. La risata s’inchinò con grazia e dall’attico lanciò la sfida: quello era il suo regno, il suo trono e la sua partita. Qualcuno, pensò Candy, avrà già fatto a pezzi le sue zampe, ma io non posso fare nulla per tornare indietro e questa sarà, fino alla fine, la mia colpa più grande. I suoi occhi navigavano a vista in un oceano di luce riflessa che illuminava di taglio una parata mascherata: attraverso le finestre spalancate, al primo piano, Candy poteva vedere oscuri marinai incipriati intrattenersi con cavalieri attillati, ballerine del Bol’šoj che consolavano orfani berlinesi, mogli infedeli impiccate ad alberi secolari. Il dolore e la bellezza di quei costumi splendidi lo respinsero ai margini dell’Impero, alla periferia del suo intorno che quella notte, in una notte soltanto, aveva deciso di crollare. La risata schizzava da un piano all’altro della torre come mercurio bollente e Candy era lì, impotente, in ascolto, in attesa di una guida che prese forma nella perfezione di una schiena nera indolenzita. Era una donna
bellissima, seduta sul davanzale, il capo in avanti nascosto dalle spalle – o decapitato, si disse. Da laggiù Candy poteva desiderare quel corpo, contarne le ossa o unire idealmente i nei che sulla pelle ricalcavano un disegno di evasione che avrebbe placato le ansie del mondo. L’appartamento bruciava di grazia e terrore quando all’improvviso partì un colpo di pistola: le bocche gorgheggiarono all’unisono, la risata fece capolino con più violenza di prima, ma quel suono, ora definito, era per certo registrato. Da quel Drive-In senza misura, la donna precipitò ai piedi di Candy, schizzando sangue sulle sue mani. La prima cosa che pensò fu che non aveva mai visto gambe tanto livide e muscolose. Candy aveva voglia di baciarle, e toccare quei polpacci così nervosi e pronunciati. Sembravano scolpiti nella roccia, come un David che all’avambraccio aveva ancora un laccio annodato – sguisciò come un sasso quando Candy lo strappò via. La donna non respirava più o forse rantolava. Era pallida ma non perdeva sangue e probabilmente non era stata colpita. O forse lo era stata, e allora il sangue era finito. Le lunghe ciocche nere le coprivano il viso e lo sguardo era indurito da sopracciglia folte e spettinate che si congiungevano sul naso. Candy l’aveva presa in braccio senza fatica. “È un buon segno” pensò, perché, così ricordava, i cadaveri pesano più dei vivi. L’asfalto era ricoperto di lumache fosforescenti. Erano decine, ma non formavano una catena. Lasciarono la festa in punta di piedi, senza fermarsi, perché tutti sapevano che non sarebbe mai finita. Nelle loro teste l’eco della risata era ancora viva, ma nessun dottore si sarebbe opposto alla decisione di staccare la spina. Pierluca D’Antuono è ideatore di VERDE, che cura insieme ad Alda Teodorani. Ha esordito nell’antologia Buon natale, felice anno nuovo (Castelvecchi Editore 2012, a cura di Antonio Veneziani) con il racconto La messa è finita. Suona il basso nei VIGO. Vive e lavora a Roma. VERDE
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The Gift Lou Reed Waldo Jeffers aveva raggiunto il limite. Era ormai metà agosto e non vedeva Marsha da più di due mesi. Due mesi in cui aveva ricevuto soltanto tre lettere spiegazzate e due telefonate interurbane molto care. Certo, quando la scuola era finita – lei era tornata nel Wisconsin, lui a Locust, Pennsylvania – Marsha gli aveva giurato che sarebbe stata, in un certo modo, fedele. Di tanto in tanto sarebbe uscita con qualcun altro, ma solo per divertirsi un po’. Sarebbe rimasta fedele. Ma ultimamente Waldo era preoccupato. Di notte non riusciva ad addormentarsi, e quando dormiva faceva dei sogni orribili. Passava la notte sveglio, rigirandosi sotto le coperte, con le lacrime che gli riempivano gli occhi mentre immaginava Marsha, il suo giuramento vinto dall’alcol e dalla allettante compagnia di un Neanderthal qualunque, che l’avrebbe blandita con la prospettiva dell’oblio sessuale. Era più di quanto la mente umana potesse sopportare. Le visioni dei tradimenti di Marsha lo perseguitavano. Di giorno quelle fantasie invadevano i suoi pensieri, ma ciò che lo turbava di più era l’idea che nessun altro avrebbe mai potuto capirla. Solo lui, Waldo, poteva sul serio. Lui conosceva ogni anfratto e ogni angolo della sua mente. L’aveva fatta sorridere: lei aveva bisogno di lui, e lui non c’era.
semplice. Si sarebbe spedito come un pacco postale espresso.
L’idea gli venne il giovedì prima dell’inizio della sfilata in maschera. Aveva appena finito di tagliare l’erba e di sistemare il giardino degli Edison per un dollaro e cinquanta e poi controllò la cassetta della posta, in cerca di Marsha. C’era solo il volantino della Amalgamated Aluminium Company, che voleva sapere se gli servissero tendoni. Perlomeno erano così premurosi da inviargli una lettera. Era una ditta di New York. Si poteva arrivare ovunque con la posta. Fu allora che ebbe l’idea. Non aveva abbastanza soldi per andare fin nel Wisconsin in maniera convenzionale, è vero, ma perché non imbucarsi? Era incredibilmente
Marsha Bronson aveva appena finito di sistemarsi i capelli. Era stato un fine settimana estenuante. Doveva ricordarsi di non bere in quel modo. Perlomeno Bill era stato gentile: alla fine le aveva detto che in ogni caso la rispettava, sapeva come andavano quelle cose, e anche se no, proprio non l’amava, provava molto affetto per lei. Dopotutto erano adulti. Ah, quante cose Bill avrebbe potuto insegnare a Waldo. Ma ormai sembrava passato così tanto tempo.
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Il giorno dopo Waldo andò al supermercato per acquistare l’occorrente. Comprò nastro adesivo da pacchi, una pinzatrice e una scatola di cartone di medie dimensioni, perfetta per una persona della sua corporatura. Valutò che, con un minimo di accorgimenti, poteva viaggiare piuttosto comodamente. Qualche buchetto qua e là per l’aria, dell’acqua e del cibo, e probabilmente sarebbe stato come in classe turistica. Il venerdì pomeriggio Waldo era pronto. Si era impacchettato con cura, e qualcuno, dall’ufficio postale, sarebbe passato a prenderlo alle tre. Scrisse sul pacco “fragile” e mentre vi si rannicchiava, adagiandosi sulla gommapiuma che aveva previdentemente inserito, provò a immaginare lo sguardo sorpreso e felice di Marsha quando, aperta la porta, dopo aver visto il pacco e lasciato la mancia al postino, si sarebbe ritrovata davanti al suo Waldo, in carne e ossa. Si sarebbero baciati e poi forse avrebbero potuto vedere un film. Se solo ci avesse pensato prima. A un certo punto, qualcuno afferrò il pacco bruscamente e lo lanciò in direzione del camion, dove atterrò con un tonfo sordo. Erano pronti per partire.
Sheila Klein, la sua migliore amica, entrò in cucina attraverso la porta della veranda. «Oddio, è impossibile stare fuori in questo stato!»
«Non dirlo a me, sono tutta sfasata.» Marsha si strinse la cintura dell’accappatoio di cotone con i bordi di seta. Sheila sfiorò dei grani di sale sul tavolo della cucina, si leccò il dito e fece una smorfia. «Dovrei prendere delle pillole di sale, ma» e arricciò il naso «mi fanno venire il vomito.» Marsha intanto si picchiettava il mento con le dita, un esercizio di ginnastica facciale che aveva visto in televisione. «Dio, non parlarmene nemmeno.» Si alzò dalla tavola e andò verso il lavandino, dove prese una confezione di vitamine rosa e azzurre. «Ne vuoi una? Dovrebbero essere meglio di una bistecca!» Poi provò a toccarsi le ginocchia. «Credo che non berrò mai più un daiquiri.» Rinunciò e si sedette, questa volta più vicino al telefono. «Forse Bill chiamerà» disse, come per rispondere allo sguardo di Sheila, che intanto si stava mordicchiando una pellicina. «Forse, dopo la notte scorsa, faresti meglio a chiudere con lui.» «So a cosa ti riferisci. Dio mio, era proprio come un polipo, con le mani dappertutto!» disse alzando le braccia in segno di difesa. «E che non si può resistere a lungo, e poi venerdì e sabato non abbiamo fatto niente, un po’ glielo dovevo,sai!» Cominciò a grattarsi.Sheila ridacchiava coprendosi la mano con la bocca. «Ti dirò, anch’io mi sentivo proprio così, anzi, dopo un po’» e si piegò in avanti in un sussurro «ne avevo voglia.» E cominciò a ridere forte. Fu a quel punto che il signor Jameson, dell’ufficio postale di Clarence Darrow, suonò alla porta della villetta quadrata decorata con lo stucco. Marsha Bronson aprì la porta, e l’uomo l’aiutò a portare il pacco in casa. Le fece firmare dei moduli verdi e gialli, e poi andò via con una mancia di quindici centesimi, che Marsha aveva tirato fuori dal piccolo borsellino beige della mamma, nello studiolo. «Cosa può essere, secondo te?» domandò Sheila. Marsha se ne stava in piedi, con le braccia dietro la schiena. Fissava la scatola di cartone marrone poggiata nel bel mezzo del salotto. «Non lo so.» Dentro il cartone, Waldo fremeva per l’eccitazione, mentre ascoltava le voci attutite delle ragazze. Sheila fece scorrere l’unghia lungo il nastro di scotch che attraversava il
centro della scatola. «Perché non guardi l’indirizzo del mittente? Così capisci chi te l’ha mandato.» Waldo poteva sentire i battiti del suo cuore e le vibrazioni dei passi di lei. Mancava poco, ormai. Marsha girò intorno alla scatola e lesse l’etichetta scarabocchiata. «Cristo! È da parte di Waldo!» «Quel coglione!» disse Sheila. Waldo tremava di impazienza. «Aprilo, no?» disse Sheila, e insieme provarono a sollevarne un lembo. «Oaah,» esclamò Marsha seccata, «deve averlo inchiodato.» Provarono di nuovo. «Dio mio, ci vuole un trapano per aprire questa cosa.» Tirarono ancora una volta. «Così è impossibile.» Se ne stavano lì in piedi, con il fiatone. «Perché non prendi un paio di forbici?» domandò Sheila. Marsha corse in cucina, ma trovò solo delle forbicine per le unghie. Poi le venne in mente che suo padre teneva degli attrezzi in cantina. Corse giù per le scale e tornò con un grande tagliacarte in mano. «Non ho trovato niente di meglio.» Le mancava il fiato. «Tieni, pensaci tu, sto per scoppiare» e si gettò sull’enorme divano lanuginoso, sbuffando rumorosamente. Sheila provò ad aprire un varco tra lo scotch e l’orlo del cartone, ma la lama era troppo spessa e la fessura troppo stretta. «Maledizione», esclamò esasperata. Poi, sorridendo, aggiunse: «Ho un’idea.» «Che idea?» chiese Marsha. «Guarda qua» disse Sheila, toccandosi la fronte con un dito. Dentro lo scatolone Waldo era talmente eccitato che quasi non riusciva a respirare. La pelle gli formicolava per il calore e il cuore gli batteva in gola. Mancava poco, ormai. Sheilà si alzò in punta di piedi, e camminò intorno alla scatola. Poi s’inginocchiò, impugnò il tagliacarte con entrambe le mani, fece un respiro profondo e infilzò la lunga lama al centro del pacco, che perforò lo scotch, e perforò il cartone, e perforò l’imbottitura e infine perforò il cranio di Waldo Jeffers, che si squarciò lievemente in piccoli arcobaleni ritmici di colore rosso, che pulsavano dolcemente nel sole del mattino. (The Gift, da White Light/White Heat, 1968) VERDE
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Numero 19 dicembre 2013
Rocco Lombardi - http://www.lalberosfregiato.blogspot.it/
La mucca Francesco Cortonesi Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perso in modo estremamente pericoloso il sano intelletto animale: vedano cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice. (Friedrich Nietzsche)
L’uomo uscì di casa e scese fino al pascolo. Una mucca gli venne incontro. Gli si piantò davanti, restando immobile a fissarlo. E questo fu quanto. Mi ero messo in cammino la mattina presto. Nella valle i campi di grano erano gialli e la strada quasi deserta. Imboccai il sentiero che portava verso i pascoli. Avevo affittato una casetta in montagna, per stare lontano dalla città e cercare di pensare il meno possibile a quello che avrei dovuto fare. Stavo diventando vecchio ed ero pieno di rimorsi che dentro di me, come ratti rabbiosi, trovavano rifugio in tane che credevo di aver chiuso per sempre. Uscito dal sentiero notai in lontananza un uomo. Davanti a lui c’era una mucca. Erano al centro di un pascolo, una distesa d’erba appoggiata sul dorso di una spelonca che sembrava la schiena muscolosa di un cavallo selvaggio. Entrambi erano immobili. La mucca lo sovrastava e faceva sembrare l’uomo un piccolo spaventapasseri al cospetto di Buddha. La scena m’incuriosì e decisi di VERDE
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avvicinarmi per dare un’occhiata. L’uomo aveva un cappello di paglia in testa, una camicia di flanella e un paio di pantaloni marroni. La mucca (una frisona pezzata bianca e nera, venni a sapere poi) muoveva appena la coda e per il resto pareva di pietra. Mi avvicinai fin quasi a poterli toccare. L’uomo non si voltò neppure. Portava un paio di occhiali con la montatura di metallo e le lenti erano impolverate come se fossero state raccolte da terra. «Di bello c’è che non fa male», disse restando immobile a fissare la bestia. Provai un senso d’inquietudine. L’uomo e la mucca sembravano impegnati a raggiungere un accordo. «Buongiorno» dissi. «È davvero un bell’animale.» «Domani mattina verrà condotta al macello con tutte le altre» disse l’uomo. «Pensavo fosse una mucca da latte.» «Le mucche da latte sono dall’altra parte della collina. Non pascolano qui. E comunque sono destinate a fare la stessa fine.» «È un peccato sapere che domani sera non ci sarà più» dissi avventatamente, sempre più sorpreso dal fatto che non si fosse
ancora voltato. «Esiste un ordine a livello profondo» rispose, «un ordine che dovrebbe essere evidente e che invece ci sfugge.» La mucca nel frattempo non aveva fatto un passo e continuava a guardarci. I suoi occhi sembravano scrutare chissà quali profondità e le parole dell’uomo mi fecero pensare che forse stava esplorando universi che né io né lui avremmo mai potuto visitare; in ogni caso, molto più che pascoli a perdita d’occhio. «Sì certo, lo comprendo» risposi. «È sua questa mucca?» «No. Una volta anch’io avevo delle mucche, ma un giorno mia moglie si spaventò e decidemmo di venderle.» «Paura delle mucche?» L’uomo restò in silenzio. «Questa mucca pare avere un debole per lei» dissi accarezzando il muso dell’animale che restò impassibile come se a sfiorarla fosse stato un alito di vento. «Un giorno» disse l’uomo respirando profondamente, «un giorno ho compreso che la mia situazione era mutata. Forse le mucche volevano dirmi qualcosa?» «Le mucche?» «È una domanda.» «Cosa spaventò sua moglie?» gli chiesi, rendendomi conto troppo tardi di essere stato forse inopportuno. «Non me l’ha mai detto. Non ne abbiamo mai parlato. C’è mancato il tempo.» Non sapevo cosa pensare. L’uomo e la mucca continuavano a guardarsi, praticamente immobili come in una
fotografia. Decisi di andarmene. «Lei non sente nulla?» disse improvvisamente l’uomo, voltandosi verso di me. «Cosa dovrei sentire?» domandai. «Nulla. Lo immaginavo.» L’uomo tornò a fissare la mucca. E fu tutto. M’incamminai verso il sentiero e ripresi la mia strada. Mentre mi allontanavo non riuscivo a non voltarmi, di tanto in tanto, per vedere se l’uomo e la mucca fossero ancora lì. Non sapevo cosa pensare. Ero quasi in cima quando mi voltai ancora. L’uomo non c’era più e la mucca, correndo, stava abbandonando il pascolo terrorizzata. L’uomo rientrò in casa e si tolse il cappello. Prese un fazzoletto e si pulì le lenti degli occhiali, poi li indossò di nuovo e aprì la botola della cantina. Scese giù, aprì una vetrinetta e tolse un fucile. Lo appoggiò sul tavolo. Poi si sedette. E si mise in silenzio. Ad ascoltare. Francesco Cortonesi è cofondatore della Filmhorror.com. I cortometraggi nati dalle sue sceneggiature hanno vinto i più importanti festival nazionali di cinema horror. Fa parte del movimento di scrittori Connettivista, ha pubblicato numerosi racconti e il concept book Gotham Polaroid per Lupo Editore. Come Deadtoday ha pubblicato “Storie di Gente Morta” insieme alla Muzakiller Foundation. Ha portato in teatro NOF4: è fantascienza, non follia, spettacolo sulla storia di Nannetti Oreste Fernando internato a vita nel manicomio di Volterra. VERDE
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Novanta Jesus Adentro Anna è stesa sul letto. Dorme da ore, nel buio pesto della notte che avvolge il suo sogno. Immagini sfocate, indefinite, poi un volto prende forma. Un uomo anziano le si avvicina, i tratti raggrinziti dall’età, e le porge un diadema d’oro. «È per te, Anna. Sei stata un esempio di moralità per quelli del gruppo. Agli incontri clandestini ancora ne parliamo. Andartene perché non volevi che anche gli altri venissero scoperti è stata una scelta davvero etica. «Grazie, ma perché sei così vecchio? Nella realtà hai solo 30 anni...» «Anche tu sei come me.» Anna si specchia negli occhi dell’anziano, e si vede più vecchia di sessanta anni. Riceve il diadema, e nelle sue perle vede le immagini minuscole delle migliaia di persone che ha conosciuto da quando è nata. Un esempio di moralità. Anna ripensa al piano architettato per uscire dal gruppo, che le ha permesso di ingannare persino Elisa, la fondatrice; poi, con la più artata delle sue espressioni, bacia l’anziano. È Marco. VERDE
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Sudore e brividi, istantanee mentali oscurate dal nero della notte attorno a lui, e un incubo orrendo. Marco chiude la porta d’ingresso della sala riunioni, un seminterrato malmesso e buio dove si svolgono gli incontri clandestini. Tre persone, avvolte nella penombra di una serata di settembre, lo salutano calorosamente. «Una rivoluzione intellettuale, Marco, basta con i sabotaggi e l’azione diretta, non portano da nessuna parte» dice Elisa. «Antisessismo, antifascismo, antispecismo, non so, ormai mi sembrano solo retorica...» dice Anna. Marco osserva intensamente il terzo del gruppo, che annuisce. Improvvisamente tira fuori dallo zaino una pistola – una Beretta 90two – e spara: prima a Elisa, poi Anna, quindi le tramortisce a pugni e le imbavaglia. Imbrattandosi di sangue e sudore, violenta brutalmente le due ragazze semincoscienti, quasi morte. Il terzo osserva in silenzio. Marco completa l’opera e fissa il ragazzo negli occhi. È Jonathan, che si avvicina
al cadavere di Elisa, tira fuori un piccolo diadema di plastica da un sacchetto e lo appoggia sulla testa della ragazza. Immagini veloci scorrono sui bulbi oculari di Jonathan a notte fonda. 1990. Erano tutti e tre, bambini, in un prato sterminato nella calura estiva. «Dammi un bacetto, Marco.» «Sì, Jonathan» risponde Marco, «ma voglio un bacetto anche da te, Anna. Anna vieni qui!» «Eccomi!» grida lei, raggiungendo di corsa gli amici. In un attimo, il cielo si scurisce. Jonathan è scosso da un brivido, alza lo sguardo, e fissa pietrificato un enorme oggetto sospeso nel cielo. «Aiuto, aiuto!» «Che succede Jonathan?» «Non... non lo vedete anche voi? Lassù!» «No. Non vedo niente... E neanche tu vedrai più nulla, quando ti fisserò negli occhi e incoronerai il cadavere del tuo creatore.» Jonathan, sconvolto, distoglie lo sguardo da Marco e Anna e scappa via. Nel cielo, un enorme diadema riflette nelle sue perle le immagini di tutti i bambini che Jonathan conosce. Tra questi, ce n’è una che lo osserva intensamente. Elisa come sempre non ricorda cosa ha sognato. Si alza dal letto nel pieno della notte e va
in bagno. Apre l’armadietto dei medicinali e prende il Lexotan. Nello specchio appare la sala riunioni, e dentro c’è solo lei, che da 3 mesi precisi sogna di svegliarsi e andare in bagno guardandosi allo specchio, dove ci sono Anna, Marco e Jonathan, il suo gruppo clandestino che, inebetiti – in attesa di un’anima dal loro creatore – disertano per sempre la sala riunioni, a causa del fallimento di quel che Elisa ha plasmato. Poi compare un enorme diadema d’oro, che riflette nelle sue perle l’immagine di tutti gli uomini che, in un vortice di strepiti e grida, urlano senza requie: «Dio è salvezza». Elisa si sveglia. Apre la finestra del bagno, volge lo sguardo al cielo, e si butta dal nono piano. La notte primordiale è lì ad accoglierla nel suo delirio onirico.
Jesus Adentro vive a Roma, a malapena. È impegnato in progetti musicali (qualcuno l’ha visto pestare con gli Addio) e di autoproduzione (le Suicide autoproduzioni, spaccio di cassette, riviste, fanzine, tra cui la sua personale, Disperazione). Jesus Adentro è una surreale proiezione della mente. VERDE
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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 18 anno II novembre 2013
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Silvio Perego - Pierluca D’Antuono - Alda Teodorani Lou Reed - Simone Lucciola - S.H. Palmer