VERDE 25

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p.2 Edit p.3 TI ODIO POESIA #23: Sms alla Diva (Giovanni Pianigiani) p.4 Vincere è inutile (Pierluca D’Antuono) p.5 Non hai capito (Alda Teodorani) p.6 17.15 (Lionhearted) p.9 BLITZRECENZION #27: Amico Fragile (S.H. Palmer) p.10 Potere operaio (Claudio Calia) p.12 SEMIAUTOMATICA #17 (Simone Lucciola) p.14 La donna lunga (Francesco Cortonesi)

Io non parlo mai dell’aspetto negativo della mia vita, prima di tutto perché non voglio essere compianto: ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno voluto consapevolmente. VERDE

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indizi

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PARTNERS IN CRIME

VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it

for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY

dove siamo editoriale

In mezzo a tutta questa tristezza, questo nulla profondo e oscuro, qualcosa si muove. C’è vita negli abissi neri dell’equinozio d’estate, la vita che sa e vuole sopravvivere senza luce e senza ossigeno. VERDE, ormai ne sarete consapevoli, esiste anche per questo, e senza pretender d’esser luce oppure ossigeno vuol lasciare un’orma, una traccia – per inventare, promuovere, scuotere. Ma anche per recuperare, come insegna ogni mese la nostra pagina 16. Il recupero del Teatro Gerini di Roma – luogo di una bellezza de-cadente nella prima periferia romana, la periferia triste e polverosa che cinge il carcere di Rebibbia – sta costando fatica e impegno. Occupato da nove mesi da cittadini, comitati di quartiere e realtà del territorio che si sono costituiti con il nome Associazione Gerini, il terzo teatro più grande di Roma sta riprendendo vita. Partendo da zero, senza soldi e senza mezzi, il teatro è stato messo in sicurezza da vandali e cedimenti strutturali. I lavori da fare sono ancora molti: a Scrittori per il Gerini, serata organizzata per la raccolta fondi per il restauro del teatro, saremo presenti anche noi di VERDE con le nostre copie e le letture dei nostri racconti. L’appuntamento è al Teatro Gerini (via Tiburtina 990 - metro Rebibbia) sabato 6 luglio alle 21,30. Non mancate!


Sei completamente nuda, a parte le scarpe dai tacchi altissimi. Il tuo corpo è spruzzato di pailette dorate. Sono inginocchiato ai tuoi piedi, e ti contemplo. Quando suona mezzanotte avvicino le labbra al tuo sesso e bevo avidamente il tuo spumante aspro, caldo e buono. Questo è stato il mio sogno, il mio brindisi di inizio anno! Ciao Diva...

Giovanni Pianigiani Che nostalgia dei cinema a luce rossa, di quell’odore di sperma nell’aria! Mi tiravo fuori il cazzo, lo calzavo con un condom e lo menavo piano. I ragazzi gay mi spiavano e si masturbavano. Ma io badavo solo alle attrici sullo schermo. Poi sborravo, mi levavo il condom pieno di caldo sperma e lo davo al ragazzo più vicino. Spesso beveva il mio seme. Che bei tempi Diva, io ero un ragazzo carino, sai? Piss and Love to you!

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TI ODIO POESIA

Sms alla Diva


Vincere è inutile Pierluca D’Antuono È il 1993, l’anno in cui vinciamo ovunque e in tutte le città governiamo in maniera progressista ma responsabile. Siamo forti e siamo dappertutto e io lo scopro una notte in metropolitana, quando per sbaglio tiro fuori la tessera del partito invece dell’abbonamento: il controllore è veltroniano, non mi multa ma mi costringe a scendere a Cinecittà. La vita e facile ed è piena di certezze: Craxi è il Male, Internet è il Futuro, la DC è il Passato, noi siamo Dalemiani, e in quanto tali lavoriamo perché il compagno Occhetto si dimetta, o almeno perda le elezioni del ’94. Ho vent’anni, mi sono appena trasferito a Roma e voglio diventare un cronista di nera. So chi ha ucciso Simonetta Cesaroni e il mio sogno è di inchiodarla sulle pagine dell’Unità, ma i veltroniani hanno perso il congresso e adesso in redazione comandano loro. Due mesi dopo leggo in prima pagina che Scalfaro ha graziato l’ex-Nar Nikita Belgese, condannato nel 1977 a 5 ergastoli per la strage del Tufello. Il partito è indignato e promette battaglia quando si viene a sapere che il camerata ha intenzione di fondare un settimanale di cronaca nera, nel significato più familiare e auto-referenziale che ha da dare alla locuzione. Ricostruisco con rigore la storia di Belgese in un pezzo equilibrato che fa luce su alcuni punti oscuri della sua vicenda giudiziaria, e lo consegno in redazione nella speranza di vederlo pubblicato. È il 20 marzo 1994, sette giorni prima delle elezioni. È il 1995, siamo al Governo con la Lega, votiamo la riforma delle Pensioni ed entriamo in punta di piedi nelle case degli italiani, per convincere e rassicurare e ampliare la nostra base. Il pezzo su Belgese è stato rieditato, hanno eliminato VERDE

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la seconda parte ed è uscito con il titolo “Libero il missino stragista” a firma del vice-direttore. Lavoro da un anno a «Storie Nere» e tre mie inchieste hanno già permesso di risolvere torbidi e insoluti casi del recente passato: le Diaboliche Lolite di Torre Spaccata, il Sadico Spormonato della Collatina e il Vampiro Seriale di Cesano. A Belgese non importa niente del caso Cesaroni, non vuole pubblicare nemmeno una riga su Via Poma, ma io non mi do per vinto e continuo le mie ricerche. Decido di scrivere un romanzo partendo da una indiscrezione che a Prati raccoglie molto credito: il fantasma di Simonetta infesterebbe l’appartamento in cui per anni ha vissuto Dario Argento. Cerco di procurarmi un intervista con il Maestro. Potrebbe essere un buon punto di partenza. È il1996, siamo in piena era Ulivo e io non lavoro più per Belgese. Sto scrivendo la sceneggiatura di un cinepattone che dovrebbe intitolarsi Natale a Via Poma. È un modo come un altro per assecondare la mia ossessione e c’è un regista molto noto che lo girerebbe. Alle Feste dell’Unità si respira un’aria diversa. Si discute di cucina cinese, terza via inglese e del fantasma di Alberica Filo della Torre. Sono passati dodici anni da quello che il compagno Bassolino ha definito «il più bel regalo che Enrico seppe farci», cioè morire. D’Alema giura che la svolta commerciale di Prodi era necessaria e ci ricorda che «vi sono due modi di essere comunisti. Uno palese, quello ad esempio di Rifondazione, ed è inutile dilungarsi su di esso. Ma ve ne è un altro: il modo di essere comunisti senza essere visibilmente comunisti». La verità è che siamo post e non saremo mai punk.


Non hai capito Alda Teodorani Scendo dall’autobus traballando per il male ai testicoli. Pulsano, urlano. E anche il mio cervello urla. Resto per un attimo lì, fermo, riafferro un po’ di lucidità, vedo che nessuna auto si avvicina e traverso la strada di corsa. Ho pensato a lei tutto il giorno. Non è servita a niente la sua voce incazzata che mi diceva di lasciarla stare. Che doveva terminare un lavoro importante. La sua voce era acuta, diversa dal solito. Avevo programmato tutta la giornata per lei. Ora mi accorgo con stupore che sono qui, in un pomeriggio spezzato a metà, un pomeriggio afoso e caldo di luglio. Mi avvio verso la stazione. So già che dovrò aspettare quasi due ore il treno che mi riporta a casa. I testicoli continuano a pulsare, così mi scaravento al bagno della stazione e mi masturbo. Penso ai suoi capelli biondi, ai suoi fianchi. Vengo subito, in un orgasmo povero. “Dio,” penso dopo, “ho bisogno di psicofarmaci. “ Ho attraversato l’atrio della stazione velocemente, gettando appena un’occhiata al cartellone delle partenze. Mi blocco vedendo i telefoni pubblici splendere e ammiccare con complicità. Potrei telefonarle ancora. E con questo potrei dire addio alla prospettiva di rivederla, se non l’ho già fatto. Sì, perché quando le ho chiesto se e quando ci potremo rivedere, lei ha risposto con voce acida che non lo sapeva. “Vedremo” ha detto, come se stesse parlando con un fattorino. La mia vita è improvvisamente senza alcuna prospettiva. L’amore per Elena sta crescendo in me come un cancro. Un tumore che mi fa soffrire senza che io lo voglia. Mi volto di scatto, corro fuori dalla

stazione, prendo al volo il ventisette, l’autobus che porta proprio davanti a casa sua. Mi apre lei. È sola. Appena mi vede, fa per chiudere la porta, senza dire nulla. Caccio il piede tra i battenti, con ambedue le braccia apro la porta, scaravento Elena per terra, vedo la sua faccia stupita, osservo assurdamente le sue scarpe. So già cosa significo per lei: tempo perso. La rabbia mi si scatena dentro. Furioso, strappo la macchina da scrivere dalla scrivania, mentre la spina scatta via dalla presa di corrente con uno schiocco. La alzo sopra la testa, la scaglio per terra. Poi procedo metodicamente alla distruzione dell’ufficio, mentre gli occhi di Elena mi fissano terrorizzati. Il video del computer è finito contro il portone d’ingresso, fracassandosi sotto il suo stesso peso. Ho tirato su Elena da terra, l’ho sbattuta contro il muro, una, due, dieci volte. Lei picchiava la testa contro la cornice del quadro di Mirò che tiene nel suo studio, di fronte alla scrivania. I suoi capelli volavano intorno, come farfalle. Sulle spalle nude, sulla camicetta bianca, sono apparsi, scendendo dolcemente, rivoli di sangue. Apro i rubinetti del gas, tutti quelli che trovo. Lascio la porta aperta tra l’abitazione e l’ufficio. Spengo il pilota dello scaldabagno a metano, mettendo fuori uso il dispositivo di sicurezza. Lascio Elena lì, per terra. Tra i suoi capelli mi pare di vedere una schiuma biancastra. Non me ne curo. E non mi curo di vedere se è ancora viva o no. Ho preso il treno in perfetto orario. Tra un’ora sarò a casa. Guardo con interesse la bionda seduta di fronte a me. Mi sento bene, felice e tranquillo. VERDE

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17,15 Lionhearted È l’11 settembre del 1997 e la stazione di Musashino brulica di gente. Ricorda un alveare impazzito, con il suo ronzare continuo fatto di risate infantili e madri che tentano invano di calmare i propri bambini esaltati dalla fine dell’orario delle lezioni, pur mantenendo quel decoro pubblico che è legge nella zona di Kichijōji. Perché a Kichijōji non si alza mai la voce più del dovuto, non ci si veste in modo appariscente, i capelli si legano stretti, le donne sono mamme casalinghe, gli uomini fedeli impiegati statali. Amaya Yoshida, che non è certo un’eccezione alla regola, sosta oltre la linea d’emergenza del binario all’altezza della quarta carrozza, in attesa del treno della linea Chūō delle 14:30. Nel suo sobrio vestito blu notte, lungo sino alle ginocchia e privo di scollatura, assomiglia a tutte le altre mamme casalinghe del quartiere, se non fosse per quei lunghissimi capelli color ebano lasciati sciolti sulle spalle, che la fanno sembrare poco più d’una ragazzina. Il treno partirà da Tokyo per arrivare alla stazione di Takao, Hachiōji. È un tragitto che conosce come il palmo della sua mano, perché lo compie ogni singolo giorno della sua esistenza da ormai dieci anni. Si può dire, in effetti, che solo lungo quel percorso Amaya smetta di esistere per cominciare a vivere. Ha l’aria placida di chi sta per salire sul patibolo consapevole dei propri peccati, la piccola, sottile Amaya, quando il treno raggiunge silenziosamente il binario. Lo osserva come si farebbe con un boia. Sale i gradini senza fare rumore, con le ballerine scure ai piedi. La carrozza è vuota e il silenzio la tranquillizza. Se lo gode, VERDE

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sapendo che presto cesserà. Non si siede, preferisce appendersi alla prima maniglia che incontra all’ingresso per fissare il lato est della stazione, lasciandosi il sole alle spalle. Nell’attesa della partenza, elenca con cura tutti i punti del suo programma giornaliero: i bambini rimarranno a scuola fino a tardi per le lezioni supplementari, il club di musica e quello di kendo; suo marito li passerà a prendere in auto alle 20, per poi incontrarsi alle 20:30 alla stazione con lei, che secondo i piani si sarà recata al tempio di famiglia. Sono le 14:27 e il controllore sta salutando il treno a gran voce, sorridendo ed inchinandosi ad ogni parola. Ringrazia i passeggeri della loro presenza. Non sa che sul quarto vagone v’è una donna abbietta e immorale. Se lo sapesse, probabilmente, la escluderebbe dalle proprie riverenze. “Ringrazio umilmente tutti voi augurandovi buon viaggio, fatta eccezione per Amaya Yoshida, 30 anni, che finge di vivere la vita tranquilla della madre e moglie perfetta, quando non è altro che l’incarnazione dell’inganno”. Sorride tristemente al suo stesso pensiero. Sono le 14:30, e il treno è partito spaccando il minuto, come ogni giorno. Molti passeggeri sonnecchiano dritti come fusi sui propri sedili, le palpebre che faticano a sollevarsi, il respiro di chi è sul punto di cadere in un sonno profondo, ma non Amaya: lei fissa il paesaggio che cambia rapidamente nei suoi occhi, forzandosi di non pensare all’orologio che, legato al polso destro, pesa come un macigno. La vetta del monte Takao è appena visibile dalla stazione, ma il rosso degli alberi che


la ricopre la fa sembrare insanguinata. Il cielo, reso purpureo dal tramonto, si fonde con i colori della montagna, sormontata dal tempio buddista di Takaosan Yakuōin Yūkiji. È una vista tanto spettacolare da indurre Satoru Yamaguchi a scattare decine di fotografie del panorama. Lo fa con un sorriso sghembo e troppo sincero, lo stesso che lo ha sempre fatto sembrare un grande arrogante a scuola come all’interno della piccola redazione del giornale locale. Dovrebbe essere una vista alla quale è abituato, ma le tinte del bacino di Hachiōji, insieme allo stagnante silenzio della giornata, donano al tutto qualcosa di commovente. Forse è perché esalta il rumore assordante che si agita in lui: il cuore palpitante d’emozione, i muscoli che fremono e gli impediscono di stare fermo nello stesso punto, la risata che sente emergere dal petto ma alla quale non dà mai voce. La banchina è deserta e l’aria di desolazione della stazione rende ancora più estenuante l’attesa. Tende l’orecchio di tanto in tanto, per cercare il suono familiare del treno in arrivo, mentre scatta delle fotografie di una pozzanghera fra i binari, tinta di rosso dal sole autunnale. Non è mai riuscito a sopportare la solitudine, ma il concerto del suo corpo lo fa sentire in mezzo ad una folla, tranquillizzando i suoi sensi. Sa che tutta quella felicità, quel fermento quasi febbrile, morirà molto presto, proprio per questo se lo gode fino all’ultimo. Sono le 17:15 quando il treno raggiunge il suo binario. Satoru, immerso in un silenzio che lo coglie solo a quell’ora, ogni giorno da ormai dieci anni, attende quasi saltellando sul posto all’altezza della quarta carrozza, la sua amatissima quarta carrozza. Sale i tre gradini con un salto dettato dall’entusiasmo, che si spegne nello stesso istante in cui, evitando i passeggeri che scendono dal treno, nota quella muta, fragile figura sul fondo del vagone. È un connubio di candore e totale oscurità, la donna che non sembra mai cambiare e che,

ogni giorno, lo attende su quel treno, bella e triste al punto da spezzargli il cuore. Gli sfugge un sospiro che gli fa tremare il petto, mentre stringe le labbra e abbassa lo sguardo, con il cuore che gli salta in gola e gli mozza il fiato. È proprio come la prima volta che l’ha vista, come la prima volta che ha capito che l’avrebbe inesorabilmente persa, come la prima volta che, dopo il matrimonio, lei ha risposto alla sua millesima telefonata in lacrime, singhiozzando come una bambina. Lei non osa alzare lo sguardo dalla punta delle scarpe, anche se lo vorrebbe più di ogni altra cosa, mentre Lui si avvicina lentamente, come per non disturbare il suo tormento, il meraviglioso tormento che la coglie ogni giorno, alle 17:15, da ormai dieci anni. È come se il cuore riprendesse a battere dopo anni di silenzio e quasi le gira la testa quando avverte il sangue salire alle gote, facendola arrossire. Lui scivola al suo fianco, appendendosi alla maniglia più vicina alla mano di Lei per sfiorarle le dita bianche e morbide. Lei avverte un brivido che la fa sussultare e per un istante, uno soltanto, grazie a quel tocco intimo e gentile che appartiene solo agli amanti, si perdono entrambi in un ricordo lontano, eppure presente al punto da indurli a chiudere gli occhi. Era il torrido 28 luglio del 1982 quando due liceali, per la prima volta dopo una lunga estate fatta piccoli sorrisi e sguardi complici, si avvicinarono al punto da potersi sfiorare le mani in segreto, scambiandosi un’occhiata incerta, eppure trepidante, quella che precede il batticuore da capogiro del primo amore. Si avvicinarono l’uno all’altra, le loro spalle si toccarono, fino a quando la folla, compressa nel vagone numero quattro come sardine in scatola, non li costrinse quasi ad abbracciarsi. Lui rise imbarazzato, stringendole la vita con dolcezza per non farle perdere l’equilibrio. Lei, paonazza e con lo sguardo basso, stupita di VERDE

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quell’improvvisa complicità, non rifiutò quella piacevole vicinanza. Appena iniziate le lezioni del piccolo, ma prestigioso liceo Heisei, tutti seppero della coppia Satoru-Amaya e in molti si ritrovarono con il cuore spezzato: era come vedere il sole e la luna incarnati sulla terra per potersi finalmente amare. Tutti pensavano che i due avrebbero finito per passare la vita insieme, nessuno immaginava che il padre di Amaya l’avrebbe costretta a un matrimonio combinato con il figlio di un vecchio amico di famiglia. Il dolore della ragazza fu tale che lasciò il liceo un anno in anticipo, impedendosi di vedere ancora Satoru, stabilendosi a Tokyo con il suo futuro marito. Ma se una soffriva in silenzio e nascondeva ogni pena dietro un sorriso di circostanza, l’altro non riuscì a sopportare l’assenza del suo primo amore e venne prima sospeso da scuola per comportamento insubordinato, poi bocciato per via delle troppe assenze e della pessima condotta. Per molto tempo Lui la cercò quasi ossessivamente, chiamandola ogni giorno senza ricevere alcuna risposta, cercandola fra le strade di Tokyo invano, sino a quando, finalmente, Lei non rispose, promettendogli un incontro. Da quel 21 marzo 1987 i due si incontrano ogni giorno sul treno della linea Chūō, quarta carrozza, lì dove il sole e la luna possono tornare ad amarsi in segreto, semplicemente sfiorandosi le dita.

bene. In un moto del tutto inaspettato dopo dieci anni di torpore, si china su di Lei per baciarla. Lei non riesce neanche a concepire l’idea di rifiutarlo e quel bacio ha lo strano retrogusto dell’addio, al quale si abbandona completamente. È già calata la sera mentre il treno rallenta per il rientro in stazione. Sembrano passati solo una manciata di secondi. Ad Amaya sfugge un singhiozzo mentre si allontana da Satoru bruscamente per scendere in fretta dal treno, lui tenta di fermarla, afferrandole il sottile polso destro, nascondendo l’orologio che indica le 20:30. «Resta…» È una supplica, quella del ragazzo, un sospiro che trema come la preghiera del pellegrino rivolta alla sua dea. Lei non lo guarda, ma le si mozza il fiato quando, all’apertura delle porte del vagone, intravede la sagoma inconfondibile di suo marito, che tiene per mano i suoi figli. È allora che tira via il braccio per correre sulla banchina, asciugandosi in fretta le lacrime e nascondendo il fiato corto con un sorriso gentile rivolto ai bambini che le corrono incontro. Satoru osserva quella scena che conosce a memoria, senza riuscire a muoversi, mentre la folla lo spintona cercando di uscire dal vagone. Sono le 20:41 e il treno della linea Chūō, diretto alla stazione di Takao, Hachiōji, è partito con un minuto di ritardo che a qualcuno è costato più che ad altri.

Il vagone si è riempito senza che neanche se ne accorgessero, partendo dolcemente, scivolando sulle rotaie come se solcasse la superficie del mare. Non parlano, non lo fanno mai, ma Lui cerca i suoi grandi occhi neri come se in essi potesse trovare tutte le risposte che gli servono. Solo una volta Lei solleva lo sguardo verso il suo, senza accorgersi che sta piangendo. Forse è un gesto avventato, ma Lui avvicina le dita alle sue gote umide per raccogliere quelle lacrime che conosce

Il giorno dopo, il 12 settembre del 1997, nessuna sottile donna dai lunghi capelli ebano e l’aria triste salirà sul treno delle 14:30 della linea Chūō. Un ragazzo insonne salirà sul treno delle 17:15 per cercarla nel placido quartiere di Kichijōji. Quel ragazzo non raggiungerà mai la città di Tokyo, perché l’espresso limitato Super Azusa, diretto a Matsumoto, si scontrerà con un treno locale della serie 201, che non si fermerà ad un segnale a via impedita attraversando la stazione di Ōtsuki.

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BLITZRECENZION # 27

S. H. Palmer

BLITZRECENZION

Amico fragile

E poi ti rendi conto che un giorno dovrai spiegare a qualcuno che fuck the pain away è solo una leggenda metropolitana, e non saprai da dove cominciare. O forse sì. (shanduziopalmer.tumblr.com)

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Claudio Calia, nato a Treviso nel 1976, vive nei dintorni di Padova. Al di là di varie autoproduzioni e antologie in veste di curatore e qualche sporadico passaggio nella letteratura splatterpunk, ha realizzato Porto Marghera - La legge non è uguale per tutti (BeccoGiallo, 2007) e È primavera - Intervista a Antonio Negri (BeccoGiallo, 2008), tradotto in Canada e negli Stati Uniti (Antonio Negri Illustrated - Interview in Venice, Red Quill Books, 2011). Per Black Velvet Editrice, insieme a Luana Vergari, ha realizzato Caro Babbo Natale... (Dicembre 2008), edito in Spagna col titolo North Pole Alaska 99705 (Gallo Nero Ediciones, 2010). A gennaio 2012 esce in libreria Piccola Cucina Cannibale, plaquette poetica, esperimento di poetry comics, CD di spoken word, con Lello Voce e Frank Nemola per Squilibri Editore, che vince il “Premio Napoli” nella categoria “Ibridi Letterari”, mentre a novembre dello stesso anno esce l’inchiesta a fumetti Dossier TAV - Una questione democratica, seguito nel 2014 da Piccolo Atlante Storico Geografico dei Centri Sociali Italiani, sempre per BeccoGiallo. http://www.claudiocalia.it/


Lamette è la cosa per cui sono più conosciuto in assoluto. Trent’anni sintetizzabili con Lamette. Ma voi ci credereste se vi dicessi che l’ho messa su solo per invidia e per noia? Alla fine degli anni Novanta avevo dei grossi dilemmi personali, e uno dei più urgenti era costituito dal fatto che la Gioventù Bruciata, il mio gruppo, fosse condannata a rimanere in sordina all’interno del circuito punk italiano, che già di suo è un traguardo minore, trascurabile, di nicchia. La nicchia della nicchia, insomma. Perché proprio a me? Facevamo dunque così schifo? A me il nostro demo ’96 allora sembrava bello, anche se nessun fanzinaro l’aveva voluto distribuire o anche semplicemente pubblicizzare. Per la verità quelle entità astratte, i fanzinari, in quel momento mi stavano anche pesantemente sulle palle.A leggerli mi sembravano tanti dannati primi della classe pseudo-detentori della fiamma di Prometeo del vero punk, anzi, addirittura me li immaginavo sempre abbigliati in maniera impeccabile, la cresta geometrica e la tinta perfetta in colori introvabili. Il chiodo british style borchiato con perizia d’ingegnere. La puzza sotto il naso e la città sotto i piedi. E mica avevo poi tanto torto. Quello che non capivo, però, era che io VERDE

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ero a mia volta un provinciale e mi imbottivo come un pesce palla di un’altra retorica, quella dell’autolesionismo ignorante. Che poi è sì un po’ meno ridicolo dell’anarcomilitanza musica/politica, ma solo per il classico principio per cui è meno rischioso fingersi scemo che andare in guerra. Bella soddisfazione, comunque, sentirsi il punk perdente di paese che non si veste con la roba giusta. In tutta questa guerra dei poveri, io però compravo o recuperavo lo stesso tutto, dalle mille registrazioni una più pallosa e sciapita dell’altra alle odiate fanzine, dove leggevo recensioni entusiastiche di gruppi allora sulla cresta dell’onda come i Sickoids del mio amico Pasquale di Napoli (che al suo anarcoseguito non riusciva in ogni caso a far piacere noi) o come i Fichissimi del mio futuro amico Simone di Pinerolo, che non c’entravano apparentemente un cazzo ma che gustavano ugualmente a tutti, mentre invece di noi non si scriveva manco una riga, o se proprio si sprecavano scrivevano non fanno nulla di speciale e indirizzo a seguire. Poi è ovvio che ce l’avessimo con i cloni italiani degli Aus Rotten, americanacci che in quel momento andavano per la maggiore ma che riascoltati


oggi, aridatece er nastro magnetico. In quegli anni scellerati, per puro assurdo, tutti si sentivano in dovere di scrivere pezzi sulla guerra in Iraq, sullo sfruttamento del petrolio, sulla vivisezione degli animali, sull’ingiustizia del sistema carcerario, sullo sterminio degli indiani e su mille altre cose che sono vere, orribili e sacrosante, ma che se le fai cantare a dieci gruppi punk modaioli al mese e controcantare a un coro di altri modaioli ubriachi diventano automaticamente delle banalità assolute. Manco a dirlo, la teoria secondo cui la musica ha il magico potere di scuotere le menti mi è sempre sembrata una volgare fricchettonata o un abominio fascista. La musica al limite può rappresentare, dall’interno, delle menti già scosse e

trovare empatia presso altri eletti, ma non mi sembra poi una gran rivoluzione, o sbaglio? Tutto questo giro di parole per dire che odiando io le fanzine degli anni Novanta, il modo settario in cui erano generalmente gestite e condotte e il potere sub-mediatico che accentravano nelle mani dello scribacchino di turno, ho deciso di farne una solo per andargli in culo, creare una nicchia a parte e rendere in parte giustizia alla mia bistrattata band. Se non altro non ho fallito nell’intento, anche se la Gioventù Bruciata, prima che mi procurassi un collegamento Internet e mettessi online la prima versione di Lamette, non era poi davvero un granché, e forse è anche ora che lo ammetta e che me ne renda pubblicamente conto.

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La donna lunga Francesco Cortonesi Luce Mi sveglio con l’emicrania. Anna dorme. La bacio. Le preparo la colazione. Partiamo per lo chalet che ancora mi fa male la testa, anche se si tratta di un dolore sopportabile, fastidioso ma non abbastanza da costringermi a letto e rinunciare alla vacanza. E poi voglio andare a caccia di cervi, dico, voglio andare a caccia di cervi con tutto che ci non sono mai andato se non da bambino, quando mi ci portava mio nonno di nascosto. I miei non volevano che andassi nei boschi con gente armata fino ai denti che non si faceva mai mancare un goccetto, dico. La neve si sta sciogliendo e sui bordi della strada è tutto una poltiglia marrone che sembra nocciola. Anna si toglie le scarpe e si massaggia un piede. Non indossa i collant neppure in pieno inverno, dice che non sopporta di sentire le gambe inguainate e che una donna per essere attraente deve avere le gambe nude. Mano a mano che saliamo incrociamo sempre meno auto e a una ventina di chilometri dallo chalet incrociamo una vecchia che cammina scalza, sulla fredda strada sterrata che si inoltra nei boschi di betulle. Ehi guarda quella, dice Anna. Un bel coraggio davvero, dico io, sfiorandole la coscia nuda. La donna ci guarda mentre le passiamo accanto. Anna le fa un cenno con la mano, lei risponde al saluto. La baita è al centro di una specie di radura, tutta di legno e con il tetto spiovente. Le persiane sono chiuse, come se la casa stesse dormendo, aspettando annoiata il nostro arrivo. Parcheggio la jeep nel retro, vicino alla legnaia. Non vedo l’ora di mettermi davanti al camino, dice Anna mentre s’infila una scarpa e apre lo sportello. Entriamo e apriamo le finestre, lasciando spazio alla luce del primo pomeriggio che filtra dalla boscaglia in una sottile scia luminosa di minuscoli granelli di polvere. Il mio mal di testa si è un po’ attenuato e quindi decido di non prendere l’analgesico. Alzo il telefono e chiamo Bruno, per dirgli che siamo arrivati. Il posto è magnifico, dico io, entro mezz’ora sarò bello che pronto per andare a stanare la preda. Arrivo, dice lui, ti passo a prendere. Bene, VERDE

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dico. Tornerò tardi, dico a Anna, sei sicura di non voler venire? Certo, dice lei mentre apre l’acqua della doccia, ma non vedo l’ora che torni, magari ti faccio una sorpresa, dice facendomi l’occhiolino. Adoro le sorprese, dico sorridendo. Anna mi tira un bacio e io mi rendo conto ancora una volta di quanto la amo. Sicura di non aver paura? dico. Terrò le luci accese, risponde mentre tende una mano sotto il flusso d’acqua della doccia, aspettando che l’acqua si faccia un po’ più calda. Poi si toglie l’accappatoio e entra nella cabina. Perfetto, dico. La luce accesa. Fa freddo. Non è ancora il tramonto. Saliamo sull’altana e Bruno sguaina le carabine. Poi apriamo due sedie pieghevoli e ci sediamo, Non dobbiamo far altro che aspettare un cazzo di Bambi, un cazzo di Bambi che cada in trappola, dice Bruno mentre si accende una sigaretta. Bambi? Domando io. Bruno fa un profondo tiro dalla sigaretta. Cartone animato del cazzo, hai presente no? Certo, dico io, chi non conosce Bambi? Una stronzata totale di quegli animalisti del cazzo di Hollywood. È un cartone animato per bambini, dico io. È un cartone animato che fa passare i cacciatori per assassini, dice lui, come se questo fosse un mondo di vegetariani, altroché! Resto in silenzio, mentre Bruno solleva la sua carabina e la punta verso le betulle come un cecchino in attesa del nemico. Nel frattempo il mal di testa mi è quasi del tutto passato. Comunque devo ammettere che ho visto fare a questi animali cose incredibili, dice Bruno, come se comprendessero qualsiasi cosa. Senti questa: è successo poco tempo fa. Eravamo in tre e eravamo proprio da queste parti. Insomma, te la faccio breve, eravamo appena arrivati quando eccone uno uscire dal sottobosco, così all’improvviso. Nessuno di noi se lo aspetta, tiriamo subito fuori le carabine e cerchiamo di metterlo nel mirino. Dopo una manciata di secondi, lo inquadro e premo il grilletto, ma il cervo fa uno scatto improvviso e vedo saltare un pezzo di tronco giusto dove un istante prima era la sua testa. Fanculo, dico, mentre gli altri si mettono a


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ridere. Nel frattempo ovviamente Bambi è sparito. Dieci minuti dopo eccolo di nuovo, sempre lui. Quando hai passato anni a inquadrarli nel mirino ti rendi conto che riconoscerli è facile. Più o meno. Insomma, stavo dicendo, tempo dieci minuti e rieccolo. A quel punto gli altri neanche ci provano a prendere la mira perché hanno capito che è una cosa fra lui e me. Puoi capirlo no? Certe volte diventa una cosa personale. E così lo punto di nuovo ma questa volta aspetto, per essere sicuro di non mancarlo e fare la figura dello stronzo, aspetto. E Bambi viene avanti, deciso, un passo dopo l’altro, guardando dritto verso di noi, quasi volesse farci vedere di non avere paura. Naturalmente noi restiamo in silenzio. E lo guardiamo avanzare, tanto che a un certo punto arriva fin quasi sotto l’altana. Quel cazzo di Bambi mi sta sfidando a premere il grilletto, dico mentre continuo a tenerlo dentro al mirino. A un certo punto allunga il collo come se volesse salire su, che ne so, magari per dircene quattro, e a quel punto capisco che non posso più aspettare, lo spettacolo è finito. La sua testa esplode e Bambi si schianta sull’erba come se qualcuno gli avesse improvvisamente sfilato la terra sotto i piedi. Così, sbang. Accidenti, dico io, mentre prendo una sigaretta. Aspetta, dice Bruno, ancora non ho finito. C’è dell’altro? domando mentre armeggio con l’accendino. Certo, senti un po’, a quel punto scendiamo giù dall’altana e andiamo a vedere come è messo il nostro amico. Scendiamo e cosa troviamo? Cosa trovate? domando io. Beh, niente, non troviamo niente, dice Bruno. Cosa vuol dire che non trovate niente? chiedo. Quello che ti ho detto, Bambi è scomparso, svanito, capisci? dice Bruno prendendosi un’altra sigaretta. Quindi non era morto? dico io, mentre cerco un posto dove spegnere la sigaretta. Probabilmente no, dice Bruno, ma resta il fatto che non c’era più. Saliamo sulla jeep e prendiamo la via di casa. Riproveremo domani sera, dice Bruno, entro questa settimana ti garantisco che stenderai il tuo Bambi. Stenderò il mio Bambi, dico io. Sai, aggiungo, stavo pensando ancora

a quella storia. Davvero una strana storia. Sì, dice Bruno, una strana storia, e ancora non conosci quella della Donna Lunga. La Donna Lunga? domando io. Chi è la Donna Lunga? Una vecchia pazza che vive in questi boschi, dice Bruno. In molti raccontano di averla vista. Sembra che sia alta più due metri e che abbia il potere di prendere le sembianze degli animali, ma soprattutto di farle prendere agli altri. Dicono che vive in una baita circondata da cervi e che i cacciatori che ogni tanto si sparano fra di loro nei boschi siano in realtà vittime della Donna Lunga. Intendi dire che trasforma un cacciatore in animale e l’altro gli spara convinto di avere sotto tiro una preda? chiedo io. Sì, dice Bruno, qualcosa del genere. Magia nera, roba così. Forse entra nella teste della gente, forse riesce a provocare le allucinazioni. Magari usa qualche droga. E come farebbe? dico io. A distanza? Che vuoi che ne sappia, dice Bruno, alla fine è solo una storia, anche se è vero che molti incidenti di caccia restano inspiegabili. I cacciatori si sparano per errore, dico io. O forse è la Donna Lunga, dice Bruno abbozzando un sorriso. La Donna Lunga, dico fra me e me, guardando fuori dal finestrino. Magari era lei il Bambi a cui ho sparato l’altra volta, dice Bruno ridendo. Nel frattempo imbocchiamo la strada sterrata che porta alla baita. Non è ancora l’alba. C’è qualcosa che non va, dico. Cosa significa? dice Bruno. Prendi i fucili, dico. C’è qualcosa che non va nella baita. Sono sicuro. La luce è spenta. La porta è aperta. Improvvisamente, lento, deciso, silenzioso, un cervo esce dalla baita. Cristo, dice, Bruno, forse… Buio


Io non parlo mai dell’aspetto negativo della mia vita, prima di tutto perchÊ non voglio essere compianto: ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perchÊ costretti, ma perchÊ cosÏ hanno voluto consapevolmente.


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