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p.2 Edit p.3 TI ODIO POESIA #22: Tuttavia, passato (Luca Marinelli) p.4 Uozapp, ovvero gli impilatori di pietre (Sergio Peter) p.6 Il mago (Filippo Santaniello) p.8-9 Goddess of death #1 e #2 (Nando Adiletta) p.10 In orbita (Luca Antonini) p.13 Santa Tecla (Filippo Parodi) p.14 Il problema di mio nonno (Jacopo Marocco) Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita, per non dire unica, non sia in fondo tanto atraordinaria
indizi
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PARTNERS IN CRIME
VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it
for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY
dove siamo editoriale
Sono passati due anni dall’uscita del numero zero di Verde. Il primo obiettivo che ci siamo posti, nel maggio 2012, è stato quello del battesimo di stampa, centrato con il numero 1; il secondo di superare quota 6, il numero col quale si era interrotta la nostra precedente incarnazione. Con il tempo abbiamo cominciato a pensare che fosse possibile fare uscire tutti i mesi la nostra rivista, e il resto è venuto da sé:Verde è cresciuta e ha saputo farsi apprezzare grazie ai contributi importanti degli oltre 80 autori che hanno lasciato il segno su queste pagine, e al lavoro dei redattori e dei partners in crime che non hanno mai smesso di credere al progetto di uno spazio, cartaceo ed elettronico, eterogeneo e di qualità. Il numero di maggio è illustrato da Nando Adiletta e si apre con i versi eleganti di Luca Marinelli, classe 1992, il più giovane autore mai apparso su Verde. I racconti sono di Sergio Peter (il suo primo romanzo, Dettato, è appena uscito per Tunué), Filippo Santaniello (con una storia molto Verde), Luca Antonini (magistralmente alle prese con un incubo seriale senza fine) e Filippo Parodi (con Santa Tecla). Chiude Jacopo Marocco, che avevamo già letto, sempre di maggio, nei numeri zero e 12: non poteva mancare in questa nuova occasione speciale.
TI ODIO POESIA
Tuttavia, passato
Luca Marinelli E poi non dirmi che non t’ho guardato, d’un piede all’altro in danza le suole: e cuoio, e nero, e marciapiede, è stato catasta d’un istante, un solo istante, è stato uguali fotogrammi in serie, è stato essere tempo come il tempo stesso vuole. E poi non dirmi che non sono solo se guardo te, sei solo un altro uomo, e l’abito sapido del tuo passato per gl’occhi miei è un completo a nolo. Tu, passante, non mi sei scappato; nel mare del tempo la mia percezione, uno squalo che fende senza farci caso, t’ha preso con i denti, t’ha morso e t’ha strappato una definizione: passante, uomo. Ma questo per me è un uomo come una vecchia pelle può essere un pitone. E allora sono solo, e solo perché il tempo, ma tu, tuttavia, comunque passato. Luca Marinelli, 1992, nasce in internet negli anni duemila. Senza essere troppo notato. Lo web a chiare lettere mette in evidenza la sua passione per la lettura non socialmente impegnata, per la musica non socialmente impegnata e per le scienze non socialmente impegnate. Si diletta a scrivere. VERDE
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Uozapp, ovvero gli impilatori di pietre
Sergio Peter
Non succede ancora niente. Eppure è sempre possibile vedere tutti i venerdì gli impilatori di pietre – che dal resto della popolazione si distinguono per l’età (15-29 anni) – all’opera presso i loro abituali luoghi d’incontro: benzinai, piazze, cimiteri, stadi, fermate degli autobus, auditorium, ospedali, autogrill, centri commerciali. Come facciano a darsi appuntamento in un determinato luogo e non piuttosto in un altro, tutti insieme, in gruppi da ventitré, nessuno saprebbe dirlo. Silenti, con certi passamontagna rossi, i bassi impilatori di pietre iniziano la loro solita occupazione, accuratamente e senza sbagli; che sia estetico il loro fine, come scrivono tutti i giornali, puramente estetico, questo è proprio falso. Infatti basta assistere alla breve vita delle pietre così impilate dagli impilatori di pietre per comprendere che quei mucchi, benché bellissimi a vedersi, sono lì per altro, non per deliziare gli occhi. Scopo ultimo che, per la verità, gli impilatori di pietre non sono interessati a comunicare esplicitamente al resto della popolazione. Allora tutti i venerdì, alle undici, gli impilatori di pietre si fermano a osservare le loro opere momentanee, dopo quattro ore di lavoro volontario e gratuito: ogni volta in un punto diverso, ma sempre e comunque presso marciapiedi, rive di laghi e argini di fiumi, stazioni, spiazzi urbani molto frequentati, metropolitane, canali periferici di passaggio, s’ergono pile e VERDE
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pile di pietre tutte di diversa fattura. Certune ricordano come degli animali, o delle macchine utensili pronte a fare i primi passi, correre, ruggire, o preparate per essere pilotate. Altre, la minor parte, sono come delle piccole abitazioni, delle piramidi, sembrano grotte, persino palazzine. Una dopo l’altra gli impilatori di pietre raggruppano pietre delle più differenti qualità. Si vede un giorno una pila a forma piramidale fatta nel modo seguente: alla base dieci pietre di talco, bianche, tutte sul punto di sfaldarsi in polvere per il peso di ciò che sostengono; più sopra, di color giallo piscio, la celestina, un solfato poco più duro, in nove pezzi striati di bruno. Che sia effetivamente wulfenite, ancora più in alto, quella pietra rossa in numero di otto, sarebbe possibile dirlo con certezza dopo attenti studi al microscopio ed il suo compito è di tener su la zincite arancione: viste in una giornata di sole queste sette pietre paiono infuocate. Poi i colori si raffreddano con le sei apofilliti azzurre, e il meraviglioso microclino verde, cinque esemplari identici, forse artificiali? Posso fotografare questa immagine per pochi secondi con loro, gli impilatori di pietre davanti a me, di spalle, perché poi, in un secondo momento, calcolato dagli impilatori con accuratezza, la pila cadrà, lo so già, sparpagliandosi interamente a terra. Non siam fatte per essere guardate, paiono gridare le pile. Eppure appare la trasparente
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pietra viola, cattivo presagio per il resto della popolazione (si tratta di quatto tormaline, credo), e noti di conseguenza salendo l’eliodoro - giallo oro eliodoro, giallo oro eliodoro, giallo oro eliodoro - e tre; soltanto due berilli sono stati trovati dagli impilatori lì intorno e là sopra appoggiati. Appena si distingue l’incolore corindone, un unico esemplare, l’altezza massima del cumulo, l’apice quasi o forse no, considerando l’Elemento Nativo là in alto, la punta della pila, la direzione indicata alla popolazione, il messaggio segreto, scagliatemi contro tutti i detentori di potere, incendiatemi, forza accorrete, fate presto ragazzi, l’equilibrio è momentaneo, sono invisibile ma ci sono, sono nascosto e non perdono: lanciatemi contro tutti gli oligarchi ridenti della televisione, del parlamento, dei consigli di amministrazione, addosso gli anonimi burattinai scagliatemi, preparate le catapulte, rovesciatemi contro i grassi doppiopetto, arrivano le fionde immense, le cerbottane,
quando ascolti questo ecco si staglia il dio diamante in numero di zero, durissimo e purissimo, invisibile, la fonte della nostra vittoria impossibile, non faccio in tempo a nominarlo che già la pila crolla su se stessa. Non succede ancora niente. Tante pietre sparpagliate in luoghi di passaggio dai giovani impilatori di pietre. Eppure, come scrivono gli impilatori di pietre nel loro unico manifesto, 43 caratteri in tutto, parrebbe necessario che accadesse, qualcosa, da loro continuamente preparato. Uozapp?
Sergio Peter (Como 1986) ha studiato filosofia, laureandosi con una tesi di Estetica su Le città invisibili. Ha scritto racconti per Scrittori Precari e Atti Impuri. Collabora con La Balena Bianca. Il suo romanzo d’esordio, Dettato, è il primo della collana di narrativa Romanzi edita da Tunué. VERDE
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Il mago L. Filippo Santaniello In prima media ho fatto amicizia con Amedeo Pasini, un ragazzino pallido e introverso. A casa sua c’era sempre odore di crostata e mentre facevamo merenda in cucina, sua madre ci guardava sorridendo dolcemente, contenta che suo figlio avesse finalmente un amichetto. La passione di Amedeo erano i giochi di prestigio, era bravissimo e si era inventato una formula magica: «Pim Pam Zam». A meravigliarmi non erano solo le sue magie, ma il fatto che, mentre si esibiva nella sua stanza, da ragazzino sfigato che tutti scansavano, si trasformava in un istrione le cui mani creavano trucchi che avrebbero stupito prestigiatori più navigati. Aveva un foulard rosso che faceva sparire nella mano e riapparire ovunque volesse. Un vaso che se riempito non la finiva di svuotarsi. Un baule che inghiottiva ogni cosa ci mettesse dentro. Ero invidioso delle sue capacità e mi sarebbe piaciuto apprendere quei numeri e stupire la gente, però non c’era verso di farmeli insegnare e dall’espressione soddisfatta che aveva era come se godesse nel tenerseli per sé. La prima volta che ho fatto male ad Amedeo eravamo in bagno. Ha riempito d’acqua un vaso colorato e mi ha detto di svuotarlo. Ho preso il vaso e l’ho rovesciato nel water. Nulla di strano. Amedeo l’ha riempito di nuovo, ha esclamato «Pim Pam Zam!» e ha fatto come avevo fatto io. L’acqua stavolta non la smetteva di uscire. Com’era possibile? Gliel’ho chiesto. Non mi ha risposto. Gliel’ho chiesto di nuovo. Ha sorriso come quando non voleva svelarmi i suoi trucchi. Allora gli ho dato una spinta e l’ho mandato a sbattere contro il bordo della vasca. È caduto, ha picchiato la testa sul rubinetto ed è scoppiato a piangere. Sua madre è accorsa immediatamente. VERDE
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L’ha sollevato e gli ha esaminato la testa. Quando ci ha chiesto cos’era successo, Amedeo ha tirato su col naso e ha detto di essere scivolato. In camera non abbiamo parlato di quanto accaduto e abbiamo giocato al Nintendo finché mia madre non è venuta a prendermi. Mentre mi preparavo, ho notato sul letto il foulard rosso di Amedeo. L’ho rubato e a casa ho imitato i suoi gesti. Li conoscevo a memoria, ma quel fazzoletto non voleva saperne di sparire, così l’ho fatto a pezzi e l’ho gettato nell’immondizia. Il giorno dopo ho pranzato da Amedeo e gli ho chiesto di rifarmi il numero del foulard. Volevo vedere che faccia faceva quando scopriva che era sparito per sempre. L’ha cercato per un po’, poi mi ha chiesto: «Hai un fazzoletto di carta?» L’ho guardato perplesso, ho preso un pacchetto di fazzoletti dallo zaino e ne ho dato uno ad Amedeo. La mano destra ha coperto la sinistra, la sinistra ha coperto la destra, «Pim Pam Zam!» e il fazzoletto non c’era più. Mi sono sentito uno scemo. «Dimmi come fai» ho ordinato. Amedeo ha sorriso e non ha risposto. «Io e te siamo amici, giusto?» ho domandato mantenendo la calma. «Sì» ha detto lui. «Gli amici non hanno segreti». «I veri maghi non svelano i loro trucchi neanche agli amici» ha detto lui. Ho preso lo zaino e mi sono avvicinato alla porta della stanza. «Non verrò più a trovarti» ho detto e Amedeo mi ha afferrato il braccio. Mi sono voltato e senza pensarci gli ho dato un pugno in un occhio. È caduto a terra. « È inutile che mi picchi, non te lo dico lo stesso» ha detto. L’ho rigirato e gli sono montato sopra. «Se non me lo dici ti spacco la testa».
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«Anche se te lo dicessi non lo capiresti, sei troppo stupido». Il vaso magico era accanto al letto. L’ho preso e gliel’ho sbattuto sulla fronte. Su e giù, su e giù. C’era molto sangue e quando ho smesso di accanirmi Amedeo non respirava più. Il taglio più brutto era sulla tempia destra perché il vaso si era scheggiato e la plastica aveva squarciato le venuzze azzurre appena sotto pelle. Anche le labbra erano spaccate: sembrava si fosse sbafato un barattolo di marmellata. Sua madre ha bussato alla porta. «Ragazzi, di là c’è la crostata». Non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla faccia impiastricciata di Amedeo. «Arriviamo» ho detto. Sono andato in cucina. Sul tavolo c’erano i piatti con le fette di crostata. Li ho presi e ho detto: «Mangiamo di là». Tornato in camera ho posato i piatti sulla scrivania e ho mangiato la crostata esaminando la situazione. Non ero agitato. Ho guardato la sveglia sul comodino. Erano le tre. Mia madre sarebbe venuta a prendermi alle sei. Avevo tutto il
tempo per… per fare cosa? Resuscitare Amedeo? Gettarlo dalla finestra? Farlo sparire con un gioco di prestigio? Il baule magico, certo! Lui ci aveva fatto sparire di tutto. L’ho preso e mi sono reso conto che non era abbastanza grande per infilarci il corpo. L’unica era farlo a pezzi. Sono tornato in cucina. Sua madre si era piazzata davanti alla tv in salone, quindi ho potuto avvicinarmi al lavello e prendere il seghetto elettrico, uguale a quello che mia madre usava per affettare il roastbeef. In camera, prima di azionarlo, ho acceso la tv e ho alzato il volume al massimo. Amedeo era meno tenero del roastbeef e la lama del seghetto ha fatto fatica in diversi punti, mentre un viscido sugo rosso si spandeva sotto di me. Ho spento l’elettrodomestico, ho aperto il baule magico e ci ho ficcato prima il busto, poi tutto il resto. Ho chiuso il coperchio e sono andato in bagno in cerca di un secchio d’acqua e qualche straccio per ripulire lo schifo che avevo combinato. Alle cinque e mezza la stanza era tornata pulita e alle sei mia madre ha suonato il citofono. Durante il tragitto abbiamo parlato poco e sotto casa mamma ha detto: «Dev’essere successo qualcosa». «Perché?» ho chiesto. Ho guardato oltre il parabrezza e… Pim Pam Zam! Due macchine della polizia ci aspettavano davanti al cancello d’ingresso. Aveva ragione Amedeo. Lo scemo ero io, che davanti al baule mi ero scordato di pronunciare la sua stupida formula magica. L. Filippo Santaniello, nato nel 1983, è autore e sceneggiatore. Si diploma in sceneggiatura alla NUCT e si laurea alla Sapienza con una tesi sul cinema di Cronenberg pubblicata da Universitalia. Presso Zero111 Edizioni, pubblica il romanzo La Luna a Scacchi, scritto con lo pseudonimo Filip Fromell, vincitore della III edizione del premio “Il Giallista”. Diversi racconti sono stati pubblicati in antologie di vario genere. Collabora con registi per i quali scrive soggetti e sceneggiature di film e cortometraggi. VERDE
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Nando A
Goddess of Death #1
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Adiletta
Goddess of Death #2
In orbita Luca Antonini La sveglia suonò alle sei e mezza. Andrea si alzo dieci minuti più tardi, si sciacquò il viso, si pettinò e indossò la tuta da lavoro. Bevve il caffè in piedi, spense la tv e controllò l’agenda degli appuntamenti, in cucina, da solo. Alle sette e trenta era già nel pieno del traffico del raccordo anulare, con l’autoradio rotta da mesi e sei chilometri di fila davanti a sé. Frizione, prima, freno, frizione. Procedeva lento ma automatico. Lo sguardo ancora assonnato, oltre il vetro. Aveva letto bene. Non vi era alcun dubbio. Il carburante stava finendo. Probabilmente il modulo sarebbe restato in orbita per non più di quarantacinque minuti. La luce rossa continuava a lampeggiare e il segnalatore acustico produceva un fastidioso ronzio. Ricontrollò le ultime direttive dal centro di comando. Il messaggio era chiaro: restare in orbita il tempo necessario per lo svolgimento dell’operazione sul satellite. Il modulo era monoposto e non era stato progettato per quel tipo di missioni. Lo sapeva bene. Nonostante la bassa temperatura all’interno del poco spazio disponibile, continuava a sudare. Pensa, si ripeteva ad alta voce, pensa a qualcosa. Una nuova luce si accese sul quadro di comando, quella blu delle comunicazioni dal satellite. «Li mortacci tua!» Un uomo sui quaranta anni, corpulento, urlava sporgendosi da un grosso tir a cui Andrea aveva tagliato la strada immettendosi nella corsia di uscita. «Li mortacci tua!» ripetè ancora l’uomo. Andrea ingranò la prima senza voltarsi e ripartì sulla rampa. Controllò l’orario e sbuffando prese il cellulare. «Papà? Sì lo so, sono in ritardo... sto arrivando, c’è un casino sul raccordo che non ti dico. Sì, lo so, basta uscire prima di casa per arrivare in orario.Va bene, scusami, ti pago il caffè». «L’operazione è fallita. Il nuovo obiettivo VERDE
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è far rientrare il modulo alla stazione». Ricontrollò il messaggio tre volte prima di muoversi. Infine, con un occhio fisso sull’indicatore del carburante, cominciò la manovra. «Alle nove hai la signora Zucconi. Dice che non gli scarica il bagno. Portati la molla, l’acido e...» «E la pompa» disse Andrea, mandando giù il suo caffè. «Ma quale pompa!» lo rimproverò il padre, «devi controllare se ha la scatola, altrimenti, se il problema è quello, devi fare lo stantuffo per sturare la tazza». Alla parola stantuffo, Vasili – o Toni, come lo chiamavano tutti a lavoro – simulò una fellatio premendosi la lingua contro la guancia, all’interno della bocca. Era il nuovo operaio di suo padre, lavorava con loro da pochi mesi ma ormai era di casa. Alberto riprese da dove s’era interrotto: «Insomma, lo sai quello che devi fare, sono due anni che lavori con me, almeno questo lo avrai imparato, no?» Andrea rispose con un sorriso. Sarebbe bastato per rassicurare suo padre? «Vi raggiungo a via del Babbuino?» gli chiese accendendosi una sigaretta. «No, meglio in officina, a ora di pranzo» rispose il padre. «Se finisci prima passi in fornitura e fai l’ordine che ti ho dato ieri, carichi la roba e la porti qui. E basta co ste sigarette, dai che è tardi, fumatela in macchina!» Il modulo cozzò contro la paratia della stazione. Aveva mancato i supporti di aggancio e adesso non poteva completare la manovra di uscita. Sentì tutta la struttura scricchiolare. Nuove luci si accesero, compresa quella della decompressione. Il rivestimento si era fallato e una piccola perdita dagli strati superiori avrebbe portato in breve tempo all’esplosione del modulo. Il carburante era terminato. Oltre l’oblò, a
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pochi centimetri di distanza, poteva vedere il condotto di rientro per la stazione. «Come le dicevo, signora Zucconi, abbiamo un problema più grave del previsto. Evidentemente il tubo di scarico si è occluso per la soda caustica che lei ha versato». Andrea cercava di parlare con calma, scandendo bene le parole. Lo aveva visto fare tante volte a suo padre, e funzionava sempre. «Sta dicendo che è colpa mia?» disse infastidita la signora. «Se lei fosse venuto prima, invece di farmi aspettare, mio marito non avrebbe cercato di risolvere il problema da solo». «Quello che sto cercando di dire» scandì prendendo un respiro profondo, «è che ormai non c’è più nulla da fare, se non rompere». La parola risuonò sulle mattonelle rosa sbrecciate, sembrò ruzzolare sul pavimento a marmette, ma poi si riprese rimbombando sull’alto soffitto macchiato di muffa e vapore. Il volto della donna si arrossò sotto lo sguardo di Andrea. Lo fissava con gli occhi sgranati e, soffocando un colpo di tosse secca, prese a urlare: «Ho capito tutto! L’ho visto anche in tv, sa? So come fate.Al minimo problema dite subito che c’è da rompere e magari rifare il bagno solo perché non è nuovo!» «Signora, questo bagno, a esser buoni, è stato montato negli anni Sessanta» disse Andrea. «E allora? Una volta si lavorava bene, mica come ora. Mi pare ovvio che lei non è in grado di risolvere il mio problema. Chiamerò qualcun’altro. E stia sicuro che parlerò con suo padre» concluse minacciosa la signora Zucconi. Effettuò i calcoli più di dieci volte. Utilizzando il carburante di riserva poteva effettuare un manovra di attracco a quella distanza, ma aveva una sola possibilità.
Respirò a fondo, si massaggiò le tempie e mise mano ai comandi. «Ma che cazzo hai fatto? L’hai letta o no la lista? Erano tre canne da ½ e una da ¾! Lo hai visto il lavoro? Quante linee del gas dobbiamo fare? Ma dove stai con la testa?» Alberto guardava le tubazioni di acciaio e il resto del materiale comprato da Andrea. Dietro di lui, sul piccolo tavolo della sua officina,Vasili mangiava piccole salsicce nere dal penetrante odore di aglio e spezie. «Mi sono sbagliato, ero convinto che..» «Convinto di che? Non devi essere convinto di niente, devi solo leggere la lista e prendere quello che c’è scritto! Non ci stai con la testa, io mi sono rotto VERDE
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di lavorare per tre persone, ma quando ti svegli? Nessuno ti obbliga a lavorare, me lo hai chiesto perché non ti andava più di studiare, ormai sono passati due anni, lo vuoi imparare o no questo mestiere? E mi ha chiamato pure la Zucconi, che cazzo è successo?» La stazione era vuota. Il resto della squadra era ancora sul satellite. Vivi o morti, non poteva saperlo. Si aggirò per le sale asettiche fino alle docce. Il getto dell’acqua calda gli avrebbe permesso di ritornare in sé, o almeno così sperava. La prima cosa che fece Andrea quando tornò nel suo appartamento fu accendere il riscaldamento. Ricontrollò che tutte le tapparelle fossero chiuse come le aveva lasciate la mattina. Si spogliò con calma, piegò la tuta da lavoro sulla sedia e poi gettò la biancheria nel cestino del bagno già colmo. Accese il suo terminale privato, sperando di trovare nuove indicazioni, ordini criptati all’ultimo momento dal satellite, ma non c’era nulla. L’ultimo messaggio era della dottoressa Alenco. Erano passati due mesi. Le cose stavano così, per sopravvivere avrebbe dovuto accettarlo. Era solo, in orbita sul pianeta. Seduto in cucina, una grossa porzione di pasta al forno nel piatto, lo schermo acceso, una serie tv, cellulare e telecomando tra le mani, uno sguardo all’orario, poi di nuovo la tv. La sequenza era sempre la stessa: cibo, cellulare, orario, telecomando, serie tv, telecomando, cibo, cellulare... Se la missione sul satellite era fallita restava soltanto una cosa da fare: seguire le direttive di emergenza. La stazione aveva una navetta di rientro, con sufficiente carburante per raggiungere il pianeta. Un viaggio di sola andata. Rimanere li, da solo, aspettando trasmissioni che mai sarebbero arrivate voleva dire impazzire. Doveva preparare la navetta e fare un tentativo. Sdraiato sul letto, a pancia in su, Andrea leggeva l’ultimo libro uscito in allegato al quotidiano che suo padre comprava VERDE
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ogni mattina. Quei libri finivano tutti nella sua piccola libreria di fianco al letto, tra collane incompiute di pubblicazioni varie dalle copertine color pastello, e dispense universitarie ingiallite dal tempo. C’era una frase che lo teneva sveglio e che non riusciva a oltrepassare. «Bisogna essere troppo volgarmente innamorati di sé» diceva, «per scrivere di se stessi senza pudore». Diede un ultimo sguardo al cellulare, rimise la sveglia e si addormentò. La navetta di rientro era un ambiente decisamente più largo e comodo del modulo che lo aveva ospitato fino ad allora. Poteva contenere due piloti, ma c’era solo lui ai comandi. Con facilità effettuò la manovra di sgancio e impostò le coordinate. La stazione orbitante alle sue spalle si faceva sempre più piccola. L’azzurro e il verde dell’atmosfera occupavano tutta la sua visuale. Tra pochi istanti, pensò, la forza di gravità del pianeta avrebbe cominciato ad attrarre la navetta a sé.Ad ogni piccola manovra corrispondeva una conseguenza. La sua volontà contro quella del pianeta. Respirò a fondo, si massaggiò le tempie e si mise ai comandi. La sveglia suonò alle sei e mezza. Andrea si alzo dieci minuti più tardi, si sciacquò il viso, si pettinò e indossò la tuta da lavoro. Bevve il caffè in piedi, spense la tv e controllò l’agenda degli appuntamenti, in cucina, da solo. Alle sette e trenta era già nel pieno del traffico del raccordo anulare, con l’autoradio rotta da mesi e sei chilometri di fila davanti a sé. Frizione, prima, freno, frizione. Procedeva lento ma automatico. Lo sguardo ancora assonnato, oltre il vetro.
Luca Antonini è art director, game designer e script writer di Officina Indie, uno dei non-luoghi dove riesce a dare corpo ai suoi incubi. Una laurea in Dams gli dà occasione di coniugare cultura pop con Umberto Eco. Il resto sono visioni.
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Santa Tecla Benché tutti fossimo abituati alle scaglie infette delle sue leggende, alla suggestione ciclica e irruenta che – così ci avevano da subito spiegato – governava irrimediabilmente il suo intelletto, la guardavamo ancora turbati. Ogni volta più sconvolti, condannati, vulnerabili, noi, gli orfanelli dal sollievo ostruito, le clavicole affossate dalle sue parole: «Avvicinatevi senza paura, passate attraverso la colonna di fuoco.» Ci tendeva la mano. Il volto, irradiato da guizzi di fiammelle crepitanti, manteneva una bellezza immortale originaria, anche se iniettata da rivelazioni di deformità feline. Seduti in cerchio intorno a lei restavamo immobili, la radura arsiccia sotto i piedi nudi, erba aspra a pizzicarci le chiappe disgraziate. Speravamo sempre nell’avvento di una Madre, o che per lo meno la pioggia intrappolata nelle nostre flebili espressioni, nonostante
Filippo Parodi tutto ancora umane, arrivasse un poco a spegnere quella febbre divorante che al contrario si gonfiava, incrementava: «Ecco che il leone si ficca tra le gambe!» Sollevava la sua gonna di panno fiorita e ne addentava un lembo, portava le dita alla fica, roteava gli occhi ed era come se attaccasse a mugolare una sotterranea liturgia primordiale, dunque la bocca cominciava a schiumare.Allora, incapaci di voltarci, di sottrarci all’orribile spettacolo, potevamo puntualmente percepire il tremolio del fratellino che, da un tempo ormai immemorabile, ci era capitato affianco. Qualcun altro invece iniziava a ruggire, dapprima con insicurezza, quindi con più forza e decisione, ruggiva e frantumava la catena collettiva, avanzava verso il grembo, si gettava nel falò. Lei placava all’improvviso la sua furia, adesso ci fissava attonita, dischiudeva un rauco pianto. A quel punto, un saio curvo e stanco, ombra logora fin troppo familiare, agitando il plumbeo campanello della cena ci sgridava, uno ad uno ci riconduceva fuori dalla grotta e non per consegnarci a nuove dimore.
Filippo Parodi nasce a Genova nel 1978. Nel 1986 si trasferisce a Milano. Si laurea in Filosofia Estetica nel 2003, con una tesi sul verosimile e il meraviglioso nella poesia. Dal 2007 comincia a pubblicare racconti e poesie per diverse riviste d’arte e di letteratura. Nel 2012, per la casa editrice Gorilla Sapiens, esce un suo racconto nell’antologia Urban Noise. Sempre per Gorilla Sapiens, alla fine del 2013, pubblica il suo primo libro La testa aspra. Da febbraio 2014 collabora con la rivista Ultrafilosofia.
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Il problema di mio nonno Jacopo Marocco «Prima della malattia non mi era mai passato per la testa di andare a puttane» così mi ha detto mio nonno. Poi è arrivata quella maledetta cancrena alla gamba sinistra. «Bisogna amputarla» disse il medico senza tanti giri di parole. E amputarono. «La prima volta che ho visto quel moncone che arrivava poco più giù dell’inguine, ho vomitato. Tutto addosso al dottore!» così mi ha detto mio nonno. Così, da un giorno all’altro, si è ritrovato con una gamba sola. E solo: mia nonna se n’era andata da un po’ ormai. Era scappata con un vecchio pittore francese. «Tua nonna ha sempre amato la pittura, le vernici, ma soprattutto i pennelli» così mi ha detto mio nonno. Comunque all’inizio il dolore è stato tanto. Per la gamba, non per la nonna. Nemmeno la notte trovava pace: faceva sempre sogni in cui aveva ancora la gamba. «Erano così reali, mi svegliavo per andare a pisciare e cadevo: scendevo sempre con la gamba sinistra, convinto di averla ancora» così mi ha detto mio nonno. Poi, passato il dolore acuto, con la mente più lucida, si è accorto di una cosa. Una cosa strana per uno di novant’anni. In principio ha pensato fosse l’effetto dei farmaci. Ma i medici lo hanno escluso. Poi a qualche disfunzione organica, ma i medici hanno escluso pure quelle. Ha fatto decine di esami, ma i medici hanno escluso tutto quello che c’era da escludere. Così ha provato con una vecchia del paese, una mezza maga. Una che fa malocchi, fatture e cose simili. «Quando sono entrato, la strega mi ha fatto: “Qual è il tuo problema?” e io: “Ma non sei una maga? Non dovresti già VERDE
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saperlo?” In ogni caso, reggendomi con le stampelle, mi sono slacciato i pantaloni e le ho tirato fuori il mio problema» così mi ha detto mio nonno. La maga è quasi svenuta. Quando si è ripresa ha detto a mio nonno che, secondo lei, il sangue che prima circolava nella gamba ha trovato come unico sfogo il suo uccello. Secondo la maga è un eccesso di sangue nel corpo a provocargli quell’incredibile e perpetua erezione. Con quel vistoso rigonfiamento nei pantaloni, per mio nonno è diventato imbarazzante fare qualsiasi cosa. Il fatto di essere senza una gamba è passato in secondo piano. Come soluzione ha anche provato ad attaccarsi con del nastro il pene alla gamba sana, ma la situazione non è migliorata. «Tutti gli altri vecchi mi dicono che sono fortunato, ma solo io so quanto soffro: addormentarsi a pancia in giù, a pancia in su, stare seduto, pisciare, qualsiasi cosa è insopportabile con questo affare così grosso e duro nelle mutande» così mi ha detto mio nonno. Ha provato qualsiasi cosa per avere un po’ di tregua. Ha preso di nuovo a fumare. Ha ricominciato a bere. Da quando ha saputo che i cellulari causano danni al sistema riproduttivo, tiene sempre in tasca un telefonino. Ora è convinto che se riuscisse a raggiungere un orgasmo riuscirebbe ad avere un fisiologico momento di pace. Ne è certo. Ha provato a masturbarsi, ma l’artrosi non gli permette una buona mobilità del polso, così dopo pochi tentativi ha lasciato perdere. «Ho provato anche a corteggiare
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qualcuna del centro anziani, ma nessuna vuole sbattersi un vecchio monco come me. Devo scopare però. È per questo che ho deciso di andare con una puttana». Così mi ha detto mio nonno. Siamo in macchina, io e lui. Carichiamo una ragazza. Dice di essere moldava.Avrà una trentina di anni. Dice che non vuole fare cose strane. Non vuole che il vecchio ci guardi mentre io e lei scopiamo. Le spiego che non deve fare nulla di strano. Le dico che non è con me che deve fare sesso, ma con mio nonno. Ride. Scendo dalla macchina. Prendo in braccio mio nonno e lo adagio sul sedile posteriore. Sembra un bambino. Mi allontano di una trentina di metri. Mi siedo al margine di questa stradina di campagna. Ora mio nonno e il suo gigantesco problema sono soli con la ragazza moldava. Io, aspetto. Lo sportello della macchina si apre. Scende la ragazza. È nuda. Le vado incontro. «Tuo nonno! Tuo nonno!» urla la ragazza. «Fatto amore, poi male! Male!» Corro verso la macchina. C’è mio nonno. Nudo. Lo chiamo, ma non risponde. Ha gli occhi sbarrati. Appoggio un orecchio sul suo petto: il cuore è fermo. Non respira.Tento una specie di massaggio cardiaco. Inutile. Se dovessi usare una parola sarebbe: MORTO. Come nei film, con l’indice e il pollice gli chiudo le palpebre. Guardo in basso: il suo enorme problema non c’è più. Il suo uccello si è finalmente acquietato, è moscio come dovrebbe essere l’uccello di uno della sua età. Rimango un attimo a guardare quel mucchietto di pelle raggrinzita. Qualcosa non mi torna. Al buio sembra esserci
qualcosa in più. Non posso crederci. Non può essere vero. La tocco. È lì. Se dovessi usare una parola sarebbe: GAMBA. Se ne dovessi usare un’altra sarebbe: RICRESCIUTA. Guardo la faccia di mio nonno. Sul suo viso regna uno stupendo sorriso. Se dovessi usare una parola sarebbe: SODDISFATTO. Se ne dovessi usare un’altra sarebbe: BEATO. http://jacopomarocco.wordpress.com