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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 26-27 anno III luglio-agosto 2014


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p.2 Edit p.3 TI ODIO POESIA #24: Nota con protocollo 868 (Gianni Solla) p.4 Le interruzioni delle vite altrui (Simone Ghelli) p.6 La casa nella nebbia (Alda Teodorani) p.8 Satanic Fuck (Officina Infernale) p.10 Khepri (Andrea Frau) p.12 SEMIAUTOMATICA #18 (Simone Lucciola) p.13 BLITZRECENZION #28: Fireworks (S. H. Palmer) p.14 Spazzatura (Alessio Posar) Stand up for what you believe in even if you are standing alone

indizi

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PARTNERS IN CRIME

VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it

for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY

dove siamo editoriale

Prima l’estate durava tre mesi, poi sono arrivati i monsoni. I tormentoni di stagione ispiravano i torbidi e insoluti casi di nera agostana e la polizia brancolava nel buio. Una ragazza di Tor Pignattara veniva ammazzata in Nicaragua: le sensitive del Gruppo Mondadori facevano le veci del Ris, ma la matassa non si sbrogliava finché non arrivava Massimo Lugli a dirci che Laura era stata strangolata durante un rito voodoo. Sulle panchine divelte dei parchi abbandonati di periferia, lì dove una volta dalle cortecce dei lecci screpolati pendevano strani frutti a forma di insulina, le notti sfiorivano in fretta all’ascolto di chi difendeva la polizia di Genova, perché la guerriglia è guerra e l’estintore è un’arma di offesa. La new-wave italiana era morta anni prima, quando il Mostro di Firenze decise di fermarsi: era settembre, Siberia era già uscito, Desaparecido no. Ci rimaneva solo il ricordo di un mercoledì da Liboni, delle lumache nere e delle telefonate anonime notturne che ci tenevano compagnia, nei salottini sferzati dal vento e dai sospiri demoniaci dei nostri vicini di casa.


Gianni Solla Nella vecchia casa ho chiuso scatole per un mese, su ognuna ne ho scritto il contenuto, poi sono venuti gli addetti al trasloco, mi hanno chiesto, questa scatola con scritto: Fallimenti amorosi dal 1984 al 1999, dobbiamo portarla? e questa: Appunti per personaggi di romanzi? e poi: Cose non dette a mia madre? non c’è abbastanza spazio, ho detto, regalatele alla chiesa, ma alla fine hanno portato tutto. Adesso abito in un condominio moderno, non parlo con nessuno, faccio la spesa in un decò pieno di poveri, la notte sento l’allarme delle macchine, apro le scatole, tocco quello che c’è dentro.

Gianni Solla vive a Napoli. Ha pubblicato due romanzi, Airbag e Il fiuto dello Squalo, e ha partecipato a numerose antologie. Gli piacciono parecchio Philip Roth ed Edoardo Sanguineti.

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TI ODIO POESIA

Nota con protocollo 868


Le interruzioni delle vite altrui Simone Ghelli L’ho visto che era già a terra, dopo l’urto e l’intorpidimento del corpo spinto in avanti. Il tempo si è come fermato: immobili, congelati, i lavoratori e gli studenti del mattino, ancora freschi e inebriati di chiacchiere. Tramortiti, siamo scesi in fila, rispettosi. Una donna, in piedi, mugolava con sguardo vitreo: «È morto… è morto… non si muove… è morto». Altri, giù in strada, si sono affacciati timidamente. «Ma dov’è?» mi ha chiesto una ragazza. «Di là, oltre l’incrocio» le ho indicato. Da dove eravamo non si vedeva, coperto com’era dalla cortina di auto parcheggiate in fila. Io però l’ho visto: un corpo immobile, disteso in modo innaturale, il braccio destro piegato con un angolo di novanta gradi. Ho capito subito, anche se una madre cercava di confortare la sua bambina che non faceva che chiedere. «No, è solo svenuto» la tranquillizzava. Di corsa siamo saliti sull’autobus successivo, presi dal terrore di fare tardi, ma col sangue gelato, che aveva abbandonato il mio corpo senza spargersi in terra, rendendomi improvvisamente freddo ed estraneo all’evento, incapace di esserne partecipe: un occhio esterno alla scena, ma non del tutto insensibile. Era qualcosa che mancava, che doveva esserci. Non esiste di morire in un incidente senza sangue. Dall’autobus abbiamo visto correre i vigili verso il luogo dell’impatto, industriarsi a bloccare il traffico per recintare l’area. Li ho visti con lo sguardo di tutti, perché tutti eravamo VERDE

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girati dalla stessa parte, verso il fondo. In particolare mi ricordo della corsa affannata di uno di loro, che stringeva contro il fianco la radiotrasmittente assicurata nella sua custodia. Ricordo che mi è sembrata un po’ fuori sincrono perché è apparso come uno scorcio di vita in uno sfondo immobile: una ferita in una scena congelata; la ferita dalla quale è cominciato a fuoriuscire il sangue, e con esso la sensazione del dolore. Finalmente. In sequenza sono tornati anche altri frammenti, immagini che la mia mente ha proiettato nuovamente, a distanza di minuti. Ho rivisto l’autista: anche lui, come me, che sembrava da un’altra parte, come un automa. Dalle notizie che ho letto nel corso della giornata, ho poi saputo che era stato colto da un leggero malore. Ho ricordato anche la signora seduta al mio fianco, che ha sbattuto un braccio nel contraccolpo della frenata. Se l’è tenuto per un attimo con l’altra mano, ma la piega di dolore è subito scomparsa dal suo volto, sostituita da un’espressione di sconcerto. Mi sono rivisto con gli occhi di quella donna: un ragazzo assente e immerso nella lettura, strappato con violenza da quel piacere tutto mio, da un rituale che consumo ogni mattina nell’approssimarsi del lavoro. E come al solito, mentre riguardavo la pellicola impressa coi miei sensi, perdevo i pezzi di quanto mi accadeva intorno. Sentivo frammenti di discorsi, ma non vedevo i volti; oppure, se li vedevo, non li registravo. L’autobus attraversava il tessuto stradale di Roma, questo budino di gomma e


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cemento e lamiere, e io continuavo a fissarmi sugli stessi particolari di sempre, come la vetrina smantellata di un vecchio negozio, col cartello VENDESI appiccicato al vetro con un po’ di scotch che ha ceduto da un lato. Sono mesi che sta così, in procinto di crollare: un occhio vuoto in mezzo a una fila di iridi sgargianti, tra borse di paillette e fotografie di modelle cosparse di creme e lozioni d’ogni tipo. Mesi che il mio sguardo ricade invariabilmente su quel punto, come se uno sguardo possa reggere il peso di quell’ultima impronta. Con il cartello suppongo che sparirà anche lo spazio buio su cui poggia la mia immaginazione, e anche le storie che avrò tratto fuori dall’oscurità, in modo del tutto arbitrario, perderanno il loro spessore per lasciare il posto a un nuovo contenitore di prodotti. Semaforo dopo semaforo, l’81 è arrivato all’altezza di Torre Argentina, a ridosso della colonia di gatti; la maggior parte grassi, alcuni senza una zampa, disseminati tra le rovine imperiali. A quel punto la mia testa si gira sempre, automaticamente, dalla sua parte, dove sa di trovarla. Anche oggi è stato così, nonostante l’impatto e il corpo immobile e senza sangue. Anche oggi, più degli altri giorni, la mia testa ha cercato i propri punti di riferimento. E lei era lì, incosciente delle drastiche interruzioni delle vite altrui. La cantante lirica muoveva oscenamente la sua bocca truccata d’un rosa acceso, labbra di bambina su una pelle rugosa e bruciata dal sole. Il maglione, dello stesso colore del rossetto, amplificava i riflessi argentati dei capelli legati a crocchia, da cui sfuggiva qualche ciocca con dei rimasugli di biondo. Come al solito la sua presenza inquietava i passanti, che per scansarla rischiavano di scontrarsi con le persone accalcate intorno alla fermata degli autobus. Il suo modo di muovere la bocca e le mani ha qualcosa d’inquietante e affascinante al tempo stesso, qualcosa che ogni

mattina mi spinge a fissarla dall’altra parte del vetro. È un mistero che non riesco a decifrare, reso più fitto dalla presenza delle due maracas di plastica verde che tiene appoggiate per terra, come a delimitare lo spazio del proprio movimento. Lei canta, nello sferragliare dei mezzi di locomozione. Nel divergere dei passi, lei, imprigionata in un cerchio invisibile, canta un’aria d’altri tempi. Alla fermata successiva è salito il barbone con la finta pelliccia di visone e la papalina di lana grigia, portando con sé un insopportabile odore di cotica stagionata. Non lo avevo mai visto prima, ma in compenso non c’era traccia della donna con i capelli stopposi e il trucco da pagliaccio. Dopo poche centinaia di metri è stato il mio turno di scendere, ma l’odore di rancido aveva fatto in tempo a depositarmisi addosso. Non c’era sangue, ma l’odore dell’uomo mi ha fatto finalmente sentire la morte, la presenza della morte che avevo tenuto a distanza per tutto il viaggio.

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La casa nella nebbia Alda Teodorani La vecchia viveva sola, in una casa di campagna della pianura romagnola, vicino a Pontesanto. Una casa in mezzo al nulla, intorno c’era una piatta distesa nebbiosa. Per questo il cadavere fu ritrovato solo parecchie settimane dopo. Il contadino raccontò che aveva sete, e si era fermato a bere al pozzo della vecchia. «Quella là» disse ai carabinieri sforzandosi di parlare in buon italiano, non in dialetto, «non usciva mai di casa. Ciò, l’è longa in bicicletta da Sasso a Toscanella e mi fermo sempre là a bere e magari a cambiare l’acqua ai lupini. Lei non mi ha mai detto niente, non l’ho mai vista, neppure». E alle domande dei carabinieri, che non sapevano cosa voleva dire cambiare l’acqua ai lupini ma erano più interessati a un’ipotesi di delitto, rispondeva: «A’ ne so, gli portavano da mangiare quelli del comune. Dicevano tutti che era una strega, o qualcosa del genere. Ma io non l’ho mica neanche mai vista». I carabinieri conclusero che la vecchia doveva essersi buttata nel pozzo da sola, e commentavano su quel disgraziato di Pirotti, che era stato il primo ad arrivare sul posto e aveva dovuto aiutare a tirar su la morta, già mezzo putrefatta. La vecchia non aveva parenti, e il comune di Imola aveva pagato i funerali, facendo suoi casa e podere. E la storia parve finita. La casa fu assegnata a una famiglia di profughi polacchi. Non era proprio la politica del comune, fare favori a simile gente, specialmente quando gli imolesi stessi si ritrovavano sfrattati e costretti a pagare affitti da infarto, ma così fu. E fu scelta quella casa proprio per lo stesso motivo. La madre guardava il bambino giocare con un fagottino di stoffa quadrato cucito a mano. Non era pratica delle usanze del posto e pensò si trattasse di un giocattolo lasciato lì da qualche bimbo. Non si preoccupò assolutamente. E nemmeno si preoccupò quando non vide suo figlio rientrare a cena, la sera. Era estate, faceva buio tardi e, ora che avevano una casa in campagna, non le dispiaceva che il figlio rimanesse fuori a giocare. Lo credeva lontano da ogni pericolo. Fu solo più tardi, verso le otto e mezzo, dopo che il padre era rientrato dal lavoro (faceva i turni in una fabbrica di ceramiche) che la polacca VERDE

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cominciò a preoccuparsi. Dapprima, chiamò ad alta voce il bambino da dentro la casa. Poi, visto che non otteneva risposta, si affacciò al portone e, guardandosi intorno, urlò più volte il nome del figlio. Le rispose solo il silenzio della campagna, interrotto ogni tanto da un monotono canto di grilli. L’aria cominciava ad oscurarsi. Verso Bologna, le luci della via Emilia si sostituivano al chiarore del sole morente. La madre d’improvviso sentì che doveva essere capitato qualcosa di molto grave. Le tornò alla mente il giocattolo di stoffa che il figlio aveva trovato. D’istinto si rese conto che forse non si trattava di un giocattolo. Il volto le si raggrinzì tutto di rughe, mentre correva verso il pozzo. E mentre capiva che suo figlio era lì dentro. La famiglia dei polacchi, ormai ridotta a due sole unità, decise di lasciare subito la regione. Dove potessero mai andare, non si sapeva. Forse l’uomo progettava di andare a lavare vetri sugli incroci, nella capitale. Forse avevano deciso di tornare a Stettino. Ma mentre partivano con grandi accelerate sulla piccola utilitaria rossa e la donna urlava a tutto spiano contro quelli che stavano lì intorno, in un andirivieni di carrelli davanti al supermercato del centro commerciale, un prete che sapeva il polacco si mise a ridere E poi disse a chi lo volle ascoltare che la donna ce l’aveva contro le streghe romagnole, e che gli imolesi potevano andare tutti all’inferno. Quello era il suo saluto alla città. Non passò molto tempo, e la casa fu affittata nuovamente. Troppo poche, le case a Imola, e troppo casuali la morte di una vecchia sola che si era suicidata e di un bambino un po’ distratto, pronto in ogni momento a cadere nel primo pozzo gli fosse capitato a tiro. L’ipotesi della stregoneria non era assolutamente da prendere in considerazione. La vecchia era un po’ pazza ma innocua. Aveva le sue piccole manie e ogni tanto dormiva nel pollaio, sotto il vecchio forno per il pane, tutto qui. «Da questo a pensare che la vecchia fosse una strega, be’...» disse l’assessore ai servizi sociali del Comune quando si trovò di fronte il trepidante padre di famiglia, cinque figli per l’esattezza, che cercava casa a Imola: era venuto dall’Abruzzo apposta per loro, così disse all’assessore. E, convinto, alla fine prese in affitto la casa. E gli conveniva, anche, perché l’affitto, dopo la morte del piccolo polacco, da basso che era,


divenne simbolico. La donna non sapeva nulla delle usanze del posto. Ma quando vide tra le mani del piccolo Giovanni quello straccetto cucito a forma di rombo, non le piacque. Glielo strappò dalle dita grassocce, e lo scaraventò nel pozzo. Il piccolo iniziò a piangere disperato ma la donna non ci badò.Tornò a lavare il bucato al canale: con cinque figli piccoli ce n’era parecchia, di roba da lavare. Furono trovati tutti con la testa immersa nell’acqua. Sembravano cinque piccoli animaletti che fossero scesi a bere. Ma quando li girarono, trovarono che le facce erano coperte di sanguisughe, e gli uomini chiamati dagli abruzzesi per farsi aiutare a ritrovare i figli, per la maggior parte contadini, vomitarono tutta la cena. Perché era successo all’imbrunire. La donna non aveva più visto i suoi bambini, dispersi fin dal primo pomeriggio a giocare nei campi e a mangiare le pesche dei vicini. Gli abruzzesi lasciarono la casa il giovedì successivo alle cinque, due ore dopo la sepoltura dei bambini. Stavolta nessuno udì urlare la madre. Però il marito, quella mattina, aveva mandato l’assessore all’ospedale a suon di pugni. Una settimana dopo, l’assessore tentò di impiccarsi: qualcuno gli aveva fatto trovare sulla scrivania le foto dei bimbi dopo che le sanguisughe erano state tolte dalle loro facce. Come avessero fatto ad avere le fotografie, non si poteva sapere. L’assessore non era riuscito a farla finita perché la moglie era entrata proprio mentre lui dava il calcio allo sgabello, e glielo aveva subito piazzato sotto i piedi, urlandogli di non fare lo stupido. Però diede le dimissioni, e non ci fu verso di fargli cambiare idea. I seguaci del santone indiano cercavano da tempo un posto dove richiamare i fedeli del luogo. Furono quasi stupiti, quando il nuovo assessore li convocò per comunicar loro dell’assegnazione della casa. Erano due coppie, ragazzi sui venticinque anni, vestiti di arancione. Organizzarono subito una giornata di preghiera e meditazione. Iniziarono a costruire uno strano aggeggio, proprio vicino alla strada. I contadini che abitavano lì vicino, trovandosi alla sera nel bar a bere, fumare e giocare a carte, avevano un nuovo argomento di conversazione. «Che quel à là», così avevano soprannominato la fatica degli arancioni, e scommettevano sulle forme che avrebbe potuto avere, una volta ultimata. «Par mè l’è una dona nuda» diceva uno ridendo, succhiando il sigaro. «Par mè l’è un caz» diceva un altro. Però quando «’e quel» fu ultimato, nessuno sapeva dire a cosa somigliasse.

«L’è una statua del Buddha, ignoranti!» disse quella sera il maestro Bardi, quando qualcuno gli chiese il suo parere «come si vede che non siete mica stati a scuola, oscia! Le elementari di corsa, i v’a fat fer!» Fu proprio quando la curiosità era al culmine che accadde. Era una sera d’inverno. Bastianì, passando di lì, vide che, al cancello degli arancioni, qualcosa era cambiato. L’alto obelisco che aveva ospitato alla sua sommità la statua del Buddha era stato distrutto. E sotto, tutti nudi, c’erano i corpi dei quattro ragazzi. Non sarebbe stato mortale, per loro, trovarsi lì sotto mentre quel coso era crollato. Ma le pietre li avevano colpiti alla testa. Come avesse fatto a crollare, perché i quattro fossero completamente nudi, come mai si trovavano là sotto, non si poteva capire. La gente cominciò a parlare con terrore della casa stregata, che aveva già ucciso dieci persone, di cui sei bambini. Nessuno volle più sapere di andarci ad abitare. A poco a poco, i rovi di more la coprirono, e i contadini giravano al largo, dicendo che portava sfortuna anche solo tentare di avvicinarsi e che la notte si accendevano in casa delle luci. Che era la vecchia strega, tornata dalla tomba. «Sono stato proprio bravo. che bravo» diceva tra sé l’uomo ridendo, mentre saliva le scale illuminandosi la strada col lume a petrolio. «Non sarà una reggia ma porca l’oca m’ero proprio stufato, so’nca me, di dormire alla stazione, su quelle panche di legno e il termosifone sempre spento, e i diretti per Rimini o Bologna che passano ogni mezz’ora... Sono proprio bravo. Specialmente quelli là degli indiani gli ho sistemati proprio bene. Dormivano tutti nudi, una bela bota in testa, una bella botta e passa la paura, drett in paradis, ma però c’ui vegna un azident, quant’erano pesanti quando li ho portati fuori» e borbottava qualcos’altro, insieme a qualche bestemmia perché aveva inciampato e aveva rischiato di cadere. «Ac fatiga buttare giù quel coso a picconate» diceva ancora, riprendendo a salire quella scala che sembrava interminabile «che bravo che son stato, così adesso di qui non mi manda più via nessuno... finalmente ho una casa anche io...» e proprio in quel momento vide per terra un quadrettino di stoffa cucito a mano. Si chinò a raccoglierlo ma quando s’accorse che era solo un vecchio straccio, lo buttò via, dicendo: «Un azident!» Fu l’ultima cosa che disse. Inciampò, cadde, e si spaccò il collo. La lampada si ruppe, e il fuoco cominciò a lambire il pavimento di legno. Quando i contadini di Pontesanto e Casola Canina seppero che la vecchia casa era bruciata, tirarono un sospiro di sollievo. E la sera, al bar del prete, qualcuno offrì un bicchiere di spumante a tutti. VERDE

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Officina Infernale

Officina Infernale è nato a Padova nel 1970. Si muove tra grafica, pittura e fumetto dalla metà degli anni Novanta. Ha frequentato la Scuola del fumetto di Milano. Ha collaborato negli anni ‘90 con Bompiani, Mondadori e altri editori come illustratore. Ha disegnato: Video Inferno su sceneggiatura di D. Cajelli per Sdf Edizioni e Grief per In Your Face Comix, il cui seguito è uscito nel 2010. Ha collaborato con Soa records e Green records come grafico e illustratore. Tra i vari gruppi ricordiamo: The Miles Apart, Avulsion, SOA records anniversary triple CD, Raw Power, Army of Angry Youth, By All Means (mai uscito), Dogfight, Comrades, Rival Skulls, Gonna Fall Hard. Dopo una pausa durata qualche anno è tornato a disegnare.


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Ha collaborato con: Nixon, la Scimmia magazine, Sherwood Comix, Lamette Comix in La Guida illustrata al Frastuono più Atroce, Antifanzine, Bizarro Magazine, Puck Comic Party, Bubka, Mr. Mango. Ha realizzato i seguenti albi a fumetti: Iron Gang Halloween Monster Party Massacre (Nicola Pesce Editore); Hardcore 1986-2008 (Lamette Comix); Inner Space (Atomo Vision); Le 5 fasi (BD Edizioni); Officina Infernale’s 100%Shit (In Your face Comix); Failure (Officina Infernale Manufactoring); Motosega Libro della Fine(AA/VV, In Your Face Comix); The Doomrider (Ebook) La Case Books. Attualmente vive a Padova, è co-fondatore e art director della skate company Murder Skateboarding. http://www.officinainfernale.blogspot.it


Khepri Il giorno era giunto. Il medico stava per togliergli la fasciatura allo zinco. «Dottore, sento una sorta di formicolio da qualche giorno. Un formicolio troppo reale, però. Ho avuto una gran voglia di grattarmi ma ho resistito come mi ha consigliato». «Ha fatto bene. Una volta soddisfatto un prurito è pronto a subentrarne uno nuovo fino all’esaurimento del corpo. Ora vediamo, salga sul lettino». Il medico abbassò lentamente la fascia fino al polpaccio e rapidi uscirono cinque, sei, sette scarafaggi. Il ragazzo urlò schifato, scese dal letto, agitò la gamba in maniera inconsulta per scacciare le bestiole, ma la caviglia cedette e rovinò a terra. Gli scarafaggi uscirono rapidamente dalla fasciatura e zampettarono per la stanza andandosi a nascondere sotto l’armadio delle medicine. Il giovane, terrorizzato, si strappò la fasciatura frenetico, ignorando i rimproveri del medico: «Stia calmo! Solo io posso toglierle la fasciatura!» Lo specialista lo aiutò ad alzarsi e a risedersi sul lettino. «Ma cosa mi frega? Ero invaso da quegli orribili insetti! Come è potuto accadere? Cosa avrei dovuto fare, chiedere gentilmente a quelle adorabili creaturine di dio di non scorrazzare sulla mia gamba? Chi sono, un santo entomologo che parla con gli insetti?» «Va bene, si è sfogato. Ha eseguito la scena madre della commedia. Ammetto che è un evento alquanto insolito, ma non serve a nulla dare in esandescenza. Ora compiliamo i moduli e descriviamo l’accaduto». «Oh, ma certo» disse nervosamente il sempre più sconvolto giovane, «apriamo pure le pratiche, si sa che le blatte non sopportano gli iter burocratici...» «Dice bene giovine, in caso di guerra nucleare le blatte sarebbero gli unici esseri viventi a sopravvivere alle radiazioni. Al contrario, in caso di guerra mondiale combattuta da commercialisti, funzionari del VERDE

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ministero e avvocati a colpi di carte bollate, sentenze e ricorsi, sarebbero le prime a perire» rispose il dottore, non cogliendo l’ironia del paziente. «A volte, caro mio luminare, il terrore è l’unica risposta razionale e accettabile. Il suo autocontrollo è spaventoso, completamente folle! Chi in una situazione del genere non si lascia prendere naturalmente dal panico non può che essere pericoloso. Oppure non è la prima volta che assiste a un caso simile». «Scusi, non la stavo ascoltando. Prenda questo foglio e vada all’ufficio Imprevisti sgradevoli, lì troverà il dottor Tommaso Landolfi che le dirà cosa fare». «Ma certo, esimio ammaestratore di piccoli Gregor Samsa. La mia prima reazione sarebbe correre a nascondermi sotto l’armadio come gli scarafaggi, ma seguirò il suo placido e sensato consiglio» disse il ragazzo scendendo dal lettino. Proprio in quel momento notò che sulla sua gamba erano comparse strane macchiette nere e frastagliate. «Dottore, ha visto?» «Sì, proprio come pensavo. Ho inoltrato il suo caso al sistema centrale con massima priorità, ora vada!» «Chiudo la porta?» chiese il giovane. «No, lasci pure aperto. Le bestiole non andranno da nessuna parte, sono in attesa della burocrazia. Prima di allora non possono far nulla. Rimarranno rifugiate sotto il limbo del mobile. Ma lei faccia in fretta con la documentazione!» Il giovane uscì dalla stanza zoppicando. Una suora Caronte lo aspettava con la sedia a rotelle. Lo fece accomodare e lo spinse per un po’, traghettandolo lungo i corridoi dell’ospedale. «Sorella, la croce che porta al collo mi sta solleticando il collo». «Oh scusa, la sposto subito» disse la suora dolcemente, girando dall’altra parte lo scarabeo che teneva legato al collo. Intanto il ragazzo, adesso calmatosi, lanciava

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Andrea Frau


briciole di pane agli ammalati fermi a letto. Poi piegò la testa all’indietro e chiese alla suora: «Lei sa qualcosa sugli scarafaggi che escono dalle fasciature?» «Giovanotto» rispose la suora, «non sono scarafaggi, è lo scarabeo sacro, in latino Scarabeus Sacer». Al suono di quelle parole tutte le cellule di quel grande organismo che era l’ospedale si fermarono e chiusero gli occhi per alcuni secondi, farfugliando all’unisono qualcosa, per poi riprendere, chi a rifare il letto, chi a leggere diagnosi e prognosi, chi a compilare scartoffie. «Come ti chiami figliolo?» chiese la suora al ragazzo.

«Non importa il mio nome, sono uno dei tanti che ha avuto la fortuna di finire all’ospedale civile di Sassari». I malati erano rannicchiati in posizione fetale negli angoli delle stanze. Gli infermieri e gli ausiliari stercorari li spingevano fino a farli rotolare al centro della stanza, dove li sgranocchiavano famelici. I pazienti più fortunati fungevano da incubatori di larve, futuri pasti prelibati per i medici. Nel reparto intitolato a Mario Monicelli gli ospiti rotolavano da soli, a turno, fuori dalle finestre. Ognuno aveva il suo numero e un vigilante si assicurava che nessuno facesse il furbo. Le scritte all’interno dello stabile erano tutte al contrario come quelle delle ambulanze. In tal modo, dall’esterno pareva che tutto fosse in ordine, al suo posto. Per chi era dentro, invece, tutto filava alla rovescia, in una parola: inumano. Certo, in sala d’aspetto c’era anche il presidente Mujica come gli altri comuni mortali, ma a ben vedere era solo un cartonato. Il ragazzo fu anestetizzato dalla suora traghettatrice e si addormentò immediatamente. In seguito fu adagiato su un carrello dei dolci e portato nella sala da pranzo dei medici. Finito il pasto, una crocerossina dal volto angelico trasportò fuori dall’edificio lo scheletro del giovane. Come Khepri, la divinità scarabeo stercorario, che ogni mattina spinge il sole fuori dall’oltretomba. Una donna delle pulizie, che passava lì per caso, improvvisò una marcetta funebre picchiettando le sue ossa con un manico di scopa, come fosse uno xilofono. Sul calar della sera un altro giovane si recò al pronto soccorso, riattivando così il ciclo ospedaliero. Il paziente, dolorante ed egoista, perché quando stai male il tuo è l’unico dolore che conta, vide sulla soglia uno scarafaggio e lo schiacciò con noncuranza. La signora dell’accettazione sorrise sorniona e gli fece segno di accomodarsi. VERDE

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# 18 Per disegnare uso da sempre colori poveri e pennarelli da cartoleria. Pilot 0.5 nera, Pilot signpen nera, Pilot 0.7 biro, Staedtler 0.4 nero, Tratto marker nero a punta tonda, acrilici dozzinali, bianchetto, pennelli sintetici di due o tre misure a caso, retini trasferibili da qualche antica giacenza. Questa è tutta la gamma finora utilizzata, per un totale di una trentina d’euro a scorta. Come carta uso la Fabriano Copy che si compra normalmente per la stampante casalinga, una risma 500 fogli. Il risultato è che la pagina tende ad assorbire l’inchiostro e si stropiccia alla pressione della gomma, però sono libero di accartocciare accartocciare accartocciare. Il mio piano luminoso è un vecchio espositore al neon, non ho che una vaga idea della differenza che intercorre tra una mina e l’altra. Cerchiometri e squadre sono vecchi di generazioni, completamente VERDE

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sbrecciati. Tirano delle linee storte e incongruenti come la mia vita, come la mia destra insieme ferma e tremolante. Penso agli atelier di quegli artisti affermati, pieni di utensili costosi disseminati ovunque sul pavimento, straripanti dai cassetti, tubetti di mille colori utilizzati una volta sola e poi lasciati a seccare senza rimpianti. Mi piacerebbe anche solo comprare una scatola di pantoni, un set di rapidograph, dei pennelli in pelo martora. Ma è un po’ tardi per devolvermi completamente alla causa, e la mia pigrizia è il peggiore dei deterrenti. Così faccio di necessità virtù, cerco di rivendere per buono il poco che ho imparato da solo. Dimentico quasi del tutto il confronto, e mentre procedo a tentoni il mio immaginario viene a galla sbilenco, si affaccia timidamente dietro anni di tentativi svogliati. Ma è anche così che ho imparato a non perdermi.


BLITZRECENZION S. H. Palmer

E nel bel mezzo dell’estate i colori esplosero nel fiume. E noi lì seduti a goderci lo spettacolo, sulle rive del Reno. (shanduziopalmer.tumblr.com)

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Spazzatura Alessio Posar «Venite» disse Filippo, attraversando la piazza illuminata per gli ultimi minuti della giornata. Luigi e Camilla lo seguirono. L’orlo del vestito della bambina si alzava e le scopriva le ginocchia mentre lei saltellava da una mattonella all’altra e faceva attenzione a non calpestare le righe scure. Luigi camminava dietro di lei, e guardò prima le sue gambe e poi le bancarelle vuote del mercato. Restava solo l’odore della frutta marcia, quello non se andava mai. «Muovetevi, idioti» urlò Filippo, che si era messo a correre. «O lo porteranno via». Luigi accelerò il passo e superò Camilla. In fondo alla strada era spuntato il camioncino della nettezza urbana. Arancione, il rumore che faceva si sentiva anche a quella distanza. I bambini raggiunsero i cassonetti. Erano quattro e i coperchi non si chiudevano, per quanti sacchi erano ammassati là dentro. Mezzi aperti, squarciati dai topi e dai barboni, il puzzo di verdura putrida, di fondi di caffè, bucce di mele e arance, carne grigia e verde. Lo spigolo di uno dei cassonetti era rotto e un olio nero gocciolava sull’asfalto. La macchia si allargava nell’ombra. «Ecco» disse Filippo fermandosi tra il terzo e il quarto cassonetto, «guardate». «C’è del cellophane» disse Camilla. Quello lo vedeva bene anche Luigi: era un grosso sacco di nylon grigio pieno di cellophane. Filippo lo superò con un salto e prese Camilla per mano. «Guarda da questa parte» disse. Camilla si chinò e poi urlò. Luigi fece il giro e osservò anche lui: nel sacco c’era uno strappo e da lì sbucava un ciuffo di capelli. E c’era una testa. Aveva gli occhi aperti e gialli, vermi grassi che uscivano da sotto le palpebre e la barba incrostata di rosso scuro. Luigi sentì il vomito risalire dallo stomaco alla gola e poi schizzare fuori dalle labbra. Gli restò il sapore acido in bocca. «Che schifo che fai» disse Filippo. «Scusa» mormorò Luigi, e si pulì con la manica. Il camioncino dei rifiuti si stava avvicinando. VERDE

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«Dobbiamo portarlo via». Filippo afferrò il sacco. «Aiutatemi». Lo trascinarono lungo il marciapiede, dietro alle colonne della piazza. Il cortile di casa non era lontano, eppure dovettero fermarsi quattro volte per riprendere fiato. Camilla era pallida, Luigi le prese la mano. Era sudata e fredda. Arrivarono al cortile, i palazzi grigi coprivano il cielo. Si vedevano solo le finestre chiuse e i balconi con i loro teli di plastica per proteggere le famiglie di operai dallo smog. «Portiamolo nel capanno» disse Filippo. I bambini attraversarono lo spiazzo di terra battuta. Una volta lì era tutto prato, Luigi se lo ricordava, e il capanno serviva per tenere gli attrezzi del giardiniere. C’erano stati dei fiori quando Luigi era più piccolo. Ora c’erano solo terra e polvere e quel capanno con una sola finestra, la porta che non si chiudeva bene e le assi che si staccavano. Una volta dentro, i bambini si appoggiarono alle pareti. Filippo socchiuse la porta, un raggio di sole al tramonto illuminava a sufficienza per vederci, se si stringevano gli occhi. Filippo prese un’asse in un angolo. C’erano dei chiodi che spuntavano da un’estremità. La usò per squarciare il sacco. Camilla si appiattì contro la parete, Luigi si sforzò di rimanere fermo. La testa puzzava più dei quattro cassonetti della piazza ed era ancora attaccata al corpo nudo, senza braccia e senza gambe, con ciuffi di peli grigi sul petto. Larve e formiche si rotolavano sulla carne dei moncherini. «Ecco perché mamma non vuole che usciamo di sera» disse Camilla. «C’è gente brutta in giro. Gente brutta che fa cose brutte». «Magari è stato lui a fare qualcosa di brutto» rispose Luigi. «E noi cosa facciamo?» chiese Camilla. Filippo percorse con lo sguardo tutta la catapecchia e tornò su di lei. Poi sorrise. «Devi baciarlo» disse. Camilla strinse i pugni. «No» rispose lei. «Se non lo baci, ti faccio male» continuò


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Filippo. Con l’asse chiodata le sollevò il lembo della gonna e Luigi vide ancora le ginocchia bianche della bambina. Lei tirò su col naso. «Tieni chiusa la porta» disse Filippo a Luigi. Filippo non aveva mai avuto la voce così roca. Luigi guardò Camilla. E poi si appoggiò al legno. Sentiva un rigonfiamento nei pantaloni, respirava in fretta. «Bacialo» ordinò Filippo. «È il tuo ragazzo». Camilla iniziò a piangere, piano, senza fare molto rumore, come gorgogliando. Si chinò davanti alla testa. Luigi immaginò che avesse chiuso gli occhi. Guardò Filippo e vide che si stringeva tra le gambe, con la mano che non teneva l’asse. «Abbraccia il tuo ragazzo e bacialo». Camilla era piegata, la gonna si era sollevata ancora. Baciò la testa del morto, sulle labbra, e fu tutto. «Puoi andare a casa, Luigi» disse Filippo. «Vieni, Camilla?» «No» interruppe Filippo. «Camilla resta un po’ qui con me.Vai». Luigi suonò il campanello e la madre gli aprì. Era alla terza rampa di scale quando sentì l’urlo. Si fermò un secondo con il piede sollevato sopra allo scalino, poi si girò e corse giù, fuori, fino al capanno. Fece scivolare la porta sui cardini. Camilla era lì, con le mutandine bianche abbassate alle caviglie. Teneva l’asse con entrambe le mani. Filippo era a terra, muoveva piano un braccio avanti e indietro e ogni volta arrivava vicino al corpo che avevano trovato nel sacco; lì la mano strisciava tra sangue denso e insetti. Camilla sollevò l’asse e colpì Filippo al collo una volta, ansimò, un’altra volta, ansimò, lo colpì ancora, poi si girò verso Luigi e lo guardò negli occhi.

Luigi fece un passo indietro, socchiuse la porta e tornò verso casa. Dal capanno si sentiva ancora il suono del legno che batteva sulla carne. Luigi pensò che avrebbe fatto lo stesso rumore se si fosse buttato dalla finestra, una volta che il sole fosse scomparso definitivamente. Alessio Posar, classe 1990, laureato in filosofia, studente della Scuola Holden, in passato giornalista musicale e insegnante di italiano e inglese. Di prossima pubblicazione i racconti Il Suono, all’interno dell’antologia Le 400 Colpe, e Suburban Home in Buonanotte e sogni d’horror.


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