VERDE 18

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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 18 anno II novembre 2013

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Silvio Perego - Pierluca D’Antuono - Alda Teodorani Lou Reed - Simone Lucciola - S.H. Palmer


VERDE

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PARTNERS IN CRIME

VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it

p.2 Edit p.3 TI ODIO POESIA #16: Canto di morte per una Star (Silvio Perego) p.4 Le tarme erano negli intarsi (Pierluca D’Antuono) p.7 Questo Halloween è una certezza (Alda Teodorani) p.8 The Gift (Lou Reed) p.12 SEMIAUTOMICA #11 (Simone Lucciola) p.13 BLITZRECENZION #22: Coney Island Baby (S.H. Palmer) p.14 The Day Lou Reed Died: 50 canzoni

indizi

editoriale

Ci riconosciamo completamente nel mondo delle autoproduzioni e delle benemerite distro punk, senza le quali VERDE – come tanti altri prodotti eccellenti e sotterranei – non esisterebbe. Ci piacciono le fanzine, ci piace leggerle, sfogliarle, collezionarle e diffonderle, e ciò naturalmente non ci ha mai impedito di confezionare un prodotto che in senso stretto non è mai stato, e probabilmente non sarà mai, una vera fanza. Eppure questa volta abbiamo voluto giocare con la nostra immagine e misurare le nostre convinzioni, per offrirvi un’uscita che è solo nominalmente il numero 18 di VERDE, ma di fatto è il numero zero (e unico) di veREEDe, una fanza per Lou. Perché siamo realisti e idolatriamo Lou Reed, ma, come direbbe Simone Lucciola, di Lester Bangs non ci va di parlare. for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY

dove siamo

Siamo realisti. Per questo amiamo Lou Reed. Ha cambiato irrimediabilmente le nostre vite di ascoltatori e lettori, accorciando ogni distanza tra musica e letteratura. Il più acuto dei tre lettori di VERDE potrebbe uscirsene con un «E Bob Dylan allora, da sempre candidato al Nobel per la letteratura?». Gli altri due, già lo sappiamo, infierirebbero citando le canzoni del Boss e quelle di Rino Gaetano. Ammettiamo pure di essere di parte e di semplificare, nel momento in cui decidiamo di credere che la chiave di tutto sta nella più ispirata epatite C della storia del rock’n’roll, che così tanta dignità lirica nichilista e ossessiva ha saputo accordare ai margini più reietti e derelitti del nostro scontento. Semplificare, certo, ma non mistificare, perché le stanche e inutili celebrazioni del “poeta maledetto del rock”, “cantore della strada” e “autore di Walk On The Wild Side” saranno sempre retoriche se non ricondotte ai primati musicali e ai meriti artistici di una carriera cinquantennale senza precedenti e epigoni.


Silvio Perego Non ho una poesia nel vero senso della parola non ho nemmeno parole di cordoglio né di vicinanza al momento di profondo dolore tutto quello che ho è solo un pensiero illegale come un morbo liquido che striscia nella mente in un lento silenzio sinistro ma tant’è e tanto può bastare per una rockstar che della poesia non se n’è mai fatto niente dove tutto quello che contava era colpire un fiore per trasgredire alla vita pensando di essere qualcun altro, qualcuno migliore e non dite che non è vero è tutto più vero ed esplicito di quello che può sembrare anche se ora tutto tace nell’oscurità che contiene tutto e tutto condiziona; stiamo camminando ancora verso il lato selvaggio della strada cercando il nostro giorno perfetto come se non fosse mai successo nulla di diverso a nessuno di noi Silvio Perego (Legnano, 1970) ha esordito nel 2009 con la raccolta Jazz (Lampi di Stampa, fuori collana «Festival» a cura di Valentino Ronchi - finalista Premio Manfredi 2009 e Città di Arona 2010), cui ha fatto seguito, nell’aprile 2012, Gli impiegati vanno di fretta (Premio Terzo Millennio – Roma). Suoi testi sono presenti in varie antologie poetiche fra le quali L’impronta esatta del respiro (Ed.Voci della Luna, 2007), Il segreto delle fragole (Lietocolle, 2008) e online. Ha inoltre pubblicato i romanzi di narrativa L’inganno (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2006) e l’e-book Cracker per le Edizioni Haiku di Roma – 2012. VERDE

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TI ODIO POESIA

Canto di morte per una star


Le Tarme erano negli Intarsi Pierluca D’Antuono Candy divideva l’appartamento con Drella, un cane oscuro e lento che aveva investito all’alba di una domenica di ottobre alle porte della stazione. Gli mancavano due denti, aveva la coda spezzata, e dal muso sputava ciocche di pelo nero bruciato dal freddo. A volte la sua presenza inutile e spettrale lasciava indifferente Candy, altre volte lo deprimeva, ma il più delle volte lo faceva impazzire. Di notte, ad esempio, quando si trascinava da una parte all’altra dell’appartamento, raschiando le mattonelle e disseminando il pavimento di scaglie di unghie gialle o grigie. Candy allora domandava: «Perché fai così?». Oppure: «Stai bene qui con me?» Altre volte provava con: «Aspetta che ti accada qualcosa prima o poi», ma sapeva che il solo modo per non sentirlo era di accarezzare l’armadietto dei medicinali in bagno, l’unica porta sempre aperta che lo conduceva in un angolo perfetto di silenzio dove c’era spazio solo per lui. Quando era lì poteva passarsi un dito sulle gengive, sorridere a occhi chiusi, o indossare la sua corona personale di santità: i suoni rimbalzavano su quella cortina, pompando etere attorno alla sua aureola. Col tempo, però, Candy aveva scoperto che, a volte, dopo che è successo di tutto può ancora succedere ogni cosa. Non è una regola, né un contrasto, ma è un tipo di lezione difficile da VERDE

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riconoscere nel cuore della notte, mimetizzata tra i mille solchi dei pulviscoli gelatinosi che danzano nell’ombra. Quando accadde fu improvviso, non ponderato ed esplose in tutto l’appartamento, scuotendolo come una grande decisione (o una definizione saggia): un urlo disperato dipinse di orribile i muri della sua storia. A quel punto Candy avrebbe potuto alzarsi e piangere per lo spavento, o alzarsi solo per guardare, ma non poteva più restare lì, accartocciato sul tappetino della doccia, le gambe indolenzite, una mano stretta tra le cosce, l’altra a mollo nella polla del cesso. Accese la luce e si guardò attorno: le pareti erano ancora verdi, il materasso era sempre lì, al centro della stanza, e i vestiti erano sulla sedia, davanti alla finestra. Era tutto come prima e non mancava nulla. Respirava con la bocca quando appoggiò mani e orecchio alla porta, ma al di là del legno non c’era nessuno: le tarme erano negli intarsi. «Forse era un sogno», pensò mentre si rivestiva. «O sei stato tu?», domandò a Drella, e sotto il suo sguardo spento scivolò via alla finestra. Erano le due di notte. Nella sua testa l’eco non era ancora morta, ma nessun dottore si sarebbe opposto alla decisione di staccare la spina. Pensò che non si sarebbe mai più addormentato.


Tanto valeva uscire. Le foglie si arrampicavano come pennellate storte sui cassonetti bruciati, i sacchetti in fiamme si scioglievano nell’aria e i rifiuti si rovesciavano sui topi neri che dormivano nelle cabine telefoniche. I bambini sporchi dormivano sereni e i piccoli animali si rincorrevano sui bordi, attorno a una gatta cieca che rotolava come un’intuizione sui blocchi di porfido accatastati all’angolo della strada, davanti alla macelleria abbandonata. La gatta aveva una bocca piccola e gassosa, che sembrava sciogliersi nello stesso vento che apriva piccole vertigini sul suo pelo bianco. Drella la puntò con il muso e Candy ebbe la sensazione che la gatta bisbigliasse, ma da lì poteva sentire solo le unghie del cane che picchiettavano sull’asfalto messaggi cifrati alle ceneri del tempo. A un passo dalla coda bianca, erano così vicini da poterla toccare, accadde di nuovo e l’urlo si schiantò più potente di prima, come un tuono che si ripeteva in un bordone di nubi nere schierate nella loro testa. Candy perse l’equilibrio e per un po’ non sentì più nulla, ma quando riaprì gli occhi l’urlo riprese fiato, illuminando ogni cosa. Drella era sparito nei lampi. Candy chiamò

con forza il suo nome, ma l’urlo gli ricacciò in gola ogni parola. Provò a rialzarsi per cercarlo, non poteva essere lontano, ma non appena fu in piedi s’accorse che l’urlo si stava trasformando e adesso era una risata. Poteva vederla, distorta da un suono finto e metallico, attorno alle sue gambe e nel cielo incendiare le stelle che pulsavano come erezioni rosa, lungo una scia che presto o tardi lo avrebbe condotto al di là dell’incrocio, dall’altra parte della città. Che fine avevano fatto tutti


quanti? Dov’erano le scimmie che ogni notte fuggivano dalle gabbie? Dov’era finito il mio coraggio? E dove s’era cacciato Drella? A quell’ora, si disse, qualcuno gli avrà già spezzato tutte le ossa, e io non potrò fare nulla per impedirlo. Camminando sul bordo della strada, Candy andò a sbattere contro il grattacielo più alto della città, di fronte all’ospedale, e guardò in su, più che poteva. La risata s’inchinò con grazia e dall’attico lanciò la sfida: quello era il suo regno, il suo trono e la sua partita. Qualcuno, pensò Candy, avrà già fatto a pezzi le sue zampe, ma io non posso fare nulla per tornare indietro e questa sarà, fino alla fine, la mia colpa più grande. I suoi occhi navigavano a vista in un oceano di luce riflessa che illuminava di taglio una parata mascherata: attraverso le finestre spalancate, al primo piano, Candy poteva vedere oscuri marinai incipriati intrattenersi con cavalieri attillati, ballerine del Bol’šoj che consolavano orfani berlinesi, mogli infedeli impiccate ad alberi secolari. Il dolore e la bellezza di quei costumi splendidi lo respinsero ai margini dell’Impero, alla periferia del suo intorno che quella notte, in una notte soltanto, aveva deciso di crollare. La risata schizzava da un piano all’altro della torre come mercurio bollente e Candy era lì, impotente, in ascolto, in attesa di una guida che prese forma nella perfezione di una schiena nera indolenzita. Era una donna bellissima, seduta sul davanzale, il capo in avanti nascosto dalle spalle – o decapitato, si disse. Da laggiù Candy poteva desiderare quel corpo, contarne le ossa o VERDE

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unire idealmente i nei che sulla pelle ricalcavano un disegno di evasione che avrebbe placato le ansie del mondo. L’appartamento bruciava di grazia e terrore quando all’improvviso partì un colpo di pistola: le bocche gorgheggiarono all’unisono, la risata fece capolino con più violenza di prima, ma quel suono, ora definito, era per certo registrato. Da quel Drive-In senza misura, la donna precipitò ai piedi di Candy, schizzando sangue sulle sue mani. La prima cosa che pensò fu che non aveva mai visto gambe tanto livide e muscolose. Candy aveva voglia di baciarle, e toccare quei polpacci così nervosi e pronunciati. Sembravano scolpiti nella roccia, come un David che all’avambraccio aveva ancora un laccio annodato – sguisciò come un sasso quando Candy lo strappò via. La donna non respirava più o forse rantolava. Era pallida ma non perdeva sangue e probabilmente non era stata colpita. O forse lo era stata, e allora il sangue era finito. Le lunghe ciocche nere le coprivano il viso e lo sguardo era indurito da sopracciglia folte e spettinate che si congiungevano sul naso. Candy l’aveva presa in braccio senza fatica. «È un buon segno» pensò, perché, così ricordava, i cadaveri pesano più dei vivi. L’asfalto era ricoperto di lumache fosforescenti. Erano decine, ma non formavano una catena. Lasciarono la festa in punta di piedi, senza fermarsi, perché tutti sapevano che non sarebbe mai finita. Nelle loro teste l’eco era ancora viva, ma nessun dottore si sarebbe opposto alla decisione di staccare la spina.


QUESTO HALLOWEEN è UNA CERTEZZA ALDA TEODORANI Questo Halloween è una certezza, specialmente perché io sono qui senza di te, sono qui da solo nel giorno che scolora troppo in fretta. Novembre incalza, come sempre mi dà un senso di disperazione, di decomposizione, di luce che si spegne, come in effetti è. Il sangue si ghiaccia e in me si fa strada il desiderio di morte. Ataviche paranoie corrono nel mio cervello, in particolare da quando ti ho cacciato dalla mia vita. Lo so quel che ho sempre voluto, ed era proprio la solitudine. Io da una parte, il resto della gente dall’altra. In piazza, dalla mia torre al quinto piano, ero un bambino che d’inverno, con le dita gelate, guarda fuori dalla finestra. «Hai la sindrome della piccola fiammiferaia,» mi disse Patrizia, la mia amica psicologa, che ogni tanto cerco di manipolare per estrapolarle informazioni sull’animo umano. Probabilmente c’è abituata, magari lo fanno in tanti. Dal quinto piano, osservavo la gente al di là del giardino, al di là degli studenti che si bucano bevono birra succhiano limoni suonano il bongo non necessariamente in questo ordine. Rituali sociali che non m’appartengono e non mi sono mai appartenuti, che sono per me tutt’altro che affascinanti, semmai repellenti in tutto quel che implicano, portano in loro il germe della contaminazione. Il complesso della piccola fiammiferaia significa sentirsi tristi quando gli altri fanno festa, restare fuori nel gelo del cuore, restare fuori anche se sei dentro e

gli altri sono all’esterno, davanti alle poste si danno appuntamenti. Mi sono chiesto se c’eri tu tra quella gente, tu che ancora non conoscevo. Se lo avessi potuto sapere, che rischiavo di cadere in mezzo a loro, non ti avrei mai dato la chiave per entrare nel mio cuore. Piccola fiammiferaia del mio destino osservo gli altri fuori dalla finestra del mio mondo ghiacciato Innalzo il vessillo nero della solitudine lo pianto dentro il mio cuore straziato Torno con la mente al quinto piano. Fuori dalla finestra gli altri suonano i loro strumenti, Il volume si alza e poi si abbassa. Dagli appartamenti dei vicini sento spostare mobili e voci lontane perdersi in sciocchezze. Di tanto in tanto mi capitava di scendere dalla torre nel giardino, che pareva tanto silenzioso. Una cerchia di palazzi condominiali lo separava dalla strada. Avrei voluto dormire nella stanza sul giardino, se non fosse stato per gli enormi scarafaggi che si arrampicavano sulle grondaie, entravano dalla finestra. Di inquietante avevano soprattutto il colore, erano una menzogna di scarafaggi. Con la loro livrea color ruggine, si mascheravano da quel che non erano, un altro tipo di insetti, inoffensivi ma soprattutto meno disgustosi. Sapere cosa erano mi riportava (CONTINUA A PAG.10) VERDE

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The Gift Lou Reed Waldo Jeffers aveva raggiunto il limite. Era ormai metà agosto e non vedeva Marsha da più di due mesi. Due mesi in cui aveva ricevuto soltanto tre lettere spiegazzate e due telefonate interurbane molto care. Certo, quando la scuola era finita – lei era tornata nel Wisconsin, lui a Locust, Pennsylvania – Marsha gli aveva giurato che sarebbe stata, in un certo modo, fedele. Di tanto in tanto sarebbe uscita con qualcun altro, ma solo per divertirsi un po’. Sarebbe rimasta fedele. Ma ultimamente Waldo era preoccupato. Di notte non riusciva ad addormentarsi, e quando dormiva faceva dei sogni orribili. Passava la notte sveglio, rigirandosi sotto le coperte, con le lacrime che gli riempivano gli occhi mentre immaginava Marsha, il suo giuramento vinto dall’alcol e dalla allettante compagnia di un Neanderthal qualunque, che l’avrebbe blandita con la prospettiva dell’oblio sessuale. Era più di quanto la mente umana potesse sopportare. Le visioni dei tradimenti di Marsha lo perseguitavano. Di giorno quelle fantasie invadevano i suoi pensieri, ma quello che gli dava più fastidio era che nessun altro l’avrebbe mai capita. Solo lui, Waldo, poteva sul serio. Lui conosceva ogni anfratto e ogni angolo della sua mente. L’aveva fatta sorridere: lei aveva bisogno di lui, e lui non c’era. L’idea gli venne il giovedì prima dell’inizio della sfilata in maschera. Aveva appena finito di tagliare l’erba e di sistemare il giardino degli Edison per un dollaro e cinquanta e poi controllò la cassetta della posta, in cerca di Marsha. C’era solo il volantino della Amalgamated Aluminium Company, che voleva sapere se gli servissero tendoni. Perlomeno erano così premurosi da inviargli una lettera. Era una ditta di New York. Si poteva arrivare ovunque con la posta. Fu allora che ebbe l’idea. Non aveva abbastanza soldi per andare fin nel Wisconsin in maniera convenzionale, è vero, ma perché non imbucarsi? Era incredibilmente semplice. VERDE

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Si sarebbe spedito come un pacco postale espresso. Il giorno dopoWaldo andò al supermercato per acquistare l’occorrente. Comprò nastro adesivo da pacchi, una pinzatrice e una scatola di cartone di medie dimensioni, perfetta per una persona della sua corporatura. Valutò che, con un minimo di accorgimenti, poteva viaggiare piuttosto comodamente. Qualche buchetto qua e là per l’aria, dell’acqua e del cibo, e probabilmente sarebbe stato come in classe turistica. Il venerdì pomeriggio Waldo era pronto. Si era impacchettato con cura, e qualcuno, dall’ufficio postale, sarebbe passato a prenderlo alle tre. Scrisse sul pacco “fragile” e mentre vi si rannicchiava, adagiandosi sulla gommapiuma che aveva previdentemente inserito, provò a immaginare lo sguardo sorpreso e felice di Marsha quando, aperta la porta, dopo aver visto il pacco e lasciato la mancia al postino, si sarebbe ritrovata davanti al suo Waldo, in carne e ossa. Si sarebbero baciati e poi forse avrebbero potuto vedere un film. Se solo ci avesse pensato prima. A un certo punto, qualcuno afferrò il pacco bruscamente e lo lanciò in direzione del camion, dove atterrò con un tonfo sordo. Erano pronti per partire. Marsha Bronson aveva appena finito di sistemarsi i capelli. Era stato un fine settimana estenuante. Doveva ricordarsi di non bere in quel modo. Perlomeno Bill era stato gentile: alla fine le aveva detto che in ogni caso la rispettava, sapeva come andavano quelle cose, e anche se no, proprio non l’amava, provava molto affetto per lei. Dopotutto erano adulti. Ah, quante cose Bill avrebbe potuto insegnare a Waldo. Ma ormai sembrava passato così tanto tempo. Sheila Klein, la sua migliore amica, entrò in cucina attraverso la porta della veranda.


«Oddio, è impossibile stare fuori in questo stato!» «Non dirlo a me, sono tutta sfasata.» Marsha si strinse la cintura dell’accappatoio di cotone con i bordi di seta. Sheila sfiorò dei grani di sale sul tavolo della cucina, si leccò il dito e fece una smorfia. «Dovrei prendere delle pillole di sale, ma», e arricciò il naso, «mi fanno venire il vomito.» Marsha intanto si picchiettava il mento con le dita, un esercizio di ginnastica facciale che aveva visto in televisione. «Dio, non parlarmene nemmeno.» Si alzò dalla tavola e andò verso il lavandino, dove prese una confezione di vitamine rosa e azzurre. «Ne vuoi una? Dovrebbero essere meglio di una bistecca!» Poi provò a toccarsi le ginocchia. «Credo che non berrò mai più un daiquiri.» Rinunciò e si sedette, questa volta più vicino al telefono. «Forse Bill chiamerà» disse, come per rispondere allo sguardo di Sheila, che intanto si stava mordicchiando una pellicina. «Forse, dopo la notte scorsa, faresti meglio a chiudere con lui.» «So a cosa ti riferisci. Dio mio, era proprio come un polipo, con le mani dappertutto!» disse alzando le braccia in segno di difesa. «E che non si può resistere a lungo, e poi venerdì e sabato non abbiamo fatto niente, un po’ glielo dovevo, sai!» Cominciò a grattarsi. Sheila ridacchiava coprendosi la mano con la bocca. «Ti dirò, anch’io mi sentivo proprio così, anzi, dopo un po’» e si piegò in avanti in un sussurro «ne avevo voglia.» E cominciò a ridere forte. Fu a quel punto che il signor Jameson, dell’ufficio postale di Clarence Darrow, suonò alla porta della villetta quadrata decorata con lo stucco. Marsha Bronson aprì la porta, e l’uomo l’aiuto a portare il pacco in casa. Le fece firmare dei moduli verdi e gialli, e poi andò via con una mancia di quindici centesimi, che Marsha aveva tirato fuori dal piccolo borsellino beige della mamma, nello studiolo. «Cosa può essere, secondo te?» domandò Sheila. Marsha se ne stava in piedi, con le braccia dietro la schiena. Fissava la scatola di cartone marrone poggiata nel bel mezzo del salotto. «Non lo so.» Dentro il cartone, Waldo fremeva per l’eccitazione, mentre ascoltava le voci attutite delle ragazze. Sheila fece scorrere

l’unghia lungo il nastro di scotch che attraversava il centro della scatola. «Perché non guardi l’indirizzo del mittente? Così capisci chi te l’ha mandato.» Waldo poteva sentire i battiti del suo cuore e le vibrazioni dei passi di lei. Mancava poco, ormai. Marsha girò intorno alla scatola e lesse l’etichetta scarabocchiata. «Cristo! È da parte di Waldo!» «Quel coglione!» disse Sheila. Waldo tremava di impazienza. «Aprilo, no?» disse Sheila, e insieme provarono a sollevarne un lembo. «Oaah,» esclamò Marsha seccata, «deve averlo inchiodato.» Provarono di nuovo. «Dio mio, ci vuole un trapano per aprire questa cosa». Tirarono ancora una volta. «Così è impossibile.» Se ne stavano lì in piedi, con il fiatone. «Perché non prendi un paio di forbici?» domandò Sheila. Marsha corse in cucina, ma trovò solo delle forbicine per le unghie. Poi le venne in mente che suo padre teneva degli attrezzi in cantina. Corse giù per le scale e tornò con un grande tagliacarte in mano. «Non ho trovato niente di meglio.» Le mancava il fiato. «Tieni, pensaci tu, sto per scoppiare» e si gettò sull’enorme divano lanuginoso, sbuffando rumorosamente. Sheila provò ad aprire un varco tra lo scotch e l’orlo del cartone, ma la lama era troppo spessa e la fessura troppo stretta. «Maledizione», esclamò esasperata. Poi, sorridendo, aggiunse: «Ho un’idea». «Che idea?» chiese Marsha. «Guarda qua» disse Sheila, toccandosi la fronte con un dito. Dentro lo scatolone Waldo era talmente eccitato che quasi non riusciva a respirare. La pelle gli formicolava per il calore e il cuore gli batteva in gola. Mancava poco, ormai. Sheilà si alzò in punta in piedi, e camminò intorno alla scatola. Poi s’inginocchiò, impugnò il tagliacarte con entrambe le mani, fece un respiro profondo e infilzò la lunga lama al centro del pacco, che perforò lo scotch, e perforò il cartone, e perforò l’imbottitura e infine perforò il cranio di Waldo Jeffers, che si squarciò lievemente in piccoli arcobaleni ritmici di colore rosso, che pulsavano dolcemente nel sole del mattino. (The Gift, da White Light/White Heat, 1968) VERDE

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alla loro natura repellente, di contaminazione che si nutre di rifiuti. Poiché ho sempre desiderato prepararmi alla morte, avrei voluto dormire nella stanza sul giardino, se non fosse stato per il giardiniere che ogni mattina alle sei annaffiava le piante e con quel suono di pioggia sulle foglie amplificato dalle mura ad anfiteatro mi svegliava. Avrei voluto dormire nella stanza sul giardino, se non fosse stato per il tubo di aspirazione che s’accendeva ogni mattina alle quattro dalla cucina del bar. Nella stanza sul giardino la cupezza notturna della mente era frazionata da mille frammenti diversi. Così, mentre era ancora buio o sul far del mattino, scendevo nel giardino. Guardavo le trappole per i topi, i gatti randagi che lo abitavano. Avevo voglia di terra, di raccogliere sassi e ficcarmeli in bocca, di provare a masticarli, di toccare la terra coi piedi nudi, di stendermi sull’erba ma non riuscivo a fare niente, solo a chiedermi come mai ero lì, le idee confuse, il cervello impazzito per il lo sfinimento – per la mancanza di riposo. Ritornando nella mia camera – i nervi mi saltavano. Non riuscivo più a prendere sonno e passavo il resto della giornata dormendo a occhi aperti a tratti e sentendomi uno zombie. Avevo solo voglia di andarmene e lei che si era accorta della mia indifferenza e per questo mi amava di più, mi disse: non posso trattenerti, mi sembra di essere quell’auto vista oggi né radio né motore niente cofano. Tutti noi abbiamo una data di scadenza impressa in qualche punto del nostro corpo, dove noi VERDE

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non possiamo vederla ma gli altri la vedono benissimo. E quando arriva quella data, significa che è il momento di andarsene. Ogni volta è una fuga. Sopra l’orizzonte dei miei tramonti, quante strade ho attraversato. Conosco l’alito pesante della mattina ubriaca, il tanfo di piscio dei vicoli sotto le volte di pietra degli amori scomparsi. penso al passato e a tutto quello che non potevo fare: non potevo diventare te. Sono un ignorante, non ricerco, non ho metodo e mi prendo quel che arriva. Le tracce dei libri che ho letto e delle musiche che ho ascoltato si snodano tra la gente che ho conosciuto, gli amori che ho vissuto, le strade che ho percorso, in special modo le scorciatoie, che amo trovare, ne cerco sempre di diverse. Tra le mie canzoni preferite e nelle mie compilation, in qualunque periodo della mia vita adulta, c’era un brano dei Velvet o di Lou Reed. Non so nulla della vita di Lou Reed, dei suoi amori o delle sue malattie. So della sua voce roca e lenta, delle sue note e del suo ritmo, mai uguale a se stesso, come la vita che viviamo ogni giorno sempre diverso. So del mio cercarlo e trovarlo e seguirlo, dei baci che ho rubato sull’erba dei suoi concerti. Lou Reed non m’ha insegnato a vivere. Nessun altro me l’ha insegnato. La mia casa era piena di libri, che ho poi donato a una biblioteca. Nemmeno quei libri sono riusciti a dirmi chi ero, e l’ho dovuto scoprire da solo, a forza di sbattere i denti. Eppure mi sarebbe sempre piaciuto, e ancora mi piacerebbe, possedere un libro parlante che mi dicesse come comportarmi e che aspetto avere, un libro


parlante che contenga le chiavi di ricordi passati e presenti. E invece una chiave non esiste, non tornerò mai più ad aprire il mio vecchio armadio, perché tra gli abiti invernali del mio cuore troppa polvere là dentro vecchi ricordi da buttare e il tanfo di muffa dei miei errori. Forse dovrei invece tenere stretto in pugno il passato defunto. Se così non fosse, perché ci siamo regalati ricordi? Eppure i ricordi svaniscono in fretta. Persino dei giorni più perfetti, come in quella calda giornata di novembre, quando andammo per campi col tuo Volkswagen. I contadini raccoglievano le olive, ci urlavano richiami e d’un tratto dal nulla sbucò un enorme cane bianco che pareva un lupo e per un attimo pensai che fosse uscito da una fiaba. Fu davvero una giornata perfetta, tutti i problemi messi da parte, eravamo turisti da weekend e più tardi, guardando il fiume biondo che scorreva sotto di noi e un uccello nero dalla grande apertura alare sorvolarlo, mi commossi al punto che non riuscivo più a parlare. Poi sono arrivati i giorni del fuoco che tutto ha divorato, niente più ballerine che cantavano, niente più dolcezza da Jane. Terra sterile e secca Dopo il passaggio dell’amore Come fai a chiamarlo con questo nome Degrada come il giorno al tramonto Si raffredda, scolora E alla fine muore Qualche volta mi chiedo chi sono, il mondo sembra non curarsi di me, un uomo più giovane che ora sta invecchiando, i miei occhi colgono barlumi di luce,

ma la verità è che ho vissuto nella confusione a tal punto che una volta, ai tempi dei primi download, di gnutella e mactella, feci una compilation dedicata a me e la battezzai Confusion. Non ricordo nemmeno che pezzi c’erano, tutto è rimasto sepolto dentro il mio vecchio mac, ma una cosa la ricordo, l’indefinito e la non definizione che mi convinse a smettere di dedicarmi canzoni e di andare ai concerti. Eppure, sembra incredibile, ho ancora voglia di ballare. And if you close the door, the night could last forever. Leave the sunshine out and say hello to never All the people are dancing and they’re having such fun I wish it could happen to me ‘Cause if you close the door, I’d never have to see the day again. I’d never have to see the day again. (once more) I’d never have to see the day again.

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SEMIAUTOMATICA simone lucciola # 11 Quando ho letto di Lou Reed su Rolling Stone, la prima immagine che mi è venuta in mente è stata la sua icona pop. Che non ha niente a che vedere con l’uomo morto o con la carne umana in generale, è semplicemente un completo nero con un paio di occhiali scuri, in linea con il Futurismo rivisitato di Mario Schifano perché anche lì l’impalcatura deperibile non c’è o non conta. Buffo pensare che i Velvet Underground – seguiti a ruota o al limite fiancheggiati dai Beatles – sono la rock band più importante del ventesimo secolo, e il ventesimo secolo è già di suo il secolo del rock, però i quattro capitoli discografici che ne hanno esaurito la parabola sono da ritenersi quasi del tutto involontari. Mi viene in mente che l’acetato contenente il work in progress del 33 giri con la banana – un pezzo datato 4-25-66 che oggi vale venticinquemila dollari – è stato ritrovato nel 2002 in un mercatino di Chelsea, tra un vecchio disco di Leadbelly ed una copia danneggiata del primo dei Modern Lovers. Il che significa non soltanto che Warhol – proprietario o comunque emissario del demo – l’ha poi venduto o regalato o se l’è fatto rubare, ma anche che il cimelio è rimasto in giro per trentasei anni senza mai uscire da Manhattan e senza mai incappare nell’interesse di nessuno che se lo aggiudicasse per i 75 centesimi di dollaro che si richiedevano in cambio. Un’altra notizia che fa il paio con questa riguarda Loaded, l’ultimo lavoro effettivo (anche se non ufficialmente) dei Velvet Underground e l’altro disco loro che preferisco. È cosa nota che la Tucker, che era incinta, non partecipò alle riprese ma fu inserita ugualmente nei credits, mentre non tutti sanno che il motivo per cui Lou Reed canta soltanto su metà delle canzoni è che aveva perso la voce e più in generale versava in pessime condizioni di salute a causa dell’epatite già contratta da tempo. Reed lasciò il gruppo prima del mixaggio definitivo per andarsene a lavorare come dattilografo nell’agenzia di contabilità fiscale VERDE

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di suo padre, il che è decisamente insolito per una rockstar. In altre parole, i Velvet Underground sono rimasti underground. Niente successo, niente soldi, forse neanche grandi aspirazioni. Il camaleontico animale del rock – quello del lato selvaggio, delle interviste monosillabiche, del viaggio a Berlino, delle pere on stage, delle mille ragazze con un nome diverso che hanno tutte qualcosa di diverso (ma in fondo affine) da dire – è una creazione successiva, sicuramente imputabile in buona parte al fatto che i Velvet piacessero, tra i pochi illuminati, a David Bowie. Ci sarebbe anche da dire che gran parte delle canzoni di quei dischi sono riciclate: Reed le aveva già state scritte prima o durante le session di Loaded. O dell’argomento contraddittorio che è la sua tecnica chitarristica, visto che un guitar hero come Robert Quine (in una delle pochissime interviste mai concesse in vita sua) dichiarava che all’inizio della loro collaborazione si era trovato davanti un uomo che quindici anni prima era stato un totale innovatore dello strumento, ma che ora aveva completamente disimparato a suonarlo a causa dell’abuso di psicotropi. Rivalità? Invidia? Cruda realtà? Io so soltanto che quando nel mio stereo partì per la prima volta “Waiting for the man” ascoltai proprio quella chitarra e pensai che il punk era sempre esistito, perché ne avevo riconosciuto la genesi in modo schiacciante, totale, assoluto. Faccio un po’ di fatica a mettere tutto questo in relazione con l’uomo che una sera di fine anni novanta, nei pressi della Stazione Tiburtina, cantò – inconsapevolmente, anche per me – una versione di “I’ll be your mirror” da cui trapelava uno stato d’animo molto più semplice e terreno, null’altro che una canzone d’amore per una vecchia fiamma mai dimenticata. Quello probabilmente è lo stesso uomo che muore facendo tai chi. Di Lester Bangs non mi va di parlare.


BLITZRECENZION S. H. Palmer # 22

BLITZRECENZION

Coney Island Baby

Tutta la mia vergogna, tutti i miei sogni, tutti i rimorsi, tutto quello che ho e che ho sempre voluto avere. Tutto quello che odio, tutto ciò che amo. Tutti i posti in cui avrei voluto vivere... anche quello in cui vivo adesso. Grazie L. (shanduziopalmer.tumblr.com)

http://www.youtube.com/watch?v=kwLlvcDi4PQ

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Il pomeriggio del 28 ottobre ne abbiamo contate quindici. La sera stessa sono diventate trenta. Il giorno dopo erano già quaranta e ora, a tre settimane di distanza, abbiamo deciso di fermarci a cinquanta (ma la tentazione era quella di continuare fino a settantuno e da lì agilmente chiudere a cento): sono le nostre canzoni preferite di Lou Reed, quelle che non ci stancano mai e ascoltiamo più spesso e volentieri. Una compilazione che ha lo spirito di una playlist registrata in casa su una vecchia TDK usata, con il nastro adesivo ai lati, una lista cronologica senza pretese completiste, sebbene peschi da quasi tutti gli album pubblicati dal nostro, dal 1967 in poi: gli unici esclusi, per ovvie ragioni, sono Metal Music Machine del 1975 («Se avete mai pensato che il feedback sia la cosa migliore che sia mai successa alle chitarre, be’, Lou si è addirittura sbarazzato delle chitarre. […] E comunque è tutta musica folk»), Hudson River Wind Meditations del 2007 («inner music to relax the body, mind and spirit, adjunct to T’ai chi and bodywork») e naturalmente Lulu (2011), gli 87 minuti registrati insieme ai Metallica. Sei canzoni da The Velvet Underground and Nico (1967), quattro da White Light/White Heat (1968), Berlin (1973) e New York (1989), tre da Loaded (1970), Transformer (1972) e Songs For Drella (1990), due da Street Hassle (1978), due o una da tutti gli altri, compreso Mistrial (ma non quella in cui rappa meglio di Jovanotti e Jake La Furia messi assieme: non ci vuole poi tanto, in fondo). Solo cinquanta canzoni, perché siamo realisti. È il motivo per cui idolatriamo Lou Reed. VERDE

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The day 1 Sunday Morning (The Velvet Underground & Nico, 1967) 2 I’m Waiting For The Man (The Velvet Underground & Nico, 1967) 3 Venus in Furs (The Velvet Underground & Nico, 1967) 4 I’ll Be Your Mirror (The Velvet Underground & Nico, 1967) 5 All Tomorrow’s Parties (The Velvet Underground & Nico, 1967) 6 Heroin (The Velvet Underground & Nico, 1967) 7 White Light/White Heat (White Light/White Heat, 1968) 8 The Gift (White Light/White Heat, 1968) 9 I Heard Her Call My Name (White Light/ White Heat, 1968) 10 Sister Ray (White Light/White Heat, 1968) 11 Candy Says (The Velvet Underground, 1969) 12 Pale Blue Eyes (The Velvet Underground, 1969) 13 Who Loves the Sun (Loaded, 1970) 14 Sweet Jane (Loaded, 1970) 15 Rock & Roll (Loaded, 1970) 16 Lisa Says (Lou Reed, 1972) 17 Perfect Day (Transformer, 1972) 18 Walk On The Wild Side (Transformer, 1972) 19 Satellite of Love (Transformer, 1972) 20 Caroline Says II (Berlin, 1973)


Lou Reed died 21 The Kids (Berlin, 1973) 22 The Bed (Berlin, 1973)

42 Good Evening Mr Waldheim (New York, 1989)

23 Sad Song (Berlin, 1973)

43 I Believe (Songs for Drella, w/a John Cale, 1990)

24 Sweet Jane (Rock’n Roll Animal, 1974)

44 Nobody but you (Songs for Drella, w/a John Cale, 1990)

25 Kill Your Sons (Sally Can’t Dance, 1974)

45 Hello, It’s Me (Songs for Drella, w/a John Cale, 1990)

26 Crazy Feeling (Coney Island Baby, 1975)

46 What’s Good? (Magic & Loss, 1992)

27 Coney Island Baby (Coney Island Baby, 1975) 28 Rock and Roll Heart (Rock and Roll Heart, 1976) 29 Street Hassle (Street Hassle, 1978)

47 Magic & Loss (Magic & Loss, 1992) 48 Set The Twilight Reeling (Set The Twilight Reeling, 1996) 49 Ecstasy (Ecstasy, 2000) 50 Who Am I (The Raven, 2003)

30 I Wanna Be Black (Street Hassle, 1978) 31 City Lights (The Bells, 1979) 32 The Bells (The Bells, 1979) 33 So Alone (Growing Up in Public, 1980) 34 The Blue Mask (The Blue Mask, 1982) 35 Bottoming Out (Legendary Hearts, 1983) 36 I love you, Suzanne (New Sensations, 1984) 37 Andy’s Chest (VU, 1985) 38 Video Violence (Mistrial, 1986) 39 Romeo Had Juliette (New York, 1989) 40 Dirty Blvd (New York, 1989) 41 There Is No Time (New York, 1989) VERDE

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