N.04
anno 1 - settembre/ottobre 2014
SPECIALE ONLINE DI
DEDICATO AI GIOVANI, ALLE FAMIGLIE E a CHI SI OCCUPA DI ADOLSCENZA
www.adolescenzainforma.it
alimentazione
Corso di formazione sui disturbi del comportamento alimentare psicologia
Il disturbo ossessivo-compulsivo in adolescenza
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editoriale
Testata giornalistica registrata al Tribunale di Verona n° 4035/2012 Proprietario ed editore Verona Informa s.a.s. di Giuliano Occhipinti & C. Direttore Responsabile Alberto Cristiani Redazione Alberto Cristiani, Giuliano Occhipinti, Alessia Bottone, Prisca Ravazzin Impaginazione grafica Porpora ADV di Michela Chesini Stampa Mediaprint Relazioni esterne e marketing Giuliano Occhipinti Contatti Redazione: +39 345 5665706 Mail: veronainforma@gmail.com Web: www.veronainforma.net Pubblicità: +39 347 4773311 Hanno collaborato per questo numero: Dott. Massimo Occhipinti, Dott. Giovanni Mauro, Dott. Vittorio Antonino, Prof. Nicola Smania, Dott. Massimo Piccoli, Michele Triglione, Loredana Tessaro, Alessia Bottone, Marifulvia Matteazzi Alberti, Dott. Marco Sterzi, Claudio Capitini, Michele Marconi, Dott.ssa Francesca Girlanda, Dott. Fabio Lugoboni, Foto: Archivio fotografico Verona Informa s.a.s., Ufficio stampa AOUI Verona, Ufficio stampa Azienda Ulss 20, Ufficio stampa Azienda Ulss 21, Ufficio stampa Azienda Ulss, CEMS Verona
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Alberto Cristani
Verona InForma cambia... ma non cambia!
Come anticipato negli scorsi mesi, a partire da questo numero Verona InForma cambia look. È stato attuato - balza subito all'occhio - un cambiamento radicale per quanto riguarda la grafica e il marchio, una scelta quest'ultima forse un po' azzardata ma che, siamo certi, identificherà ancor di più la nostra testata tra i lettori ma non solo. Cambiamenti sono stati apportati, e non pochi, anche a livello di contenuti e di articoli. Leggendo questo numero la prima cosa che balzerà agli occhi dei nostri lettori sarà, ci auguriamo, l'inserto speciale "T&T - Territorio&Tipicità", ben 20 pagine dedicate, come si evince dal titolo, alle bellezze e alle tipicità agroalimentari del territorio veronese. Primi focus sono dedicati alla bellissima Valpolicella, ai suoi vini e ai percorsi che si articolano tra le dolci e affascinanti colline. Si parlerà poi del riso, un prodotto che identifica e qualifica ampie zone della Bassa Veronese e che è protagonista, in questi giorni, la Fiera del Riso di Isola della Scala. L'evento La di Isola della Scala è nata nel 1967. All’inizio si trattava di un unico piccolo stand situato al centro del paese che per un fine settimana serviva risotto e vino. Oggi La fiera, cresciuta con costante accelerazione negli ultimi 15 anni, ha visto aumentare la durata della manifestazione fino ad oltre 3 settimane a cavallo tra settembre ed ottobre. Conta circa 500.000 ospiti, risultando così l’evento enogastronomico più visitato in Italia. Il protagonista della Fiera è il Nano Vialone Veronese Igp, coltivato in una zona circoscritta della Pianura Veronese, primo in Europa ad ottenere il prestigioso marchio d’Indicazione Geografica Protetta (1996). Tornando alla nostra "rivoluzione", tra i tanti cambiamenti quello che non è stato alterato è la qualità dei contenuti. I nostri articoli risultano sempre di altissima qualità e di grande interesse essendo, lo ricordiamo, realizzati in esclusiva per Verona InForma da specialisti della medicina veronese. Ringraziamo quindi chi ci permette di realizzare e diffondere il nostro magazine, e tutti i veronesi che dimostrano di apprezzare sempre di più il nostro lavoro.
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Sommario 4 Esperienze di aiuto in rifugio con Danny 6 Approfondimento di psicologia: La ricerca di un capo e i ‘fardelli’ da portare 7 Sineriga. Una testimonianza dal Perù 8 Il cavallo non sente il peso del corpo, sente il peso dell’anima! 10 Un corpo che urla tra metafora e agito. Seconda parte 12 Così vicino - così lontano. Arteterapia con gli adolescenti: stile ed organizzazione spaziale dei lavori 14 Pensieri fritti, sotto il solleone 16 Il disturbo ossessivo-compulsivo in adolescenza 18 Corso di formazione sui disturbi del comportamento alimentare
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esperienze La Redazione
Esperienze di aiuto in rifugio con Danny
Danny Zampiccoli offre agli adolescenti la possibilità di aiutarlo nella gestione del suo rifugio Altissimo ‘Damiano Chiesa’ sul Baldo: con schiettezza e umanità, ci parla di quest’opportunità. Perché hai scelto di dedicare il tuo tempo agli adolescenti con queste iniziative? Ho grande stima e rispetto degli adolescenti, li apprezzo profondamente, e li considero di gran lunga migliori di ciò che gli adulti provano ad insegnare, me compreso. Hanno un mondo di valori autentici, certo, li descrivono sempre in modo un po’ confuso, non si capisce bene se ciò che dicono nasce da una convinzione o se ripetono semplicemente ciò che hanno sentito dire qui e là, però percepisco in loro la voglia: di chiedere, di aiutare, di costruire, di confrontarsi, di stare assieme. Che tipo di attività svolgono in rifugio durante l’estate? Aiutano in cucina, a lavare i piatti, a prendere le ordinazioni, a servire ai tavoli, a tenere in ordine, a sistemare le stanze, a raccogliere le erbe o fare la legna e scaricare la spesa. Li ospitiamo rigorosamente senza genitori, è assolutamente vietato chiamarli. Di solito si fermano 5 giorni, non il weekend, perché è un po’ caotico e a noi invece fa piacere avere il tempo e la tranquillità di seguirli, per far sì che possano imparare realmente ad essere utili. Perché i ragazzi scelgono di venire? Perché desiderano far parte del nostro gruppo. Noi siamo molto affiatati, è molto tempo che ci conosciamo ed è come se fossimo una grande famiglia: oltre a me ci sono 2 ragazze e 3 ragazzi, il più ‘vecchio’ ha 35 anni e il più giovane ne ha 17, l’abbiamo assunto come cuoco.
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esperienze
Quanta fatica fanno ad accettare le tue regole? Qui ci si diverte, ma non è un mondo fatato, ci sono regole e ruoli ben precisi. Credo moltissimo nel rispetto delle regole: non si tratta di venire qui, bere, fumare, ma di partecipare con responsabilità. Ci è capitato di aver ospitato un ragazzo di 17 anni, con l’accordo di non fumare finché minorenne, lui è venuto, ha fumato e il giorno dopo è stato rimandato a casa. L’unico caso in 12 anni. Di solito riescono ad accettare le regole, magari i primi giorni bisogna ripetere duecentomila volte le stesse cose, ma poi entrano nel meccanismo. Certo, appena arrivano sono un disastro, portano le abitudini che hanno a casa, quindi ricreano il loro disordine, ma noi li raddrizziamo: se trovo calzini sporchi in giro li butto via e la volta dopo sono in ordine. Quali sono per loro le fatiche più grandi? In realtà non è molto faticoso stare qui: al contrario di quello che si potrebbe pensare, non fanno nessuna fatica a rinunciare ad Internet, al cellulare, alla TV, perché fare le cose in compagnia e appartenere ad un bel gruppo affiatato come il nostro sono cose che alleggeriscono. Cerchiamo di far sì che possa essere un’esperienza di crescita, ad esempio per portare ai tavoli le ordinazioni, quando sono pronte, bisogna gridare davanti a 50-100 persone il nome del cliente che ha ordinato: è un bellissimo esercizio per i ragazzi timidi, soprattutto quando il nome è straniero e difficile da pronunciare.
Come la loro presenza cambia la routine del rifugio? I nostri ospiti fanno colazione con la musica dei The Rozer a tutto volume dalla cucina, cantata a squarciagola dai ragazzi! Poi è bellissima la nostra pausa cappuccino: per noi è un momento per volerci bene, è il momento degli abbracci. Nei momenti di tranquillità hanno voglia di parlare? Si aprono con voi? Assolutamente sì: quando piove ad esempio c’è più occasione di parlare, ma anche in vari momenti della giornata, capita che ci troviamo assieme a fare le pulizie e si chiacchiera, si parla del futuro, di ciò che desiderano fare con la scuola, di progetti per il tempo libero, delle attività sportive, di morosi e morose. Succede tutto con molta naturalezza e spontaneità. Ma per loro non sono un amico, se mai un adulto che dà le regole e con il quale si divertono. Sicuramente si aprono di più con me rispetto a un genitore o un insegnante, poi non tutti, dipende dal carattere, c’è chi lega di più con me, chi invece lega di più con altri adulti del gruppo. Come se la cavano con le conquiste amorose? Un vero disastro! Li aiutiamo noi con qualche battuta se ci accorgiamo di una simpatia, però questo non è certo un luogo di conquiste. In realtà non è
nemmeno un momento di pausa dagli ormoni, perché anche per noi adulti questo è un argomento importante, ne parliamo volentieri e se vediamo una bella ragazza facciamo commenti e battute, però da questo a parlare di conquiste ce ne vuole! Secondo te c’è una caratteristica che accomuna i ragazzi che cercano quest’esperienza? Sì: la voglia di avere un capo. Vediamo che spesso agli adulti manca la capacità di essere il capo, se vengono qui il capo sono io. Spessissimo insegnanti e genitori diventano amici, ma in realtà di amici sono in grado di trovarne dovunque. Come adulto ho la responsabilità di dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e far sì che loro possano confrontarsi su questo. Io dò la regola, poi ci si confronta, ma alla fine, come capo, sono io che prendo le decisioni. Ma c’è dell’altro, noto che spesso i ragazzi che vengono qui hanno dei fardelli, dei pesi emotivi caricati sulle loro spalle, un po’a causa di storie difficili o di situazioni familiari complicate. I ragazzi hanno già abbastanza fardelli per il solo fatto di essere adolescenti, perché magari non hanno i pantaloni giusti o non sono abbastanza alti e via dicendo. In che modo i ragazzi arrivano a chiederti di partecipare a quest’esperienza? In vari modi: ad esempio un ragazzino era venuto qui 3 giorni con la scuola, doveva svolgere una mansione faticosa e mi aveva chiesto ‘ma chi è che mi può dare una mano?’ ed io gli avevo risposto ‘qualcuno che tu non hai preso in giro durante l’anno scolastico’ e lui ha concluso ‘va bene, allora lo faccio da solo’. Ad inizio estate poi mi ha contattato la madre dicendomi che il figlio desiderava trascorrere qualche giorno qui in rifugio con noi.
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brevi - psicologia A cura della Dott.ssa Laura Chiesa - Psicoterapeuta
Approfondimento di psicologia:
la ricerca di un capo e i ‘fardelli’ da portare Danny Zampiccoli nella sua intervista mette l’accento su questioni educative e psicologiche di grande rilievo per chi si dedica al mondo degli adolescenti. Innanzitutto ciò che accade quando un adulto diviene figura di riferimento. È un evento per molti versi speciale, assolutamente non scontato o dovuto, non è intrinseco al ruolo, non basta essere "il prof.": per diventare "Il Prof." è necessaria la scelta personale di quel singolo ragazzo. I ragazzi spesso scelgono in modo attivo le loro guide, individuandole nel mondo degli adulti a loro vicini: un insegnante, un educatore, un allenatore, un animatore del gruppo parrocchiale, il genitore di un amico. Tutte queste persone condividono una caratteristica: la responsabilità di traghettare i ragazzi verso il mondo adulto. In ambito cinematografico l’argomento ha dimostrato molto interesse; per citare qualche titolo, ricordo ad esempio i film ‘L’attimo fuggente’ e ‘L’Onda’; in entrambi viene tratteggiata la capacità di un adulto di divenire figura carismatica e la portata dirompente, entusiasmante e potenzialmente drammatica che questo comporta. Veniamo ora alla questione delle regole, sulla quale il rifugista ha insistito molto come canale di scambio nel suo rapporto di stima e affetto con i ragazzi che accoglie. Dal punto di vista psicologico si tratta di un tema molto articolato. La possibilità di un confronto con una regola solida è prima di tutto l’occasione per fare i conti con i propri comportamenti ed il proprio senso etico: c’è chi tende a rimanere soffocato da regole personali
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troppo rigide, che tolgono spontaneità al mondo affettivo; c’è chi al contrario, non avendo interiorizzato un buon senso del dovere, del limite, del divieto, rischia di non raggiungere una solidità personale e di trovarsi per questo in balia di situazioni sociali ed emotive, perché non le sa governare. In adolescenza c’è un risveglio pulsionale, il mondo dei desideri prende vita, e con esso anche quello delle angosce. L’adesione passiva alla regola, segno di una posizione subordinata e di dipendenza tipica del bambino, cede il posto alla sfida all’autorità, con il rifiuto delle sue regole. Frantumato il mondo normativo precostituito, come riuscire a non finire alla mercé dei propri stati d’animo? Come riuscire a costruire una propria dimensione etica e normativa? Questo rappresenta senz’altro un passaggio molto delicato, e la possibilità di confrontarsi con un sistema di regole esterno (genitoriale\sociale), per quanto criticabile e proprio grazie al fatto che è criticabile, offre una linea guida per crea-
re il proprio sistema di regole personale. Il confronto con la dimensione normativa, in psicoterapia coinvolge il setting, cioè tutto quell’insieme di accordi che caratterizzano gli incontri con il terapeuta: luogo e orario di incontro, pagamento, costanza degli appuntamenti. Quando i giovani pazienti saltano gli appuntamenti, o dimenticano gli orari, o chiedono di spostare sedute e via dicendo, si trovano alle prese con la difficoltà a contenere il proprio mondo emotivo, probabilmente quei ‘fardelli’ menzionati in precedenza. Spesso accade che se paziente e terapeuta hanno costruito un buon legame, di fiducia e curiosità, la possibilità di discutere assieme del desiderio di trasgredire o modificare una regola, diviene un’occasione di sintonizzazione e crescita personale. Questa diventa una preziosa opportunità per difendere il bisogno di autonomia, tanto importante in adolescenza, perché aiuta a riconoscere quel "fardello", a liberarsi delle sue caratteristiche distruttive e riappropriarsi del potenziale creativo.
brevi - testimonianza A cura di Martin Milla
Mi chiamo Martin e vivo a Lima, una città del Perù, insieme ad altri 10 milioni di abitanti, da 38 anni. Il mio Paese ha un territorio molto ricco, ma che stranamente si è molto impoverito negli ultimi decenni. In contemporanea alla povertà che ho conosciuto fin da molto piccolo, vedevo la continua carovana di migliaia di persone che arrivavano nella mia città, fuggendo da forme di povertà e ingiustizia ancora peggiori. La mia vita è trascorsa tra l’affetto e le cure dei miei genitori, l’impegno continuo nel lavoro, lo studio giudizioso: sono così cresciuto senza problemi durante la prima parte della mia vita. A 19 anni, e senza prevederlo, ho fatto la prima di migliaia di esperienze che si sono poi succedute, di quelle in cui la vita ci rivela l’incontro esistenziale con l’altro, l’incontro tra due persone. Senza nessuna esperienza mistica né stupefacente, mi sono trovato dopo alcuni minuti di incertezza, dubbio e timore, tra persone prima per me sconosciute, che avevo visto fino a quel momento solo sulle copertine dei giornali o nei telegiornali, presentate come persone indigenti e pericolose. Senza rendermene conto, e come quando un amico o un familiare ti viene incontro al momento del tuo arrivo, mi sono ritrovato a tenere in braccio un bambino piccolo, nudo e sporco, che era venuto verso di me, in una spianata arida delle rive del fiume Rimac dove vivevano alle intemperie decine di famiglie, bambini, adolescenti, privi di ogni mezzo, provvisti solo della gioia e della voglia di vivere, anche se proprio quella vita di emarginazione che li imprigionava aveva spezzato e calpestato la loro dignità, indebolendoli con l’alcool e le droghe. Questo incontro di quasi vent’anni fa, mi fece nascere di nuovo, facendo sì che percepissi me stesso e gli altri in modo distinto. Quello che iniziò con il gioco meraviglioso del destino, che avrebbe dovuto essere solo un condividere il natale con queste persone su richiesta del mio parroco, non ha più smesso di essere fino ad oggi l’esperienza più bella di celebrazione del miracolo della vita anche nelle peggiori condizioni umane. Nei primi mesi avvenne un crollo progressivo di preconcetti sociali profondamente radicati nella no-
SINERIGA. Una testimonianza dal Peru’ stra società: “Stai attento a queste persone perché sono pericolose”, inganno perverso della nostra società che criminalizza la povertà di coloro che hanno di meno, rendendoli non solo oggetto di commiserazione, pietà o elemosina, ma anche di paura e allarme. “Non provare neanche ad aiutarli, tanto non abbandoneranno mai i loro vizi!”…Adesso il mio cuore si sente sollevato sapendo che non sono né “inutili” né “da rifiutare”. Non è stato facile per i miei amici e i miei familiari comprendere questo cambiamento, ma il destino che agisce secondo una logica comune non ha tardato ad avvicinare a me amici e compagni che condividevano lo stesso proposito di fare qualcosa che restituisse un minimo di dignità ai fratelli che vivono in strada. Così passarono i primi anni, tra studio, lavoro e il volontariato rivolto alle persone indigenti. In strada ho instaurato amicizie così belle, di cui conservo ricordi davvero meravigliosi. A metà del 2004, e di nuovo con la complicità del destino, nello stesso luogo che mi aveva visto anni prima incontrare quel bambino, ho conosciuto Alessandra, che a sua volta era venuta a visitare i bambini del posto. Velocemente ci siamo trovati in sintonia negli ideali e nei sogni, che già palpitavano nel suo cuore: aprire uno spazio di accoglienza per quegli stessi ragazzi che ci accoglievano in strada. Una casa-famiglia dove i ragazzi incontrassero risposta a una richiesta, che è così vergognoso che un bambino sia costretto a rivolgerci: un luogo che lo circondi di amore. Il tempo e la solidarietà degli amici meravigliosi di Verona hanno fatto poi sbocciare questo bel progetto nel 2005, dando inizio ad un’intensa esperienza ancora più
profonda, che prima non avevamo sperimentato: condividere quotidianamente la vita, gomito a gomito, con i nostri ragazzi nella casa di accoglienza “Rayitos de Luz”. Che corso accelerato di vita che ci diedero i nostri “fratellini”! Che abilità che avevano per scrollarci di dosso tutta quella crosta accumulata dalla nostra società! Ogni giorno che viviamo insieme con loro ci insegna tante cose. Sono un libro aperto, sia per rispondere alle mille domande egoiste che facciamo alla vita, sia per porci i più profondi interrogativi, a tal punto che in molte occasioni, di fronte alle ingiustizie che questi ragazzi soffrono, ho provato vergogna nell’essere un adulto “civilizzato”. Mi riempie di emozione ricordare le centinaia di conferenze magistrali che ho ricevuto seduto in strada, al fianco di questi nostri fratelli: sulla solidarietà, sull’amore, sulla felicità. Oggi, dopo aver gattonato come un bimbo appena nato, dopo aver camminato al fianco di tante belle persone, dopo aver condiviso con i nostri ragazzi nelle strade, nelle carceri e nella casa di accoglienza, sento con l’urgenza che viene dalla maturità che è coerente chiedermi se esista una risposta umana, civile e dignitosa che riesca a giustificare il destino di sofferenza dei nostri ragazzi di strada.
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benessere A cura di Michele Marconi
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> Il cavallo non sente il peso del corpo, sente il peso dell anima!
Sul magazine dello scorso mese ho brevemente mostrato le caratteristiche principali che descrivono un incontro di mediazione equestre, in questo articolo vorrei condividere con voi tre esperienze di adolescenti che sono stati capaci di incrociare le loro fragilità con la naturale duttilità del cavallo, in che modo le sue normali qualità spesso sostengono le nostre sofferenze esistenziali. L’ energia e la vitalità del cavallo rinforzano quelle emozioni che fluiscono in noi da circostanze lontane, a volte legate intimamente a sentimenti profondi e distanti nel tempo, dai giochi in cortile, dalla voce di un compagno di scuola, dagli odori di un giorno di festa, e insieme, come dimostrano le neuroscienze, organizzano con decisione ciò che siamo e quello che vorremmo essere. A volte però la vita non è generosa, anzi è troppo esigente per alcuni ragazzi, e il peso delle ingiustizie subite, come in queste tre storie, incrementa lo smarrimento e il rancore, la paura li schiaccia e paralizza in un angolo le loro vite indifese, incapaci di portare un carico di ferite troppo pesanti per la loro età. La sofferenza si orienta verso “l’interno”, il non senso viene espresso sul proprio corpo con disturbi psichici, che hanno il nome di autolesionismo, anoressia, bulimia, manifestazioni visibili di un dolore inenarrabile. Un corpo graffiato, perché la vita lo ha ferito o rinsecchito, perché forse la fame di affetti è inestinguibile, oppure una corporatura satura all’esasperazione, perché si deve riempire ciò che viene percepito, il tutto come un vuoto insaziabile. Volti che attendono qualcuno che provi a compensare un bisogno incompiuto o a ridare dignità ad una biografia deturpata.
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benessere
A Corte Molon, centro polifunzionale per la riabilitazione, attraverso interventi assistiti con gli animali proponiamo a ragazzi esperienze significative e significanti. Molte volte abbiamo visto adolescenti con le braccia fasciate o sfiniti per il prolungato digiuno incapaci di mettere il piede nella staffa, ma l’esperienza con il cavallo ha reso il loro corpo più leggero, sano ed equilibrato. Anche se solo per alcune ore alla settimana, rimane in loro una consapevolezza che scardina e interrompe un modus operandi; è in noi determinata la convinzione per cui un’esperienza positiva permette di affrontare o rivedere sotto un'altra luce il quotidiano, un intervento equestre che si avvale della tecnica, ma con una incisiva intenzionalità educativa.
un fallimento. Ci riprova e con l’aiuto di un altro ragazzo e di uno sgabello riesce con fatica a sollevare il suo corpo e a sedersi in sella. Il cavallo cammina tranquillamente senza alcuno sforzo e, per la prima volta nella sua vita, ci racconterà poi, si è sentita leggera, la gravità ha perso quella potenza che la costringeva a trascinare stancamente un corpo affaticato. Quel pomeriggio non percepisce più quel senso esasperato di pesantezza che paradossalmente la faceva sentire vera. Sul cavallo si sente “delicata” ci racconterà, e si riconoscerà così anche negli incontri successivi, una concezione nuova si è strutturata in lei, una variabile nella sua vita che ora l’accompagnerà nelle prossime scelte.
Enrica è giovane, le canzoni della festa per la promozione di terza media sono ancora in classifica nel suo IPod, ma quando lo estrae dalla tasca fatica ad uscire perché i Jeans sono stretti, il suo maglione è largo, ma non inganna. Non riesce a salire, la vergogna è tanta e si ritrae in disparte. Cerchiamo di non farle vivere il suo non essere stata capace come
Enrico è magro, anoressico, è nato in Piemonte in riva ad un lago che conosco bene, vicino a casa sua ho passato il capodanno del millennio, ma a lui non l’ho detto, ho solo cercato di fargli riconoscere come il cavallo risponde ad uno stimolo facendo leva sugli aspetti narcisistici che possono gratificare la nostra lezione. Enrico è stanco, si muove in maniera disorganizzata malgrado le mie sollecitazioni, il cavallo si muove autonomamente senza meta e guida, Enrico è concentrato esclusivamente su come utilizzare questa nuova situazione per consumare ulteriori calorie, sta lavorando sul cavallo, non con il cavallo. Lo faccio scendere, poiché vengono meno i requisiti minimi di sicurezza. La settimana dopo ci riprova e qualcosa si è modificato, ma in maniera impercettibile, forse però era solo un mio desiderio. A fine lezione gli chiedo di pensare, la prossima volta, mentre è sul cavallo, di canalizzare l’energia che possiede per
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condurre in autonomia l’animale, senza che lo affianchi con la longhina (piccola corda per condurre o legare il cavallo). La terza settimana è andata decisamente meglio, quel pensiero ingombrante che da anni lo accompagna, ora lo ha affiancato ad un desiderio, racconterà poi a suo padre che associa il cavallo ad una situazione vitale, in netto contrasto con la sua lettura mortifera della vita.
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Enrichetta ha le braccia che hanno dei profondi solchi rossi, è autolesionista, si taglia, inoltre da qualche settimana fa uso di eroina, iniettandosi qualche cosa perché la possa far sentire viva, eccitata, concreta. Con lei ho pochissime chance, è molto diffidente, soprattutto delle figure maschili, e decidiamo di negoziare il suo tollerarmi; se lei farà bene ciò che le indicherò per i prossimi 10 incontri le farò sperimentare alla longia (il cavallo è guidato dall’istruttore tramite una lunga corda) il GALOPPO!!! Accetta la sfida, è (quasi) sempre corretta in tutti quei due mesi e mezzo, ma non la mollo, nemmeno lei si scoraggia nel sopportarmi, finalmente arriva il grande giorno, e devo mantenere la promessa anche se naturalmente non era ancora pronta. Sono le 15 di un mercoledì di maggio Enrichetta galoppa libera, bene come non avrei sperato, dopo ½ ora mi chiede di fermarsi, ha sperimentato un’emozione adrenalinica che solo la “roba” fino ad ora la aveva dato. Ci salutiamo, mi dice che l’accordo è stato reciprocamente mantenuto e che non verrà più. Dopo un paio d’anni l’ho incontrata a Fiera Cavalli che acquistava una testiera per Blond, il suo cavallo…
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psicologia A cura di Giampaolo Mazzara
Un corpo che urla tra metafora e agito seconda parte Gli “attacchi al corpo” Non soltanto in ambiente psichiatrico ma anche sulla stampa e sui media in genere, negli ultimi anni si è sentito sempre più frequentemente parlare di “attacchi al corpo” o di “maltrattamenti del corpo”. è inevitabile che il trattare di adolescenti e di giovani ci porti anche a doverci confrontare con fenomeni di rilievo clinico quali le automutilazioni, le turbe dell’alimentazione (anoressia, bulimia, bizzarrie alimentari), le pratiche sportive “estreme”, le attività sessuali a rischio, la guida spericolata e sprezzante del rischio. Questi comportamenti appena ricordati si possono evidenziare come singoli momenti critici ma li possiamo riscontrare anche simultaneamente o vederli alternarsi o sostituirsi uno all’altro nel tempo. Nell’intento sia di fronteggiarli in un’ottica preventiva che di curarne le conseguenze, dobbiamo prendere atto di come nella fase adolescenziale s’intreccino condotte psicopatologiche con fenomeni culturali, con mode e modelli. Secondo Ladame, i parametri dei quali tenere conto per affermare che non si tratta di semplici manifestazioni su base culturale sono: la dipendenza, l’assenza di possibilità di scelta, la perdita del controllo sulle proprie azioni. Dal canto suo, Favazza (‘96) tenta di dare una definizione dell’automutilazione, formulandola in tal modo: “distruzione o alterazione del corpo, fatta in maniera deliberata, senza avere coscienza di un’intenzione suicidarla”; e ipotizza pure una classificazione: maggiore (occhio, genitali), stereotipica (testa contro il muro, disturbi mentali organici), moderata. In ogni caso, si deve riconoscere come alla base di questi comportamenti ci sia il fallimento della costruzione dell’identità. Una condizione che può risultare momentanea, quindi, passeggera o, al contrario, permanente. Soltanto la valutazione del processo dell’adolescenza nella sua interezza e complessità può mettere in grado di realizzare un corretto inquadramento psicopatologico. La transizione in atto è caratterizzata dalla fragilità dell’Io e conseguentemente ne sono influenzati sia i comportamenti che gli atteggiamenti, e così pure la relazione con gli oggetti e con l’ambiente. Ogni adolescente vive una lunga fase in cui è impegnato su più fronti: la conoscenza del proprio corpo, del nuovo modo di pensare, delle pulsioni fino a poco prima sconosciute. Gli obiettivi da raggiungere si ridefiniscono con l’evolvere della personalità e delle condizioni esterne: sostanzialmente consistono in una accresciuta conoscenza degli elementi in cambiamento, nella loro accettazione e nell’integrazione il più possibile armonica. * Psicoterapeuta. Direttore dello STEP (Studio di Terapia Creativa e Psicodramma). Verona.
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psicologia
Ciò progressivamente dovrebbe portare a una consapevolezza nuova e all’essere in grado non tanto di fronteggiare le emergenze, quanto di utilizzare adeguatamente conoscenze e competenze. Dobbiamo riconoscere come il più delle volte tutto ciò avvenga in un clima di insicurezza e di ansia, originate dal distacco dai legami infantili e dagli oggetti d’amore fino a quel momento vissuti come stabili, dalla perdita dell’onnipotenza infantile della quale è necessario fare il lutto. Sono svariate le forme con cui viene messo in atto un attacco al corpo. Se le vere e proprie automutilazioni si riscontrano soltanto in psicopatologie gravi (negli psicotici, un occhio, i genitali), troppo diffusi sono i comportamenti auto-aggressivi, le ferite auto-inflitte, il tagliarsi; e così pure, le bruciature volontarie, la scarificazione (incisione della pelle o della mucosa con strumenti taglienti e introduzione di sostanze che ritardano la cicatrizzazione e aumentano il volume della cicatrice. Tecnica utilizzata in popolazioni primitive per tatuaggi, ornamento, iniziazione), parasuicidi. Tutti i fenomeni ricordati sopra vanno inquadrati e diagnosticati in categorie diverse da quella del suicidio. Nonostante ciò, non ci si può nascondere come essi possano indicare la presenza di un rischio di suicidio. In ambito clinico si prendono in considerazione spesso le ”idee di suicidio”. Al di là dell’importanza che ad esse si attribuisce, riconosciamo con Ey che “queste idee sono l’espressione di un turbamento istintivo-affettivo molto pro-
fondo dove si mescolano l’angoscia e il delirio”. Quando si dice “è un agito!” si utilizza un’espressione propria della cultura psicoanalitica e ci si riferisce “a tutto ciò che esce da quanto è previsto dal setting o, per estensione, che non è congruo con il contesto e le aspettative sociali”. Non può certo essere un’espressione dal valore definitorio, che tenda a liquidare il problema, relegandolo nell’ambito dello sconveniente da reprimere o contenere, oppure all’interno di un quadro diagnostico e magari prescrivendo dei farmaci adeguati. Ciò che chiamiamo “agito” va assunto anche come una comunicazione che ci impone di ascoltare e di capire. Che ci invita a dare valore al presente e al passato dal quale emerge. Ci dobbiamo chiedere quali siano i motivi che portano l’adolescente a mettere in atto tali comportamenti. è facile ritenere come la risposta sia complessa e molto articolata: al di là di schemi rigidi e di semplificazioni, è possibile affermare che i significati che essi possono assumere vanno ricercati tra i seguenti: denunciare il disagio vis* Segnalare, suto; l’attenzione ed attivare l’am* Attirare biente; Prendersi cura di sé (Menningher, fin
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dal lontano 1938); un intollerabile senso di * Contrastare frustrazione; qualche risultato illusorio * Aspettarsi (calma); di una catarsi, con libe* Realizzazione razione di energia repressa. Spesso si riscontra l’impossibilità di sopportare la sofferenza che viene localizzata, vista, sentita e non più avvertita come diffusa in tutto se stessi, oppure nella testa, al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo e di contenimento. Secondo qualche autore, tali comportamenti andrebbero considerati come dei procedimenti auto-calmanti oppure come espressioni di autoerotismo. Prescindendo dalla lettura che sia possibile darne, ogni azione contro il proprio corpo è un richiamo forte, e sarebbe davvero grave far cadere nel vuoto la richiesta di aiuto che esso esprime! Facendo bene attenzione, però, a non farsi intrappolare dalla spinta a rispondere solo all’emergenza imposta dall’atto sintomatico! I genitori e gli educatori hanno un ruolo fondamentale nel cercare di porsi in atteggiamento di ascolto, evitando allarmismi fuori luogo e atteggiamenti investigativi. L’ascolto vero è parte essenziale di una relazione basata sull’accoglienza piena dell’altro, anche quando i suoi modi di fare e di essere ci appaiono strani o distorti. Astenersi dal giudizio e sviluppare la comprensione non significa banalizzare o assecondare anche il comportamento avvertito come rischioso. Bensì creare il presupposto per cui si sviluppi un clima di fiducia, condizione essenziale per far emergere il disagio e far entrare in campo, qualora si rendano necessari, strumenti adeguati come possono essere servizi dedicati all’adolescente o un supporto psicologico specialistico.
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arteterapia
Così vicino-così lontano Arteterapia con gli adolescenti: stile ed organizzazione spaziale dei lavori
Riprendo un tema centrale per l’adolescente - la distanza tra sé e l’oggetto -iniziato nel numero precedente con l’osservazione dell’impiego dei materiali (quali?), per parlare qui del “come” ovvero l’aspetto formale del prodotto artistico: stile ed organizzazione spaziale , con particolare attenzione alla composizione.
Figura 1 "Vuoto"
Figura 2 "Chi ha paura dell'uomo nero"
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Heinrich Wolfflin, storico dell’arte distingue lo stile in: Lineare o Pittorico che a loro volta possono essere espressi in forma arcaica o in forma tradizionale. Lo stile lineare in forma arcaica è una rappresentazione senso motoria (scarabocchio) che via via definisce uno spazio-corpo che contiene ed è contenuto: espressione del bisogno di integrarsi ed affermare il Sé in rapporto al mondo circostante. Lo stile lineare in forma tradizione, invece, è una rappresentazione simbolica dove si ha una concezione dello spazio più proiettiva. La distanza fra autore ed opera è definita: lo spazio diventa il luogo delle rappresentazioni concettuali ed ideali. Il gesto appare più controllato e definito, le forme possono presentarsi più purificate dal coinvolgimento emotivo.Per quanto riguarda lo stile pittorico Kandinsky parla dell’effetto psichico del colore “che fa emozionare l’anima”. Il colore visto come equivalente visivo della realtà emotiva (omogeneità, intensità, contrasti, trasparenza). Nello stile pittorico è più facile che il soggetto segua il bisogno di lasciarsi andare e talvolta può anche accadere che ne rimanga travolto. Come per lo stile lineare, lo stile pittorico può esprimersi in forma arcaica dove è più facile contattare emozioni e sentimenti difficili da esprimere a parole oppure in forma tradizionale dove lo spazio diviene il luogo di rappresentazioni. Lo stile ci parla della distanza/vicinanza alle emozioni, all’affettività, al corpo; l’espressione in forma arcaica sia essa lineare o pittorica si avvicina maggiormente alle pulsioni. Data questa premessa: come si esprimono gli adolescenti? Lineari o pittorici? Arcaici o tradizionali? è difficile dare una risposta generalizzante perché ogni esperienza è a sé ed il percorso di ogni ragazzo/ragazza è un processo che si snoda nel tempo. Di frequente, all’inizio si ha un approccio con stili di tipo tradizionale; ma spesso gli adolescenti ricorrono ad entrambi gli stili: capita, ad esempio che dopo un approccio “troppo vicino” (arcaico) venga scelta la forma “tradizionale” per raccontare di sé in modo più distanziato. In particolare, gli adolescenti amano spesso immagini con funzione identificatoria (immagini-manifesto), usano parole scritte per raccontarsi e utilizzano la copia, che ha una funzione evolutiva importante: fa emergere movimenti assertivi, di autostima e di identificazione positiva.
arteterapia
Una tecnica “di moda” - adottata sempre dopo un po’ di incontri - è l’action painting: permette di esprimere sentimenti di rabbia, emozioni, attiva il corpo... ed il corpo in adolescenza è fondamentale! C’è un luogo, nella stanza di arte terapia a Santa Giuliana, molto conteso, che è deputato a tale scopo. Già l’annuncio “oggi faccio action painting” porta in sé promesse espressive liberatorie catartiche; il mio invito “parla con l’opera”, una volta terminato il dipinto, è quello di connettersi con quanto espresso, affinchè l’adolescente possa creare uno spazio di pensiero e di riflessione su di sé. Ed è il momento più difficile, ma funziona… un po’ alla volta! Altro elemento interessante, per quanto riguarda la qualità formale dei lavori, è l’osservazione dell’organizzazione spaziale: oggetti isolati in uno spazio vuoto che raccontano della solitudine, oggetti sovrapposti e confusi, oggetti frammentati, oggetti “lontani”. Dice S. Resnik (“Sul fantastico”): “la nozione di spazio è in relazione con la capacità di separarsi dall’oggetto originario, la madre, ma anche con l’accettazione di esistere, cioè ex-essere fuori nel mondo, vedere il mondo in prospettiva, scoprirsi, assumere un punto di vista”. Lo spazio vuoto è un tema che si presenta spesso nei lavori dei ragazzi/e, anche se difficile da riconoscere. Due esempi. Sandro, in quasi tutti i lavori non presenta un ritmo dentro/fuori (rapporto soggetto/ambiente): fuori dal triangolo della cannabis che disegna, non c’è nulla. C’è sempre un enorme spazio vuoto intorno ai soggetti che rappresenta, ma lui non lo riconosce “io non mi sento così” ribatte alla mia osservazione. Vincenzo, invece, oppositivo e provocatorio nel comportamento, durante il laboratorio cerca immagini dai giornali per riempire una cornice che ha scelto: auto, donne, ecc. ma alla fine sceglie di non inserirne alcuna e presenta solamente la cornice titolando il suo lavoro: vuoto. Lo spazio caotico che compare spesso nelle immagini degli adolescenti, si può organizzare con un orizzonte, oppure con una diagonale o
una retta con la funzione di separare gli opposti, oppure con la creazione di una griglia dove collocare elementi. I ragazzi lo fanno spontaneamente. Gli opposti In adolescenza gli opposti sono sentiti in modo violento, definitivo, sembra non integrabile. Possono essere colori contrapposti. Bruna, ad esempio, risponde alla mia consegna “un’immagine che ti presenti” con un puzzle in bianco e nero commentando “La mia vita in bianco e nero: non esiste il grigio, non ce la faccio”. Oppure lo spazio si può organizzare attraverso la creazione di linee divisorie sul foglio. Roberta traccia montagne appuntite e riempie con pennarelli di colori vivaci.. Alla base rappresenta strati ed una staccionata - spiegherà poi: “per dividere”. Alberto svilupppa il tema “viaggio dentro me stesso” tracciando su un cartoncino una diagonale che separa le scritte: rabbia e vita. Anche la creazione di un orizzonte ha la funzione di organizzare lo spazio dell’immagine. Un caso ad esempio, quello di Mario che fin dall’inizio - mi viene riferito- non vuole partecipare all’attività, perché “a lui non piace disegnare”. Invitato a provarci, rimane quindi al setting. Utilizza fin dal primo incontro un medium morbido, la tempera, inizialmente con colori freddi, poi più caldi, senza tuttavia riuscire a dare un centro e nemmeno una forma. Del primo lavoro commenta: “mi fa pensare al caos, delirio, follia; non completezza, non comprensione. Titolo: colore, anzi, “indefinito” ed aggiunge “secondo me non si deve dare un senso ad un disegno così informale”. Si comprende la sua necessità di voler rimane nel caos, nel senza forma. La sua difficoltà a stare nelle regole del setting ed i suoi tentativi di sforare i tempi, sono un tutt’uno con la sua espressione grafica e la difficoltà a “contestualizzarsi”. Cercando di aiu-
tarlo a stare dentro le regole e attraverso il medium artistico, in un lavoro “tramonto” emerge una cornice bianca, e viene definito un orizzonte con un sole che si rispecchia. Talvolta viene tracciata una griglia per organizzare lo spazio: sentita come traccia di riferimento e al contempo come forma di costrizione (la prigione). Altro elemento che definisce uno stile è la composizione. Marion Milner: “quando si comincia a pensare alla distanza ed alla separazione è necessario considerare i diversi modi di stare assieme, ossia la composizione (caratteristiche dello spazio che gli oggetti creano fra di loro)”. Nei lavori dei ragazzi compaiono immagini frammentate, di oggetti sparsi non connessi o di parti corporee non integrate. Graziella disegna a matita su foglio piccolo una valigia e scrive: “ho voglia di andarmene da qui…e lasciare il mondo così come l’ho trovato. Io sto male con una scuola mediocre, con una famiglia mediocre, con una vita mediocre”. Da un lavoro successivo con scarabocchi le propongo di far emergere degli oggetti dal disegno per riportarli poi su di un altro foglio. Mi chiede: “li riporto vicini o lontani?” Lascio a lei la scelta: li disegna quindi lontani uno dall’altro. Interessante poi, all’interno della composizione osservare nelle espressioni grafiche la relazione interno/esterno, che durante i laboratori si sono espresse con: rigidità che uccide il ritmo (congelamento), staticità, “buco” al centro; in taluni casi si è presentata la necessità di fornire una base consistente che potesse sostenere lavori “graffiati” e rotti. Il più delle volte la composizione (equilibrata) nei lavori spontanei degli adolescenti non c’è: ed è lo specchio di un sentire che fa fatica a mettersi insieme.
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esperienze estive A cura di Carlo Tregnaghi
PENSIERI FRITTI, SOTTO IL SOLLEONE Adolescenti ed esperienze estive Anche nel 2014 le nuove generazioni non sfuggono alle spinte esperienziali che di buon grado (e per fortuna) arrivano dalle diverse realtà educative. Non ultima - nel Veneto bianco forse quella che resta ancora in pole - la proposta estiva parrocchiale. Del resto chi scrive è di parte, e di campi scuola, saf, grest, campi scout e via dicendo può dire di averne fatti in gran numero. Sia come animatore che come adolescente. Ecco dunque uno sguardo su questa sfera del mondo educativo, cercando di leggere in modo critico quelle che sono le cosiddette "esperienze estive" che le parrocchie propongono. Partiamo dall'interrogativo fondamentale, ovvero: "cosa vogliamo dagli adolescenti?", meglio: "a che traguardo vogliamo condurli?” Certo, la proposta di fede in un contesto parrocchiale non può che per forza di cose essere implicita, almeno nella scansione delle attività proposte. Ma il fine educativo, si sa, non è quello di indottrinare, bensì di condurre alla libertà la persona, cercando di renderla autonoma e consapevole (nonché realizzata) nelle scelte di domani e nei sogni di oggi. Filosoficamente potremmo dire con Kant "sapere aude" o, parafrasando, “pensare aude”. Dove la nostra idea di persone di domani deve essere quella di cittadini liberi, coscienziosi, istruiti e capaci di essere nel sociale parte attiva e consapevole. In due parole, autonomia e realizzazione di sé. Nel contesto estivo questo si traduce in una questione di dosaggio delle proposte, che dipende anche dall'età degli interessati. Ovvero: quanto cavalcare la sfera emotiva per accattivare, suscitare ed invogliare, e quanto invece calcare la mano sull'effettivo impegno concreto della proposta. Ovviamente queste considerazioni vanno fatte in riferimento a età differenti, per cui distingueremo la prima adolescenza (fine medie/inizio superiori) dalla sorella maggiore (fine superiori/inizio università). Per quello che riguarda la prima fascia devo dire che le cose che reputo positive nei campi parrocchiali sono molte. Anzitutto la vita comunitaria, ovvero il fatto di stare-insieme, di condividere, cioè, la quotidianità dell’azione, dalle pulizie di casa (rigorosamente a suon di musica e cerografie inventate al momento), all’allestimento di pranzo e cena, fino ad arrivare alle attività vere e proprie e ai momenti di svago. A seguire il servizio, l'ascolto di testimonianze di vita autentiche e forti, il confronto reciproco anche nei momenti di tempo libero, e tutto il corollario che segue: dai canti attorno al falò alle discussioni con i vari don, e via dicendo. E scusatemi se è poco.
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esperienze estive
In tre parole: semplicità, stare insieme, condivisione. Se un campo funziona bene i ragazzi in questa settimana dovrebbero letteralmente sbocciare. Esplodere. In entusiasmo, vitalità, sogni, conoscenze e via dicendo. Come ho detto prima, sono di parte. Ma personalmente credo molto in questo tipo di esperienze. Non tanto perché esse siano architetturate in chissà quale modo, o perché sotto di esse si celino chissà quali fini pedagogici appositamente costruiti. Al contrario, proprio perché non c’è nulla di tutto questo, io ci credo. Perché la semplicità è l’ingrediente segreto di queste settimane. E i ragazzi lo sentono. Qui hanno la possibilità di non fare (finalmente) nulla di straordinario, ma semplicemente di vivere come si dovrebbe, senza particolari condimenti o coloranti, ma gustando le piccole cose così come la vita ce le propone. L’obbiettivo qui è vivere. Nelle relazioni, nella condivisione di sé con gli altri, ospiti di qualche casa scalcinata il più delle volte arroccata nei paesini solitari delle nostre montagne, i cui abitanti, all’arrivo dei ragazzi, si risvegliano per condividerne sorrisi, avventure, interrogativi. Qui, il non-avere (non avere docce calde, camere singole, privacy, e, in sostanza, tutto ciò che il mondo considera comodo e di conseguenza costoso) lascia spazio - direbbe Fromm - all’essere. Essere che è costretto a uscire allo scoperto, visto che le barriere che di solito lo tengono ben riparato nel nostro ego cadono. Del resto questa sorta di “ritorno alla vita” sembra essere il nemico numero uno della postmodernità, visto che l’occidente sta diventando sempre più alienato, concretizzando quel difficile equilibrio tra tecnica e umanità che in molti avevano profetato già a fine ‘800. Ma non voglio dilungarmi su queste cose. Fatto sta che i campi-scuola sanno ancora contrastare tali tendenze andando con molta nonchalance in direzione contraria. E proprio per questo ci piacciono. Quello che piace meno è lo stile delle esperienze rivolte ai ragazzi più grandi. Chiamiamola tarda adolescenza, ma comunque la fascia di riferimento è all’incirca quella 17-22. Qui i giochi cominciano a farsi seri perché l’esperienza non deve restare l’emozione di una settimana, ma deve avere il coraggio - una volta tornati a casa - di farsi scelta. A questo proposito delineo due tendenze. La prima è quella
appena menzionata, ovvero il voler restare aggrappati al cordone ombelicale del nostro bel locus amoenus per poi smarrirsi una volta che la quotidianità ci ripresenta il suo lugubre volto. Così facendo si asseconderebbe quel ritardo nell’avvicinarsi al mondo adulto di cui la società è già spettatrice. Il problema è che le proposte per questa fascia non evolvono, a mio avviso, come dovrebbero. Cioè non si pretende quel salto di qualità che invece i ragazzi dovrebbero compiere, sia a livello di servizio (di più e più concreto) sia a livello di introspezione personale (capacità di orientarsi, conoscere e problematicizzare le sfide che il mondo ci pone in quanto giovani: in una parola: consapevolezza). Altra deriva che ultimamente sembra fare tendenza è il mal d'Africa: l'erba del vicino, è sempre la più verde. Soprattutto se il vicino è lontano. Per chi è dell’ambiente direi che il viaggio nel continente nero sta diventando ormai una prassi. Bello, direte voi. Anzitutto, dico io, costoso. E poi non mi sembra affatto che il nostro paese viva un idillio: né politico, né economico-sociale in generale. Dinnanzi a tale panorama le scelte dei giovani: andare all’estero per trovare lavoro - la ben nota fuga dei cervelli, e chi scrive sta pensando "forse dovrei farlo anche io" - oppure mantenere la residenza nella penisola ma, d'estate, andare a salvare l'Africa. Qualcosa non va. Si sa, l'occidentale è amante delle cose spot, dei gesti più che dei contenuti, dell'abito più che del monaco. Ma non è solo questo. In Africa - è cosa risaputa - la vita scorre più da vicino. Meno industrializzazione, meno tecnologie e densità abitative fanno si che l’autenticità delle persone emerga come una boccata d’ossigeno per chi è abituato a vivere qui. E poi il fascino delle stranezze, il viaggio e tutto il resto rendono sicuramente l’esperienza indimenticabile. Senza contare che comunque il met-
tersi al servizio degli altri è qualcosa di lodevole. Ma è altrettanto vero che il nostro presente - il qui e ora - continua a sfuggirci di mano. Soprattutto ai giovani. Il fatto è che noi occidentali abbiamo bisogno di fare esperienze, di vedere, di provare emozioni, per sentirci vivi. Visto che qui lo siamo sempre meno. Ma l’emozione è un fuoco che si spegne una volta tornati. E allora avanti, ancora esperienze. Ma dove ci condurranno queste esperienze? Quando arriverà il cambiamento? Ancora, è l’Africa ad aver bisogno di noi, o è il contrario? Credo che la nostra sfida oggi - per tutti coloro che condividono un certo tipo di principi - sia cercare di vivere in modo diverso qui, cambiando il nostro presente e il nostro Paese. Perché se il terzo mondo è afflitto da povertà materiali, noi oggi viviamo povertà invisibili che però ci corrodono portandoci alla commedia dell’assurdo dell’andirivieni dai continenti in cerca di chissà cosa. E poi ci sono i perché, i discorsi che nessuno più fa, che noi non facciamo più, e che delineano sostanzialmente una carenza di pensiero - denominatore comune delle due tendenze descritte che, soprattutto negli adolescenti, bisognerebbe cercare di arginare attraverso l’educazione. Sempre che si sia ancora convinti che l'onestà e il saper pensare con la propria testa siano le chiavi per migliorare la realtà che si vive. Di certo non possiamo educare alle soluzioni facili - ai contentini. Forse allora sono quelle docce fredde, quei bagni comunitari, quelle camerate anti-privacy che dovremmo cercare. Insieme al chiasso insopportabile di un bastimento di ragazzi che non vogliono dormire e che non ci lasciano dormire. Allora forse tornerà la vita. Tornerà la fatica. Allora forse tornerà anche il coraggio di cambiare.
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psicologia A cura della Dr.ssa Valeria Valbusa
Il disturbo ossessivo-compulsivo in adolescenza “La mente si affolla di pensieri, sempre gli stessi che tornano e fanno paura; più provo ad allontanarli più si fanno forza e diventano insistenti: bussano alla mia testa, cerco di dire a me stesso che non hanno senso, che non sono veri, ma non basta, l'ansia ha il sopravvento e non mi resta che controllare e controllare e controllare ancora di non aver davvero commesso quell'assurdo errore”. Il disturbo Ossessivo-Compulsivo (D.O.C.), come il nome stesso suggerisce, è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni: pensieri, immagini o impulsi ricorrenti, vissuti con disagio e paura, “costringono” la persona a mettere in atto comportamenti ripetitivi o azioni mentali al fine di annullare l'angoscia provocata dal pensiero disturbante e intrusivo. I pensieri ossessivi si presentano più e più volte e sono incontrollabili dalla persona che li sperimenta; sono avvertiti come sgradevoli e giudicati come insensati. Le ossessioni possono riguardare svariati argomenti e situazioni: le persone con DOC possono preoccuparsi eccessivamente dello sporco e dei germi ed essere ossessionati dall'idea di potersi contaminare o contaminare altre persone. Possono essere fortemente angosciati all'idea di aver inavvertitamente recato danno a qualcuno, ad esempio facendo una manovra azzardata con il motorino, oppure di perdere il controllo e poter diventare pericoloso per gli altri; possono essere terrorizzati all'idea di aver contratto malattie infettive. Tutte le ossessioni sono pertanto accompagnate da emozioni negative (disagio, ansia, paura, disgusto, incertezza, dubbio) e gli enormi sforzi della persona che ne soffre per contenerle sono spesso inconcludenti.
Dr.ssa Valeria Valbusa Studio di Psicoterapia Integrata - Verona www.psychoarea.it
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psicologia
Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi messi in atto per ridurre l'ansia provocata dalle ossessioni, rappresentano il tentativo di controllare il forte disagio provato. Una persona può, quindi, lavarsi le mani più volte per annullare il pensiero di contaminazione; può controllare più volte di aver chiuso il gas di casa per scongiurare catastrofi, può contare oggetti all'infinito per assicurarsi di non averli perduti. In generale, le compulsioni diventano veri e propri rituali quotidiani, alle volte francamente bizzarri, da mettere in atto secondo regole precise e rigide; in alcuni casi diventano talmente routinarie da essere messe in atto anche in assenza di ossessioni, a scopo preventivo. Spesso le persone con DOC tendono a ricercare ripetutamente rassicurazione nei familiari e negli amici riguardo alle proprie ossessioni: tali richieste svolgono la stessa funzione delle compulsioni ovvero tranquillizzare, almeno momentaneamente, la persona. Inoltre, la persona che soffre di Disturbo ossessivo-compulsivo tende a mettere in atto una serie di evitamenti di tutte le situazioni che in qualche modo possono innescare i pensieri intrusivi nel tentativo di controllarli e limitare le compulsioni: chi teme, quindi, lo sporco e i germi tenterà di non toccare oggetti potenzialmente contaminati, chi teme di pungersi con aghi infetti non camminerà sull'erba o sulla sabbia, chi teme che alcuni numeri possano portare sfortuna a sè o ai propri cari eviterà ogni situazione che li “contenga” (calendari, televisioni, agende, orologi). Chiaramente, più esteso e frequente diventa l'evitamento delle situazioni, più il soggetto vivrà una situazione di isolamento, vittima delle rigide regole imposte dal suo disturbo e a rischio di sviluppare un correlato disturbo depressivo. Il disturbo ossessivo-compulsivo colpisce dal 2 al 3% della popolazione; può manifestarsi sia negli uomini sia nelle donne, indifferentemente,
e può esordire nell'infanzia, nell'adolescenza o nella prima età adulta. L'età tipica in cui compare più frequentemente è tra i 6 e i 15 anni nei maschi e tra i 20 e i 29 anni nelle donne. I primi sintomi si manifestano solitamente prima dei 25 anni (il 15% ha esordio intorno ai 10 anni). Nella maggior parte dei casi l'esordio dei sintomi è subdolo e graduale: le persone non ricordano con esattezza l'inizio della problematica, che tende ad aggravarsi progressivamente. In alcuni casi, invece, le persone sanno individuare il momento improvviso di insorgenza dei sintomi, spesso a seguito di un evento di vita stressante. Il DOC è, pertanto, una patologia che non affligge esclusivamente gli adulti, ma, anzi, può insorgere in bambini e adolescenti. L'esordio in età evolutiva si manifesta prevalentemente con sintomi comportamentali di tipo ritualistico che possono cambiare anche molto rapidamente, nonostante siano maggiormente frequenti comportamenti di lavaggio e pulizia. In adolescenza ed età adulta la sintomatologia tende ad essere molto simile, prevalentemente con ossessioni di contaminazioni e conseguenti compulsioni di pulizia e lavaggio per le ragazze, e ossessioni sessuali e rituali di ripetizione per i ragazzi. Non sono ancora del tutto chiari alla comunità scientifica i fattori che possono influenzare l'insorgenza del DOC. Avere familiari che soffrono di tale disturbo aumenta certamente la possibilità di ammalarsi, rimane tuttavia difficile differenziare l'effetto legato al vero e proprio patrimonio genetico da quello legato all'ambiente e allo stile di accudimento. È importante riconoscere e trattare il di-
sturbo insorto in età evolutiva con tempestività, al fine di evitare il perdurare e l'aggravarsi della sintomatologia; in questo periodo del ciclo vitale, fondamentale è il ruolo della famiglia. Il Disturbo Ossessivo- Compulsivo causa una grande sofferenza in chi ne soffre, ma anche nella famiglia che inevitabilmente ne viene coinvolta. I famigliari si sentono spesso frustrati e confusi rispetto ai sintomi del disturbo e non sanno come aiutare i loro figli. Conoscere, quindi, il DOC e le sue manifestazioni è il primo passo da compiere per agire nel modo più adeguato, insieme ad altri tra cui, non farsi coinvolgere nei rituali di controllo, non sgridare il ragazzo per le sue paure nonostante appaiano irrazionali, riconoscere i suoi e i propri sentimenti di paura, sconforto, e, una volta iniziato un percorso terapeutico, sostenere il proprio figlio, motivandolo a continuare perché guarire è possibile ma richiede tempo e pazienza. Si. Guarire è possibile. Le linee guida internazionali indicano nella terapia farmacologica e nella terapia cognitivo-comportamentale i trattamenti più efficaci. Nel caso di bambini ed adolescenti, la prima scelta terapeutica ricade sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale, la quale è finalizzata a ridurre la quantità e la frequenza dei sintomi e a rendere la persona meno vulnerabile ai meccanismi cognitivi che hanno contribuito all'insorgenza e al mantenimento del disturbo.
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brevi - alimentazione
Corso di formazione sui disturbi del comportamento alimentare
L’associazione di Psicoterapia Il Corpo Specchio, sede veronese della Federazione Italiana Disturbi Alimentari, propone un Corso di formazione rivolto a medici, che si terrà nei mesi di ottobre e novembre, per diffondere un approccio ai disturbi del comportamento alimentare multidisciplinare e integrato. Obiettivo del corso è offrire ai partecipanti elementi che possano utilizzare concretamente nella loro pratica clinica.
Il progetto formativo si concentrerà sugli aspetti esperienziali di un approccio necessariamente complesso, nella convinzione che l’unione delle competenze e delle culture consenta una presa in carico più ampia sia della persona che manifesta il disturbo che di coloro che le sono vicini. A tal fi ne verranno utilizzati i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) come esempi di situazioni cliniche nelle quali l’approccio medico non può prescindere da quello psicologico. Il necessario inquadramento teorico costituirà lo sfondo di un percorso eminentemente clinico. Gli specialisti coinvolti cercheranno di presentare una modalità di lavoro che, superando le diagnosi meramente descrittive (DSM V), consenta di collocare e comprendere la patologia nella storia della persona, della famiglia e del più ampio contesto transgenerazionale e culturale, favorendo l’individuazione precoce dei fattori di rischio. Ai partecipanti sarà fornita l’opportunità di sperimentare direttamente questa modalità di lavoro sia presentando casi per loro problematici che intervenendo
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rispetto al lavoro dei colleghi. In particolare, argomenti del Corso saranno: la prevenzione dei disturbi alimentari nelle relazioni precoci, nell’infanzia e nell’adolescenza. l’importanza della diagnosi precoce per evitare la cronicizzazione del disturbo. il significato del sintomo e una sua lettura transgenerazionale. il rapporto con la famiglia. Il Corso, rivolto a medici di base, pediatri, nutrizionisti, psichiatri, neuropsichiatri infantili, si svolgerà in tre giornate pensate anche come moduli autonomi: 18 ottobre ”I disturbi del comportamento alimentare nella pratica clinica” (inquadramento diagnostico, aspetti nutrizionali, i primi colloqui con il medico/psicoterapeuta, i primi colloqui con i genitori, approccio al paziente, progetto di cura). 15 novembre “I disturbi del comportamento alimentare nell’infanzia e la pratica clinica” (il disturbo della relazione primaria, il lavoro del pediatra, ascolto e relazione). 29 novembre “Il lavoro con i familiari e il lavoro in equipe nella pratica clinica dei DCA” (prospettiva transgenerazionale, il lavoro con le famiglie).
In ciascun modulo è previsto un inquadramento teorico con esemplifi cazioni cliniche, un gruppo Balint per sperimentare in prima persona il rapporto medicopaziente e la discussione di materiale clinico. La partecipazione al Corso è gratuita, l’iscrizione obbligatoria. Il numero massimo di partecipanti è 25.
Per maggiori informazioni: FIDA Verona - Il Corpo Specchio Via Giardino Giusti, 4 - 37129 Verona T 045 8013574 verona@fi dadisturbialimentari.it www.fidadisturbialimentari.it/corpospecchio
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