Le voci della Luna

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Numero 47 - Luglio 2010 Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 1, DCB Bologna

Circolo Culturale Le VoCi deLLa Luna Sasso Marconi (Bo)

Q u a d r i mestrale di Informazione e Cultura Letteraria e Artistica

CittĂ di Sasso Marconi


Le Voci della Luna Circolo Culturale

CP107 – 40037 Sasso Marconi (BO) www.levocidellaluna.it Presidente Marinella Polidori vociluna@virgilio.it Tel. 347-5124366 Periodico quadrimestrale N° 47 - Luglio 2010 Direttore responsabile Fabrizio Bianchi effebianchi@libero.it Caporedattore Chiara Cretella chiara.cretella@unibo.it Redazione C.P.107- 40037 Sasso Marconi (BO) Andretta Bertolini andretb@tin.it Diletta Barone dileba@libero.it Luigi Cannillo lucan@netitalia.it Ivan Fedeli arsenio_ finisterre@libero.it Anna Lombardo liandra@libero.it Daniela Monreale daniela.monreale@gmail.com Vittoria Ravagli vittoria.ravagli@virgilio.it Collaboratori Nadia Agustoni - Fabiano Alborghetti - Davide Argnani Cristina Babino - Maria Grazia Calandrone - Mara Cini Matteo Fantuzzi - Fabio Franzin - Stefano Guglielmin Loredana Magazzeni - Sergio Rotino - Carla Saracino Gregorio Scalise - Andrea Sirotti - Kit Sutherland Iole Toini - Francesco Tomada - Adam Vaccaro Giuliano Zosi Hanno collaborato a questo numero Roberto Batisti - Corrado Benigni - Marco Bini - Franco Buffoni - Dario Capello - Matilde Caponi - Roberto Cogo Adele Desideri - Annamaria Ferramosca - Lainie Goldwert Fancesco Marotta - Ivano Mugnaini - Milena Nicolini Amaranta Sbardella - Camilla Torre - Paul Vangelisti Dale Zaccaria - Laura Zanetti - Liliana Zinetti Webmaster: Marinella Polidori - vociluna@virgilio.it Progetto grafico Marco Soldati Studio - soldati@gpa.it Reg.Tribunale Bo n. 6673 - 5/5/97 In copertina: Giusy Calia - a-mare, 2009 Stampa Tipolito Pieffepi - Casalecchio di Reno - BO

4 Editoriale - In poesia succede che le cose si nominino - Anna Lombardo Attivamente 6 Reagire alla sfiducia, agire il cambiamento - Marinella Polidori On air 8 La lingua che ci accade - Vittoria Ravagli 10 Finché avrò voce - Dale Zaccaria Radio/grafie 12 Dipinto come un lapis. La poesia di Lorenzo Calogero - Carla Saracino Humus 17 sequenze - Azzurra De Paola - Fabiano Alborghetti 19 Cibo straordinario - Stefania Mazza - Roberto Batisti 21 Epifanie metropolitane (e danni collaterali) - Matteo Poletti - Anna Pezzica Officina 24 Lo sdegno che resiste - Viola Amarelli - Francesco Marotta 26 Illuminazioni creaturali - Roberta Borsani - Roberto Cogo 28 Sangue & rossetto - Laura Fusco - Camilla Torre 31 Oltre. Senza fatica apparente - Marina Massenz - Loredana Magazzeni 34 Tre inediti sull'infanzia - Fiorenza Mormile - Liliana Zinetti 36 Empatia del dolore - Cristiano Poletti - Corrado Benigni 38 Tra idillio e storia - Ottavio Rossani - Ivan Fedeli Attraversamenti 40 Dal 7° Festival di Poesia Al-Marbid - Anna Lombardo TransAction 42 Angel Petisme: un poeta spagnolo tra antico e moderno - Amaranta Sbardella 46 Tradurre il tradotto - Anna Lombardo Voce su Voce 48 Il potere della parola, la laicità e i diritti civili, la rete - Intervista a Franco Buffoni raccolta da Cristina Babino 50 Paul Vangelisti: la poesia dell'esilio - Intervista raccolta da Laura Zanetti Iconographica 54 Scatti di.versi. La fotografia poetica di Giusy Calia Recensioni 56 Corporea - AA.VV. - Annamaria Ferramosca 57 Prosa in prosa - AA.VV. - Stefano Guglielmin 58 L'eterno esploso - Roberto Bacchetta - Dario Capello 59 Il pudore dei gelsomini - Adele Desideri - Fabio Franzin 60 Poesia contemporanea. Decimo quaderno italiano - Luigi Cannillo 61 Il giardino persiano - Arnold de Vos - Adele Desideri 62 Solo dieci pani - Anna Maria Farabbi - Milena Nicolini - Vittoria Ravagli 63 Sepegrepetipi - Gruppo Anna Achmatova - Marina Giovannelli - Loredana Magazzeni 64 Senza riparo - Stefano Guglielmin - Francesco Tomada 65 Basse verticali - Stefano Leoni - Marco Bini 66 Storie di badanti - Ljuba e le altre - Rosella Mamoli Zorzi - Matilde Caponi 67 Giuseppe Milesi. Il suo popolo di donne - Elena Milesi - Daniela Monreale 68 Del sognato - Raffaele Piazza - Ivano Mugnaini 69 Spiniger - Armando Saveriano - Daniela Monreale 70 Inedito per una passante - Dale Zaccaria - Vittoria Ravagli 71 Post-it 72 Tracce Si invitano quanti inviano testi (poesie, racconti, saggi o recensioni) ad abbinare al supporto cartaceo (che non verrà restituito) un dischetto con lo stesso contenuto, memorizzato in un comune programma di Word, anche se si lavora in ambiente Macintosh. I materiali debbono essere inviati a: Rivista Le Voci della Luna CP107 - 40037 Sasso Marconi (BO).


Dipinto come un lapis

La poesia di Lorenzo Calogero «Tu non fai che amarmi», esordiva Lorenzo Calogero in una delle sue poesie più conosciute, contenuta nella raccolta Quaderni di Villa Nuccia (1960). Colpisce di questo verso l’ostinazione dell’atto, la ripetizione di un piacere che è l’amore, indubbiamente, quando diventa conseguenza di un’azione e quindi sua moltiplicazione, seppure attraverso forme impreviste e tenacemente prolungate. L’ostinazione di un atto fa presagire il sovra-presente, una categoria a sé, diremmo, un presente superiore perché chiamato a raccolta dalla dimensione della profondità. Il presagio si divincola su quella soglia che, un attimo prima d’essere varcata, è il limine del tempo raccolto, il tempo talmente raccolto da non aver più l’urgenza di descriversi in un passato, in un “adesso”, in un futuro. Tu non fai che amarmi, scrive Calogero. La tensione della forza ripetuta. Lo sforzo, senza il compromesso. Ecco, il presente di Calogero dovette essere questo affondamento e questa risalita ad interim, questo ascendere e discendere nel sovra-presente. Immaginiamolo il sovra-presente: un interstizio, anzi il Regno degli Interstizi di Pessoa, il fiume che scorre, sì, ma dentro la luce, l’incalcolabile ansia di mettere fine al tempo e dare inizio allo spazio («tu sapevi il ritorno sul desiderato / spazio […]»). Lorenzo Calogero nacque il 28 Maggio del 1910 a Melicuccà, in Calabria. A un secolo esatto dall’anno del suo genetliaco, oggi se ne rievoca la nascita attraverso un progetto di studio documentabile all’indirizzo on-line www.lorenzocalogero.it e portato avanti realmente - con una fatica che trova giustificazione solo nella passione - da Nino Cannatà e dal Gruppo Sperimentale Villanuccia. Il Gruppo, che agisce fattivamente a Firenze, da dieci anni si preoccupa di rafforzare la memoria del Poeta attraverso operazioni artistiche svolte sui suoi lavori editi e inediti. Calogero, com’è provato, dal 1934 e per tutto il resto della sua vita, provò, non ascoltato, ad inviare i suoi testi a scrittori e intellettuali del panorama culturale nazionale. Soltanto Leonardo Sinisgalli lo accolse, lo lesse e accettò, per apprezzamento autentico, di sostenerlo in un ambiente in cui il Poeta stentava ad affermarsi a causa probabilmente delle sue origini geografiche periferiche e di una scarsa disposizione al fare strategico di molti interessi pseudoletterari. Oggi Calogero insiste. Insiste, pur nel buio che per anni l’ha celato all’editoria di consumo, quella delle affermazioni titolate, sperimentate dal gusto, dalla moda (ma la moda e il gusto sono

isole della frammentazione, isole che non vogliamo visitare, perché tanto malmesse nelle sabbie mobili dell’effimero); insiste in una produzione (divisa tra poesie e prosa, epistole, addirittura disegni a margine dei fogli con bozzetti di facce alate, case, figure femminili) vastissima, che conta circa ottocento quaderni manoscritti per gran parte inediti e tutti attraversati da quella sua inconfondibile grafia minuta, un ricamo della pagina, una piroetta del lapis. Una produzione che ha l’ingegno di sorprendere chi si accosta, il lettore amico-nemico. Il verso di Calogero è un “tu” domestico che a sua volta si riferisce a un “tu” non precisato: lo si ritrova, puntuale, in molti testi: «Tu le interne strutture sapevi/ e questa piccola agile danza. […]; e tu dai vascelli cadevi nel letargo/ nel suono di quelli che sanno essere […]; Tu forse questa sagoma/ alata sapevi inquieta. […]». Chi è il tu? Un tu che trascende l’identità, che è nota frammentata di uno spartito musicale altissimo, un tu sempre deviato, un tu che vive in verbi spesso scritti all’imperfetto (un tempo vinto dal sospetto di un tempo diletto, sovraesposto, non più ascrivibile a quello, casuale, delle cose umane). E forse, per definire la perfezione di un tempo altro, per scardinare la giuntura di uno scrigno e farne traboccare l’oro, ossia il miracolo del krónos catturato, è morfologicamente necessario il verbo all’imperfetto. C’è qualcosa che frantuma i versi di Calogero senza che essi diventino alienanti o dissipino i nuclei tematici (assolutamente accertabili in ogni loro fisionomia); c’è qualcosa che si esclude e include convulsamente, come un battito cardiaco regolato da frequenze inesatte, e tuttavia non deleterie al punto da provocare la fine del respiro, quel respiro che nel Poeta invece esiste e che arriva ad eliminare il rischio d’una poesia sleale, autoreferenziale, chiusa in sé sola. Poesia, al contrario, generosa, poesia stranamente abbarbicata su un verso distratto, scivolante, sintatticamente sperso ma sempre prossimo al riavvicinamento. Poesia che fluttua sul suono per infrangersi. Il suono c’è e proviene, più che dalla combinazione dei fonemi, dall’apertura delle immagini, dalla loro resa a una volontà creatrice concentrata a crearne il più possibile: queste immagini dialetticamente entrano in contatto con fenomeni atmosferici, più in generale elementi della natura, creature vegetali e animali: «Forse l’ape sgorgata dalla comune tua e mia memoria/ geme […]; Tu eri congiunto con un ramoscello/ solo per ricordo, per amore/ e sul’erba stretta si abbeverò un cavallo/ all’aria che guazza […]; Come acqua cruda/ colava il solstizio ed implacabile/ era il capelvenere: così nel sole/ o nella tua memoria/ imparai molte cose a metà vere. Così mi rapiva


infine il sonno»: vasi simbolici - a tratti misterici - d’una interiorità che spicca nello spazio, forse anche il luogo calabro, la linea dell’orizzonte che ogni conchiglia natale circoscrive nei nostri sensi ricreandone le attitudini emozionali ed espressive. D’altronde, Calogero non abbandonò mai definitivamente Melicuccà. Laureatosi in Medicina a Napoli nel 1937, finì con l’esercitare la professione nel suo paese e nel circondario, si spostò poco: una foto più nota d’altre lo ritrae forse a disagio in una città, Milano (in cui si recò nel ’54 per cercare un qualche contatto editoriale), che potrebbe essere un posto qualunque, il posto improprio, l’anormalità che squilibra un Poeta a cui non è ancora stata restituita completamente la luce, neanche in senso editoriale (di lui abbiamo due tomi delle Opere poetiche, entrambi pubblicati postumi presso l’editore Lerici: il primo del 1962, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi; il secondo del 1966, a cura del solo Lerici). «Ma nella cella di un sognatore gli oggetti familiari diventano miti dell’universo», scriveva Gaston Bachelard ne La fiamma di una candela. Leggere le poesie di Calogero è un’esperienza per sognatori. Non per quelli che una lettura comune vuole facilmente abbacinati da una visione statica, ma per quelli sovranamente in grado di partecipare del sogno indossandolo come modello estremo per una “passeggiata” nel Cosmo, quale esso sia, dal Cosmo iniziale delle intuizioni a quello particolare delle rivelazioni. Sembra che il “tu”, sopracitato, cui è impressionante come Calogero non smetta di rivolgersi, altro non sia che un cercare, tra le fronde delle immagini, nella teoria delle immagini, quella estrema, quella trionfale: la suprema. Di qui la ripetizione ossessiva: «tu sapevi», «tu la neve folta potevi», «tu eri lungo i sentieri», «ma tu sapevi questa vicenda», «e tu attendevi». Parlerei, per Calogero, di un’adesione a un doppio, inteso come interlocutore alternativo, che funge da unico cronometro ammissibile per esercitare il salto verso l’altra regione, quella incline alla celebrazione dello spazio. Un cronometro fantastico, il tu, una zattera da cui partire e però da abbandonare, una volta varcata la terra umida di un’altra sponda. «Sapevo quanto un attimo/ era distante al largo e ripartendomi/ dentro un enigma chiuso, non chiesi,/ non desidererei scendere avantieri/ sulle rive del fiume. Forse queste voragini/ vuotati candelieri erano, un ritmo/ che più non ti persegue o vuoti i sentieri/ erano. Dal cammino all’indietro/ sarei disceso volentieri dal letargo/ sul largo ove, seminando, si odono/ i ritmi di ieri, ma simulando,/ secondo te era vero uno sguardo. // Non si poteva avere prossimità di questi rimedi». I versi di Calogero discendono, pur entrando in biforcazioni e viottoli e gallerie e strettoie della immaginazione, in una calma paradossale, minuta e sottile, in una scena apparentata sempre con una precisa comunicazione morale. Morale è la

natura che si spettina sul corpo; morale è Marzo, così bigio in fondo al pozzo; morale è ogni fenomeno che mette in dialettica gli esseri animati e quelli non animati, fino a conferire, per il loro tramite, la verità dei fatti. «Tu sei due volte splendente / sotto il giro del sole […] e questo più volte / avvenne a settembre […]». Epifanie in corsa, lungimiranti sorpassi del pensiero, ascese della lingua verso lande di maiuscolo incanto. C’è una parte di muro, nella casa natale di Melicuccà, rovinata in un angolo dai segni dei fiammiferi che Calogero sfregava per accendersi le sigarette. Forse, annientare il tempo tramite la poesia è un Lorenzo Calogero in Piazza Duomo movimento affine a quell’attrito a Milano, nel 1954 sulla parete, attrito da cui è naturale insorga una fiamma. Forse, è sempre una reazione il principio da cui ha inizio la verità. I versi sopracitati sono estratti da “Lorenzo Calogero - Dai quaderni del 1957”, a cura di Lucia Calogero, Comune di Firenze, Assessorato alla Cultura, 2006. Tra gli altri testi che di seguito compariranno, alcuni sono tratti da copie di quaderni manoscritti inediti risalenti al 1936, consegnate al Gruppo Sperimentale di Villanuccia dal fratello del poeta, Avv. Francesco Calogero, e trascritti da Arianna Lamanna in occasione della tesi di laurea in Estetica sul poeta Calogero, presso l’Università di Firenze. Le poesie tratte dalla raccolta Quaderni di Villa Nuccia sono state edite nel 1962 nel primo dei due volumi di Opere poetiche apparsi presso l’editore Lerici. Si ringrazia il Gruppo Sperimentale di Villanuccia, in particolare nella persona di Nino Cannatà, per la possibilità offerta alla sottoscritta di accedere al materiale, compreso quello inedito proveniente da Avaro nel tuo pensiero del 1955, già visibile sul sito www.lorenzocalogero.it. Un ringraziamento finale va a Michelangelo Zizzi per avermi fatto scoprire, un giorno, il nome di questo Poeta.

Carla Saracino


*** La migliore cosa proprio per giudicare dell’essenzialità di una certa poesia, delle sue immagini, è di studiarla nelle righe della sua continuità di pensiero. Ciò che non concorre a rendere più chiaro l’unico pensiero del cui suono deve vibrare il suono e la metrica della poesia, deve essere giudicato inessenziale. Così ci sembra che la maggior parte della poesia pura, in cui alcuna continuità non è visibile essendo per lo più una serie ingiustificata di interrompimenti senza una linea ed una direttiva che possa essere giustificata ed appoggiata dalla logica, deve essere giudicata inessenziale e perciò stesso arbitraria e quindi non poesia. Tutto al più per essa si potrebbe dire, che solo le immagini distaccate, di cui si compone ogni singola poesia, prese singolarmente sono poetiche, rappresentanti di uno stato poetico molto indeterminato persino nella coscienza del poeta, il quale non avendo visto bene nella sua stessa coscienza le ha abbandonate così, rappresentanti esclusive di un mondo frammentario.

*** 20-Marzo 1936 Bellezza sovrumana alza in te i fianchi e d’ardere desidera tutto il giorno Noi nel nostro lavoro di poesia non facciamo altro che cercare di riattivare la scintilla del pensiero che in noi non par spenta perché ci dia riposo nel suo splendore sovrumano molte parti di me sono nel dolore infeconde alla poesia

*** Bisogna ritornare ai più piccoli valori morali ed edificare su di essi - se si vuole ricostruire secondo un modello di salvezza il mondo e far sì che esso adesso sia uno specchio di salvezza. […] Del pari la poesia se vuole essere veramente poesia, e non fare cioè il suo tempo come tutte le altre cose umane che dopo un periodo più o meno lungo si estingua decadono e muoiono Si deve guardare dal fare il benché minimo torto alle cose che la precedono ed in un certo senso la generano, se non vuole esporsi a sicuro rischio di morte. E quali cose precedono il mondo poetico se non gli effettivi valori umani, quelli cioè che hanno una solida ed indissolubile esistenza da per sé stessi cioè autoctonamente, essendo essi niente altro che raggio di Dio? […] Perché tutte le nostre cose siano durature ed abbiano un carattere di eternità come noi aspiriamo. […] Ma in quale coraggio in quale forza noi recideremo e butteremo lontano da noi, quello la cui esistenza dà a noi un miraggio di cosa eternamente e non peritura che noi potremo raggiungere? Come mai dunque rinneghiamo la nostra fede anche se la nostra debolezza ci consiglia di non metterla in pratica. Dai quaderni del 1936 - inediti -


Erano rose d’inverno

XXVI

Erano rose d’inverno per te messe in disparte che per un piccolo uragano abbellirò stasera. Quanto puoi, se le nuvole sono folli, non metterò a soqquadro. Un piccolo quadro triste era di fiori, quanto io sono per un silenzio puro felice che naufraga verso di te ora nel buio.

Tu non fai che amarmi. Potevi socchiudere, socchiudermi gli occhi. Ma in sì rossa del color di un quadro era una sera. Molte volte ho visto non veduta, cambiata in due la tua sera.

Da “Avaro nel tuo pensiero”, 1955 - inedito -

III Sceglievo poche cose e questa vita dall’arsura del ponte era cosí proclive; ma non volevo allontanarmi dai luoghi amati. Sceglievo fra due rose rosse e tu, primula, forse mi sai dire come soavemente avvennero le contese, prima che si presentasse in luogo di un luogo amato la faccia lungimirante cortese di Dio ….

Non domandare del lento discendere tuo a settembre. Questa stella avvizziva in fondo al pozzo, e la tua lugubre contesa era distesa. Ma non dirmi più che hai e se marzo è così bigio in fondo al pozzo. Pure erano rose e rose e cose e colori da morire quando era lento marzo e dietro un cipresso era un nastro mutilato alla campagna. Così presso a una nube era così prossimo il suo vero e il suo lento discendere era un numero a settembre. Ora potevi scegliere salire e con gioiosa giovane fronte alla fronte tua morire. Ora riposa, riposa al largo. Hai stanche le iridi …. Porta l’impronta odorosa del sole l’aurora alla campagna ….

XVI … Ma passeggiando di nottetempo odo questo cinguettio e un’allodola è come una fronda, una luce calata dal desiderio del cielo. Ma, vedi, sono costretto anch’io e ai piedi, umile, è una tomba e quando spira vento autunnale sono vento anch’io.

CLIX ho rubato un filo di capelvenere e il suo gambo è dolcissimo, ho sentito quel che mi trattiene. Da “Quaderni di Villa Nuccia” (1959-60)


XCIII

CLIII

Forse dirimpetto all’essere non erano di passaggio le favole

Oggi fra i faggi tu avanzi attonito

e tu dai vascelli cadevi nel letargo nel suono di quelli che sanno essere. Ma una sera era vista come un suono nel largo dove io non potevo essere e una novella crescita o una nascita si trastulla. Ma un ramo smosso! Tu sapevi le pietre dove io, non visto, non ero che nulla. E basta parlare per persuaderti. Un’allodola o una novella o un’antica donzella era sorta dal fango, dal nulla dove non è più possibile persuadere. Tu eri triste come prima.

Un silenzio è svelto o dipinto come un lapis o meno come l’inchiostro.

CXVII Ma sapevo i morti: erano atoni ardui colori. Ma poi un golfo era dentro un plenilunio o un’ala. Atomi brevi erano, era pure il volo di una colomba; ma sapevi del dissidio di questo cimitero antico. Ma non oscillare; gracile nel segno era un che di antico o bisbiglia quando qualcuno era immoto si muove o sbaglia. Su un peduncolo una gemma era immota nei suoi colori; ma poi fu il vero; fu esattamente il vero.

CCXXXVIII Ma ora è ombra e acuminato il canto. Io sapevo di quella parte di te che chiamava un’onda sognante non vera. Ma poi ritornarono i segni

Sapevo la tua sagoma a matita. Si stringe in silenzio la sagoma rettilinea della vita. Dubitavo di essere quando per nera seta o gialla il dubbio era poco. Da “Lorenzo Calogero - Dai quaderni del 1957”, a cura di Lucia Calogero.


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