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LORENZO CALOGERO PENSIERI E POESIE, IL

SILENTE

CANTO

DI

UNA

po tempo di silenzio e disinteresse è trascorso, a parte sporadiche e clamorose recensioni, si ricordi su tutte l’eroica e pressoché rara azione culturale-editoriale compiuta dalla Lerici editori che ne pubblicò, seppure postumi i due divenuti introvabili, storici volumi di Opere poetiche nel ’62 e nel ’66. Storici perché costituiscono un passaggio ancora determinante per l’opera del poeta Calogero, la pubblica-azione della Lerici, si pone di fatto tra la fine della disperata vita di un poeta e l’inizio di una vergognosa attesa per la salvezza della sua poesia. I manoscritti sono costituiti per lo più da liriche, accanto alle quali di particolare interesse risultano le riflessioni giovanili che Calogero definisce Pensieri di un poeta. Infatti, in tutti i quaderni s’incontra una struttura come in diari poetici, su cui ogni giorno il poeta scrive liriche e annota pensieri sull’arte, la filosofia, la poesia e in genere sull’espressività di pensiero, sollevando problemi di origine spirituale e morale.

VITA

a c u r a d i A r i a n n a L a m a n n a

Av v e r t e n z a a l t e s t o La presentazione del gruppo di poesie e riflessioni del poeta Lorenzo Calogero, sono estratte da copie di quaderni manoscritti inediti risalenti al 1936, consegnatoci1 dal fratello del poeta Francesco Calogero, e Dai Quaderni del 19572 di recente trascritti e curati dalla nipote del poeta Lucia Calogero. Per tutti gli scritti dell’autore che s’incontreranno durante la seguente lettura, saranno utilizzate note, che indicano i quaderni e i titoli dei volumi o delle raccolte poetiche edite e inedite, con le seguenti sigle seguite dalla pagina di riferimento: Q ’36 ( Quaderni del ’36), PT (Parole del tempo), CD (Come in dittici), MQ (Ma questo…), SR (Sogno più non ricordo), Q ’57 (Dai Quaderni del ’57), QVN (Quaderni di Villa Nuccia), ATP (Avaro nel tuo pensiero) e OP I-II (Opere poetiche volume I-II). Non è stato facile tagliare in lembi quest’opera poetica che è tutta una sola continua poesia, parallelamente ad un solo e crescente ragionamento. La struttura dell’opera spesso in forma frammentaria costituisce un problema irrisolto sul “sistema poetico calogeriano”, a cui si aggiunge una generale difficoltà di lettura, (quando s’incontra nelle trascrizioni dei manoscritti “…” si vuole indicare parole trovate illeggibili) a causa del logorio del tempo trascorso su pagine di numerosissimi quaderni piuttosto che, come sarebbe stato più giusto, dall’uso proprio dovuto alla lettura di questa cospicua produzione artistica, e ciò rende ancor più evidente l’urgenza di un adeguato intervento di studio e di tutela. Ancora numerose sono le pagine mai lette, mai trascritte, trop-

Bio-bibliografia di un poeta semi sconosciuto Lorenzo Giovanni Antonio Calogero nasce il 28 maggio 1910 a Melicuccà, un paesino oltre i piani che sovrastano Bagnara Calabra, immerso nei boschi di uliveti secolari. Il padre Michelangelo era figlio di notaio e la madre Maria Giuseppa Cardone figlia di farmacista. Lorenzo è il terzo di sei fratelli. Inizia le scuole elementari a Melicuccà e conclude la sua prima formazione scolastica a Bagnara C., piccolo paese di pescatori, a picco sulla suggestiva Costa Viola. Amava leggere moltissimo da ragazzo, spesso andava in biblioteca e una notte finisce per restare chiuso in quella delle Magistrali, il custode dimenticò di quel ragazzo assorto nella sua amata lettura e lo chiuse a chiave dentro. Trova nei Canti orfici di Dino Campana la sua bibbia, c’era una copia tutta annotata dal giovane Lorenzo nella sua stanzetta di Melicuccà, dove furono trovati, oltre alle centinaia di quaderni, numerosi libri in rare prime edizioni: “Tutto Kierkegaard, quasi tutto Sartre, i testi più importanti di Croce, quelli di Guido De Ruggiero, di Heidegger, Einstein, Ugo Spirito, Nietszche, Jaspers, Wininger, Mounier, 200

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Schopenhauer. Testi fondamentali della poesia tedesca, francese, russa, inglese: Holderlin, Novalis, Hofmannsthal, Rilke, Valery, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Majakovskij, Joice, Pound, Eliot. Tutta la poesia italiana, tutto di Ungaretti, Montale, Gatto, Sinisgalli, Betocchi, Luzi, De Libero, Tobino, Quasimodo, Campana, le antologie e le poesie di Falqui, Cardarelli, Saba, Pavese, Parronchi, Zanzotto, Fallacara e tanti altri (…). Pochi invece i testi di narrativa e solo di particolari autori: Kafka, Pavese, Thomas Mann, Stefan Zweig, Gide, Tolstoi, Proust, Dostojevski, Camus. Troppi nomi, ma non ho potuto farne a meno” 2. Ma la sua passione letteraria e poetica venne limitata dalla decisione della famiglia che lo voleva medico “sistemato”. Nel 1930 la famiglia Calogero si trasferisce a Napoli dove Lorenzo intraprende gli studi universitari, dapprima si iscrive ad Ingegneria, poi interrompe per iscriversi l’anno successivo a Medicina. Nel periodo universitario scrive buona parte dei versi che poi intitolerà 25 poesie, Poco suono e Parole del tempo, ma il suo stato di salute comincia a peggiorare manifestando le prime patofobie. Nel 1934 la famiglia Calogero rientra in Calabria. Lorenzo, per un breve periodo interrompe gli studi, nel 1935 riprende l’università e riceve dalla Reale Accademia d’Italia, una sovvenzione premio di L. 1000. Il giovane poeta, dopo aver letto la rivista Il Frontespizio, scrive a Piero Bargellini e Carlo Betocchi, ai quali invia le prime raccolte di poesie, con lettere di questo tenore:

aggrava la sua salute psichica, crede di avere tutte le malattie che man mano apprende dai suoi studi. Nel 1936 pubblica a sue spese la raccolta di liriche intitolata Poco suono, presso Centauro editore, Milano, che aveva già ospitato nel 1935 Sedici poesie in un volume collettivo dal titolo Dieci poeti. Il sistema poetico di Calogero prende forma e così descrive la sua scelta di vita in una breve poesia di quest’invenduta raccolta: Essenza del poeta Sono il solitario origliere di ciò che dorme. Perciò scrivo con tacita mano, l’occhio rivolto ai sonni. (PT 96) Nel 1937 Lorenzo Calogero si laurea in Medicina e Chirurgia, consegue a Siena l’abilitazione per l’esercizio della professione. Subito riscrive a Il Frontespizio ma non riceve alcuna risposta, si interrompe la corrispondenza con Betocchi. Pare che Calogero in questo periodo voglia desistere dai suoi progetti letterari. Dal 1938 al ‘39 torna a Melicuccà come medico, ma ha un rapporto con la medicina più da malato che da medico, egli stesso scrive in una lettera, “…son vissuto dentro la mia professione come se scrivessi versi”. Esercita la professione di medico condotto per numerosi paesini della Calabria, non rimane mai nello stesso posto, “…non mi trovo…” scrive alla madre a Melicuccà, in un costante e struggente rapporto epistolare, lettere che parlano dei luoghi e della gente della Calabria che ogni giorno conosce, ma rammaricato scrive “…le visite sono pochi quelli che me le pagano…non è da farsi eccessive illusioni a riguardo…”. Cela una profonda depressione che nel 1942 sfocia in un tentato suicidio sparandosi in direzione del cuore, viene salvato in tempo. Continua a fare il medico e riprende a scrivere poesie su piccoli quaderni, la madre, come solo una madre amorosa sa fare, lo incoraggia e lo sostiene. Nella primavera del 1944 inizia una lunga corrispondenza epistolare con Graziella, una studentessa di Reggio Calabria, si fidanzano, ma dopo poco tempo si lasciano. Nel suo paese si

Ill.mo Signor Direttore, mi permetto di inviarLe alcune mie poesie. Se Ella crede di poterne pubblicare qualcheduna sul Frontespizio la pubblichi con uno pseudonimo che inventerà Ella stesso: un nome qualsiasi; altrimenti… niente. In ogni caso Le sarò grato se mi vorrà dare un giudizio su quanto Le invio. Non pretendo una lunga risposta. Mi basta semplicemente un si o un no. (…) Mi creda Suo dev.mo Lorenzo Calogero. (Q ‘36) ma non riceve alcuna risposta. Non si arrende e spedisce, invano, le sue poesie a premi letterari e a numerose riviste. Lo studio della medicina 202

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chiude nei libri per cercare conforto, legge filosofia, biologia, psicologia, teologia, poesia, matematica, da cui attinge per ampliare le conoscenze che faranno parte del suo sistema. Dal 1945 al ‘50 abbandona il lavoro per dedicarsi alla scrittura, ma il suo stato di salute peggiora a causa di disturbi polmonari. Sono gli anni in cui compone le poesie poi incluse in Ma questo… e Come in dittici. Riprende a scrivere a numerosi poeti, critici, editori, cerca un confronto intellettuale prima ancora di una recensione, ma risponde solo un sordo silenzio. Nel 1954 ottiene l’incarico di medico condotto a Campiglia d’Orcia, in provincia di Siena, in questo periodo scrive furiosamente in soli undici giorni, Avaro nel tuo pensiero ancora inedito. L’11 ottobre dello stesso anno invia due dattiloscritti all’editore Einaudi presso la sede di Milano, accompagnati da una lunga lettera, ma non riceve nessuna risposta. Nel novembre successivo parte per Milano per chiedere direttamente notizie, ma lo informano che i dattiloscritti sono sempre rinviati alla sede centrale di Torino. Si precipita a Torino per incontrare personalmente Giulio Einaudi, ma quando giunge nella metropoli settentrionale, non riesce ad incontrarlo perché fuori sede, la redazione non ha ricevuto ancora i suoi scritti. Di quel viaggio a Milano rimangono due fotografie che ritraggono il poeta mentre stringe fortemente la sua borsa, solo, smarrito e timido tra i piccioni della grande piazza del Duomo. Le sue nevrosi si aggravano dall’uso sconsiderato di barbiturici, mangia pochissimo, si sostenta soprattutto di caffè e sigarette. La poesia lo ha completamente posseduto nel dolore d’una esistenza delusa. Nel settembre del ‘55 esce Ma questo… pubblicato ancora a sue spese, dalla casa editrice Maia di Siena. Invia numerose copie con richiesta di recensione anche a Betocchi, Vallecchi e Sinisgalli. Sinisgalli dopo aver letto quei versi, ne rimane fortemente entusiasta. Da questo momento inizia una profonda amicizia tra i due poeti che prosegue con un fittissimo rapporto epistolare. Nel gennaio del ’56 pubblica Parole del tempo (che contiene 25 poesie, Poco suono, Parole del tempo) dove il poeta nella sua unica e magnifica premessa scrive:

spressività, perché se personalmente si è quasi direttamente interessati alla maggiore evoluzione dell’espressività, si auspica proprio per la vita una sempre più crescente evoluzione. Viene intanto dimesso dall’incarico di medico a Campiglia d’Orcia con una delibera comunale. Nel viaggio di ritorno in Calabria, si ferma a Roma per conoscere personalmente Sinisgalli al quale consegna Parole del tempo. In quest’occasione Sinisgalli annuncia di scrivergli la prefazione a Come in dittici, che uscirà nel settembre del 1956, sempre da Maia. È un periodo della sua vita molto oscuro, a causa di un peggioramento delle sue nevrosi Calogero viene per la prima volta ricoverato nella casa di cura Villa Nuccia a Gagliano, una frazione di Catanzaro. La patologia riscontrata indica una tendenza depressiva e malinconica che sfocia in patofobie di origine reale e immaginaria. Tenta per la seconda volta il suicidio recidendosi le vene dei polsi. e sembra un sogno, ma non ho nessuno. O anima, o madre dei poeti e al tuo benigno regno, io poveruomo, forse nessuno. E languisco nelle tenebre che mi ha lasciato il tuo smaltato smalto; io due volte, pronto, sul punto di uccidermi e anche questo mi assale in dubbio. I detriti potranno fare povere cose miracolose e questo mi sale al labbro, ove io avevo un punto povero un punto povero di poeta… (QVN 402) 3 Vuole essere dimesso e scrive una lettera a Sinisgalli chiedendogli di aiutarlo ad uscire dalla clinica, Sinisgalli scrive alla madre, ai fratelli e al sindaco di Melicuccà. Ottiene di rientrare a Melicuccà, ma il 9 settembre muore la sua amata madre. Le condizioni del poeta si aggravano. Sinisgalli intanto si prodiga a farlo conoscere e gli consiglia di inviare le poesie al “Premio di Villa San Giovanni” dove sarà onorato nel 1957

…principalmente per chi oggi presenta le sue poesie e tenta di dare una ragione alla vita tramite la verità e ciò che la precede, cioè l’e204

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con il primo premio sulla sua opera, la giuria è composta da: Sinisgalli, Falqui, Selvaggi, Angioletti, Doria e Solmi. Ma dopo niente si muove, torna a cercare disperatamente nuovi editori, ma è circondato solo da una ingenerosa incomprensione editoriale e critica, forse fu questa disperazione che lo consegnerà ancora una volta a Villa Nuccia, dove resterà in cura per tutto il 1958 e i primi mesi del ’59. Le sue patologie peggiorano, ma la sua più grande nevrosi resterà sempre l’amore, a Villa Nuccia s’innamora di Concettina un’infermiera della clinica, alla quale dedica numerosi versi d’amore. In quest’arco di tempo la sua irrefrenabile necessità di scrivere s’intensifica, compone i versi poetici che, in parte, verranno pubblicati postumi a cura di Roberto Lerici, colui che li nominerà i Quaderni di Villa Nuccia, considerati la più alta produzione letteraria di Lorenzo Calogero. Nel 1960 invia un suo manoscritto presso la casa editrice Mondadori, accompagnato da una lettera-saggio di 20 cartelle dattiloscritte a Vittorio Sereni, in cui teorizza e descrive il luogo della sua poesia:

Ma non m’interessa piú della vita. Oggi mi curo della morte. Fra poco e alla svelta morrò, perché anche tu con me sul lago verrai domani. E la pelle è adunca o si screpola oppure sbadiglia. Con te tergiversare non vale una lunga pena. Poco mi interessa ella –; ora vergine sbadiglia e il sangue è fluido o è la medesima cosa. Tu come un giunco fresco un narciso ai messo alle nari. (OP I 405 in fac-simile) Il corpo senza vita del poeta Lorenzo Calogero viene trovato il 25 marzo del 1961 spirato presumibilmente tra il 22 e il 25 nella sua villetta di Melicuccà.

il titolo che avevo pensato per un mio libro di poesie (…) avrebbe dovuto essere quello di “Città fantastica”, intendendo con tale titolo di designare la possibilità di una capacità espressiva che avesse quasi del fantastico, essendo intercomunicante in tutti i punti di essa. Si reca a Roma per incontrare Sinisgalli che gli fa conoscere il critico Giuseppe Tedeschi, il quale in seguito appronterà il primo volume di Opere poetiche dove nella famosa premessa, che forse ha destato troppa attenzione all’uomo malato piuttosto che al poeta, il critico racconta del loro incontro, il doloroso e mortificante ricovero del poeta al Policlinico di Roma, dal quale dopo due giorni, Calogero se ne allontana senza alcun preavviso per rifugiarsi definitivamente a Melicuccà. Nella sua casa vive l’ultimo anno da solitario e sventurato poeta dove, anziché prendersi cura di sé, decide solamente di consacrare alla poesia la sua restante vita, mentre corteggia la morte. Nell’ultima pagina di un notes lasciato aperto sulla sua scrivania, è stata trovata, quella che forse fu la sua ultima lirica intitolata Inno alla morte.

Bigliettino trovato accanto al corpo senza vita di Lorenzo Calogero Ai fini cronistici è giusto rammentare le vicende che seguirono immediatamente dopo la clamorosa scomparsa del poeta, un interesse in ritardo, da parte di tutta la cultura italiana che d’improvviso si rese conto di aver perso un grande poeta senza aver fatto nulla per lui, si

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Note

creò un importante dibattito sui giornali e le riviste del tempo. Centinaia di articoli della stampa italiana ed internazionale lo definiscono “il nuovo Rimbaud italiano”. Esplode il “Caso letterario Lorenzo Calogero”, il “poeta maledetto” di una provincia meridionale. Nel fascicolo dell’aprile 1961 di Europa Letteraria, Giancarlo Vigorelli pubblica alcune sue poesie con note di Leonardo Sinisgalli, il poeta amico di Calogero, scrisse una poesia che registra quel senso di colpa comune a tutti coloro che ignorarono il poeta in vita.

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Quando Nino Cannatà mi parlò per la prima volta di L. Calogero, avevamo in mano solo una piccola antologia di poesia, comperata su una bancarella di libri usati, il poeta era menzionato solo con una poesia e una sterile nota. Sentimmo subito la necessità di saperne di più e la difficoltà nel reperire materiale di studio sul poeta, alimentò il desiderio di creare un’attività di recupero e divulgazione artistica, nasce così il “Progetto Calogero” dopo aver fondato un’associazione culturale (non a caso) denominata Villanuccia. Le copie dei quaderni del ’36 a cui si fa riferimento, ci sono stati consegnati nel 2001 dall’Avv. F. Calogero incontrato a Messina, e costituiscono materiale importante per la conoscenza dell’opera giovanile del poeta. Il suo dono è stato per noi un importante gesto che ha avviato il lavoro di ricerca artistica-letteraria del gruppo, con un’azione divulgativa sul poeta che sperimenta l’interazione orchestrale delle arti con questa visionaria poesia, allo scopo di diffonderne l’opera e di sollecitarne un completo recupero. 2 G. TEDESCHI, Prefazione a L. CALOGERO, OP I, p. XXXIX, Milano, Lerici, 1962. 3 Questa poesia si trova iscritta come epitaffio sulla sua tomba a Melicuccà. 4 L. SINISGALLI, Quale vergogna per voi (…), da “ L’Età della Luna ”, Milano, Mondadori, 1962.

Quale vergogna per voi / amici vittoriosi, splendenti, / quale scherno la vostra boria / la fortuna, la miseria / d’un uomo inetto, innocente! / Lorenzo Calogero da Melicuccà / è venuto a chiedervi pietà / in nome della poesia. / Come un cane infetto / ha raspato alle vostre porte, / nessuno gli ha aperto. / Oh i meschini crucci / per il lauro che appassisce / intorno alle tempie secche! / Sono più vispe le sue pulci / contano più le sue parole / perdute, insensate, fragranti / dei fiori scelti con i guanti, / delle stelle irritanti 4. Tutti ora scrivono sul poeta anche il premio Nobel Eugenio Montale disse “…quel che sembra certo è che …fu dotato di un reale temperamento poetico ed è quindi da escludersi un abbaglio da parte di coloro che oggi vogliono rendergli l’onore che gli fu negato in vita…”, Giuseppe Ungaretti disse “Lorenzo Calogero con la sua poesia ci ha diminuiti tutti”, Mario Luzi disse che “…le poesie di Calogero sono un episodio notevolissimo della nostra storia”. Nel 1962 esce il primo volume di Opere poetiche, in un’elegante collana sui Poeti europei della casa editrice Lerici a cura di R. Lerici e G. Tedeschi, che contiene: Come in dittici e gli inediti Quaderni di Villa Nuccia. Il clamore dura quasi ininterrotto fino al 1966, quando, quasi subito dopo la pubblicazione del secondo volume di Opere poetiche, a cura di Roberto Lerici con “ Ma questo…” e l’inedito “Sogno più non ricordo”, si attendeva il terzo volume che avrebbe dovuto restituire al pubblico l’opera omnia di Lorenzo Calogero, ma in seguito al fallimento della casa editrice Lerici, l’ambizioso progetto non fu mai portato a termine. Bisogna anche concludere che il caso restò confinato in quella stagione, legato alla figura più del poeta che alla sua opera. 208

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Pe n s i e r i d i u n p o e t a Intitolo questo volume: pensieri di un poeta. A taluno potrà sembrare un titolo sciocco, a taluno troppo superbo. Lo intitolo così perché il principale obbiettivo di questi miei pensieri è la poesia riferita a tutte le altre energie dello spirito che possono farla e perché senza levate di falsa modestia o di stupida superbia credo di essere un poeta.

19 marzo 1936 (…) La migliore cosa proprio per giudicare dell’essenzialità di una certa poesia, delle sue immagini, è di studiarla nelle righe della sua continuità di pensiero. Ciò che non concorre a rendere più chiaro l’unico pensiero del cui suono deve vibrare il suono e la metrica della poesia, deve essere giudicato inessenzialeCosì ci sembra che la maggior parte della poesia pura, in cui alcuna continuità non è visibile essendo per lo più una serie ingiustificata di interrompimenti senza una linea ed una direttiva che possa essere giustificata ed appoggiata dalla logica, deve essere giudicata inessenziale e perciò stesso arbitraria e quindi non poesia. Tutto al più per essa si potrebbe dire, che solo le immagini distaccate, di cui si compone ogni singola poesia, prese singolarmente sono poetiche, rappresentanti di uno stato poetico molto indeterminato persino nella coscienza del poeta, il quale non avendo visto bene nella sua stessa coscienza le ha abbandonate così, rappresentanti esclusive di un mondo frammentario. …

1954. Milano, Lorenzo Calogero 210

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Intanto se nessun uomo è stato il costruttore, dominatore del proprio destino è questo a cui tende instancabilmente ed indefessamente ciascun uomo – e del destino di ogni uomo è quella parte della sua esistenza che si svolge attraverso atti di libertà spirituale – il resto appartiene alla disgregazione e alla dissoluzione comune ad ogni forma e genere di esistenza. (…) l’arte ha il compito di svelare il destino della natura e il significato recondito delle cose.

nel periodo del suo sviluppo quella forza, quel progresso, quel senso di libertà individuale sì caro alla poesia di ogni genere e di ogni forma e che rappresenta di esso come il senso della maschilità che in un campo limitato si rivolge all’amore delle cose e delle forme – a piegarsi al senso morale, cercare di trovare in esso le sue radici, il suo centro ed il suo contenuto –; dimostrandosi purtroppo inesistente il mito di una poesia che per sé stessa rappresenta una superstruttura morale; mito che nella sua essenza stava a rappresentare una natura mostruosa e l’origene mostruoso della poesia stessa – Non è (anzi in nessun modo potrebbe) il senso morale a doversi piegare alla poesia acconsentendo ai fini mostruosi di quella – ma è la poesia che deve insistentemente tendere, sforzarsi di trovare in quelle le sue radici il suo, avendo già dato il senso morale tutto quello che voleva dare alla poesia, contenuto ed il suo centro saldo ed unitario – e senso morale massimo è quello che ci induce e ci forza ad accettare e ad ammettere la Rivelazione – Senza una Rivelazione nessun senso morale è possibile e tutto rivelandosi quello che di esso si dice prima o dopo retorica – Così la poesia quando è vera poesia e sempre moralissima e lo sviluppo nient’altro che di problemi morali i quali si dimostrino morali in rapporto colle cose e soprattutto colla Rivelazione, nessuna più alta fiducia potendo giacere in noi di quella che ci viene … grandissima posta fuori e al di sopra di noi. – Tutto ciò sembra fatto proprio per il nostro bene, dimostrandosi pure ci appare con il carattere della necessità ed è sommamente Vero – …

Questa presunzione, che per molti è già una certezza, consente ancora di parlare dei prodotti intellettuali come uno dei massimi beni.

1 aprile 1936 Poesia è solo quello dove noi siamo riusciti in modo perfetto senza macchia d’ombra – ad esprimere la nostra aspirazione e diciamo pure il nostro mondo morale; quella, dove tutte le cose sono tenute riunite e legate da un segreto che poggia sulle radici più intime della nostra coscienza e sul nostro senso di responsabilità morale. Si capisce da questo come la poesia non sia disgregazione ma coesione; composizione unitaria intorno a un centro di sanità morale, quella sola che può accogliere ed accettare la nostra coscienza – Si comprende altresì che come il senso morale essendo superiore e precedendo in ordine di tempo lo sviluppo del senso poetico nella nostra coscienza, come debba essere quest’ultimo – avendo già ottenuto esso dal primo già pur 212

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Il poeta, nei momenti di gioiosa intuizione lirica appare come un ponte messo fra Dio e gli uomini- Egli si rivela come il volto delle cose nella loro primitiva bellezza. …

ci avevano svelato, noi non facciamo altro che fare la professione di imbianchini, di modellare la materia morta e vizza, imperfetta di fronte ad un’altra più bella più pura verso cui noi ci sentiamo chiamati, ma che purtroppo preferiamo dimenticare – esclusivamente per un nostro scopo pratico, cioè per dare finitezza e compitezza ad un nostro pensiero – (ma tutto ciò in parte può essere scusato pensando che così facendo l’artista non fa che esercitare un mestiere a cui è chiamato dalle sue necessità pratiche e dai suoi bisogni). Perché bisogna convincersi che se poesia è amore nella sua forma più pura per cosa da noi massimamente amata – pure noi non possiamo che amare pienamente una sola cosa è questa è Dio – Qualunque cosa che sia pure per un lievissimo grado da lui si differenzia, qualora noi la amassimo di un amore tale da anteporre quella cosa a lui è cosa peccaminosa – Bisogna convincersi che la poesia si trova alle origini della santità – Conquistare la santità è conquistare di colpo tutta la poesia dei tempi passati, presenti e futuri, abbracciare con un calmo sguardo l’universo e riferirlo all’essenza sublime – all’immagine di Dio. … Il poeta è colui che comunica colla sua poesia un tremito di commozione a tutti gli altri individui. … Nella poesia, voler cantare un simbolo è lo stesso che eludere lo stesso problema poetico. Lo stesso porre la materia del canto come simbolo è un affermare che essa non ha realtà in noi, una realtà a cui infinitamente sinceramente si creda.

Perfezione – letizia verso il cielo! … Le cose sono sempre le stesse – È il tono che noi diamo loro che le fa profondamente variare – Tono che va dalla religiosità sincera alla profonda empietà. …

2 aprile 1936 Foglio che è finito col flusso della vita quasi al soffio del vento rapido si chiude. Domani se ne aprirà un altro dal quale se saremo buoni potremo estrarre un nuovo più diffuso bene. … Infatti molte volte consegnando la nostra parola alla carta, sentiamo nel medesimo tempo che la consegniamo che quella non è espressione di quello che dovrebbe essere il nostro atto e che praticamente non è – perché esso chiamato da un’origene superiore non si adegua affatto a quello che noi stiamo per scrivere. Insistendo in quello sforzo di esprimere compiutamente in un quadro quello che le nostre parole in una subitanea fulgurazione

Nella poesia non c’è distinzione fra atto e parola – ma parola ed atto coincidono – ciò al contrario che consentire a dare nome di 214

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24 giugno 1936 Le nostre poesie sono fatte dei nostri rimpianti, dei nostri peccati – Rimpianto di non essere simili alla terra, rimpianto di non essere uguali a Dio – rimpianto di essere sempre … ed inferiori all’idea assoluta di bellezza e di perfezione … Solo chi è capace di rinnegare siffatti rimpianti, siffatti peccati, merita l’aureola della santità che è cosa che trascende ogni limite umano – Ciò quasi sta a significare che poesia e santità si respingono. Non può esistere un santo se non nasce anche un nuovo poeta.

poesia a tutte quelle cose che non sono poesia – pone il problema poetico, in un punto talmente alto di difficoltà da far supporre che la vera poesia non la raggiunge nessuno, perché irraggiungibile, o almeno irraggiunte sentiamo nella nostra anima quelle condizioni che dovrebbero dischiudercela (e questo è il più grande atto di umiltà che noi possiamo fare alla divinità che adoriamo) – Perché essendo la parola sempre un nostro atto umano e pratico – difficilissimamente (noi anzi riteniamo che sia mai) però è parola cioè ispirazione assolutamente lirica fuori di qualunque retaggio umano. … Dall’avarizia

25 giugno 1936 Nasce dall’amore il nascimento per le grandi opere – … La poesia è la voce della passione – In tanto a noi è concesso dire qualche parola, in quanto noi sentiamo profondamente quello che diciamo. … Scrivendo e riscrivendo altro non faccio che dire la mia passione. Posso io cercare nella poesia una qualche dolenza o lenire le mie arsure?

Dall’avarizia, dalle lussurie della mente salvatevi uomini di governo e solcate ratti per l’arduo oceano. … Nella poesia trovo le origini della pace e della calma. dopo che conosco lei non voglio conoscere più nessuno.

21 giugno 1936 Le nostre migliori poesie, non sono altro che sillabe incomplete, dinnanzi alla bellezza del cielo che la nostra volontà aspira. … Chi mai mi comprenderà e la musica della mia canzone se la trascina con sé il vento?

27 giugno 1936 Ho fatto un brutto sogno stanotte. Mi pareva che una foresta perlata di laghi m’invadesse. Tremuli queruli fanciulli giocavano sul mio guanciale. 216

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29 giugno 1936

12 novembre 1936 La critica è il mezzo con cui si prende più diretta coscienza delle proprie visioni – è un mezzo per cui uno riesce ad eliminare i propri difetti – I più grandi poeti – furono e sono in tutti i tempi i più grandi critici – che dalla coscienza dei loro difetti seppero assurgere al principio … di essi – Anche Dante iniziò la sua carriera letteraria con un’opera di poesia e di critica nello stesso tempo: La Vita Nuova –; dove accanto alla visione poetica messa sempre accanto un’acuta esegesi ed una profonda interpretazione della visione. Onde dal fatto La Vita Nuova che non a torto fu considerata come il primo romanzo in lingua italiana – si può risalire al principio più ampio e di più vasta portata che ogni romanzo altro non è e non rappresenta in fondo se non un prodotto di un profondo accordo fra capacità liriche e le capacità critiche armonizzatesi nella mente di un narratore nella diretta interpretazione della realtà.

Voce muta che mi parli da secoli. … Non c’è nessuno che mi vuol raccogliere. Sono come un chicco di frumento. Vado a casa io stesso.

1 luglio 1936 La poesia tiene in sé racchiusi tutti i principi della conoscenza. … A chi tende alla gloria conviene agire con metodo –; ma per chi aspira alla salute eterna forse giova buttar via ogni metodo. Che altro è la poesia nella grande maggioranza dei casi e con essa tutta la scienza umana se non una …. denunzia di tutta la morale che opprime la facoltà libera dell’uomo?

13 novembre La poesia da noi raggiunta sta a significare il grado della umanità a cui noi arrivammo –; perché è fuori dubbio che la poesia altro non è se non chiarificazione, dichiarazione specifica della nostra umanità che noi vivemmo nella nostra carne – e di cui godemmo i palpiti solo per grazia divina – perché noi non abbiamo nessun potere sulle cose a noi attorno e su noi stessi – essendo avulsi dalla realtà e da noi stessi – Sotto questo senso è possibile dire che ogni umanità è divina.

7 luglio 1936 Quelli che veramente ci amano, non ci toccano sono timidi con noi. Quando vedrò infiorarsi sulle ali leggere la mia più alta speranza? … Bello vuoi essere come i tuoi fratelli? giuoca nel sole. … Senza un principio di assoluta moralità non si può essere grandi, il che significa quanto dire veri poeti.

Grande poesia è solo quella che racchiude una grande verità statica, ferma, dal punto di vista umano. 218

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Le povere sillabe poche teneva che si potevano dire.

Io ho imparato, studiando i moti del mio cuore, il metodo della poesia.

Anche nei nostri vaneggiamenti ci sforziamo di risalire ad una grande verità umana. … La poesia è un’espressione di umanità tormentata – profondamente vissuta.

Silenzio attento in suono rimodernò. La nostra maggiore ansia in poesia è quella di giungere alle radici dell’essere, di liberare le cose in suono così come sono. La nostra maggiore ansia è quella di esprimere i palpiti onde noi ci affanniamo a costruire la poesia.

Ogni momento noi dobbiamo avere una voce umana per comprenderci. Non può essere che Dio lasci le nostre sillabe vuote.

Rimaniamo poi ospiti di un banchetto vuoto.

Nel migliore dei casi un libro di poesia altro non è se non un diario dove sono raccolte espressioni di vita profondamente vissuta e sofferta – unificata nei suoi sentimenti opposti e discordi da una fede. – Sotto questo aspetto si deve considerare se si vuole rintracciarlo nei suoi giusti limiti ogni libro di poesia dichiarazione quanto mai sincera …. dei propri sentimenti.

Che io oda la voce del silenzio che tutto sussurra per tremiti per suoni. Il nostro maggiore oggetto pratico si può dire che sia la nostra ansia onde si esprime e palpita in noi la poesia. Questo è l’oggetto della nostra ispirazione.

Noi non vogliamo corrispondere che coll’oggetto del nostro amore. … Poesia si ha, quando avendo un fondo vivo di umanità nel nostro cuore – noi raccogliamo questa nostra umanità e la esprimiamo – Fuori di quei rari istanti in cui ci sentiamo vivere in tutte le più recondite fibre del nostro essere ed in cui raccogliamo e teniamo … ciò che era disperso in noi – non esiste vera alta, autentica poesia.

Che io esprima il palpito della poesia che le più grandi fortune tenta. … A te io mi rendo (come in grembo aperto a te io mi ….) venuto in fiumi dal mare Mi farai sentire dolci suoni verdi palpiti meravigliosi di una bellezza annegante. 220

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Av a r o n e l t u o p e n s i e r o [1955, inedito]

S o g n o p i ú n o n r i c o r d o [1956-58, OP II 265]

Se, da diverse parti, sottintesi i segni divengono quel che sogni e non sai più quale curva lena sia rosea una linea tesa, quale vergine sia pura e ferma ora una stella e, senza percorso, più sopra un pensiero ti sporgi nella medesima ora che improvvisa si rinnovella e ti dette le nudità del sogno,

Sogno piú non ricordo. Erma una luna da l’elleboro traspare. Illanguiditi nascosti occhi erano inumani sguardi su le pallide gote, cosí bene calcolate lungo le strade, quando, querula rinascente a valle, guardi chi nell’ora del giuoco del giorno celeste, libero, non fa piú ritorno e, nascosto, ancora era nell’ora del bosco; e tu giungesti, sola, domani.

l’anima sempre uguale era senza mistero o l’anima puoi perdere alle radici o la semplice nudità era un assolo.

Verde amara si confonde l’eco di un’orma liquida col suo destino nel cavo folle, forse, o solo dentro le tue mani.

Ma perché da parti uguali erme divise non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri sopra i tuoi fiori nella medesima aridità che ora scintilla essa balena e ti accorgi di essere più solo. Avaro nel tuo pensiero, la stessa sostanza arida t’invischia solo per tuo diletto.

Forse il melograno ancora trepido la nuda gioia viva era di un mito. Una deserta costellazione mutevole era e rade le vie del cielo, e tu a lei tanto tacita e vicina eri quanto, per virtú di una sfera, nascosto era accanto al suo, dentro una spira, il moto veloce del deserto celeste nel suo cammino da cui, immota, ella, ora, ti mira.

Erme cinte di cose appaiono già tutte le rose.

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Dai Q u a d e r n i d e l 1 9 5 7

e sulla limpida riva dello stagno il tuo passo è breve. Forse non furono mai vizi i giorni come oggi avviene per nozze e un cristallo violetto ora dorme. Ma era presso un’isola una fontana e tu stanca nel tuo cuore distrutta.

6 marzo III Era una grande mattina china e fuori del tuo silenzio la legge. Poi ponevano giuochi o erano grandi corolle d’albero, perché uno si sentiva più povero

VII Ma da qui a lei sono sospesi i tempi. Ancora solevi udire

Poi fu vero uno sguardo ed uno meditabondo alla fine in due. Io non sapevo ciò che si intersecava su questa ringhiera o era uno ed invisibile che come acqua geme sempre alla tempia.

Ti nascondevi a me per gioco nei modi dell’imitazione dell’amore solevi dire: questa disperata vicenda e un’altra fu in un giorno di grano.

Io guardavo sul tuo glabro lato.

Non seguivi il richiamo non udivi alla gola l’umore odore umile che resta. E poi senza parere più quella fu un’enigma di sole.

VI Ora è rosso sangue e come vino acceso si asciuga. Ma non ti adirare! Così sordo il soffio di un vapore di un mondo dove una luna arde o è gemente. Tu dentro un velo di cristallo o farsi udivo un canto

Il fantastico lume si spegne ti guarda una luce titubando in frantumi

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Ma bene e perché nell’aria vaga – non era forse modesta intirizzita l’aria di legno; ma questo ghirigoro di seta della vita sulle tue dita che passa; ma mobile molle di acqua ti lasciò in frantumi; una giacca di seta era – un paio di scarpe – guarda – sopra una vasca gialla e un foro era intirizzito di seta; l’amarulenza del fiume – una fanciulla dalla cintura in rosso – Ma vedi, non stava bene, non era mobile sulla via –; e si seppe; altri ti guardavano dalle siepi gialle

che una volta ti guardavano, ti mordevi un dito in mezzo alla tua casa, quando morte era o era un desiderato nulla; per cui tu una sera, sulle tue labbra, a una stella mentisti. Ma forse ti cerco e il silenzio era sbagliato da quel profumo che ti veniva a stormo. Forse fu un’insolita vicenda. Una ti stava a lato e un tonfo secco un soffio seguì in gola. Ma tu dritta e a perdifiato e poi un turbine si avvicenda nello spazio.

e silente era il regno della tua pelle e tu eri acuminata in rosso come la tua febbre che splendeva mentre camminavi un pò indietro

26 marzo XI Bianchi passi e la marina attigua. Un’insolita quiete di vivere fra i bianchi sassi. Poteva spegnersi un ricordo di un’altra vita.

ma non più di un rosso era, un colore di seta doppio e giallo; forse era la fortuna che si leggeva alle tempie sui tuoi capelli, sulla città desiderata. Una regione navigava in basso (come fetido era l’odore dei piedi sempre) e un fanciullo si asciugava a mezza strada i capelli. Tu eri pazzo e nessuno ti bada sovranamente tra quelli

Io sapevo i nastri sognanti e un silenzio glabro. Ma un turbine scuote e tu a ritroso lentamente vedevi 226

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11 aprile

XII Odi l’acqua gelida che si avvicina né io potevo sapere altro di te che questa coltre di cenere sopra i vulcani spenti. Il corpo è spettro del nostro pane non più colore o donna o celeste alito. Questo sapore, questa scaltrita innocenza s’avvicina coll’alito del tuo domani. Ma non qui su questa rude scorza, su la sopita essenza quando il tuo corpo appare vaporoso o è di donna. Io ti avevo tanto attesa a metà dell’aria come una stella lungo una riva.

LXIII Ma sopra i monti i desideri senza nome e in un baleno questo vano ardire. Forse poteva essere vero ma cambiavano le chiome. Forse in un fuoco magico non sapevo che quello che passava ora come un ricamo. Tu sulla manica gialla avevi l’ombrello, soffuso come un ricordo un fiore all’occhiello e non era mezzanotte antica, né la selva rinselvatichita. Profumava l’oro come un limpido viavai. L’umidità si era levata, preparata da la selva alle tue chiome o non si sa mai. Non era questa l’unica nostra salvezza o la tempesta d’oro era finita.

10 aprile LXII Forse da qui a molte chiome e non era artefatto il silenzio di mezzanotte o quello che circola nell’equatore così presto il mattino. Udivo il campanello sonnolento da sveglio e così sopra i frassini il gorgheggio degli uccelli. Non era il sapore di marzo che mi aveva ridesto e tu mi potevi provare. Ma poi apparve un passero.

E tu malcontento, malcelato udivi la musica della festa che era finita

LXIV Un piccolo talismano e la tua vita breve; sapevi rimpicciolito essere dinanzi a quella 228

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LXIX Ma che ti giova sapere? Parti morbide bionde erano della materia e questo giovanile muro che la tua ombra nasconde. Parche parole di fronte a tua madre e questo rimpicciolito sospetto di cave ombre curve e quadre. Sopra di te esse erano a squadre – e questo ti colpiva – ma non erano dentro un sacco le noci – croci piantate erano dentro il legno di un cipresso. Una signora annotava nel suo taccuino: questo ti basta o era lo stesso o era il suo chiomato essere quando appresso ella era lenta o era la fine, di un’altra giornata lungo il sentiero e così per sentire, per udire la sua fine un bacio di noci era davvero, quando da un’altra sagoma alata entro una buccia di arancia o di banana tua madre dai vetri ancora ti guarda

LXXI e sopra i rami tesi un luccicante risveglio ma la penombra è guasta quando sveglio sono io. Forse ti saprò dir meglio quando la voce dentro un’ombra si sbaglia o vedi da sola la fine di questo incendio a tarda ora, sulla strada, e così prossimo è un filo alle labbra e un sottinteso sguardo ti guarda. Alla fine era stanca la memoria, un profilato sottintendere dentro la tua voce arida e tarda; e questo menisco si sparpaglia.

16 aprile XCIX Ma non era un sogno era un lampo fuggitivo questo di cui, celeste, mi vergogno o era un balletto per la tua musica: di questo, ora ne convengo, non ho bisogno, e tu con una mano immersa eri nella luce del sogno.

LXX ma ti sovviene – e questo puoi dire – non erano gli elementi dell’ordine stesso concluso della materia e forse qualcuno ti guarda dentro una nebbia d’oro che nessuno vede e questa boscaglia è come acqua vitrea. Forse avvenne 230

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e forse battevano strani lineamenti, ma ora era vero, era la luce o era a fine di giugno, una mano incurvata su l’azzurra siepe. Era la filogranata verde riva d’oro e ti tiene nello spazio buio cupa assiepata. Era preparata un’altra verde riva d’oro.

CXLVI Mi piaccio e tu nelle alture dell’orto in un silenzio chino sei disegnata come un’ala di farfalla. Non avevo di te ombra dentro una grande montagna: sei divenuta attorta, non si poteva avere di te un giorno disegnato sulla sabbia

15 maggio 16 maggio CXXXVIII Il mattino era vestito nella tua veste rossa. E un cavallo e un cipresso si mutavano in un quadro. Tu questo strano trapezio celeste sapevi di neve ed uno era mutato in un anno.

CLIII Oggi fra i faggi tu avanzi attonito Un silenzio è svelto o dipinto come un lapis o meno come l’inchiostro.

CXXXVIX Ma questo grande arco chino. vedi ora tutto sottinteso dorme e non erano ad arco questi sentieri. Qualcosa passava a getto ed era tentennante lungo la siepe – e se qualcosa non era era il primo canto del gallo.

Sapevo la tua sagoma a matita. Si stringe in silenzio la sagoma rettilinea della vita. Dubitavo di essere quando per nera seta o gialla il dubbio era poco.

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CLXXVIII Ma quando erompo dai ginepri la ruvida scorza. Tu eri con me in questa pace rettilinea e questo antico sapore che ti aveva invaghito da sempre: ma eri sempre una donna. Di là da lo stipite poggiavi a una colonna, in anticipo non ti piaceva arrossire.

doppie rive a quadri e i prezzi mutavano sull’alburno i tuoi vestiti multicolori e poi questi poveri pezzi bruni.

9 settembre CCLXII E questa era la soglia – ma non tangente all’ombra – e questo incastro di nubi innocenti quando ella allora amava sola sul monte: ma queste magnolie spente e il blu nero delle costellazioni; quando ella sola era forse dall’anfiteatro delle penombre udivo le sue membra e lì – nel bivio – il quadrato era

CC Ma domani limpidi d’oro i rivi; ma perduto ebbi un bene che tu potevi scorgere fra gli ulivi e il caldo significato blu specchiato dei cieli fra veli vedevi; ma poi un porticato, una vicenda di pietre e un che che comunemente si rassegna, a partire da qui, dalla sua rozza torbida ala. Potevo addentrarti: sulla tua strada non era una carezza o un’ebbrezza

Ora essa mi dà, mi versa da bere ma non udivo, non gioivo più alla vista; senza sensibilità era perduto amore e le stelle pallide e un crocifisso

27 maggio CCLXX Sapevano altri qualificarti, ma non erano i luoghi questi

CCXXVIII ma parvemi; e parvenze del vero, 234

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o quelli e così frequenti all’osservazione. Ma poi un burocrate senso. Forse ti addolcivano le chiome quelli che avevano un miracolo diverso e senso. Tu nelle scuole avevi un avvenire quadrato.

CCXCIX Un distico si sfalda appena e poi le turgide arborescenze o qualcos’altro: ma m’intrattiene oggi questo riposo nei boschi. A mattina ero partito dal riposo dei tuoi occhi tenui verso la cima di una città fantastica e il ritmo dei pini mite nel vento fosco diviene, una remora un lemure era o lo spazio quadrato.

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