E’ passato un anno dal mio ultimo contatto con la carta

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28/07/2004 E’ passato un anno dal mio ultimo contatto con la carta. I pensieri si sono addensati; mi fanno sentire come un cannone con il detonatore pronto e la pallottola in canna. Sparo intanto a salve, per capire la potenza della mia gittata. Mi accorgo parola dopo parola che perdo filo e fiato. Impallidisco dentro e fuori. Avevo sognato, dopo mesi di balugginii elettronici,questo mio rincontro con il bianco latte della carta. Il computer non ti disobbedisce quasi mai; mai se gli dai comandi appropriati. La penna invece, scivola sul foglio e trasmette,ad ogni contatto, messaggi nuovi, tremendi. Fa sentire la tua indecisione, la tua veemenza, squallore o forza. Penna e termometro, trasmettono impulsi e temperature. Ti accorgi a volte, che l’usura del pennino, le inclinazioni della penna, lo spessore del segno, spostano, anzi manipolano ed imprimono significati nuovi al tuo pensiero. Le scuse che sto introducendo sono tante e tutte valide per distrarmi dal disegno che ho in mente E’ tempo di affrontare il toro per le corna e ritrovare i giorni della mia infanzia……………..

Ore 6,30 del mattino, giornata tipica di inverno. Nuvole all’orizzonte, sciabolate di luce nel cielo ancora nero del mattino; brividi ti trapassano il costato ed il cappotto non ti isola abbastanza dal freddo. Sulla strada siamo ancora in pochi. Albeggia, le ombre delle case si allungano e sovrappongono, il capraio distribuisce il latte casa dopo casa. Munge le capre che, quasi impazzite, percorrono la via s. Biagio e si distribuiscono a macchie sulla strada di basalto. Alcune docili ed ordinate scuotono la testa mentre i campanacci emettono suoni metallici, corposi, indolenti. Qualcuna si spazientisce e cerca di correre fuori dal gregge, dal branco, dall’immaginario reticolo che un gregge costruisce e nel quale si avvita spontaneamente. Il capraio con un fischio è capace di allinearle e renderle tutte uguali: tappeti di lana che si dondolano, sonnecchiano e spostano lentamente al suono dei campanacci. Il gusto che provavo io da ragazzo era disordinare con il mio


fischio, l’ordine che il conduttore aveva imposto al suo gregge. Io fischiavo da un lato e le pecore correvano di colpo tutte verso di me, l’altro fischiava e le creature, impazzite, si giravano verso l’ultimo richiamo. Stavamo delle ore a distruggere l’ordine che uomo e natura sono capaci di imporre, costruire ed esprimere. Io ubbidivo alla legge del più forte. Il mio fischio raggiungeva degli acuti che il povero capraio non riusciva ad emettere. E così inventavo la mia prima mattinata, le due ore che ero costretto a vivere sulla strada, in attesa che i preti del collegio che frequentavo, mi lasciassero entrare in classe. C’è da dire che erano i primi anni 50 del secolo scorso e noi ragazzi avevamo prosciutti non sulle natiche, ma sugli occhi. Che gusto e che fracasso quello stridore dei campanacci, ogni volta che le pecore si rigiravano per cambiare rotta. Che sguardi, da quel povero uomo che si era inventato di distribuire il latte casa per casa, a quell’ora del mattino, quando tutti sonnecchiano ed il latte caldo, appena munto, ha lo stesso odore del latte materno. Altre mattinate erano rivolte, all’osservazione di qualcosa che incuriosiva immensamente. Sapevamo, per sentito dire, che i bordelli erano vietati ai minori di 18 anni. A 13 anni, il miraggio era ancora troppo lontano. Cosa fare allora? Appena scesi dal camion semimilitare che ci aveva trasportati dal paese ad Acireale, in gruppo ci spostavamo nella zona proibita. L’avvicinamento era lento ma progressivo. Fiutavamo e guardavamo attraverso gli scuri semichiusi per cercare di intravedere un’ombra, una luce, qualcosa che la nostra immaginazione aveva già apparecchiato. Ogni tanto, a sorpresa, si apriva la porta di ingresso; si affacciava un donnone dallo sguardo cattivo, con una bacinella in mano piena d’acqua e ne scaraventava fuori il contenuto. Sulla strada si formavano bolle di sapone che sprigionavano odori ed aromi celestiali. Che strano! Era il concentrato di donna, diluita e data in pasto a noi, quasi un assaggio di odalische misteriose a noi proibite. Stavamo quarti d’ora a girare intorno alla casa, in quel vicolo maleodorante che noi interpretavamo bagnato di rugiada, in attesa del miracolo: vedere una donna in carne ed ossa, un essere che


sapevamo diverso da noi. Ignoravamo in cosa potesse essere dissimile. La nostra speranza era conoscere, sapere perché un uomo ne è attratto, cosa lo fa scuotere, palpitare, cosa gli fa strizzare gli occhi, perdere il fiato, disseccarsi il palato, brividire la pelle. Scoprimmo qualche tempo dopo quanta bellezza e quanta poesia si celava in quel nostro non potere accedere a quei piaceri. Fu bello tutto il periodo che restammo tagliati fuori da quelle porte sbarrate ai minori. Divenne tutto più squallido quando un giorno di pioggia intensa ci fecero entrare e scoprimmo che tante creature, poco pi ù grandi di noi,erano acconciate da signora e senza veli: vedemmo quello che in una donna manca tra i peli e tra le cosce. Ci volle tempo per capire il mistero di quella assenza, ma sentimmo immediato il desiderio di contatto fisico, prepotente, acceso. Un bisogno ancestrale che ti attanaglia, ti costringe membra ed ossa a sognare. E’ quello il momento in cui cerchi nell’enciclopedia, per capire la diversità e colmare l’apparente assenza. Scopri che i bambini non nascono sotto i cavoli, come ti aveva detto la nonna, ma che sei uscito e puoi rientrare quando vuoi in quel vicolo misterioso dal quale sei schizzato fuori nel nascere. Che momenti, ragazzi, passare dalla fanciullezza alla adolescenza e da questa procedere verso……


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