Una mattina di febbraio, mi consegnarono una valigia da portare a Milano. Io a quei tempi facevo la spola tra Catania ed il Nord Italia più da rappresentante delle frustrazioni del Sud che da studente. Quella volta però mi lasciò un segno. La valigia sembrava contenesse il tesoro di Atreo, tanto pesava. Dalle sue viscere, a folate, venivano fuori odori di cose antiche, macinate, lesse, infornate. Nello scompartimento di seconda classe, stracolmo peraltro di soldati che ripartivano dopo la licenza, per raggiungere i vari reparti, si alzavano spesso sfumature di battute sulla possibile necessità di aprire quello scrigno-valigia.. Io, custode emerito, glissavo su quelle battute, ma sinceramente rinfocolavo tra me e me l’idea di scassinare quel bagaglio pesante e misterioso. A poco a poco le voci si fecero insistenti, l’odore peraltro prorompeva nello scompartimento e le bocche da sfamare aumentavano a dismisura. Eravamo tutti devotamente rivolti verso la mensola che ospitava il misterioso oggetto profumato. Che strazio seguire quegli sguardi dei miei dirimpettai, che vergogna sentirsi offeso nel costume e nella morale, nella insufficiente difesa della consegna, nel complice, duplice, turpe disegno di “assalire la diligenza”. Che compagni avevo trovato? Che loschi personaggi di avanspettacolo erano quelli che mi prendevano in braccio, mi sollevavano in aria per convincermi ad aprire lo scrigno e godere delle interiora…. Saltavo in su ed in giù e quando atterravo sul mio posto, mi ricomponevo nell’atteggiamento di chi è forte e vuole, deve difendere l’oggetto consegnatogli. Uno, due, tre, uno, due, tre. Al terzo volo verso la valigia, mi appesi involontariamente al suo manico ed entrambi atterrammo. Lo scrigno si aprì di scatto e comparve quanto di più macabro possa immaginarsi.