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ANTONIO BISACCIA AFAM SASSARI
Quando arrivai per la prima volta all’Accademia di Sassari, nel gennaio 2015, per assumere l’incarico di Estetica, ero stato messo in guardia da alcuni colleghi: quell’Accademia era piena di conflitti, mi dicevano, e molti di questi si accendevano intorno alla figura del direttore, Antonio Bisaccia.
Era dunque un sollievo essere accolto con cordialità da lui.
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E abbiamo sempre collaborato bene, su vari progetti. Certo, non eravamo necessariamente fatti per intenderci: io diffido sempre delle istituzioni, mentre lui viveva dentro e per le istituzioni dell’AFAM.
Non lo faceva però da burocrate, ma con passione: come se fosse un’arte, o una missione.
Dirigeva la sua Accademia come direttore, e per un breve periodo come vice-direttore, dal 2010.
Era venuto dalla Sicilia, aveva studiato al Dams di Bologna e aveva ottenuto la cattedra di Teoria dei mass media all’Accademia di Sassari, da poco fondata (nel 1989, la più giovane Accademia statale d’Italia).
Ma diversamente da quasi tutti i docenti “continentali”, che presto o tardi abbandonano l’isola, lui vi si era radicato, pur avendo ormai ufficialmente la cattedra a Torino. Evidentemente, preferiva essere il primo in un “villaggio” piuttosto che il secondo a Roma.
La gestione quotidiana dell’Accademia non era il suo interesse principale, ma si batteva con successo per aprire nuovi corsi, soprattutto un biennio in cinema documentario, il primo in Italia, per ottenere degli spazi molto più vasti in vari luoghi di Sassari e per aprire delle filiali in altre città della Sardegna (una delle rare iniziative sue non andate a buon fine).
Non si limitava però alla sua Accademia: si fece eleggere prima Presidente della conferenza nazionale dei direttori di Accademie e Conservatori e in seguito Presidente del Consiglio nazionale per l’alta formazione artistica e musicale (Cnam).
Un’attività che lo portava spesso nelle sfere ministeriali, e tra colleghi ci dicemmo che un giorno lui stesso sarebbe diventato ministro o sottosegretario.
Si impegnava soprattutto per l’effettiva equiparazione tra il riparto AFAM e l’università, avviata negli Anni Novanta e mai portata a termine.
La creazione di dottorati di ricerca, l’instaurazione di concorsi nazionali di abilitazione, l’aumento dell’organico e l’equiparazione degli stipendi tra università e AFAM erano tra le sue battaglie principali, spesso vinte o almeno ben avviate.
Lui espose queste tematiche anche a un pubblico più vasto con articoli regolari su Il Sole 24 Ore, Artribune e altri media.
Non si sa come, ma riusciva nel frattempo pure a continuare la sua attività di studioso, pubblicando vari libri sul cinema e intervenendo su giornali come il manifesto a proposito della sugar tax, abbandonata a suo tempo dal governo benché dovesse servire a finanziare la cultura, o con recensioni di libri.
Allo stesso tempo dirigeva anche la rivista “Parol – Quaderni d’arte e di epistemologia”, fondata nel 1985 dal suo maestro Luciano Nanni all’università di Bologna e che Bisaccia si era portato dietro a Sassari, dove continuava a uscire, fatto notevole, in formato cartaceo. Bisaccia aveva il progetto di farla diventare una casa editrice.
La sua attività instancabile e la sua energia prodigiosa erano tanto più notevoli considerando che la sua salute era compromessa da vari anni e non lo nascondeva.
La sua qualità principale era la tenacia: non si scoraggiava mai.
Quando gli dissi: “Sei un bulldog, una volta che hai azzannato la preda non molli più”, lo prese come un bel complimento!
Stancare l’avversario (il ministero, il comune, la regione…) era, mi disse, la sua tattica.
Pur conoscendo bene i meccanismi del potere, non aveva i vizi tipici di quell’ambiente: rispondeva quasi sempre immediatamente a ogni messaggio o chiamata, e la porta (segue pagina 18)
(segue da pagina 17) del suo ufficio era sempre aperta.
Affabile e mai arrogante, era però poco portato alle confidenze, e le sue motivazioni profonde erano difficili da indovinare.
Avevo capito che doveva avere un lato diverso da quello “ufficiale” quando mi raccontò che aveva invitato all’Accademia, purtroppo prima del mio arrivo!, il cantautore bolognese Claudio Lolli, espressione dell’anima dolente dei movimenti degli Anni Settanta.
Questa doppia anima si ritrova anche in certi suoi scritti come “Burocrazzismo e arte (Castelvecchi 2020”, recensito su queste pagine da chi scrive), dove si alternano passaggi assai tecnici con altri “più fluidi, molto spesso brillanti, cosparsi di citazioni letterarie congrue e funzionali al discorso”.
Più volte Bisaccia e io ci siamo recensiti le nostre pubblicazioni a vicenda, abbiamo discusso dei suoi articoli, e la nostra collaborazione non è finita quando mi sono trasferito all’Accademia di Roma.
Sono tornato varie volte a Sassari, anche perché era un piacere collaborare con l’Accademia da lui diretta.
L’ho visto l’ultima volta a febbraio 2023: ci accordammo perché io scrivessi una recensione del suo prossimo libro per Artribune.
Un mese dopo mi trovo a scrivere il suo necrologio sempre per Artribune.
Anselm Jappe
DAL FUTURISMO
AL METAVERSO, LE
ULTIME RIFLESSIONI
DELL’ARCHITETTO
PIERO SARTOGO, DA SEMPRE
VICINO AL MONDO
DELL’ARTE
CONTEMPORANEA, MORTO POCHI
GIORNI DOPO AVER
RILASCIATO QUESTA
INTERVISTA
Piero Sartogo (Roma, 1934-2023), dopo il tirocinio nello studio di Walter Gropius, nel 1971 realizzò a Roma la sede dell’Ordine dei medici. Dal 1981, con “Italian Re-Evolution ‒ Il design degli anni ottanta”, una esposizione itinerante ospitata in vari musei d’Europa e America, iniziò il percorso professionale con Nathalie Grenon, che li portò a partecipare a vari eventi, fra cui l’Expo 1985 a Tsukuba, l’Expo 1992 a Siviglia, le Colombiadi del 1992, Imaginaire Scientifique al Parc de la Villette di Parigi, Telecom di Ginevra del 1991 e del 1994, Eureka d’Italie a Parigi e Madrid.
Tra le sue opere architettoniche più note figurano l’Ambasciata d’Italia a Washington (2001) e la Chiesa del Santo Volto di Gesù a Roma (2006).
INTERVISTA A PIERO SARTOGO
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte? Il Futurismo è il movimento internazionale che preferisco, e in particolare Giacomo Balla, il mio artista preferito.
Perché? Primo perché ha fatto il “funerale” della sua fase precedente, non futurista; secondo perché il suo lavoro è molto sperimentale.
Lo ammiro soprattutto per il coraggio che ha avuto nell’abbandonare la sua fase post-impressionista, quindi la lezione di Cézanne e degli impressionisti, che ri- guardava il secolo precedente. La rappresentazione che fa Balla della velocità è un’invenzione. La velocità è un termine, Balla la trasforma in una pura invenzione. E che dire della Ricostruzione futurista dell’Universo?
Con Depero gli artisti hanno immaginato una società totalmente futurista.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più?
Puoi raccontarci la sua genesi?
Il progetto che più rappresenta lo Studio Sartogo-Grenon è senz’altro l’Ambasciata d’Italia a Washington, negli States.
Durante uno dei tanti sopralluoghi ci accorgemmo che, tra l’Ambasciata del Brasile (progettata da Oscar Niemeyer) e la Cancelleria si poteva traguardare un punto elevato del parco, dal quale l’obelisco del Mall appariva in tutta la sua maestosità.
Detto questo, sul piano della dislocazione, una volta stabilito il nuovo asse di riferimento, tutto è stato progettato di conseguenza, l’edificio si presenta con la facciata principale parallela alla Massachusetts Avenue, come tutte le altre ambasciate, e di spigolo rispetto alla Whitehaven Street (che porta al Campus degli Hellenic Studies della Harvard University), dove si trovano le residenze di personaggi di spicco come Paul Mellon.
Questa è la genesi del progetto: pertanto il volume dell’Ambasciata è disposto in diagonale rispetto alla