4 minute read
In Brescia cholera morbus
Breve storia di uno dei tanti contagi che la città ha dovuto affrontare in passato
“Siamo inondati da questo terribile flagello che fa stragi sopra gli abitanti di ogni ceto di persone, infierisce e ammazza in poche ore [......]. Brescia pare deserta. Le botteghe più della metà sono chiuse e le case disabitate”. Non è un post, non il sottopancia al video di qualche influencer, e di certo non l’abstract d’un blogger prezzolato, ma l’agrodolce considerazione di un bresciano di fronte alla sua Brescia irrealmente deserta, spazzata da contagio. Anno Domini 1836, anno di colera: le parole sono annotate il 27 giugno da Carlo Manziana, membro della “Commissione di beneficienza” cittadina. Ieri come oggi si teme per la propria vita e per quella dei propri cari, si prega e ci s’interroga. Ci si affaccia con parsimonia alle finestre solo per calare lo sguardo su piazze e vicoli dove qualche anima raminga si affretta concitata. Eppure le voci si rincorrono. Oggi dagli agili smartphone o sull’ala d’un flash mob serale, ieri per grida e chiacchiere di balcone. E anche allora ci si chiedeva come il morbo avesse potuto forzare il perimetro.
Advertisement
La prima vittima era stata una certa Maria Mazza, una lavandaia sui sessant’anni che dimorava vicino le mura di S. Alessandro, l’odierno Corso Cavour. Rincasata, mastello alla mano, dopo una giornata di fatiche, aveva accusato terribili dolori al ventre e vomito. Poco dopo i famigliari la trovarono svenuta, coperta di macchie violacee, gli occhi sbarrati e i muscoli contratti. Alcune ore di rito, l’autopsia, e Maria era registrata come prima vittima bresciana del “cholera morbus”. Il giorno seguente si riuscì a stabilire che la donna aveva lavato la biancheria d’un tale proveniente da Bergamo, dove il virus dilagava. Era il 16 aprile, e nei giorni seguenti altre persone, molte delle quali forti
e in salute, caddero malate. Poi d’improvviso, così com’era apparso, il morbo scomparve. I bresciani tirarono allora un sospiro di sollievo e guardarono al cielo con riconoscenza. Tornarono ciascuno alla propria vita. Ma solo fino a metà maggio. L’”Ospedale delle pazze”, che solo otto anni dopo sarebbe confluito nel nosocomio di piazza S. Domenico, fu il nuovo focolaio. Anche in quel caso,
si disse, per colpa d’una bergamasca, una meretrice giunta in città a prestar assistenza ad un’anziana conoscente. La scintilla propagò velocemente all’”Ospedale della Mercanzia” prima, al “manicomio della Maddalena” dopo, e infiammò quindi in breve tutta la città. cominciasse ad arretrare. Tra settembre e ottobre i casi sarebbero divenuti sempre più contenuti e circoscritti. L’ultima vittima in provincia, un certo signor Viviani di Manerbio, sarebbe caduto il 10 novembre. Di quel 1834 resta oggi traccia in numerose
Si sarebbe dovuto attendere luglio perché l’epidemia cominciasse ad arretrare. Tra settembre e ottobre i casi sarebbero divenuti sempre più contenuti e circoscritti.
I quartieri più poveri, quelli di San Faustino e San Giovanni, ne risultarono i più colpiti. Il 18 maggio i casi erano già divenuti cinquanta, il 19 salivano a 100 ed il 22 a ben 150. Si sarebbe dovuto attendere luglio perché l’epidemia santelle, chiese, orazioni ed ex voto. Ne sopravvivono testimonianze scritte in resoconti pubblici come privati, diari e memorie. Per la storia ufficiale fu l’anno in cui Cesare Arici restituì l’anima poetica al Padre, ma anche quello in cui, dedicandosi all’assistenza infermieristica, la giovane Paola di Rosa (in seguito fondatrice delle Ancelle della Carità e nota ai più col nome di Crocifissa di Rosa) ne avrebbe fatto sua missione di vita. Così, mentre il Pavoni raddoppiava gli sforzi per accogliere come poteva, nel suo istituto di San Barnaba, SOTTO: un’immagine di don Gaetano Scandella
numeri sempre più alti di piccoli orfani, quell’anno vide il Municipio proclamare, in risposta alle tante richieste giunte dai fedeli, il solenne voto della Festa delle SS. Croci, di lì a poco portate in processione contro il colera.
Solo qualche anno fa un ricercatore ha scoperto per caso, in un mercatino, un carteggio tra due preti bresciani: parlava di quel terribile morbo descrivendone interessanti retroscena sociali ed umani 1 . Non avrebbe certo immaginato che quelle pagine sdrucite sarebbero tornate quanto mai attuali e vicine alle nostre sensibilità. Un tempo il calamaio, oggi il T9. Ma come allora così ancora, inaspettatamente, incredibilmente, pensieri e timori spezzati dall’epidemia. Quando tutto questo sarà finito, allora, passeggeremo di nuovo per le strade delle nostra città e, sotto la Loggia, leggeremo forse con occhi più consapevoli l’ampia targa in pietra nera che ricorda
“IL CONSIGLIO COMUNALE DI BRESCIA TRAMANDA AI POSTERI SOLENNE TESTIMONIANZA CHE NELLE CALAMITA’ DEL CHOLERA L’ANNO M.DCCC.XXXVI OGNI CLASSE DI CITTADINI SI E’ SEGNALATA PER OPERE STRAORDINARIE DI CARITA’ E BENEFICIENZA. AD ONORE ED ESEMPIO”. E se saremo fortunati, se saremo corretti e giusti, se saremo forti e uniti, chissà poi che una targa simile non venga issata al suo fianco, in da 2020.
Sergio Masini