18 minute read

RACCONTI

Next Article
IN LIBRERIA

IN LIBRERIA

IN LIBRERIA STORIA VICENTINA

L’eredità dei Cimbri La straordinaria Industria Vicentina? Opera dei Cimbri. Senza di loro non sarebbe mai esistita

Advertisement

Recensione di Roberto Brazzale

Umberto Matino autore del libro “I cimbri”

Furono i Cimbri insediatisi nel medioevo sulle montagne tra l’Altopiano dei Sette Comuni e la Lessinia l’anima ed il motore dello straordinario sviluppo industriale realizzato dopo il settecento nel nord della provincia di Vicenza. Solo per fare alcuni nomi, erano cimbri i Laverda, i Marzotto, i Conte, i Dal Brun, i Fogazzaro, i Cazzola, i De Pretto, i Barettoni, i Ciscato, i Manea, i Cortiana, i Raumer, gli Stella, gli Ziche, i Zuccato, i Rigoni, i Sella, i Caoduro, e così si potrebbe continuare molto a lungo.

Furono i Cimbri insediatisi nel medioSiamo oggi abituati a identificare i Cimbri, evo sulle montagne tra l’Altopiano il cui nome viene da “Tzimbar” che signifidei Sette Comuni e la Lessinia l’anica “carpentiere”, con le popolazioni residue ma ed il motore dello straordinario svilupdegli insediamenti storici quali Roana, Lupo industriale realizzato dopo il settecento serna, Giazza, cioè quelle che fino all’ultimo nel nord della provincia di Vicenza. conservarono lingua e tradizioni originarie. I coloni germanici, per lo più bavaresi, che Commettiamo tutti l’errore di dimenticare dopo l’anno mille “svegrarono”, chiamati da come le nostre popolazioni di stirpe gervescovi e conti, le nostre montagne ancora manica nei secoli si estesero, si diffusero selvagge, apportarono una cultura del lavoe si fusero con i veneti imprimendo la loro ro, un’inventiva, una dedizione, uno spirito impronta a tutti gli insediamenti fino alla di sacrificio ed un senso del risparmio che periferia di Vicenza. fornirono l’elemento umano necessario per Favorisce questo equivoco l’italianizzazioinnescare l’imponente sviluppo industriale ne dei cognomi e di molti toponimi avvedell’altovicentino nell’ottocento. nuta non solo per effetto dell’uso ma altresì La coltivazione delle montagne attraverimposta dall’alto come reazione alla riforAlessandro Rossi so la silvicoltura, l’allevamento, l’attività ma protestante e dagli stessi cimbri per mineraria mise a disposizione preziose dissimulare la loro origine teutonica, in materie prime quali legname, lane, latte e alcuni momenti storici divenuta piuttosto minerali in quantità tale da permettere la ingombrante. nascita dell’industria siderurgica, meccaniTuttavia, la ricerca onomastica e toponoca, tessile e casearia. mastica, pur in assenza di fonti documen

Le storie dei Cimbri delle Montagne, che vengono narrate in questo libro, mostrano con grande evidenza che è esistito anche un Veneto tedesco, con un suo dialetto ostico e pieno di fascino, e un Veneto montanaro, legato ferocemente alla terra; che è esistito un Veneto protestante, austero e

riformatore e che è inoltre esistito - ed esiste tuttora - un Veneto industriale: il Veneto del lavoro, della fabbrica, della tecnologia e - soprattutto se riferito al mondo cimbro nell’800 - il Veneto del riformismo sociale, del welfare aziendale, della modernità.

tali è inequivocabile e porta a risultati che sorprendono e dovrebbero farci inorgoglire. Erano cimbri i più grandi industriali dell’alto vicentino, uno per tutti, il più grande, fu Alessandro Rossi, ci dicono originario della contrada Sasso di Asiago, discendente di pastori poi commercianti di lane, cosmopolita e lucido visionario che rivoluzionò l’industria laniera italiana ed europea grazie al suo straordinario ingegno ed alla sua curiosità, realizzando oltretutto il primo grande esempio di capitalismo “sociale” e di “welfare” moderno. La Rossi fu la più grande industria tessile d’Europa e la più grande società per azioni italiana. Fu di Alessandro Rossi, curiosità, la prima automobile a circolare sulle strade italiane, una Peugeot. Rossi, tuttavia, rappresenta solo la punta di diamante di un mondo di decine di migliaia di operosi ed ingegnosi cimbri che nelle loro contrade aggrappate ai monti instancabilmente allevavano, coltivavano, commerciavano, aprivano laboratori domestici, forgiavano, tessevano, cagliavano, inventavano o applicavano nuove tecniche e nuovi processi, viaggiando e importando tecnici da tutta Europa. Solo per fare alcuni nomi, erano cimbri i Laverda, i Marzotto, i Conte, i Dal Brun, i Fogazzaro, i Cazzola, i De Pretto, i Barettoni, i Ciscato, i Manea, i Cortiana, i Raumer, gli Stella, gli Ziche, i Zuccato, i Rigoni, i Sella, i Caoduro, e così si potrebbe continuare molto a lungo. Non fu un caso che il veneziano Nicolò Tron nel 1738, respinto dalle corporazioni dei lanaioli protette e conservatrici di Venezia e Vicenza, trovò a Schio il terreno più fertile per aprire il lanificio che doveva recepire tutte le innovazioni della rivoluzione industriale inglese che egli aveva studiato da ambasciatore veneziano a Londra. Solo nel 1701 la Repubblica aveva finalmente autorizzato la produzione delle più redditizie “lane alte” fuori da Vicenza e Venezia, liberando finalmente le immense risorse del resto del territorio che fino ad allora erano state penalizzate dal “favor” che la Repubblica garantiva alle corporazioni, come sempre ostili all’innovazione e nemiche degli interessi generali.

La meravigliosa, interessantissima storia dei Cimbri, dall’origine ai giorni nostri e della loro potente funzione di innesco e sviluppo nel tessuto produttivo veneto oggi si può leggere nell’imperdibile, documentatissimo e godibilissimo libro di Umberto Matino “CIMBRI - Vicende, cultura, folclore”, ed. Biblioteca dell’immagine.

RECENSIONI ILLUSTRATORI Vicenza Story La storia di Vicenza in trenta illustrazioni disegnate da Carlo Gastaldon

Raccontare Vicenza e la sua storia millenaria attraverso le tavole disegnate. È quanto ha fatto per molti anni Carlo Gastaldon, artista e disegnatore vicentino scomparso qualche anno fa e che oggi rivive grazie al ricordo e all’amore della figlia Marta, che ha realizzato un libro illustrato intitolandolo Vicenza Story, volume che si è reso già protagonista di numerosi eventi e mostre in giro per la provincia. Si tratta di una trentina di tavole catalogate in una cronistoria che parte dal lontanissimo anno 3700 a.c. con le palafitte di Fimon, passando per il 1194, con Ezzelino da Romano, poi la basilica dei santi Felice e Fortunato del 568 e così avanti passando per i Longobardi tra il 500 ed il 600, la colonna infame del 1548, la Basilica di Monte Berico, Borgo Berga col porto vicentino di inizio medioevo, il cripto portico romano del 320 d.c. fino al

1571 e oltre con La Battaglia di Lepanto rappresentata nella Loggia del Capitaniato in piazza dei Signori. Poi gli eventi più recenti: la seconda guerra mondiale col famoso bombardamento sulla città nel dicembre del ‘43 ma anche con alcuni episodi meno conosciuti del conflitto che tuttavia hanno lasciato una memoria importante, fino alla corsa automobilistica delle Mille Miglia del ‘52, arrivando alla rapina di Ponte San Paolo nel ‘73. Una trentina di eventi storici che immortalano Vicenza con una tecnica artistica forse inusuale ma non per questo meno importante. Una memoria storica ad uso di tutti, specie per quei bambini che saranno gli adulti di Vicenza un domani, perché la nostra storia non venga dimenticata. Carlo Gastaldon si è dedicato per molto tempo all’illustrazione e ideazione di fumetti come Vicenza Story..

Facebook: Vicenza Story info: 388 9946820

Un percorso storico ed artistico da lui stesso creato, che gli ha fatto scoprire una Vicenza vera, palpitante e ricca di storia. Da sempre il sisegno è stata la sua più grande passione: già da bambino inizia col disegnare bisonti negli angoli dei quaderni a scuola, per poi cimentarsi in motociclette in pieghe assurde e caricature di amici e conoscenti. Ha creato molti loghi aziendali e per attività commerciali, serigrafato centinaia di magliette e collaborato per anni come disegnatore tecnico in una grande azienda del Vicentino, dove poteva esprimere a pieno la creatività nei colori e nelle sfumature che poi ritraeva nei suoi progetti. Amante della storia e cultura in generale, ha voluto ideare questo fumetto storico inserendo nei vari fatti realmente accaduti facce e volti che conosceva, amici e persone che aveva incontrato nell’arco della sua vita. Appassionato di storia medioevale e fatti storici, frequentava sempre la Biblioteca Bertoliana per le sue ricerche dettagliate. Nel corso degli anni aveva allestito diverse fiere nazionali, oltre a collaborare per diverse aziende del settore. Una volta in pensione si dedica totalmente alla sua passione fumettistica e storica: dal 2006 collabora con il Giornale di Vicenza e partecipa alal rassegna “Umoristi a Marostica” da fine anni 80 ad inizio anni 90 venendo premiato due volte. Nel 2005 crea il logo per Ducati Scrumbler, tuttoggi utilizzato. Negli untimi anni aveva iniziato un libro di tavole ambientate nella sua infanzia a Recoaro ed ora in fase di edizione da parte della famiglia. Dal 2013 la figlia Marta Gastaldon cura tutte le opere del padre, allestendo mostre per mantenere vivo il ricordo delle sue opere. (recensione di Alessandro Scandale)

RECENSIONI RACCONTI VENETI Se l’acqua ride di Paolo Malaguti

Attraverso lo sguardo dell’adolescente Gambeto in cui la trasformazione non è solo questione di altezza o di voce, con delicatezza Paolo Malaguti invita a riflettere su cosa davvero sia il cambiamento, esito dell’intreccio tra l’età anagrafica dei singoli, la società mai immobile e la Storia che fa il suo corso.

Che tempi ha l’adolescenza, periodo unico nella vita in cui le settimane sembrano mesi e i mesi decenni, tanto è il turbinio dei cambiamenti, tanta l’intensità di quello che si vive? E che succede poi se, insieme con noi, cambia definitivamente il mondo circostante? Sono queste alcune delle domande al centro del nuovo romanzo di Paolo Malaguti, Se l’acqua ride (Torino, Einaudi, 2020, pagine 200, euro 18,50), il cui protagonista è il giovane Ganbeto, che vive nella campagna del padovano. La storia si snoda tra l’ottobre 1965 e l’ottobre 1966, l’anno della grande alluvione, tra Ganbeto alunno e Ganbeto «quasi apprendista» intermezzati da un’estate passata a bordo del burchio del nonno Caronte. Con una prosa poetica ed essenziale, condita dall’uso rassicurante del dialetto, Malaguti accompagna il lettore in un racconto capace di essere, insieme, unico e paradigmatico.

Il primo ottobre Ganbeto varca la soglia della scuola tra finestroni, soffitto irraggiungibile, lunghi banchi di legno scuro davanti alla cattedra. Una scuola che è un altro mondo rispetto al quotidiano del ragazzino — non solo per gli spazi, i suoni, i tempi, ma anche per la lingua. Per quello che essa impone («Si era arrivati al lei, ma a quel punto ormai l’amara verità era di fronte agli occhi di tutti: imparare una lingua nella quale per dire voi si dice loro e per dire tu si dice lei non può essere una faccenda seria»), e per come si fa rispettare («da oggi in avanti, chiunque tra loro commetterà errori, dovrà versare, il giorno stesso o al più tardi il giorno dopo, 20 lire di ammenda per il reato di attentato alla lingua italiana. [...]

Il fiume Sile a Casier (TV) - foto aerea di Alvise Bragagnolo

Un quieto senso di colpa lo pervade di fronte all’ineluttabilità del tracollo economico cui condurrà la sua famiglia in pochi mesi»).

Sono i ruggenti anni Sessanta, e non è solo la vita di Ganbeto a essere oggetto di mutamenti profondi, repentini e quotidiani. Il “cesso” scompare per lasciare spazio al bagno, stanza che fa letteralmente irruzione nelle case («Il vecchio Giobatta, nonno di Scalia e mutilato dell’altra guerra, quando sono arrivati i murari ha tirato giù santi e madonne dicendo che era un’idea da macachi sporcaccioni quella di mettersi il cesso attaccato al letto, e che anche in trincea davanti al Piave [...] avevano avuto il buon senso di scavare le latrine arriva la televisione in bianco e nero, e con lei arrivano Carosello e il maestro Manzi, arrivano abitudini nuove da dover conciliare con le vecchie. Arrivano nuovi lavori che iniziano a incrinare quella tripartizione che da sempre aveva segnato la vita del paese, tra «chi va operaio alla Fabbrica, chi sta nei campi, chi parte sui burci».

I burchi, dunque, gli affusolati burchi dal fondo piatto al timone dei quali da sempre i barcari trasportano merci lungo la rete di acque che si snoda da Cremona a Trieste, da Ferrara a Treviso. Ormai i trasporti però viaggiano sempre più via terra, e ai pochi burchi che ancora resistono i più hanno messo il motore,

lontane dai baraccamenti»). Nelle case abbandonando i ritmi lenti delle correnti e delle maree. Molti ma non tutti: c’è infatti — ed è il caso del nonno Caronte — chi non vuole cedere. Anche per questo inizialmente il mozzo Ganbeto a bordo della Teresina si sente invincibile, scivolando sull’acqua in un’estate epica. È la forza della nuova responsabilità, della fame di imparare, dell’esempio del nonno: gli attracchi, le osterie, le burrasche, il mare e la laguna, le campane di piazza San Marco, i coloriti modi di dire di Caronte e i suoi cappelli estrosi, le ragazze che s’incontrano.

È l’estate che traghetta Ganbeto dal mondo dei piccoli a quello degli adulti, quando una delle prime cose a cambiare è la percezione del tempo; quando si perde per sempre quella sensazione di mesi allungati all’infinito, quando «era già passato un po’ di tempo dall’inizio dell’estate, ma la fine era ancora lontana, un’eternità di vita davanti, prima dell’autunno». Ganbeto è inebriato, ma quello che scorre davanti a sé lo vede bene. Non può fingere che nulla stia accadendo, lui che

si trova a cavallo tra il vecchio e il nuovo nella sua vita e nella vita che lo circonda. Lui, capace di imparare la lezione più complessa e dolorosa di tutte: si cresce solo lasciando indietro qualcosa.

Attraverso lo sguardo dell’adolescente Gambeto in cui la trasformazione non è solo questione di altezza o di voce («che dopo un paio di mesi di alti e bassi si è finalmente attestata su un livello più profondo»), con delicatezza Paolo Malaguti invita a riflettere su cosa davvero sia il cambiamento, esito dell’intreccio tra l’età anagrafica dei singoli, la società mai immobile e la Storia che fa il suo corso.

«Va bene, pensa, è normale: poi arriva l’estate di San Martino e le cose si sistemano secondo i soliti ritmi. Ma ormai sa che non è vero, le cose cambiano. Anche quelle che sembravano dover durare per sempre scompaiono, macinate via da novità che a loro volta dureranno il tempo che devono durare, e poi saranno spazzate. Arriva il cambiamento, e subito tutti dietro (…) I cambiamenti bisogna seguirli. Non solo seguirli, bisogna dominarli, possederli. Altrimenti anche tu vieni macinato via». di Silvia Gusmano

RACCONTI AUTORI VICENTINI

De Andre’ a Chiuppano Racconto di Maurizio Boschiero

Mio padre, “poro can”, dopo cena si “imagava” tra il sonno e il “caldin” della cucina e poco mancava che si addormentasse sulla sedia. Aveva sempre un po’ “de afanin”, che lo disturbava a causa di un’ulcera antica e per questo mia madre cercava di fargli minestrine leggere e pasta con poco “consiero”. Cenavamo presto, poi presto andavamo a letto, quasi come le galline. Cambiò qualcosa quando io cominciai a frequentare le superiori all’ITIS De Pretto di Schio, la scuola tecnica per periti industriali. Era il ‘68, anno di rivolte studentesche, scioperi, ribellioni giovanili, musica, politica e liberazione sessuale. “Ségnete, prima de nar fora dala porta e disi tre Ave Maria ala Madona quando che te passi davanti al capitelo”, mi raccomandava mia madre ogni volta che uscivo per andare a scuola. Se passavo dal capitello senza recitare le

preghiere, mi pareva che la Madonna mi guardasse storto, e chissà che inferno si immaginava, la mia guardinga e severa genitrice, a Schio, anche se le raccontavo il meno che potevo. Due volte la settimana tornavo a casa la sera, perché il martedì e giovedì avevamo il rientro pomeridiano ed arrivavo verso le 19 con la corriera. In quei giorni i miei mi aspettavano per cenare tutti insieme. Mia madre, mio padre e le mie due sorelle erano già a tavola quando io gettavo a terra, malamente, il fascio di libri che mi ero portato a scuola. Arrivavo stanco ed affamato senza tanta voglia di parlare, come era stanco mio padre per i turni duri che faceva alla Lanerossi di Piovene, stabilimento numero uno, reparto lavaggio. “Come xèla nà un cò?” Chiedeva curiosa mia madre; rispondevo malvolentieri mugugnando: “Ben, la xè na ben” e basta. Poi ognuno si piegava sul piatto per far presto a finire. La televisione l’avevamo da poco tempo e troneggiava sul piano alto di un carrello dai ripiani di vetro. Il piano inferiore era occupato dal pesante trasformatore che alimentava l’apparecchio ed io accanto vi avevo sistemato un giradischi a valigetta marca “Lesa” color verde e bianco, che mi avevano comprato dopo mesi di sfinimento. Dopo cena mio padre guadagnava rapidamente il letto, mia madre sparecchiava la tavola e “broàva su”, io e le mie sorelle se non avevamo compiti da finire accendevamo un po’ la televisione e vi rimanevamo incollati al massimo fino a “Carosello”. “S’incantesimava” anche mia madre su per la televisione quando appariva sullo schermo Padre Mariano, un frate che in quegli anni predicava dagli studi di Roma. Poco mancava che non ci obbligasse a seguire la predica in ginocchio. “Che santo omo” ripeteva in continuazione, “ségnete àseno e porteghe rispeto, no supiàre parchè el finisa presto, vilàn d’un

vilàn”. Era questa la predica nella predica. La stanza era piccola 4x4 piena di muffa sui muri e per noi funzionava da salotto, cucina, sala da pranzo, da studio e da lavoro. La stufa bianca smaltata, a legna, scaldava l’ambiente e il forno riempito di “pumi”; li trasformava lentamente in profumati dessert caramellosi. Tante volte mi trovavo a contendere il tavolo della cucina a mia madre o alle mie sorelle. Io facevo i compiti e mia madre stirava o lavorava alla macchina da cucire. Il tremolio indotto dai suoi “mestieri”, disturbava il mio lavoro, e non di rado l’uno o l’altra doveva rinunciare all’impegno. Oltre a questo, capitava che quando stavo disegnando, magari da ore, su un foglio bianco rigato di segni tecnici definiti e precisi, la stufa che veniva caricata dall’alto, spostando i “serci”, sbuffava una nuvola, che faceva ricadere una nevicata di “falive” nere per la mia disperazione. Dovevo ripulire tutto con la gommapane e salvare il salvabile. D’estate andava un po’ meglio, le giornate erano più lunghe, le finestre erano aperte, ma soprattutto la stufa assassina restava spenta. Schio per me era diventato il posto delle scoperte, mi si schiudevano orizzonti, interessi ed occasioni che tra le quattro mura ammuffite di casa non avevo mai nemmeno immaginato. Mi incuriosivano i negozi, soprattutto, di libri e di dischi, le vetrine eleganti e lusinghiere con mercanzie elegantemente disposte, “m’impappinavo” davanti alle più semplici novità. Come un “semòto”, mi imbarazzavo se vedevo due ragazzi abbracciati per strada. Era arrivata quella ventata di rinnovamento che caratterizzava quegli anni. Cominciai a fare delle amicizie con ragazzi, che frequentavano la scuola e, lentamente, il mio mondo con i suoi confini rigidi e angusti si apriva a nuovi interessi, nuovi discorsi, nuovi propositi. Fu proprio così e in questo ambito conobbi le canzoni di Fabrizio De André il grande cantautore genovese che in quegli anni incideva le sue prime canzoni in LP e 45 giri. Qualche raro passaggio televisivo lo rese abbastanza noto ad un pubblico di nicchia che ne apprezzava l’impegno poetico e sociale. I testi delle sue canzoni erano poesie in musica che toccavano i temi del disagio, dei vinti, della società piccola e dolente, degli emarginati. In un tempo in cui le canzoni erano ancora legate al sentimentalismo più sdolcinato e sciocco, i suoi temi mi presero proprio tanto. Con sacrificio e risparmio mi comprai il 33 giri che era uscito nel ’67 col titolo: Volume primo. Entrai nel negozio dei “dischi Pietrobelli” sotto i portici vicino al Duomo di San Piero e tutto emozionato richiesi il disco. Un padellone di vinile con una bella copertina, costo 3500 lire. Canzoni pregevoli all’interno, alcune le conoscevo, altre no perché la televisione censurava pesantemente testi e termini che fossero anche appena trasgressivi. Censurarono perfino “Dio è morto” dei Nomadi, il cui testo era un po’ la sintesi del tempo e di quegli anni, che ironia della sorte, la radio vaticana regolarmente trasmetteva. Dunque e finalmente avevo tra le mani il disco del mio idolo e non vedevo l’ora di tornare a casa per sentirlo e orgogliosamente farlo sentire. Mio padre strimpellava un po’ la chitarra ma le canzoni che cantava erano vecchie come il cucco, una sui corridori parlava di un giro d’Italia con Guerra, Binda, Olmo e qualche altro reperto chiuso ormai negli annali del ciclismo. A volte accennava al “Tango delle capinere”, qualche altra a “Chitarra romana”, era tutto il suo repertorio, un Claudio Villa da sacrestia che a me non piaceva per niente. Mia madre non cantava nemmeno in chiesa o era stonata da brividi, ma credo fosse troppo timida anche per le litanie sacre. Quella sera non avevo il solito muso lungo per la stanchezza, mi emozionava il pensiero di ascoltare quel disco. De André, sul mio giradischi, roba da intenditori, da intellettuali, a casa mia. Gettai il pesante fascio di libri nell’angolo solito, con fretta entrai in cucina, salutai appena e prima di sedermi sistemai sul piatto del giradischi il 33 giri. Mia madre sorpresa disse subito: “ecolo che’l taca el graòn; sempre na novità da quando che te ve a scola a Schio, se savea tanto… no te gavaria mandà de sicuro”. Mio padre mangiava di malavoglia per via “dell’afanin” ed era un po’ “insonacià”, poco ascoltava del disco, mie sorelle troppo piccole erano ancora meno prese, mia madre stranamente ascoltava. Belle canzoni le prime, parevano una novena di preghiere anche nei titoli: Preghiera in gennaio, Marcia Nunziale, Spiritual, Si chiamava Gesù ecc…

This article is from: