Vox Populi 11°

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- Vox Populi -

L' Aperiodico della FacoltĂ di Psicologia

Firenze, la Torretta

16/5/2012

Laboratorio 15

n. 11


Salve

benvenuta o benvenuto in Vox Populi. Eccoti una bussola per orientarti in questo mare... nelle coordinate troverai prima il nome della rubrica che fa da cornice all'articolo/raconto/poesia che vuoi leggere, poi il suo titolo, chi l'ha scritto e infine le pagine dove è scritto. A te la scelta della rotta o di un piacevole naufragio...

­ a mano libera: "Capita in Torretta" di A. ;

pagine 0 e 1

­ dialogo in Poesia: "Ferita di paese" di Luca Buonaguidi ;

pagina 2

­ dialogo in Poesia: "NATALE 1995 ­ A Leo" e "27 MARZO 2012" di Simona Falsini ;

pagine 3 e 4

­ sono solo favole?: "I MANICOMI PRIMA, DURANTE E DOPO LA LEGGE 180/78" di Andrea Beretta e Sandra Vannucchi ;

pagine 5 e 6

­ simbolico open source: "Viaggio in Portogallo" scelto da Alice Bindi e "Demasiado Corazòn" scelto da Luciano Cella ;

pagine 7, 8 e 9

­ libere riflessioni: "Crisi d'identità con pane e nutella" di Gaille ;

pagina 10

­ cineforum: "SHAME" di Ilaria Detti ;

pagine 11 e 12


Capita in torretta

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Capita in Torretta quando ci sono le lauree che all'interno del nostro plesso (se così lo si può chiamare) ci siano persone provenienti da altre realtà, come altre facoltà oppure non necessariamente persone provenienti dal mondo accademico. Oggi ad esempio, sempre in Torretta durante la discussione di laurea di una mia amica, una ragazza ha notato il passaggio della gatta spelacchiata all'interno dell'aula. “Ma è un gatto quello?” dice sorpresa. “Si, è il gatto della facoltà” le risponde qualche studente di psicologia, come se fosse la cosa più normale del mondo. E per noi è veramente la cosa più normale, ma non del mondo in generale, piuttosto del mondo della Torretta. Rispondiamo fieri e sorridenti a queste domande d'altronde la gatta ci identifica e ci piace anche... oddio non a tutti eh. Bagatta, Labessa, comunque la si voglia chiamare è ormai un simbolo della nostra... facoltà? Mmm del nostro Porto di mare? … qualcuno la chiama Casa. Capita in Torretta che durante una lezione non faccia il proiettore, il microfono e nemmeno il riscaldamento nei mesi più rigidi. Il professore non si incazza nemmeno più, perchè si identifica nel mal funzionamento. Nemmeno gli studenti si incazzo più, alcuni perché hanno la scusa di non seguire e lasciare l'aula, altri perché come il professore si identificano nel microfono, nel proiettore e nel riscaldamento mal funzionante. Identificarsi in qualcosa che non funziona... Capita SOLO in Torretta. Capita in Torretta che la gente si colori viso, mani e corpo e dia sfogo alla sua voglia di creatività e che alla fine dei dei conti sia una delle poche occasioni per sentirsi bene, immaturi e buttala via l'immaturità... essa ha in sé un potenziale enorme, è un punto di partenza, uno start up per qualcosa che spesso o meglio, qualche volta si trasforma in qualcosa di grosso, originale e geniale. A mio parere ogni genio prima di divenire tale è stato immaturo. Oddio... anche ogni cretino lo è stato, quindi non è che se si è immaturi si ha la certezza matematica di diventare geni. Anzi Il trucco forse sta nel mettersi in gioco... e Capita in Torretta che qualcuno lo faccia.


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Capita in Torretta che i bagni siano chiusi da una vita, che non ci sia un bar, e che le macchinette nemmeno funzionino a modo. Capita che il solaio cada sotto il peso dell'acqua, che il piazzale si allaghi per il malfunzionamento dei tombini e che nello stesso piazzale si giochi a pallone e si faccia baccano. Perchè il baccano ci identifica... ci piace (anche questo non a tutti...). Capita in Torretta che arrivi la prima volta una matricola, la numero 4895891 smarrita, impaurita, spaesata e sola. La matricola va ogni giorno in Torretta e segue i corsi, fa gli esami e si accorge che però il mondo dell'università (nel suo caso il mondo della Torretta) non è poi così perfetto. Dipartimenti, Decreti Legge strani, professori altrettanto strani, strumenti mal funzionanti, prospettive future incerte e insomma... la matricola pensava meglio. Poi la matricola cresce, conosce altre matricole. Si chiedono il perchè abbiano scelto un posto come la Torretta per preparare il proprio futuro, “ma chi ce lo ha fatto fare?” le matricole provano a guardare bene il proprio piccolo mondo, lo osservano (o almeno dovrebbero farlo) e notano che qualcosa in fondo in fondo... fisicamente parlando, si sta muovendo. C'è chi ha in mano un megafono, chi un microfono e parla di fronte ad un pc, chi colora, chi organizza, chi va su una bici con una ruota sola, chi gioca a pallone, chi litiga, chi stampa volantini, chi chiama a raccolta, chi gira un video e c'è anche chi a volte sta fermo, sempre laggiù, in fondo in fondo, sempre in Torretta. Capita in Torretta ma capita raramente che alcune piccole smarrite, impaurite e deluse matricole vadano laggiù, in fondo in fondo e chiedano a quegli strani tipi, che in verità non sono poi così diversi, cosa stia succedendo. Capita in Torretta che uno di questi tipi magari sorpreso della visita delle matricole risponda loro semplicemente “Perchè Capita che ad un posto come la Torretta si possa voler bene....”

A.


Ferita di paese

Ho perso il confine stabilito

nel docile ammantarsi d’un verso

dell’aspro orizzonte ch’è poi alle spalle.

Fascinazione d’oblii nella prima visione poi accaddero schiarite, distese di senso nel migrare altrove del corpo.

Ieri il mio paese fu condanna poi evasa

di cavarsi gli occhi per sfuggire al vento lieto, acceccarsi in silenzio per non sentirsi soli. Oggi il mio paese è scriver pochi versi ed esser già stanco di parole,

chiudere a fatica la terzina che s’impone.

Domani il mio paese sarà una rossa funivia che scorre nel tempo avanti e indietro

con l’illusione di librarsi altrove dall’adesso. Ieri, oggi e domani son tre pallottole:

una insegue, l’altra sfugge, l’ultima dimentica mentre canto apolide la ferita che mi muove.

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di

Luca Buonaguidi


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NATALE 1995 – A Leo

GLI ANIMALI SONO COME BAMBINI I BAMBINI SONO COME I FOLLI I FOLLI SONO ANIMALI IMPAURITI BISOGNA AMARLI COME BAMBINI CAREZZARLI COME ANIMALI LUNGAMENTE LENTAMENTE DOLCEMENTE

TU MI HAI INSEGNATO AD AMARE I FOLLI IO TI HO INSEGNATO AD AMARE GLI ANIMALI

27 MARZO 2012

Forse dovrei scrivere per giorni, mesi, anni forse e forse, forse una risposta alla morte verrebbe fuori. Per ora resto bambina e credo nel Natale.

poesie di

HORSA67


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5 «Per poter veramente affrontare la "malattia", dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall'istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono. Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?» (Franco Basaglia, in Il problema della gestione, 1968)

I MANICOMI PRIMA, DURANTE E DOPO LA LEGGE 180/78

di Andrea Beretta e Sandra Vannucchi scritto per la Mostra Fotografica: “Dove morivano i dannati"

Il manicomio, o morotrofio, o asilo era programmato come luogo alternativo a un mondo esterno travagliato e sconvolto e pensato come una cittadella ideale, in cui il direttore non era solo medico ma aveva tutti i poteri possibili, fisici e morali. Nel 1881 per la prima volta il governo si occupò di alienati e di manicomi. Tra il 1887 e il 1900 la politica manicomiale diventò sostanziale per il governo come ogni dispositivo di repressione. I manicomi erano concepiti come “ambulanze di feriti sociali” e non solo se ne moltiplicò il numero, ma se ne aumentò in modo impressionante la popolazione, sino a mettere in pericolo i bilanci delle provincie. Si potevano avere le prime avvisaglie di depressione, di presunta schizofrenia o semplicemente essere accusati di fare professione di anarchia per essere rinchiusi in manicomio. All'interno esistevano pochi lavandini e bagni rispetto al numero di degenti, morirono decine di migliaia di uomini e donne, che non videro mai più un cielo senza sbarre. Nel manicomio c’erano cancelli, inferriate, porte e finestre sempre chiuse; catene, lucchetti e serrature ovunque. Le terapie più comuni erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, il bagno freddo, l’elettroshock e la lobotomia". Un malato di mente entra in manicomio come "persona" per diventare una "cosa". In particolare nell’ Ospedale di Volterra negli anni '70 c’erano circa 2500 ricoverati, in gran parte poveri insufficienti mentali, dementi, persone affette da trisomia 21, un certo numero di adolescenti e circa 300 matti veri e propri. Sia i pazienti che i parenti non avevano, assolutamente, voce in capitolo né tanto meno diritto di intervento. Non poche erano le ricoverate internate per condotta amorale (prostitute) o gli etilisti per i quali vigeva una sezione apposita.


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In tal contesto si deve leggere la legge 180/1978 di Franco Basaglia che ha introdotto in Italia una “rivoluzione” nel campo della salute mentale perché: 1. ha disposto la chiusura dei manicomi; 2. ha sancito che di norma i trattamenti per malattia mentale sono volontari, limitandone l’obbligatorietà a poche e definite situazioni; 3. ha statuito che: “gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi extraospedalieri ”. Da qui i primi due punti sono stati rispettati (chiusura di manicomi e trattamenti sanitari obbligatori, su cui è ancora in atto un’accesa discussione). Il problema nasce sul terzo punto: la territorializzazione dell’assistenza psichiatrica che non ha trovato nella legislazione ordinaria e soprattutto nelle pratiche quotidiane un percorso e un radicamento applicativo adeguato. Di fatto a tutt’oggi gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali attuati di norma dai servizi e presidi extraospedalieri non hanno una cornice di principi generali chiari, forti e condivisi per orientarne l’operatività e non sono sufficientemente definiti sotto il profilo del chi fa che cosa, dove e quando. Questo non è però da imputare alla legge Basaglia, ma a leggi attuative successive, che in 34 anni di storia non sono mai state fatte! La legge 180 è un atto di grande valore etico e politico a cui dobbiamo la chiusura di luoghi dove centinaia di migliaia di cittadini italiani malati di mente hanno incontrato la violenza della reclusione in assenza di ogni cura degna di questo nome. Ad oggi chi si occupa di queste persone sono: strutture ASL, strutture residenziali o semi residenziali che mirano all’autonomia, ospedali psichiatrici simili a manicomi e OPG, che si possono definire come una fusione di manicomi e carceri dove si ritrovano “pazienti legati ai letti, celle sovraffollate, ambienti sporchi, spazi fatiscenti, nessuna privacy. Impossibilità per i ricoverati-reclusi di essere curati per malattie anche gravi, come il diabete. E soprattutto il peccato capitale: l'incapacità di garantire quelle cure psichiatriche al centro di un percorso di riabilitazione, la ragione per cui esistono queste strutture” (L’Espresso, 2010). Attualmente la proposta di legge 181 cerca di definire in maniera chiara quel famoso terzo punto sulla territorializzazione, e in particolare sul chi fa cosa, come e quando, cercando di colmare quel vuoto normativo che crea una zona d’ombra all’interno dell’attuazione di una norma che in altre nazione del mondo è stata utilizzata per migliorare effettivamente la qualità della vita dei cosiddetti “pazzi”. la Mostra Fotografica è esposta al Polo Psicodinamiche di Prato – in via Giotto 49 http://www.polopsicodinamiche.com/2011/09/dove_morivano_i_dannati/


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Simbolico Open Source...

...strano titolo per una rubrica di citazioni! La volontà è quella di prestare attenzione a questioni che riguardano tutti noi e ad affrontarle con parole e pensieri che colgono al meglio il nostro sentire e possono aprire e svelare illuminanti puni di visa sulla realtà. Buona lettura! Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "Non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito. tratto da "Viaggio in Portogallo" di José Saramago e scelto da Alice Bindi ———————————————— Alla frontiera messicana, giunge un inviato di una multinazionale farmaceutica coinvolta in affari illegali: Bart Croce, ex marines dell'esercito degli Stati Uniti. A lui era stato dato il compito di eliminare un uomo che aveva scoperto i loro affari e poteva mettere in crisi la società. Ma a Tijuana arriva anche Leandro, un battagliero videogiornalista italiano con una passione da utopista ferita ma non piegata, e le loro strade fatalmente si incontrano. << Ne dubito. >> ribatté Leandro, sostenendo lo sguardo sarcastico del gringo. << I contras se ne guardavano bene dall'avvicinarsi ai soldati sandinisti. Loro ammazzavano solo persone indifese. Io c'ero, e ci sono rimasto 2 anni. Le balle che raccontavano i mezzi d'informazione al mondo intero, non potevo berle. >> Bart assunse un espressione da vecchio maestro che deve insegnare qualcosa ad un


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discepolo impenitente e cocciuto. << Bene, “laser”, molto bene. Siamo arrivati al punto. I mezzi d'informazione hai detto. Tu come la vedi? Immagini un Grande Fratello che controlla e coordina ogni dettaglio, orchestrando la campagna di menzogna e censurando le voci fuori dal coro? Eh? Per favore! Non puoi essere così idiota da credere ad una regia mondiale della balle giornalistiche! >> << No, infatti. Si tratta semplicemente di mezzi a disposizione. E guarda caso chi si mette contro i vostri interessi, non ha mai i mezzi sufficienti per dire al mondo qual è il proprio punto di vista al riguardo. >> Bart annuì esageratamente, accentuando l'atteggiamento da padre paziente verso il figlio sprovveduto. << E tu non avevi la telecamera? Non eri lì per mostrare al mondo la terribile ingiustizia inflitta al popolo nicaraguense? Dimmi una cosa: quante televisioni hanno accettato il tuo materiale? >> << Praticamente nessuna. >> ammise Leandro. << Già, ma ti sei convinto che la colpa fosse tutta della congiura internazionale, dell'asservimento planetario ai voleri dello Zio Sam, no? Povero illuso. Stammi bene a sentire, “laser”: sai perché nessuno ha mandato in onda i tuoi filmati di denuncia? Perché alla gente non gliene frega niente, non vuole sapere, preferisce non sentire. E' l'esatto contrario: non sono manipolati dal Grande Fratello, sono sordi e ciechi a qualsiasi cosa minacci di turbare i loro equilibri. Se provi a farlo, cambiano canale. Ecco perché è tutto inutile: puoi fargli vedere qualsiasi cosa ma se ne sbattono! Al massimo provano un brivido di fastidio ma se ne dimenticano l'indomani. >>Leandro scosse la testa. << No...in parte, è così, ma...non si diventa direttori di un telegiornale, se... >> << E piantala! esclamò Bart, in tono assurdamente allegro. Ma sai che sei senza speranza? Bene, ti faccio un esempio pratico. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta il governo degli Stati Uniti ha autorizzato una serie di esperimenti nucleari in piena atmosfera. Più di novanta esplosioni. In alcune zone del Paese il fallout radioattivo è stato dieci volte superiore a quello seguito al disastro di Chernobyl nel 1986. Dalla contaminazione dell'erba, al latte, alla carne, e così via. Volevano studiarne gli effetti, per migliorare sia le difese che il potenziale offensivo. Milioni di americani come cavie umane, e inconsapevoli. Hanno addirittura volatilizzato agenti chimici e batteriologici nella metropolitana di New York. Tu le sai queste cose, eh, “laser”? >> Leandro, che avvertiva un certo nervosismo, annuì. << Bravo, le sai. Dunque: si parla di almeno centomila così, di tumore alla tiroide. E un numero incalcolabile di altri disturbi e malattie, più o meno gravi. E poi le donne incinte sottoposte a radiazioni per vedere che effetto faceva sul feto, per non parlare degli altri duecento neonati a cui venne iniettata iodina 131 per verificare il


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successivo funzionamento della tiroide, e...bé, tu queste cose dici di saperle. Sai che sforzo. Le hanno pubblicate nero su bianco i principali quotidiani, “New York Times” compreso. E cos'è successo? Isteria collettiva? Insurrezioni, tumulti, proteste, indignazione? Macché. Niente. Assolutamente niente. Spiegamelo tu: perché la gente è rimasta indifferente davanti alla prova di essere stata usata come topi da laboratorio? Perché non hanno nemmeno preteso di saper se qualcosa del genere accade ancora oggi? >> Leandro restò in silenzio. << Te lo dico io “laser”: quando l'orrore deborda, quando è in eccesso, non c'è alcuna reazione. Non vogliono registrarlo, lo rimuovono immediatamente, pensano ad altro. Puoi sbatterglielo in faccia quanto ti pare, ma loro continueranno a cambiare canale nella loro scatola cranica! Ecco come funziona: se infliggi il massimo di orrore, avrai il minimo di reazione. >> [...] << Generalizzi >> disse Leandro. [...] << Non tutti, e comunque stai parlando della tua gente. I nicaraguensi, per esempio, erano tutt'altro che indifferenti. >> Bart diede una manata sul volante. << La mia gente, sì, come no. E la tua? Dì un po': credi che siano disposti a rinunciare a tutto quello che fanno? Forse hanno troppo, anzi sicuramente. Ma non vorrebbero perdere neppure una briciola. E se mantengono il loro tenore di vita, se si concedono il lusso di sprecare, o pagare a determinati prezzi ogni cosa di cui non possono più fare a meno, sai a chi lo devono? Ai macellai come me. Inconsciamente, sanno che qualcuno deve fare il lavoro sporco. Non vogliono vederlo, certo, ma sanno che va fatto. Da ipocriti, non lo accettano a parole, ma si godono i risultati. >> tratto da “Demasiado Corazòn” di Pino Cacucci scelto da Luciano Cella


Crisi d'identità con pane e nutella

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Sarà forse perchè Gideon Rubin è nato in Israele, un territorio che non ha senso di esistere dal 1946, che le sue opere mi sono saltate subito all'occhio stasera. Credo che il suo modo d'intendere la crisi d'identità dell'uomo moderno sia molto efficace perchè ci sbatte davanti agli occhi quello che temiamo di diventare, o peggio ancora, quello che siamo già senza saperlo. Il secondo caso è senza dubbio il più inquietante visto che, a seconda delle disponibilità economiche, una faccia la si può cambiare; e dal momento che la faccia è il maggiore indicatore visibile della nostra identità, questa insofferenza verso se stessi non può che riflettersi anche all'interno, in una incompatibilità tra le parti che si muovono in un gioco dinamico e misterioso. Ma verso dove si muovono? Quando queste forze emergono in superficie, sottoforma di somatizzazioni, sono l'espressione non verbale di un grido disperato che viene da dentro e che, a parole, non sappiamo o non vogliamo riversare sulle mani degli altri. E' molto difficile mostrarsi vulnerabili. I volti esposti qua sotto non hanno nulla da invidiare a quelli che si possono adocchiare continuamente in tv. Qui sotto è rinuncia, un atto onorevole. In tv è nutella che si spalma sui volti, li appiattisce, cancellando le storie personali, le ferite. Le cicatrici danno la sensibilità.

Gaille

tratto dal blog dell'autore: http://variabilecostante.blogspot.it/


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­ SHAME ­

di Ilaria Detti

Bastano le prime scene scandite dalle musiche di Bach, per intuire l’angoscia che accompagna da sempre la vita agli eccessi di questi due fratelli fragili e sofferenti, che, come in modo così vero dice Sissy, “non sono brutte persone, ma vengono da un brutto posto”. Di quel posto che ha segnato la frattura della loro personalità non viene fatta parola, ma quello che resta di quella traumatica provenienza è una sofferenza deflagrante. Brandon gestisce la sua dipendenza sessuale in modo apparentemente funzionale, compensando gli eccessi nascosti con un’immagine pubblica seria ed impeccabile. Sissy gestisce la sua dipendenza affettiva semplicemente vivendola e mettendola in gioco per quella che è. La fragilità di Sissy è alla luce del sole, quella di Brandon scavata nell’ombra. L’incontro tra i due è perfettamente reso dalla bellissima sequenza in cui Sissy interpreta New York New York, dove il testo della canzone si intreccia con la loro storia e li tocca nel profondo, facendoli scontrare con l’illusorietà di una ripartenza basata sulla rimozione del trauma originario e non sulla sua elaborazione. L’arrivo della sorella mette Brandon davanti alla specchio, lo riporta violentemente alla verità del suo dolore e apre la porta spaventosa dell’affettività. Questo incontro segna l’inizio dello scompenso. Il contatto con le sue parti più intime, fa sì che Brandon possa desiderare e cercare con una donna un incontro che rientri per la prima volta nell’ordine dell’amore e non del sesso; tale contatto, inevitabilmente, lo porta a toccare con mano la scissione traumatica della propria personalità. Quando è chiamato a fare uno tra i due aspetti, a riunire quello che il trauma ha spaccato, decade e viene meno, piombando nell’angoscia sintomatica che lo spinge immediatamente a riempire il vuoto esistenziale che così preziosamente si era aperto per lui. E lo riempie in modo tanto eccessivo, illimitato e all’insegna del godimento estremo, quanto insostenibile e devastante è stato l’incontro col suo fantasma. D’altro canto, anche Sissy tocca con mano il suo fantasma, quando Brandon la invita ad andarsene scatenando irreparabilmente le sua angosce abbandoniche. Il dolore è anche per lei insostenibile, e l’atto suicidario diventa l’unico possibile, nella sua storia scandita da ripetuti e violenti gesti autolesivi. E’ solo dopo questo contatto dolorosissimo di entrambi con le proprie verità che è possibile incontrarsi davvero, accarezzare cicatrici sui polsi che sono di lei ma anche di lui, perché entrambi reduci e testimoni di quel posto “brutto” che, se anche del passato, li tormenta ancora…ma forse adesso, non per


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sempre. Quanto meno, adesso, dopo il contatto con il proprio nucleo traumatico, è possibile scegliere se riempire il vuoto esistenziale con un sintomo o con un lavoro di elaborazione. Il regista tratta la questione della perversione con estrema delicatezza, ne suggerisce continuamente una lettura profonda, le scene di “abbuffate sessuali” compulsive sono accompagnate dalla sublimità e dall’angoscia della musica classica; la sofferenza di Brandon non è mai squalificata, è messa a nudo, così come il suo corpo. E’ emblematico il titolo di questo film, Shame, vergogna…chi si vergogna e per cosa? Sissy non prova vergogna per le sue cicatrici, né per il suo modo di gestire le relazioni amorose, del resto Sissy sa di non essere una brutta persona, ma di venire da un brutto posto… La vergogna di Brandon non è riferita alle sue abitudini sessuali ma piuttosto all’incontro con la parte più profonda e intima di sé, con quella parte traumatizzata e sepolta che quando emerge lo mette davanti alla verità, alla caducità del sistema compensatorio che si è macchinosamente creato per sopravvivere misconoscendo. La vergogna è quella che prova quando il fallimento che segue al suo desiderio di fare uno e di accedere con tutto sé ad un incontro con una donna, accende la spia del nucleo sofferente, a significare che le cose non vanno proprio bene come pensa. Ma il titolo richiama anche una questione sociale, indissolubile da quella personale…è il monito del mondo: “Vergogna!”, dinnanzi a tanta impudica spregiudicatezza. E’ davvero così facilmente risolvibile la questione di Brandon? Tutto il suo complesso e articolato agire, velocemente ridotto e liquidato in una parola di negazione….quando lui per metterlo in piedi ha impiegato una vita! Pare chiaro che non è così semplice….e allora perché tanta fretta ? Di cosa si ha paura? O forse, che cosa si desidera? Per’altro nel costruire tutto l’impianto Brandon ha creato proprio quella parte assolutamente insospettabile che dal quel monito si salva. La notte gode del suo sintomo vergognoso e di giorno è salvo e si redime; agisce guidato da padroni differenti…e in tutto questo manca il soggetto, o meglio è garantita la mancanza del soggetto; ma questo sistema artificioso e dal vantaggio certamente illusorio e precario vacilla ogni qual volta il caso mette davanti ad un evento che per qualche ragione muove il nucleo sottostante e richiama il soggetto, come l’incontro con una collega che, nella più semplice spontaneità, dice “Ti piace lo zucchero”….



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